Editoriale:La verità dialogica, cioè aver bisogno dell'altro
La filosofia nel suo significato specifico, non soltanto come ricerca di un'arché, ma soprattutto come raggiungimento di una dimensione «sapienziale» (sophía) nasce tra le strade e le piazza di Atene nella forma del dialogo. Dialogo socratico innanzi tutto, dialogo di un uomo che si riconosce come «colui che sa di non sapere», poi dialogo platonico che fa del filosofo l'«amico delle idee» capace di rendere conto della verità della realtà nella comprensione «speculare-speculativa» di essa, e quindi capace di usare l'arte dialettica. Quest'ultimo termine avrà un'importanza tutta propria nella storia del pensiero occidentale. Il dialettico, come lo definisce Platone nella Repubblica, è colui che è capace di lógon didónai tes ousías («dar ragione dell'essenza»), a sé e agli altri, in altri termini capace di produrre un'argomentazione, o, che è lo stesso, capace di esibire e manifestare in un discorso vero la verità della realtà. Questo è il presupposto del procedimento categoriale di Aristotele dove la relazione tra l'essere, il pensiero e il linguaggio veritativo diventa ancora più cogente. Tuttavia, la categorialità, nella sua struttura argomentativa, si presenterà come reductio ad unum della verità dell'ente alla verità dell'essenza. Il filosofo è colui che risponde, o cerca di rispondere, alla questione «che cos'è?». La dimensione dialogica è praticamente scomparsa dalla filosofia che sarà sempre più esercizio dell'arte dialettica, fino a identificarsi tout court con essa nella dialettica speculativa di Hegel. Il rigore dell'argomentazione, l'orthótes, la verità come esattezza e come conformazione all'essere, to ón hos alethés («l'ente come vero»), o l'adaequatio rei et 1
intellectus, inaugurano un modello di scienza assolutamente nuova, la próte philosophía, il cui oggetto specifico saranno i rhizómata pánton («radici di tutte le cose»), la cui originarietà è metá ta physiká e da questi sorgeranno i principi, condizioni di possibilità della determinazione categoriale. Dialettica e metafisica assumeranno una relazione decisiva. Non abbiamo naturalmente la pretesa di riscrivere semplicisticamente la storia del pensiero filosofico. Riprendendo l'antico termine dialégesthai («dialogare») vogliamo ripetere, da un lato, l'esigenza del rigore argomentativo del discorso vero, che oggi spesso scompare dietro fumose asserzioni incapaci di esibire una interna coerenza di verità, ma dall'altro, ritrovare la dialogica prima della dialettica, che significa anche offrire una «testimonianza» della verità, non soltanto argomentativa, bensì anche come «passione personale» di ricerca della verità. Vogliamo situarci in questo spazio intermedio che oggi si presenta con un'urgenza nuova, in gran parte ancora da pensare, senza arroganza e senza la pretesa antidialogica di essere portatori di una verità semplicemente da comunicare. Vorremmo proporre una sorta di apologia della verità (dialogo) contro la certezza (violenza). Questa correlazione che, a prima vista, può apparire sconcertante, è stata elaborata e presentata da uno dei grandi testi della filosofia del Novecento, la Logique de la philosophie di Erich Weil che scrive: L'uomo è un animale dotato di ragione e di linguaggio: ciò vuol dire ed è destinato a dire esattamente ciò che sembrava prima sorprendente, cioè che gli uomini non dispongono ordinariamente della ragione e del linguaggio ragionevole, ma che debbono disporne per essere pienamente uomini. L'uomo naturale è un animale; l'uomo quale egli vuole essere, quale egli vuole che sia l'altro 2
perché egli stesso lo riconosca per suo uguale, deve essere ragionevole. Ciò che la scienza descrive è soltanto la materia a cui bisogna ancora imporre una forma, e la definizione umana non è data perché si possa riconoscere l'uomo, ma affinché lo si possa realizzare (p. 5). Secondo la visione classica, il superamento non dialettico della negatività consiste nel vivere secondo ragione, cioè nell'eliminazione di quegli elementi di violenza presenti originariamente nell'uomo. In questo senso, per Weil, la riflessione del filosofo e della filosofia è il cammino della filosofia nel mondo perché la violenza scompaia dal mondo. Ma la vita secondo ragione non è una necessità, bensì una scelta, una «scelta prima» (p. 59) la definisce Weil. La violenza e la libertà sono gli elementi che definiscono l'uomo; la violenza è originaria, radicale e irriducibile e la libertà si afferma soltanto sul fondo della violenza. Prendere sul serio la violenza pura, significa mettere in luce il fondamento della filosofia che non è una qualche necessità, ma la libertà dell'uomo con la sua volontà di coerenza e di saggezza che in tal modo si innalza al di sopra della sua finitezza. Weil, ripetendo Kant, comprende l'uomo come «ragionevole» (nell'aggettivo è detta una possibilità), ridefinendolo come «animal rationabile». Egli può scegliere la ragione: «invece di dire che l'uomo è un essere dotato di discorso ragionevole, noi diremo che egli è un essere che può, se lo sceglie, essere ragionevole, che egli è, in una parola, libertà in vista della ragione (o per la violenza)» (p. 68). Quindi c'è la filosofia perché l'uomo è volontà di senso, volontà di un mondo sensato e la filosofia è il discorso di un essere ambiguo la cui altra possibilità è la negazione del senso o la violenza. «Il discorso si forma, l'uomo forma il suo discorso nella violenza contro la violenza, nel finito contro il finito, nel tempo contro il tempo» (p. 69). La tentazione della violenza è quella del discorso esaustivo, totale e totalizzante, della certezza assoluta; è il discorso 3
che si formula secondo la formula «tutto è...», con l'implicazione di una teoria della verità assoluta affermata come totalità. Gran parte del pensiero contemporaneo ha reagito alla filosofia della totalità, della determinazione completa, conscia che la finitezza è frammento, ma frammento di verità che ha bisogno del frammento di verità che altri può offrire come dono dialogico. Uno dei grandi maestri di questa prospettiva è stato certamente Franz Rosenzweig, quando asseriva in Il nuovo pensiero che «nel dialogo vero qualcosa accade sul serio», che noi abbiamo bisogno dell'altro e che ciò significa «prendere sul serio il tempo». Le riflessioni di Levinas che proseguono queste provocazioni sono note. L'intera struttura dell'esistenza sarà quindi dialogica, sia perché abita uno spazio comunicativo costituito dal linguaggio, sia perché ciò che la costituisce intimamente è la domanda. Certamente noi siamo costituti più da domande che da risposte e ciò trasforma anche la nostra posizione nei confronti della verità. Una verità dialogica si pone nell'ordine della prospetticità relazionale, certa nell'incertezza, certa della propria porzione di verità che non esaurisce la totalità della verità. Verità finita disposta a lasciarsi integrare con le altre prospettive di verità, ma anche disponibile a donare la propria porzione di eredità di verità. Non proponiamo un pensiero rinunciatario, né relativistico, bensì relazionale, convinti che la verità, madre di tutti non è figlia a nessuno. In questa logica la filosofia diventa pensiero militante, non più attento soltanto a rendere ragione di ciò che è stato, ma anche a cercare le faticose strade di umanizzazione e di senso di cui l'uomo contemporaneo ha bisogno. Per questo lo spazio della nostra pagina telematica, la nuova agorà, è aperto a quanti vogliano partecipare a questo lavoro e intendano porre a confronto i risultati sempre provvisori della loro ricerca con quello di altri. Questo cammino è certamente di libertà, ma anche di responsabilità. 4
I campi di questo lavoro sono quello etico-antropologico, religioso (in cui il dialogo è la vera sfida del prossimo futuro), interculturale, pedagogico, ma anche ontologicometafisico, nel senso originario del termine. Un pensiero dialogico è un pensiero della differenza e le differenze ridisegnano l'identità come differenza, pensiero del dono e dell'interdipendenza relazionale in cui nessuno è il custode del segreto ultimo della verità.
Paul Ricoeur, Potere e violenza, pp. 181-198. Il saggio è la traduzione italiana del testo presentato da Paul Ricoeur per la prima volta nel 1989 in “Hannah Arendt, Ontologie et Politique”. Ricoeur sviluppa in queste pagine l'analisi di alcuni saggi della Arendt, in particolare “Sulla violenza” e “Tra passato e futuro”, soffermandosi su alcune osservazioni critiche di Habermas. Punto di partenza è la distinzione, operata dalla Arendt, tra potere e violenza: la violenza può distruggere il potere, ma è incapace di crearlo, in quanto il potere è una proprietà dei gruppi sociali ed esiste fino a quando questi rimangono uniti. E' evidente in queste tesi il rifiuto di larga parte del pensiero politico, che ha identificato il potere con il dominio, con la capacità di costringere. Il dominio ha occultato la vera natura del potere, lo ha trasformato in un elemento dimenticato, che è necessario riscoprire. Per superare l'identificazione tra potere e dominio, è opportuno sottolineare che il potere non trova il suo fondamento nella verità (che è servita spesso a giustificare i regimi totalitari), ma nell'opinione. L'altro nodo concettuale, che Ricoeur giudica decisivo nella riflessione della Arendt, è quello della “autorità”, che si 5
distingue dal potere e trova la sua origine nella stessa fondazione di una società. Nei nostri sistemi democratici proprio l' “autorità”, il rapporto con la propria fondazione, le proprie origini, sarebbero venuti meno, generando gli attuali fenomeni di crisi e di disgregazione.(D.S.) Luca Savarino, L'agire del dimenticato – Una nota a “Potere e violenza” di Paul Ricoeur”, pp. 199-205. L'articolo di Luca Savarino, traduttore del saggio “Potere e violenza” di Ricoeur, sottolinea che nella Arendt trova espressione la crisi delle tradizioni che hanno dominato il nostro pensiero politico. La consapevolezza di vivere in un'epoca di crisi non produce il rifiuto di ogni tradizione, ma la ricerca nel passato di altre tradizioni, diverse da quelle oggi entrate in crisi. L'atteggiamento di Hannah Arendt può essere descritto con l'immagine del pescatore di perle, presente nel suo saggio su Walter Benjamin: di fronte a tradizioni in frantumi, è necessario sottrarre all'oblio quelle “forme cristallizzate”, quei frammenti di pensiero che possiamo riscoprire nello studio delle nostre radici culturali, in modo che possano tornare ad essere materia vivente. Il rischio è quello di decontestualizzare ciò che il passato ci ha lasciato. Ed è su questo elemento, che costituisce l'originalità e l'ambiguità della riflessione di Hannah Arendt, che Paul Ricoeur vuole attrarre l'attenzione del lettore.(D.S.) Luca Basso, Critica dell'individualismo moderno e realizzazione del singolo nell' “Ideologia Tedesca”, pp. 233-256. Il saggio di Luca Basso esamina le problematiche attinenti alla condizione individuale, presenti nell'opera di Marx ed Engels. L'autore si sofferma sul rapporto tra crescita impetuosa delle forze produttive, realizzata dal capitalismo, 6
e condizioni di vita degli individui, indipendenti dal loro controllo. Il progresso economico produce un potere sociale estraneo agli individui, che si trovano a vivere nel “bellum omnium contra omnes” descritto da Hobbes. L'esito della società capitalistica è lo sviluppo di una comunità apparente, incapace di valorizzare gli “individui come individui”. A questa società alienante, l'Ideologia Tedesca non intende sostituire un'organizzazione sociale basata sul sacrificio dell'individuo: criticando il moralismo altruistico, Marx ed Engels non contrappongono all'uomo “privato” l'uomo “universale”; piuttosto tentano di fondare un' “etica materiale”, che trova il suo fondamento nello studio delle condizioni sociali in cui gli individui si trovano a vivere per proporre un loro superamento. Sembra emergere nelle analisi di Marx e di Engels, come evidenzia Basso riprendendo gli studi di Balibar, un' “ontologia della relazione”, nella quale l'inseparabilità tra “individuale” e “transindividuale” configura il singolo come “interrelazionalità, multidirezionalità, potenzialità infinita”. (D.S.) collocata la figura di Nietzsche? Direi che la tematizzazione, diciamo, della non univocità del riferimento all'illuminismo, e la sottolineatura della duplicità, della ambivalenza intrinseca all'illuminismo stesso sono un po' un punto di partenza per avvicinarci a Nietzsche. In un certo senso, anzi, senza dubbio si può affermare che Nietzsche sia sintomo e anche analista di questa duplicità. La stessa nozione di volontà di potenza che è al centro del discorso nietzschiano è proprio questo: tutto il mondo altro non è che volontà di potenza, e, a mio avviso, quello che viene chiamato spirito non è altro che volontà di potenza. Nietzsche è molto lucido in questo e, per esempio, tutta la sua polemica anticristiana, specialmente negli ultimi anni, 7
non è solo il retaggio del grecista. Intendo dire che, sicuramente, come grecista Nietzsche ha sempre avuto questo tratto di denigrazione nei confronti del Cristianesimo (anche se non va nemmeno dimenticato che era un figlio di un pastore, di una tradizione di pastori e che stando alle ricostruzioni biografiche egli avrebbe affermato di essere nato, come uomo, presso una canonica e che la prima memoria della sua vita cosciente fu la morte di suo padre). In ogni caso, al di là del suo ideale classicistico, egli ha sempre messo in chiaro, soprattutto, per esempio, con l'incredibile ed alle volte incresciosa virulenza polemica dell'Anticristo, il fatto che anche gli ideali cattolici, gli ideali cristiani - l'umiltà, la sottomissiome, il rinunciare a se stessi e via dicendo - in fondo sono sempre una forma di volontà di potenza. Anche nello schiavo, a suo parere, c'è una volontà di potenza, una volontà che si nega; ma che proprio per questo si raddoppia, perché una volontà che nega se stessa è una volontà che si vuole ancora di più. A fronte di quanto ho appena detto, va però rilevato che un'analisi di questo genere, che presuppone un olismo, una totalità della volontà di potenza, comporta anche il fatto - e proprio in questo sta l'estrema coerenza del discorso di Nietzsche - che questa volontà di potenza non può essere rifiutata, ma deve essere voluta e amata. Questo è l'aspetto - per restare a dei dati storiograficamente ovvi, licealmente evidenti - che segna la differenza fra Nietzsche e Schopenhauer. Schopenhauer dice a tutto il mondo che noi dobbiamo opporci ed annullare questa volontà. Nietzsche dice che nello stesso rifiuto della volontà c'è ancora una volontà, appunto quella che si nega: l'ascetismo, il Cristianesimo, il Buddismo e via dicendo sono tutte forme di volontà che si nega, ma che negandosi si afferma.
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Come può esserci, in sintesi, una volontaria rinuncia al volere? E del resto, non va nemmeno sottovalutato un altro punto di vista. La gente piange la scomparsa degli ideali, quando capisce che tutte le cose che si erano credute sono in una fase di modernizzazione. Tutto ciò che nel mito ci veniva trasmesso come positivo e più in generale i sistemi di valore del passato poco alla volta, in un progressivo rischiaramento si rivelano delle menzogne, delle credenze.
6. Qual è la reazione della gente a questo rischiaramento? La gente reagisce creandosi dei nuovi valori ed entra in un circolo impressionante, perché, andando avanti ancora un po', scopre che questi valori non sono che delle vecchie finzioni, non sono che delle credenze, e piomba di nuovo nel pessimismo, in quello che Nietzsche chiama il nichilismo reattivo. Nietzsche propone di essere e di procedere diversamente. Per esempio, uno dei significati dell'eterno ritorno è in sintesi il seguente: invece di rifiutare queste cose, invece di crearci dei nuovi ideali, invece che rinunciare alla volontà, vogliamola ed amiamola eternamente, facciamo questa prova. Ma il fatto è che se in questa proposta c'è una consequenzialità filosofica, di fatto ci sono anche rischi che nessuno si può sognare di nascondere. Infatti, non solo nella Volontà di potenza (l'opera compilata dopo la morte di Nietzsche con criteri discutibili, ma comunque non falsificanti), ma negli stessi frammenti postumi che sono serviti da base per la Volontà di potenza o anche in opere che Nietzsche stesso ha pubblicato nel pieno delle sue facoltà, come La genealogia della morale, si legge davvero che i deboli devono essere soppressi. Perché un’affermazione del genere? Certo, alla base di essa c’è un discorso di estrema coerenza e consequenzialità filosofica, ma al tempo stesso siamo 9
anche di fronte ad una affermazione che si apre su un abisso, e questo abisso è ancora un abisso dello spirito. Ovvero: Nietzsche non è entrato in tal modo nella fase del non-pensiero, dell'ottenebramento e via dicendo; e non è nemmeno da politico, da ideologo che egli sta affermando queste cose. Nietzsche sta parlando da filosofo, e rispondendo di problemi filosofici. Se lo avesse fatto da ideologo, del resto, in fondo non avremmo problemi; questa ideologia - diremmo - serve agli interessi di un individuo, di una classe, di un ceto, di una nazione, e così la metteremmo da parte. Ma che cosa significa che un filosofo dica questo? È ancora un filosofo nel momento in cui dice questo? Cessa di essere un filosofo? Questi sono i problemi.
7. In Nietzsche il tema dell'aprirsi di una sorta di abisso può essere messo in relazione col rapporto che il nazismo ha voluto stabilire con Nietzsche. Certo, si è trattato di un uso in larga parte strumentale, ma che comunque è tale da costringerci, da obbligarci anzi, a discuterne. Senza dubbio l'uso è stato strumentale. Lo sappiamo bene, anche in base ad una semplice considerazione storica. Infatti, noi non potremmo in nessun modo fare di Nietzsche un nazista, se non ricorrendo alla più equivoca delle categorie, quella del precorrimento. Ovvero: «cosa significa che Nietzsche avrebbe fatto delle cose pre-naziste? Cosa vuol dire fare delle cose pre-naziste?» Non c'è praticamente nessuna somiglianza tra la Germania guglielmina o bismarkiana e la Germania di Hitler; questo divario storico - che non è così grande, ma che è comunque decisivo - fa sì che in nessun caso Nietzsche avrebbe mai potuto prevedere i tempi che si facevano avanti. Fare di Nietzsche un nazista sarebbe come dire che 10
Aristotele, avendo ammesso lo schiavismo, sarebbe stato uno schiavista nello stesso modo in cui lo era un proprietario terriero della Louisiana del 1860. Evidentemente non è vero, perché si tratta di situazioni differenti. Platone non era certo un democratico, anzi era contro la democrazia, l'essenza della sua filosofia è antidemocratica, ma in ogni caso non è con i criteri di una democrazia formale moderna che possiamo giudicare queste cose. Quando si dice, quando si parla del nazismo di Nietzsche, fatalmente si cade in un ragionamento di questo genere. Va poi sottolineato altrettanto chiaramente che i nazisti si sono richiamati all'insegnamento di Nietzsche in un modo strumentale, ed è stato tale per vari motivi. Fra l'altro, quella di Nietzsche è stata una delle incorporazioni meno felici operata dal nazismo. E questo era riconosciuto dagli stessi nazisti quando dicevano di non poter incorporare fino in fondo Nietzsche all'interno della propria ideologia, per una serie tutt’altro che marginale di motivi: per il fatto che quella nazista era una ideologia antisemita, mentre Nietzsche era filosemita; perché quella nazista era una ideologia populistica - anche se i nazisti non la chiamavano proprio così, mentre Nietzsche era assertore di una teoria aristocratica (ed è evidente che non si può fare una teoria politica aristocratica ed appoggiarsi al consenso delle masse). Questi aspetti hanno reso Nietzsche molto meno utilizzabili di altri. Nel Mito del ventesimo secolo di Rosenberg Nietzsche compare pochissime volte; mentre ricorre moltissimo il nome di Meister Eckhart, perché è un modo di far ribellare il germanesimo all’insegnamento romano. Inoltre, compare Lutero (ancora per l'autonomia dello spirito tedesco nei confronti del cattolicesimo romano) e persino Schopenhauer. Può sembrare strano ma è così, perché in Schopenhauer ci sono delle affermazioni assai più razziste che in Nietzsche, fermo restando che non 11
possiamo giudicare questi casi filosofici con lo stesso metro che potremmo utilizzare per una ideologia. Detto questo, tuttavia, è anche vero che l'unico regime che abbia pensato di fare un qual si voglia uso dell'insegnamento di Nietzsche, è stato quello nazista. Non sono state certo né le democrazie occidentali a elaborare dei sistemi di insegnamento che si richiamassero a Nietzsche, né tanto meno Stalin; nessuno vi si è richiamato. Nietzsche, storicamente, per la serie di motivi ricordati sopra assolutamente non può essere considerato nazista; ma, d'altra parte, sarebbe altrettanto falso dire che era comunista. Anzi, le poche testimonianze che ci restano del suo parere rispetto a queste cose dicono che Nietzsche del comunismo e del socialismo sapeva ben poco, ma anche che di quel poco che sapeva era assolutamente contrario. Tuttavia, dopo la guerra, si è anche cercato di far circolare una immagine esattamente contraria. Ma perché lo si è fatto? Perché allora, a certe ideologie che proponevano l'emancipazione, il carattere anche avanguardistico ed emancipativo del pensiero di Nietzsche poteva andare bene. Da un punto di vista filosofico, una operazione del genere è sempre legittima, ma come storicamente è inadeguato dire che Nietzsche era nazista, è altrettanto storicamente inadeguato affermare che era comunista (con l’aggravante del fatto che se egli non ha mai potuto esprimersi sul nazismo, che ancora non esisteva, ha potuto esprimersi sul socialismo che già c'era, ed abbiamo le testimonianze in merito).
8. In che modo è stato operato e in che modo si dovrebbe operare quello che potremmo definire il lavoro di denazificazione di Nietzsche?
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Questo lavoro è stato fatto, ed è stato mosso anche da istinti nobilissimi, su cui assolutamente non si può discutere. Infatti, nel momento in cui si criminalizzava un pensiero, una cultura - e c'erano dei pamphlet spaventosi, dove, al di là di ogni verosomiglianza storica, si vedeva in Nietzsche la causa della catastrofe tedesca, il persecutore antisemita, il prefiguratore dei Lager e via dicendo- era fatale e doveroso che si elaborassero, per così dire, dei controdiscorsi. Vi sono stati persino lavori, come quello di Walter Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, dove si affermava che la volontà di potenza in realtà era niente altro che la volontà di libertà, e dove si paragonava Nietzsche a Dewey, il che effettivamente appare un poco esagerato. Inoltre, in questo famoso libro che ha segnato un'epoca (è uscito nel 1950), si affermava che quando nella Genealogia della morale Nietzsche parla della belva bionda, in realtà non si riferisce solo a tribù tedesche, ma agli Arabi, ai Giapponesi, agli antichi Romani e via dicendo; da un secondo punto di vista, inoltre, dice si affermava che probabilmente quell’immagine non era una metafora, ma era proprio la descrizione di una cosa vera: Nietzsche stava parlando del leone, cosicché con «belva bionda» non voleva indicare una tribù teutonica, per celebrare la superiorità dei Tedeschi. Del resto, è anche vero che nella Volontà di potenza, in questa raccolta postuma abusiva di frammenti fatta dalla sorella e da Peter Gast, Nietzsche tratta anche malissimo i Tedeschi - segno fra l'altro che Peter Gast ed Elisabeth non ci hanno messo niente del loro, ammesso che loro, ed ancora questo deve essere stabilito, fosse il nazionalismo sfrenato o cose di questo genere. Comunque, per restare su dati di base elementari, la Volontà di potenza, nella sua versione cosiddetta definitiva, in 1067 aforismi, viene pubblicata nel 1906, e Hitler va al potere nel '33. Questo quarto di secolo fa sì che non sia possibile che i due compilatori avessero in mente un destinatario preferenziale delle loro cose; le loro 13
preoccupazioni, piuttosto, erano altre, per esempio quelle di non dispiacere alla chiesa.
9. Professor Ferraris, relativamente al tema della denazificazione di Nietzsche, va sottolineato che essa è avvenuta con delle inevitabili forzature. Può parlarcene? Come ci sono state delle tragiche forzature di Nietzsche all'epoca di Hitler, così ci sono state delle grottesche forzature di Nietzsche all'epoca della denazificazione. È vero, però, che questa epoca è finita, o almeno si spera che sia finita. Se è finita non sarebbe buona politica continuare a dire, come sovente si dice, che Nietzsche non ha mai voluto dire questo non ha mai voluto fare quest’altro, che le cose che spiacciono in lui sono state aggiunte da falsari, o che c'è stata una falsificazione della verità. Perché con questo noi, sì, potremmo anche cominciare a considerare Nietzsche, per esempio, come se fosse un Voltaire o un Dewey, ma ci togliamo così la capacità di pensare il problema della duplicità interna allo spirito, il fatto che c'è un male nel pensiero e che non è così facile dire che appena il male si fa avanti non c'è più il pensiero. Forse così sarebbe tutto molto più facile. Il problema, invece, è che c'è una terribile logica all'interno del male, che nasce dal pensiero e che è solidale al pensiero. Vale la pena citare Dello spirito, un saggio molto bello di Derrida su Heidegger e la questione del nazismo. Ebbene, il nazismo non è nato nel deserto, lo si sa bene, ma bisogna sempre riconoscerlo: nasce da tutto un insieme fatto di fedi, di religioni, di credenze, da tutto ciò che - detto in una parola - si intende per mondo dello spirito. Riconoscere questo è fondamentale nell’ottica della duplicità dello spirito, della dialettica dell'illuminismo: non si tratta assolutamente di prendere partito per uno o per 14
un altro lato della questione, nessuno è chiamato a prendere posizione per lo spirito o contro lo spirito: ciò che occorre sapere ed è filosoficamente importante rilevare è che c'è una duplicità dello spirito e che molte tragedie non si sono fatte contro lo spirito, ma in nome dello spirito. Sarebbe aberrante, ma sarebbe sempre possibile dire che il nazismo era anche un movimento spirituale ed umanistico. In estrema sintesi, ciò che occorre capire è che c'è qualcosa nello spirito che non dico che non funzioni, ma che può essere definito come un male ad esso immanente.
10. Il presente sembra caratterizzato da una sensibilità tutta diversa da quella che bene o male si accompagna al pensiero filosofico: le trasformazioni pratiche portano a una frammentazione tale della nostra esistenza, che sembra quasi che ogni spazio per la riflessione filosofica venga meno. In buona parte, questo andamento si riflette nel tipo di formazione delle nuove generazioni. In un contesto del genere, come vede le possibilità di incidenza dell'insegnamento della filosofia e come considera l'organizzazione attuale dell'insegnamento della filosofia? Tutto quello che si collega all'idea dell'insegnamento filosofico non coincide necessariamente con la filosofia, ma allude ad una esigenza di insegnamento che non sia quella di un insegnamento puramente tecnico, frammentato o simile. Quindi, secondo me, l'importanza dell'insegnamento della filosofia può essere letta a due livelli. Il primo livello, più strettamente specifico, è quello della necessità e dell'utilità, che è tutt'altro che un'utilità pratica, di studiare la filosofia. È bene studiare la filosofia, è bene per chiunque studiare la filosofia, quindi è bene che ci sia un insegnamento filosofico. È ovvio che un insegnamento 15
filosofico non si può impartire comunque e dovunque, e quindi è bene che ci sia un ideale di cultura, discutibile quanto vogliamo, ma in cui l'insegnamento filosofico abbia spazio. Ed è ovvio che ciò giustifica l’esistenza di scuole nelle quali si insegna filosofia, scuole del tipo dei licei, in cui ci insegnano le lingue classiche, le letterature classiche, tutto quel patrimonio di sapere umanistico che noi sappiamo benissimo essere storicamente andato degradandosi. Ma questo non è avvenuto in seguito alla nascita della televisione, ma da molto prima. Intendo dire che se noi facciamo il confronto tra il patrimonio di sapere classico che poteva avere un uomo del '700 o un uomo dei primi anni dell'ottocento con il patrimonio di sapere classico che qualcuno poteva avere all'inizio del '900, già osserviamo, già registriamo una decadenza. Qui c'è una forma di analfabetismo di ritorno, probabilmente, che è indotto dalle trasformazioni culturali gigantesche che hanno avuto luogo. Del resto, nella sua autobiografia Gadamer racconta che suo padre, che era uno scienziato, un chimico, aveva un patrimonio di conoscenze classiche migliore del suo. Migliore del suo in partenza, evidentemente: il liceo del padre di Gadamer, cioè, era stato un liceo migliore di quello che aveva avuto Gadamer, perché in quest’ultimo caso vi era stata una maggiore apertura alle lingue moderne (pure necessarie alle scienze), e cioè un allargamento del patrimonio da impartire ai ragazzi. In sintesi, quello che è importante mettere in chiaro è semplicemente che il vecchio ideale di un insegnamento filosofico è strettamente legato al vecchio ideale di studi classici, che sono necessari, che ci mancano, che mancano adesso più che un tempo; ma non da poco, come ho detto prima.
173 11 Il nostro tempo conosce anche dei problemi di genere diverso da quelli della formazione di nuove 16
generazioni: il nostro mondo attraversa, diciamo da alcuni anni, momenti di forte tensione e drammaticità, nei quali i conflitti che sembravano sopiti o destinati a scomparire si ripresentano con estrema violenza. A suo parere, la filosofia, la riflessione filosofica in generale può inserirsi in questi processi di difficile soluzione, o comunque assecondare gli sforzi di avvicinamento e di integrazione delle diverse culture? Nelle nostre speranze certamente, fermo restando il problema del male così come ne abbiamo parlato nella nostra conversazione (e del resto, non si può condurre gli uomini al bene; in generale non li si può condurre da nessuna parte). Non credo che la filosofia possa intervenire direttamente a risolvere i problemi o a fare cose simili; ci sono stati dei tentativi di Stati filosofici: alcuni non sono neanche nati (come il sogno di Platone), altri sono stati realizzati più o meno bene, ma mai così bene come ci si sarebbe immaginati. Questo fatto è di per sé sufficiente a concludere che non c'è un intervento diretto della filosofia su queste cose. Tuttavia, restando ad un livello triviale di riflessione, si deve affermare che è meglio che all'interno dei processi, dei dialoghi, degli scambi, ci siano delle persone colte, ragionevoli e capaci di intendersi reciprocamente, piuttosto che settari, ignoranti, bruti, analfabeti, maniaci religiosi, eccetera, eccetera. Questo, però, è una pura ovvietà. Come dire: è meglio che gli uomini siano buoni o che siano cattivi? È meglio che siano buoni! Ma una volta concesso che è meglio che gli uomini siano intelligenti piuttosto che stupidi, bisogna tener presente il fatto che la semplice intelligenza non è di per se stessa una garanzia di risoluzione dei conflitti. Anzi, vi sono stati casi di persone intelligentissime che hanno fatto dei mali tremendi, e non per sbaglio, ma proprio volontariamente. Quindi, non c'è un'azione diretta della filosofia. Ovviamente, lo ripeto, è comunque preferibile che 17
l’esercizio della filosofia sia presente, piuttosto che assente. Abstract Maurizio Ferraris sottolinea l'ambiguità dello spirito, la doppiezza, che è immanente alla spiritualità . Dal Doktor Faustus e nella Dialettica dell'illuminismo emerge che lo spirito è al tempo stesso il male e il bene. La libertà è ciò che lo caratterizza rispetto alle cose che sono determinate dalla natura e quindi sottoposte a necessità. In questa prospettiva Nietzsche viene definito sintomo e analista della duplicità dell'Illuminismo. Ferraris affronta il tema dei rapporti tra la filosofia di Nietzsche e alcuni presunti usi e interpretazioni che di essa ha dato il nazismo. Per Feraris è filosoficamente inadeguato sostenere tanto che Nietzsche fosse pre-nazista, quanto che fosse pre-comunista. Nietzsche è stato sottoposto a forzature anche nell'epoca della denazificazione. Ferraris sottolinea nella riflessione di Nietzsche l'idea di duplicità dello spirito che può contenere il bene e il male. Di qui si passa a considerazioni generali sulla filosofia, sostenendo l'importanza del suo ruolo in un'epoca in cui si assiste ad una decadenza degli studi classici. La filosofia comunque non può avere un'azione diretta sulla realtà.
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