I Matrimoni Diseguali Nel 1700

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ANTONIO MONTANARI

PER SOLDI MA NON PER PASSIONE.

«Matrimonj disuguali» a Rimini (1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese

© by Antonio Montanari, Rimini (Italy)

L’immagine di Francesco Guardi è ripresa dal sito http://smac.provincia.venezia.it/ice96/setvene.html

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Sotto la data del 22 ottobre 1792 il notaio riminese Lodovico Guerra scrive: «Per mezzo di comuni amici si è trattato il Matrimonio per verba de futuro tra il Nobil Uomo Signor Marchese Signor Giovanni Battista Carradori, e tra il Signor Giovanni Tintori, mediante la persona dell’onesta Zitella Signora Elisabetta di lui figlia colla promessa di Dote di scudi settecento moneta Romana». Giovanni Battista Carradori ed Elisabetta Tintori «promettono e si obbligano scambievolmente di unirsi in Matrimonio giusta i riti di Santa Romana Chiesa, e del sacrosanto Concilio di Trento». Giovanni Tintori s’impegna a «sborsare detta somma allorché si effettuerà detto Matrimonio, qual il sullodato Signor Marchese Carradori promette, e si obbliga effettuare nel tempo a termine di un mese da oggi a decorrere» (1). Il 10 novembre il marchese Carradori «manualmente, ed in contanti riceve» da Giovanni Tintori i settecento scudi pattuiti (2). Giovanni Tintori, chirurgo nativo di Urbino, è soprannominato «da Verucchio, per esser ivi dimorato molto tempo» (3). Giambattista Carradori Fregoso, patrizio imolese, è stato aggregato alla nobiltà di Rimini dietro sua istanza l’11 giugno 1763, con 33 voti favorevoli e 16 contrari (4). Il 27 novembre 1792 i Consoli di Rimini propongono un quesito al Cardinal Legato Niccolò Colonna di Stigliano, «relativo alla seguita contravenzione della Legge sopra i Matrimonj disuguali»: un Nobile ha sposato «una zitella di bassa estrazione, e maggiormente avvilita dall’esercizio di Cantastorie sopra un pubblico teatro». La donna era senza dote cospicua o eredità, e le nozze sono quindi avvenute soltanto per «passione» (5). Il Legato (il 5 dicembre) risponde ai Consoli che era d’uopo inviargli «senza alcuna reticenza» una dettagliata spiegazione, «nominando il Soggetto, che ha contravenuto, non meno che la Moglie dal medesimo sposata, ed i rapporti che dimostrino la contravvenzione stessa» (6). L’8 dicembre i Consoli inoltrano al Legato questo «Pro-Memoria», dal quale risulta che l’incriminato è il personaggio di cui abbiamo appena letto nelle carte del notaio Guerra: «Il Signor Marchese Giambattista Carradori Fregoso ha sposato la zitella Elisabetta Tintori. La famiglia Carradori è una delle Nobili Famiglie Consolari Riminesi, ed attualmente ritiene il luogo di Consigliere partecipante il Nobil Signor Marchese Federigo Carradori Fregoso Fratello maggiore del suddetto Signor Giambattista (1) Cfr. nel vol. n. 4413 dell’Archivio di Stato di Rimini [ASR], cc. 4rv-5rv. (2) Ibidem, cc. 5v-6rv. Giovanni Tintori abitava nella parrocchia di Sant’Innocenza. (3) Cfr. M. A. Zanotti, Genealogie, vol. II, SC-MS. 188, Biblioteca Gambalunghiana di

Rimini [BGR], cc. 147r-150r. (4) La notizia è desunta da AP 876, Atti del Consiglio Generale, 1760-1766, ASR. Nell’istanza Giambattista Carradori Fregoso spiega di aver risoluto di trattenersi a Rimini la maggior parte dell’anno «a cagione de’ suoi Affari». Il Consiglio lo aggrega (c. 97r) a patto che rispetti questa promessa circa il soggiorno in città, e con la clausola che «quando per due, o tre anni Egli, o i di lui Eredi non abbiano adempiuto a tale condizione, debbono decadere dalla presente aggregazione». (5) Cfr. AP 545, Lettere segrete della Magistratura, 1781-1801, ASR. (6) La lettera del Legato, dalla quale sono state riprese tutte le notizie fin qui riportate, è nel cit. AP 545. Essa giunse a Rimini l’8 dicembre.

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congiunto in matrimonio colla Dama Signora Contessa Teresa Ricciardelli, ma senza prole. Premorendo il Signor Marchese Federigo senza successione, si fa luogo al Fratello minore Signor Marchese Giambattista di occupare il suo posto di Consigliere. All’incontro la nominata Elisabetta Tintori sposata dal Signor Marchese Giambattista è figlia di un Chirurgo che vive in Rimino della sola sua professione. Essa in tempo della scorsa Fiera di Sinigaglia si è impiegata in quel Teatro in qualità di seconda Donna Cantante sotto nome di Anna Corsini, e si era obbligata per apoca ( 7) al Teatro di Cremona nel Carnovale prossimo» (8).

Nel quesito e nel successivo «Pro-Memoria» si fa riferimento ai «Capitoli sopra i Matrimonj disuguali» approvati dal Legato il 25 agosto dello stesso ’92. La scala sociale in essi attestata, prevede il Ceto nobile e l’Ordine civico. Un Nobile può sposare, oltre che ovviamente le donne sue pari grado, anche quelle «ignobili di civile condizione» (cioè appartenenti all’Ordine civico) o figlie di «qualcuno, che esercitasse Mercatura nobile», con scopo (ed attenuante) di «conseguire una cospicua dote»: il denaro rende puro il sangue che non lo è (9). Secondo i Consoli di Rimini, il matrimonio del marchese Carradori con Elisabetta Tintori non rientra negli schemi dettati dai «Capitoli», evidentemente per la consistenza della dote: settecento scudi non la facevano apparire «cospicua». Chi viola i «Capitoli», rimane escluso dal Consiglio, fatto salvo il diritto dei suoi eredi di rientrarvi rispettando le norme in essi contenute. Il Legato, in calce al testo dei «Capitoli», ha inserito una clausola con la quale si riserva «cognitio, declaratio, et executio» dei casi futuri di violazione delle norme statutarie, togliendo quindi ogni possibilità d’intervento in materia sia al Consiglio civico sia alla Sacra Consulta romana (10). Questo particolare spiega il senso del quesito inoltrato da Rimini al Legato sul matrimonio Carradori-Tintori. Il caso suscitato attorno a tali nozze, per quanto risulta dagli atti rintracciabili, resta irrisolto. Maiora premunt in quei giorni del 1792 in cui da Parigi la bufera rivoluzionaria investe l’Europa: il 20 aprile la Francia ha dichiarato guerra all’Austria, riportando il successo di Valmy il 20 settembre; il suo re è dichiarato decaduto il 21 settembre; il giorno successivo inizia l’anno primo della Repubblica. L’8 settembre il Vescovo di Rimini Vincenzo Ferretti ha firmato un’introduzione alle Preghiere da recitarsi la mattina e la sera per implorare il Divino Ajuto nelle presenti calamità dalla Francia, subito pubblicate in tre edizioni. Nella stessa Diocesi di Rimini giungono numerosi (11) ecclesiastici in fuga dalla Francia, recando notizie di prima mano. Dal cronista Zanotti apprendiamo che il matrimonio incriminato, fra la

(7) «Apoca», cioè contratto. (8) Sia la lettera dei Consoli sia il «Pro-Memoria» sono nel cit. AP 545. Il documento è firmato dal Capo-console Niccolò Paci e dai Consoli Filippo Ricciardelli, Domenico Garattoni e Giovanni Maria Pastoni. (9) Per i «Civici» sono ammesse donne loro pari e quelle provenienti da famiglia con entrata propria, od esercenti mercatura non vile, arti liberali, ed artigianato non vile (in quest’ultimo caso per causa di dote). (10) Il testo dei «Capitoli» (in AP 724, Disposizioni statutarie, ASR), è in lingua italiana; quello del decreto di approvazione (con data, come si è detto, del 25 agosto 1792), è in lingua latina. Su questa clausola, dovremo ritornare in seguito. (11) Sono trentaquattro quelli rimasti in «Città» secondo il cit. Zanotti; cfr. il suo Giornale di Rimino, tomo V, SC-MS. 312, BGR, pag. 221.

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cantante ed il Nobile riminese, fu allietato dalla nascita di un figlio (12). La nobiltà riminese, con la denuncia a carico di Giambattista Carradori Fregoso, cerca puntigliosamente di riaffermare i propri privilegi di casta, in sintonia con la lunga e complessa battaglia giuridica iniziata nel luglio 1763 con la presentazione ai Consoli della Città, da parte di «molti Consiglieri», di un ricorso-memoriale rivolto ad «escludere li Matrimonj disuguali di nascita» ed a mantenere «la propagazione delle loro Famiglie di sangue il più purgato e illustre, qual essi trassero da loro Antenati» (13). In quest’ultimo ricorso si afferma che già con «lo Statuto esclusivo delle Femmine» del 5 febbraio 1741, si è dato «riparo allo scadimento delle Famiglie», essendosi «provveduto a questa vantaggiosa conservazione delle Case, cui per l’addietro non si era mai atteso con indicibil danno delle medesime». Tale Statuto prevedeva che le femmine, in presenza di maschi, fossero private delle rispettive eredità, eccettuata la parte legittima. Per proseguire in quella politica, occorre ora assumere un secondo provvedimento, «egualmente necessario», quello cioè di «mantenere la qualificazione delle Famiglie» impedendo la «disuguaglianza de’ Matrimonj, i quali, oltre il recare sconcerti e discordie fra le illustri Parentele, inferiscono eziandio altri notabili pregiudizi con macchie alli successori di esse, i quali rendonsi per sempre incapaci ad affacciarsi a que’ Gradi d’onore, che la nobiltà de’ loro maggiori gli aveva preparati». A giustificazione della richiesta e ad ammonimento per i Consoli, segue una massima di San Paolo, «Si vis nubere, nube pari». Il ricorso fa poi osservare che la richiesta di questo «necessario Provvedimento» non si può dire «contraria alla libertà prescritta dai sacri Canoni ne’ Contratti Matrimoniali», per cui sarebbe stato «facilissimo l’ottenere dalla Santa Sede l’approvazione indispensabilmente necessaria». In materia esistevano alcuni precedenti: i Senato-consulti bolognesi del 1748-49, approvati da un Breve di Benedetto XIV; le risoluzioni prese ad Imola nel ’56 ed approvate l’anno successivo dalla Sacra Consulta dopo «giusta informazione data» dall’Eminentissimo Legato; le deliberazioni di Macerata del ’56 e ’59, approvate nel ’61 dopo che era stato respinto il ricorso avanzato alla Sacra Congregazione del Concilio da «alcuni Zelanti», i quali le avevano ritenute «contrarie alla libertà matrimoniale». L’istanza dei Consiglieri riminesi termina con un sottile ragionamento: essi sono consapevoli che, se il provvedimento fosse stato proposto in Consiglio generale, difficilmente avrebbe conseguita l’approvazione perché «quasi per un terzo» i loro colleghi appartenevano al secondo Ordine, quello dei «Cittadini». Per «isfuggire, se è possibile, questo scoglio», l’istanza suggerisce di «avvanzare una supplica» al Papa, a nome dei Consoli, «con cui tentare, se la Santità Sua volesse provvedere al decoro di questa nobiltà con stabilire, che venisse subito levato dal posto di Consigliere nobile chiunque di questi contraesse matrimonio di natali dispari». Il 31 luglio i Consoli di Rimini trasmettono questa istanza a Roma, all’abate Giuseppe Battaglini per ottenere dal Papa oppure dalla Sacra Consulta il «necessario» sospirato provvedimento, con una lettera in cui si ribadisce (12) Cfr. nelle citt. Genealogie. (13) Cfr. in AP 485, Copia lettere, ASR, alla data del 31 luglio 1763.

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l’importanza della questione (14): «L’esempio delle altre Città convicine o l’orrore di qualche disordine accaduto purtroppo ancor qui ha mosso molti di questi Consiglieri a procurarne il riparo. Nasce questo dalli Matrimonj de’ Consiglieri Nobili con Donne d’inferiore ributtante condizione, i quali non solo pregiudicano alli di loro Discendenti, togliendoli il Diritto d’addire a quelle Dignità, Ordini, ed onori, a quali la chiarezza del sangue de’ loro Antenati potrebbe farli aspirare, ma infettano eziandio quel lustro, che alla Patria è dovuto per la Nobiltà generosa che professa.»

In data 3 settembre i Consoli riminesi chiedono al conte Alberto Lovatelli di Ravenna copia autentica della «conciliare deliberazione» presa per la sua città sullo stesso tema (15). Lovatelli risponde il 7 settembre accennando al «grave disordine pur troppo in oggi introdotto da alcuni del Ceto Nobile, che acciecati da smodata passione si aviliscono a contraere Matrimonj disuguali, e tal volta vili, non avendo riflessione, ne al proprio grado, ne al disdoro della famiglia» (16). Il 9 settembre il Nobile riminese Giuliano Soleri ripropone in Consiglio Generale ai Consoli del nuovo bimestre il ricorso-memoriale di luglio, ribadendo che esso era nato dalla constatazione che i matrimoni dei «Nobili Consiglieri con Donne vili, ed abbiette» arrecavano un grave pregiudizio (17). Il Consiglio delibera di eleggere quattro deputati (Luigi Ricciardelli, Filippo Soardi, Niccolò Paci Ippoliti ed Andrea Lettimi), con il compito di compilare i necessari «Capitoli», «uniformandosi alle circostanze» della città (18). Il 10 settembre i Consoli ringraziano il conte Lovatelli per le copie delle risoluzioni ravennati, precisando: «Questo nostro Consiglio ha di già proceduto alli passi preliminari, per uniformarsi alli provvedimenti ormai generali di questa Provincia, onde riparare al Disdoro che da tali matrimonj risulta alle Famiglie, e Città insieme» (19). Il 28 aprile 1764 il Consiglio riminese approva la «legge per impedire i matrimonj disuguali». Il giorno successivo i Consoli della città inviano all’abate Giulio Cesare Serpieri di Roma una copia della deliberazione (20): «Affinché un tal legge abbia tutto il suo vigore, e venga fatta osservare preghiamo Vostra Signoria farla approvare dalla Sacra Consulta, o riportarne l’approvazione in forma specifica per Breve come Ella crederà più proprio per la brevità. Le nostre premure sono per la solecitudine che fin’ora esatta abbiamo riconosciuto in lei […].»

Alla lettera si allega pure la «Particola del Breve di Giulio Secondo facoltativo di fare nuove Leggi, e le fatte riformare» (si tratta del cap. IV della cosiddetta Bolla Sipontina del 1509). Il 25 maggio il Cardinal Legato di Ravenna, su richiesta della Segreteria di Stato, ordina di cancellare i «Capitoli» dal verbale degli Atti Consigliari. I Consoli eseguono: ogni parola è coperta da severi segni di penna che ne impediscono la decifrazione (21). Il Legato non ha evidentemente (14) La lettera precede il testo il ricorso, nel cit. AP 485. (15) Cfr. in AP 485, cit. (16) L’originale della lettera è nel cit. AP 724. (17) Cfr. in AP 876, cit., c. 103v. (18) Cfr. ibidem, cc 103v-104r. (19) Cfr. in AP 485, cit. (20) Cfr. ibidem. Serpieri era coadiutore in Roma dell’Agente del Comune di Rimini, Giovanni Isoldi. Cfr. [C.] Tonini, Storia civile e sacra riminese, VI,I, p. 679, Danesi, Rimini 1888. (21) Il verbale è nel cit. AP 876, alle cc. 118v-119r. Non siamo riusciti a rintracciare la lettera del Legato che, a fianco del verbale cancellato, si dice registrata in un «Libro di

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apprezzato quello che, in un documento del ’92, viene definito il «troppo rigore» (22) di questi «Capitoli» del ’64. Nello stesso 1764, il 24 marzo, il Consiglio riminese esamina un altro provvedimento ispirato (nelle intenzioni dei promotori), alla linea di difesa dei privilegi e degli interessi del primo Ordine, i «Capitoli per le nuove aggregazioni di Nobili e Cittadini». Se ne è discusso per la prima volta il 19 giugno 1762 quando sono stati eletti quattro Consiglieri, Carlo Agolanti, Bartolo Bartolini, Federigo Sartoni e Luigi Fabri, con l’incarico di prepararne la bozza (23). Dal verbale del 24 marzo ’64 apprendiamo che, nel momento della votazione del testo proposto, si cerca di far passare un’aggiunta relativa all’articolo nel quale si stabilisce per i Nobili un capitale minimo richiesto per l’aggregazione di 150 lire d’Estimo: si vuol allargare il requisito necessario per l’aggregazione anche alla proprietà di beni immobili, con un capitale fruttifero fissato al livello minimo di 15 mila scudi. Il testo approvato prevede invece una norma più elastica, secondo la quale «in proporzione dell’Estimo saranno considerati i capitali di Censi, Cambi, Luoghi di Monte, e Case che si affittano» (24). Il Cardinal Legato l’8 maggio comunica ai Consoli di Rimini che il 2 maggio la Sacra Consulta ha approvato i «Capitoli» (25). Il 12 maggio gli stessi Consoli scrivono alla Legazione di Ravenna per chiarire un «equivoco», e per sapere «se la detta approvazione cada sopra i Capitoli in genere, ovvero sopra i stessi Capitoli moderati dalla parte del Consiglio» (26). Infatti, «mentre i Capitoli prescrivono la possidenza di Centocinquanta Lire d’Estimo», la «Parte del Consiglio», cioè l’aggiunta proposta, prevede «all’incontro il capitale di quindici mille scudi». Per chiarire ogni dubbio, i Consoli chiedono l’originale del documento inviato dalla Sacra Consulta al Cardinal Legato. Da questa lettera dei Consoli scompare ogni accenno alla formula della valutazione del capitale fruttifero «in proporzione dell’Estimo», quasi si volesse avanzare senza rumore il dubbio della sua legittimità. Per ogni aggregazione i Nobili debbono versare un «regalo al Pubblico» di cinquecento scudi, riducibili però a trecento. Per i Cittadini la somma è fissata in cento scudi, senza sconti. Per accedere «al grado di Consigliere nobile», occorre avere «due gradi di onorata Civiltà, che vale a dire non abbiano mai né il Padre Lettere e Patenti» che non appare negli indici di ASR. (22) La definizione è nella Memoria del 9 maggio 1792 [AP 545 cit.]. In lettera del 24 maggio ’92 a mons. Luigi Martinelli [AP 545, cit.] si ribadisce il concetto: i «Capitoli» del ’64 erano stati giudicati troppo severi. Di entrambi questi documenti torneremo ad occuparci in seguito. (23) Cfr. in AP 876, cit., alla c. 68v. (24) Cfr. ib., alle cc. 115v-116r/v. Il verbale registra due votazioni. La prima (28 sì e 19 no) non viene ritrovata «giusta», per cui si ripete con l’esito di «pro 28, contra 20». Nel verbale poi si legge un’annotazione, il cui significato è oscuro: «I Capitoli per le nuove aggregazioni non furono approvati». (25) «Approvati poscia dalla Sacra Consulta con lettera del 2 maggio 1764», si legge a fianco del cit. verbale del 24 marzo ’64. (26) La lettera è diretta al dottor Gregorio Contarini: cfr. AP 485, cit. Il titolo a margine della lettera è errato: parla di «Approvazione de’ Capitoli per i Matrimonj disuguali», anziché delle «nuove aggregazioni». Il lapsus ha evidentemente un suo significato.

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né il Figlio esercitato arte meccanica né Bottega ecc.». La «nascita civile» (nel senso appena precisato), è prevista anche per le aggregazioni dei cittadini. È possibile ai Cittadini salire dal secondo al primo Ordine. Ormai, è soltanto questione di «capitali fruttiferi»: i diritti del sangue stanno entrando in ombra. I «Capitoli» sulle nuove aggregazioni approdano dunque a risultati opposti rispetto a quelli desiderati dai Nobili, i quali nel ’73 tornano alla carica con le loro istanze per intervenire sui «Matrimonj disuguali». Una supplica viene umiliata al Papa (27) dal Governatore di Rimini al fine di ottenere l’approvazione della «Legge statutaria emanata» dal Consiglio Generale nel ’64. Si finge che nulla sia accaduto e che i «Capitoli» (del ’64, appunto) non siano stati fatti cancellare dalla Segreteria di Stato. Il Legato Vitaliano Borromeo il 14 luglio risponde (28) al Governatore di Rimini che il Papa «ha espressamente ordinato che alla città di Rimini venga estesa dalla Consulta la risoluzione presa nel 1757 per l’altra di Imola». Dopo di che, aggiunge il Legato, il Governatore potrà ordinare l’esclusione «dalla Magistratura e Grado di Consiglieri» tanto dei Nobili che dei Cittadini «che contraggano Matrimonj con Donne vili, ed abbiette», riservando per i «casi particolari, che siano per accadere in avvenire» ogni competenza alla Sacra Consulta. La lettera del Legato è letta in Consiglio generale il 23 luglio (29). Nel 1792 il Consiglio riminese, ‘dimenticando’ queste decisioni romane del ’73, riapre il problema dei «Matrimonj disuguali» con una «Memoria» spedita il 9 maggio all’avvocato Guido Fabri (30), Luogotenente Criminale del Legato di Romagna. La «Memoria» si articola in due parti. La prima si apre con la consueta pregiudiziale sulla necessità che la «Nobiltà delle Famiglie si conservi, e si propaghi pura, e decorosa», e che si mantenga «illibata fra i Consiglieri della medesima Patria a scanso di dissensioni fra di loro, e di una irregolare educazione de Figliuoli». Vengono poi elencati i fatti antecedenti. Delle leggi del 28 aprile ’64, come già abbiamo ricordato, si dice che «con troppo rigore miravano a spogliare alcuni attuali Consiglieri, che si trovavano aver contratto simili Matrimonj, ed innabilitare i Discendenti di essi al posto di Consiglio, ed ogni altro onore, e privilegio, ed Uffizio». Tali leggi «furono perciò credute ingiuriose dalla Sagra Consulta» che ne ordinò la «cassazione dai pubblici Registri». Aumentato di conseguenza «il disordine de Matrimonj», la pubblica Rappresentanza di Rimini ha pensato «ad un qualche riparo alli suoi perniciosi effetti per l’avvenire», formando «alcuni Capitoli più miti assai degli antecedenti, ma sufficienti però a mettere un freno a simile inconveniente, senza avere riguardo ai casi accaduti in passato per non ferire particolarmente verun (27) Il 15 marzo i Consoli di Rimini invitano Giulio Cesare Zollio (che a Roma era agente della città: cfr. in Carteggio, busta 14, ASR) a sollecitare in proposito la Segreteria di Stato. Zollio risponde il 29 luglio, rassicurando sui passi compiuti [AP 724, cit.]: «Fin dallo scorso ordinario fu dalla Segreteria di Stato spedita la lettera a S. E. il Sig. Cardinale Legato per l’approvazione della provvidenza […] per ovviare al possibile al disordine della disuguaglianza de Matrimonj». (28) In AP 724, cit., si trovano l’originale del Legato e copia della lettera della Segreteria di Stato datata 10 luglio ’73. (29) Cfr. AP 877, Atti del Consiglio Generale, 1766-1777, ASR, p. 294. (30) Cfr. AP 545, cit., alla data 9 maggio 1792. Guido Fabri nel 1790 è stato per due mesi «Governatore interino» di Rimini (cfr. Zanotti, Giornale, cit., tomo V, p. 80).

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Individuo del Consiglio». La seconda parte della «Memoria» contiene il testo proposto al Legato degli stessi «Capitoli». Fabri riferisce ai Consoli di Rimini l’«approvazione» del Cardinale di Ravenna, il quale suggerisce loro di «umiliare al Trono Pontificio l’istanza» relativa (31). La Magistratura cittadina cerca appoggi romani. Al riminese mons. Luigi Martinelli che si trovava nella città del Papa, si spiega (32) che il provvedimento del ’64 fu cancellato dalla Segreteria di Stato per gli «impegni» di quei Nobili colpiti dall’esclusione dal grado di Consigliere a causa delle loro nozze disuguali. Successivamente, con i «Capitoli» del ’73 «si ottenne soltanto» che quella legge «avess’effetto pei matrimonj dei Signori Consiglieri con Donne vili, ed abiette»: «Così limitata ha dato luogo a molti Nobili di accasarsi con donne d’inferior condizione non contemplate in detta espressione». I nuovi «Capitoli» sono definiti «più moderati bensì di quelli del 1764, ma più estesi dell’Ordine del 1773». A Martinelli si chiede di interessare alla questione il principe don Luigi Onesti Braschi «per la parte ch’egli ha nel decoro di questo Consiglio, cui è aggregato». A Rimini preme che non si dia «verun incomodo» al Cardinal Borromeo che nel ’73 aveva fatto estendere a Rimini i «Capitoli» imolesi. Nella supplica indirizzata al Papa, ed inviata a Martinelli, i Consoli invocano «una provvidenza più forte di quella data nel 1773», la quale si discostava «dalla Legge statutaria emanata dal detto Consiglio nel 1764, e riprovata in grazia di Consiglieri allora viventi, cui si volle risparmiare l’esclusiva dal loro grado meritata, per siffatti Matrimonj». Rimini interpella il Legato, il quale ritenendo «giusti e ragionevoli, ed anche uniformi a simil Legge che si osserva in Ravenna» i «Capitoli» inviati, promette il suo «favore» al provvedimento. Il che fa bene sperare per eventuali «difficoltà» da parte della Sacra Consulta. A Martinelli i Consoli spiegano tutto ciò per facilitare l’approvazione romana (33). La Segreteria di Stato (34) rimette l’istanza «all’arbitrio dell’Eminentissimo Legato con tutte le opportune facoltà»: «terminandosi in Ravenna codesta pendenza si evita, come ho procurato che succeda», spiega Martinelli, «il giudizio della Consulta, la quale non avrebbe forse mancato di opporre delle limitazioni, e riserve incommode alla nova legge» (35). I Consoli inviano i «Capitoli» a Fabri per farli sottoporre all’attenzione dello stesso Legato. Fabri comunica ai Consoli: «Stà per ora dubbioso il Porporato se trattandosi di nuova Legge statutaria sia duopo di sentire codesto Generale Consiglio, e per chiarirsene ha ordinato tale esame» (36). Le difficoltà procedono dal Cardinal Legato, conferma da Roma Martinelli, (31) Ricaviamo queste notizie dalla lettera della Magistratura di Rimini allo stesso Fabri, del 22 maggio 1792 [AP 545, cit.]. (32) Cfr. la lettera a Martinelli del 24 maggio ’92 [AP 545, cit.]. (33) Cfr. la lettera a Martinelli del 3 giugno ’92 [AP 545, cit.]. (34) Come si ricava dal cit. decreto del Legato in data 25 agosto, la Segreteria di Stato scrive allo stesso Legato il 13 giugno. (35) Cfr. la lettera di Martinelli ai Consoli di Rimini, datata Roma 13 giugno ’92 [AP 724, cit.], e la missiva di risposta dei Consoli a Martinelli del 17 giugno ’92 [AP 545, cit.]. (36) Cfr. la lettera di Fabri al Capo-console Niccolò Paci, del 23 giugno ’92 [AP 724, cit.].

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aggiungendo che esse sono relative al «piano proposto per la degradazione de’ Consiglieri», perché «non gli par conveniente, che le differenze che potessero nascere, le dovesse esaminare, e decidere il Consiglio» (37). Martinelli, a riprova del suo scritto, invia a Rimini copia della lettera che la Segreteria di Stato ha inoltrato al Legato il 18 luglio (38): dal Papa si riconoscono fondati i rilievi avanzati dal Legato stesso sull’articolo in cui si prevede l’esame «de’ casi particolari» da parte del Consiglio civico. Quindi il Pontefice vuole che «quella ispezione, e disamina de’ casi particolari, non al Consiglio, e neppure alla Consulta» sia attribuita, «ma venga interamente rimessa al Cardinal Legato pro tempore». Per il fatto, poi, che i Consoli hanno presentato l’istanza senza «previa intelligenza con il Consiglio», il Santo Padre «lascia al pieno» arbitrio del Legato «e di disporre, che venga prima comunicata, e portata al Consiglio, o di approvarla indipendentemente da tale comunicazione ne’ termini divisati», concedendogli «a tale effetto ogni opportuna e necessaria facoltà» (39). Il Legato il 25 luglio ordina al Governatore di Rimini «la proposizione al Consiglio» cittadino dei «Capitoli» in oggetto, con la variazione riportata all’articolo secondo, relativo all’esame «de’ casi particolari» che il Cardinale riserva per sé (40). Il 28 luglio il Consiglio ascolta la lettura della missiva del Legato del 25 luglio e degli annessi «Capitoli» nel testo riformato dallo stesso Cardinale Colonna (41). A verbale sul registro del Consiglio (42) sono trascritti la lettera del Legato e i proposti «Capitoli». Oggi quel verbale appare tutto annerito. Il testo è stato uniformemente cancellato, non con segni di penna come nel ’64, ma con una pennellata d’inchiostro. Si sono salvate soltanto alcune piccole parti di annotazioni marginali (43). La causa del provvedimento di cancellazione va ricercata nella necessità di un rigoroso rispetto dell’iter giuridico. Era stata comandata dal Legato «la proposizione al Consiglio» riminese dei «Capitoli», dato che essi erano stati inviati a Roma dai Consoli e non dallo stesso Consiglio. Il quale ha approvato il testo non facendone una legge, ma come proposta da sottoporre all’approvazione del Legato. Il Cardinal Colonna nel suo decreto, prima di approvare i «Capitula», cita le lettere della Segreteria di Stato (44) e precisa: «visa instantia Consolum […], visa resolutione Consiliari sub die 28 mensis antedicti Iulij». Quindi i «Capitoli» (37) Cfr. le lettere di Martinelli ai Consoli di Rimini, datate Roma 18 e 21 luglio ’92 [AP 724, cit.]. (38) Tale copia [AP 724, cit.] è allegata alla lettera datata Roma 21 luglio ’92. (39) I Consoli rispondono a Martinelli di aver dovuto constatare con dispiacere «l’inutilità» della loro azione per dissipare le difficoltà frapposte dal Legato: cfr. lettera del 26 luglio ’92 [AP 545, cit.]. (40) La lettera del Legato è riportata da Zanotti nel suo Giornale, cit., alle pp. 205208. Cfr. sull’argomento anche la lettera dei Consoli di Rimini a Martinelli del 29 luglio 1792 [AP 545, cit.]. (41) Dallo stesso Zanotti (pag. 210 del Giornale cit.), apprendiamo che al termine della lettura dei testi legatizii fu fatta ballottazione: con 34 voti pro e 2 contro. (42) Cfr. AP 878, Atti del Consiglio Generale, 1788-1796, ASR, cc. 127r-128v. (43) Ad esempio, a fianco dell’art. 2 (quello mutato dal Legato), si legge «Difform…». (44) Oltre a quella già ricordata del 13 giugno ’92, si cita anche quella del 18 luglio ’92, la cui copia è allegata alla mentovata lettera di Martinelli ai Consoli di Rimini il 21 luglio ’92.

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sono norma di diritto soltanto dal 25 agosto, e non dal 28 luglio (45). Di qui la necessità di farli ‘scomparire’ dagli Atti pubblici. Il Legato, avocando a sé le decisioni per i casi futuri, allentava le tensioni fra Nobili e Cittadini esistenti a Rimini, come testimonia un altro episodio legato alla vita sociale della città. Nel febbraio 1786 il «Popolo di Rimini» ha denunciato alla romana Congregazione del Buon Governo ed in copia al proprio Governatore (46) le «superflue spese» provocate dall’usanza della Nobiltà di «trattenersi a suo piacimento» nei locali pubblici attigui al teatro, consumando «grande quantità di legna, lumi e mobiglie per le continue conversazioni, che dal principio della sera durano fin due ore dopo il teatro». Spese che «ne’ conti poi vanno sotto nome di consumi fatti per le Magistrature, Consigli, Congregazioni, e per trattare pubblici interessi»; e che sono «fatte a spalle de Poveri, e godute da Ricchi». Nel marzo successivo il Governatore dichiara alla Legazione di Ravenna «che il ricorso è vero nella sostanza»: esiste «lo scialaquo che si fà da Nobili di lumi e legna a conto della Comunità in occasione che il teatro sia aperto», ma esso è inferiore alle cifre denunciate dal «Popolo». La consapevolezza che i tempi stanno mutando è espressa da un altro passaggio della lettera del Governatore di Rimini: «La Salute, la Quiete del Popolo sono, e devono essere la legge suprema in ogni Governo ben ordinato. Questa ci sostiene, e ci anima in questo momento a dire la verità, e a disprezzare l’odiosità alla quale sapiamo di andare incontro nel dirla». Quel Governatore è Luigi Brosi che il 2 febbraio ’97, quando Napoleone riprenderà le ostilità contro lo Stato della Chiesa, fuggirà da Rimini assieme al Vescovo Vincenzo Ferretti, mentre le più distinte e doviziose famiglie si trasferiranno nei loro beni in campagna. (47)

Appendice. «Regolamento per l’Ordine Civico. Ai Signori Anziani di Faenza. Li 27 settembre 1796. Il nostro Consiglio è composto di sessantadue Nobili, e diciotto cittadini: di tre quarti cioè di quelli, e di un quarto di questi a un dipresso. I requisiti che si esigono in un Postulante del rango civico sono la civiltà della sua nascita, e la possidenza, giusta la pratica, di un capitale fruttifero di diecimila scudi non compresa la casa di propria abitazione, gioje, denari, suppelletili e simili. Per la sua aggregazione al Consiglio deve alla Comunità un (45) Nel registro cit. AP 878, in indice si leggono due voci relative: «Capitoli della degradazione dei Signori Consiglieri che contrassero matrimonj disuguali», «Matrimoni disuguali dei Signori Consiglieri puniti colla privazione del Posto in Consiglio». Il testo dei «Capitoli» al quale abbiamo fatto riferimento all’inizio di queste pagine sul caso Carradori-Tintori, è quello riportato dal Legato nel suo decreto di approvazione del 25 agosto 1792. Il testo è riprodotto anche da Zanotti nel cit. Giornale alle pp. 210-219. (46) Cfr. in AP 545, cit. (47) Nota bibliografica. Dei «matrimonj disuguali» hanno brevemente riferito P. Meldini in L’inquieta volubilità della Fortuna, «Romagna arte e storia», n. 18/1986 («Patetici e quasi grotteschi sono i Capitoli del 25 agosto 1792», pp. 90-91); E. Pruccoli nella prefazione alla biografia di G. Garampi, scritta da L. Tonini, Ramberti, Rimini 1987 (ove alle pp. 8-9 riprende i passi citt. del Giornale di Zanotti); e C. Casanova in Comunità e Governo pontificio in Romagna in età moderna, Clueb, Bologna 1981 (in cui le pagine di Zanotti e Tonini sono inserite in un più vasto contesto politico).

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regalo di scudi cento, e conservare un decoroso trattamento della sua Famiglia. La sua ammissione si fà dal Generale Consiglio per due terzi di voti favorevoli necessarj all’inclusiva. Gl’Individui di questo secondo ordine sono amessi tanto alla prima Magistratura, quanto agli uffizj, ed elezioni subalterne, non in numero eguale ai Nobili, ma per la quarta parte. Nella stessa proporzione intervengono ai Consigli ed alle Congregazioni, e vi hanno il voto decisivo egualmente che i Nobili, trattandosi di affari pubblici, ed economici: ma non hanno parte nei meri onorifici, come sono le ambascerie, l’elezione al nobile casino, ai veglioni, ed alla corsa de Barberi. Nell’adunanze giornaliere, ed ordinarie del Magistrato costituito di otto soggetti hanno luogo i Signori Cittadini in numero di due. Ne pubblici impieghi, come di abbondanzieri, grascieri, ed in qualunque altro, vi sono impiegati al paro dei nobili, sempre però colla suddetta proporzione di numero. Così egualmente nelle Congregazioni del conto privilegiato, ed altre economiche. Ogni cittadino ha lo stesso onorario che hanno i nobili per la magistratura, e la stessa parte che quelli in individuo nelle altre propine, e distribuzioni. Nei Consigli, e nelle Congregazioni cui intervengono il magistrato e i nobili, sogliono i cittadini prendere l’ultimo luogo. Alle funzioni pubbliche per solennità, ed altre intervengono colla Magistratura coll’abito del tutto uniforme a quello dei Nobili. Il posto di Consiglio vacato per morte del Padre appartenendo alli Possidenti, il Consiglio ha diritto di conferirlo al più idoneo, ma ordinariamente si dà al figlio primogenito. Per legge imposta dalla Santa Memoria di Giulio II, ed osservata dai suoi commissarj nella erezione del Consiglio ecclesiastico del 1509, e riformata in quanto al numero di 18 da Alessandro VII, il Second’Ordine ha luogo nell’esercizio delle Magistrature, e cariche pubbliche. Le ha al pari dei Nobili nell’ordine le Podesterie, e Giudicature, cui sieno eletti i cittadini dai rispettivi Consigli delle 23 Terre, e Castella del nostro Contado, e nel conseguire certi Uffizj pubblici, che sotto il titolo di Grazie si estraggono a benefizio dei Consiglieri Nobili e civici partecipanti. […]» (48)

(48) Cfr. AP 502, Copialettere della Magistratura [I Consoli di Rimini], ASR.

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