ANTONIO MONTANARI
IL PANE DEL POVERO. L’Annona frumentaria riminese nel sec. XVIII. Documenti inediti Con due appendici: Giovanni Lettimi «contrabbandiere» di farina; e quadro statistico dell’«Abbondanza» riminese nel XVIII secolo
© by Antonio Montanari, Rimini (Italy), 2009
L’immagine riptoduce un particolare de “La distribuzione del pane ai poveri” di Angelo Inganni, conservato nella coll. Cassa di Risparmio di Parma, e pubblicato nel sito Unife.
Antonio Montanari, Il pane del povero, PAGINA 2/2
L’argomento di queste pagine è la storia dell’Annona di Rimini nel corso del sec. XVIII, ricostruita attraverso documenti inediti di quell’Archivio Comunale (1). L’istituzione annonaria ha la sua ragion d’essere nel favorire i poveri per l’acquisto di pane e farina, ordinariamente e non soltanto nei tempi calamitosi quando i provvedimenti sono presi «ne pereant fame» ( 2). A questo compito è deputato l’ufficio dell’Abbondanza che sino dagli inizi del sec. XVII è composto di quattro eletti, tre dei quali appartenenti al ceto nobile ed uno in rappresentanza dei «Cittadini» ( 3). L’organizzazione dell’Annona prevede sei settori: Depositarìa, Soprintendenza ai Granari, Registro delle Bolette, Computista, Granarista e Bollatore del pane. L’attività dell’Annona può svolgersi in due maniere: una diretta, se è l’Abbondanza stessa a produrre pane nei propri forni oppure in quelli privati; ed una indiretta, mediante appalto assegnato all’incanto. Ad ogni Abbondanziere è attribuita una «provvisione» che cambia secondo i tempi e l’impegno legato ai sistemi in vigore (4). L’appaltatore paga una «risposta» annua legata all’andamento del mercato (5). Il 31 giugno 1678 il Consiglio generale di Rimini, su richiesta del Legato, discute se sia migliore «il fare l’Abbondanza, ò vero l’appalto» (allora in uso): all’unanimità, con trentanove voti, il Consiglio delibera «essere presentemente più espediente e tornar più conto il far l’Abbondanza facendo conoscere l’esperienza che si ha, che gli Appaltatori non hanno mai apportato utile alcuno alla medesima, ma bensì gli Abbondanzieri». Trovando in futuro un appaltatore capace di offrire condizioni favorevoli all’Abbondanza, questa «si potrebbe anche inclinare all’appalto» ( 6). Il 16 ottobre 1702, con ventisei voti a favore e venticinque contrari, lo stesso Consiglio approva una mozione che conferma il ruolo dell’Abbondanza: appena sarà compiuta la costruzione delle mura e «risarcito l’Arco d’Augusto», il sopravanzo dei nuovi dazi sarà impiegato nella fabbrica dei pubblici granari con forni e botteghe «per servizio dell’Abbondanza», allo scopo di «esimerla dalle annue
1 L’Archivio Storico Comunale è nell’Archivio di Stato di Rimini, dove sono conservati i documenti
della serie AP che citeremo. [La riproduzione è fedele ai manoscritti. Le nostre integrazioni all’interno delle citazioni sono indicate entro parentesi quadre.] 2 In AP 861, Atti del Consiglio 1569-1571, c. 23 v., 25.7.1569, sotto il titolo «Carestia», si legge di provvedimenti presi «pro pauperibus ne pereant fame»: la citazione è riprodotta in [C.] Tonini, Storia civile e sacra riminese, VI, I, p. 306, Danesi, Rimini 1888. 3 Sul tema dei rapporti fra Nobili e Cittadini, cfr. infra una nota sul caso Lettimi; ed A. Montanari, Per soldi, non per passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini (1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese, «romagna arte e storia», n. 52/1998, pp. 45-60. Nell’anno annonario 166061, l’appalto è del nobile Filippo Ricciardelli [AP 422, Liber Instrumentorum Annonæ Frumentariæ Civitatis Arimini, 1660-1667, 29.7.1660]. 4 Cfr. AP 621, 1600-1700, Abbondanza, Atti pubblici, Appasso, fasc. I. Abbondanza, et Abbondanzieri, foglio 6; AP 110, Annona 1744-1756, 23.10.1750; ed AP 876, Atti del Consiglio 1760-1777, 13.10.1761. 5 A titolo esemplificativo riportiamo queste cifre sulla «risposta», indicando tra parentesi il relativo anno solare di inizio dell’appalto, ed avvertendo che varia la corrispondente quantità di grano da panizzare: scudi 800 (1744); 1.000 (1745-46); 900 (1755-56); 600 (1757-58); 400 (1761); 440 (1762); 421 (1763). 6 Cfr. AP 871, Atti del Consiglio 1676-1684, c. 32v. Nel 1676 è stato introdotto «l’Appalto de’ Forni» [AP 621, I, cit., foglio 7].
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spese, che convien fare per li suddetti Commodi, mà anche per il Commodo della Dogana» (7). Davanti alle «estreme contingenze» ( 8) del 1744, l’Annona riminese delibera (9) di abbandonare il sistema diretto a favore dell’appalto per il quale si adottano i «Capitoli» compilati (10) dal Legato Pompeo Aldrovandi. Nel 1747 il Legato Giacomo Oddi (appena giunto in Romagna), vi apporta delle correzioni mediante un «buon regolamento», studiato per il «vantaggio pubblico», che gli Abbondanzieri riminesi non riescono a «collocare»: in «tale positura di cose», Oddi autorizza a far «correre il sistema» nella maniera diretta «solita», avendo fiducia che agli amministratori annonari stia «a cuore la Povertà, che in questo particolare merita ogni atto di considerazione» (11). Nel 1752 il Legato Mario Bolognetti, dopo aver visitato Rimini, rileva che il «metodo d’affittare li Forni […] difficilmente si può eseguire per mancanza di oblatori danarosi», osservando che «lo stile solito, cioè di eleggere ogni anno li Abbondanzieri» permette «qualche avanzo» di bilancio; e che il pane venale distribuito in città ha peso maggiore degli altri luoghi: «ne risulta il benefizio alli poveri, li quali più che li benestanti comprano il pane al Forno, perché non hanno possibilità di far provvista di grano» ( 12). Nel 1755 la Sacra Congregazione del Buon Governo sopprime il sistema diretto ed ordina di ricorrere all’appalto (13): i Consoli riminesi commentano che ciò è avvenuto «quantunque si dasse avvedere colle prove materiali ricavate dagli anni dell’Appalto, e dell’Amministrazione
7 Cfr. AP 873, Atti del Consiglio 1684-1702, c. 287v. 8 Cfr. la lettera dei Consoli al Legato dell’1.12.1744, in AP 477, Registro delle lettere 1744-1745,
c. 137r. Nella primavera del 1743 il maltempo danneggia i raccolti. C’è la guerra di successione austriaca: le truppe spagnole nell’estate del 1742 hanno rubato animali ai contadini, distrutto canape, canneti e vigne, e danneggiato il raccolto del grano. Nell’autunno 1743 e nel successivo inverno la storia si ripete: a portare i contadini «all’ultima disperazione», come scrive il cronista Ubaldo Marchi, sono gli austriaci. Cfr. il cap. 9, «15 mila soldati, compresi 4 mila cavalli» [pp. 85-92] ed il cap. 8, «Carlo Goldoni, “galanteria senza scandalo”» [pp. 75-77] in A. Montanari, Lumi di Romagna, Il Settecento a Rimini e dintorni, Il Ponte, Rimini, 1992-93. 9 Cfr. AP 110, cit., passim. 10 Cfr. AP 875, Atti del Consiglio 1735-1745, 8.11.1744. 11 Cfr. AP 110, cit.: nel verbale del 14.8.1747 si trova la lettera inviata dal Legato il 27.7.1747. Non abbiamo rintracciato il «buon regolamento». 12 Le opinioni di Bolognetti sono riferite da Francesco Battaglini nelle «Annotazioni» al suo Panfangolo, vedi infra , pp. 42-43. 13 Il primo appaltatore (triennale) nel 1755 «volle che se gli consegnasse tutto il grano, che riteneva l’Annona, o sia Abbondanza ne’ suoi Magazeni, incettato secondo il precedente sistema per farlo spianare [distribuire] al prezzo istesso, che alla medesima costava, sebbene il prezzo della Piazza fosse tal volta maggiore, e di più volle, che lui si cedessero anche i Granari, le Case de’ Forni, e tutti li stigli [utensili] dell’istessa Annona». Il secondo appaltatore (ancora triennale) nel 1758 ottenne «una vistosa gratuita prestanza di scudi 1.552:63:11 provenienti dal prezzo del grano dell’Annona venduto al primo appaltatore». Al terzo, infine, nel 1761 venne mantenuta questa «prestanza», ma furono tolti la cessione della Casa de’ Forni e l’obbligo dell’ammasso dei grani, mentre il Legato imponeva il bando annuale [AP 876, cit., 11.6.1763]. L’ammasso era stato voluto dal Legato [AP 537, Informazioni 1758-1764, 7.11.1758, cc. 13v-14]; nel ’61 la «prestanza» venne fatta «in tanto grano invece del Danaro» [ib., 28.7.1761, cc. 126-130].
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dell’Abbondanza che il Povero rimaneva coll’Appalto pregiudicato» ( 14). La soppressione (come gli stessi Consoli spiegheranno successivamente), è provocata dalle «continue premure, ed incessanti rimostranze con ideali figure di maggior vantaggio al povero», rivolte invece a «far cadere l’Appalto in potere di Persona, che per l’evvidenza dell’utile vi annellava» (15). L’Annona, contro il parere del Legato (16), il 7 marzo 1761 affitta, per sei anni ed a venti scudi annui, le «case de’ forni» a Giacomo Goffi «fabbricciere di Tabacchi» che le concede ad altri ( 17) i quali le adoperano persino «ad uso d’un vero postribolo» ( 18). Il metodo dell’appalto proseguirà «finoattantoché le perturbazioni accadute nel 1764 fecero chiaramente toccare con mano, che in anno calamitoso il vitto e la tranquillità del popolo è compromessa» da tale sistema (19). Dal 1763 l’ombra della fame, a causa del misero raccolto, comincia a girare per le nostre contrade: sino al ’62 Rimini ha avuto grano a sufficienza per sé e per il Contado. (La Diocesi di Rimini, compresa la città, conta 67.374 anime, diecimila in più rispetto al 1738, e 3.518 in più nei confronti del 1755.) Peggiore è la situazione di Roma e di Urbino, per le quali il Legato nel 1764 fa incetta di grano in Romagna, «malmenata, ed oppressa da chi la reggeva, e governava» ( 20), annullando tutti i contratti stipulati con caparra. Gli Abbondanzieri di Rimini si trovano senza provviste perché privi di denaro. La distribuzione di pane e farina diminuisce e più volte succede che le Botteghe dello spaccio (21) ne siano sfornite. Un’ultima vicenda aggrava la situazione: le incursioni di contrabbandieri provenienti soprattutto da Talamello, Montebello, Mercato Saraceno, i quali obbligano i proprietari terrieri (di Santa Giustina, Sant’Ermete, San Martino de’ Mulini, Vergiano, Spadarolo e di altri paesi vicini), a vendere il grano, messo quindi in circolazione a prezzo doppio. Una parte della nostra campagna è spogliata del proprio sostentamento. Dall’ottobre 1763 al febbraio ’64, le scorte riminesi passano da 60 a 17 mila staja di grano ( 22).
14 Cfr. AP 481, Copialettere della Municipalità, 1754-1756, 11.12.1755. Ribadiscono i Consoli, il
28.7.1761 [AP 537, cit., c. 128] che le condizioni d’appalto «agevolano a Chiunque ancorché sfornito di forze» e «pregiudicano ai Poveri» i quali ricevono «minor peso nel Pane» soprattutto nelle stagioni più critiche, inverno e primavera». 15 Cfr. AP 876, cit., 11.6.1763. In AP 537, 28.7.1761, cit., si ricordano gli «ingiuriosi ricorsi promossi in passato [contro gli Abbondanzieri] da chi anelava all’Appalto per lucrare sul sangue de’ Poveri» [c. 126v]. Nello stesso ’61 viene presentato un nuovo ricorso (anonimo) contro l’Abbondanza, accusata di voler sopprimere l’appalto, mentre ne è contraria «onde allontanare sempre più l’occasione di tante calunie, ingiuriose troppo ad un Ceto Nobile» [ib., 127v]. 16 Cfr. AP 484, Copialettere 1760-1763, 6.8.1761 e 17.1.1762. Il Legato G. F. Stoppani blocca la relativa pratica riminese diretta al Buon Governo [9.3.1762, ib.]. La Segreteria legatizia, sull’argomento, invia a Roma informazioni distorte [23.3.1762, ib.]. 17 Cfr. AP 486, Copialettere della Municipalità, 1764-1766, al Legato, 7.8.1765: in questo anno, le case sono «ritenute dal Sig. Montesoro Ferrarese qui dimorante per la Fabbrica de’ Tabacchi». In precedenza gli appaltatori avevano affittato in proprio l’edificio come abitazione privata [AP 537, cit., 28.7.1761]. 18 Cfr. AP 876, cit., «Memoriale» del 30.4.1763, c. 93r. 19 Cfr. le citt. «Annotazioni» al Panfangolo, p. 43. 20 Cfr. E. Capobelli, Commentarj, SC-MS. 306, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [BGR], p. 39. 21 Le Botteghe dello spaccio (in regime diretto) sono sei: in piazza della Fontana, in piazza Grande (o Sant’Antonio), ed alle Porte di San Bartolomeo, Sant’Andrea, San Giuliano e di Marina. 22 In documenti di AP 537, cit., dell’estate 1764 si parla già di «calamitosa carestia» e
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Tra 1765 e ’68 anche Rimini è colpita da una grave carestia (23) che costringe alla fame, sino al pericolo di vita, molto «popolo minuto». I poveri rappresentano il venti per cento della popolazione. Gli interventi d’emergenza a loro favore decisi dall’Annona, sono ostacolati dalla burocrazia pontificia che non crede alle necessità di Rimini: anziché attribuirle alla mancanza di grano provocata da scarsi raccolti, le considera prodotte da cattiva amministrazione e suggerisce persino di mangiar erba e frutta al posto del pane (24). Soprattutto il Buon Governo non è ben disposto nei confronti della città ( 25), al punto di negare una sovvenzione per soccorrere i bisognosi. Dal Pontefice, commenta un cronista del tempo (26), arrivano soltanto indulgenze. Nella notte del 22 luglio 1765 «irruzioni, ed alluvioni» del fiume Marecchia danneggiano gravemente le campagne per un fronte di cinque chilometri da Rimini a Santa Giustina e portano all’«ultima rovina» il porto canale (27). Per evitare l’inopia provocata dall’appaltatore ed il ripetersi del «tumulto universale» del 26 luglio ( 28), gli Abbondanzieri ed i Consoli chiedono al Legato Ignazio Michele Crivelli che «la provvista necessaria de’ grani, e lo spaccio del pan venale» siano lasciati «in cura ed amministrazione del Pubblico». Gli Abbondanzieri, che in passato sono rimasti offesi dalle «tante calunnie avanzate indebitamente contro la retta amministrazione» dell’Annona, accettano, nonostante la «più costante ripugnanza», di «rimetter le mani» in quell’amministrazione,
d’«emergenza della carestia»: cfr. cc. 272v-274v. Nel giugno dello stesso anno c’è un avanzo di cassa di 290 scudi [ib., c. 270]. 23 Sul tema cfr. A. Montanari, Una fame da morire. Carestia a Rimini, 1765-68, in «Pagine di Storia & Storie», V, 12, [«Il Ponte», 14.3.1999]. Una «scarsezza del raccolto» si ebbe pure nel 1729 [AP 621, I, cit., foglio 21]. Per un inquadramento del problema all’interno dello Stato della Chiesa, cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, V.1 L’Italia dei lumi (1764-1790), pp. 305336. 24 Degli umori romani, è testimonianza questa missiva che il 9.5.1767 [AP 662, 1700, Corrispondenza epistolare colla Magistratura] il concittadino mons. Giuseppe Garampi invia ai Consoli riminesi: «Si maligna sulla erogazione delle somme finora percettesi [percepitesi], e si tiene per esagerato ogni bisogno». Il Buon Governo ha spiegato a Garampi che per i «40 giorni incirca che mancano al raccolto, non può essere la Città tanto sprovvista, quanto si rappresenta, e che intanto la Campagna fornisce ora Erbaggi e Frutti, coi quali supplire a qualche deficienza di Pane». Commenta Garampi: «In somma nulla è da sperarsi. […] Compiango vivamente la presente nostra calamità, la quale resta anche più sensibile, perché non compatita». Garampi ha ricevuto da Rimini un particolare «mandato di procura» il 31.8.1765 [AP 486, cit.], rinnovato l’anno successivo [AP 487, Copialettere della Municipalità, 1766-1768, 4 ed 11.12.1766]. In Vaticano Garampi aveva raggiunto una prestigiosa posizione, confermata dalla nomina nel settembre 1766 alla «luminosa carica di Segretario della Cifra», cioè dell’ufficio diplomatico (come si legge nelle congratulazioni della Municipalità di Rimini: cfr. AP 486, cit., 1.10.1766). 25 Garampi, l’11.2.1767 [AP 662, cit.], scrive di «sicure ripulse» della stessa Congregazione. 26 Si tratta del cit. Capobelli. A p. 233 del ms. 306 leggiamo: «il Pontefice non pensò a solevar in conto alcuno li suoi sudditi, dispensò soltanto tesori spirituali», come le indulgenze «ad instar Jubilei» del marzo 1767. 27 Cfr. in AP 486, cit., 28.7.1765, lettere al Cardinal Lorenzo Ganganelli, a mons. Garampi, ed all’abate Stefano Galli, minutante in Segreteria di Stato (sul quale cfr. A. Montanari, Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria Gambalunga». Documenti inediti, «romagna arte e storia», n. 49/1997, pp. 57-74). 28 Cfr. AP 486, cit., lettere dell’1 e 7.8.1765.
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per «precludere la strada alle tante calunnie contro il decoro, ed onestà della» loro carica «in varie occasioni avanzate ai Signori Superiori da chi anelava all’Appalto»; e per soccorrere i poveri i quali, continuando nel sistema indiretto, avrebbero sofferto «per lo scarsissimo peso del Pane» che in quelle circostanze poteva fornire l’appaltatore (29). Dal 1° ottobre si ritorna dunque allo spiano [distribuzione] «a conto dell’Annona»: per «dare un’oncia, della quale il povero potesse vivere», si formerà un debito di ventiseimila scudi (30). Il 30 gennaio 1767 il Legato concede al Governatore di Rimini i propri poteri in materia d’Annona, e la facoltà d’imporre censi e cambi (in quantità però discreta), per la «sventurata circostanza» della carestia. Egli definisce «provvidissima» la risoluzione presa dal Consiglio «in tale emergenza di sciegliere quattro Deputati (31), i quali con zelo, e buona carità invigilino al sovvenimento de’ suddetti Infelici, con stabilirne la maniera di effettuarlo, la quale sia agevole, e preordinata all’urgenza». I quattro Deputati, il 4 febbraio, propongono al Consiglio «d’impiegare scudi 3.000 da prendersi ad interesse, in tante limosine da distribuirsi a quelle povere persone di questa Città, alle quali manca ora la maniera da procacciarsi il vitto colle di loro fatiche, o che sono in altra guisa miserabili, ed alli Casanoli delle Ville del Bargellato, che in questa stagione, in cui rimangono disoccupati dalle opere della Campagna, non [h]anno come sostentarsi». Il Legato si oppone invocando certe disposizioni di Clemente VIII, mentre contadini «sparuti, ed infiacchiti» chiedono alla Municipalità soccorso per non morire. Soltanto il 19 giugno si trovano in prestito i tremila scudi per attuare il «piano». Intanto il Consiglio ha ricompensato le straordinarie fatiche degli Abbondanzieri per la carestia con un premio (sollecitato dagli interessati) di trecento scudi (32). Al Governatore, in segno di «gratitudine, e sincera riconoscenza», si è regalato un pezzo d’argento da cento scudi. Il debito di ventiseimila scudi lascia i riminesi «divisi, o incerti su l’affare dell’Annona». La Municipalità propende per il sistema diretto. Per verificare se in futuro sia possibile «liberare la città dall’Appalto sempre egualmente funesto al Popolo ed ai Possidenti», essa invia a Ravenna il conte Nicola Martinelli che scriverà: «Si arrese finalmente il Porporato» [Vitaliano Borromeo], che fornì «coi suoi denari i primi fondi dell’Annona, ed ordinò» nuove leggi «distese» dallo stesso Martinelli (33), ed approvate dal Legato il 3 settembre 1770. Nel 1781 i Consoli, a capo dei quali è Martinelli, testimonieranno «con loro lettera umiliata» al Legato Luigi Valenti Gonzaga «che li nuovi stabilimenti fatti sino dall’anno 1770 per l’Amministrazione di quest’Annona dovevano
29 Cfr. ib., vari documenti del luglio 1765, passim. 30 Cfr. le citt. «Annotazioni» al Panfangolo, p. 44. 31 I quattro sono Carlo Mancini, Nicola Martinelli (che apparteneva alla Congregazione dei Signori
XII), lo scienziato veterinario Francesco Bonsi e Giuseppe Guidantoni. Il loro «Piano per la distribuzione delle limosine per le presenti Calamità» è in AP 54, Congregazione dei Signori XII, 3.2.1767. Nel «Piano» c’è questo passaggio conclusivo: «Non c’è ignoto esser questo modo soggetto pur troppo alle sue eccezioni, ma qualunque altro vogliamo immaginarne, lo sarà parimenti. La onde se fra i molti questo si è scelto se non pel più perfetto, almanco pel meno cativo. Vi sono nell’ordine fisico, e nel morale de’ vizi, e degli inconvenienti così attacati alla natura, ed all’essenza delle cose, ch’egli è impossibile il rimediarvi interamente. Tal’è la costituzione dell’umana debolezza!». (La distribuzione di formentone dal luglio 1766 al giugno 1767 ascende a 7.964 staja, per una spesa totale di 40.547 scudi.) 32 Già nel 1764 [AP 537, cit., cc. 268-270] si parla di queste gratificazioni, in regime di appalto, riconosciute legittime dai Consoli. 33 Cfr. a p. 19 della Risposta di Martinelli [vedi infra].
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dirsi tanto provvidi, quanto li dimostravano i considerabili avanzi risultati sin allora dall’ottimo regolamento dell’Amministrazione medesima» ( 34). Con il «piano» del 1770 l’Annona riminese si riserva la produzione del pane, affinché esso «sia di buona qualità a vantaggio de’ Poveri», e l’Annona stessa «non venga defraudata» ( 35). Si vuole soprattutto liberare il mercato dai panfangoli [fornai] illegali che procurano all’Annona «il maggior danno»: il fenomeno non è nuovo (36), ma deve aver raggiunto un livello preoccupante se si impetra dal Legato «un bando ben rigoroso […] con facoltà di procedere per Inquisizione anche colla deposizione di un solo Testimonio degno di fede contro non meno alli Fornari, che contro i Compratori» ( 37). L’editto legatizio (38) del 14 gennaio 1772, non risolve il problema. Il 23 gennaio 1775 si denuncia ancora «l’abuso di fabbricarsi, e spacciare pubblicamente» il pan venale «in danno notabile dell’Annona» ( 39). Pure il 21 luglio 1777 agli Abbondanzieri «fu rappresentato che […] moltissimi erano quelli che spacciavano pane e farina»: si trattava soprattutto di donne; ed il 15 dicembre dello stesso anno si ribadisce, dopo un apposito bando punitivo del Governatore, che continua «l’abuso di vendersi da’ particolari pane e farina di contrabbando, in maniera che l’Annona facea poco spaccio di detti generi con suo notabile pregiudizio». Dopo un’ulteriore denuncia degli Abbondanzieri del 17 gennaio 1780, il Governatore Antonio De Vais Fugagnoli «con permessi verbali, e senza parteciparne la Congregazione Annonaria, cominciò ad autorizzare alcuni privati alla fabbricazione e vendita del pan venale in pregiudizio dell’Annona» ( 40). Nel 1788 l’Annona accetta la situazione esistente e concede ai fornai libertà di spaccio. Il Legato Nicola Colonna di Stigliano prima approva (41) queste norme che gli «sembrano tendenti al Ben pubblico», poi le annulla ed abolisce (42) nel novembre 1791, dopo che a Rimini è iniziato un acceso dibattito sulla libertà di panizzazione (43). 34 Cfr. le citt. «Annotazioni» di Battaglini al Panfangolo, p. 47. Lo scritto ha un carattere polemico
verso Martinelli che, come vedremo, da sostenitore del sistema diretto dell’Annona nel ’70, diventerà fautore della libertà di panizzare. 35 Cfr. AP 112, Annona 1768-1776, 16.8.1770. Il «piano» è anche nel Panfangolo, pp. 69-76 (con lettera del Legato al Governatore, 3.9.1770). 36 Nel 1686, 1694 e 1698 furono pubblicate proibizioni ai «Particolari» di vender pane in pregiudizio dell’Abbondanza [AP 621, I, cit., foglio 15]. Nel «rescritto» sull’Abbondanza del 21.10.1715 (che mira a provvedere «alli disordini che giornalmente succedono, o che potessero succedere»), il Cardinal Ulisse Giuseppe Gozzadini, Legato a latere e Vescovo di Imola, lamenta che «talvolta li fornari si fanno lecito di vender pane, e farina nelli loro forni contro le disposizioni, et ordini altrevolte sopraciò emanati» e proibisce che si «possa spianar grano fuori di quello dell’Abbondanza» [ib., I, 19]. Il «rescritto» rimanda a decreti precedenti del 1632 (del Visitatore e Commissario Apostolico mons. Lelio Falconieri) e del 1656 (del Cardinal Ottavio Acquaviva d’Aragona, deputato Legato di Romagna). 37 Cfr. AP 112, cit., 16.8.1770. 38 Cfr. le citt. «Annotazioni» al Panfangolo, pp. 49-50. 39 Ib, p. 48. 40 Ib, p. 49. 41 Cfr. AP 900, Epistolario 1780-1794, 20.9.1788, c. 143v. 42 Ib, 26.11.1791, cc. 190-191. L’antefatto è nella Memoria presentata da Battaglini ai colleghi dell’Abbondanza il 30.9.1791 [in AP 99, Congregazione Annona 1789-1800, cc. 32v-37r]. 43 Per tale dibattito, cfr. L. Dal Pane, Una controversia sull’Annona di Rimini nel secolo XVIII, in «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, XL [1932], III», pp. 327-345; e
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Nella disputa si scontrano due partiti opposti, mentre pesano ancora i debiti per la carestia del 1765-68, e ci sono nuove lagnanze della «popolazione più povera» per i danni provocati alle sue misere condizioni economiche dai panfangoli con variazioni di prezzo che non esistono con il sistema diretto. A favore del quale si schiera il nobile Abbondanziere Francesco Battaglini («sia l’Annona l’unico Panfangolo», egli sostiene). Contro è Nicola Martinelli che, come abbiamo già visto, nel 1770 ha redatto (in qualità di Abbondanziere) quel «piano» il quale attribuiva la panizzazione in esclusiva all’Annona. Martinelli ha cambiato idea: se allora aveva ritenuto l’appalto «sempre egualmente funesto al Popolo ed ai Possidenti», ora si batte per una libertà economica che un breve passo separa dalla libertà di pensiero (44), e che ha sostenitori illustri come Cesare Beccaria (45). In riferimento alle posizioni di Battaglini, Martinelli scrive che esse non sono temute da «chi è versato nella scienza dell’Economia politica» e si è accostato agli studi fatti in questo campo negli ultimi tre decenni (46). Il problema della protezione dei bisognosi passa in secondo piano nel pensiero di Battaglini: il quale sostiene che i debiti per la carestia del 1765-68 non debbono ricadere su tutta la comunità, ma esser pagati tramite «lo spaccio del pan venale» usato dal povero; e che gli utili dell’Annona (47), debbono essere investiti, in base alle disposizioni emanate dal Cardinal Oddi nel 1744, nei restauri del porto canale (48), il quale ha un ruolo fondamentale nelle attività commerciali della
M. A. Zanotti, Giornale di Rimino, tomo V, SC-MS. 312, BGR, pp. 294-307. La successione cronologica è la seguente: I) Il 30.9.1791 Francesco Battaglini presenta la sua Memoria ai colleghi dell’Abbondanza. II) «Contestualmente» gira «uno scritto opposto», attribuito a Nicola Martinelli, il Paralello aritmetico, e ragionato fra il vecchio, e il nuovo sistema annonario [Zanotti, p. 296]. III) Battaglini pubblica [1791] Il Panfangolo riminese. Dialogo con annotazioni (pp. 3-68), in cui presenta pure le leggi annonarie del 1770 [pp. 69-76], la cit. Memoria del 30.9 [pp. 77-85] ed un polemico esame del Paralello [pp. 86-100]. IV) Martinelli compone una Risposta a conto, e non a saldo. V) Secondo Zanotti [p. 299] «i sostenitori dell’Annona nulla risposero rimettendosi a quanto avevano già prima espresso»: invece «i fazionarj della libertà non si appagarono di un tal silenzio, ma fermi nel loro pensamento, aggiunsero alle prime invetive le seconde col saldo de’ loro sentimenti» [ib.]. Sappiamo da altra fonte [AP 900, cit., 26.11.1791] che «queste stampe» a saldo vengono proibite dal Legato, il quale annulla ed abolisce «l’introdotta libertà di panizzare». 44 Furio Diaz, in Politici e ideologi, «Storia della Letteratura Italiana, VI. Il Settecento», Garzanti, Milano 1968, pp. 218-219, cita al proposito uno scritto [1792] di Francesco Maria Gianni sul rapporto tra libertà economica e di pensiero. 45 Della libertà di panizzazione Beccaria parla già da quasi due decenni, nei suoi corsi universitari: cfr. la nota bio-bibliografica premessa alle Opere dello stesso Beccaria, Sansoni, Firenze 1958, pp. XCIX-C; nello stesso volume [in «Elementi di economia pubblica, parte II, Del Regolamento dell’Annona» di Beccaria medesimo, p. 476], leggiamo la difesa della «concorrenza di venditori» perché «abbassa il prezzo». 46 Cfr. la cit. Risposta, pp. 3-4. Oltre ad essere una significativa dichiarazione autobiografica, queste parole documentano la diffusione di quegli studi a Rimini. 47 L’opinione di Battaglini è a p. 56 delle citt. «Annotazioni» al Panfangolo. Essa viene ripresa e contestata da Martinelli alle pp. 10-11 della Risposta. 48 Nel verbale dell’Annona del 29.11.1791 [AP 99, cit., c. 41v], si legge che «dall’anno 1745 fin al 1765 l’Annona ha contribuito al Porto la somma di scudi 11.298:90:8: cioè negli anni in cui furono appaltati i Forni, tutta intiera la Corrisposta, e negli anni, nei quali l’Annona andò a conto pubblico, applicandone al Porto gli utili in ragione di baj: 25 per ogni sacco di grano
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città, di cui è un simbolo. Martinelli contesta l’opinione di Battaglini, accusando l’Annona di non aver fatto l’interesse del popolo, perché «si rosicava quasi un’oncia per bajocco sul calmiere» per rimborsarsi della perdita per la carestia del 1765-68: «Il diminuire per tanto l’oncia del pane al Popolo, e specialmente allo stesso povero con questo pretesto era un doppio delitto, e perché la diminuzione si opponeva al diritto naturale, e perché era contraria alla legge del sovrano» ( 49). Nel 1792 (anno in cui, con la guerra, la rivoluzione dalla Francia invade l’Europa), a Rimini si riafferma l’esclusiva dell’Abbondanza e si riapre lo spaccio comunale, con un altro piano annonario contro i panfangoli, voluto dal Legato come «perpetua legge» ( 50). Evidentemente il piano resta disatteso se il 23 settembre 1795 il Legato Colonna impone la «cessazione dei panfangoli» (già decretata, come s’è visto, nel novembre 1791), dopo aver ordinato il 25 agosto la panizzazione nel forno pubblico, «senz’aggravio della Comunità e col possibile maggior sollievo de’ Poveri», secondo le nuove «massime» del Buon Governo (51) che obbligano a produrre due tipi di pane: il primo, «commune» (o «venale») di sette once a bajocco per il popolo; il secondo «di lusso» (52), di cinque once a bajocco, «accomodo de’ Possidenti e benestanti», come scrive lo stesso Legato. Nell’anno annonario 1766-67 «per maggiore vantaggio, e sollievo de’ Poveri», l’Abbondanza riminese (in sistema diretto) aveva stabilito di «spianare una sola qualità di pane […] quello di tutta Farina», dal peso di sei once a bajocco (53), accettando una perdita di scudi 2:15:7 per stajo, per evitare «qualche comozione nel Popolo», mentre dai «possidenti ricchi» si era proposto di calare l’oncia ( 54). Nell’anno annonario 1764-65, ultimo in regime di appalto, il peso del pane «venale» era stato di undici once, e quello del pane «affiorato» di nove once a bajocco (55). Lo scarso raccolto del 1795, che rende necessario provvedere (56) a «diverse compre e
spianato in Pan bianco». (L’appalto copre il triennio 1744-46; e poi riprende dal 1755 al 1764.) Era stato il Cardinal Aldrovandi con «decreto di visita» del 22 ottobre 1744 a stabilire che «gli avanzi annuali dell’Abbondanza» fossero «assegnati alla Fabrica del Porto»: «la risposta dell’Appaltatore […] con tutti gli altri effetti dell’Abbondanza rimane ippotecata sempre per i Lavori, e Debiti del Porto» [AP 537, cit., 1764, c. 269v e c. 271]. 49 Cfr. alle pp. 7-8 della cit. Risposta, ove Martinelli rimanda a quanto da lui sostenuto nel precedente Paralello [vedi supra]. 50 Cfr. M. A. Zanotti, Giornale di Rimino, tomo V, cit., p. 302. Alle pp. 303-304 Zanotti ricorda che il 16.2.1793 l’Annona riminese decide di innalzare una lapide al Legato «in grata memoria del beneficio fatto alla città nella ripristinazione, e nuovo stabilimento» della medesima. 51 Cfr. AP 496, Corrispondenza del Governatore di Rimino 1794-1797, cc. 16 e 15: sono due lettere del Legato. 52 Il «pane di lusso», in base alle disposizioni del Buon Governo, ha «tanto minor peso quanto basterà per indennizzare la Comunità, o suo Appaltatore di quello potesse avere di remissione, o scapito colla prima specie» [AP 496, cit., cc. 15r/v]. Il 23.9.1795 il Legato comunica al Governatore di Rimini: «Si rende necessario di fare il calcolo a quanto ascende la perdita sul pane comune di mano in mano, e per caso si aumentassero i prezzi del grano, ed in conformità della medesima regolare il peso del pane di lusso in modo che venga a stabilirsi il proporzionato equilibrio» [ib., c. 16]. 53 Cfr. AP 486, cit., agli Anziani di Ancona, 2.10.1766. 54 Cfr. AP 54, cit., 25 e 28.11.1766. 55 Ib, ai Priori di Pesaro, 28.7.1765. Nel 1691 è registrato «il calo di un Oncia del Pane» [AP 621, I, cit., foglio 13]. 56 La notizia è tratta da verbali dell’anno successivo. Cfr. in AP 99, cit., 30.8.1796, cc. 220r/v; e
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prestanze» di grano (subito ridotto «in farina, e consegnata al fornaro, ed allo spacciatore senza esserne immagazzinata»), costa all’Annona riminese circa settemila scudi. Nel 1796 i Consoli, per rimediare alle perdite provocate dal «pane commune», ne propongono al Buon Governo una riduzione di peso per non portare «alla ruina» tutta la Comunità, pur essendo consapevoli che «quiete e tranquillità nel popolo» sono fondate «principalmente sul buon peso del pane» ( 57). Il raccolto del 1796 è di «non molto» superiore a quello del 1795: ora però le casse dell’Abbondanza sono vuote e la città è senza credito, per cui non può ottenere prestiti. Nel corso del 1796, non solamente nelle campagne (dove vive la «misera utilissima classe dei coloni» i quali «meno profittano del pan commune cibandosi ordinariamente di legumi»), si va verso un «evidente pericolo della fame» e una «comune miseria», a causa di alcuni eventi: la contribuzione imposta dai francesi (58); una nuova epidemia bovina (59); l’aumento del prezzo del grano e dei compensi richiesti dai molinai; la siccità nelle fosse Patara e Viserba, alla quale vanno aggiunti i furti d’acqua compiuti dai verucchiesi, per cui l’Annona è costretta a procurare farina altrove e con forte spesa; la presenza di «sediziosi, e prepotenti» che turbano il contado dove accadono «derubbamenti, e crassazioni di fuorusciti, e vagabondi»; la preparazione della guerra contro Napoleone; le spese per le prime truppe pontificie, britanniche e napoletane; le pretese dei «subalterni inservienti» dei soldati pontifici che chiedono di «aver pane senza pagamento» ( 60); oltre alla mancanza di «ogni provvidenza per parte della Legazione» ( 61). Nella duplice istanza inviata dai Consoli riminesi alla Segreteria di Stato ed alla Congregazione del Buon Governo sulla «Situazione ruinosa della Pubblica Cassa» ( 62), si ricorda «la vistosa perdita» di 11.000 scudi per il pane comune. Le truppe napoleoniche occupano Rimini sabato 4 febbraio 1797, il giorno successivo comincia il «Governo francese». Alla fame, provocata anche dalle requisizioni militari, si accompagnano rivolte contro l’invasore (63). La Municipalità di Rimini si dimostra consapevole delle cause economiche della cosiddetta «infestazione della Campagna» quando scrive al Comandante della Piazza Lapisse, che «le Montagne da cui calano quei scelerati, sono scarsissime di viveri», per la proibizione «uscita dall’Amministrazione Centrale di lasciar sortir generi dalla 1.9.1796, cc. 220v-221r. 57 Cfr. la supplica inviata l’11.8.1796 [AP 502, Copialettere della Magistratura 1796-1797]. 58 In base all’armistizio del 23.6.1796, lo Stato della Chiesa deve sborsare in moneta francese una
contribuzione complessiva di ventuno milioni di lire. In AP 927, Giornale di Entrata e di Uscita, si legge che da Rimini ai francesi furono versati 67.332 scudi dei 95.117 raccolti. Circa il sopravanzo, cfr. la nostra comunicazione alle Giornate di Studio 1999 della Società di Studi Romagnoli, di prossima pubblicazione, intitolata L’«opulenza superflua degli Ecclesiastici». Nobili, borghesi, clero in lotta per la contribuzione del 1796. Documenti inediti della Municipalità di Rimini. 59 Cfr. AP 71, Congregazione di Sanità, passim. 60 Cfr. AP 502, cit., documenti del luglio 1796; ed AP 99, cit., verbali da agosto a dicembre 1796. 61 Cfr. AP 502, cit., lettera del 29.12.1796 dei Consoli al loro «Procuratore» a Roma, abate Giuseppe Quaglia. 62 AP 502, cit. 29.12.1796. Nel documento si rammentano anche le spese per il terremoto del 1786 e per vari lavori pubblici. Analoghe argomentazioni si trovano nella petizione inoltrata a Bonaparte il 7.2.1797 [ib.]. 63 Nella nostra comunicazione alle Giornate di Studio 1998 della Società di Studi Romagnoli, di prossima pubblicazione, intitolata Fame e rivolte nel 1797, Documenti inediti della Municipalità di Rimini, abbiamo ampiamente trattato di questo argomento.
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Provincia». La proibizione «potrebbe obbligarli per la fame a maggiori violenze: giacché una gran parte del Monte Feltro, in cui sonosi annidati per la maggior parte detti Forusciti, non possono tirare la loro sussistenza, che dalla Piazza di Rimini». Il perdono concesso agli insorti dai francesi non risparmia la fucilazione, sul corso di Rimini il 1° maggio 1797, al contadino ventiseienne Francesco Raschi di Santarcangelo. Per completare il discorso, ricordiamo che l’Annona riminese, nel corso della sua storia, fu condizionata anche da altri fattori. Ci sono anzitutto le difficoltà nel ‘trovare’ gli Abbondanzieri. Nel 1678 il Consiglio generale non approva una proposta secondo cui, «venendo molte volte eletti alcuni, li quali poch’anni antecedenti havevano essercitata tale carica, et ommessi altri, da quali non è stata mai essercitata, e parendo conveniente che tutti debbono partecipare di quest’Uffitio oneroso, ò lucroso che sia», si poteva «astringere» un consigliere eletto all’ufficio dell’Abbondanza, soltanto nel caso in cui lo avesse già esercitato da più di dieci anni (64). Il «rescritto» del Legato Gozzadini (1715) contiene norme affinché per l’elezione dei quattro Abbondanzieri si facciano sorteggi come per la scelta dei Consoli, ed ogni nome sia ballottato [votato] separatamente, stabilendo che ad ognuno dei consiglieri debba essere «distribuito il peso di detta Abbondanza» (65). Agli Abbondanzieri è vietato di pagare in natura «sotto qualsivoglia pretesto» l’opera del «molaro», dando «bestiami, vino, o altro». Passiamo ad un altro punto, relativo al grano «privilegiato» degli ecclesiastici. Nel 1677 l’Annona apre un negoziato con il Vescovo «acciò si degni di dare il grano della sua Mensa» («al prezzo corrente, et a qualche cosa di vantaggio»), e chiuda il forno aperto «in grave pregiudizio dell’Abbondanza, e dell’istesso Pubblico per li pesi, e datii che sono sopra il pane venale» ( 66). Il Legato Carlo Marini nel 1729 stabilisce che dai «particolari» i grani «devono somministrarsi al prezzo corrente». I «Capitoli» Aldrovandi del 1744 ribadiscono la proibizione di aprire forni da parte di «altri fornari, fuori che da quelli, che sono interessati all’Appalto», e di «vendere pane di qualunque sorta né in pubblico, né in privato», con la precisazione che la norma vale anche per qualunque «Ecclesiastico privileggiato, e privileggiatissimo». Il primo a violare questa disposizione è, nel 1754, il Cardinal Ludovico Maria Torregiani (67), abate commendatario delle abbazie cittadine di san Giuliano e san Gaudenzio e futuro segretario di Stato di Clemente XIII. In quel tempo, gli ecclesiastici sono un dodicesimo della popolazione del territorio riminese (città, contado e bargellato), e possiedono circa un terzo di tutti i terreni (68). Sul finire del 1762 a Rimini è aperto un nuovo forno per panizzare il grano «privilegiato» della Mensa del Vescovo Cardinal Lodovico Valenti e quello delle due abbazie di san Giuliano e san Gaudenzio. La farina ricavata da questo grano ed il pane prodotto da quel forno sono venduti in spacci e botteghe sparsi «per tutta la città» (69). Il grano della Mensa vescovile è riscosso nella diocesi a titolo di decima delle singole chiese. Esso è definito «privilegiato» perché non deve sottostare agli obblighi fiscali locali («taglioni, ed altre gravezze»), in quanto proveniente da
64 Cfr. AP 871, cit., seduta del 21.3.1678. 65 Si registrano ad esempio quindici rinunce all’ufficio di cassiere [AP 877, Atti del Consiglio
Generale, 1766-1777, p. 41, 11.8.1767]. 66 Cfr. AP 871, cit., c. 21r. In un documento dell’11.12.1755 in AP 481, cit., a proposito dei grani
privilegiati, si parla delle «mire cotanto pregiudiziali ai Laici degli Ecclesiastici». 67 Cfr. in AP 110, cit., il Memoriale del 9.12.1754. 68 Cfr. AP 481, cit., 11.12.1755. Nel 1744 l’economia delle «ville del Barigellato» viene unita a
quella della Comunità di Rimini [AP 484, cit, 23.9.1762, c. 189]. 69 Le notizie che seguono sono ricavate da AP 876, cit., cc. 100-103; AP 111, Annona 1761-1764,
passim; AP 484, cit., passim.
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«luoghi fuori di territorio»: è infatti prodotto in fondi non sottoposti alla giurisdizione della Comunità di Rimini. In base alle «sovrane disposizioni», la stessa Comunità deve sottostare però ad una norma che permette ai produttori dei grani «privilegiati» di dichiarare se vogliono o no venderli all’appaltatore (70). L’appaltatore del 1762, Andrea Bagli, ricercato dai Cardinali Valenti e Torregiani «per la compra del loro grano», si è dichiarato «pronto a comprarlo con l’aumento della vigesima (71), ma i due porporati pretendevano assai di più. E vedendo che non potevano indurre l’Appaltatore a pagar[g]li il prezzo desiderato, si risolsero di aprire il Forno, come di fatti l’apersero, e così esitare il loro grano panizzandolo». Mentre il prezzo corrente oscillava tra i 24 ed i 25 paoli allo staro, i due Cardinali ne chiedevano 30. Bagli ritiene lesi i suoi diritti ed inoltra «giudiciale Intimazione» alla Comunità di Rimini, in cui fa «protesta di tutti li danni, che soffriva». La Comunità riminese, dopo l’intimazione di Bagli, «non credette di moversi né punto né poco»: per questo egli decise di «avanzar ricorso» alla stessa Congregazione, «a fine di ottenere l’ordine, che fosse chiuso il Forno dai due Eminentissimi aperto, come di fatto l’ottenne». Avuta soddisfazione a Roma, Bagli chiede all’autorità locale di assumersi «il peso di far eseguire un simil ordine». Riceve una risposta negativa, perché la Comunità è «fissa nella credenza di non dover prendere parte in questa briga». Nonostante l’ordine impartito dal Buon Governo, il Vescovo Valenti «proseguì lo spiano del grano della sua Mensa», mentre il Cardinal Torregiani continua nello stesso forno a «panizzare i grani delle sue Badie» ed a «vendere in più sitti della Città il pane». I due Eminentissimi fanno presentare a Bagli una «citazione inibitoriale», della quale egli stesso dà notizia alla Comunità di Rimini che «però non si mosse», dichiarando «insussistente» ogni pretesa dell’appaltatore di vedersi difendere nella privativa. «L’appaltatore non volendo intraprendere lite con li due porporati», scrive la Municipalità, «si risolse di comprare il grano per quel prezzo che Essi volevano maggiore della vigesima, ad effetto restasse chiudo quel Forno» ( 72).
70 La clausola non piace all’appaltatore: essa lo obbliga a dovere attendere che gli ecclesiastici
decidano se vendere o no; lo costringe a comprare il grano, in caso di offerta, ad un prezzo maggiorato, la cosiddetta «vigesima» [su cui cfr. nella nota seguente]; in caso contrario, egli deve procurarsi il grano al prezzo corrente, che può essere superiore a quello di inizio dell’anno annonario. 71 La «vigesima» era stata introdotta il 24 gennaio 1757 con decreto del Buon Governo, in seguito ad un ricorso della Mensa vescovile riminese [AP 481, cit., 11.12.1755]; ed era una maggiorazione, «a riflesso della qualità de’ Grani di detta Mensa d’ottima qualità, poiché vallati a più valli, e liberi in conseguenza d’ogn’immondezza», pari a venti scudi sul costo totale [AP 111, cit., 29.8.1763]. Il prezzo dei mercati solitamente non dipendeva dal fatto che il grano fosse «vallato» o meno, ma influivano soltanto «le diverse qualità» [AP 484, cit., 2.12.1762, cc. 208v-209]. 72 Il 19.8.1763 in Consiglio Generale si discute una nuova istanza di Bagli che chiede ancora i danni «per l’apertura del nuovo Forno», e si legge il parere steso dai Consoli contro le pretese dell’appaltatore, tutte respinte sostenendo che la privativa riguarda soltanto i laici perché essa è stata concessa dal Legato, e non tocca anche gli ecclesiastici (nel qual caso si sarebbe dovuta ottenere dal Papa); e che la decisione del Buon Governo di chiudere il forno dei due Eminentissimi era opinione non dell’intera Congregazione, ma soltanto dello scrivente Cardinale Enriquez. I 36 consiglieri approvano all’unanimità i pareri dei Consoli. Nell’estate 1764 Bagli denuncia [AP 537, cit., cc. 274 e segg.] il danno subìto con il metodo usato per il nuovo appalto: dopo l’apertura delle offerte, per ben due volte fu imposto di ripresentarle. Bagli ricorda di aver fatto vendere nel periodo del suo appalto (1763-64) «il pane a maggior peso di quello [a cui] erasi obbligato», come da attestato ricevuto: ciò è confermato dai Consoli
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Nel 1766 gli ecclesiastici sono obbligati dal Buon Governo a partecipare al pagamento dei debiti «della passata, e presente carestia» (73). Un altro elemento di disturbo all’Annona, è costituito dal contrabbando. Il 7 febbraio 1761 nel Consiglio generale di Rimini è letto il memoriale inviato al Legato da Alessandro Lancellotti, «appaltatore della Farina» (74), il quale lamenta che «si commettono infiniti Contrabandi» a suo danno. In generale, scrive, i contrabbandieri si comportano «con il miglior modo, che sia possibile per non venir discoperto», ma si ritrova anche chi «baldanzoso, e senza timore della giustizia pretende a forza contrabandare» con nessun disturbo: «Questo è il cittadino Andrea Lettimi». Lettimi, che nel 1770 acquisterà il palazzo che porta ancora il suo nome facendovi poi eseguire importanti lavori (75), è stato accusato già «dalli 25. ottobre» 1760 perché in soli due giorni aveva venduto libbre 528 di farina». Con questa denuncia, aggiunge Lancellotti, si è aperta in Roma una lite giudiziaria costosa che corre il rischio di non approdare a nulla perché Lettimi «con mille racomandazioni, e prepotenze fa in modo, che non siano intese» le ragioni della parte lesa, e che non vengano rispettate «le giuste, e provvide leggi della Legazione sopra li Contraventori». Fa osservare Lancellotti: «Ardì lo stesso Lettimi ne’ giorni passati» spedirgli un «monitorio» attraverso il Cardinal Camerlengo, «colla pretensione d’esser mantenuto in possesso di dare la farina delle sue Entrate in scomputo delle mercedi de’ suo Operarj del Filatojo»: «in vigore di questo monitorio», Lettimi «ritornò a dispensare, e vendere più di prima la farina a detti suoi Operarj». Il Bargello di Rimini accusa di contrabbando non il ribelle Andrea Lettimi, ma due operai del suo filatoio, facendoli incarcerare «per avere avuto notizie da un suo Amico». Lettimi adesso, osserva Lancellotti, «medita di far precipitare l’Appalto, asserendo che ogni Possidente può liberamente dare alli suoi Domestici, et Operarj la farina in scomputo delle mercedi, e ciò viene affermato da altri Consiglieri, che bramano levare l’appalto per rimettere in pristino l’Abbondanza». Lettimi è un Consigliere di grado civico, cioè non nobile. Nell’adunanza in cui, il 7 febbraio ’61, si esamina il memoriale contro di lui, non si presenta. A Lancellotti, che chiede di por fine alla «baldanza di detto Lettimi per le sue esorbitanti vendite di farina» con un provvedimento «che sia d’esempio agli altri ancora», il Consiglio risponde che non risulta «cosa faccia il Sig. Lettimi, e cosa pretenda il Lancellotti, il quale attesa la pendenza della Lite in Roma, e del Monitorio dell’Eminentissimo Camerlengo puole instare avanti il Giudice della causa per far valere le sue ragioni». La storia si ripete: il 30 luglio 1763 ad Angelo Sagramora, conduttore della privativa del pane e della farina (di cui è appaltatore Andrea Bagli), la Congregazione del Buon Governo dà torto (76). Lettimi può tranquillamente pagare i salari dell’officina serica con il grano che sono a favore di Bagli e contro Francesco Venturi e Michele Lorenzini, vincitori dell’appalto ’64-65. 73 Cfr. AP 899, Registro di lettere e patenti, 1764-1780, 26.9.1766, p. 57. 74 Cfr. AP 876, cit., cc. 25v-26. (La corrisposta annua è di 170 scudi.) Sull’argomento cfr. pure in AP 537, cit., alcuni documenti del settembre-ottobre 1761 [cc. 131v-132 e cc 189-190]. In precedenza, dal 1755 al ’58, Lancellotti era stato doganiere [ib., cc. 207v-208v]. 75 Cfr. M.A. Zanotti, Giornale di Rimino, t. II, SC-MS. 309, pp. 126-127: «Venne in questo anno 1783 alzato, e ben ristaurato, e rifinito il Palazzo della nobile famiglia Lettimi». 76 Sulla lite, in «Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese» [BGR], si trova la difesa di Angelo Sagramora, stilata da Enrico Jamar. A Jamar rimanda una delle quattro «Schede Gambetti» [BGR] relative ad Andrea Lettimi. Esiste poi anche una scheda «Gambetti» intitolata a Jamar, con il titolo della difesa, Arimin. Privativæ super manutentione pro Angelo Sagramora conductore farinæ Civitatis Arimini contra Andream Lettimi. La causa civile è ricostruibile attraverso la stampa esistente in BGR, segn. 11.MISC.RIM.CXXV,55.
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delle sue proprietà, anche se esiste un bando che lo proibisce. Il 5 febbraio 1770 Andrea Lettimi viene promosso all’unanimità al grado di Consigliere Nobile (77), pagando i 500 scudi di «regalo» previsto dalle leggi riminesi (78). La decisione, spiega il verbale, è presa in considerazione delle «sovrane premure di Nostro Signore accompagnate con obbliganti generosissimi sentimenti dalla viva voce dell’Eminentissimo e Reverendissimo Signor Cardinale Borromeo nostro Legato ora presente in questa Città». I Consiglieri obbediscono al Papa: «singuli, ex rassegnatione facta unanimes, viva voce, nemine discrepante, acclamarunt fiat, fiat, fiat». Nel maggio 1772 Lettimi riesce a far nominare Podestà di Coriano il genero dottor Giuseppe Baldini (79). La notizia lo raggiunge a Comacchio, dove è «appaltatore» di quelle Valli (80).
77 La notizia è desumibile da AP 877, cit., c. 150. Il giuramento avviene il 12 successivo [ib.]. 78 Nel 1687, la tariffa del «regalo» era stata stabilita al doppio: ma nel 1692 (per soli dodici nuovi
Nobili) venne dimezzata perché non si trovava nessuno che potesse spendere la cifra prima prevista. Per soli quattro nuovi Cittadini, sempre nel 1692, la tariffa fu di centocinquanta scudi. Il 5.12.1722, per i Cittadini la cifra originale (del 1687) viene ribassata da trecento a duecento scudi. Sull’«Ordine civico», cfr. AP 502, cit., agli Anziani di Faenza, 27.9.1796 . 79 Cfr. lettera del 30.5.1772 diretta da Roma ad Andrea Lettimi (Comacchio) a firma Carlo Pallavicino, in «Fondo Lettimi» [BGR]. 80 Così si legge in una delle citt. «Schede Gambetti» [BGR] relative allo stesso Andrea Lettimi. Nel «Fondo Gambetti, Lettere al Dottor Giovanni Bianchi» [BGR], si conserva un solo documento di Lettimi: è una missiva del 6.9.1769, da Roma con le «più sincere congratulazioni» per la nomina di Bianchi (Iano Planco) a «medico» di papa Ganganelli. In tale epistola, di qualche momento per la storia locale segnaliamo un brano relativo alla gestione del Porto Canale.
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APPENDICE 1. Andrea Lettimi «contrabbandiere» di farina. Il 7 febbraio 1761 al Consiglio Generale di Rimini viene letto un memoriale inviato al Cardinal Legato di Romagna dal signor Alessandro Lancellotti, «Appaltatore della Farina» (81), il quale lamenta che «si commettono infiniti Contrabandi» a suo danno. Come pubblico appaltatore, soltanto lui può vendere farina: chiunque altro lo faccia, è passibile di denuncia e condanna. Così vogliono le leggi. E così lui spera che ci si regoli davanti alla sua protesta. In generale, egli scrive nel memoriale, i contrabbandieri si comportano «con il miglior modo, che sia possibile per non venir discoperto». Ma si ritrova anche chi «baldanzoso, e senza timore della giustizia pretende a forza contrabandare» senza esser disturbato: «Questo è il cittadino Andrea Lettimi», precisa Lancellotti. Nella storia di Rimini il nome di Andrea Lettimi s’incontra per un evento più glorioso, l’acquisto nel 1770 del palazzo che porta ancora il suo nome e che lui successivamente fece alzare, restaurare e rifinire, come annota un cronista del tempo, il notaio Michel’Angelo Zanotti (82). Dal memoriale di Alessandro Lancellotti e da altri documenti possiamo ricavare inedite notizie su Lettimi, relativamente alla sua attività ed alla sua carriera politica. Lancellotti scrive che Lettimi fu accusato già «dalli 25. ottobre dell’anno prossimo scorso [il 1760] perché in soli due giorni aveva venduto libbre 528 di farina». Con questa denuncia, aggiunge l’appaltatore, si è aperta in Roma una lite giudiziaria costosa che corre il rischio di non approdare a nulla perché Andrea Lettimi «con mille racomandazioni, e prepotenze fa in modo, che non siano intese» le ragioni della parte lesa, e che non vengano rispettate «le giuste, e provvide leggi della Legazione sopra li Contraventori». Ma c’è qualcosa di peggio, fa umilmente osservare Lancellotti: «Ardì lo stesso Lettimi ne’ giorni passati» spedirgli un «monitorio» attraverso il Cardinal Camerlengo, «colla pretensione d’esser mantenuto in possesso di dare la farina delle sue Entrate in scomputo delle mercedi de’ suo Operarj del Filatojo». E’ una diffida di Lettimi a Lancellotti perché receda di denunciarlo: «in vigore di questo monitorio», aggiunge l’appaltatore, Lettimi «ritornò a dispensare, e vendere più di prima la farina a detti suoi Operarj». Il Bargello di Rimini accusa di contrabbando non il ribelle Andrea Lettimi, 81 Cfr. AP 876, Atti del Consiglio Generale, 1760-1766, cc. 25v-26, Archivio Storico Comunale in 82
Archivio di Stato di Rimini [ASR]. Cfr. M.A. Zanotti, Giornale di Rimino, t. II, SC-MS. 309, pp. 126-127, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [BGR]: «Venne in questo anno 1783 alzato, e ben ristaurato, e rifinito il Palazzo della nobile famiglia Lettimi», ecc.
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ma due operai del suo filatojo, facendoli incarcerare, e sostenendo di aver agito «per avere avuto notizie da un suo Amico». A Lettimi non mancano né la voglia né la forza per trovare altri argomenti a proprio favore: adesso, osserva Lancellotti, egli «medita di far precipitare l’Appalto, asserendo che ogni Possidente può liberamente dare alli suoi Domestici, et Operarj la farina in scomputo delle mercedi, e ciò viene affermato da altri Consiglieri, che bramano levare l’appalto per rimettere in pristino l’Abbondanza»: cioè, ci si voleva affidare direttamente ai servizi comunali. L’Abbondanza è un organismo amministrativo composto da quattro consiglieri eletti, nato verso la metà del XVI secolo, e regolato poi da nuove norme all’inizio di quello successivo. I quattro Abbondanzieri avevano l’obbligo di tenere provvista la città di grano, farina e pane. Nel momento in cui ci troviamo con la vicenda di Lancellotti e Lettimi, l’Abbondanza non cura direttamente la ‘fabbricazione’ del pane e la vendita della farina, ma affida il compito ad un privato, mediante un’asta al miglior offerente. L'appalto per il periodo ottobre 1760-settembre ’61 è stato affidato ad Angelo Sagramora, il quale ha concesso a Lancellotti quello della sola farina per 170 scudi, contro i 600 che lo stesso Sagramora deve corrispondere alla Comunità. E’ un sistema (introdotto nel 1755) che non a tutti piace, come si ricava dal passaggio del memoriale di Lancellotti, quando ricorda che «altri Consiglieri» difendono il comportamento di Lettimi, bramando «levare l’appalto» (83). Anche Lettimi è un Consigliere (di grado civico, cioè non nobile) della città di «Rimino». Nell’adunanza in cui, il 7 febbraio ’61, si esamina il memoriale contro di lui, ha il buon gusto di non presentarsi, così i suoi colleghi possono discutere il caso in tutta libertà. Ma da quanto apprendiamo dal verbale della seduta, il Consiglio non aveva nessuna intenzione di metter legna sul fuoco. Anzi. Preferisce ricorrere a un bel secchio d’acqua per spegnere fiamme fastidiose. A Lancellotti, che chiede di por fine alla «baldanza di detto Lettimi per le sue esorbitanti vendite di farina» con un provvedimento «che sia d’esempio agli altri ancora», il Consiglio risponde con un gesto pilatesco: non risulta «cosa faccia il Sig. Lettimi, e cosa pretenda il Lancellotti, il quale attesa la pendenza della Lite in Roma, e del Monitorio dell’Eminentissimo Camerlengo puole instare avanti il Giudice della causa per far valere le sue ragioni». Come a dire: noi non c’entriamo per nulla, ci pensi la Giustizia romana a fare il suo corso. La storia si ripete poco dopo. Il 30 luglio ’63 ad Angelo Sagramora, «conduttore» della privativa del pane e della farina (di cui è appaltatore Andrea Bagli), la Congregazione del Buon Governo dà torto (84). Andrea Lettimi può 83 Della riforma del 1755 tratteremo in altra occasione. 84 Sulla lite, in «Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese» [BGR], si trova la difesa di
Angelo Sagramora, stilata da Enrico Jamar. A Jamar rimanda una delle quattro «Schede
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tranquillamente pagare i salari dell’officina serica con il grano delle sue proprietà. Non conta nulla che esista un bando che proibisca simili comportamenti. Il 5 febbraio 1770 Andrea Lettimi viene promosso all’unanimità al grado di Consigliere Nobile (85). La decisione, spiega il verbale, è presa in considerazione delle «sovrane premure di Nostro Signore accompagnate con obbliganti generosissimi sentimenti dalla viva voce dell’Eminentissimo e Reverendissimo Signor Cardinale Borromeo nostro Legato ora presente in questa Città». Insomma, da Roma è venuto l’ordine di innalzare Lettimi a maggior dignità sociale e politica. I Consiglieri obbediscono al Papa: «singuli, ex rassegnatione facta unanimes, viva voce, nemine discrepante, acclamarunt fiat, fiat, fiat». Nel maggio ’72 Lettimi riesce a far nominare Podestà di Coriano il proprio genero dottor Giuseppe Baldini (86). La notizia lo raggiunge a Comacchio, dove Andrea Lettimi è «appaltatore delle Valli di Comacchio» (87). Il padre di Andrea Lettimi, Claudio Almerico (88), davanti alla Curia Vescovile riminese era stato accusato di stupro da Elisabetta Parri. Nel 1683, Claudio ottenne «rinuncia» da Elisabetta ad ogni querela (89), in cambio di una dote di scudi quaranta che la donna avrebbe ricevuto soltanto al momento in cui fosse entrata nella Casa Pia di Santa Maria del Soccorso, chiamata delle «Malmaritate», posta nella parrocchia di San Bartolomeo (90).
Gambetti» [BGR] relative ad Andrea Lettimi. Esiste poi anche una scheda intitolata a Jamar, con il titolo della difesa, Arimin. Privativae super manutentione pro Angelo Sagramora conductore farinae Civitatis Arimini contra Andream Lettimi. La causa civile è ricostruibile attraverso il testo a stampa esistente in BGR, segn. 11.MISC.RIM.CXXV,55. 85 La notizia è desumibile da AP 877, Atti del Consiglio Generale, 1766-1777, c. 150, ASR. Il giuramento avviene il 12 successivo (ib.). 86 Cf. lettera del 30 maggio 1772 diretta da Roma ad Andrea Lettimi (Comacchio) a firma Carlo Pallavicino, e conservata nel «Fondo Lettimi» [BGR]. Sul retro, c'è un'annotazione moderna: «Lettera del Cardinal M…» (nome indecifrabile). 87 Così si legge in una delle citt. «Schede Gambetti» [BGR] relative allo stesso Andrea Lettimi. Nel «Fondo Gambetti, Lettere al Dottor Giovanni Bianchi» [BGR] si conserva un solo documento di Lettimi, una missiva del 6 settembre 1769, da Roma con le «più sincere congratulazioni» per la nomina di Bianchi a «medico» di papa Ganganelli. In tale epistola, di qualche momento per la storia locale può essere un brano relativo alla gestione del Porto Canale. 88 Cfr. nelle Genealogie di famiglie riminesi, I, di M. A. Zanotti, cc. 61r/v, SC-MS. 187, BGR. I brani relativi alla famiglia Lettimi sono stati riprodotti da M. Musmeci nel suo studio Una dimora patrizia del XVI secolo a Rimini, Palazzo Maschi-Marcheselli-Lettimi, Cesena 1997, pp. 121123. 89 L'atto relativo del notaio Orazio Dallolio (n. 338, ASR), è alle carte 486rv/487r, sotto la data del 4 giugno 1684. 90 Questa parrocchia s’estendeva a lato dell’Arco d’Augusto entro le antiche mura, a destra di chi esce dalla città.
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Nel 1770, Andrea Lettimi deve scucirne di più, di scudi, per diventare Nobile: ben cinquecento, per il «regalo» previsto dalle leggi riminesi. Nel 1687, la tariffa era stata stabilita al doppio: ma nel 1692 (per soli dodici nuovi Nobili) venne dimezzata perché non si trovava nessuno che potesse spendere la cifra prima prevista. Per soli quattro nuovi Cittadini, sempre nel ’92, la tariffa fu di centocinquanta scudi. Il 5 dicembre 1722, per i Cittadini la cifra originale (del 1687) viene ribassata da trecento a duecento scudi (91). Ciò dimostra due cose: che circolavano meno soldi, e che per nobilitare il proprio sangue, bastava mettere da parte un po’ di scudi, magari pagando gli «operarj» non in vil moneta ma con farina di contrabbando. 2. Il grano «privilegiato» degli ecclesiastici Sul finire del 1762 a Rimini viene aperto un forno privato per panizzare il grano «privilegiato» della Mensa vescovile e quello proveniente dalle abbazie cittadine di san Giuliano e san Gaudenzo, delle quali è abate commendatario il cardinal Ludovico Maria Torregiani, segretario di Stato di Clemente XIII. La farina ricavata da questo grano ed il pane prodotto da quel forno vengono venduti in spacci e botteghe sparsi «per tutta la città» (92). Dal 1° ottobre ’62 (data di inizio dell'anno annonario), l'appaltatore del «pan venale» e della farina è Andrea Bagli che si è aggiudicato la gara offrendo scudi 440 di «corrisposta» annua. In base alle leggi vigenti, nessuno può creare un forno privato, né spacciare pane prodotto in proprio. Secondo Andrea Bagli, anche il vescovo di Rimini, cardinal Lodovico Valenti (che, come scrisse il canonico Luigi Nardi nella sua «Cronotassi», «fabbricò il bel Seminario che abbiamo vicino» al Tempio Malatestiano) ed il cardinal Torregiani debbono sottostare alla norma, per cui egli ricorre contro di loro, presentando reclami ed istante sia a Rimini sia a Roma. Non l'intimorisce per nulla l'alta carica occupata da Torregiani. Il grano della Mensa vescovile è quello che viene riscosso nella diocesi a titolo di decima delle singole chiese. Esso viene definito «privilegiato» perché non deve sottostare agli obblighi fiscali locali («taglioni, ed altre gravezze»), in quanto proviene da «luoghi fuori di territorio»: è infatti prodotto in fondi non sottoposti alla giurisdizione della Comunità di Rimini. In base alle «sovrane disposizioni» dello Stato della Chiesa, la stessa Comunità deve sottostare però ad una norma che permette ai produttori dei grani 91 Su tali aspetti, si veda anche nel nostro articolo Per soldi, non per passione, pubblicato nel n. 52
di questa rivista, alla p. 53.
92 Le notizie che seguono sono ricavate da AP 876, cit., cc. 100-103; AP 111, Annona 1761-1764,
passim; AP 484, Copialettere 1760-1763, passim, ASR.
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«privilegiati» di dichiarare se vogliono o no vendere all'appaltatore il loro prodotto. Questa clausola non piace, ovviamente, all'appaltatore per tre motivi: essa lo obbliga a dovere aspettare che gli ecclesiastici decidano, a loro arbitrio, se vendere o no; lo costringe a comprarlo, in caso di offerta, ad un prezzo maggiorato di venti scudi rispetto al costo totale [la cosiddetta «vigesima»]; in caso contrario, egli deve procurarsi il grano necessario allo sfamo della popolazione per tutto l'anno annonario acquistandolo al prezzo del momento nel quale è messo nella condizione di presentarsi al mercato, per cui corre il rischio di completare le sue provviste quando ci può essere un rialzo dei costi rispetto al periodo precedente. Succedeva che le pretese degli ecclesiastici superassero i limiti stabiliti nelle leggi. Andrea Bagli, ricercato dai cardinali Valenti e Torregiani «per la compra del loro grano», si è dichiarato «pronto a comprarlo con l’aumento della vigesima, ma i due porporati pretendevano assai di più. E vedendo che non potevano indurre l’Appaltatore a pagar[g]li il prezzo desiderato, si risolsero di aprire il Forno, come di fatti l’apersero, e così esitare il loro grano panizzandolo». Sono documentate anche le eccessive pretese dei due cardinali: mentre il prezzo corrente oscillava tra i 24 ed i 25 paoli allo staro, essi ne chiedevano 30. [Dieci paoli fanno uno scudo.] Dopo l'apertura del forno ecclesiastico ed anche di «molte Botteghe da spacciar Pane a conto de’ mentovati Eminentissimi», Bagli ritiene lesi i suoi diritti ed inoltra «giudiciale Intimazione» alla Comunità di Rimini, in cui fa «protesta di tutti li danni, che soffriva» non solo per l'apertura di quel forno, ma anche per non aver ricevuto «la prestanza obbligatagli»: infatti il contratto di appalto prevedeva che, all'inizio della sua attività nell'ottobre ’62, Bagli ricevesse «una vistosa gratuita prestanza di scudi 1.552:63:11», introdotta nel 1757. La somma corrispondeva al «prezzo del grano dell'Annona venduto al primo appaltatore» nel 1755, anno in cui si incominciò ad affittare i Forni secondo la volontà espressa dalla sacra Congregazione del Buon Governo. La Comunità riminese, dopo l'intimazione di Bagli «non credette di moversi né punto né poco» per cui egli decide di «avanzar ricorso» alla stessa Congregazione, «a fine di ottenere l'ordine, che venisse chiuso il Forno dai due Eminentissimi aperto, come di fatto l'ottenne». Ricevuta soddisfazione a Roma, Bagli chiede all'autorità riminese di assumersi «il peso di far eseguire un simil ordine». La risposta che riceve è negativa, perché la Comunità è «fissa nella credenza di non dover prendere parte in questa briga», a conferma (par di capire) di una volontà politica di mantenersi indipendente dal potere centrale, e di non rimanere coinvolta in una disputa che toccava non gli interessi pubblici, ma quelli di parte dell'appaltatore Bagli. Nonostante l'ordine impartito dal Buon Governo, il vescovo Valenti «proseguì lo spiano» [cioè la distribuzione] «del grano della sua Mensa», mentre il cardinal Torregiani continua nello stesso forno a «panizzare i grani delle sue Badie» ed a «vendere in più sitti della Città il pane».
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I due Eminentissimi fanno presentare allo stesso Bagli una «citazione inibitoriale», cioè una diffida della quale egli stesso dà notizia alla Comunità di Rimini che «però non si mosse», dichiarando «inussistente» ogni pretesa dell'appaltatore di vedersi difendere nella privativa e di non dover pagare la prevista «risposta» di 440 scudi. Morale della favola: «L'appaltatore non volendo intraprendere lite con li due porporati», scrive egli stesso, «si risolve di comprare il grano per quel prezzo che Essi volevano maggiore della vigesima, ad effetto restasse chiudo quel Forno». Soltanto il 28 gennaio ’63 Bagli riceve dall'annona la «prestanza» del 1.552 scudi contemplata dal contratto di appalto. Il successivo 19 agosto in Consiglio Generale si discute una nuova istanza di Bagli che chiede ancora i danni «non meno per l'apertura del nuovo Forno, che per la prestanza ritardatagli», e si legge il parere steso dai Consoli contro le pretese dell'appaltatore, tutte respinte con argomentazione che in sostanza voglio scaricare l'amministrazione cittadina da ogni peso e responsabilità. Nel loro fervore polemico, i Consoli sostengono che la privativa riguarda soltanto i laici perché essa è stata concessa dal Legato, e non anche gli ecclesiatici (nel qual caso si sarebbe dovuta ottenere dal papa); e che la decisione del Buon Governo di chiudere il forno dei due Eminentissimi era opinione non dell'intera Congregazione, ma soltanto dello scrivente Cardinale Enriquez. I 36 consiglieri approvano all'unanimità i pareri dei Consoli, convinti probabilmente di aver così garantito la loro indipendenza dai poteri laici e religiosi che incombevano da Roma. Anche il meccanismo annonario creato dalle «sovrane disposizioni» conferma un conflitto d'interessi su due piani: da una parte tra l'autorità locale (gelosa della propria autonomia) e quella centrale (che dirige dall'alto con un ferreo sistema di leggi la vita economica della città); e dall'altra, tra l'ordinamento economico dello Stato e gli interessi di alcuni gruppi «privilegiati» al pari di quel grano degli ecclesiastici. Questo conflitto provoca una perenne, ininterrotta litigiosità che contrappone legali indaffarati nello stendere memorie e nel proporre cause, con costi molto elevati per la comunità, la quale, se avesse impegnate tutte le cifre riservate per cause e controversie, avrebbe migliorato di non poco le condizioni di quei «poveri» che in gran numero vivono all'interno dei suoi confini. Le vicende di Andrea Lettimi e del forno dei due Eminentissimi sono simboliche di un quadro generale di crisi politica dello Stato romano, la cui organizzazione si basava su privilegi, benefici, favoritismi. A lungo andare, tutto ciò mina alle fondamenta la credibilità del potere centrale. Il malcontento genera tensioni che precorrono eventi più drammatici. Non è la rivoluzione francese a lanciare verso di noi segnali di mutamento, né tanto meno saranno i soldati napoleonici (spediti a depredare le nostre regioni), ad introdurre le nuove idee (che loro stessi ignoravano). Lentamente, anche nel contesto riminese, il
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riformismo illuminato proveniente soprattutto dalla Lombardia (93), dimostra che le cose potevano, anzi andavano cambiate. Ma più tardi, nel ’96-97 con la campagna di Bonaparte, furono pochi a credere che il mutamento potesse avvenire attraverso un’invasione armata, odiosa e terribile, che produceva soltanto miseria. E’ vero che esistettero anche da noi i «giacobini», ma un’analisi attenta dei fatti e dei documenti porta a concludere che, più che rivoluzionari, molti di loro erano semplicemente favorevoli al rovesciamento del potere romano. Quella di giacobinismo fu un etichetta di comodo attaccata agli oppositori dello stesso potere. E poi non tutti i giacobini la pensavano allo stesso modo.
93 Anche di questo problema tratteremo in altra occasione.
Antonio Montanari, Il pane del povero, PAGINA 22/22
L’«Abbondanza» riminese, quadro statistico Anno annonario 1744-1745 1745-1746 1746-1747 1747-1748 1748-1749 1749-1750 1750-1751 1751-1752 1752-1753 1753-1754 1754-1755 1755-1756 1756-1757 1757-1758 1758-1759 1759-1760 1760-1761 1761-1762 1762-1763 1763-1764 1764-1765 1765-1766 1766-1767
sistema «risposta» Appalto 800 Appalto 1.000 Appalto 1.000 Abbondanza Abbondanza Abbondanza Abbondanza Abbondanza Abbondanza Abbondanza Abbondanza Appalto 900 Appalto 900 Appalto 600 Appalto 600 Appalto Appalto Appalto 400 Appalto 440 Appalto 421 Appalto Abbondanza Abbondanza
note
****** 1770 Nuovo Piano disteso da Martinelli contro i panfangoli 1772 Editto legatizio contro i panfangoli 1788 Libertà di spaccio ai panfangoli 1791 Abolizione di tale libertà 1792 Nuovo Piano del Legato Colonna contro i panfangoli 1795 Cessasione dei panfangoli imposta da Colonna