La tortura Forma: SAGGIO BREVE
Destinazione: rassegna di argomento culturale
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“Un male non ancora debellato” “La tortura è un cancro dell’anima, un male oscuro che può covare in silenzio anche nelle indoli più miti per esplodere improvviso quando le circostanze lo consentano” Sir Ivor Roberts, ambasciatore britannico a Roma
Sconcertante. Nel XVIII secolo gli illuministi lombardi scrissero accesi opuscoli contro l’impiego nelle carceri della tortura e delle sevizie, fisiche o psicologiche, per ottenere dagli imputati delazioni e confessioni. Pietro Verri considera la tortura “uno strazio crudelissimo, e adoperato talora nella più atroce maniera e che dipende dal capriccio del giudice solo e senza testimoni l’inferocire come vuole.” Tempo dopo Beccaria pubblicando l’immortale pamhlet “Dei delitti e delle pene” sembrava aver decretato per sempre l’abolizione della millenaria procedura. Ma ci si sbagliava, perché i governi seguitarono ad indulgere a questa barbarie. Nel 1949 le Convenzioni di Ginevra sancirono norme che dovevano concludere l’esercizio del potere indiscriminato dei militari sui prigionieri di guerra. L’articolo 13 di tale Carta afferma: “I prigionieri di guerra devono essere trattati sempre con umanità. Ogni atto od omissione illecita da parte della Potenza detentrice che provochi la morte o metta gravemente in pericolo la salute di un prigioniero di guerra è proibito. In particolare, nessun prigioniero di guerra potrà essere sottoposto ad una mutilazione corporale e parimenti dovrà essere protetto in ogni tempo specialmente contro gli atti di violenza e d’intimidazione.” Il documento parla chiaro: la tortura è severamente vietata, anzi in seguito si dice che l’infrazione di tale articolo è considerata una “grave breaches” e come tale perseguibile dalla Corte penale internazionale. Ma pensare che questo documento potesse porre fine alla ferocia degli aguzzini di tutto il globo era una mera utopia. Pensiamo solamente cosa è avvenuto negli ultimi cinquant’anni di conflitti: consideriamo gli abusi dei mussulmani libanesi, che crocifiggevano i cristiani maroniti, o cosa accadeva in Cambogia all’epoca dei Khmer Rouges o alle crudeltà dei vietcong, e nel caso di questi due ultimi esempi è meglio non scendere nei dettagli. Anche in questi casi, con il nostro patetico ottimismo, pensammo che vergogne come queste avessero smesso di perpetrarsi: ritenemmo che simili brutalità fossero pallidi retaggi della Guerra Fredda, ma l’essere umano è riuscito a smentirci. È accaduto a maggio: infatti in Iraq, per la precisione nel carcere di Abu Ghraib, quello che Sir Ivor Roberts definisce “un cancro dell’anima” è tornato a farsi sentire, quasi fosse una malattia assopita, di cui avevamo dimenticato la virulenza dai tempi del generale Giap. Ma sono bastati pochi fotogrammi a farci ricordare il degrado nel quale siamo affondati e affondiamo. Una soldatessa ventunenne, tale Lynndie England, che tiene al guinzaglio un prigioniero inerme e il video nel quale Nick Berg viene sgozzato con un coltello impiegato nella macellazione halal: nel primo caso un uomo privato di ogni dignità, tortura psicologica, nel secondo un uomo macellato come un agnello, tortura fisica. Ciò che poi è terrificante è che sembra non esserci modo di interrompere questa ondata di ferocia: infatti la decapitazione del pacifista scandinavo è stata compiuta in risposta agli abusi di Abu Ghraib. Adesso ciascuno è libero
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di giocare al torneo macabro da ragionieri della ferocia: conta più la soldatessa che dileggia il detenuto iracheno o la testa mozzata di Berg? Tuttavia come tuona il New York Times: “Nulla di ciò che l’America ha fatto giustifica la spaventosa crudeltà dell’esecuzione di Nicholas Berg; e d’altra parte la sua morte non vale a diminuire in nulla la vergogna dell’America e le responsabilità dell’amministrazione Bush”. Quindi questa rivalità fatta di botta-e-risposta sembra destinata a continuare, ma ciò che mi sdegna maggiormente sono le ragioni e le reazioni con cui questa brutalità vengono commesse. Gli iracheni seviziati nel carcere statunitense erano dei prigionieri di guerra, ma le vittime del terrorismo islamico non avevano colpe: Berg era un pacifista, Daniel Pearl, lavorava al Wall Street Journal, Paul Johnson era un ingegnere, Yunes Mohammed Alì, addirittura un civile iracheno che gestiva una lavanderia in una base americana. In questi casi i decapitati avevano solo la colpa di essere quello che erano: o essere occidentali o intrattenere relazioni di qualsiasi tipo con gli occidentali. In questo senso colpisce la dolorosa analogia con il nazismo: anche gli hitleriani ritenevano taluni individui passibili di morte solo per la loro appartenenza ad una determinata razza. Inoltre mi colpiscono le reazioni a questi gesti: nel mondo occidentale gli abusi delle forze americane hanno riportato una vastissima eco di indignazione e di proteste, mentre nel mondo arabo non si è sollevato alcuno scandalo o polemica di fronte al macellazione in diretta. Al termine di questa esposizione è bene farsi qualche domanda: chi può mettere fine a questi scempi? Come si può metter fine a questa catena di massacri se da una parte noi ce ne vergogniamo, ma indulgiamo in tali turpitudini e dall’altro addirittura tali reati vengono trattati con agghiacciante superficialità? Nel 1919 il mondo si affidò alla Società delle Nazioni per porre fine all’incubo bellico e agli spietati bagni di sangue, ma vent’anni dopo il mondo si ritrovò coinvolto nel conflitto più sanguinoso della storia. Nel 1945 ci affidammo all’ONU e negli anni ’60 si consumò l’incubo del Vietnam. Dovremmo quindi ancora affidarci alle democrazie, perché questa faida possa smettere? La conclusione che si può ottenere da questi fatti è tanto pessimista quanto palese, la cito dall’autointervista di Oriana Fallaci: “…a qualsiasi razza o religione o credo politico appartengano, gli esseri umani sono capaci di tutto. La perfidia scorre nelle loro vene come il sangue, la crudeltà appartiene alla loro natura”. Da questo tetro vaticinio risulta che il sadismo è una componente radicata nell’animo umano, quindi esiste una sorta di voluttà della parte più ignobile della mente nell’operare sofferenze al proprio simile: per secoli, fin dagli albori della civiltà, si sono operate torture e barbarie e ai giorni nostri si continua a far soffrire per diletto: la storia sembra attestare l’impossibilità di attuare una catarsi emotiva e di questi tempi la redenzione dell’individuo sembra poco più di un patetico e remoto augurio.
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