Antonio Montanari
Iano Planco, la puttanella, il vescovo La condanna all’Indice (1752) del rifondatore dei Lincei
«E si sa che nulla vi è di più inviso di ciò che ti è più vicino ma può risultare concorrenziale rispetto ai tuoi fini. Non si è più feroci contro gli “eretici” che contro gli avversari?» Luciano Canfora «Mi dispiace, che nessuno è padrone di se stesso» Antonia Cavallucci
1. Il Carnovale del 1752 «Serva Amica e Figlia obligatissima», si dichiara Antonia Cavallucci in calce alla lettera che da Bologna, il 25 marzo 1751, scrive all’anziano medico riminese Giovanni Bianchi. Lei è una giovane cantante ed attrice romana, figlia d’arte: suo padre Bartolomeo, morto cinque anni prima, lo ricordano come un noto Pulcinella. Calca il palcoscenico da undici anni in ogni parte d’Italia: da Torino alla Sicilia, dalla Calabria a Padova. E’ maritata da due. Sono state nozze infelici. Quella missiva ha per scopo la richiesta di «una difesa sopra il fatto del mio matrimonio, […] un discorso tanto, che lo possi imparare a memoria», e recitare davanti ad un giudice ecclesiastico. Antonia Cavallucci vuole dimostrare che le è stato estorto il consenso: «in pubblica chiesa mi sono dichiarata con il confessore che non lo volevo, e che lo mettevo in carico della sua coscienza, e di quella di [mia] madre». Accusa il marito: «mi à ferita tre volte se non baston due»; «in tre anni non mi aveva mai portato un tocco di pane». Poi c’è un debito del coniuge, tal Celestini, di ottanta o cento scudi. Lei ha dovuto mantener casa, mamma e serva, sborsare soldi per vestirsi, calzarsi, e rimediare l’occorrente alla vita d’ogni giorno. Antonia viaggia accompagnata dalla madre (amministratrice avara di scarse sostanze), con cui in passato spesso ha mangiato «le mosche». L’aiutano a sopravvivere bellezza e naturale bravura. Si esibisce nei pubblici teatri, rallegra affollati salotti nobiliari. Ha una grazia particolare che conquista gli uomini, giovani e vecchi. La sua venustà sollecita anche le fantasie di placidi poeti d’Arcadia come l’avvocato imolese Giambattista Zappi, il quale paragona la lingua della fanciulla ad un piccolo, vezzoso rubino che graziosamente corre, e sembra l’ala di una farfalla «tra le foglie di una rosa». Lo lascia senza parole il «grazioso movimento di quel seno / per cui godo, e per cui peno». Pure Giovanni Bianchi paga il suo debito in versi alla «gentil donzella» che canta (precisa nella dedica) «graziosissime Ariette nel Pubblico Teatro, e per varie Accademie della Città di Rimino». Ne loda le «bellissime nere pupille», «il volto morbido», la «voce armonica» e «sempre soave». Confessa che un’«incognita forza d’amore» gli «lega il core». Bianchi pubblica quest’Ode Anacreontica
per Antonia Cavallucci nel 1752, quando ha cinquantanove anni, ed è personaggio famoso nel mondo scientifico non soltanto italiano. I suoi numerosi scritti, firmati con lo pseudonimo di Iano Planco, hanno una vasta (e talora contrastata) circolazione. Ha insegnato Anatomia umana all’Università di Siena dal 1741 al ’44, chiamato dal Granduca di Toscana per meriti e non «maneggi», sottolinea con orgoglio. Da buon erudito non trascura nessun campo della cultura, dalla Botanica alla Zoologia, dall’Idraulica all’Antiquaria. Dal 1720 ha iniziato a gestire un Liceo privato che ha tenuto aperto pure a Siena. Gli allievi vi studiano come materia obbligatoria e comune Medicina, poi Logica, Geometria e Lingua greca. «La nostra setta», chiama questa scuola uno di loro. Un altro parla di «Bianchisti», con l’orgoglio di appartenere ad una comunità eletta, sul modello degli antichi circoli filosofici. Vi passano giovani diventati poi celebri: Giovanni Vincenzo Ganganelli (papa Clemente XIV, che soppresse la Compagnia di Gesù nel 1773), il cardinale e storico Giuseppe Garampi, il naturalista Giovanni Antonio Battarra ed il filosofo Giovanni Cristofano Amaduzzi, oppositore dei lojolisti. Da fuori, accusano la «scuola di Rimino», di segnare le proprie pagine con «velenoso inchiostro». «Figlia obligatissima»: la chiusa della lettera di Antonia Cavallucci è simmetrica all’invocazione iniziale, con cui ella si rivolge a Bianchi chiamandolo «Mio Padre», e rimanda pure a quella intermedia: «Caro papà». Antonia scrive da Bologna. E’ senza alcun contratto, «per la qual cosa mi rincresce assai, ma Iddio mi agiuterà, e così lo spero: desidero di sapere, come ve la passate di salute dandovi in aviso che anco io appoco appoco mi vado ristabilendo, non altro che da tre, o quattro giorni, a questa parte mi viene un fino dolor di stomaco, che mi corrisponde fra un fianco, e quasi sempre verso l’ora del pranzo. Per me già non manca mai qualche disastro, ma fido in Dio, che essendo sua creatura ancor io, e sorta da agiutare». Poi Antonia annota, utilmente per noi: «Credo, che adesso non abiate più motivo di lagnarvici se non vi scrivo mentre questa, è la terza che vi invio». Le lettera invece è la prima di tutte le sue missive lasciateci da Bianchi. Resta irrisolto il problema di quando, e soprattutto come, sia avvenuta la loro conoscenza che sembra risalire ad un precedente soggiorno riminese della giovane: lo
dimostrerebbe la confidenza da lei manifestata nei confronti di molte persone, anche di sesso femminile, di cui elenca i nomi in un post scriptum ove accenna pure di sfuggita a recite dilettantesche con la loro partecipazione al suo fianco, su tavole di palcoscenici forse improvvisati in qualche salotto. Nell’autunno dello stesso 1751, l’attrice romana si trasferisce (potremmo dunque pensare, ritorna) a Rimini, dove offre avvenenza ed arte all’élite cittadina. Racconta Bianchi: un marchese forestiero di nome Giambattista aveva affidato la giovane alla protezione di un cavaliere riminese che però mancò alla parola data. Abbandonata dal cavaliere, e senza poter più ricorrere al marchese morto nel frattempo, Antonia è confortata da Bianchi: «presi a farle qualche assistenza, per la quale molto è stata onorata dai principali Signori di questa Città, non senza però una molta invidia de’ malevoli», confida Planco al padre di Giambattista. Durante gli spettacoli al teatro, per festeggiarla gli spettatori salgono sul palcoscenico, con grande «sconcerto» degli amministratori della cosa pubblica che, senza fare il suo nome, emanano il 25 gennaio 1752 un apposito bando, minacciando «pene pecuniarie, ed anche di Corpo afflittive gravissime ad arbitrio dell’Eminentissimo e Reverendissimo Signor Cardinale Legato». Per le feste di Carnovale, scrive il cronista Ernesto Capobelli, «la Città tutta era in grand’allegria» con «la moltitudine delle mascare» ed «il corso di numerose carrozze, ed altri legni». Bianchi, la sera dell’11 febbraio 1752, ultimo venerdì di Carnovale, invita Antonia Cavallucci ad esibirsi nella propria casa, come cantatrice con accompagnamento di musica in un’«Accademia solenne» dei rinnovati Lincei. L’istituzione creata da Federico Cesi nel 1603 e silente dal 1630, è stata rifondata a Rimini proprio da Planco nel 1745, poco dopo il suo ritorno in patria da Siena, o per meglio dire dopo la sua fuga da quell’Università dove aveva incontrato, e si era creato, troppi nemici per insegnare in pace. Terminato il concerto della sua ospite, Bianchi pronuncia un discorso In lode dell’Arte comica che, osservarono le Novelle letterarie fiorentine di Giovanni Lami, «fu fatto più in grazia della Signora Antonia Cavallucci, che per altra cosa, alla quale il Sig. Bianchi dovette per un impegno far da Protettore nel passato
Carnovale, la quale era insieme Comica, e Cantatrice, e che come Comica rappresentava il più la parte da serva». La cronaca riassume, probabilmente per mano dello stesso Planco, un passo del discorso, che lo dichiara composto «in grazia» della «valorosa fanciulla», per dimostrarle il «molto obbligo» che la città di Rimini aveva verso di lei, perché, con la sua «gentilezza, e grazia», aveva «quasi per un mezz’anno sulle Scene rallegrati onestamente gli animi de’ nostri Concittadini», mostrandosi del tutto degna del padre che in Roma aveva goduto di eccellente fama. Il resoconto del giornale fiorentino non narra che la cantatrice, a causa di quello spettacolo di Carnovale, fu costretta ad andarsene in tutta fretta da Rimini: lo testimonia lei stessa in altra lettera a Bianchi, il 24 febbraio da Bologna. Qui, ha recapitato le raccomandazioni che Planco aveva steso per lei, senza ottenerne nessun frutto: «tutti cortesemente sono venuti a favorirmi in nome di V. S. esibendosi ogni uno per favorirmi, ma fin ora nessuno mi à dato niente. […] Sono a dirli che non sarò mai per scordarmi mai per li tanti obblighi, che ne tengo, che non solo mi avete onorata in Rimino, ma non tralasciate tuttavia di beneficiarmi anco da lontano, benché non abiate nessun obligo meco: ma fu tutto eccesso del suo bel core, e di vostra gentilezza». Antonia accusa Bianchi di averla allontanata da lui e dalla città. Al rimprovero unisce l’implorazione: «Solo mi rincresce d’esser partita di Rimino per voi, che spero di vedervi ben presto in Bologna per mia consolazione, e per dispetto de’ miei malevoli». Più sola che mai, ha uno scatto d’ira e di sdegno: «Potrò ben dire di aver incontrata in questa Città di Rimino poca buona sorte, dove avendomi affaticata per acquistarmi qualche poco di benevolenza e gratitudine. In premio delle mie fatiche mi sono acquistata de’ malevoli, e delle perseguzioni, e tra li Amici che mostravano esser nostri sviscerati ed a me favorevoli non posso dire ricevuta nessuna cosa. Come volessi dire una cena o un pranzo. Ben, sia mercé la vostra bontà e carità non avea bisogno de’ loro pranzi». (Già il 25 marzo dell’anno precedente, la Cavallucci aveva scritto a Bianchi «di questi Signori che erano tanto nostri nemici».) La sua salute è «poco buona per le tante ipocondriache idee uterine, che mi abbattono», soprattutto
al mattino, aggiunge, pregando Planco di salutare «i nostri fedeli Amici per li quali credo che ne abiamo pochini». Ancora una volta ricorda tra gli altri il «cavalier Paci», cioè il poeta Nicolò Paci Ippoliti, sui venticinque anni, che ha studiato prima con Planco e poi a Modena ed a Bologna. Paci è in corrispondenza con la Cavallucci che gli manda a dire, attraverso Planco, che ha «trovato un cavaliere degno di esserli cogniato», sempre, par di capire, in quelle recite domestiche. (La settimana dopo, a proposito del «cavalier Paci», aggiunge sprezzante: «poco mi curo perché lui poco si curava di me». La famiglia Paci possedeva nel pubblico teatro uno dei 24 palchi di prim’ordine, ai quali se ne aggiungevano altri 75 suddivisi tra secondo e quart’ordine, tutti riservati ai nobili cittadini.) «Intanto siate persuaso», conclude con Bianchi, «del mio rispetto e della mia gratitudine verso di V. S. che non sarò mai capace dimenticarmi della vostra carità, che mi ha fatta, come vi prego a non scordarvi di me, mentre di già sapete vi ò fatto sortire con impegno essendo stata ubediente: e fate sapere, a quelli Signori del festino che già avevano messo li editti sopra i Cantori, che era padrona di andarci, ma, che non sono andata per non darvi dispiacere: baroni fottuti razze porche li roda il fistolo a quelli che mostravano esser miei dipendenti mi criticavano […] e soprattutto vi prego a difendermi da’ malevoli». (Gli «editti sopra i Cantori» a cui accenna Antonia Cavallucci, sono il ricordato bando del 25 gennaio 1752 contro le invasioni del palcoscenico durante le recite di quell’inverno.)
2. Reverendissime insolenze La serata musicale organizzata da Bianchi, crea in città un pubblico scandalo, in apparenza inatteso ma certamente repentino. La Curia si agita. Ha fretta di punire Iano Planco per l’ospitalità concessa alla cantatrice romana. «Poca favilla gran fiamma seconda». E’ un pretesto ridicolo, accusare Bianchi per l’adunanza lincea. In verità, sullo stomaco agli ecclesiastici, Bianchi ci sta da un pezzo. E’ un intellettuale giudicato pericoloso per la sua dottrina scientifica che nega le armonie naturali e la filosofia ufficiale della Chiesa, quella aristotelico-tomista. Un rivale nell’educazione dei giovani, che ha incrinato il monopolio pedagogico dei religiosi. Un dotto insofferente di qualsiasi disciplina imposta dall’autorità. Un carattere ironico ed irriverente fino all’insolenza più graffiante. Merita una lezione che lo metta in riga. O lo faccia tacere, almeno per qualche tempo. Il vescovo di Rimini Alessandro Guiccioli prende carta e penna, e denuncia Planco alli Superiori presso la Sede di Pietro, dove certamente, per questioni d’ufficio, le ragazze come Antonia Cavallucci non sono del tutto ignote. E da Roma, il primo di marzo, un corrispondente di Planco, Giuseppe Giovanardi Bufferli, gli comunica che in quella città, contro di lui, si erano fatte «illustrissime e reverendissime insolenze»: «Se il Vescovo di Rimini non si fosse mai fatto ridere appresso dai Romani, ed avesse ad ogni modo desiderato di farlo, ora non potrà lagnarsi, che ciò non siagli riuscito, poiché delle sue stravaganze in proposito della Signora Antonia Cavallucci si è qui parlato quanto forse non sarassi parlato in Rimino». Giovanardi Bufferli conferma la versione dei fatti fornitaci dalla giovane («Solo mi rincresce d’esser partita di Rimino per voi», «essendo stata ubediente»): «Il contegno, poi, che si è tenuto da V. S. Ill.ma nel rimettere a Bologna con tutta sollecitudine la medesima Signora Antonia è stato veramente lodevole, e degno di lei, e posso dirle, che tutti li suoi Amici, che qui sono molti l’hanno sentito con piacer sommo». Il 18 marzo Giovanardi Bufferli scrive a Bianchi: «Ho tutto il piacere di sentire, che la Signora Cavallucci sia destinata ad una recita in Spagna, dove gli auguro quella sorte, che per altro non incontrarono altre Donne romane colà capitate per servire a que Teatri troppo diversi dai nostri; se V. S. Ill.ma avesse occasione di scrivergli, si degni
di salutarla in mio nome». La notizia della recita in Spagna è certamente giunta a Giovanardi Bufferli dallo stesso Bianchi, a cui Antonia il 4 marzo ha fatto sapere che si era procurata la scrittura grazie alla Divina Provvidenza, al proprio padrone di casa ed al «compagno» che aveva cantato con lei a Venezia. In Spagna, sperava di «ritrovar persona che mi faccia del bene, senza che me lo rinfacci e da vicino, e da lontano». Il progetto naufraga per la morte del viceré, come la Cavallucci precisa a Planco due settimane dopo (18 marzo). A Bologna, Antonia fa visita a Laura Bentivoglio che era stata allieva di Bianchi a Rimini nel suo liceo privato. Laura Bentivoglio è cognata del vescovo di Rimini cardinale Giovanni Antonio Davìa, presso cui era stata relegata dal marito, Francesco Davìa, uomo dalla vita sregolata. Il suo ‘soggiorno’ in riva all’Adriatico durò dal 1722 al ’26, anno della rinunzia del vescovo alla sede. Con lei fu il figlio Giuseppe che, nato nel 1710, fece il suo tirocinio scolastico con Planco. Della permanenza a Rimini, Laura Bentivoglio non conservò un buon ricordo: «Il mal animo de Riminesi contro di me o per meglio dire contro al loro prossimo in generale, che per verità è tale; non mi giunge nuovo avendolo riconosciuto dal primo giorno, che la mala sorte qui mi portò», confidò a Bianchi il 29 settembre 1722. Anche se Laura Bentivoglio gode di privilegi sociali inaccessibili alla povera Antonia Cavallucci, le due donne sono accomunate da un analogo sentimento che sfocia nello stesso giudizio negativo verso la città in cui sono vissute. Il che dà un significato meno soggettivo (o capriccioso) allo sfogo dell’attrice: «Potrò ben dire di aver incontrata in questa Città di Rimino poca buona sorte…». Il vescovo Davìa nel 1715 aveva creato a Rimini un’«Accademia di scienze, e d’erudizione». Ne era stato segretario Giovanni Bianchi che vi aveva recitato quattro dissertazioni sulle Odi di Pindaro. Due anni dopo, nel novembre ’17, Planco iniziò a frequentare a Bologna la Facoltà di Medicina e Filosofia, laureandosi il 7 luglio 1719. Il successivo 19 ottobre l’Ateneo felsineo lo invitò a tenere un’orazione per l’inaugurazione dell’anno accademico. Il cardinal Davìa era stato allievo di Marcello Malpighi, maestro di Anatomia comparata e di Embriologia. Una certa affinità di studi scientifici lo legava a Bianchi che dopo la laurea ha stretto amicizia a Padova con
Giambattista Morgagni, fondatore dell’Anatomia patologica, e con Antonio Vallisnieri, sostenitore del metodo sperimentale di Galilei nell’arte medica. Nella propria autobiografia latina apparsa a Firenze nel 1742, Planco ricorda che a Rimini ha frequentato Laura Bentivoglio, «nobilissimam, doctissimamque feminam». Lei, da donna «sapientissima», è intervenuta in suo favore, sostenendo che i permessi per le autopsie dovevano essere richiesti soltanto al vescovo ed ai parenti del defunto, e non pure alla Sede Apostolica. (Dopo che nel ’26 il vescovo Davìa se ne va da Rimini, e che nell’anno successivo l’amico cardinal Legato di Romagna Cornelio Bentivoglio lascia la carica, per Bianchi comincia a farsi sentire la mancanza di così autorevoli protettori. La Curia cittadina prende a tormentarlo per la questione delle autopsie. Lo accusano di violata religione per la sezione dei cadaveri, il vicario lo censura e gli ingiunge di chiedere licenza direttamente a Roma.) A Laura, la devozione e l’amicizia nutrite verso Bianchi, non fanno velo quando il 26 febbraio 1752 gli scrive sulle visite che Antonia Cavallucci ha fatto presso la sua abitazione, senza poterla mai incontrare: «Da tutt’altri, che da un Grande Filosofo, quale è il Sig. Bianchi mi sarei aspettata una Raccomandazione per una Comica, o sia Cantatrice, [la] quale per due volte si portò da me […] senza ritrovarmi» (aveva la madre malata, ed il marito quasi moribondo). «Io poi che sono alienissima dei Teatri, e che questi sono per me Provincie incognite […] l’ò raccomandata al Generale Davìa mio cognato». Il primo marzo è la Cavallucci a narrare a Planco gli incontri avuti con Laura Davìa ed il generale, chiamandolo erroneamente cugino della signora: «Mio Padre. Ho ricevuta una cara vostra dalla quale sento, che desiderate di sapere, che accoglienze ho ricevute dalli Signori che sono stata per vostra bontà raccomandata; di già non saprete, che in altra mia vi scrissi le finezze che ricevei da cotesti Signori. Ma adesso li scrivo quelle, che ricevei dalla Ecc.ma Signora Laura Bentivoglio Davìa: sappiate adunque, che mi portai due volte dalla medesima dove era andata a messa, vi fui il doppo pranzo, e mi dissero le sue genti, che era restata fuori di casa a desinare, dove, che essendo io lontana dalla sua, e mia abitazione, a dir la verità mi recava un poco d’incomodo far quella strada inutilmente; siché risolvei tornarci dopo 3 giorni, e mi fu
detto, che ella dormiva. Per fine consegnai la lettera ad uno dei suoi servi, e vi tornai il dopo pranzo, dove mi riuscì di vederla e di baciarle le mani, ma la stessa non volle onorarmi del baciamano, ma cortesemente mi fece una carezza così nel viso, dopo mandò dall’Ecc.mo Signor General Davia suo cugino facendoli intendere, se voleva vedere la giovane da voi a lei raccomandata: e così facendomi sedere vicino a lei mi domandò varie cose. Come se era romana, se aveva marito, e simili, lo dire tutto. Con la mia da voi sperimentata modestia li rispondeva. Si esebì gentilmente la Dama in tutto ciò che ella poteva, e mi mandò per il suo bracciere dall’Em.mo suo cugino al quale veramente non digenera dall’esser suo, e della Dama, ancor lui si essebì in tutto, e per tutto. Abiamo discorso per qualche mezz’ora, e poi me ne partij tutta rispetto, o almeno mi lusingo che tale mi partissi». La lettera verbalizza l’amaro resoconto del nulla che la Cavallucci ha «ricevuto da cotesti Signori», nonostante le credenziali di Bianchi. Al quale Antonia chiede soltanto di essere creduta per la verità esposta nei suoi «mal scritti in materia d’ortografia»: «non mi sarei mai creduta, che doppo qualche tempo di servitù avuta con voi non abiate conosciuta la mia sincerità, e schiettezza di cose». «Per lo scriver poi correttamente», aggiunge, «io non ci faccio troppo mente perché ho altro da fare, pensando che non ho da salire in tribunale per difendere cause, ma bastami il farmi intendere». (Se poi sua madre scrive «più appuntato» di lei, «ciò aviene di aversi fatto scriver la lettera da quel giovane» che la condusse in casa di Laura Davìa.) Gli amici di Bianchi la menano per il naso: «Se non incontrava in Cesena il Curtini nostro Pantalone», sarei morta «di freddo, e di fame avendone da voi avuta la raccomandazione e l’assistenza» per un «barone» (certamente anch’egli «fottuto»), che non la trattò punto bene durante il viaggio, quello dell’allontamento da Rimini. A Bologna nessuno le fa da accompagnatore, tranne un amico del padrone di casa, che l’ha condotta dalla Signora Davìa. Senza dover «aspettare quella benedetta opera in musica» che le era stata promessa per poter lavorare, pensa di unirsi alla Compagnia dei Comici di Francesco Masgonieri (e della moglie «che mirabilmente esercita la professione di far lo echilibrio a meraviglia»), con l’incarico di «cantare gli intermezzi». Alla fine della lettera, il tono si raddolcisce con un gioco di parole sul
nome del medico riminese e del proprio marito: «il color bianco per me, è stato più fortunato che quello celeste, quale non mai me lo scorderò». «Averò per me prima Idio e poi il mio Giovanni Bianchi», gli scrive il 18 marzo, quando chiede scusa delle proprie sciocchezze e «male grazie» espresse nel messaggio precedente, e fa sapere di esser stata «dal Signor general Davia [il] quale procura per me per la fiera di Sinigaglia», dove ogni anno a luglio si danno appuntamento i librai del centro Italia. Ed il 22: a Bologna c’è una dama, Isabella Boni, la quale si vanta di essere protettrice delle «virtuose». Ad Antonia basterebbe che un «qualche cavaliero» facesse finta di raccomandarla alla dama, «che io all’ora averei campo di poterci andare, e raccomandarmi per qualche recita». A Ravenna, tra maggio e giugno, riesce ad ottenere una scrittura come cantante d’intermezzi: «spero in Dio di non far più la comica perché sono poco stimata. La musica, è più decorata, e virtuosa». Per sette anni continui il suo mestiere è stato quello di cantatrice: soltanto «per non fare la puttana mi è convenuto fare la comica».
3. L’infame sgualdrina Il giudizio di censura amabilmente inoltrato da Laura Davìa a Giovanni Bianchi («Da tutt’altri, che da un Grande Filosofo…») sull’accoglienza e la protezione dimostrate ad Antonia Cavallucci, ritorna con parole più libere in alcuni corrispondenti del medico riminese, dopo aver letto l’Arte comica, stampata nel marzo dello stesso 1752 a Venezia. Lodovico Coltellini, un avvocato cortonese che Giovanni Lami gratifica con i termini di birro e di spia, elogia lo scritto planchiano, ma ritiene inopportuno «lodare una bagasciuola, una puttanella dichiarata, che tali sono generalmente queste contrabbandiere, che millantano il nome di virtuose» del bel canto, e che appartengono ad una «razza di Donne» di cui si dovrebbe «dir male» nelle composizioni, «e dir loro molto bene in Camera». Bianchi ha profanato l’«illustre Accademia», «con quella sua Druda Cantatrice, a cui poteva contentarsi di fare soltanto da Maestro di Cappella»; e si è «fatto coglionare addirittura» per una donna che meritava soltanto d’«esser mandata a far dei Bambini». Non meno severo il teatino padre Paolo Paciaudi: la Cavallucci è un’«infame sgualdrina» e «cortigiana svergognata». Giovanni Lami l’aveva chiamata alla francese una «figlia di gioia», ancor prima che la fanciulla apparisse nell’adunanza dei Lincei, quando si era rallegrato per le «galanti occupazioni» di Planco, impegnato (chissà da chi) a far da protettore alla fanciulla. Bianchi non gradisce le allusioni del collega fiorentino, da cui sarà deriso anche successivamente (sei anni dopo!), al punto di sentirsi dire che i reumatismi dei quali soffriva gli erano stati «attaccati» dalla Cavallucci. La pubblicazione dell’Arte comica costringe il padre domenicano Daniele Concina («violento e torrentizio teologo», secondo Franco Venturi), a fermare i torchi dai quali stavano uscendo le pagine di un suo trattato, De spectaculis theatralibus, per comporre un’isterica pagina sul medico riminese: lo accusa di aver scritto da pazzo il discorso di Carnovale ai Lincei. Padre Concina bolla come leziosa puttanella («putidula meretricula») Antonia Cavallucci, al pari di tutte le sue colleghe. Attrici, cantanti e saltatrici, sostiene il domenicano, rovinano le famiglie nobili, irretendo i loro giovani rampolli, i quali sperperano
per tali donnacce il patrimonio economico, la salute del corpo e quella dell’anima. Più delicato il bolognese «monsignor» Giuseppe Pozzi, archiatro pontificio straordinario di papa Lambertini e presidente dell’Accademia dell’Istituto delle Scienze della sua città: «Ho letto l’orazion vostra, e ad altri Amici l’ho comunicata. Tutti concludono che facendola eravate innamorato, ma parimenti tutti conchiudono, che siete un valent’uomo, e benche l’Amore nella vostra e nella mia età non possa fare che un nido assai disagiato, pure merita compatimento, quando ne escono pulcini sì ben covati […]». Pozzi, essendo nato nel 1697, era di poco più giovane di Bianchi. Aveva diritto al titolo di «monsignore», come avverrà anche a Planco, per la carica di archiatro la quale non obbligava al celibato (le biografie ne ricordano i due matrimoni). Bianchi smentisce fermamente la teoria dell’innamoramento. Pozzi gli risponde: «Che voi foste innamorato, o no della Cavallucci non avete a rendermene raggione, e qual sia stato l’impegno vostro non cerco, non intendo che vi confessiate ora de’ peccati vostri. Unicamente, io alla buona vi dico che avete gitato il tempo, che è meglio assai né impegnarsi né per maschij né per femmine». Non esiste alcuno scritto autobiografico sulle sollecitazioni sentimentali o sulle urgenze sessuali di Planco che visse sempre solitario, afflitto per tutta la vita da continui problemi famigliari, compresa la follia di un fratello. Gli storici della Medicina raccontano la sua particolare passione nel collezionare imeni, tra cui troviamo quello «bellissimo» di Catterina Vizzani. Costei era stata costretta a fuggire di casa a Roma, e peregrinare per l’Italia, a causa del suo amore per una tal Margherita. Volendo obbedire all’istinto, e scansare altri guai, Catterina assume panni maschili, e si fa chiamare Giovanni Bordoni. Ha la sfortuna di sedurre e rapire la nipote di un pievano che si vendica con l’archibugiata fatale di un sicario. In compenso, la scoperta anatomica del suo essere vergine, le crea presso alcuni religiosi un’aureola da santa «per aver serbato con tanta costanza» la propria castità. Catterina Vizzani è protagonista di un breve scritto di Planco del 1744. Gli appetiti d’Amore, egli osserva, spesso sono «strani veramente e incredibili oltremodo», al punto che non conoscono ostacoli o condizionamenti pur di
«giugnere in fine al possedimento della disiata cosa». Commentando che ciò non deve destar meraviglia, Bianchi dimostra di considerare lecito ogni comportamento erotico, compreso quello della giovane romana, seguace di Saffo e delle altre «Donzelle di Lesbo», in contrasto con i dettami morali della Religione.
4. Li spasemi e rancori La campagna di diffamazione promossa dal vescovo di Rimini contro Bianchi, coinvolge pure la Cavallucci, perseguitata prima a Bologna e poi a Ravenna, dove si trasferisce all’inizio di maggio (il viaggio dura quattro giorni «perché le strade erano cattive»). Antonia precipita nella miseria più umiliante: «mi raccomando a lei per pietà fate da quello che siete e da quello che siete stato, aiutatemi per l’amor di Dio: lo domando per carità e baciandole di nuovo le mani unita alla Signora Madre» (22 marzo); «e pure mi prometeste in Rimino, che qualche volta mi avereste soccorso di qualche carità, e questo lo potreste ancor fare», scrive il 12 aprile bussando a soldi: «in virtù della mia fedeltà, e dell’amore che mi avete portato ve li domando, fate conto di dar tante messe alle anime del Purgatorio, ed io pregharò Idio per la di lei salute». Gli amici bolognesi di Bianchi sembrano divertirsi con questa ragazza, inesperta dei più riposti aspetti del galateo sociale, e paiono prenderla in giro con le loro formalità aristocratiche: «sabato dall’8 del corrente», spiega sempre il 12 aprile, «ebbi un biglietto dal Signor Pozzi nel quale mi dice, che lei li scrive di non so che lettera per il Sig. Mario Spada, ed io, che non intendevo il carattere suo li risposi, che si fosse degniato venire in mia casa, che celaverei detto perché se volevo scrivere il mio sentimento nel biglietto la cosa sarebbe stata lunga. Dove mandatogli la risposta del suo biglietto non ho visto né lui né altri: lui mi scrive nelle sue, che andassi dallo stesso già che lui non vuol venir da me, ma io li rispondo, che lui ha una sua donna in casa per la qual cosa io non mi attento d’andarci, tanto più che questo signore vi lasciò detto, che io volevo far l’amore con lui, se pure questo sia vero: perché avendo io domandato, a persona, che lo conosceva perché lui non sia venuto più, mi rispose, che non voleva più venire perché io voleva fare l’innamorata seco, dove dalla sua mancanza mi figuro che sia vero quello che mi fu detto: lascio a lei considerare se questa cosa ha del ragionevole». L’ansia di liberarsi da accuse e sospetti affastella le frasi, produce un testo sconnesso. Antonia confida tutta la sua elementare inadeguatezza ad escogitare strumenti diversi da quelli di una naturale capacità di sedurre. I giochi raffinati, che abili e spregiudicati uomini di mondo le creano intorno, sono una specie di tela di ragno da cui è inevitabilmente catturata la piccola mosca, accecata dai
bagliori salottieri. Tutto il suo discorso si riduce a difendersi da quell’imputazione di voler «far l’amore», che non sembra nemmeno indignarla, tanto è pratica comune vedere lei, sola e povera, semplicemente come infimo strumento per appagare un desiderio. Le donne sue pari hanno l’ironica e buona sorte di ottenere addirittura pagamento per quello che invece concedono gratis ai loro amanti le più fortunate, accasatesi con matrimoni combinati, dopo aver anzi portato loro un premio al marito, come richiedeva a quei tempi l’usanza della dote. Però l’infamia pubblica si abbatte soltanto su queste disgraziate. Alle altre peccatrici, nessuna condanna sociale, soltanto sorrisi di complici silenzi da parte di una folta schiera di Giovin Signori che, come nel carme pariniano, indossano la stupidità con la stessa grazia con cui si muovono nelle sale dove «si ministran bevande ozio e novelle». Da Ravenna qualcuno informa Bianchi che la casa della ragazza è bazzicata da troppi giovani. «Non mi mortifichi più con questi abatini e zerbinotti», sbotta Antonia, dopo aver smentito i presunti incontri amorosi: sono tutte storie inventate da un «contrario» di Planco che lui ben conosce. I pochi amici che la frequentano, sono gente perbene e si comportano «con tutta proprietà e cortesia». E’ una lettera dura (gliene chiederà scusa), questa del 31 maggio: «io poi non pretendo che lei proseguisca altro impegno per me, e sappiate che di già l’ho capito da un pezzo, che lei ha finito questo suo caritatevole impegno né più lo voglio né lo pretenderò già mai in vita mia, ma li fo sapere che questo suo impegno di già tutti lo sanno, e sanno come lo so ancor io che ora è finito». Il 4 marzo Antonia si era lasciata andare ad una confessione amara, tra rimpianti e delusione: «Se le vostre finezze le vendete a prezzo di rimproveri e di lagrime, vi dico che potete fare a meno di farmele: io per me non so capire la vostra intenzione e il vostro umore, o vero, che io sono volubile, ma voi scusatemi, non mi conosciete né alla digiuna, né alla satolla; mi meraviglio di voi, che trattate così con me dopo avermi mostrato tanto parziale e favorevole, starei per dire che mostrate tutte finzioni. Come? Scriverei delle lepidezze quale so che vi piacciono e che questo era per lo più il nostro trattenimento. Adesso volete che vi scriva con rispetto, che scriva appartato, e che sono ingrata se vi domando altro, o se pretendo altro».
Infine la stoccata più dolorosa, sia per lei come vittima di riflesso, sia per Planco quale causa diretta: «godeva la mia quiete, e doppo che vi conobbi non ebbi un’ora di pace, che è vero, che mi avete regalata… ma so io li spasemi, e rancori che provava solo nel vedervi: perdonate: io questo non voleva scriverlo, ma voi mi mortificate senza motivo. Egli è di bene che ancor io vi dica la verità». «Mostrate tutte finzioni», abbiamo letto. Detta da un’attrice comica, è una bella battuta, a renderci consapevoli che nella commedia della vita manca sempre un copione, seguendo il quale non ci si comporterebbe nel modo che Antonia rimprovera a Bianchi. La giovane ha del temperamento. Il dottore lo sa, ma ora non può perdersi in ciance. D’improvviso è tornato al suo ruolo di severo pedagogo, dimentica di esser stato un cavalier servente forse ingenuamente adorabile, e financo troppo arrendevole. Deve seguire le vicende dell’Arte comica. Non c’è tempo per le bizzarrie di una donna. Di una ragazza. Di un’attricetta, infine. (Che male c’è nell’ipotizzare che anche Planco partecipasse dei pregiudizi più comuni dei contemporanei?) Il suo discorso di Carnovale gira in fretta l’Italia, fino a che approda a Roma, alla Sacra Congregazione dell’Indice dei libri proibiti. Planco scopre così esser corrispondente al vero (o, per meglio dire, a ciò che tale crediamo essere), una frase della lettera inviatagli dalla Cavallucci il 4 marzo. Prima di scrivergli che anche lui, benché potesse esserle nonno, aveva più bisogno di lei di correzioni, aveva commentato: «Mi dispiace, che nessuno è padrone di se stesso». Qualcun altro ci giudica sempre. A torto o a ragione. Sopra il capo innocente di Giovanni Bianchi s’addensano minacciose le ombre di un processo strano, ed insolito nella sua procedura. Padre Concina non ha tuonato invano contro di lui.
5. La Chiesa ed i Commedianti Gli ecclesiastici rubano il mestiere a Planco. Eseguono una specie di cartacea dissezione anatomica ai suoi danni, seguendo un percorso inquisitorio intessuto di rancori e spirito di vendetta. Attraverso un libello, esaminano un uomo vivo, con il sadismo infantile di chi tortura il corpo indifeso di lucertola, nella speranza di annientarla. Quell’uomo è soprattutto le sue idee. Basta colpire queste, per distruggere l’altro. Non è una procedura inedita: Bruno, Campanella, Galileo, fatte le debite proporzioni, ricordano qualcosa, ed insegnano pure che, se un caso è un’eccezione, due formano già una consuetudine. Per fortuna, questa volta, trattandosi soltanto dell’Arte comica, sembra che il titolo abbia avvolto di sé l’intera vicenda, allontanando esiti drammatici. Nella sua dissertazione, Planco s’avventura in un terreno pericoloso. Non gli interessa tracciare soltanto il profilo storico dell’arte teatrale, sottolineandone l’utilità. Vuole con elegante sottigliezza (più giuridica che letteraria), rimettere in discussione il trattamento riservato dalla Chiesa agli «istrioni», che in Francia erano ancora privati dalle leggi canoniche «fino de’ Sagramenti, e dell’Ecclesiastica Sepoltura». Bianchi precisa: le leggi civili non si riferiscono agli attori «in genere», ma a quelli che si esibiscono in «alcuni crudeli, e osceni spettacoli, e specialmente de’ Gladiatori, e de’ Mimi, o Pantomimi» (i quali ricorrono ad «oscenità» nei loro «sozzi atteggiamenti»), per cui meritatamente sono puniti essi, e «scomunicati» quanti vanno a vederli. Tutt’altra cosa, aggiunge, appaiono «quegl’Istrioni, o Commedianti» i quali rappresentano «Tragedie, o Commedie oneste più atte a correggere piacevolmente il vizio, che ad eccitare spirito di crudeltà, o di libidine nelle persone». Ma la Chiesa se la prende anche con loro. Bianchi cita san Tommaso, il quale ritiene che «l’Officio dell’Arte degli istrioni […] è ordinato per sollevar l’animo degli uomini, e che coloro che l’esercitano dentro de’ debiti modi, non sono mai in istato alcuno di peccato; e che a loro si conviene una giusta mercede per le loro fatiche». E si domanda: se la Chiesa permette la lettura delle commedie di Plauto e Terenzio, allora non si dovrebbe permettere anche la loro rappresentazione? Perché debbono essere considerati «infami» quei comici che «le rappresentano venalmente», mentre «diventano onesti quei
che le rappresentano gratis»? Da queste idee nasce il vero scandalo che avvolge la radunanza accademica di Carnovale, non dall’esibizione di Antonia Cavallucci. Padre Concina le esamina minuziosamente, e con durezza le censura nel suo De spectaculis. Planco considererà padre Concina il vero ed unico responsabile della sua condanna: «Il mio Discorso dell’Arte comica fu proibito, seppure è tale, per gli schiamazzi de Giansenisti d’Italia, giacche l’Esaminatore fece alla Congregazione dell’Indice una relazione favorevole di detto Discorso, ma Concina stampò contro d’esso Discorso». E’ una lettera inedita di Bianchi, scritta dieci anni dopo (1762) ad un suo ex allievo, Pietro Godenti allora a Ginevra. Le cose erano andate diversamente. La colpa non fu dei Giansenisti, né ad essi apparteneva Concina, anche se esisteva un’opinione diffusa in tal senso. (Circa il problema del Giansenismo, mentre nell’Arte comica si schiera dalla parte dei Gesuiti, nella sua scuola privata Bianchi fu avverso a questi ultimi, dichiarandosi «nimico sempre del Probabilismo», anche se non approfondisce mai il tema di questa nuova corrente teologica.) Sostenendo retoricamente la nobiltà dell’arte comica, Bianchi finisce per proclamare in modo non troppo sottinteso il bisogno di libertà per la cultura in genere, e non soltanto per commedianti od attricette in particolare. E’ quella stessa libertà che fa paura a padre Concina, il quale immagina che il discorso planchiano possa essere golosamente divorato da giovanetti e damigelle, portandoli così sulla strada della perdizione. A Planco non interessa proporre una riforma del teatro comico come invece, molto prima di lui, aveva fatto Muratori, preoccupato per ragioni di ordine morale del fatto che la scena fosse finita «in mano a gente ignorante» la quale poneva «tutta la sua cura in far ridere», ricorrendo ad un genere letterario consistente «non poca parte […] in atti buffoneschi e in sconci intrecci, anzi viluppi di azioni ridicole, in cui non troviamo un briciolo di quel verisimile che è tanto necessario alla favola». Bianchi rovescia l’impostazione muratoriana, di cui ignora le finalità: non vuole un teatro nuovo, ma semplicemente la licenza di rappresentare quello antico, del quale non mette in discussione nulla, consapevole della grandezza letteraria dei suoi autori preferiti, come Plauto e Terenzio.
6. Il decreto I fulmini dell’Indice si abbattono su Bianchi il 4 luglio 1752. Possiamo ricostruire tutti i particolari della vicenda, attraverso le lettere che Giuseppe Garampi e Planco si scambiano, ed altre epistole di corrispondenti romani di Bianchi. L’Arte comica è stampata in marzo, come abbiamo già visto, ed immediatamente a Roma se ne parla male. Garampi confida a Planco di prevedere che l’opera «potrà incontrare presso varie persone qualche eccezione». I punti controversi sono due: «quello ch’ella dice della onoratezza dell’arte comica presso i Romani; giacché abbiamo gli antichi Giuristi, che l’annoverano fra’ le infami […]». Ed «il vedere, ch’ella contrapponga all’osservanza che praticano i Francesi delle Canoniche Leggi, quanto si fà dalla Chiesa protestante d’Inghilterra». Bianchi nel Discorso [pp. 18-19] sostiene che «l’invitta e gloriosa Nazion Britannica non ha avuto difficoltà di fare seppellire solennemente in Londra nella cattedrale di Westimster, Chiesa, dove si coronano, e dove si sepelliscono i loro Re, la valorosa e ricchissima non men che bella loro Attrice Madamigella d’Oldfield, rendendole in morte per poco i medesimi onori, che poc’anzi renduti aveano all’immortale loro Filosofo Newton». Per Padre Concina, la Madamigella d’Oldfield era una «meretricula» al pari della Cavallucci. Il 20 maggio l’abate Costantino Ruggeri avvisa Planco: «mi dispiace che qui in Roma i vostri nemici ne hanno fatto un chiasso straordinario per quel paragone che voi fate fra il rigorismo, come voi dite, della Chiesa di Francia, colla generosità di quella d’Inghilterra nel dar sepoltura magnifica a quella loro famosa Attrice. Veramente la cosa è un poco avanzata, né dovevate voi far questo paragone fra la Chiesa Anglicana Eretica e la Gallicana Cattolica. […] Insomma hanno fatto un baccano grandissimo per tutta Roma in tutti i ceti e ranghi di persone; e vi è stato chi ha detto di denunciarvi al S. Uffizio. Queste cose mi sono dispiaciute in etterno, ed ho fatto, e fò quanto posso per difendervi con dire che questa [è] una cosa fatta in Carnovale, onde non merita tanta dote. Voi sapete che jo vi sono buon e leale amico, e che ho stima infinita de’ fatti vostri; e perciò mi sono indotto a scrivervi tutto questo per vostra Regola». Ruggeri suggerisce, nel caso di ristampa dell’operetta, di «togliere
quel paragone de’ Franzesi, e degl’Inglesi, che non fà buon suono». L’8 luglio Garampi comunica: «Con mio sommo dispiacere seppi ieri l’altro, che nell’ultima Congregazione dell’Indice, essendo stata riferita la di lei Orazione in lode dell’arte comica, ne fosse da’ Cardinali e Consultori variamente parlato, e che finalmente s’indussero a proibirla. Questa proibizione, benché nulla offenda l’erudizione e la sostanza dell’argomento, ma piuttosto paja cagionata da una cautela di Ecclesiastica economia, nulladimeno, se ne avessi avuto qualche sentore, si poteva facilmente riparare con esibirsi di meglio dichiarare que’ sentimenti, che fossero stati censurati, ò di farne una nuova edizione più corretta. Ma la cosa è stata improvvisa, né io l’ho penetrata, se non dopo fatta già la Congregazione». La cosa è stata «improvvisa». Questa notizia fondamentale, il bravo discepolo Garampi la inserisce per ultima, nel crescendo delle argomentazioni, ma anche con il distacco che preannuncia in lui lo spirito del grande diplomatico che sarà, in tutta Europa ed in particolare presso la corte di Giuseppe II d’Austria, il nemico di Roma. Bianchi risponde a Garampi il 13 luglio di saper già tutto, perché lo ha informato l’abate Garatoni con lettera del 5, dove leggiamo: «Nell’atto, che stò per chiudere questa mia mi avvisa l’Abate Ruggieri, che ieri mattina dalla Congregazione dell’Indice fu proibito il vostro discorso sopra l’arte comica. Sentiremo in appresso il perché». Planco spiega a Garampi quel 13 luglio: «Veramente ancor io sarei stato prontissimo di far una Dichiarazione, o di far una nuova Edizione dell’Operetta togliendo via que’ sentimenti, che non piacessero, e di quest’ultimo me n’ero espresso anche col signor Abate Ruggieri; ma ad un Giudizio fatto così alla sordina, cioè indicta caussa, o inaudita parte come dicono; non si può por riparo. Se Ella credesse bene mandar un Memoriale a Nostro Signore, o alla medesima S. Congregazione dell’Indice a mio nome, dicendo che io son pronto a far una Dichiarazione de’ sentimenti censurati, o di fare una nuova edizione costì corretta, per impedire che non si pubblichi ora codesto Decreto di Proibizione, o almeno che si moderi con il donec corrigatur mi farebbe un molto favore».
7. Con sommo rigore Il 15 luglio Garatoni illustra a Bianchi «il perché sia stato proibito il vostro discorso sopra l’arte comica»: «principalmente, per essere stato scritto in italiana favella, dicendosi che in tal guisa s’insinuano negli animi di taluni più facilmente alcune massime le quali pareano un po’ troppo avvanzate». L’ abate lucchese Monsecrati dell’Ordine degli Scopettini (canonici del SS. Salvatore) fu costretto controvoglia ad accusare Planco, ma «nella Congregazione dell’Indice trattò da Galantuomo, perché mostrò, che» l’Arte comica «non meritava tanta severità». Il suo atteggiamento «non giovò per il riflesso dettovi di sopra», cioè per esser stato il discorso «scritto in italiana favella». Garampi il 25 luglio precisa a Bianchi: il Padre Reverendissimo Tommaso Agostino Ricchini, segretario dell’Indice, «si protesta di essere stato necessitato a fare riferire in Congregazione la di lei Orazione, per replicate istanze di Prelati e persone, che dic’Egli di distinzione». E «crede di non poterle suggerire nelle presenti circostanze migliore partito, che quello di scrivere una lettera di sommissione a Nostro Signore, assoggettandosi e riconoscendo la giustizia della censura, e supplicandolo a non volere almeno, che detta proibizione sia pubblicata nel Decreto, o che non vi comparisca il di lei nome; e ciò a fine di non soggiacere a qualche impertinenza de’ suoi malevoli». Si è avuta una gran fretta che rivela l’attenzione particolare rivolta al caso riminese: «Veramente questa proibizione non dovea farsi nella passata Congregazione, e giacché per l’ordinario si fa riferire il libro censurato in due o tre Congregazioni. Ma sento, che alla relazione allora fatta insorgessero varj Cardinali, acciò il libro fosse proibito, avendone fatta gran specie quel contrapposto della Chiesa Gallicana e Inglese, e quella lunga apostrofe alla Comediante. Ma de hoc satis, giacché io di una simil cosa carnevalesca, non pare che se ne dovesse fare tanto caso». Il 3 agosto Bianchi invia a Garampi una risposta improntata a scetticismo: circa il suggerimento del padre Ricchini di «scrivere una lettera di sommissione» al papa, scrive, «io non so, se con ciò si ottenesse niente, perché da quello che ella mi scrive vedo che ci è stato molto impegno contro del mio Discorso, pel quale senza sentir ragioni si volle ad ogni costo proscritto. Chi ha quest’impegno per
sostentarlo inquieterebbe Nostro Signore e me, onde è meglio a dargliela vinta per non dar occasione d’inquietarsi maggiormente. Se poi qualche mio malevolo scriverà una qualche impertinenza, la trascurerò, come tant’altre». Planco sottolinea che con lui «s’è proceduto con un sommo rigore per una cosa finalmente che è stata stampata in una Città Cattolica con tutte le Licenze de’ Superiori, e che viene generalmente lodata da tutti i Letterati», mentre si lasciano «poi correre liberamente tante impertinenze stampate alla macchia» contro la sua persona, «e il più con nomi finti». «Io veramente», prosegue, «come scrissi al Signor Abate Ruggieri avea intenzione di far ristampare quel mio discorso togliendoli via l’esempio di quella Oldfield, e mettendoci in suo luogo quello d’Isabella Andreini detta la Comica gelosa, che fu onorata in Francia, come grande Dama, e che fu sepolta in Lione solennemente con un epitaffio in bronzo; benché io in quel luogo non faccia alcuna comparazione tra Chiesa, e Chiesa, ma solamente tra Nazione, e Nazione, e poco dopo io soggiunga, ma la nostra Santa Chiesa Cattolica etc., con ché vengo a dire che non sono cattolici, ma eretici gl’Inglesi. Benché non tutte le cose che fanno, e che dicono gli Eretici siano Eresie, come si vede in questa cosa, dove convengono gl’Inglesi con noi, perché anche in Roma si seppelliscono in Chiesa i Comici. Così io volea tor via a quel mio Discorso quell’Apostrofe a quella Comica per miei privati riguardi, ma se io ce l’avessi lasciata non vedo, come quell’Apostrofe avesse meritata proibizione alcuna». Planco va diretto al cuore del problema: «Ché io riconosco maggiormente lo spirito d’impegno, che costì s’ha avuto codesta proibizione, il quale spirito d’impegno peravventura sarà stato fomentato di qua da chi ora non può più per sé stesso fomentarlo, essendo passato tra i più, forse mandatoci prima del tempo da chi egli si serviva per consiglieri nelle sue ingiustizie, e violenze. Io veramente ancora dopo l’ultimo dì di Carnovale non voleva parlar più di queste cose, ma sono stato costretto a parlarne, giacché la persecuzione dura ancora, né la morte l’ha potuta far cessare». Quel personaggio «passato tra i più» che lo ha trascinato davanti al Sant’Ufficio, è il vescovo di Rimini Alessandro Guiccioli, scomparso appunto da poco, l’8 maggio. Non è un’ipotesi, ma una certezza, quella di Bianchi, confermata dai vari accenni che abbiamo già letto
in Garampi circa le «replicate istanze di Prelati e persone, […] di distinzione»; ed in Giovanardi Bufferli, a proposito delle «illustrissime, e Reverendissime insolenze» e del ruolo avuto dallo stesso vescovo Guiccioli nel diffonderle in Roma contro Bianchi, denunciando la «sua stravaganza in proposito della Signora Antonia Cavallucci». Il 12 agosto c’è un’importante puntualizzazione di Garampi: la condanna del libro è venuta «unicamente per certa ammirazione, che ha data alle pie orecchie, la semplice lettura di alcune poche espressioni o periodi. Almeno così mi pare di avere ricavato da varj soggetti della Congregazione».
8. La supplica Il 17 agosto Planco spedisce a Garampi la supplica da «presentare, o far presentare» al papa «da persona a lui grata per vedere, se si può ottenere la grazia», aggiungendo: «Io mi credeva veramente che ci fosse stato dell’impegno per far quella Proibizione; giacché il Signor Avvocato Garatoni m’avea scritto che benché un Padre Abate Scoppettino [è il ricordato abate Monsecrati], cui era stato commesso d’esaminare l’Operetta ne avesse data buona Relazione, tanto l’aveano voluta proibire; così ella m’avea scritto che era stata proibita, come improvvisamente, e senza riferirla più volte, come è solito a farsi quando si tratta di fare una proibizione. Se solamente per la Lettura d’alcune poche espressioni, o periodi l’hanno proibita, se io fossi stato avvisato con un Carticino, o due che si fossero fatti si sarebbe potuto rimediare a tutto». Il 31 agosto Planco, come risulta dal registro della sua corrispondenza, scrive direttamente a papa Benedetto XIV, con il quale vantava un’antica amicizia. E’ forse l’epistola «di sommissione» suggeritagli dal segretario dell’Indice. Il 10 settembre Bianchi conferma a Garampi che la sua lettera è stata presentata al papa «il quale mi ha fatto rispondere, che egli vedrà di fare quanto io disidero almeno per la seconda parte». Questa «seconda parte» riguarda, come vedremo tra poco, la supplica a render nota la condanna all’Indice senza il suo nome. (Forse nella prima parte Planco espose quanto già dichiarato il 13 luglio a Garampi, cioè la sua disponibilità a ritrattare i «sentimenti censurati», oppure a stampare «una nuova edizione» corretta dell’Arte comica, allo scopo di non far pubblicare il «Decreto di Proibizione».) Il papa, aggiunge Bianchi, ha poi promesso «che con quest’altro spaccio avrà la degnazione di rispondermi». Planco ha ricevuto notizie tramite monsignor Marcantonio Laurenti, che il 6 settembre gli ha comunicato: dal pontefice «ho avuta commissione di scriverLe, che sà essere vero il decreto già emanato dalla Congregazione dell’Indice, e però non può impedire, che la cosa, che è già di fatto, non lo sia, ma che dirà, che quando questo Decreto dovrà propallarsi, si taccia in esso il nome di lei, come autore e lo che, dice il Papa, è almeno desiderato, e chiesto da esso Lei: mi ha poi soggiunto, che
giovedì prossimo parlarà col Commissario e Segretario del S. Offizio, e che indi responderà alla suddetta Sua; e per me prendo la lusinga che Nostro Signore farà il fattibile per indennizzare la di Lei estimazione, e decoro». Il pontefice non mantiene la promessa, e mai scriverà a Bianchi. Il 16 settembre Laurenti osserva: «Circa l’affare non ne hò più sentito parlare, e perché sò che il Papa quando hà detto di fare una cosa, non si scorda di farla, perciò mi lusingo, che già abbia parlato, e forse forse, che abbiale scritto in risposta alla sua da me già presentatale: ma di questi passi a me non è lecito per ora di interrogarlo se pure li ha fatti, o no: bisogna trovare le opportunità di parlarne, le quali talvolta mi riescono facili, e pronte, e tall’altra nò. In ogni modo Le predìco che non andarà male». Il 21 ottobre Laurenti aggiunge: «Questa mattina ho potuto parlare a Monsignor Guglielmi Assessore del S. Offizio; e lo ho interrogato se sà cosa divenisse nella Congregazione di certa dissertazione accademica detta e stampata dal dott. Bianchi di Forlì [sic!] in lode de Comici, e Ballarini; egli subito mi ha risposto che ben si ricorda, che fu questa proscritta, e che passò al Segretario dell’Indice, il quale poi la fà stampare nel libro de libri proibiti, cioè aggiungere ai già proibiti: ma mi assicurò che tali piccole cose non si proibiscono pubblicamente e con strepito con cedole, che si attaccano per la Città, e come dicesi ad Valuas: e mi soggiunse che ne parlerebbe col Segretario dell’Indice Padre Recchini [recte, Ricchini], che presentemente è fuori di Roma, accioche accennasse l’operetta, ma non l’autore: ed essendo questo Padre mio favorevole, lo pregarò similmente anch’io, subito che tornerà in Città: tutto ciò potrebbe avere già fatto il Papa medesimo e allora me ne chiarirò». Il 25 novembre Laurenti informa Bianchi sull’esito della vicenda: «Nostro Signore memore della lettera scrittagli tempo fa da V. S. Ill.ma avant’ieri mi disse, che aveva avuta opportunità di vedere, e parlare al Padre Segretario dell’Indice, e inteso da questo che di fatto era emanato il decreto proibitivo della consaputa sua operetta, e che il già registrato non potevasi avere per non registrato, e che in seguito bisognava o presto o tardi stampare in un foglio, o in un libro ed allora il Papa gli ordinò che se pure era proscritta la dissertazione, non se le aggiungesse il nome dell’autore, cioè di Lei, e così certamente avverrà: e di questo, mi soggiunse il Papa, ne
darete contezza al Signor Bianchi, che servirà per mia risposta alla di lui lettera con cui appunto mi pregava che almeno non fosse enunciato pubblicamente il suo nome: nell’eseguire questo sovrano comando, mi dò l’onore di riverirla […]». Il 29 novembre Garampi conferma che il papa ha concesso a Bianchi di «tacere» il di lui «nome nella pubblicazione, che si farà in breve del consaputo decreto della Congregazione dell’Indice». Infatti, il decreto e il successivo Index del 1758 recano soltanto il titolo dello scritto planchiano, Discorso (in lode dell’Arte Comica), e non pure le generalità dell’autore. Ma Bianchi, come lui stesso spiega a Garampi il 3 dicembre, vorrebbe pure che la sua «Operetta» non «fosse esposta in quegl’Indici, che s’affiggono». Garampi il 16 dicembre gli risponde: «Il Padre Secretario dell’Indice […] mi dice di non aver arbitrio alcuno per poterla servire in quello ch’Ella gli richiede, senza un nuovo beneplacito del Papa. Non sarebbe male ch’Ella scrivesse a Nostro Signore una lettera di ringraziamento per l’ordine già dato, affinché si taccia il di lei nome, e quando ella pensasse di chiedergli nello stesso tempo questa nuova grazia, ella faccia quel che stimerà più opportuno». In questa epistola di Garampi leggiamo anche: «Si è veduto un manifesto, e credo anche i primi due tomi di una nuova Enciclopedia, lavorata da vari grand’Uomini di Francia, e si suppone non solo la migliore di questa classe di libri zibaldonarj, ma un capo d’opera relativamente a ogni scienza e arte». Bianchi è già informato, come ricaviamo dalla sua risposta del 21 dicembre: «Quella tale Enciclopedia, della quale mi parla sono de’ mesi, e forse più d’un anno, che in Francia, cioè in Parigi, cominciò ad uscire, ma incontrò degli intoppi, onde furono soppressi, o almeno sospesi i due primi Tomi, giacché v’erano molte Proposizioni ardite. Adesso forse l’avranno corretta con metterci de’ Carticini, o con mutarci i fogli, dove sono quelle Proposizioni ardite, e facendo che i Tomi, che sono per uscire, escano tutti gastigati, e corretti». Lo stesso 21 dicembre Bianchi confida a Garampi che non gli «dispiace il pensiero» di scrivere «a dirittura» al papa «ringraziandolo, e pregandolo dell’altro favore», ma di non avere, quel giorno, tempo di comporre la lettera. Di questa lettera non si parla più tra Bianchi e Garampi: è facile immaginare che Planco non l’abbia voluta scrivere. Forse
per superbia ed arroganza, secondo l’immagine convenzionale che di lui è stata accreditata. Probabilmente per non subire nuove umiliazioni da un ambiente che gli si era rivelato ostile aldilà di ogni limite ragionevole, e nel quale aveva potuto sperimentare gli effetti concreti delle invidie altrui e delle censure verso le proprie idee. Tra le carte planchiane esiste un inedito sonetto che ha per protagonista papa Benedetto XIV. Non sappiamo nulla sul suo autore, né se esso abbia relazione con la sua condanna all’Indice, ma soltanto che la grafia è sicuramente di Bianchi: Ma cazzo! Santo Padre ogni ordinario ci vengono nuovi guai, nuovi pericoli, e voi posate quieto il tafanario grattandovi i santissimi testicoli. Ci vuol altro che aggiungere al Bollario Chiose, Brevi, Paragrafi ed Articoli e studiar la riforma del Breviario per fare i Santi Grandi uguali a Piccoli. Tutto ciò Padre mio non vale un pavolo e forse voi le chiamereste Buggere in altri tempi, e vi dareste al Diavolo. Or mentre ce ne andiamo in precipizio Voi coglionando ci lasciate struggere per Dio, che ci venite in quel servizio.
9. L’elogio fattogli da Voltaire Il discorso sull’Arte comica ha limiti evidenti, determinabili in quella stessa struttura che ne costituisce nel contempo la cornice di originalità: Bianchi parte da un’esposizione convenzionale ed erudita, per approdare ad un risultato del tutto inatteso rispetto alle premesse. In questa conclusione c’è una forza innovativa in cui possiamo forse rintracciare echi delle esperienze giovanili compiute nella Bologna dove, a partire dal 1718, aveva operato Pier Jacopo Martello, che lo stesso Bianchi ricordava tra i suoi amici. (A Martello, secondo Walter Binni, si deve la proposta di «una forma di commedia per letterati […] fondata chiaramente su temi letterari anche se indirettamente facendovi rifluire elementi di vita e costume del tempo».) La dissertazione procura a Bianchi un messaggio ben più significativo della stessa condanna, recante la firma di Voltaire: «Vous avez prononcé, Monsieur, l’eloge de l’art dramatique, et je suis tenté de prononcer le votre». Comincia così una lunga lettera che contiene la difesa del teatro e della sua funzione: «Je regardai cet art dés mon enfance comme la premier de tous ceux à qui ce mot de beau est attaché. […] Je voi avec plaisir que dans l’Italie cette mére de tous les beaux arts, plusieurs personnes de la premiére consideration, non seulement font des Tragédies et des Comédie, mais les representent. […] Y a t’il une meilleur éducation que de faire jouer Auguste à un jeune prince, et Emilie à une jeune princesse? On apprend en même temps à bien prononcer sa langue, et à la bien parler. L’esprit acquiert des lumiéres et de goût; le corps acquiert des graces; on a du plaisir, et on en donne trés honnétement. […] Ce qu’il y avait de mieux au collége de jesuites de Paris où j’ai été élevé, c’était l’usage de faire representer des piéces par le pensionaires, en présence de leur parents». Dopo aver ricordato l’opposizione contro i Gesuiti da parte dei Giansenisti, Voltaire scrive: «On dit quel’ils fermeront bientot leurs ecoles; ce n’est pas mon avis. Je crois quel’il faut les soutenir et les contenir; leur faire païer leurs dettes quand ils sont banquerottiers; les pendre même, quand’ils enseignent le parricide […]. Mais je ne crois pas qu’il faille livrer nôtre jeunesse aux jansénistes, attendu que cette secte n’aime que le traitté de la grace de St. Prosper, et se soucie de Sophocle, d’Euripide, de Terence», anche se quest’ultimo autore è stato tradotto
dai Portorealisti. Prosegue il testo: «Faites aimer l’art de ces grands hommes (je ne parle pas des jansénistes), je parle des Sophocles. Vous serez secondé en deça des Alpes. Malheur aux barbares jaloux, à qui Dieu a refusé un coeur et des oreilles. Malheur aux autres barbares qui disent, on ne doit enseigner la vertu qu’en monologue, le dialogue est pernicieux. Eh! mes amis, si l’on peut parler de morale tout seul, pourquoi pas deux, et trois?». Soltanto la chiusa con il saluto e con la firma, è autografa: «J’ai l’honneur d’etre, monsieur, avec une estime infinie votre tres humble e tres observent Voltaire gentilhome de la chambre du roy». A questa lettera del 1761 si riallaccia Bianchi scrivendo nella già citata missiva a Pietro Godenti, del 1762: «Io sono del sentimento del Signore di Voltaire che i persecutori de Gesuiti in Francia, che sono quei chiamati Giansenisti che sieno fanatici, e credo che sia meglio ad aver che fare coi Gesuiti, che coi Giansenisti». Planco si spinge a proporre l’abolizione di tutti gli Ordini religiosi: «basterebbe che ci fossero solamente i Preti, e questi anche non in tanta copia, come era nella primitiva Chiesa».
10. L’Orazion funerale La condanna all’Indice non ha conseguenze nella successiva carriera pubblica di Bianchi, se nel 1755 egli è nominato consultore dell’Inquisizione e medico del Sant’Uffizio, prima di diventare nel 1769 «Archiatro Segreto Onorario» per volere del suo antico allievo Clemente XIV. Sulle Novelle letterarie [n. 30, 27 luglio 1770], Bianchi ricorda la benevolenza dimostratagli da papa Ganganelli: «Nostro Signore oltre ad avermi dichiarato suo Archiatro Segreto Onorario, mi ha fatto duplicare lo stipendio, che mi dava la mia Patria, acciocché possa tirare avanti i miei studi, e le mie stampe, raccomandandomi nelle sue lettere, che io seguiti a promuovere nella gioventù i buoni studi della filosofia tutta, e della lingua Greca spezialmente». Nei propri diari il 25 settembre 1769 Bianchi rammenta che Clemente XIV rispose alle sue felicitazioni per l’elezione, con una lettera «dove mi stimola a seguitare a promuovere li buoni studi di Filosofia, e di Lingua Greca nella Gioventù». Nella stessa carica di archiatro lo conferma Pio VI, il cesenate Giovanni Angelo Braschi, grande protettore anche di Giovanni Cristofano Amaduzzi. Iano Planco muore il 3 dicembre 1775, ad 82 anni e 11 mesi, per «un’atroce infreddatura» contratta sei giorni prima nell’assistere alla sacra funzione celebratasi in «rendimento di grazie» per la promozione alla sacra porpora del concittadino Francesco Banditi. Come meritava per il titolo di «monsignore» spettantegli quale archiatro, Bianchi è sepolto in abito e rocchetto, cioè in vesti prettamente ecclesiastiche, nell’antica chiesa di sant’Agostino di Rimini. La lapide del monumento reca un testo in latino da lui stesso dettato, dove si legge che infelice nacque, ancor più infelice visse, ed infelicissimo morì. Nemmeno dopo la morte, Bianchi può riposare in pace. La colpa è ancora di un vescovo della città, Francesco Castellini, il quale fermamente vuole ostacolare il progetto editoriale che il nipote di Planco, dottor Girolamo Bianchi, medico dell’Ospedale riminese, sta curando per soddisfare le ultime volontà del defunto zio. Il 5 giugno 1773 Bianchi le aveva dettate al notaio Francesco Masi, disponendo tra l’altro che l’orazione funebre in suo onore, senza l’obbligo di recitarla, venisse stampata «in 4° in buona carta, non in
Rimino, né in Pesaro, ma in Cesena, o altrove ove siano buoni caratteri», con una tiratura di «cinquecento copie per distribuirle». Nel testamento, Bianchi indicava anche una terna di autori tra cui scegliere l’incaricato per l’orazione: due suoi ex allievi (don Giovanni Paolo Giovenardi ed il dottor Cesare Torri), e Lorenzo Drudi, un riminese che allora studiava Medicina a Bologna e che tra 1797 e 1818 sarebbe divenuto bibliotecario civico. La scelta cade su Giovanni Paolo Giovenardi che recita l’Orazion funerale nel Palazzo pubblico di Rimini il 5 dicembre 1776. Essa è poi pubblicata in Venezia presso Simone Occhi nell’aprile del 1777. Forse si preferì Venezia per dare maggiore diffusione allo scritto. (Drudi, «uomo asiatico, pesante, e per conseguenza mediocre» a detta di Giovanni Cristofano Amaduzzi, non volle essere da meno, e scrisse pure lui, nello stesso 1776, una Laudatio in onore del medico scomparso.) Delle difficoltà incontrate per la pubblicazione dell’Orazion funerale, parla Giovenardi in due lettere inedite al nipote di Planco, Girolamo. In quella del 7 gennaio 1777 leggiamo che, in caso di edizione del testo, era minacciata allo stesso Girolamo Bianchi «la privazione dell’Ospitale dal vescovo», come si vociferava autorevolmente in città. Il 5 aprile 1777 Giovenardi poi suggerisce a Girolamo Bianchi di restare estraneo alla distribuzione dell’opuscolo, «per isfuggire qualunque odiosa taccia di parzialità, e mettersi al coperto da qualunque vendetta trasversale, alla quale potesse pensare il vescovo contro di lei». Il fantasma di Giovanni Bianchi angoscia gli ecclesiastici riminesi. Il ricordo delle idee che ha professato in vita, provoca nuove ostilità verso la sua figura di scienziato. Fanno ancora paura, di lui, l’insegnamento svolto e la sua funzione di educatore, che Giovanni Paolo Giovenardi, don Filippo Zambelli e Girolamo Bianchi cercano di rinverdire, creando una scuola sul tipo di quella che Iano Planco aveva retto in casa propria. Il loro progetto, che è dei giorni immediatamente successivi alla scomparsa di Bianchi, lo possiamo leggere in un volantino, diretto «a’ Studiosi Giovani Riminesi, ed amanti della soda letteratura», con il quale si annunciava l’apertura di una «pubblica Scuola di Medicina, e lingua Greca», dotata della «sceltissima, e copiosissima Libreria in ogni genere di Scibile» lasciata dallo scienziato scomparso, e con «il
comodo di potere fare le sezioni Anatomiche in quest’Ospedale», dove il dottor Girolamo Bianchi esercitava l’arte medica. Il fatto che i volumi di quella «sceltissima, e copiosissima Libreria» potessero essere riaperti, diffondendo nuovamente dottrine sospette se non condannate, allarma la Chiesa di Rimini, e spinge il suo vescovo a correre verso i necessari ripari. Alla fine, anche se la scuola non rinasce, l’Orazion funerale circola liberamente, e Girolamo mantiene il suo posto all’Ospedale. Bianchi non aveva anteposto la Religione alla Scienza: su questo punto, era stato chiaro, più di quanto non si fosse dimostrato in campo filosofico, dove (così scrisse Amaduzzi in un Elogio in sua memoria, apparso sull’Antologia Romana), «mancò di un certo criterio, per il che fu soggetto talvolta a qualche paralogismo», cioè a sillogismi falsi con apparenza di verità. Planco sapeva bene che una cosa è la Teologia ed un’altra la Medicina. L’aveva appreso proprio dall’esempio del cardinal Davìa. Secondo Bianchi, Davìa è stato uno spirito innovatore per aver chiamato ad insegnare nel Seminario riminese alcuni «valenti Professori», tra i quali due medici, Felice Palese («morto Primario Professore del Collegio Borbonico di Palermo») e mons. Antonio Leprotti, divenuto in seguito archiatro pontifico. E’ stato Leprotti a convincere il giovane Bianchi ad intraprendere il corso di studi nel quale si laureò. Planco ricorda con riconoscenza Leprotti anche per la pratica di Anatomia a cui l’avviò, e che considerava un tirocinio dimostratosi utile per i successivi sviluppi della sua carriera universitaria.
11. La rivoluzione anatomica Grazie soprattutto a Leprotti, «celebre Notomista» che «moltissime sezioni di cadaveri Umani qui fece» avendo come allievo lo stesso Planco, Rimini era stata allora una città all’avanguardia. Poi, quando nel 1726 Leprotti se ne va contemporaneamente a Davìa, le cose cambiano: «con mio dispiacere», spiega Bianchi in una radunanza dei Lincei nel ’51, «debbo dire che» l’Anatomia «insieme con altri buoni studj, non è in quel grado avuta, che una tanta cosa si dovrebbe avere, essendovi chi per una cosa schifosa, e semplicemente curiosa, e di niun’utile la tengano, e chi altre strane opinioni d’essa hanno, che qui non fa luogo a rammentare, ma che danno bensì un grandissimo argomento della Barbarie di quei, che le portano». L’appassionata difesa di questa «necessarissima scienza», rimanda ad un discorso più generale. Nei confronti dell’Anatomia, allora si manifesta una sostanziale ostilità per motivi nello stesso tempo diversi e convergenti, bene illustrati da Elena Brambilla che al riguardo fa tre fondamentali osservazioni. L’Anatomia «metteva in forse la distinzione di rango tra medici e chirurghi, professione liberale ed arte meccanica, nobiltà della teoria e viltà del lavoro manuale». La sua pratica «vedeva scontrarsi, sul cadavere, la competenza del medico con quella del prete, il rito funebre contrastare il passo all’autopsia»; infine, «su quello stesso cadavere la teoria poteva essere smentita dalla pratica, e il paradigma medico, con le sue radici filosofico-teologiche nell’invisibile, essere confutato dall’osservazione visibile». Quest’ultimo aspetto ci permette di cogliere tutta la forza rivoluzionaria che la pratica anatomica porta con sé. Essa infatti rovescia la metodica delle conoscenze: non si parte più dalla pagina scritta, ma con l’osservazione diretta si inizia il procedimento che deve concludersi nella descrizione di un rapporto di causa e d’effetto. In tal modo si demolisce il castello dell’ortodossia scolasticoaristotelica, affermando (osserva ancora Elena Brambilla), la necessità di una nuova «base filosofica della medicina pratica», e propugnando un’«emancipazione delle scienze fisiche dalla teologia». L’attenzione dimostrata dal vescovo Davìa verso la Medicina, è un fatto straordinario nel contesto ecclesiastico del tempo. Il Diritto canonico faceva divieto di esercitarla a tutte «le Persone consagrate
all’amministrazione de’ Sagri Misteri». L’opinione che sta alla base di questa norma, è bene illustrata da un anonimo scritto riminese, dove della professione sanitaria si dà un’immagine talmente degradata al punto di chiamarla «arte di toccagione della persona», la quale oltretutto obbliga a visitare il cesso degli infermi «per riconoscere gli escrementi», ed a fare «crestieri a uomini, donne e fanciulle», per cui non poteva essere svolta dal clero senza profanare «la santità del ministero» e prostituire «il regal Sacerdozio». Anche la figura di Davìa offre un’altra faccia della medaglia, del tutto diversa dagli elogi che gli tributa Planco. Nel ’22 egli, che in anni successivi avrebbe presieduto la Congregazione dell’Indice, aveva avversato nella diocesi riminese la diffusione del pensiero di John Locke (considerato «cento volte più pericoloso del Machiavelli»), con un forte anticipo sulla condanna all’Indice del 1734. Ciononostante Planco riconosce a Davìa di aver introdotto da noi quella «puriorem philosophiam» che il vescovo aveva studiato a Bologna, e che fece insegnare a Rimini, togliendo la città «dalla barbarie, nella quale ci avevano tenuto quei che prima della sua venuta qui d’amaestrare la gioventù professarono». In quella «barbarie», la cultura riminese era tornata dopo la rinuncia di Davìa. Bianchi sperimentò direttamente le conseguenze del cambiamento di clima, ma proseguì lungo la sua strada con la fermezza degna del vero scienziato, e senza i timori che avrebbero potuto avvolgere un qualsiasi erudito di provincia, ossequiente all’autorità.
12. Storie di mostri L’insegnamento di Planco ed il significato della rivoluzione anatomica si compendiano in un suo testo, da lui letto il 28 febbraio 1749 ai Lincei riminesi, l’epistola De monstris ac monstrosis quibusdam, poi pubblicata a Venezia nello stesso anno in due edizioni. Osserva oggi Stefano De Carolis: «la storiografia medica più recente è concorde nel ritenere degni di nota», tra tutte le opere d’argomento medico pubblicate da Bianchi, «solo i suoi studi teratologici», tra i quali «l’opera più importante» è appunto questa sui mostri. Planco vi affronta una questione fondamentale, cioè il concetto di Natura e la classificazione dei fenomeni osservati. I mostri, scrive, si possono dividere in tre specie. Alla prima appartengono quelli che «in Utero Animantium oriuntur ictu vel casu quodam alio». Alla seconda, quelli che derivano «ex conformatione naturali, sive ex plastica quadam vi naturæ, sive a natura ipsa ludente». Questi mostri (come spiegano le Novelle letterarie il 25 luglio 1749, forse per mano dello stesso Bianchi), sono «prodotti nell’uovo ab initio da Domineddio secondo la sentenza degli sviluppi; oppure che una qualche virtù plastica abbia prodotte, e vada producendo queste parti di più, che si trovano ne’ Mostri», che hanno un dito, un braccio, un piede o qualche altro membro o viscere in eccesso. Infine, nella terza specie, incontriamo quelli che nascono «ex morbo in Animantibus». Bianchi dà per scontato che la perfezione naturale, presupposta dai filosofi ufficiali della Chiesa, sia smentita dai fenomeni mostruosi. Le ipotesi che egli formula, oscillano tra il discorso rigorosamente scientifico ed affermazioni che, in apparenza, sembrano negarlo, quando presuppone (con immagine del suo tempo) che alcuni di quei casi siano provocati «a natura ipsa ludente». Quello che ancor oggi noi chiamiamo «lo scherzo di natura», per indicare qualcosa fuori dell’ordinario, ci rimanda etimologicamente al «ludus» quale gioco o scommessa, cioè ad esempio al calcolo delle probabilità dei dadi, per dimostrare appunto che la realtà, tra le possibili sue varianti, oltre alla perfezione, ha anche l’errore, il mostro. Ma «ludere» vale pure per «ingannare», quasi ad ipotizzare (se non dimostrarci) che la Natura voglia prendersi beffa degli uomini, violando le regole da essa stessa imposte.
Un’altra scelta eretica di Bianchi, oltre alla comprensione dimostrata verso le «Donzelle di Lesbo» vista a proposito di Catterina Vizzani, è quella che lo ha portato ad accettare la fisica di Pierre Gassendi, un filosofo che aveva riproposto gli atomi ed il vuoto come princìpi primi di tutte le cose, scombinando le carte in tavola ai teologi. Gassendi aveva attaccato il dogmatismo degli aristotelici, gli occultisti, i cartesiani. Come spiega Paolo Rossi, Gassendi era stato vicino a posizioni libertine ed aveva teorizzato uno scetticismo metafisico che costituiva la premessa per l’accettazione consapevole del sapere ‘limitato’ della scienza. Secondo una «tesi centrale» di Gassendi, prosegue Paolo Rossi, «la nuova scienza non è interessata né alle scolastiche quidditates rerum né agli arcana naturæ dei maghi del Rinascimento: è conoscenza fenomenica del mondo». Attraverso Gassendi, seguendo un itinerario inaugurato sul finire del ’600, come racconta Giambattista Vico nella sua Autobiografia, Planco era risalito sino ad Epicuro, allo scandaloso Epicuro. Bianchi ne aveva fatto conoscenza tramite padre Giovanni Bernardo Calabro, al convento cittadino dei padri Minimi. Ben presto a padre Calabro venne ordinato, dal Generale del suo Ordine, di allontanarsi dai «giardini di Epicuro» e di passare nell’«accampamento dei Peripatetici». L’obbedienza fin troppo ovvia, da parte curiale, ai divieti di far professare pubblicamente idee proibite e pericolose, e la buona memoria tramandatasi di generazione in generazione nell’ambito ecclesiastico (tra la condanna di Planco all’Indice nel 1752 e la questione dell’Orazion funerale passano trentacinque anni), facevano dell’eredità scientifica di Bianchi una summa eretica, che era meglio non rifiorisse e non circolasse più dopo la sua scomparsa. Questo spiega l’accanimento dimostrato dal vescovo Castellini, sino a fare temere la «vendetta trasversale» ai danni di un altro dottor Bianchi, il nipote Girolamo. L’opinione che alcuni mostri fossero «prodotti nell’uovo ab initio da Domineddio» non era facile da digerire, per quegli ecclesiastici. Ma nemmeno da spiegare alla luce della Scienza moderna. L’Encyclopédie, alla voce «monstre (zool.)», scrive ad esempio che trattasi di «animal qui naît avec une conformation contraire à l’ordre de la nature».
In questo «ordre de la nature» è fatto coincidere dalla vecchia Filosofia il presupposto metafisico-teologico capace di spiegare tutta la realtà, mentre il nuovo pensiero scientifico vi identifica invece le regole generali, ammettendo che da esse si differenzino le eccezioni particolari rilevate mediante l’osservazione dei fenomeni. Queste eccezioni, i cosiddetti mostri, sono tanto evidenti da non poter essere negate, come spiega anche lo scritto planchiano, dove riscontriamo una minor consapevolezza rispetto agli Enciclopedisti, a causa dei ricordi e dei lasciti della vecchia erudizione. Di essa troviamo traccia consistente proprio nelle leggi dei Lincei riminesi, dove la lettura delle opinioni dei «dottissimi filosofi» e degli «uomini eruditissimi» è anteposta all’«investigazione della stessa natura». Bianchi non aveva assimilato le novità filosofiche relative ai processi della conoscenza, commettendo quindi errori epistemologici, il più conosciuto (e drammatico) dei quali è quello relativo all’inoculazione del vaiolo. Bianchi la riteneva una delle «cose letterarie» da discutere magari nel «miglior latino» con il quale mandare «al diavolo tutti i pretesi calcoli […] e tutte le altre ragioni sofistiche de’ fautori» della nuova pratica profilattica, giacché essi «non sono filosofi e meno medici, ma sono sfaccendati». Sfaccendati, Planco ha una volta definito anche «buona parte de’ nostri Academici di Rimino», accusandoli di essere «diventati non so come Pittagorici fuori di tempo essendosi fatti mutoli la maggior parte», per cui in futuro si vedeva costretto a recitare soltanto cose sue «o cose mandatemi di fuori da altri nostri Academici forestieri, o da altri, i quali per rendersi benemeriti della nostra Academia meritano d’essere aggregati, e riposti nel luogo di que’ nostri, che si sono fatti mutoli, e massimamente nel luogo di quelli, che non vogliono ne meno più onorare colla loro presenza le nostre sessioni forse avendole a vile, o forse, com’è più verisimile amando meglio di marcire nell’ozio, o d’affaticarsi solamente per qualche poco per un picciolo guadagno, o per rendersi abili a gli amoretti di qualche femminuccia». Sono parole pronunciate da Bianchi come prologo alla dissertazione De Lumbricis Corporis Humani di Gaspare Adeodato Zamponi, nella quale erroneamente si sostiene che i vermi del corpo umano si riproducono per parto e non con uova.
Forse il mutismo pitagorico di alcuni seguaci di Planco, e la loro assenza dai Licei lasciano intravedere non tanto un volgare abbandono del maestro, quanto giustificati timori di apparire pubblicamente come suoi sostenitori. Siamo al 30 aprile 1751, un anno prima della condanna all’Indice. A quel 1752 abbiamo lasciato Antonia Cavallucci. La sua ultima lettera a Planco è del 2 dicembre 1753: lamenta di non aver ricevuto risposta da alcuni mesi all’invio di un dramma recitato in Venezia («stimai che lei non agradisse più la mia Amicizia, o per dir meglio la mia servitù»); dichiara di non aver obliato «la memoria per i tanti favori, e grazie ricevute, ma da me non meritate»; e prega il «riveritissimo signor Dottore» di farla degna di sue nuove corrispondenze. Bianchi la rincontra soltanto dieci anni dopo, a Sinigaglia, il 23 luglio 1763. Lei non aveva più «quello spirito» dimostrato «in Rimino». Avendo saputo della presenza di Planco in teatro, sale due volte nel suo palco per omaggiarlo. «Vidi che era miserabile non avendo nemmeno un fazzoletto per asciugarsi il sudore del viso», scrive Bianchi nel diario: l’ingaggio per due recite è di sei zecchini, si lamenta l’attrice, «onde l’opera era una cosa ladra in tutto e per tutto». Sul finire del secolo XIX lo storico Luigi Rasi lascia di Antonia Cavallucci queste notizie: «Benché lodata» nell’Arte comica, «distrusse in breve ogni speranza fondata sul suo avvenire, passando meschinamente la vita in compagnie d’infimo ordine, e finendo poi, vecchia e abbandonata da’ compagni di ogni specie, infermiera nell’ospedale di Udine». Non Antonia Cavallucci, ma una sconosciuta dama riminese, era stata il vero amore di Bianchi che, nell’autobiografia latina, la definisce «forma, ingenio, et moribus præstans»: la sua scomparsa nel 1740 lo getta in una prostrazione tale per cui «et amici et patria sordescere cœperint», gli amici e la città presero ad essergli insopportabili. Fu allora che Planco decise di partire alla volta di Venezia per un viaggio in precedenza rimandato a causa della di lei malattia, e non più con lo scopo di divertirsi, ma di levarsi ed abbandonare il dolore. E’ una delicata annotazione autobiografica, utile anche per leggere senza pregiudizi tutta la vicenda di Antonia Cavallucci. Sembra,
fatte ovviamente le debite proporzioni, di riascoltare il lamento di Francesco Petrarca che fugge da «ogni segnato calle» per fare acquetare «l’alma sbigottita» (Canzoniere, CXXIX, Di pensier in pensier, di monte in monte).
Nota bibliografica Nel riprodurre le carte di Antonia Cavallucci, ne ho rispettato il tono narrativo spontaneo e sovente affannato, intervenendo solamente a livello di punteggiatura e di ortografia, e nella maniera più cauta e leggera possibile, ma utile per una lettura più immediata. (A titolo esemplificativo, ricordo che per lei «oh» ed «o» sono voci del verbo avere. Una sua caratteristica del tutto particolare, è il raddoppiamento di consonanti come in «giornni». Abbondano poi gli accenti [«mà adesso…», «sé vi par…», ecc.]). Le parti sottolineate sono state rese in carattere corsivo. Le integrazioni al testo sono in corsivo tra parentesi quadre. La frase di L. Canfora è tratta da un articolo apparso sul Corriere della Sera del 22 aprile 2001, in cui si parla di Epicuro, e di un’opera che Bianchi conosceva bene, le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio. Per la condanna all’Indice di Planco, cfr. Index Librorum Prohibitorum, Benedicti XIV P.O.M jussu editus, per i tipi della Reverenda Camera Apostolica, Roma 1758, p. 80. La lettera inedita a P. Godenti, del 10 aprile 1762, è in G. Urbani, Raccolta di Scrittori e Prelati Riminesi, SCMS. 195, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini (BGR), p. 151. Il sonetto su papa Lambertini è in fasc. 310, Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, ad vocem Bianchi Giovanni (FGMB), BGR. Le lettere di G. Garampi a Bianchi sono in Fondo Gambetti, Lettere al dottor Giovanni Bianchi (FGLB), ad vocem, BGR. Quelle di Bianchi a Garampi si trovano in Archivio Segreto Vaticano, Fondo Garampi, vol. 275: una trascrizione (inedita) è stata curata dallo storico dottor Enzo Pruccoli che me ne ha gentilmente fornito copia, con revisione di alcuni passi cortesemente fatta in loco dal prof. Gian Ludovico Masetti Zannini. Ad entrambi va la mia riconoscenza. Le lettere di altri corrispondenti di Bianchi, come quelle della stessa Antonia Cavallucci, sono in FGLB. Il cognome Ruggeri nelle citazioni è conservato nella variante «Ruggieri». Appartiene a SC-MS. 965, Minute di lettere 17171770, BGR, c. 101r, la missiva che racconta la protezione del marchese Giambattista alla Cavallucci: essa è monca,
senza data (ma febbraio 1752) e senza destinatario, un’«Eccellenza» che era il padre di Giambattista, forse bolognese. Analoga minuta, c. 102r, è una raccomandazione diretta a persona di quella città, dove Antonia fu spedita da Planco. Il testo sull’Anatomia, letto da Planco nella radunanza dei Lincei del ’51, è nel fasc. 218, FGMB. Il suo prologo alla dissertazione lincea scritta da Gaspare Deodato Zamponi, è nel fasc. 219, FGMB. I diari di Bianchi sono chiamati comunemente Viaggi 1740-1774 oppure Libri Odeporici: cfr. SC-MS. 973, BGR. Il titolo dello scritto di Bianchi su C. Vizzani è: Breve storia della vita di Catterina Vizzani Romana che per ott’anni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale dopo varj Casi essendo in fine stata uccisa fu trovata Pulcella nella sezzione del suo Cadavero. L’«autobiografia latina» di Bianchi è in G. Lami, Memorabilia Italorum eruditione præstantium, I, Firenze 1742, pp. 353-407. Per la lettera di Planco a Benedetto XIV, cfr. Commercium epistolicum 1745-1775, SC-MS. 974, BGR, ad diem. La citazione di E. Capobelli è presa dai suoi Commetarj, conservati in BGR, e precisamente da SC-MS. 303, pag. 163; ed è relativa all’anno 1743. Altre citazioni. Per W. Binni, cfr. il suo saggio Il Settecento letterario in «Storia della Letteratura Italiana. Il Settecento», Garzanti, Milano 1968, p. 419. Per E. Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, in «Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina», Torino 1984, passim. Per P. Rossi, La filosofia meccanica, in «Storia della Scienza moderna e contemporanea. Dalla rivoluzione scientifica all’età dei Lumi. 1», Tea, Torino 2000, p. 248. Per F. Venturi, Settecento Riformatore. I. Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino 1998, p. 133. Di L. Rasi, cfr. I comici italiani: biografia, bibliografia, iconologia, I, Firenze (1897?), p. 618. (Debbo al prof. G. L. Masetti Zannini la segnalazione di questo testo; ed alla cortesia del dottor Vanni Tesei della Biblioteca Saffi di Forlì la trascrizione del brano riguardante Antonia e Bartolomeo Cavallucci.) Il passo del dottor S. De Carolis è tratto dal suo saggio La produzione pubblicistica su questioni mediche, in
«Giovanni Bianchi, Medico Primario di Rimini ed archiatra pontificio», Verucchio 1999, p. 58. L’anonimo scritto riminese contro la Medicina, extat in P. Meldini, Il medico di parrocchia, in «San Vito e Santa Giustina, contributi per la storia locale», a cura di C. Curradi, Rimini 1988, pp. 175-187. Il bando del 1762 si trova in Archivio storico comunale, Archivio di Stato di Rimini (ASRi), Archivio teatro, 1735-1838, busta 1. La notizia sui 99 palchi nel teatro riminese, è tolta da un elenco esistente nelle medesima busta. L’autorità vegliava attentamente sulla pubblica moralità, come dimostra un editto (senza data) rinvenuto in ASRi, AP 638, 2. Teatro, dove sono riportate le regole stabilite dal Governatore, «da osservarsi ne’ Veglioni del Pubblico Teatro»: era proibito «levarsi la Maschera dal Viso sotto qualunque pretesto», e con la minaccia «di essere immediatamente cacciato dalla Festa». Nessuno «o sia Uomo, o sia Donna» poteva «usar forza, o violenza nel voler far ballare le Maschere», con la medesima minaccia «ed anche ad altre pene corporali ad arbitrio di Sua Eminenza». Per i balli infine, occorreva seguire «l’ordine, e metodo stabilito dalli Signori Eletti» alla sorveglianza del teatro, a cui toccava risolvere eventuali controversie «sulla precedenza del Luogo, e del tempo». Da altra stampa (ivi), apprendiamo che con l’arrivo dei francesi, erano state introdotte quattro tariffe, per i possidenti, i negozianti, gli «artisti» (artigiani), ed infine per camerieri, domestici e portantini. Su Bianchi, si possono consultare questi miei scritti: La Spetiaria del Sole, Iano Planco giovane tra debiti e buffonerie, Raffaelli, Rimini 1994; Modelli letterari dell’autobiografia latina di G. B. (I. P., 1693-1775), «Studi Romagnoli» XLV (1994, ma 1997), pp. 277-299; G. B. (I. P.) studente di Medicina a Bologna (1717-19) in un epistolario inedito, «Studi Romagnoli» XLVI (1995, ma 1998), pp. 379-394; Due maestri riminesi al Seminario di Bertinoro. Lettere inedite (1745-51) a G. B. (I. P.), «Studi Romagnoli» XLVII (1996, ma 1999), pp. 195-208; «Lamore al studio et anco il timor di Dio», Precetti pedagogici di Francesco Bontadini commesso della «Spetiaria del Sole» per Iano Planco, suo padrone, «Quaderno di Storia n. 2», Rimini 1995; Tra erudizione e nuova scienza. I Lincei riminesi di G. B. (1745), Convegno sulle Accademie romagnole, Studi Romagnoli, Forlì 2000, di prossima
pubblicazione; Lettori di provincia nel Settecento romagnolo. G. B. (I. P.) e la diffusione delle Novelle letterarie fiorentine. Documenti inediti, Giornate della Società di Studi Romagnoli, San Marino 2000, di prossima pubblicazione; Nei «ripostigli della buona Filosofia». Nuovo pensiero scientifico e censure ecclesiastiche nella Rimini del sec. XVIII, «Romagna arte e storia», 64/2001, pp. 3554. Su Bianchi, sono disponibili su Internet le pagine che gli ho dedicate in due siti, raggiungibili agli indirizzi: http://digilander.libero.it/ianoplanco; http://digilander.libero.it/monari/planco.indice.html.
Desidero ringraziare il personale tutto dell’Archivio di Stato di Rimini e della Biblioteca Civica Gambalunghiana di Rimini. In quest’ultima, ho potuto poi contare come sempre sull’attenta e sapiente assistenza della dottoressa Paola Delbianco, responsabile della Sezione manoscritti e fondi antichi, alla quale esprimo doverosa gratitudine.