PRATICHE: MANAGEMENT FEMMINILE DI FRONTE AL POTERE MASCHILE
MANAGEMENT FEMMINILE DI FRONTE AL POTERE MASCHILE.MANAGEMENT FEMMINILE DI FRONTE AL POTERE MASCHILE MANAGEMENT FEMMINILE DI FRONTE AL POTERE MASCHILE
Management femminile e potere: tre esperienze a confronto a cura di Chiara Lupi Il potere? Roba da uomini, vien da dire. Basta guardare le percentuali di donne nei nostri consigli di amministrazione, per non parlare dei ruoli istituzionali, per scoraggiarsi. Ma le posizioni di potere sono davvero inconciliabili con il nostro essere donne, mogli, compagne, madri? Perché, per tradizione, in alcuni settori, si evita di cooptare risorse femminili? Come mai siamo incapaci di negoziare, anche di fronte a ciò che ci spetterebbe di diritto? Le donne, storicamente, sono rimaste fuori dalle stanze del potere, non hanno esperienze consolidate. E forse per questo prendono le distanze da ciò che non conoscono. Gli interrogativi sono molti. E le risposte anche. Perché ogni donna che ricopre una posizione manageriale ha una storia a sé, un vissuto che non è riproducibile. Ma da cui è possibile prendere esempio. Per questo sulla nostra rivista continuiamo a raccontare esperienze di vita. Incontriamo donne che hanno cercato di scardinare meccanismi consolidati per affermarsi in contesti dominati da logiche ‘al maschile’. Partiamo in questo articolo da Anna Gervasoni, una donna tra le più influenti dell’economia italiana. Bella, giovane e con figli che vanno a scuola –particolare questo che rompe gli equilibri di qualsiasi agenda– ci spiega come, con un’organizzazione tayloristica della casa e con validi aiuti, riesce a portare avanti il suo percorso di carriera. Selezionando gli impegni, naturalmente. E, da esperta di finanza, ci racconta come in questo particolare momento storico siano proprio le donne a essere meno spaventate dalla crisi. Perché hanno soddisfazioni di fondo su cui possono contare. Esperienze, riflessioni, soluzioni le troviamo nell’ultimo libro di Luisa Pogliana ‘Donne senza guscio’, una ricerca che riporta le esperienze di 30 donne manager. Senza guscio, come spiega Luisa, perché non possono contare sulla protezione che deriva da un’appartenenza consolidata. E cercano di rompere quelle regole aziendali che ostacolano la loro crescita e le loro potenzialità. Donne che condividono le ‘microsoluzioni’ che hanno trovato per lavorare, senza rinunciare al ‘resto della vita’. Nell’ultima intervista riportiamo la testimonianza di una manager in pensione ormai da molti anni, che ci racconta della sua scelta di vita. Una scelta che l’ha portata a escludere gli uomini dalla sua vita. Per paura che non le permettessero di lavorare. E, per timore che un marito le impedisse l’affermazione di sé, ha rinunciato al matrimonio. Una scelta di vita che, pur presa in decenni ormai lontani, sono certa coinvolge ancora molte di noi. Più di quanto non si sia portati a credere. 16
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non abbiamo. Le nostre start up partono dal basso, quasi mai dallo scorporo di realtà più grandi. E sfondare nel mondo delle tecnologie con questi presupposti diventa difficile.
La forza delle donne
Nel mondo finanziario, per tradizione tinto di grigio, spicca una giovane donna, tra le più influenti dell’economia italiana, Anna Gervasoni. Che in questa intervista ci spiega le ragioni che allontanano le donne dalla finanza. E lancia un messaggio di grande positività: le donne, oltre alle soddisfazioni professionali, possono contare sul senso di appagamento che deriva dal vedere i figli crescere, dall’avere una casa che funziona bene. Per questo, in un momento di grande instabilità che tutto il mondo sta attraversando, sono meno spaventate dalla crisi. Per questo le donne sono più forti.
Eppure nel nostro Paese ci sono distretti di eccellenza… Certamente, e il comparto del biotech ne è un esempio. Ma scontiamo le piccole dimensioni, non abbiamo la massa critica e i venture capitalist fanno fatica. Nel mercato del venture capital, il nostro sistema istituzionale non crede e non ha mai creduto. Dal suo osservatorio privilegiato, come vede il nostro mercato? Il mercato finanziario è in crisi, ma il problema vero è che sono le imprese a essere in crisi. Sono emerse alcune strozzature del mercato che si conoscevano, ma che si erano ignorate pensando che nulla sarebbe cambiato. In questo contesto l’Italia ha tenuto meglio di altri Paesi proprio per la solidità degli imprenditori e delle famiglie, che hanno sempre avuto debiti contenuti. Ma ora che la crisi è prevalentemente una crisi di economia reale, è venuto a nudo il problema dell’adeguamento della nostra struttura produttiva.
Il Corriere economia l’ha definita una delle trenta donne più influenti dell’economia italiana. Questo è però un settore ancora poco rappresentato dal mondo femminile. La finanza non piace alle donne? Il mondo della finanza è per tradizione tinto di grigio. Eccezioni a parte, ci sono poche donne, a livelli molto bassi. Da un lato si tende, per tradizione, a evitare di cooptare risorse femminili, evidentemente gli uomini si trovano meglio tra di loro… Dall’altro, in alcune fasi della carriera finanziaria, si richiede un impegno totalizzante. Se questa fase della carriera coincide con quella parte della vita in cui si desidera portare avanti anche altri progetti, pensiamo alla famiglia e alla maternità, la donna si allontana da questo mondo. Perché la finanza brucia molte energie, non ci sono orari. A meno di non raggiungere posizioni che consentono una forte delega.
Lei ha un ruolo attivo anche a livello accademico. È cambiato il mondo intorno a noi e sta cambiando anche il contenuto della vostra formazione finanziaria, alla luce dei recenti accadimenti? Dipende. Per esempio, Rispetto al Master in private equity, che dirigo presso l’università Cattaneo di Castellanza, non abbiamo assolutamente dovuto scardinare il nostro impianto di formazione alla luce di quanto accaduto, anzi: ai miei studenti dico sempre che la finanza si fa partendo dall’economia reale. Il processo di formazione parte dalla conoscenza dell’impresa, dei suoi sviluppi, dei suoi numeri. Quando la finanza si scollega dal sottostante, si verificano problemi delle dimensioni che tutti noi abbiamo visto. Credo sia doveroso ripensare profondamente a cosa si insegna ai ragazzi. Non si può ignorare che il mondo è profondamente cambiato.
Dalla terza indagine congiunturale Assinform emerge che le aziende italiane spendono in informatica il 40% in meno rispetto ai principali paesi europei. Per quanto attiene al mercato del venture capital finalizzato a sostenere nuove iniziative imprenditoriali ad alto contenuto tecnologico, questo stenta a decollare in Italia. Quali le motivazioni secondo lei? In Italia c’è pochissima attenzione, da parte del mondo istituzionale e finanziario, nei confronti della tecnologia e dell’innovazione. Abbiamo anche un problema di raccordo tra mondo delle nuove tecnologie, mondo della ricerca e mondo delle imprese. Facciamo ricerche innovative che si rivelano difficilmente applicabili e questo rende complesso il trasferimento tecnologico. Un altro problema è rappresentato dalle risposte che il mercato è in grado di dare. Pensiamo agli Stati Uniti, dove immediatamente milioni di utenti potenziali possono avviare un circuito di consumo; cosa diversa è l’Italia. Abbiamo eccellenze scientifiche, ma stentano a decollare le start up tecnologiche. Altro fattore critico è rappresentato dalla carenza di grandi aziende. Progetti innovativi spesso nascono da spin off di grandi aziende tecnologiche, che noi
Quali i problemi più urgenti da affrontare oggi? Oggi il problema reale riguarda le imprese: se non ripartono, non riparte l’economia. Secondo me c’è da essere un po’ meno ottimisti rispetto ad alcune aree imprenditoriali italiane, perché i nostri imprenditori sono bravissimi e sanno leggere le crisi, ma c’è una considerazione da fare: il famoso bravo imprenditore, che magari ha settant’anni, ha davanti a sé un periodo (i prossimi due - tre anni) che si preannuncia molto duro, deve reinvestire denaro per portare avanti il proprio progetto, attingendo in parte dal patrimonio di fami17
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Si parla di pari opportunità. Personalmente credo più nel merito, e credo sia questa la via per portare più donne in posizione di vertice. Lei cosa ne pensa? Le crisi cambiano tante cose e potrebbe cambiare anche l’atteggiamento verso le donne in un’ottica di maggiore attenzione ai risultati che sono in grado di portare. A pelle sono contraria alle quote rosa, non credo si debba vivere di vincoli; credo sia meglio premiare il merito, piuttosto che essere imposti perché così è stato stabilito. Mi è stato fatto notare che donne brave ce ne sono tante, ma nei consigli di amministrazione scarseggiano. Probabilmente, un passo avanti si potrebbe fare ‘imponendo’ temporaneamente la presenza femminile, affinché poi si crei un’abitudine. E anche questa lettura è condivisibile. Oggi, in un momento difficile, Confindustria è guidata da una donna, anche in Banca d’Italia una delle cariche più importanti è in capo a una donna, molto competente. Purtroppo a livello governativo le donne ricoprono ancora ruoli di secondo piano.
glia. Se però, per motivi personali, decide di mettere in sicurezza il patrimonio, è costretto a chiudere. E, secondo me, tante realtà medio piccole chiuderanno i battenti, perché molti imprenditori non se la sentiranno di correre rischi. Con quali conseguenze per la nostra economia? Le imprese più forti sapranno cogliere le opportunità e rimanere a galla, dove questo non accadrà ci troveremo nella situazione di dovere abdicare ad alcuni settori, diventando un paese importatore. E questo rappresenterà per l’Italia una perdita di opportunità, con ripercussioni sull’occupazione e sul settore degli immobili industriali. Un ruolo importante nell’economia di queste scelte lo giocherà il sistema bancario. Oggi le nostre banche sono grandi entità troppo poco specializzate, mentre le imprese hanno bisogno di capitali a lungo termine e finanziatori che sappiano sostenerle realizzando piani industriali; e poi ci vuole anche un po’ di fantasia, le banche devono saper rimodulare la loro offerta nel tempo per affiancare le imprese nel modo corretto. Bisognerà vedere se saranno in grado di farlo, anche per rimettere un po’ di liquidità nel sistema.
Le faccio una domanda provocatoria. Siamo sicuri che le donne vogliono veramente sedere ai posti di comando? Mi è capitato di rinunciare a incarichi perché avrebbero sottratto tempo ai miei figli e alla mia famiglia. Ho una vita molto impegnata e spesso si tratta di selezionare quello che si fa. Per una donna è decisamente più difficile. C’è da dire che i paracaduti sociali sono pochissimi. Bisogna arrangiarsi. Faccio sempre l’esempio degli orari scolastici, tutti diversi; piccole cose che distruggono l’agenda. Basterebbe poco per migliorare la vita delle madri. Il tema della donna rinunciataria rimanda al contesto sociale, che rende difficile l’impegno. Forse bisognerebbe incoraggiare di più le donne, raccontare alle ragazze giovani, che sono quelle che mollano per prime, che è possibile farcela. Le donne della nostra generazione, le quarantenni, spesso hanno anche –non è fortunatamente il mio caso– mariti e famiglie che remano contro. Bisogna dare esempi e noi, come madri, abbiamo il dovere di insegnare alle figlie femmine e ai figli maschi che bisogna riorganizzarsi in modo diverso. Che anche l’uomo deve avere i suoi compiti. Sta a noi trasmettere l’idea che un equilibrio è possibile.
Per rimanere in ambito finanziario, le donne non chiedono. Hanno una propensione al sacrificio e, quando si tratta di trattare, non sono capaci. Come mai, secondo lei? Io stessa sono negata nella negoziazione forse perché, atavicamente, noi donne abbiamo sempre dovuto accettare le situazioni. Sono stata fortunata perché non sono mai andata in cerca di opportunità; mi sono state offerte, da uomini che riconoscevano le mie capacità. In generale le donne, se soddisfatte delle cose che fanno, sono forse più portate a non avanzare ulteriori richieste, economiche o di carriera. Ma questo dipende un po’ dal carattere. Non è facile ricoprire ruoli importanti e, quando si arriva al vertice, si è già molto contente. Poi una donna, rispetto a un uomo, credo abbia molte altre soddisfazioni, ad esempio sotto il profilo personale, se è madre. Pensiamo alla soddisfazione di vedere un figlio che cresce, di avere una casa che funziona bene. Dedichiamo tempo e attenzione a questi aspetti e per questo siamo complessivamente più soddisfatte degli uomini. Arriviamo al lavoro con le nostre grandi preoccupazioni, con la necessità di essere iper-organizzate ma con una soddisfazione di fondo che contraddistingue il nostro modo di essere. Per questo oggi le donne sono più forti, la crisi le spaventa meno. Vedo molto più preoccupati gli uomini, sono più allarmisti.
Dalle donne che occupano posizioni di responsabilità mi sento spesso dire che riescono a conciliare pagando un prezzo elevato. Condivide? Si rinuncia al tempo libero. Ma sono certa ne valga la pena. Lei come concilia la sua attività con l’essere mamma? Non ho tempo per me. Ma sono pigra, e non avere tempo per la palestra, ad esempio, non mi pesa affatto. Investo molto negli aiuti domestici. Poi ho la fortuna di avere due genitori che mi danno un importante supporto, psicologico e materiale. Ci sono tanti elementi di fortuna 18
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che mi hanno aiutata. Poi subentra una buona capacità organizzativa che noi donne abbiamo. Lascio poco spazio all’interpretazione, ho un’organizzazione tayloristica della casa. E i miei figli si sono molto responsabilizzati.
vivevo queste cose, mi dicevo spesso: questo devo dirlo, questo va raccontato. Il desiderio di scrivere era prima di tutto per riflettere sulla mia vita, e poi per documentare, discutere, mettere in circolo ciò che si sperimenta nell’essere donna e manager. Perché osservare con gli occhi e le emozioni di chi quella condizione l’ha vissuta cambia le chiavi di lettura. Così, partendo da me stessa, ho pensato di coinvolgere in un percorso di riflessione altre donne che vivono situazioni simili. Il mio scopo è far vedere com’è in realtà la vita quotidiana delle donne manager, e mettere in circolo le esperienze e le strategie individuali, mostrare cosa si può fare qui e ora.
A una donna che entra oggi nel mondo del lavoro, che consiglio darebbe? Le direi di portare avanti serenamente la sua carriera, di non rinunciare alla maternità, se questo è il suo desiderio, perché poi ce la farà. Certo, il problema è che ancora oggi c’è molta discriminazione perché la maternità viene percepita come un costo e, a parità di competenze, vengono scelti uomini. In azienda di solito si auspica che la donna non si sposi, non abbia figli… Una ragione è da ricercare nel fatto che in Italia abbiamo leggi che tutelano la maternità in modo standard, prestandosi anche ad abusi.
I parametri di valutazione per fare carriera fanno ancora riferimento al modello dominante di management, che è storicamente nato come maschile. Come è possibile per le donne inventarsi una propria via, un modo diverso? Non credi sia uno sforzo enorme? Quando le donne in ruoli direttivi aziendali erano un’eccezione, era quasi inevitabile per loro adottare il modello maschile. Ma adesso le donne, come quelle che si sono raccontate nella ricerca, rifiutano di appiattirsi sui modelli dominanti, in cui si trovano a disagio. Le donne portano anche nel lavoro la loro differenza: un diverso modo di concepire il lavoro, di vivere la vita, non scissa in compartimenti stagni come facilmente avviene per gli uomini. Fatta anche di affettività, e quindi di importanza data alle persone. Questa diversità porta a cambiare l’organizzazione del lavoro, il si-
C’è una vita d’uscita a questo? È necessario un cambiamento culturale, evitare di approfittare della maternità per stare a casa anni. Magari chi non fa lavori motivanti rimane a casa lunghi periodi e questo crea una controcultura pericolosissima. E poi ci vorrebbero asili aziendali, supporti. Abbiamo una buona assistenza sanitaria ma non c’è una buona assistenza per la prima infanzia. E questo impedisce alle donne di tornare al loro posto di lavoro. Il suo consiglio? Fare le proprie scelte e sperare che in futuro qualche parlamentare donna dimostri sensibilità per questi temi, per evitare che in una Milano la vita finisca alle 16.30, quando chiude l’asilo. I servizi, dicevo, dovrebbero essere più efficienti. E, in assenza di servizi, non bisognerebbe rinunciare agli aiuti, anche se costosi. Perché il peso della rinuncia a un lavoro che si fa con passione potrebbe essere troppo pesante.
Management femminile: parlano le donne
L’azienda è un organismo maschile. E i meccanismi di cooptazione escludono ancora le donne dalle stanze del potere. Le donne, come ci racconta Luisa Pogliana nel suo ultimo libro, sono ‘senza guscio’, –L. Pogliana Donne senza guscio, Percorsi femminili in azienda, Guerini e Associati, Milano, 2009, www.donnesenzaguscio. blogspot.com–, perché non possono contare sulla protezione che deriva da un’appartenenza consolidata’. Come fare? Nel libro 30 donne raccontano le loro esperienze e ognuna trasmette la propria soluzione. Perché non esiste un’unica ricetta. Esistono tante ‘microsoluzioni’. E ognuna di noi deve trovare la propria.
stema premiante, i tempi e le modalità di relazione. Quello che le donne si inventano sono tentativi di rottura delle regole aziendali che non tengono conto di questa differenza, ostacolando le loro potenzialità. Si fanno carico di trovare le loro soluzioni, senza manifestare alcun vittimismo. Certo, senza pretendere di risolvere da sole questo cumulo di ostacoli, ma anche senza farsene un alibi e senza delegare tutto a interventi politici o al momento in cui si raggiungerà nelle aziende una ‘massa critica’ di donne manager. Si arriva
Una ricerca che porta alla luce vita e carriera di 30 manager. Come è nato il percorso? Ho vissuto la maggior parte della mia vita lavorativa in una grande azienda italiana, come direttore di uno staff. E i problemi del management femminile sono stati per me problemi concreti, parte della mia vita. Via via che 19
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Un uomo ambizioso è ammirevole, mentre una donna ambiziosa è un’arrivista. Questo è uno dei molti modi con cui la cultura aziendale –e sociale– penalizza per le donne che vogliono affermarsi nel lavoro. Quali sono gli aspetti più ricorrenti e come si cambia questa cultura? Questa tua citazione è parte di quel processo che per secoli ha impedito alle donne di agire e realizzarsi al di fuori dell’ambito privato e domestico. Da questo punto di vista, se una donna ha un’ambizione rispetto al lavoro, l’importante è che si autorizzi ad averla, senza colpevolizzarsi, quasi che la carriera e i soldi fossero cose riprovevoli (mentre per un uomo sono dimostrazione del suo valore). Ma è indicatore anche di un altro problema specificamente aziendale: il codice valoriale in azienda non è mai univoco. La stessa cosa, fatta da un uomo o da una donna, assume un senso diverso. Se un uomo ‘sente di pancia’ che si deve fare una certa cosa, ha intuito manageriale, una donna sarebbe un’emotiva irrazionale; se un uomo si incazza ha le palle, se lo fa una donna è una che non regge lo stress. Sbagliato se lo fai, sbagliato se non lo fai. E ci sono altre prassi informali che rimarcano che una donna manager non vale come un uomo manager, non solo la clamorosa differenza retributiva: il mancato uso dei titoli di studio o dei simboli di status come l’ufficio, o le attenzioni al corpo per ricordare che, prima di tutto, siamo comunque donne, o anche solo l’uso di un linguaggio da spogliatoio di calcio che segna un’appartenenza al mondo della virilità, il mondo che conta. Ma la cultura aziendale non è un dato esterno a noi, tutto quello che noi facciamo o non facciamo la influenza. Così è importante, come avviene in molte storie, anche solo non lasciare passare queste piccole prassi svalutative quotidiane.
dove si riesce, ma non si demorde. Questa determinazione di adattare il modello a sé, e non sé al modello, è uno dei risultati più belli emersi da questo lavoro. Le donne sono senza guscio, perché senza la protezione di un’appartenenza consolidata. Ma forse questo permette anche una visione nuova, la possibilità di un diverso modo di essere manager? Le donne sono senza guscio anche e proprio nel senso che non si rinchiudono in un modello di management consolidato. E affrontano il rischio di essere vulnerabili mentre cercano di praticare un modello più consono alla loro visione. Ho scelto questo titolo perché mi è tornata in mente la metafora usata dagli Yamana, indios della Terra del Fuoco, per indicare la ‘depressione’: la stessa parola usata per lo stato critico del granchio quando ha perso il vecchio guscio e aspetta che cresca quello nuovo. Certo è nella fase ‘molle’, vulnerabile, ma deve passarla se vuole un guscio più adatto alla crescita avvenuta e che permetta di vivere, anziché soffocare. Essere donne senza guscio non significa solo la mancanza di qualcosa, ma anche avere qualcosa in più, essersi liberate da corazze che più che aiutare limitano. ‘Più che la retribuzione, oggi per me è importante sentire che sto realizzando qualcosa per cui sono nata’, leggiamo in una testimonianza. È solo uno dei punti problematici che le donne si portano dentro. Come si può, secondo te, modificare questi potenziali punti di debolezza per le donne? Se guardiamo bene cosa sta dietro a questo atteggiamento, io non cambierei proprio niente della sostanza. Nel senso che queste donne cercano, in un percorso professionale qualificato, non potere e soldi prima di tutto, ma piuttosto una loro autorealizzazione. Il lavoro è parte essenziale del loro progetto di vita: amano il loro lavoro, o cercano un lavoro dove ciò sia possibile. Da questo punto di vista, mi sembrano piuttosto sane di mente: l’obiettivo è vivere bene, costruire qualcosa per se stesse. Ciò che va sorvegliato, ovviamente, sono le conseguenze improprie: l’azienda conosce questi meccanismi e li sfrutta, perché non dovrebbe? È vero che una donna spesso, poiché ‘è contenta’ di quello che riesce a realizzare nel lavoro, in realtà ‘si accontenta’ di ricompense inadeguate. E ci sono anche ragioni storiche: da sempre le donne sono educate a vivere per gli altri senza chiedere per sé, a lavorare in casa senza compenso se non quello affettivo. E c’è il peso enorme di una cultura che mette l’uomo come modello, per cui le donne non sono mai sicure del loro valore, hanno una stima di sé inadeguata. Sono questi condizionamenti e le loro conseguenze che dobbiamo sorvegliare. La base di partenza è prenderne consapevolezza, per guidare il gioco e non farsi giocare.
‘Ho delle responsabilità nel fatto di non aver preso le misure dei giochi di potere, l’ignoranza di alcune dinamiche’, dice un testimonianza. Le donne che arrivano ai livelli più alti continuano a essere pochissime, ma sembra che ci siano anche difficoltà da parte delle donne a muoversi verso il potere. I centri di potere sono ancora appannaggio degli uomini, e gli uomini continuano a scegliersi tra loro. Condividono gli stessi modi di pensare, hanno consolidato ambiti di appartenenza per i loro scambi: l’ammissione al club avviene per cooptazione. Così le donne possono arrivare a posizioni anche molto qualificate, ma dove hanno il ‘potere di fare’ nel loro ambito, non quello politico e decisionale strategico. Questo meccanismo si perpetua perché l’organizzazione non funziona in modo trasparente, favorendo la cultura dell’arbitrio e del favoritismo, ed è difficile da denunciare perché avviene in modo occulto. Il rapporto con il potere in azienda è perciò molto 20
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mente la donna che lascia l’ufficio alle 18.30 (orario non eroico), ma nessuno la vede quando riaccende il computer per lavorare dopo che i bambini si sono addormentati. E chiedono che le valutazioni avvengano per meritocrazia, non per presenzialismo: ovvero, lavorare e valutare per obiettivi. Cosa ci perde l’azienda? Cosa ci guadagnerebbero tutti? Tutte noi auspichiamo la presenza di più donne ai vertici, ma come mai le donne non sostengono le donne? C’è un esperimento di laboratorio noto, il caso del quinto coniglio. Se si mettono quattro conigli in una gabbia, questi si spartiscono tranquillamente lo spazio disponibile. Se dopo qualche tempo se ne introduce un quinto, gli altri lo massacrano. Così, in azienda solo a poche donne è data la possibilità di raggiungere posizioni appetibili, mentre gli uomini hanno molti più posti da spartirsi. Dunque la competizione per lo spazio dentro questa gabbia porta più facilmente al conflitto, mentre gli uomini si dividono più tranquillamente il vasto territorio al di fuori. C’è anche dell’altro: penso alla fragile percezione del nostro valore. Allora, se ci confrontiamo con gli uomini, sappiamo che loro sono avvantaggiati, perciò il loro successo ci amareggia, ma non ci fa sentire sminuite. Ma se una donna è riuscita più di noi, è come la prova che noi non siamo altrettanto brave. Così viene voglia di negare il suo valore.
problematico per molte donne, perché storicamente è un ambito da cui sono state escluse, non hanno un’esperienza consolidata su questo terreno. Per cui, a loro volta, tendono a prenderne le distanze, e si concentrano solo sulla professionalità. La cosa importante che possiamo raccogliere dalle esperienze raccontate è proprio il tentativo di cambiare questo atteggiamento: non chiamarsi fuori. Certo, non schiacciandosi sui modi richiesti dalla gestione maschile del potere, ma anche non facendosi schiacciare: c’è consapevolezza che questo livello non si può trascurare. Per il proprio percorso individuale, e per poter cambiare qualcosa nelle regole che ostacolano tutte le donne. ‘Se il top management nelle nostre aziende fosse un po’ meno al maschile, se ci fossero ai vertici più donne che condividono le stesse problematiche quotidiane dello staff, credo che gli ambienti di lavoro sarebbero, per tante donne, un filo più umani’, si legge in un’altra testimonianza. Quali cose le donne cambierebbero nell’organizzazione, per rendere la vita di lavoro più ‘umana’? Quello che è già cambiato è proprio l’orientamento manageriale delle donne, a partire da se stesse, dal volere lavorare senza rinunciare al resto della vita. Ci sono critiche e visioni diverse sull’organizzazione del lavoro, che oggi ha rigidità superabili senza traumi per l’azienda e che permetterebbero alle donne di lavorare e vivere meglio. Il punto centrale è legato al fatto che, in qualunque posizione professionale, una donna ha il carico principale della vita famigliare. Quindi il tempo è il fattore critico. Ciò che viene criticato in maniera compatta è un uso dissennato del tempo in azienda, perché le valutazioni, soprattutto nelle aziende italiane, si fondano sulle carriere presenzialiste. Ovvero restare e farsi vedere in ufficio a oltranza, e questo a prescindere dal fatto che ce ne sia una vera necessità, e da cosa si fa realmente in ufficio e quali sono i risultati. È ovvio che un/una manager deve essere presente, vicino alle attività e alle persone che dirige, ma non necessariamente sempre e comunque. Quello che le donne chiedono è la flessibilità nella gestione degli orari di presenza in ufficio (tanto si è sempre in contatto e raggiungibili con i supporti tecnologici). Già ora, per esempio quando ci sono bambini piccoli, tutti vedono e valutano negativa-
Tu hai scritto ‘uscire dalle regole, cambiarle, è l’unico modo di tenere davvero conto della diversità’. Ma come si cambiano le regole? Diamo per scontato che servono tutti gli strumenti collettivi che si muovono a livello politico. Ma si sente il bisogno di approcci utili per sé subito, sapendo che i cambiamenti non potranno essere né rapidi né facili, e le soluzioni da costruire nelle situazioni di ogni giorno. Senza forzature e scontri frontali. Come dice una delle intervistate, ‘Non c’è una soluzione, ci sono mille microsoluzioni’. È prima di tutto indispensabile la consapevolezza di ciò che la differenza di genere significa e comporta in un percorso professionale. Per questo, e per non procedere da sole e isolate, per me e nelle esperienze che ho raccolto, lo strumento fondamentale sono le relazioni tra donne che condividono la stessa situazione. Una migliore capacità di rapportarsi con il potere aziendale, per consolidare i tentativi di cambiare le regole, sembra passare soprattutto da qui. Così vanno bene i network, come rete di scambio e promozione reciproca, o essere affiancate da donne più esperte in un processo di mentoring. Ma soprattutto stabilire relazioni tra donne che condividono la stessa situazione. Per condividere esperienze, conoscenze, visioni, per acquisire forza sentendosi meno sole, trovare aiuto per superare le ingenuità, e conferme del proprio valore. Scambio e sostegno tra donne: non si tratta semplicemente di una vicinanza amichevole, ma di relazioni 21
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fondate su interessi comuni. Relazioni che possono diventare strumento di un altro potere, per cambiare le regole che ostacolano tutte. E qui può cominciare tutta un’altra storia.
di ‘accompagnamento’. Poi, col tempo, siamo diventati grandi amici e ci siamo frequentati con assiduità anche al di fuori del contesto aziendale. Questa occupazione le ha dato soddisfazioni? Direi di sì, anche se dopo qualche tempo ho incominciato ad avvertire i primi segnali di stanchezza. Per questo ho accettato l’incarico, sempre a livello dirigenziale, in una azienda di dimensioni minori. Una realtà più piccola, nel medesimo settore, con 50 rappresentanti, che mi ha dato l’opportunità di viaggiare in tutto il mondo. In questa azienda ho proseguito tutto il mio percorso professionale fino all’età della pensione. Ho smesso di lavorare a 58 anni e me ne sono molto pentita.
Il prezzo dell’affermazione
Parliamo di donne, di carriera, conciliazione, impegno. Ma anche di esercizio del potere. Perché l’uomo si muove in terreni conosciuti, ha più certezze e quindi è più sicuro di sé. Le donne molto meno, le donne scelgono di far carriera; non hanno il dovere sociale di affermarsi. Da qui la costante ricerca di senso in tutto ciò che fanno. Ma è sempre stato cosi? Per riprendere il titolo del mio libro, le dirigenti, qualche decennio fa, erano disperate come oggi? Erano anche allora in costante affanno per cercare di conciliare famiglia e carriera? Per capirlo ho incontrato nel suo appartamento milanese una dottoressa, che si è laureata alla fine della seconda guerra mondiale e ha passato tutta la seconda metà del 1900 lavorando come dirigente per un’azienda chimica, in cui si occupava dell’assistenza tecnico-commerciale nel settore delle vendite. E, per paura che un uomo le impedisse di lavorare, ha rinunciato a sposarsi e ad avere dei figli. Dottoressa, ci racconta il suo percorso? Mi sono laureata giovanissima, a 22 anni, e ho iniziato il mio percorso professionale in una fabbrica di vernici. Noi studenti di materie scientifiche, durante il fascismo, eravamo obbligati a fare dei tirocini in estate. Sono entrata quindi molto giovane in azienda. Parliamo di anni molto difficili e bui, gli anni che hanno preceduto la seconda guerra mondiale. Alla termine del conflitto il clima generale è ovviamente cambiato, c’era tanta voglia di spensieratezza e, anche se nei primi tempi il mio lavoro non mi procurava grande entusiasmo, ho imparato ad apprezzarlo col tempo. Tant’è che per diversi anni ho lavorato nella stessa azienda.
Come mai, ancora oggi, lo considera un errore? È un errore perché non lavorare fa invecchiare precocemente. Sono stata anche forse un po’ condizionata dalla presenza di una sorella di tredici anni maggiore. Avevo il desiderio di passare del tempo con lei. E infatti, insieme, avviamo viaggiato molto.
Poi che evoluzione ha avuto la sua carriera? Mi è stata offerta l’opportunità di dirigere uno stabilimento a Roma e lì mi sono trovata malissimo. Poi la fortuna si è accorta di me e mi è stato offerto un ruolo che nessuna donna, in Italia e nel settore chimico, aveva mai ricoperto.
Lei parla del suo lavoro, delle sue esperienza da dirigente. E del suo privato, ci può raccontare qualcosa? Ho vissuto a lungo con mia madre, una donna molto forte. Era rimasta orfana con quattro fratelli maschi da accudire. Una tempra d’acciaio. Non mi sono mai sposata, non ho mai voluto uomini in casa, mi hanno sempre fatto paura…
Cioè? Ho assunto la responsabilità dell’assistenza tecnica e commerciale, sempre di un’azienda chimica. Una vera svolta, perché ero l’unica donna a ricoprire quel ruolo.
Paura che non le avrebbero permesso di portare avanti il suo percorso di carriera? Ero felice del mio lavoro. Viaggiavo, ero stimata, mi sono sempre dedicata alla mia professione con grande passione. Non riuscivo a immaginare come avrei potuto conciliare tutto questo con il matrimonio, con dei figli. Non riuscivo a immaginarmelo e non l’ho fatto. Quando viaggiavo così tanto ero forse l’unica donna a ricoprire una posizione di respiro internazionale.
E non ha avuto problemi di ‘legittimazione del suo ruolo’? Questo è l’aspetto divertente. Ho iniziato questo lavoro con grande professionalità ed entusiasmo ma, nelle prime settimane di incarico, dovevo essere accompagnata da un collega, maschio, affinché mi accreditasse nel settore. Naturalmente avevo accettato mio malgrado questa sorta 22
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In azienda, c’erano altre donne oltre a lei? In azienda c’erano molte donne. Erano in poche a fare il mio lavoro, forse ero l’unica. Ma donne dirigenti ce n’erano. Anche se il problema della riconoscibilità del ruolo era presente. Devo dire in America ancor più che da noi. Ancora oggi le donne guadagnano meno degli uomini. Allora com’era la situazione? Allora era molto peggio, guadagnavamo molto meno. E poi noi donne siamo più oneste. Chissà perché le mie note spese erano sempre troppo basse. Pensi che i colleghi maschi mi rimproveravano per questo… Ora le donne che fanno carriera, se vogliono conciliare la vita professionale con la vita familiare, in realtà lo fanno con grandissimi sacrifici… Lo posso solo immaginare perché, come le dicevo, non mi sono mai sposata… Adesso le aziende sono molto ‘demanding’, le richieste sono alte… Probabilmente anche allora le aziende pretendevano molto. Nonostante questo, io sono riuscita a coltivare una vita sociale molto intensa e il tempo per dedicarmi ai miei interessi ce l’avevo. Forse eravamo meno disperate! Mi sta dicendo che allora le cose per le donne andavano meglio? Non so se posso azzardare questa affermazione. Certo è che forse siamo state più fortunate noi che siamo state pioniere. Ho sempre avuto un buon rapporto con i clienti e con tutte le persone con cui interagivo. Nei laboratori chimici c’erano molte donne e tutte brave. Una donna per entrare nel mondo del lavoro doveva essere più intelligente di un uomo. Forse è così ancora oggi. Le donne credo debbano sempre dimostrare, prima, di saper fare. Cosa che non è scontato venga richiesta a un uomo. In effetti le donne studiano di più e meglio, si laureano prima ma poi si fermano… Infatti non mi sono mai sposata perché ho sempre temuto che il matrimonio avrebbe ostacolato la mia carriera. Pensavo non ce l’avrei mai fatta a conciliare due mondi che mi sembravano, appunto, inconciliabili. E poi non avrei mai accettato di dipendere da un uomo. Lei ha fatto una scelta, si è dedicata più al lavoro che alla famiglia. Se dovesse dare un messaggio alle donne, oggi, cosa direbbe? Secondo me lavorare si deve. La vita della casalinga è priva di senso. E poi ci si può far aiutare. Io ho sempre lavorato tanto, ma ho la sensazione che le donne siano abbastanza corazzate da poter far tutto. L’importante è anche saper coltivare buoni rapporti all’interno dell’azienda in cui si lavora. Cercare di aprirsi più di una porta, in modo da poter trovare spazi diversi nel momento in cui cambiano le esigenze della vita. E poi resistere. 23
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MANAGEMENT FEMMINILE DI FRONTE AL POTERE MASCHILE.MANAGEMENT FEMMINILE DI FRONTE AL POTERE MASCHILE MANAGEMENT FEMMINILE DI FRONTE AL POTERE MASCHILE
Non mi dica che non era corteggiata… Certo! Gli uomini tentano sempre di andare oltre. Ma l’importante è essere seri, mantenere le giuste distanze e, appunto, non lasciarsi corteggiare.
Profili delle intervistate
Anna Gervasoni si è laureata in Economia e Commercio presso l’Università Bocconi di Milano, è Dottore Commercialista e Revisore Contabile. È Direttore Generale dell’Associazione Italiana del Private equity e Venture Capital (AIFI) ed è attualmente Professore Associato di “Economia e Gestione delle Imprese” presso l’Università Carlo Cattaneo di Castellanza - LIUC. Sempre presso la stessa Università è Direttore del Master universitario in Merchant Banking e dirige il Centro di Ricerca sui Trasporti e le Infrastrutture (CRMT). Presiede il Comitato Scientifico del Private Equity Monitor - PEM®. Nel 2002 ha ricevuto dal Presidente Ciampi l’onorificenza di ‘Ufficiale’ della Repubblica Italiana. Luisa Pogliana ha iniziato l’attività professionale con ricerche e pubblicazioni sociologiche. È poi stata per molti anni Direttore Ricerche di Mercato del gruppo Mondadori, con cui ora collabora per ricerche sui mercati internazionali. Ha svolto diversi ruoli in associazioni professionali internazionali, e collaborato con la European Commission per due studi strategici sulla Content Industry. È membro del Research Committee della Federazione Internazionale degli Editori di Periodici. La sua attività principale è ora relativa al management femminile, con ricerche e attività formative. Con Giovanna Galletti e Gianna Mazzini ha scritto Abbracciare l’orso. Storie di affetti e sentimenti nel lavoro (Guerini e Associati, 2008). Con la nipote Beatrice Ferri, quando era piccola, ha scritto I Cronopios, di Lu e Bebe (Il Castoro, 2005), libro sull’eccentricità (www.icronopios.it). Di prossima pubblicazione La mia mamma fa un lavoro tipo dirigente d’azienda, ricerca condotta per ISTUD, con Marella Caramazza e Federica Viganò, sui sensi di colpa di donne dirigenti con figli, indagando i reali vissuti dei bambini. Scrive per riviste e siti professionali. www.donnesenzaguscio.blogspot.com La dottoressa che abbiamo intervistato è uscita da molti anni dal mondo del lavoro e preferisce ora rimanere anonima. Si è laureata in chimica industriale nel 1946 a 22 anni e ha iniziato la sua attività nel laboratorio di un’industria di vernici. Poi si è dedicata con successo all’assistenza tecnico-commerciale, sempre nel settore chimico. Con la sua professionalità è riuscita a ritagliarsi spazi importanti in un settore in cui le donne ai vertici costituivano certamente un’eccezione.