Johnny Cash

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BLACKWHITE & IL

PAOLO DI JOHNNY CASH

Alla radice dell’esperienza spirituale che animò il cantante Johnny Cash (1932-2003)

è un filo rosso, una sorta di campo magnetico, che attraversa l’intera storia della canzone americana. Una tensione che oscilla tra due poli: il desiderio di salvezza e l’ineluttabilità della caduta, il salto verso l’alto e la vertigine dell’abisso. Questo campo di forze cattura l’animo americano e le sue contraddizioni. Non è un caso che uno studioso come Rodney Clapp abbia scelto Johnny Cash – una delle “voci” più importanti della canzone Usa –

C’

per illuminare i suoi estremi: conflitti e demoni, ma anche un’inesauribile volontà di riscatto. Cash (1932-2003) racchiude questa costellazione di senso e abbraccia le opposizioni binarie all’interno delle quali la canzone americana dispiega interamente la sua poetica (colpa/innocenza, morte/vita, cecità/nuova vista, individualismo/ comunità). «So cantare canzoni di morte – ha detto una volta il cantante. – Ne ho visto tanta, ma sono ossessionato dalla vita». Queste lacerazioni che tagliano tanto la sua biografia quanto la sua arte – tra cui tossicodipendenza e carcere – sono però illuminate dall’azzardo della fede che costituisce la vera cifra poetica di Cash: l’oscurità è sempre rischiarata dalla luce, la caduta è riscattata nella redenzione, la contraddizione si scioglie nell’affidamento. «Quasi un quarto delle canzoni scritte da Cash – ha notato uno dei suoi biografi, Steve Turner – parlano in qualche modo della sua fede e della Bibbia. Molte altre, anche se non trattano specificamente questo argomento, sono

influenzate dalla sua visione del mondo cristiano. I walk the line, con la sua dichiarazione di fedeltà coniugale, conteneva un inconscio impulso cristiano, così come molte sue canzoni sulla giustizia e la povertà. Quando scriveva di lavoro, lo faceva da un’ottica biblica».

Conversione in bianco e nero Questa duplice dinamica, Cash la rintracciò in tutta la sua radicalità proprio in san Paolo. Con l’Apostolo delle genti il cantante instaurò un rapporto intimo e personale, quasi vi si rispecchiasse, tanto da dedicargli un libro: Man in white, “l’uomo in bianco”. La scrittura di questo romanzo sulla vita di Paolo, prima e dopo la conversione, lo impegnò per ben sette anni. E fu un’àncora di salvezza che gli consentì di uscire dalla crisi umana e religiosa che lo paralizzava. Per tutti Cash era the man in black, “l’uomo in nero”. «Mi vesto di nero – ripeteva – per testimoniare la mia vicinanza agli afflitti, agli ultimi, agli outlaw, ai rifiutati». Ma in quel nero c’era forse anche traccia del senso della caduta, della consapevolezza del peccato che lo tormentava. Dunque “l’uomo in bianco” e quello “in nero”: non due distanze inavvicinabili, ma le estremità dello stesso filo. Nell’introduzione al romanzo Cash – che nella sua carriera cantò più volte all’interno delle prigioni, fino a farne uno dei tratti tipici della sua carriera –

E

scrive: «Anche Paolo cantò dietro le sbarre, un canto capace di rompere la prigionia. Non solo cantò, ma duettò con Sila». Il fuoco attorno al quale ruota tutto il romanzo di Cash è la conversione. È proprio essa ad attrarlo, ed è in essa che il cantante ritrovava qualcosa del suo tormentato vissuto: «Cosa esattamente Paolo vedeva e sentiva negli istanti in cui fu accecato sulla strada di Damasco? Credo che cercasse di vedere attraverso quel grande vuoto, di cogliere anche solo uno scintillìo del fulgore che lo gettò a terra». Il persecutore che si fa perseguitato e getta tutto se stesso nella missione evangelizzatrice: ecco la trama che lo stesso Cash scorge nella sua stessa vita. «Paolo sorrideva ai suoi persecutori – scrive. – Fu picchiato, insultato, imprigionato, odiato dalla sua stessa gente». Nella sua vita Cash sentì irrompere, e con la stessa violenza, quella forza. «Non sono stato mai così privilegiato da avere un’esperienza come quella che sorprese Paolo sulla via di Damasco. Ma nella notte di Natale del 1985 fui visitato da una visione, come in un sogno: ho visto una luce che non era terrena. Ripresi a lavorare. Ritrovai la gioia dello scrivere. Conclusi il libro». San Paolo e Johnny Cash “hanno visto” il Signore. Di quest’incontro Paolo parla nella Prima lettera ai Corinzi, per legittimare la sua autorevolezza quale apostolo e missionario. Ultimo destinatario delle apparizioni pasquali del Risorto è proprio Paolo, ed è l’amore gratuito di Dio a trasformarlo. Johnny Cash canta questa stessa rivelazione, che ha modificato le sue scelte di vita. Lo testimonia nella canzone Meet me in Heaven: «Abbiamo visto il segreto delle cose rivelate da Dio. E abbiamo sentito ciò che gli angeli avevano da dire...». Per questo Cash riprende a scrivere il suo romanzo in uno slancio di vita nuova. La scrittura del romanzo Man in White non è un hobby per Cash o un’attività artistica aggiunta, ma coincide con la sua nuova identità di credente. Egli comprova il cambiamento della sua etica, ad esempio, in una canzone come (Ghost) Riders in the Sky: «Mentre i cavalieri passavano sopra di lui / udì qualcuno chiamare il suo nome // Se vuoi salvare la tua anima dall’inferno di

cavalcare per sempre / allora cowboy cambia il tuo atteggiamento oggi / o cavalcherai con noi // Tentando di catturare la mandria del diavolo per questi cieli infiniti».

L’ultimo gospel La vita e la morte, in san Paolo e in Johnny Cash, s’intrecciano con il mistero cristico. Nella Seconda lettera a Timoteo, Paolo si prepara ad affrontare il sacrificio estremo: «Il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (4,6-7). In queste parole l’Apostolo indica la sua morte, utilizzando l’immagine della partenza: la nave pronta ad affrontare il mare

della passione di Cristo, che lo bagnerà con il sangue del martirio. Cash, da par suo, in un’interpretazione magistrale di Spiritual – cover del gruppo Spain, inclusa nell’album The Blue Moods of Spain – si rivolge supplice al Signore in un atto di abbandono fiducioso e drammatico: «Gesù, non voglio morire da solo. Il mio amore non era autentico, ora tutto ciò che possiedo sei Tu. Se senti il mio ultimo respiro, non lasciarmi morire, non abbandonarmi». Al termine della «buona battaglia» della fede, entrambi allargano le braccia alla morte in maniera eroica, come il Cristo inchiodato sull’Albero della vita. Li accomuna, dunque, non solo la conversione sulla via di Damasco e il coraggio della testimonianza cristiana, ma anche la fede nella Risurrezione, scandita dall’attesa del giudizio misericordioso del Cristo. Ma, oltre a tutte queste somiglianze, c’è un principio che associa l’esperienza riscattata di Johnny Cash a quella di San Paolo: l’universalità. Da essa deriva la scelta paolina dell’annuncio del vangelo ai pagani. Se il vangelo è la manifestazione dell’amore gratuito di Dio, esso è destinato a tutti senza distinzione o discriminazioni (Rm 15,16.20-21; 2Cor 10,15-16). La stessa intuizione rende il gospel di Johnny Cash accessibile a chiunque voglia rispecchiarsi nelle canzoni di un vecchio e grande uomo, salvato dalla musica e dal suo Ispiratore. Massimo Granieri - Luca Miele ANNO II - N. 14 SETTEMBRE 2009

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