Cuore Livido Ebook

  • Uploaded by: giuseppe felice cassatella
  • 0
  • 0
  • May 2020
  • PDF

This document was uploaded by user and they confirmed that they have the permission to share it. If you are author or own the copyright of this book, please report to us by using this DMCA report form. Report DMCA


Overview

Download & View Cuore Livido Ebook as PDF for free.

More details

  • Words: 17,717
  • Pages: 35
1

g.f.cassatella

Cuore livido

2

Era uno di quei periodi in cui avrei sentito gli uccellini cantare anche mentre facevo la doccia durante un bombardamento. Se la stagione dell’amore viene e va, la mia era di certo in periodo di viene. Indubbiamente non erano tutte rose e fiori: Gino era partito per il suo amato Messico e mi chiamava sempre meno, ma sapevo che era felice e questo mi bastava. In suo ricordo mi aveva lasciato la macchina. Lo aveva fatto a malincuore e solo quando aveva capito che nello zaino non ci sarebbe entrata neanche dopo aver chiuso gli specchietti. Io per una forma di rispetto nei suoi confronti avevo deciso che non l’avrei lavata più: sono un sentimentale, lo so e, a volte, me ne vergogno. Al canile le cose andavano bene, sicuramente i cani avrebbero raggiunto, se non superato, il budget annuale di merda prodotta. Erano tenaci i miei piccoli. Loro sporcavano e io pulivo. Questo rispetto dei ruoli mi galvanizzava e mi rendeva in un certo qual modo più tranquillo. E poi, se avessi voluto un lavoro più pulito, avrei sfruttato la mia laurea in economia. C’è merda e merda, e tra la merda di cane e quella di squalo avevo preferito quella di cane, probabilmente perché non amo il mare. Ricapitolando: avevo una macchina, avevo un lavoro che dava soddisfazioni, avevo finalmente l’appartamento tutto per me. Mancava solo l’amore. Non ero mai stato un romanticone e non è che avessi avuto molte donne. Ero uno selettivo e, per mia sfortuna, le donne nei miei confronti lo erano molto più di me. Però quando arriva l’amore non ci si può far nulla. Cupido è un croupier e quando lancia la sua pallina devi sperare che questa si fermi sul numero giusto. Le probabilità sono pochine, ma se ci prendi porti a casa un bel gruzzoletto… Quella era una mattina come tutte le altre, mi alzai come sempre alle sette per presentarmi puntuale a lavoro alle nove. In realtà, potrei dormire anche di più e arrivare comunque in orario, ma ognuno ha la propria croce e la mia ha un’auto rossa. Non posso iniziare la mattinata senza leggere la Gazzetta dello Sport e quelle poche volte che questo rito mattutino salta, accuso un senso di vuoto per tutto il giorno. È una sensazione insopportabile. Ho l’esigenza di arrivare in buon orario al bar per poterla leggere con tutta calma e questo non sarebbe un problema se non ci fosse il mio antagonista dalla macchina rossa. Non lo conosco bene, anzi non lo conosco proprio, ma deve essere una persona gentile d’animo, se avverte anche lui ogni mattina la necessità di leggere la rosea. In condizioni normali saremmo stati amici o, almeno, così immagino in alcuni momenti (sempre successivi alla lettura del giornale), ma eravamo in guerra. I nostri orari e le nostre esigenze coincidevano. Entrambi avevamo lo stessa fascia di giornata per soddisfare la nostra fame di sapere, e così era partita una corsa al massacro. Ci svegliavamo sempre prima per poter battere l’altro sul tempo. All’epoca delle superiori il mio professore di ragioneria amava raccontare una storiella: durante il periodo del Far West c’era una compagnia di diligenze che aveva il monopolio del mercato dei trasporti. Un bel giorno appare un concorrente sulla stessa tratta. Le due compagnie iniziano una gara al ribasso dei prezzi. Abbassa tu che abbasso io e così via per un po’ di tempo, finché la nuova compagnia fallisce. Il giorno dopo la dichiarazione di bancarotta quella sopravissuta alza i prezzi a livelli più alti di quelli iniziali. Io sogno il giorno in cui potrò godere del succo del calice della vittoria e arrivare al bar per il giornale in orari accettabili. Quel momento, per ora, è ancora lontano e mi tocca fare delle levatacce. Quel giorno le cose andarono per il verso giusto. Arrivai per primo, cosa avrebbe potuto guastare un giornata così? Nulla, mi risposi. *** Arrivai in orario al lavoro, come sempre. Odio i ritardatari, sono irrispettosi. Mentre varcavo il cancello sentii un tromba bitonale squarciare il silenzio che regnava in quella zona periferica della città. Mi voltai verso la fonte del suono e vidi Matteo, il camionista che settimanalmente ci consegnava il cibo per i cani. Accennai un saluto con la mano al quale lui rispose pestando con entusiasmo il clacson e gridandomi: - Ragioniere, buongiorno. 3

Per tutti loro al canile io ero il Ragioniere. Poco importava che fossi dottore, poco importava che là svolgessi attività che non avessero molto a che fare con la contabilità. Io ero per loro il Ragioniere e mi crogiolavo in quel titolo, che era pregno di rispetto e ammirazione. Alcune volte mi sembrava che gli stessi cani abbaiando mi gridassero Ragioniere. Parcheggiai la macchina al solito posto, sotto un vecchio ulivo, e mi recai nello spogliatoio. Mentre indossavo la tuta verde, all’improvviso, sentii un forte dolore. La ragione di quel dolore non poteva che essere una: Marco Mitrofi. Marco Mitrofi era un collega basso non più di un metro e trenta, ma quello che perdeva in altezza lo recuperava in forza. Noi lo chiamavamo Nanocirco, tutto attaccato, perché ricordava quei nani forzuti che non mancavano mai nei vecchi film circensi. La cosa più vicina a un ciao che conosceva era un forte manrovescio, con tanto di salto, sul collo dello sfortunato che lo incontrava. − Dovrò decidermi a sostituire la mia vecchia sveglia con te, un giorno di questi. Sei molto più efficace. − Faccio quel che posso e quel che posso è ciò che faccio. − Ma dove la tieni tutta sta saggezza in soli centotrenta centimetri? − Dimentichi l’appendice di ventisei. Non la dimenticavo, non potevo dimenticarla visto che giornalmente, a fine turno, facevamo la doccia insieme negli spogliatoi. − E la saggezza la tieni là? − Si, e credo che per molte donne che hanno avuto la fortuna di conoscermi quella sia stata la cosa più saggia uscita dalla loro bocca. − Non lo metto in dubbio, quello che non capisco è come abbia fatto a entrarci. − Mestiere, Ragioniere. Tutta questione di mestiere e di giusta angolazione − sogghignò e poi aggiunse: − Pranziamo assieme? − Certo. Al Leone di Mare? − Ok, ora scappo altrimenti Caligola mi stacca le palle − Caligola era il veterinario del canile - a dopo, Mario. − A dopo − risposi e finii di vestirmi. *** La prima parte della mattinata trascorse con la lentezza di un bradipo reduce da una sbronza. Ero intento a svuotare e riempire le ciotole dell’acqua nelle cucce, quando sentii il rumore di una macchina. Mi voltai e vidi una vecchia Panda rossa con la carrozzeria semi mangiata dalla ruggine che entrava nel cortile. Corsi al fontanino, mi sciacquai le mani e andai verso le due ragazze che erano scese. Una delle due mi si fece incontro, mentre l’altra si portò sul retro delle vecchia auto e prelevò un cestino in vimini. − Buongiorno − mi disse la ragazza che ormai mi aveva raggiunto. − Buongiorno − risposi. Finii di asciugami le mani con un vecchio strofinaccio. − C’è il dottore? − Certo. È nel suo studio. Deve andare vers… − So dov’è, grazie − così dicendo si diresse verso l’ambulatorio. L’amica, che intanto aveva posato per terra il cesto, si era appoggiata alla macchina e con aria annoiata aveva sollevato il mento e iniziato a farsi baciare dal sole. Mi domandai come potesse una persona vestita in quel modo resistere sotto quel sole incandescente. La ragazza, dai lunghi capelli scuri, indossava una gonna lunga in raso, molto simile a quelle indossate dalle zingare, e un giacchettino di lana chiuso in vita da una cinta, che altro non era che un’ appendice dello stesso capo. Quasi a voler bilanciare l’abbigliamento pesante ai piedi portava dei sandali, senza calze. Le unghie erano state decorate con dello smalto rosso su cui erano stati disegnati quelli che parevano dei piccoli fiorellini gialli.

4

Il mio esame fu interrotto dalla voce dell’altra ragazza di ritorno dall’ambulatorio veterinario. Stava invitando l’amica a raccogliere il cesto e a portarlo nell’ufficio del medico. La sua voce era rauca e fastidiosa, quasi come i suoi modi. Indossava una salopette sbiadita in jeans, abbottonata solo per una bretella. Sotto aveva un pesante maglione in lana. L’abbigliamento era sostanzialmente largo e non lasciava intravedere le sue forme. I suoi capelli erano tagliati a spazzola. Pensai fra me e me che dovesse essere lesbica, ma poi mi dissi che tutte le donne sono lesbiche. Certo poi ci sono quelle malate a cui piacciono solo gli uomini, ma quelle sono malate. Si sa. Ero arrivato alla conclusione che tutte le donne fossero omosessuali seguendo un percorso logico, non sono un tipo superficiale nei miei preconcetti. Se a noi uomini piacciono le donne e se le donne non sono più stupide di noi, perché allora dovrebbero preferire gli uomini alle donne? Il ragionamento per quanto semplice era stato accolto con entusiasmo negli ambienti maschili che frequentavo: non posso negare che più di una volta al bar avevo notato qualcuno che mi lanciava sguardi pieni di ammirazione. Lasciai le ragazze e tornai alle mie faccende. Circa un’oretta dopo nel cortile del canile risuonarono delle voci, mi affacciai dalla finestra dello spogliatoio e vidi il dottor Caligola che, fermo sulla porta del suo ambulatorio, salutava le due ragazze che erano intente a risalire in macchina. Ebbi l’impressione che lo sguardo del medico fosse posato sul culo della ragazza con la gonna. La conferma la ebbi quando miss Salopette, gridò – dottore, ha bisogno di qualcosa? Caligola impacciato rispose − No, no. Grazie − e si ritirò nel suo ambulatorio. Per quanto il dottor Caligola fosse un essere viscido non potei trattenere un moto di solidarietà maschile nei suoi confronti. Finii di vestirmi e raggiunsi Nanocirco sotto il patio antistante gli spogliatoi. − Finisco la sigaretta e andiamo − mi disse Marco. − Quella roba ti ucciderà. − Per quanto possa accorciarsi la vita, per uno come me rimane sempre lunga. − Rende impotenti il fumo, sai? − Balle. Sono solo balle messe in giro dai comunisti per distruggere le multinazionali del tabacco. − Ma perché da quella altezza vedete ovunque complotti rossi? − Bo’, forse inconsciamente temiamo che una volta finiti i bambini passino ai bassi… − spense il mozzicone sotto la scarpa, lo raccolse e lo buttò nel cesto dei rifiuti. Nel raggiungere la mia macchina scorsi un foglietto di carta, su per giù nel punto in cui le due ragazze avevano parcheggiato la macchina. Mi piegai a raccoglierlo e diedi una lettura veloce. Era un invito a non abbandonare i cani durante l’estate ormai prossima. Poi c’era l’indirizzo di una associazione, Il miglior amico del mio nemico, presso la quale era possibile adottare cuccioli. Trovavo quel nome inquietante e violento. − Di che si tratta? − Un volantino, credo che sia caduto alle due ragazze che hanno portato i cagnolini da Caligola − glielo passai. − Ma che razza di nome è per un’associazione? − Non lo so. Non lo so proprio. *** Andiamo spesso a pranzare al Leone di Mare non perché la cucina sia un granché, ma solo perché ci piace vedere il proprietario calcolare il conto. Ogni volta che glielo chiediamo lui piega la testa di lato, fissa il pavimento e blocca tutto il resto del corpo. Rimane in quella posizione circa tre o quattro secondi, poi si colpisce sulla tempia con il palmo della mano e dà la cifra da pagare. In un locale con un proprietario del genere potrebbero servirci ratto in salamoia con una spolveratina di vetro (quanto basta) e noi ci sentiremmo meglio di quanto non si sia mai sentito Lucullo.

5

Entrammo nel locale e chiedemmo un tavolo per due. Ci risposero che c’era da aspettare un po’. Marco ne approfittò per andare in bagno e io decisi di aspettare fuori. Era una bella giornata e avevo voglia di godermi il sole. Notai una certa animazione sul marciapiede di fronte. Inizialmente non capii cosa stesse accadendo, ma guardando meglio notai una grossa lasagna e una grossa orecchietta discutere animatamente con un ragazza. Oddio, non è che avessi bevuto, anzi bevevo sempre meno, ma sull’altro lato della strada c’erano due uomini che indossavano costumi “alimentari” per promuovere il ristorante inaugurato da qualche giorno. Era l’ennesima copia della risposta pugliese a McDonald’s: Il Trullo Prelibato. Questa catena di ristoranti aveva ormai riempito le città pugliesi e si stava estendendo a macchia d’olio anche nel resto dello Stivale. Il successo era dovuto a una politica commerciale aggressiva: prezzi bassi e pubblicità a tappeto. E la qualità del cibo? Ba’, quella a chi interessa? L’Uomo Orecchietta sembrava una versione pallida delle Tartarughe Ninja. L’Uomo Lasagna appariva come una versione tumefatta di Sponge Bob. La ragazza era, senza dubbio, quella del canile. Non quella gentile che aveva parlato con il Dottor Caligola, ma l’altra. La silenziosa. Per quello che riuscivo a intuire dalla mia posizione la ragazza reclamava il suo diritto di distribuire dei volantini sulla porta del ristorante. I due uomini in costume non la pensavano come lei. La situazione si stava facendo pesante: lei urlava come una scimmia con una molletta sul prepuzio, e i due non erano da meno. A un certo punto Orecchietta strinse il polso della giovane e lo torse. Il marciapiede si riempì di volantini. Decisi di intervenire. Attraversai la strada, mi avvicinai ai due uomini e dissi: − Forse sarebbe il caso di chiedere scusa alla signora… − Forse sarebbe il caso che ti facessi i fatti tuoi − replicò Lasagna. − Credo che la situazione possa essere risolta senza il ricorso alle mani, tutto qui. − Stiamo cercando di lavorare e ‘sta stronza non ce lo permette. − Perché che fastidio vi dà? − Disturba i clienti. − Non disturbo nessuno. È un mio diritto distribuire i volantini − era la prima volta che la sentivo parlare. − Ok, credo che sia tutto risolto −azzardai − tu continui un po’ più in là a fare volantinaggio e loro ti lasciano in pace. Giusto? − Non la vogliamo qui davanti. Poi sono fatti suoi quello che fa lontano dal locale − chiosò Lasagna. − Io resto qua. − Brutta stronza! − dicendo questo Orecchietta colpì con una potente sberla la ragazza. Mi sentii costretto a intervenire. Non essendo un violento, mi frapposi tra la donna e l’Orecchietta, e presi il cellulare dalla mia tasca per chiamare la polizia. La prima cosa che sentii fu un rumore di plastica che cozza contro la pietra. La seconda, un forte calore al polso. La terza, un dolore atroce. Lasagna mi aveva colpito con un calcio al polso facendomi cadere di mano il telefonino. Non ebbi modo di riprendermi che Orecchietta mi colpì con un pugno al viso. Caddi di peso sul marciapiede. Il rumore che provai fu diverso dal primo: non più plastica contro pietra, ma osso contro pietra. Avevo sbattuto la testa sul marciapiede e sentivo il sangue colarmi caldo tra i capelli. Non era finita là, i due cominciarono a scalciarmi. Percepivo alcune delle voci delle persone che facevano capannello intorno a noi. Le parole che arrivavano alle mie orecchie erano alternativamente: basta, polizia, lezione, poveretto, comunista e fermatevi. In tutta la mia vita non ero stato mai picchiato così selvaggiamente. Era una sensazione strana di dolore e voglia di dormire. Era come stare in una nuvoletta fatta di lana d’acciaio. Comoda ma dolorosa. Il tutto durò meno di un minuto, ma a me sembrò un’eternità. Credo che i due avrebbero continuato volentieri, ma il loro gioco fu interrotto da un ciclone di centotrenta centimetri. Non sono certo di cosa accadde, ma credo di aver visto Nanocirco prima colpire con una capocciata le palle di Lasagna e poi lanciare verso Orecchietta il banchetto su cui i due tenevano i menù. Furono i vigili urbani, apparsi dal nulla, a fermarlo. Io decisi che era arrivato il tempo di perdere i sensi.

6

*** Mi risvegliai in un ambiente che non conoscevo. Pareti celestine e puzza di chiuso. Ero in ospedale. Dovetti aspettare un po’ prima che qualcuno si accorgesse che avevo ripreso coscienza. A farlo fu un’infermiera grassottella, ma piacevole. Mi sorrise e mi rassicurò sulle mie condizioni. Il resto della giornata la passai alternando fasi di sonno a quelle di dormiveglia. Ero stato imbottito di antidolorifici. I giorni seguenti andarono su per giù nello stesso modo. Al mio capezzale si alternarono amici, colleghi e curiosi. Della ragazza nessuna traccia. Non ero intervenuto nel battibecco per diventare il suo eroe, ma per come si erano messe le cose almeno un “grazie” me l’aspettavo. Di certo Marco non dovette aspettare molto per ricevere il mio. Il suo intervento mi aveva salvato da guai ben peggiori. Orecchietta e Lasagna erano stati denunciati da me in uno dei primi momenti di lucidità post-ricovero. Ora bisognava solo aspettare. La mia degenza durò solo quattro giorni. Non essendo ancora in grado di guidare furono Marco e Cristiano, un mio ex compagno di classe, ad accompagnarmi a casa. Giunti a destinazione li congedai sotto il portone, non avevo solo il corpo in cattive condizioni, ma anche il morale. Ero ferito come uomo. Solo in quel momento mi stavo rendendo conto che ero stato picchiato e umiliato in un luogo pubblico. Non ero riuscito a colpire neanche uno dei miei avversari. Marco per consolarmi continuava a ripetermi che non era colpa mia, ma merito dei costumi in gomma piuma che avevano protetto i due. Non mi spiegava però come la protezione a nulla era servita durante il suo di intervento. Poi non riuscivo a mettermi l’anima in pace poiché non capivo come potesse una persona non ringraziare chi è intervenuto in sua difesa. Sono un permaloso, lo so, ma credo che in questo caso il mio risentimento fosse giustificato. *** Di solito la prima cosa che faccio appena entrato in casa è quella di buttarmi sul divano, ma non ho ritenuto saggio farlo nelle mie condizioni. Mi cambiai con non poche difficoltà. Ogni movimento era accompagnato da dolori in parti del corpo che non sapevo neanche di avere. Il mio amico Cristiano mi aveva fatto trovare il frigorifero pieno, ma non avevo fame. Presi solo un bicchiere di aranciata amara. Inserii un dvd nel lettore e mi stesi sul divano cercando di fare meno movimenti possibili. Avevo scelto un dvd a caso dalla mia collezione della serie “Una mamma per amica”, feci solo attenzione a non prendere l’episodio in cui Rory si diploma. Ero ancora troppo scosso emotivamente, e quell’episodio mi aveva fatto piangere anche in situazioni in cui avevo l’animo ben più leggero. La popolazione di Starshollow mi accompagnò tra le braccia di Morfeo. Il risveglio fu una tragedia. L’essermi addormentato rannicchiato sul divano aveva riacceso tutti i dolori assopiti. Mi sentivo un albero di Natale. Le fitte a intermittenza si “accendevano” e “spegnevano” in ogni parte del mio corpo. Quando mi spogliai, in bagno, per potermi fare la doccia rabbrividii nel vedere il mio corpo pieno di tumefazioni. Ci si poteva giocare a Risiko sul mio addome. Mi sembrava quasi di poter scorgere la Kamchatka. Mi rivestii e andai a fare colazione al bar. Non sarei dovuto tornare al lavoro prima del lunedì successivo, quindi avevo la giornata libera. Me la presi con comodo. Nel bar gli sfottò benevoli dei miei amici si alternavano a domande preoccupate. A me interessava solo leggere la Gazzetta. Lo feci e andai via. Mi trascinai sino al portone di casa e là vidi lei. Era vestita come la prima volta. Aveva portato con sé la sua aria annoiata. Quando mi vide si rialzò dal gradino su cui era seduta e mi si fece incontro. − Sono qui solo perché mi ci ha costretto il tuo amico. − Anche io sono felice di vederti. Non dovevi scomodarti a venire sino a casa mia per i ringraziamenti. Comunque ho gradito i fiori che mi hai mandato. Quei cioccolatini che hai in mano sono per me? − Non dovevi immischiarti. Te la sei cercata. − Volevo solo aiutarti. − Non te l’ho chiesto. 7

− Non dovevi chiedermelo. Era chiaro che avevi bisogno di aiuto. − Non sei stato un granché come aiuto. Questo fu un duro colpo. − Ok, dirò a Marco che sei venuta a ringraziarmi. Ora siamo pari. Puoi andare. − Sei conciato male. Ti accompagno sopra. Non sono un genio. Quando parlano di fughe di cervelli dal nostro Paese non si preoccupano di certo di una mia eventuale migrazione. Ma una cosa l’avevo capita: non capivo le donne. Sino a qualche secondo fa mi stava offendendo e ora voleva aiutarmi. Valle a capire. − Questo è il mio regno. Fai come se fossi a casa tua, ma non toccare i cd − le dissi appena entrati in casa. − Resisterò. Preparo un caffè? − Non ho la caffettiera. Non amo il caffè fatto in casa. Comunque possiamo mangiare i cioccolatini al caffè che mi hai portato. Li ho appoggiati sotto i fiori che mi hai regalato. − Stronzo. Quando tornai nel salone la trovai con la mia copia de La polvere del Messico in mano − Ma quanto leggi? – mi disse facendo roteare l’indice per tutta la stanza. − Ti faccio una confidenza, visto che sei così dolce con me: non leggo. Quei libri sono un alibi per la mia miopia, non vorrei che si pensasse che sia dovuta a un eccessivo autoerotismo. − Ti tradiscono le occhiaie. − Non sono occhiaie. Sono stato picchiato. − Scusami. − Dai tranquilla, si scherzava, no? − La realtà è che non sono brava a dire “grazie”. Ma tu sei stato gentile e io sono stata una stronza. − Ehi, sono un duro io. Non mi aspettavo certo un grazie da te. In realtà speravo che mi lanciassi il tuo fazzoletto dall’alto della torre. − Be’, spero che possa andar bene questo − e mi porse il foulard che aveva appena slegato dalla propria borsa. − Lo porterò con me in Terra Santa – le dissi stringendo il fazzoletto tra le mie mani. − Ora devo andare, Letizia mi aspetta. − Letizia è la tua amica? Quella simpatica del canile intendo. − Sì, è lei. Ed è realmente simpatica. Se la si sa prendere. − Userò il tuo foulard per prenderla senza scottarmi, allora. − Stupido! Vado. − Vai – le dissi sorridendo − Vado. − Ma come ti chiami? − Brigida. − Ah, ok. Io sono Mario, ti porgerei la mano se non mi facesse male. Allora, ci si rivede al mio ritorno dalla Terra Santa. − Ci conto. Detto questo, andò via lasciandomi più confuso di prima. *** Il mattino seguente mi alzai presto, come al solito. Feci la solita colazione al bar e mi rinchiusi in casa. Il senso di tristezza e di impotenza che mi aveva attanagliato subito dopo esser stato dimesso dall’ospedale non accennava ad andar via. Provai a leggere qualcosa, ma non riuscivo a trovare una posizione sufficientemente comoda che mi evitasse i dolori. Misi su qualche cd che non ascoltavo da anni, ma le cose non migliorarono. Iniziai a rimpiangere il mio lavoro, ma oggettivamente non ero in condizioni di lavorare. 8

Fortunatamente riuscii a dormire tutto il pomeriggio e così, quando si presentarono verso le otto Marco e Cristiano, in compagnia di Rodolfo e Nazareno, due colleghi di Cristiano, ero abbastanza rilassato. Avevamo organizzato una serata poker. In realtà, a me non piace giocare. Non sopporto quei giochi in cui devo mantenere alto il livello di concentrazione, quindi non avrei partecipato alla partita. Mi interessava solo la loro compagnia. La birra fece capolino timidamente verso le venti e trenta, e alle ventidue era diventata la protagonista assoluta della serata. Avevo smesso di fumare da qualche mese e per questo non permisi loro di accendere sigarette in casa. Dovevano spostarsi sul balcone. Il via vai fu tremendo, mi davano l’idea di lottatori di wrestling che si davano il cambio sul ring. Ero certo che prima o poi sul pavimento sarebbero apparsi i segni del loro passaggio, così come avviene nei cartoni animati. La birra e\o l’alcool in genere, in determinate situazioni, possono diventare la vaselina dell’anima. Così cinque uomini adulti si ritrovarono a parlare di argomenti che non avrebbero trattato neanche sotto tortura. E si sa, queste conversazioni sono come una tombola truccata: dal sacchetto escono sempre gli stessi numeri. Il numero più frequente è l’amore e i suoi derivati. L’amore è come una macchia di Roscharch, ognuno vi vede una cosa diversa. Parlare d’amore tra uomini è imbarazzante quanto confessare a un prete che prima di entrare nel confessionale ci si è fatti una sega in sacrestia guardando la foto di una suora su Famiglia Cristiana. Però, quando il numero esce… esce. E non ci si può tirar indietro. Fu Cristiano a iniziare. − Ho conosciuto una tizia. − Te l’ha data? − Marco sa sempre dove sta il nord, anche quando non ha una bussola. − Ho detto solo che l’ho conosciuta… Ci sto lavorando. − Di mano? − nel dire questo Marco portò su e giù la bottiglia. − Secondo me è arrivato il momento che tu metta su famiglia − fu invece Rodolfo a intervenire, l’unico sposato del gruppo. − Io non me la sento di mettere su famiglia − disse Nazareno − ho gia tanti problemi di mio. Figuriamoci se devo pensare anche a un bambino. − Però con Giovanna ci stai da un bel po’… − fece notare Rodolfo. − Sì, ci sto da un bel po’, ma non significa che mi senta pronto per il matrimonio. Non sono ancora maturo. − Tu non maturerai mai. Anzi tutti voi non maturerete mai. − Rodò, quando fai ‘sti ragionamenti mi fai incazzare – dissi. − Se poi maturare significa metter su pancia e perdere i capelli come te… − fece notare Nazareno. − Ok, vado via. Ètardi. Mia moglie è stata tutta la giornata con il bambino, ora tocca a me. − Hai finito di vivere il giorno del tuo matrimonio. Altro che finché morte non vi separi. Quel sì significa che l’unione vi uccida − disse Marco, mentre apriva l’ennesima birra. − Tu non sai cosa significa amare. Questa è la verità − ormai si era infilato la giacca e si trovava con la maniglia in mano - quando lo capirai avrai voglia di metter su famiglia. − Naa, l’amore non esiste. L’hanno inventato le donne per darla senza sentirsi in colpa. − L’amore è un abbonamento. Le donne lo usano per entrare nella tua vita, farci un giro e poi quando si stancano… lo strappano. Mi spiace, ma io la penso come Marco − disse Cristiano. − Non esageriamo. C’è caso e caso. Io con Giovanna sto bene. − Ma non la sposi. − Rodò, a che serve il matrimonio? − Vado via è tardi – aprì la porta e sparì. − Il matrimonio l’ha cambiato − fece notare Nazareno − prima non era così permaloso. − Vabbè, sapete quanto ci tiene alla sua famiglia. Sono scelte − intervenni. − Io preferisco non legarmi. A che pro dovrei farlo? Mi va bene così. Trovo una e me la scopo. Non le devo nulla e non mi aspetto nulla. Non soffro e non faccio soffrire. Tanto l’amore non esiste. Per loro sono più un fenomeno da baraccone che un uomo. Un’esperienza da raccontare a un’altra donna, in un bagno di ristorate mentre ci si aggiusta il trucco. 9

− Amen, fratello − gridò Cristiano, facendosi il segno della croce. − Io non la penso così − dissi − basta trovare quella giusta. Magari ci vuole tempo, ma prima o poi arriva. − Sei un coglione romantico. Mi fai quasi pentire di averti aiutato. Ti dovevano pestare ben bene. − Ero convinto che l’avessero fatto. − Non abbastanza, evidentemente. Cristià, andiamo va’! − Se trovo le chiavi della macchina… − Sono là, sul tavolino - feci segno con la mano. − Tu Nazareno che fai? − chiese Cristiano. − Vengo con voi. E la casa si riempì nuovamente della mia solitudine. *** La “Grande Zebra”. Così chiamo la mia stanza nelle prime ore del mattino. La luce che entra di sbieco dalle persiane produce sulle pareti delle striature nere. Lo stare senza far nulla prima di mettermi in moto per iniziare la giornata, nel ventre della Grande Zebra, mi rilassa. Un tempo questi momenti di riflessione erano accompagnati dal “Grande Cerimoniale Fumoso d’Apertura”, che altro non era che la prima sigaretta mattutina. Avevo smesso di fumare circa sei mesi prima, ma sembrava già passata un’eternità. Il Grande Cerimoniale Fumoso d’Apertura da qualche giorno era stato sostituito con il nuovo cerimoniale: “L’Unzione dei Malati”. La prima ora della giornata la passavo a spalmarmi pomate e pomatine sulle tumefazioni che non accennavano a sparire. Probabilmente, ero io che peccavo di eccessiva fretta ma, tutto sommato, ero tornato a casa da soli due giorni e il pestaggio non era avvenuto neanche una settimana prima. Ma si sa, la calma è la virtù dei forti, e io in quel periodo tutto ero tranne che forte. Stavo lì nel mio letto a rincorrere riflessioni tristi, come un cowboy che rincorre bisonti nella prateria, per procrastinare il momento dell’”unzione” quando sentii il cicalio del citofono. Non avevo la più pallida idea di chi potesse essere a quell’ora del mattino. La sveglia sul comodino segnava le otto meno dieci. Bestemmiando tutto il bestemmiabile mi alzai dal letto e risposi. − Chi è? − Sono Brì. − Il formaggio? − No, quello è Brie con la e, io sono Brì con la i accentata. − Ma che vuoi a quest’ora? − Salire. − Devi proprio? − Sì. − Vabbè, ricordi il piano? − Sì, sì. Quando aprii la porta trovai Brigida con una scatola di cartone in mano. − Buongiorno! − Ciao Brigida. − Che allegria oggi! − Sì, scusami. Hai ragione. Accomodati pure. − Regalo! − tese le braccia e mi porse la scatola. − Grazie non d… − Aprila. Lo feci. − Una caffettiera!? − Sì, sì. E ora la utilizziamo. − Ma a me non piace il caffè fatto in casa, e poi non ho neanche una confezione di caffè… − Ta-tà! – con un gioco d’abilità fece apparire dalla propria borsa un blister. 10

− Ho finito le scuse. Vado a darmi una sciacquata. La cucina è a tua disposizione, fanne buon uso e mi raccomando non toccare i cd. − E cosa uso come piattino sottotazza se non posso prendere i cd? − Nulla. Non ho tazzine da caffè. L’odore del caffè mi raggiunse in bagno. Era piacevole, ma rappresentava un problema per me: dovevo ammettere che lei aveva fatto bene a regalarmi una caffettiera. Ennesimo colpo al mio orgoglio martoriato. La trovai di spalle intenta a riempire due bicchierini da cognac con il caffè. − Non ho travato di meglio − indicò i bicchierini. − Andranno benissimo. Poi non credo che la tazzina riuscirebbe a rendere migliore il sapore di un caffè “casalingo” − avevo inconsciamente deciso di adottare la tecnica del “negare, negare, sempre negare”. − Oggi sei insopportabile. − Puoi togliere anche quel oggi. − Non ci credo… − Credici. − Assaggia. Assaggiai. Buono. − Nulla di che, preferisco quello del bar. − Bugiardo. − Vanitosa. Non mi rispose, ma sorrise. Fu la cosa migliore dell’ultima settimana. − Vestiti, dobbiamo uscire. − E dove dovremmo andare? − Ad aiutare il mondo! Ma che domande! *** L’idea di Brigida di aiuto al mondo era una sola: salvare i cani randagi. Durante il tragitto da casa mia a casa di Letizia mi parlò con trasporto dell’argomento. Aveva avuto sin dall’infanzia una passione per i cani e, quando i suoi genitori le avevano proibito di portarne uno a casa, lei aveva iniziato a portare giornalmente cibo ai randagi sparpagliati qua e là. Mi aveva raccontato come i primi tempi fingeva di mangiare tutto a tavola, ma in realtà nascondeva il cibo in una busta sotto il tavolo, per non farsi beccare dai suoi. Girava la città in bici e distribuiva quel poco che aveva raccattato. Crescendo aveva iniziato a fare lavori saltuari e quindi venne meno la necessità di nascondere il cibo durante il pranzo. Aveva sempre optato per lavori nell’ambito della ristorazione, preferibilmente lavori che l’occupassero in cucina. La bici era stata sostituita dalla macchina e il numero di cani che riusciva a soddisfare, con il cibo avanzato nei locali in cui lavorava, era aumentato. Con sua grande sorpresa aveva scoperto una rete spontanea di distribuzione cibo per i randagi, e una delle maglie di questa ragnatela era Letizia. Tra loro c’era stata intesa immediata e avevano deciso di creare l’associazione Il miglior amico del mio nemico per portare a un livello superiore di impegno civile la causa cinofila. − Sai cosa manca alle altre associazioni? – mi disse mentre nervosamente guidava. − Un nome schifoso? Mi fulminò con lo sguardo − Una strategia. Ecco cosa manca. − I suoi occhi cercarono intesa − sanno quel che vogliono, ma si attengono a tutta una serie di azioni inutili. Casuali. Oggi raccolta di fondi qua, domani cena benefica là. Non è così che si risolve il problema. Bisogna chiamare all’azione le genti. − Credo che sia la prima volta che sento usare il termine “genti”. Non mi sentì o semplicemente fece finta di non di non avermi sentito − Bisogna scuotere gli animi delle persone. Far capire loro come i cani siano quanto di meglio e di onesto ci sia sulla faccia della terra. − E come si fa a farlo capire? − Con l’azione. 11

− Come l’opera di volantinaggio davanti a un ristorante? Fece un gesto di diniego con la mano − Quella non è azione, ma chiamata all’azione. Per azione intendo qualcosa che colpisca l’animo di questa società corrotta! Avrei voluto chiederle cosa intendesse, ma in quel momento lei accostò la macchina al marciapiede. Eravamo arrivati a casa di Letizia. Lei era lì che ci aspettava. Questa volta indossava una salopette arancione, non sapevo che esistessero salopette arancioni. Il capello tagliato a spazzola e il colore dell’abito che indossava mi fecero pensare a un recluso di Guantanamo. La Panda era una tre porte, aprii lo sportello e ribaltai il sedile per permettere l’accesso al sedile posteriore. Mi bastò uno sguardo per capire che il posto sul retro spettava a me. − Sei in ritardo − questo fu il “buon giorno” della nuova arrivata. − C’era traffico − rispose Brigida, con aria per nulla preoccupata per il rimbrotto ricevuto. − Tu devi essere Mister Muscolo − mi disse con aria dispregiativa. − Lui è Mario – intervenne Brigida. A me non restò che porgerle la mano, ma dovetti ritrarla immediatamente visto che lei non accennò, neanche minimamente, a stringerla. − Chi ti ha raccomandato per ottenere il lavoro al canile? − Veramente io… − Sì, sì… tutti così dite. Ma si sa che nei posti pubblici se non sei raccomandato non ci entri… − Ma… − Brigida, ieri ci hanno consegnato i nuovi volantini. Oggi ci tocca fare un giro di telefonate… Avevo smesso di ascoltarle. Le loro voci si miscelavano al rumore prodotto dalla Panda causandomi una strana sensazione di stordimento. Che ci facevo in quella macchina con due sconosciute? Per essere pignoli ero stato selvaggiamente picchiato per proteggerne una e l’altra invece aveva come sport preferito quello di insultarmi. La mia vita non è che fosse un granché prima, ma ora era ancora più incasinata, senza contare che avevo anche l’incombenza di trovare un posto per la caffettiera appena tornato a casa − Ci darai una mano, vero? − fu la voce di Brigida a riportarmi sui sedili dell’auto. − Cosa? − Sarà debole di muscoli, ma è duro d’orecchie − sottolineò amorevolmente Letizia. − Ti ho chiesto se ci dai una mano a fare attività di volantinaggio. − Bò, non so se sono portato per ‘ste cose. Non sono il tipo da “buongiornosignoraleggaqui”… − Lui è più un tipo da azione − ancora l’adorabile Letizia. − No, è che ho paura di disturbare la gente. Tutto qui. − Dai, è per un opera buona e poi vedrai che non è così difficile − il tono era strano: tra lo scocciato, il rassegnato, l’arrabbiato e il deluso. − Vedrò di fare ciò che posso. − Ora mi sento più tranquilla − disse Letizia. − Lascialo in pace un attimo − mi difese Brigida mentre parcheggiava. *** Se Sting fosse entrato nella sede dell’associazione, così come era capitato a me quel giorno, di certo avrebbe avuto bisogno di tre interventi al cuore, con buona pace del suo maestro di yoga. Non avevo mai visto tanta carta tutta insieme: c’era mezza Amazzonia in quella stanza, ci potevi quasi sentire le scimmie urlatrici. − Che te ne pare? − mi chiese Brigida facendo una piroetta mentre allargava le braccia. − Be’, mettiamola così: se uno dei cani dovesse fare un bisogno, vi basterebbe gettare il foglio su cui l’ha fatto per poter pulire − dicendo così indicai i numerosi fogli sparpagliati sul pavimento. 12

− Lo so, è un po’ disordinato l’ambiente. − A proposito, i cani? − Non abbiamo cani qui. Non abbiamo gabbie − questa volta fu Letizia − I cani devono essere liberi di muoversi in città. È un loro diritto. Il nostro compito è sfamarli e curarli. − Ma qui leggo un invito all’adozione di un cane − dissi mentre sventolavo uno dei volantini. − Non significa quello che pensi − mi disse Brigida − È una cosa tipo adozione a distanza. Chi è interessato versa a noi una quota e la somma è destinata al mantenimento del cane, che resta tuttavia libero in città. − Ma è assurdo! Il cane comunque resta soggetto a tutti i rischi che una città presenta: teppisti, automobili e soprattutto racket dei combattimenti. − Noi lottiamo per questo. Il nostro obbiettivo è quello di trasformare la società. Rendere il mondo migliore eliminando i problemi che tu hai elencato. − Brigida, mi sembra un’impresa complicata. − Per te è complicato tornare a casa tutto d’un pezzo, caro mio! Era ufficiale: odiavo Letizia. *** Fu una giornata movimentata. Ci spostammo in ogni angolo della città per distribuire i volantini. L’imbarazzo iniziale, da parte mia, fu parecchio. Temevo di incrociare qualche conoscente. Fortunatamente non accadde. Pian piano mi sciolsi e iniziai a distribuire materiale con una certa disinvoltura. Avevo notato che circa il cinquanta per cento delle persone prendevano il volantino e lo gettavano senza degnarlo di neanche uno sguardo. Queste erano le persone che di solito ti sorridevano mentre accettavano il foglietto. Poi c’erano le persone interessate che si fermavano a discutere dell’iniziativa e c’era una piccola percentuale che addirittura chiedeva l’indirizzo della sede. Poi c’erano le persone “scusinonhotempo” che non ci degnavano neanche di uno sguardo. Il mondo è bello perché è vario. La seconda parte del giorno la trascorremmo distribuendo cibo tra i cani. Per me non fu un problema, visto il lavoro che faccio, quindi fui disinvolto come un esibizionista su una spiaggia nudista. La cosa più complicata fu reggere le continue frecciate di Letizia nei miei confronti. Sono una persona educata, paziente e dotata di autocontrollo. Però la mia pazienza stava raggiungendo il limite, superato il quale avrei iniziato a rispondere a Misssalopettecolorata. Con il carattere che mi ritrovo sapevo già che mi sarei sentito in colpa per le cose dette, ma quando mi scatta la molla della rivalsa non riesco a contenermi. Quando terminammo ero distrutto. Il medico mi aveva ordinato il riposo e io stavo svolgendo un’ attività molto simile a quella che faccio per lavoro, ma non potevo lamentarmi per non diventare oggetto degli sfottò di Letizia. Fortunatamente le lancette dell’orologio compiono il proprio mestiere anche quando meno te l’aspetti. Brigida mi riaccompagnò a casa e le chiesi di salire. Avevo una nuova caffettiera e desideravo usarla nuovamente con lei. Lei accettò con entusiasmo a condizione che fosse lei a preparare il caffè Una volta su, misi a sua disposizione la mia doccia e una mia vecchia maglietta dei Blue Oyster Cult. Avevo letto sulla Gazzetta che il sessanta per cento degli uomini inglesi trova eccitante vedere la propria donna con indosso la maglia della propria squadra del cuore. In quel momento potevo vagamente immaginare cosa scattasse nella “testa” dei figli di Albione. Quando uscii dalla doccia iniziai la fase più difficile della giornata: quella della medicazione. Pomate e pomatine dovevano essere spalmate sulle ecchimosi presenti sul mio corpo. − È pronto – mi sussurrò affacciandosi sulla porta della camera da letto. − Arrivo subito, finisco di medicarmi. − Forse hai bisogno di una mano? 13

− È così evidente? − Direi di sì. Probabilmente il mio viso divenne rosso. Ero cosciente di non essere un bello spettacolo. Ero steso a pancia in giù sul letto e con le braccia cercavo di cospargermi la schiena. Mi agitavo e pativo le pene dell’inferno a causa dei miei acciacchi. − Stenditi, te la metto io la crema. Fu piacevole. Le sue mani passavano sul mio corpo in modo deciso ma dolce. E mi faceva impazzire quel suo percorrere con la punta del dito il perimetro dei miei lividi. Chiusi gli occhi e assaporai il momento. Così, quando lei mi disse: − Girati che ti metto la crema sul petto – vissi un momento di imbarazzo. Indossavo solo i boxer e il mio uccello, avendo scarse nozioni di medicina, aveva frainteso le “sue carezze” . − Grazie, ma sul petto ho fatto già da me. − Ok, allora siediti che ti fascio il busto. Ancora imbarazzo. Decisi di giocarmi la carta “salto della pulce”: poggiai le braccia sul letto e diedi un corpo di reni; incrociai le gambe e le detti le spalle. Le operazioni di fasciatura furono meno piacevoli, ma ebbero il vantaggio di farmi “rilassare”. Quando finì mi sollevò i capelli e mi diede un bacio sul collo sussurrandomi – Ti aspetto a tavola. La guardai uscire, mi infilai un paio di pantaloni e la raggiunsi. Durante la cena parlammo un po’ di tutto. Cani, Letizia, la mia collezione di cd, situazione in Medio Oriente e di qualsiasi altra cosa ci venisse in mente. Non parlammo della nouvelle vogue del cinema yemenita, ma decisi che il giorno dopo non avremmo non potuto discuterne. In realtà, mi trovavo in una situazione strana: adoravo parlare con lei, desideravo che quel momento non finisse mai, ma d’altra parte desideravo portarmela a letto. Fui fortunato: scoprii con sommo piacere che anche a letto continuava a parlare. *** Facemmo l’amore tutta la notte. Quando dico tutta la notte non intendo di continuo. È solo un modo di dire. Al mio risveglio il suo corpo nudo era striato dalle ombre prodotte dalle persiane. La guardavo e riguardavo. In quel momento se avessi avuto una di quelle automobiline di plastica che regalano negli ovetti di cioccolata avrei percorso le curve del suo corpo. Mi limitai a raccattare dal mio comodino la copia de La Peste di Camus che stavo leggendo in quei giorni e mi recai in soggiorno. Decisi di farle una sorpresa. Sono cresciuto guardando la tv e quindi il mio “fantasma del giorno dopo” mi sussurrò che se volevo rendere perfetta la nottata dovevo iniziare la giornata portandole il caffè a letto. Presi la caffettiera, la smontai e cercai di capire come funzionasse. La voltai e rigirai, ma nulla. Presi la scatola e cercai le istruzioni. La scatola non conteneva istruzioni. Maledissi i bar, se non ci fossero stati loro avrei imparato da un bel pezzo come fare il caffè. Mi vestii in fretta e furia e mi recai al bar. Resistetti alla tentazione di leggere La Gazzetta e comprai due caffè, che diligentemente feci mettere in un piccolo thermos. Fortunatamente al mio ritorno lei dormiva ancora. Rimontai la caffettiera e vi versai il contenuto del thermos all’interno. Su un vassoio misi caffettiera e due bicchierini, e portai tutto in camera da letto. Mi piegai su di lei la baciai dicendole: − Buongiorno. − Buongiorno – mi rispose stiracchiandosi − che buon odore! − Ti ho preparato il caffè… − Sei adorabile! Versai il contenuto della caffettiera nelle due tazzine di fortuna e le porsi la sua. Lei bevve. Io aspettai la sua reazione. − Buono! − E lo so, sono cintura nera di caffè! 14

− Di karatè di certo non lo sei. − Ho smesso di fare karatè perché il bianco mi sbatte. − Scelta saggia. E che altro sai fare? − Scoprilo. Rifacemmo l’amore. Ero colpito particolarmente dalla sua dolcezza nel baciarmi, sfiorarmi le ferite. Le mie “ammaccature” erano il fulcro delle sue attenzioni. Non posso nascondere che inizialmente mi vergognavo. Non sono più un ragazzino e la forma fisica ottimale è andata a farsi benedire da parecchio, inoltre le ferite non aiutavano. Ma lei fu dolcissima e piena di attenzioni, e questo mi piaceva. Quando finimmo ci facemmo la doccia e lei mi medicò le ferite. Ci salutammo e ognuno andò per la sua strada. Io al canile, lei chissà dove. *** I primi tempi sono stati fantastici. Passavamo ore e ore a parlare e a fare l’amore. Lei continuava la sua opera di volontariato “cinofilo” e io avevo ripreso in pianta stabile il mio lavoro. Però qualcosa si ruppe, almeno a livello sessuale. La passione da parte sua era più pallida dei lividi sul mio corpo. E i lividi erano quasi del tutto spariti. − Dobbiamo parlare − le dissi. − Di cosa? − Di noi, chiaro. − Cosa c’è che non va? − Sei sempre più fredda nei miei confronti. − Lo sai torno stanca a casa − ormai si era trasferita da me − ci stiamo preparando a boicottare la “Fiera del cucciolo”. La Fiera del cane era diventato il nostro argomento di discussione principale. Stava per arrivare in città e ci sarebbe rimasta per almeno tre settimane. Era un’ esposizione per gli organizzatori. Decisamente una barbarie per Brigida e Letizia. A loro dire i cani erano trattati alla stregua di oggetti senza rispetto e questa cosa era inaccettabile. − Lo sai che non è stanchezza, ma mancanza di interesse nei mie confronti. Vuoi rompere, vero? − Ma che dici? No, no. Sono solo stanca. − Sta sera usciamo. Io e te. Niente Letizia e “fiere” con noi! − Non mi va. − Vedi di fartela andare. Quella sera volevo che fosse tutto perfetto. Mi cambiai i jeans e mi pettinai. Non poteva resistermi. Mi sbagliavo, la serata fu un vero fallimento. Quando arrivammo in prossimità del portone di casa il mio morale era sotto i tacchi. Durante tutta la cena quasi non parlammo e quando lo facemmo fu lei a parlare delle azioni di boicottaggio da compiere nei confronti della fiera. Ero lì che l’ascoltavo con il “cervello staccato”, a malapena le dicevo di sì. Avevo tentato di salvare il nostro rapporto e invece ne avevo solo vestito a festa il cadavere. Di lì a poco l’avremmo seppellito. − Che sta facendo? − fu il tono diverso della voce di Brigida a riportarmi fuori dalla camera mortuaria. − Cosa? − Quel bastardo che sta facendo alla tua macchina? Alzai lo sguardo e vidi un ragazzetto intento ad aprire la portiera della mia macchina. Per la seconda volta nel giro di due mesi attraversai la strada per atteggiarmi a paladino civico, per la seconda volta fui picchiato. Fortunatamente questo giro durò molto meno. Il ladruncolo non aveva nulla di personale nei miei confronti, voleva solo scappare. Lo fece. In realtà, non picchiò tanto forte, ma le mie ferite non si erano rimarginate e quindi tornarono a pulsare tutte insieme, felici come vecchi amici lontani che si rincontrano al paese natale il giorno della festa patronale. 15

Decisi di non sporgere denuncia. Non aveva neanche iniziato a forzare la serratura e il corpo mi doleva troppo per arrivare al commissariato. Salimmo e Brigida ripeté le operazioni che da qualche settimana aveva smesso di fare. Con le cure tornò la passione. Facemmo l’amore come non lo facevamo da settimane. Le sue attenzioni erano concentrate su lividi nuovi e vecchi. Alla fine ero dolorante, ma soddisfatto. Mi alzai e andai sul balcone. Volevo controllare che la macchina fosse ancora al suo posto. Fortunatamente il ladruncolo non era tornato e poi c’erano i miei amici zingari a vigilare, come ricompensa di un mio vecchio favore. Presi un succo di frutta dal frigo e mi sedetti sulla vecchia sedia che lasciavo sul balcone. Poggiai i piedi sulla ringhiera e iniziai a bere. Sarà stata la posizione con i piedi in alto e la conseguente circolazione del sangue, ma iniziai a riflettere sul mio rapporto con Brigida. Ero sempre più persuaso che lei fosse più interessata ai miei traumi che non a me. La passione era nata con le ferite ed era morta con esse, e solo la nuova apparizione dei lividi sul mio corpo l’aveva fatta resuscitare. Mi dicevo che era una stronza, ma più ci pensavo e più la cosa mi convinceva. Certo aveva dimostrato di interessarsi anche ad altri aspetti della mia persona, ma le ferite erano i fili che tenevano insieme il nostro rapporto, come lo spago per le braciole. Era da escludere una sua attrazione per la violenza, o almeno non mi aveva dato mai l’impressione di essere un persona violenta. Metteva impeto nel parlare della causa cinofila, ma da qui a pensare a lei come una tipa pronta a commettere cattiverie ce ne passava. La spiegazione doveva essere un’altra: lei vedeva nelle mie ferite uno sprone a curarmi, ad accudirmi e a difendermi. Così come faceva con i cani. Il suo movente non era la violenza, ma la bontà. E il fatto che fosse amica di Letizia non poteva che confermare che fosse una persona con una certa propensione a compiere opere pie. Quanto mi sbagliavo quella notte! *** Rompemmo quando decisi che ne avevo abbastanza di essere rotto. Come avevo immaginato, con lo scomparire dei lividi dalla mia pelle scemava il suo interesse per me. Feci l’errore di parlargliene e lei prima negò, ma poi ammise. − Non lo so cosa mi scatta, ma quando ti vedo ferito mi… − attimo di pudore nella sua voce − mi eccito. Non è una cosa da sadici, non desidero farti male, ma curarti. Io non ti farei mai del male. − Ma è una cosa assurda, un rapporto non può basarsi su delle ferite! – non avevo nulla di meglio da rispondere. − Lo so, ma io non me la sento di continuare la nostra storia. − Ma che dici? − È così, almeno che tu non faccia qualcosa per me. − Cosa? – una parola. Quattro lettere. La chiave per l’inferno. − Che ti procuri altre ferite. − Ma sei pazza? − No, sono seria. − Ma non ci penso nemmeno. E io che pensavo che Letizia fosse la pazza delle due. − Ma che ti costa? Ci sei passato gia due volte e sei ancora vivo. E poi non puoi nascondere che i momenti migliori con me li hai passati proprio in quei periodi. − Non posso soffrire per far contenta te! − Ma per far contento te sì. È di questo che si tratta, far contento te. Chiaramente dissi di no. Chiaramente cambiai idea quando la vidi con la valigia in mano, mentre andava via da casa. La cosa funzionava in questo modo: camminavamo per strada e se vedevamo una rissa o un parapiglia io mi ci tuffavo dentro e cercavo di prendere quante più botte possibile. A questo punto della storia sarà chiaro che prender botte per me non era un problema.

16

Nei periodi di magra ero io a scatenare i litigi. Per lo più con motivi futili. Ero impressionato dalla facilità con cui le persone erano disposte a fare a pugni. Non solo uomini ma anche donne. Ero diventato una sorta di antistress provinciale. Ci muovevamo di città in città per cercare focolai di violenza. Io avevo una certa predilezione per le situazioni in cui potevo dipingermi a paladino della giustizia al momento dell’ingresso nella colluttazione, ma devo ammettere che quei casi erano sporadici. Il più delle volte indossavo gli abiti del rompiscatole. Il mio modello di riferimento era Letizia. Il problema maggiore era non farmi colpire sul viso e soprattutto giustificare i lividi sul mio corpo durante le docce al canile a fine turno. Iniziai a trattenermi più a lungo a lavoro in modo tale da trovarmi da solo negli spogliatoi, ma non era facile. I rapporti con i colleghi si andavano deteriorando, il mio fisico era uno straccio e il piacere che provavo dallo stare con Brigida era sempre meno. Fortunatamente avevo ancora tutti i miei denti, ma per quanto ancora? Mi persuasi a parlarle. − Non ce la faccio più. − A far cosa? − A farmi picchiare per te. − Non scherzare, siamo felici insieme − la nostra storia andava ormai avanti da circa un anno. E non c’erano mai stati problemi da quando avevamo messo su il teatrino del linciaggio. − Io non ci sto. Sono ridotto a uno straccio fisicamente. Non ho più rapporti sociali. Io ti amo. Farei di tutto per te e te l’ho dimostrato, ma è arrivato il momento di chiudere con questa cosa. − Non se ne parla neanche. Non voglio una storia normale. Io ho bisogno di curarti. − Sono questo per te? Una storia? − No, che hai capito? Anche io ti voglio bene. Le tue ferite sono l’ovatta dove custodire il nostro rapporto. − No, non ci sto più. Mi spiace. A queste condizioni non ci sto più − lo dissi sbattendo la porta di casa. Al mio ritorno lei non c’era più, e non c’era più neanche la sua roba. *** − Pop corn? − Sei pazzo? − Perché? − Ti si gonfiano nella pancia e te la fanno scoppiare! − Ma che dici? − L’ho letto su una rivista! − Marco, tu non leggi! − E qui ti sbagli, mio caro Ragioniere… − È assurdo! − Non è assurda la cosa dei pop corn, l’ho letta su… − Non mi riferisco alla stronzata sui pop corn, ma al fatto che tu legga! − Non farti strane idee! Lo faccio solo per ingannare l’attesa prima del mio turno dal barbiere. Si scoprono tante cose interessanti, sai? Una volta ho letto di un prete che si segava mentre confessava le sue parrocchiane. L’hanno trovato morto nel confessionale con l’uccello in mano. Infarto. Era ancora tutto sporco di sborra, la mano si era appiccata al cazzo e non riuscivano a staccarla. Dovettero usare dell’acqua calda… − Mi sembra una cavolata. Figurati se la chiesa lascia trapelare ‘ste notizie. Normalmente i panni sporchi li lava in casa… − Be’, neanche io credo che abbiano portato in lavanderia l’abito talare per mandar via le macchie bianche… Dovemmo interrompere le nostre disquisizioni teologiche in quanto il film stava per iniziare.

17

Il ritorno alle mie abitudini sociali fu meno difficile del previsto. I miei amici mi fecero pesare quasi per nulla il mio allontanamento da loro. Sanno che sono una persona riservata e non mi fecero domande, per mia fortuna. Subito dopo l’addio di Brigida avevo rotto tutti i contatti con il mondo. Lavoro escluso, ovviamente. L’idea di andare al cinema era stata mia, sentivo che era arrivato il momento di rituffarmi nella vita normale. Non avrei mai pensato che sarebbe stato così difficile convincere il nano. − Ti va di andare al cinema stasera? − Chi siamo? − Io e te. − No. − Perché? − Perché è da checche. Se non trovi due ragazze, io con te al cinema non ci vengo. − Ma che dici? Due amici potranno andare al cinema, no? − No, se sono entrambi maschi. Maschi in modo genuino, intendo. − Ma noi siamo maschi in senso genuino! − Sì, ma la gente che ci vede arrivare insieme al cinema non lo sa! − Ma nessuno pensa che due uomini siano gay solo perché vanno al cinema insieme! − Io lo penso sempre! − Tu sei malato! − No, sei tu che sei una persona superficiale. La discussione durò ancora per molto, ma alla fine il nano si arrese quando gli proposi di andare separatamente e di fingere di esserci incontrati casualmente là. Cosa ancora più complicata fu la scelta del film. Inizialmente, aveva proposto un virile film d’azione americano, tutto muscoli e testosterone. Ma mezz’ora prima dell’inizio mi aveva chiamato dicendo che dovevamo cambiare la nostra scelta perché se due uomini senza donne vanno al cinema per guardare un film con protagonisti muscolosi, non possono che essere omosessuali. Quindi il nostro stratagemma dell’incontro casuale non avrebbe retto. La scelta ricadde su un polpettone comico-demenziale con siliconate attrici discinte e soubrette scosciate alla prima prova cinematografica. Se la mia prima sera con Marco fu un mezzo fallimento, un disastro completo fu la seconda. Il mio amico ostinatamente aveva preso in mano le redini della mia vita sentimentale e aveva organizzato una serata a quattro, le donne le avrebbe procurate lui. Non ho gusti particolari in materia di donne, solitamente preferisco ragazze poco appariscenti perché mi fanno sentire più a mio agio. Non sono un mangiatore di donne e quelle troppo esuberanti mi mettono in soggezione. Per questo chiesi al mio amico informazioni sulla mia compagna. − Ragazza di classe. Che domande! − Dove l’hai conosciuta? − In discoteca − Marco le frequentava abitualmente nel fine settimana – era lì con sua sorella più piccola, che tra parentesi è l’altra ragazza che uscirà con noi stasera. Ho tentato di farmele tutte e due, ma sono all’antica. Mi sono tenuto quella piccola che la dà, a te lascio l’altra. − Gentile da parte tua. − Per un amico questo e altro. Ho programmato tutto: tu passi a prendermi, poi andiamo al cinema Orion. Era lo stesso in cui eravamo andati noi due da soli. Domandai − Che danno? Mi disse il titolo del film. − Ti piace quel genere di film? − No, mi fanno cagare quei film. Ma ci ho pensato bene: se torniamo con due donne, metteremo a tacere ogni eventuale voce sulla nostra omosessualità − E chi le avrebbe messe in giro queste eventuali voci? − Le maschere, ovvio. − Ovvio. 18

− Lo sanno tutti che le maschere ogni giorno vanno dai portieri d’albergo a spifferare i nomi degli uomini che vanno in compagnia di altri uomini al cinema. I portieri tengono per sé le informazioni o le rivendono ai barman di periferia. − Stupefacente. − Il nostro è un mondo corrotto dal vizio. − Ma non è troppo tardi per noi? − Potrebbe esserlo, ma se giochiamo bene le nostre carte stasera, potremmo salvarci. − Che significa giocarci bene le nostre carte? − Devi toccare il culo alla tua ragazza quando sei nelle vicinanze della maschera. − Non credo di poterlo fare − dissi con voce tremante e agitando le mani. − Allora fossi in te non andrei più da solo nei bar di periferia. Il piano del nano sullo svolgersi della serata era curato nei minimi particolari. − Dopo il cinema andiamo all’osteria del Bruco Nero. − Ma è una topaia! − esclamai. − Sì, ma il vino costa poco e la cucina è pesante. Nessuna ti dice di no dopo esser passata dal Bruco Nero. *** La serata andò più o meno come aveva previsto Marco. Il meno era principalmente colpa mia: invece di portarmi a letto la mia accompagnatrice, come invece aveva fatto il nano con la sua, io preferii accompagnarla a casa. Non era brutta, anzi molti uomini ci avrebbero provato. Semplicemente non era il mio tipo. La trovavo banale. Era la tipica ragazza che vedi nei talk show pomeridiani. Vestiti firmati, tatuaggi nei punti più impensabili e soprattutto poca ironia. Io trovavo atroce la mancanza di ironia per due motivi: una ragazza per piacermi deve capire le mie battute e io per piacere a una ragazza devo andare a segno con le mie battute. Trovo deprimente spiegare tutto quello che dico, il più delle volte mi arrendo e lascio perdere, chiudendomi nel mutismo più assoluto. Qualora alla ragazza non piaccia il mio umorismo, non ho speranze di colpirla non avendo la carta bellezza da giocarmi. Di Brigida mi piaceva la sua capacità di controbattere alle mie frecciate, con ironia e sagacia. Era sempre un passo avanti a me. Il più delle volte ci capitava di pensare la stessa cosa. Avevamo lo stesso background culturale e gli stessi valori. E poi, per dirla tutta, era un gran pezzo di figliola. Purtroppo era venuta meno la seconda condizione, io ero convinto che le piacessi per la mia ironia, invece lei adorava solo le mie ferite. Scaricato il manichino sotto il portone di casa sua, decisi di farmi un giro in macchina. Non avevo sonno, probabilmente a causa della cena pesante. La bocca invece era secca, cercai un bar aperto, ma quando mi resi conto che mi trovavo in piena periferia, preferii tirare avanti. Non avevo toccato il culo della mia compagna nelle vicinanze alla maschera. Perché rischiare? Trovai un pane e merda, uno di quei camioncini che vendono panini e schifezze varie, e mi fermai per comprare una Peroni. Mi guardai attorno e vidi la fauna che mi circondava. C’erano due ragazzi alti “due mele o poco più” con taglio di capelli inguardabile, che parlavano tra di loro senza riuscire a stare fermi nello stesso punto per più di due secondi. Sembravano quei pupazzi a corda, che zampettano di qua e là in cerchio. Poi c’era una coppia intenta in un litigio. Mentre sorseggiavo la mia birra, mi rendevo sempre più conto di come la tv influenzi la comunicazione. Il loro modo di litigare era simile a quello dei bambocci che popolano la tv. Cazzo, pensavo tra me, ci hanno condizionato anche i momenti di rabbia. Finii la mia birra e tornai a casa. Ero disgustato dal puzzo di porchetta e da quella lite che si era trasformata in pace per poi concludersi con la parola che più odio del vocabolario moderno: amo'.

19

*** La “Fiera del cucciolo” con circa un anno di ritardo era giunta in città. Le associazioni animaliste erano riuscite solamente a ritardarne l’arrivo. Il grosso tendone che ospitava la manifestazione era stato montato in una notte e ora sorgeva davanti ai miei occhi, mentre parcheggiavo la macchina. Mi ero convinto che dovevo vedere il “mostro” da vicino. Feci la fila e comprai un biglietto. I visitatori erano più che altro famiglie. I bambini correvano felici da una parte all’altra schiamazzando. Non era per nulla brutto e non mi sembrava neanche che i cani fossero trattati male. Di certo nessuno di loro pativa la fame. Bighellonai tra gli stand per tutto il pomeriggio. Mi fermai ad assistere a una gara di abilità e andai via. In cuor mio speravo di rivedere Brigida ma, come era facile immaginare, non c’era. Mi aspettavo che venisse anche lei a vedere il gran nemico da vicino, o almeno credevo di poterla trovare fuori a manifestare. Non la vedevo più dal giorno in cui era andata via da casa mia, o meglio mi era capitato di vederla nei telegiornali locali, nei vari servizi che nei mesi si erano succeduti e che riguardavano le proteste contro la fiera. Lei appariva alle spalle di Letizia, che era diventata la portavoce del movimento. Di mio avevo provato a chiamarla, ma lei non aveva risposto. Questo chiariva definitivamente quali erano i suoi sentimenti nei miei confronti. Io avevo ripreso la mia solita vita sociale: bar, lavoro e partite a carte con gli amici. *** Furono le sirene a svegliarmi. Corsi sul balcone e vidi le fiamme. La “Fiera del cucciolo” stava andando a fuoco. Non ne avevo dubbi, così come non dubitavo quale potesse essere la causa. Mi infilai in macchina e corsi sul posto. Fui bloccato dai vigili urbani che trattenevano a stento la folla di curiosi, numerosi nonostante l’ora tarda. La puzza di fumo e di plastica bruciata, quella del tendone, si univa con quella ben più macabra di carne bruciata. I latrati dei cani straziavano le orecchie. C’era da impazzire. Mi guardai intorno per cercare Brigida, ma non la vidi. Corsi verso l’ambulanza, due infermieri stavano adagiandovi all’interno un corpo. Non era lei, era un uomo al quale mancava quasi metà della pelle del viso. Corsi via. Scappavo da quello scempio, scappavo da Brigida. Scappavo dalle mie responsabilità. Che dovevo fare, denunciarla? Mi dissi che non ero certo che fosse stata lei. Ma la verità è una corda di bungee jumping: più cerchi di allontanarti tanto più violentemente lei ti tira su. Questa volta la verità aveva il suono sgradevole della voce di Letizia. − Mario. Mi girai di scatto e la vidi ferma con gli occhi pieni di lacrime. Avevamo tutti gli occhi lucidi a causa del fumo. − Letizia. − Mario. − Che avete combinato? − Io niente, non c’entro. − E Brigida? − Le avevo detto che sarebbe stato un errore. − Letizia, Brigida dov’è? − L’ho aiutata a scappare. Non so dove sia andata. − Ma vi rendete conto del casino che avete combinato? Ho visto io stesso un uomo divorato dalle fiamme. E i cani? Invece di salvarli li avete mandati al rogo. − Qualcosa deve essere andata male. − Qualcosa? Hai il coraggio di dire qualcosa? Avete bruciato vive delle persone e dei cani! Per non parlare dei danni economici alle persone che vivono grazie alla fiera. − Senti, io sono qui perché ho cercato di fermarli. Ci ho provato. − Non ci credo. − Libero di non crederci, ma è la verità. Probabilmente se non fossi intervenuta i cani ora sarebbero ancora vivi. 20

− Che intendi? − Ho fermato Brigida e lei ha ritardato l’apertura delle gabbie. Evidentemente chi doveva appiccare il fuoco non si è accorto che le gabbie erano ancora chiuse. Capisci, l’ho trattenuta! Mentre io le parlavo, qualcuno accendeva il fuoco! Sono stata io a far morire quei cani. Quando ho visto le fiamme ho preferito far scappare Brigida che aiutarla a liberare i cani. Forse insieme ci saremmo riuscite. − Non cercare la mia comprensione, siete uguali. Andai via con gli occhi pieni di fumo. Con il naso pieno di fumo. Con il cuore pieno di fumo. *** Quando trillò il telefono ero sveglio. Non avevo neanche tentato di rimettermi a letto. Le sirene che fendevano il silenzio notturno erano per me come ghiaccio sulle gengive. Alzai la cornetta al terzo squillo. − Pronto? − Dobbiamo raggiungerla. − Letizia? − Sì, sono io. Dobbiamo raggiungere Brigida e convincerla a costituirsi. − Sei stata tu a permetterle di scappare. − Ho sbagliato, lo so. − Hai paura che la colpa ricada su di te e cerchi di dare in pasto alla polizia il vero colpevole? − Io… no. Credo che la sua fuga serva a poco e possa solo peggiorare le cose. Solo questo. Io le voglio bene, non la metterei mai nei guai. Almeno volontariamente. − Scusa, hai ragione. E’ solo che sono così… − …incasinato, non dirlo a me. − Hai una minima idea di dove possa essersi diretta? – chiesi. − Credo dalla sorella. − Ha una sorella? Non lo sapevo. − Sì, a Bratta. − E dov’è? − Nel bergamasco. Dobbiamo raggiungerla prima che la polizia giunga alle nostre stesse conclusioni. − Letizia… − Sì? − Tu sei la prima sull’elenco della polizia. Non ci vorrà molto a fare due più due, tu eri quella dell’associazione che metteva la “faccia”. − Altro buon motivo per partire subito, allora. − Ok, dammi un’oretta. Passo io da te. − Va bene. *** La seconda telefonata fui io a farla. Chiamai Marco. Avevo bisogno che qualcuno avvisasse il direttore che non sarei andato al canile per un po’. − Chi cazzo è che chiama a quest’ora! − Ciao Marco… − Mario? Cazzo, cazzo, cazzo! Non ho chiuso occhio per tutta la notte per queste dannate sirene e appena smettono tu che fai? Mi chiami! − Devo partire. Subito. − Cosa? 21

− Devo andar via. Per qualche giorno. − Lasciami indovinare, quella troia di Brigida è nei guai per la storia della fiera e tu l’aiuti a scappare? − Non è una troia. E poi lei è già scappata. − Cosa? − È scappata e io vado a riprenderla. Ci sei arrivato tu, che non sei noto per la tua intelligenza, a collegarla all’incendio, ci metterà ancor meno la polizia. − Mi stai dicendo che sono più stupido di un poliziotto? − Non ho detto questo!. − No no, tu hai detto questo. − Intendevo dire che risolvere i casini è il loro mestiere, e se ci sei arrivato tu che nella vita fai tutt’altro… − È colpa mia, non dovevo farti uscire con quella pazza. Ma sai com’è, mi ero quasi convinto che fossi frocio e quando ho visto che uscivi con una donna… Non credere che non abbia visto i lividi che avevi quando uscivi con lei. − Non ho voglia di parlare di ‘ste cose, ora. − No, caro mio. Noi ne parliamo ora. Ti ho lasciato fare con lei e ho sbagliato. Non ci ricasco. − Non decidi tu. Io parto, tu avvisi il direttore che mancherò par qualche giorno. − Posso sapere dove vai? − A Bratta. − Vicino Bergamo? − Sì. − Vengo con te, allora! − Cosa? − Vengo con te. Là vive una delle migliori scopate della mia vita! − Io vado a riprendere una ricercata e tu pensi a scopare? − Io penso sempre a scopare. Dovresti saperlo. Avviso io che non andiamo a lavoro. − Possibilità di farti cambiare idea? − Tante quante ne hai di convincere uno juventino che è un ladro. − Tra mezz’ora sono da te. *** Non c’è due senza tre. La terza telefonata fui sempre io a farla. − Pronto? − Scusa, Vlad. Sono Mario… − Mario? Amico mio cosa posso fare per te? − Lo so che è tardi, ma… − Non è mai tardi per un amico, lo sai! − Devo mancare per qualche giorno. Vado su, nel bergamasco. Volevo sapere se potevi tenere d’occhio casa mia. Vlad è il capo della comunità rom stanziata in città. L’avevo conosciuto durante una brutta avventura capitatami qualche mese prima che incontrassi Brigida. Da quel giorno gli zingari erano diventati i guardiani di tutti i miei “averi”, che si riducevano al mio appartamento e all’auto lasciatami in custodia da Gino, il mio ex coinquilino. − Non devi neanche chiedermelo! Lo sai, sono in debito con te! Vuoi che controlliamo anche la macchina? − No, no. Andrò con la Punto. − E dove te ne vai di bello? − A Bratta. 22

− Bratta… Bratta… − Bergamo. − Ah, Bergamo. − E a che ora parti? − Tra dieci muniti, massimo quindici. − Perfetto. Perfetto. *** Erano tanto lucide quanto consumante le scarpe del ragazzino che mi stava di fronte. Calzature in vernice nera, jeans blu sbiaditi e maglia bianca aderente. I suoi capelli erano neri come la pece e tirati indietro. Non riuscivo a capire se restavano su grazie al gel o allo sporco. La pelle era abbronzata e le dita coperte di anelli mi porgevano una foglio sgualcito. Lo presi e iniziai a leggere. Riconobbi subito la grafia: era la stessa del biglietto con cui gli zingari mi avevano ringraziato mesi or sono per averli liberati dal loro aguzzino e mi promettevano in cambio la loro protezione. Il messaggio era corto e diceva suppergiù che il ragazzino che mi trovavo di fronte era il nipote di Vlad, che aveva avuto delle “incomprensioni” con dei coetanei della mia città e che quindi era meglio per lui sparire per qualche tempo. Mi chiedeva di portarlo con me a Bratta, lì avremmo incontrato altri zingari che l’avrebbero “preso in consegna”. Inutile dire che la lettera terminava ricordandomi come un favore fosse un favore e come andasse ricambiato. Non potevo rifiutare, dovevo portare con me il ragazzo. La lettera mi informava che il ragazzino era muto. Quando lo invitai a salire in macchina, lui mi sorrise e io capii la causa del suo handicap: non aveva la lingua. Qualcuno gliel’aveva tagliata e, a giudicare da quello che avevo visto, non doveva neanche essere passato molto tempo dalla mutilazione. *** Il ragazzetto si accomodò sul sedile posteriore e fu lì che lo trovò Marco quando passai a prenderlo. − E quello chi è? − Il nipote di Vlad. − Il tuo compare zingaro? − Esatto. − Ci portiamo dietro uno zingaro? Io non lo voglio uno zingaro con me! − Non è uno zingaro, è un ragazzino come tutti gli altri. Non lo porterei neanche io con me, visto quello che dobbiamo fare… − Io vado su a scopare, tu vai alla ricerca della pazza. Non andiamo a fare la stessa cosa. Vorrei che questo fosse chiaro. − Ok, ok. Il punto è che non ho potuto dire di no a Vlad. − Va be’. Ma con lui non ci parlo e non voglio nulla da spartirci. − Tranquillo, lui è muto. Non credo che dovrai preoccuparti delle sue chiacchiere. − Meglio così. Misi in moto la macchina. − Stai sbagliando strada − mi disse uno dei miei due accompagnatori, quello con la lingua. − No, ahimè. Non sto sbagliando. − L’autostrada è da quella parte. − Infatti. *** Quando vide la salopette arancione, Marco capì che il nostro gruppo sarebbe aumentato di un’unità. − Viene con noi? 23

− Sì. − È l’amica di Brigida. Quella che venne con lei quel giorno al canile, giusto? Feci di sì con il capo. − È stata una sua idea. E lei sa dove trovare Brigida. − Che tipo è? − Simpatica… − A me sembra lesbica. − Naa, ma cosa dici mai? Accostai, le feci un cenno con la mano e lei di tutta risposta mi disse: − Chi sono questi due? Credevo che fossimo solo io e te! − Ti sbagliavi. − Ti lascio solo per un’ora e mi porti due persone? Anzi una e mezza. − Ma chi cazzo sei? Brutta stronza maledetta − imprecò Marco. − Rockfeller, ti sei perso la mano che ti tiene su per il culo! − Cosa? − Rockfeller era il pupazzo della tivù, ricordi? Quello manovrato dal ventriloquo… − spiegai. − Mi sta dando del pupazzo? − Te l’avevo detto che era simpatica, no? − Lui non viene con noi, e neanche il ragazzino qui dietro. − Io veng… Feci cenno a Marco di tacere. − Leti’, fosse per me non partirei neanche. Non la ritengo una grande idea. E ancor più non coinvolgerei un mio amico e un minorenne. Ma le cose stanno così, prendere o lasciare. − Va bene, ma mi siedo io avanti − mi disse aprendo lo sportello. − Io non passo dietro − disse il nano − non ci sto con gli zingari, io. − Fate la conta− dissi. Salomone sarebbe stato fiero di me. − Ma che dici? − ribadì Marco. − È una stronzata - gli fece eco Letizia. − La macchina è la mia, non vedo altre soluzioni. Si guardarono negli occhi. Nessuno dei due accennava a muoversi. All’improvviso comparve una mano. Quella del ragazzino. Aveva tre dita rigide e le altre due piegate. − Ok, passa lui avanti − dissi, indicando col pollice il muto. − Non se ne parla neanche − dissero in coro. Il destino volle che fosse Letizia ad avere l’onore del sedile anteriore. Borbottando qualcosa d’incomprensibile Marco si accomodò su quello posteriore. − Fatti più avanti con il sedile − gridò il mio collega − non posso stendere le gambe! − Ma sei alto un metro e un cazzo, e perlopiù moscio! Accesi il motore e misi la macchina in marcia. Sarebbe stato un lungo viaggio e non mi andava di ascoltare le loro lamentele. Mi rendevo conto della cazzata che stavo facendo: rincorrevo su per lo Stivale una piromane, in compagnia di un nano arrapato, uno zingaro muto e una ricercata maniaca delle salopette. Che Letizia fosse ricercata divenne certezza quando, poco prima di svoltare, vidi nello specchietto retrovisore due auto della polizia fermarsi sotto il portone dell’abitazione della mia passeggera. *** Imboccai l’autostrada senza che venissimo fermati al casello e mi persuasi che i poliziotti non ci avevano visti partire. Quindi avevamo un vantaggio, quanto piccolo o grande potesse essere era tutto da vedere. Marco si era sistemato con le spalle appoggiate sullo sportello, cercava di mantenere il più possibile le distanze dal ragazzo, che da par suo smanettava di continuo con il cellulare. Letizia guardava fuori dal finestrino tutta presa nei suoi pensieri. 24

Avendo dormito poco e considerato che i miei passeggeri non è che mi fossero di compagnia, per evitare colpi di sonno inserii un cd nel lettore. Le note di “Davidian” dei Machine Head invasero l’abitacolo della macchina. − Togli ‘sta cacata − gridò Marco. − Non ci penso nemmeno. − Ma come fai ad ascoltare ‘sto rumore? − Non è rumore − risposi − Zingaro, diglielo anche tu che è rumore. Il rom fece spallucce e tornò al suo cellulare. − Ma quando porti una donna in macchina metti ‘ste schifezze? − Non porto donne in macchina. − Lo credo bene con la musica che ascolti nessuna donna salirebbe su quest’ auto. Di colpo la musica svanì e fu sostituita da una voce che millantava le capacità diuretiche di una certa marca di acqua minerale. − Ora cerco un radiogiornale − disse Letizia − magari parlano dell’incendio. Nessuno ebbe da obiettare e attendemmo che iniziasse quello regionale di Radio Rai. La notizia dell’incendio fu quella d’apertura. Non apprendemmo nulla di nuovo. Gli inquirenti davano per certa la natura dolosa anche se per il momento non erano stati individuati dei responsabili. I maggiori sospetti ricadevano sulle associazioni animaliste che, nei giorni che avevano preceduto l’inaugurazione e in quelli successivi, avevano manifestato per impedire l’avvenimento. Alcuni iscritti di queste erano stati fermati per accertamenti mentre altri erano al momento ricercati dalla polizia. Si contavano diversi feriti tra persone e animali, ma fortunatamente nessun morto, anche se alcuni inservienti della fiera erano in condizioni gravi. Non commentammo quanto appreso, sarebbe servito a poco. Inserii la freccia ed entrai in un Autogrill. Mi diressi verso la pompa del diesel. − Ora faccio il pieno, poi andiamo a fare colazione. Ho intenzione di fare al massimo un’altra pausa prima di arrivare a Bratta, quindi se dovete andare al bagno fatelo ora. − Ok, capo − disse Marco. − Nessun problema − confermò Letizia. Riempito il serbatoio parcheggiai la macchina d’innanzi l’ingresso del bar. Letizia imboccò subito la strada verso la toilette. − Secondo te piscia in piedi? − mi chiese Marco indicando la donna con il capo. − Quello non lo metto in dubbio. Quello che non capisco è come fa a tener su la salopette mentre piscia. Non avendo la cinta le cade giù quando sbottona, no? − Ci ho fatto caso, ha la zip all’altezza del pacco. Lo tira fuori, senza dover sbottonare. − Marco, veramente hai guardato l’inguine di Letizia? − Sì. Secondo me sotto sotto ha pure un bel culo. − Fai schifo. − Non è colpa mia se arrivo con lo sguardo all’altezza della fica e del culo delle donne! È la natura che mi ha fatto così. − Anche tu c’hai ragione. Io vado a fare lo scontrino poi vado in bagno. Tu prendi quello che vuoi – dissi al ragazzino – poi ci penso io a pagare. Dopo aver fatto colazione, mi recai al bagno. Finito di cambiare l’acqua alle olive cercai con lo sguardo il muto. Lo vidi all’altezza della spalliera dei giornali porno. Ebbi un flashback di me alla sua età e di tutte le ore passate con Vestro e Postalmarket. Ero in grado di ripetere a memoria tutti i codici della collezione di biancheria intima di quei due cataloghi. Come diceva lo slogan? Con Postalmarket uso la testa e ogni pacco che arriva è una gran festa! Be’, io non usavo propriamente la testa, ma di certo per me l’arrivo del catalogo era un gran festa! Il corpo del ragazzino era parzialmente coperto dalla spalliera contente le caramelle, ero in grado di vedere solo la sua testa. Notai che armeggiava con i DVD porno: li prendeva, li girava e 25

rigirava e poi non li metteva più al posto. Avendo la visuale occlusa dallo scaffale dalle caramelle non riuscivo a vedere dove li mettesse, ma mi sembrava alquanto improbabile che li poggiasse per terra. Quello stupido stava rubando in un Autogrill e se fosse stato scoperto avrebbe attratto l’attenzione anche su Letizia. Corsi verso il ragazzino e quando superai la spalliera con i dolciumi, mi diedi dello stupido. Lo zingarello, in realtà, prendeva i DVD posti nei ripiani più alti e li passava a Marco, che ormai in mano ne aveva almeno quattro. Dalla posizione in cui mi trovavo prima non potevo vedere il mio amico in quanto più basso dello scaffale. − Ho quasi finito, Mario. − Ma tu sei scemo? Probabilmente siamo ricercati dalla polizia e tu ti metti a fare incetta di porno? E a chi chiedi aiuto? A un minorenne che, particolare da non sottovalutare, è pure uno zingaro e di suo attira in un Autogrill più sguardi di quanti ne possa attirare una donna in perizoma e pantalone bianco in un monastero! − Quanto ti preoccupi! Sono in offerta. Convengono. E poi ho pensato che potrei dividere la spesa con Letizia. Ne ho presi alcuni lesbo. − Tra massimo dieci minuti vi voglio entrambi fuori. − Ok, penso io alla colazione del ragazzo − disse Marco. Di colpo, per il mio collega, il muto non era più lo zingaro ma era il ragazzo. Potenza del porno. Visto che mi trovavo nel settore dedicato ai giornali mi recai verso lo scaffale con i quotidiani. La Gazzetta dello Sport mi guardava con i suoi dolci occhi rosa. Nonostante i momenti di difficoltà sentimentale che avevamo vissuto all’indomani del cambio di formato e di grafica, il nostro rapporto era ben saldo. Proprio in virtù della sicurezza del nostro legame lasciai stare la Rosea e presi una copia della Gazzetta del Mezzogiorno. Avevo pochi minuti a disposizione per leggere e preferivo dedicarli agli articoli sull’incendio. *** Lei era appoggiata sul cofano della macchina e fumava una sigaretta. − Novità? – mi chiese indicando la copia della Gazzetta del Mezzogiorno che avevo in mano. − Non l’ho ancora letta. − Dalla a me, te la leggo io mentre guidi. Le porsi il giornale. Lei lo prese, se lo mise sotto il braccio e continuò a fumare. Vedemmo uscire il nano e il ragazzo dal bar. Marco parlava, l’altro annuiva con faccia seria. Non riuscivo a sentire cosa stesse dicendo il mio collega, ma dai gesti che faceva non era difficile intuirne il contenuto. − Apri il portabagagli che metto la buste dietro. − Ma quanti ne hai presi? − Sei o sette. Il muto mostrò nove dita. − Questi porno sono come le ciliegie… − sentenziò Marco. *** Ormai Marco era un fiume in piena, non riusciva a star zitto. Aveva scoperto nello zingaro un ascoltatore eccezionale e che, soprattutto, non lo interrompeva. Letizia era caduta in uno stato di mutismo che non mi piaceva. Certo non mi era simpatica, anzi, se non l’avessi conosciuta, la mia vita avrebbe perso poco. Però non potevo negare a me stesso che se non fosse stato per lei, non sarei saltato in macchina per cercare Brigida. − Cosa sai di sua sorella? Mi guardò, si grattò la testa. − Poco − Sai l’indirizzo di casa sua, almeno? − No. 26

− E come facciamo a trovarla? − So dove lavora. − Bene. − O meglio so che lavoro fa. − Cioè, siamo partiti senza sapere né indirizzo, né il nome della ditta per cui lavora? Come diavolo credi che possiamo trovarla? − So che lavora in una fabbrica di ghiaccio. Quante credi che ce ne siano a Bratta? − Cazzo se ne fanno di una fabbrica di ghiaccio a Bratta? − fu il nano a chiederlo. − Spero una sola - risposi. − Comunque prima di andare a cercare la fabbrica del ghiaccio mollate me a casa della tipa disse Marco. − Non se ne parla nemmeno - rispondemmo all’unisono io e Letizia. − Come, come? Io con voi alla fabbrica del ghiaccio non ci vengo. Io sono venuto qui per altri motivi e non me ne può fregare di meno della vostra piromane del cazzo. − Modera i termini, due mele o poco più! − gridò Letizia. − Mi stai dando del Puffo? Brutta lesbica frigida che non lo fa rizzare neanche a un monaco di clausura in overdose da Viagra! Tu dai del Puffo a me? Ma io ti spacco il culo e ti faccio tornare dalla sponda giusta del lago, brutta pervertita! − La finite vuoi due? La macchina è mia e decido io! Si va alla fabbrica del ghiaccio. Se vuoi ti mollo a una fermata del pullman e poi te la vedi tu…. − Tanto tu non dovresti pagare, passi sotto la sbarra! − urlò Letizia. − Chiudi il becco tu! − le dissi. Tornai a rivolgermi al nano − Ti sta bene? La luce che vidi negli occhi del mio collega non mi piacque. − Non vorrai mica portarti un minorenne alla fabbrica del ghiaccio? Molla me e lo zingaro al campo rom e poi vai a cercare Brigida. Fu Letizia a rispondere − Portiamo il ragazzo con noi e diciamo ai suoi parenti di venirselo a prendere alla fabbrica del ghiaccio. Ci pensai su qualche istante e poi dissi − Ok, facciamo così. − Ma guarda tu ‘sta stronza se mi deve rovinare le vacanze. Portatemi dalla mia amica! *** Fummo costretti ad ascoltare le rimostranze del mio collega sino all’arrivo a Bratta, da quel momento in poi le sue lamentele diventarono insopportabili. Erano circa le nove del mattino e io avevo voglia di fare colazione dopo aver guidato per tutta la notte. Vidi un bar e senza dire nulla ai miei compagni arrestai la macchina di fronte all’ingresso del locale. Scesi, entrai nel locale e mi ritrovai in un ambiente abbastanza popolato. Nessuno notò il mio arrivo e gli avventori continuarono le proprie faccende. Quando sentii scendere il silenzio capii che anche i miei compagni di viaggio erano entrati. Feci finita di nulla e ordinai un cappuccino e un cornetto. Che ci pensasse Marco allo zingarello. Letizia era grande a sufficienza per pensare a sé. − Quanto le devo? − Due euro e dieci. − Ecco a lei. Saprebbe dirmi come arrivare alla fabbrica del ghiaccio? Il cassiere mi guardò e poi decise che evidentemente non c’era nulla di sbagliato e mi diede le informazioni. − Grazie è stato gentilissimo − dissi e mi allontanai dalla cassa. Stavo per aprire la porta del bar quando sentii – Potrebbe dirmi se Via Dei Cormorani è nelle vicinanze? Sa, dovrei incontrare un’amica… *** 27

Ancora una volta fu Letizia la prima a raggiungermi in macchina. − Stanco? − Sì. − Vuoi che guidi io? − No. Il tizio del bar mi ha detto che la fabbrica è a soli dieci minuti da qua. Posso farcela − e sorrisi. Credo che quella sia stata l’unica volta in cui abbia sorriso alla migliore amica della mia ex. La stanchezza fa brutti scherzi. − Allora, il cassiere mi ha detto che la mia amica non abita a più di un quarto d’ora da qui. Quindi non dovete fare altro che accompagnarmi da lei e poi partite per la grande avventura. Feci finta di non sentire e mi rivolsi alla zingaro − Manda un sms ai tuoi parenti e digli di passare a prenderti alla fabbrica del ghiaccio. Saremo là tra circa dieci minuti. − Venticinque − disse il nano. − Dieci. − Ok. Ok, ma mi siedo io avanti. − Non puoi − disse Letizia − rischi di rimanere soffocato se si apre l’airbag. *** La fabbrica era poco più che un capannone in lamiera. Grandi blocchi di ghiaccio poggiati su dei tavoli dove venivano tagliati. Entrai nel cortile e spensi la macchina. Il nostro arrivo non era passato inosservato. Un uomo mi si fece incontro. − Buongiorno − dissi. L’uomo non rispose. − Starei cercando una persona. So che lavora qui, vorrei sapere se posso parlarle. − Chi? − Una donna. − Non lavora nessuna donna qui. − Magari negli uffici… In quel momento fui colpito. Da cosa non lo capii subito. Quando abbassai il capo vidi un pezzo di ghiaccio grosso come una pallina da tennis. Marco si staccò dagli altri due miei compagni di viaggio e mi si avvicinò. Letizia subito lo seguì. Lo zingaro rimase vicino alla mia macchina. − Brutto pezzo di merda − gridò Marco. Allargai un braccio e lo fermai. Non mi andava che scatenasse una rissa. Eravamo dei ricercati, probabilmente. Letizia raccolse il pezzo di ghiaccio. Lo soppesò con la mano. Mentre le stavo dicendo di non fare stupidaggini, lei mi posò la pallina sul taglio. La ringraziai. − Chi siete? − chiese l’uomo che mi era venuto incontro per primo. − Io sono Dorothy e loro sono i miei amici: il Leone, Lo Spaventapasseri e L’Uomo Di Latta e stiamo cercando il Mago. L’uomo non disse nulla, ma da come sollevò il sopracciglio fu chiaro che non aveva capito. − Ve lo dico io chi siete: un terrone, un nano, una lesbica e uno zingaro. Ecco cosa siete. − È importante per noi trovare questa donna. È una questione di vita o di morte − sperai che queste parole non suonassero al mio interlocutore patetiche quanto erano risultate a me. − Andatevene a casa. Le nostre donne sappiamo come difenderle. − Ma cosa avete capito? − dissi − Noi non abbiamo alcuna intenzione di fare nulla di male. Si tratta di una questione di famiglia. Dal gruppo di operai arrivò un urlo − Non scoperete le nostre donne! − Ma che dice quello? Non abbiamo nessuna intenzione di… 28

− Parla per te − disse il nano. Lo odiai in quel momento. Fu il capo a parlarmi: - Per chi ci hai preso tu? Un terrone di merda viene qui in compagnia di uno sgorbio, una succhiapassere e uno zingaro, e secondo te noi ti facciamo parlare con la nostra donna? Basta giocare. Ora vi insegniamo come funzionano le cose nell’Italia che lavora. Gli operai ci circondarono e si strinsero in cerchio intorno a noi. Marco assunse una posa da boxeur, io cercai di ripassarmi la scena di Bruce Lee nella ghiacciaia, ma la cosa non ebbe nessun effetto benefico sul mio coraggio. Quando sentii uno strombazzare, diedi per certo che fossero le trombe dell’apocalisse. La nostra apocalisse, ovviamente. Più prosaicamente erano dei semplici clacson. Una mezza dozzina di auto di grossa cilindrata era ferma d’innanzi al cancello. Il settimo cavalleggeri era arrivato. Avevo dimenticato il nostro appuntamento con gli zingari. Dalle macchine uscirono una ventina di persone. Armate. Il nostro zingarello corse incontro a un uomo con un cappello con una piuma attaccata su e iniziò a gesticolare. − Andate via − ci disse. Andammo via, senza il ragazzino. *** Letizia si mise al volante. Cosa avevo guadagnato con la mia fuga notturna? Nulla, o meglio un livido in testa. L’unico indizio che avevamo sulla sorella di Brigida era andato in fumo. Dovevamo ripartire da zero, con poco tempo, poche forze. Forse dovevamo consegnarci alla polizia. Tecnicamente non avevamo commesso ancora nessun reato. Chi rischiava di più era Letizia, ma in fin dei conti non era scappata dalla polizia. Era semplicemente andata via prima che questa arrivasse a casa sua. − Io direi di andare dalla mia amica. − Ma come fai a pensare a scopare in un momento come questo? − dissi. − Quella botta in testa non ti fa pensare! È l’unico contatto che abbiamo qua. È l’unica che può darci una mano nelle ricerche. − Mi spiace dirlo, ma ha ragione − sussurrò Letizia. − E sia − dissi. *** Trovammo il palazzo. Il nano aveva solo l’indirizzo della tipa. Sapeva il nome, ma non il cognome. Non fu difficile per noi capire a quale pulsante citofonare: Le Terre. Lo stesso di Brigida. Una delle migliori scopate del nano non era altri che la sorella di Brigida. Mi diedi dello stupido. Era logico: lei era tornata casa a trovare i genitori, aveva “incontrato” il nano in qualche locale, le solite “quattro chiacchiere”, e conoscendo Marco non si erano limitati a quello, e lei gli aveva lasciato il suo indirizzo. Provammo e riprovammo a schiacciare il pulsante, ma dal citofono nessuna risposta. Logico, lei era a lavoro. Logico, i suoi amici della fabbrica non le avrebbero permesso di tornare a casa da sola. Logico, la polizia sarebbe arrivata da un momento all’altro. Logico non era il fatto che Brigida e una ragazza, che era la sua copia un po’ più invecchiata, stavano entrando nel portone. Ancora una volta la mia logica era andata in fumo. Dovevo capirlo da solo che Brigida aveva chiamato la sorella durante la fuga e l’aveva avvisata del suo arrivo, chiedendole di andarla a prendere in stazione. Fortunatamente lavoravo in un canile e non in una agenzia investigativa… − Brigida − gridai. Lei si voltò. Mi guardò. Mi sorrise. Mi corse in contro. Mi baciò… la ferita sulla mia fronte.

29

*** La sorella di Brigida, Gianna, ci portò a casa di un suo ex. − Lui lavora all’estero e mi ha lasciato le chiavi. Mi prendo cura del suo acquario. − Con ottimi risultati direi − dissi guardando la parete di vetro oltre la quale scie colorate danzavano nell’acqua. − In realtà, iniziammo a metterlo su insieme, poi è finita come è finita e sarebbe stato un casino trasportare il tutto a casa mia. Così abbiamo raggiunto questo compromesso. Tanto lui non c’è mai. − Dov’è la camera da letto? − urlò Marco, mentre era in bagno, con la porta chiusa. Si sentiva il rumore dell’acqua scorrere dalla doccia. − A suo tempo, baby. A suo tempo. Fammi sistemare i tuoi amici − rispose Gianna stringendo le spalle nella nostra direzione. Brigida intanto stava sistemando la spesa nel frigo. Dopo il bacio caloroso sulla ferita, il suo atteggiamento era diventato più freddo. Ora veniva il difficile per me e Letizia: convincerla a costituirsi. Fu l’amica a prendere l’iniziativa: - Brigida, smettila di mettere le cose nel frigo e vieni a sederti qui con noi. Dobbiamo parlare di ‘sto casino. − Che vuoi dire? - chiese mentre, piegata, riponeva degli involucri nello scompartimento del frigo adibito alla carne. Io guardavo il suo culo, un gran bel culo che mi aveva fatto sempre impazzire. La certezza che non fosse male l’ebbi quando sentii esclamare: − Azzo, che mazzo! − da Marco che intanto era uscito dalla doccia e si stava asciugando. − Nano, vai a guardare i tuoi porno in tv, che ora i grandi devono discutere di faccende serie − disse Letizia. − Mi sa che ora lo faccio io un porno − e guardò Giovanna, che fece no con la testa e sussurrò: − dopo. − Ok, dov’è la mia busta? − Là, sul divano − e gli indicai il pacco − e metti il volume al minimo. Anzi azzeralo. − Ma così non capisco la trama! − Sparisci, nano − Letizia sapeva come chiudere una discussione. *** − Io e Mario ne abbiamo parlato, concordiamo sul fatto che tu debba costituirti. Letizia, aveva preso la situazione in mano. Le donne hanno questa capacità di affrontare i problemi e gli argomenti scottanti che a noi uomini manca. Noi cerchiamo sempre di sfuggire alle responsabilità, magari scherzandoci su. Non capivo come mai Letizia fosse stata in grado di arrivare subito al nocciolo della questione senza scherzarci. − Non se ne parla proprio − fu Giovanna a intervenire. Brigida giocherellava con un mazzo di chiavi. − Ho paura. − È normale che tu ne abbia, ma ci metteranno poco a trovarti. Avranno già fermato gli altri manifestanti − non riuscii a dire attentatori − e se abbiamo scovato noi tua sorella… − Magari la polizia è già sotto casa sua − aggiunse Letizia. − O peggio ancora saranno andati alla fabbrica del ghiaccio a cercarla e Dio solo sa che casino hanno trovato dopo la zuffa tra gli operai-zingari. − E non credo che i tuoi colleghi avranno voglia di tener nascosta la nostra visita a quelli della polizia - aggiunse Letizia. − Boh, magari se siamo fortunati stanno zitti su tutto − dissi in direzione di Letizia − alla fine non è che si siano comportati legalmente neanche loro. − Sono fatti così loro. Hanno un primitivo senso del territorio − aggiunse Gianna. − Beh, anche la mira che hanno non è male − dissi toccandomi la testa. − Ma non sono cattivi − continuò Gianna. − Questo l’ho capito dal modo amorevole con cui uno di quei tizi stringeva la mazza. 30

− Se volete vedere delle belle mazze, ma soprattutto come vengono strette in modo amorevole, dovete fare un salto qui − urlò Marco dalla sua posizione sul divano. Fu Letizia a riportare la discussione sui giusti binari − Io stasera mi costituisco, non ho molto da temere e non voglio peggiorare la mia situazione. Tu fa quel che vuoi. − Non lo so. Ho paura, non credevo che potesse rimanere ferita una persona e poi tutti quei cani… − Non credo che tu abbia molte alternative − dissi. − Potrebbe rimanere qui e poi quando le acque si sono calmate, espatriare. − Non è una criminale incallita. Come vivrebbe nella latitanza? E non credi che la polizia seguirebbe te, scoprendo prima o poi le tue visite a questo appartamento? − Non dimenticare che se sono andati a casa tua o alla fabbrica e non ti hanno trovato, si saranno insospettiti − disse dandomi man forte Letizia. − Non lo so. Ho paura − sussurrò la mia ex. − Poi come possiamo farti uscire dall’Italia se ti stanno cercando? − Beh, questo non sarebbe un problema. Ci girammo tutti di scatto nella direzione di Marco. Lo vedemmo sorridere, mentre alle sue spalle una testa sullo schermo andava su e giù, con la solerzia di una trivella petrolifera. *** Quando dissi che mi sarei messo a dormire, Brigida si offrì di venire con me, anche per curarmi la ferita. Rifiutai e mi misi a sonnecchiare sul divano che Marco aveva lasciato libero, visto che era tutto preso da questioni più “importanti”. Brigida non insistette più di tanto e la cosa, devo ammetterlo, mi ferì non poco, e andò a dormire nella camera degli ospiti in compagnia di Letizia. Saranno stati i rumori che giungevano dalla camera da letto, ma in quel mio breve sonno sognai me e Brigida su un’isola deserta. Eravamo i protagonisti di Laguna blu. Lei era una Brooke Shields con sopracciglia meno folte e io ero lui (mai saputo il nome dell’attore) ma con un arnese molto più grosso tra le gambe. Oh, come si suol dire? I sogni son desideri…, no? Fui svegliato dal suono del citofono. Guardai l’orologio, non erano passate neanche ventiquattro ore da quando mi ero svegliato a casa mia ed ero corso a guardare il fumo dal mio balcone, e mi resi conto che la gente che aspettavamo era giunta puntuale. Brigida uscì dalla camera degli ospiti - Sono loro? − Credo di sì − dissi. − Sono arrivati − disse Marco, anch’egli uscito dalla sua stanza − li ho visti dalla finestra. − Ok, ti accompagno giù. − Grazie − mi disse e baciò nell’ordine, Letizia, la sorella e Marco. *** Quando aprii il portone mi si fece incontro lo zingaro della ghiacciaia, accanto a sé aveva il muto. − Signorina bella, si parte? − disse quello che già in mattinata avevo immaginato fosse il capo. − Sì − rispose lei − solo un attimo. Mi si fece incontro e mi sussurrò nell’orecchio: − grazie. Le stavo rispondendo che l’amavo e che avrei fatto questo e altro per lei, ma mi resi conto che non era vero, non l’amavo. Ormai lo sapevo da un bel po’. Avevo fatto quello che avevo fatto solo per un senso di giustizia. Forse senso di giustizia non era l’espressione più adeguata, visto che avevo infranto delle leggi. Forse lealtà si avvicinava di più a quello che provavo. Ma non era neanche quello. Semplicemente, avevo aiutato un’amica in difficoltà e l’avevo fatto in modo 31

automatico. Non per generosità ma per condizionamento. La mia educazione mi aveva spinto a farlo. Quasi in modo pavloviano. Per tutto questo mi limitai a dirle: − Prego. Lei cercò di baciarmi la ferita sulla fronte e io le porsi la guancia. Vidi una lacrima scendere da un suo occhio. Feci finta di nulla, andai dal muto, gli passai una mano sui capelli ingelatinati e lo salutai. Lui mi guardò e mi strinse la mano. Gliela sporcai del suo stesso gel. *** Sono andati − dissi. Lo so, abbiamo visto tutto dalla finestra − fece Letizia. Giovanna era sul divano e piangeva, mentre Marco la consolava. − Andiamo in caserma − propose Letizia − sono sparita da più di un giorno. Mio marito sarà preoccupato. − Tu hai un marito? − urlò Marco, che in quel momento aveva dimenticato tutti i problemi di Gianna. − Non è possibile, tu sei lesbica! − le parole del nano espressero in pieno quello che era il mio stupore. − Io lesbica? Ma che cazzo dici? − Andiamo, che la giustizia ci aspetta − tagliai corto io. *** Ai questurini raccontammo la verità, omettendo la parte della nostra storia che andava dall’incontro con Brigida sotto il portone di casa di Giovanna. Semplicemente non avevamo trovato nessuno, eravamo rimasti a girare un po’ per Bratta in stato di confusione, finché non avevamo deciso di chiedere aiuto alla polizia. Non so quanto possano aver creduto alla nostra storia i poliziotti, ma ci lasciarono andare. Almeno me e Marco. La posizione di Letizia era più delicata. Lei faceva parte dell’associazione, ma il marito, giunto a tempo di record a Bratta, testimoniò che era a casa con lui quando era stato appiccato l’incendio e molti degli associati che erano stati fermati quella notte testimoniarono che Letizia non era con loro. Credo che l’abbiano fatto più per disprezzo nei confronti di chi aveva tradito la causa, che per salvarle il culo. Era il loro modo di dire che lei non era degna di essere inserita nel prestigioso club dei piromani cinofili. La versione di Gianna, concordata con noi prima di dividerci, chiaramente ribadiva la nostra. Raccontò di aver ricevuto la telefonata d’aiuto della sorella e di essersi precipitata in stazione per andare a prenderla, per questo motivo non si era presentata a lavoro. All’arrivo del convoglio però non c’era traccia di Brigida. Forse aveva cambiato idea. Anche nel suo caso le indagini continuarono, ma non hanno portato a nulla sino a oggi. Dei disordini alla ghiacciaia non trapelò mai nessuna voce. I colleghi di Gianna avevano messo tutto a posto e quando arrivarono i questurini non sospettarono minimante che i lividi sul volto del giovane che li aveva accolti fossero in qualche qual modo legati a quella vicenda. Io decisi che il debito di gratitudine che gli zingari avevano maturato nei miei confronti era stato più che estinto. Non mi rivolsi più a loro in nessuna circostanza. *** − Prendi due birre dal frigo e andiamo sul balcone, devo controllare che la macchina di Gino sia ancora dove l’ho lasciata. Marco prese le due bottiglie e mi raggiunse. Me ne passò una – Non puoi vivere sempre con l’incubo che ti freghino la macchina. − Ci sono passato una volta e voglio evitare di ricascarci. 32

− Ma di che ti preoccupi? Tanto te la guardano gli zingari. − Non più, li hanno fatti sgombrare. − Vabbe’, quelli tornano. − E quando tornano smetterò di preoccuparmi per la macchina. − L’altro giorno stavo ripensando alla nostra avventura a Bratta. − Io non ci penso più – mentii. − Non ti credo. − Libero di non farlo. − Grazie. Mentre ripensavo mi domandavo… − Non chiedertelo, non ci interessa dove è finita Brigida. − Non mi domandavo quello. − E cosa? − Ma come cazzo si chiamava lo zingaro muto?

33

Postfazione Quando inizio un nuovo racconto, inserisco sempre il luogo in cui mi trovo e la data. Idem quando lo termino. Nel caso di “Cuore livido” trovo nel file word: Bari, sub-continente Europeo, 22/03/2007 e Barletta, sub-continente europeo, 14.09.2008. Un anno e sei mesi per terminare un racconto di 31 pagine. Un vero inno alla mia lentezza. Però, i più scaltri di voi avranno notato che tra la data finale e quella di pubblicazione son trascorsi quasi altri 365 giorni. Non sono un perfezionista, sono solo un pigro. Almeno questo è vero per l’annetto di correzione del racconto. Invece i 18 mesi di scrittura, beh, son stati più turbolenti. Come ho scritto nella post fazione di “A caval di Troia…” (il precedente capitolo della saga di Mario), “Cuore livido” è il suo gemello. Anzi è nato leggermente prima. Poi è cresciuto a dismisura. Inizialmente il tutto doveva concludersi con l’incendio e la fuga di Brigida. Niente inseguimento. Poi mi è venuta in mente la frase del Mago di Oz (quella che dice Mario quando si trova con i brutti ceffi nella fabbrica del ghiaccio) e quindi mi son inventato tutta la seconda parte. È una storia d’amore. La prima volta che ne scrivo una. Se fossi stato Moccia, magari l’avrei intitolato “Scusa ma devo picchiarti”. Ma non sono lui, e non essendo lui scrivo una storia d’amore post-post-post adolescenziale, forse perché essendo un post-post-post adolescente, la cosa mi riesce meglio. Probabilmente è disincantato e fatalista. Ma spero non banale. Per quanto concerne il solito giochino di scovare le mie influenze, devo dire che questa volta non ne trovo. Qualora qualcuno di voi dovesse individuarne, me lo faccia sapere. I mie avvocati saranno ben lieti di far partire una querela per diffamazione. Bari, 09/09/2009

34

www.myspace.com/gfcassatella [email protected] 35

Related Documents

Cuore Livido Ebook
May 2020 2
Cuore
November 2019 29
Il Cuore Di Paolo
December 2019 43
Mini Cutter Cuore
May 2020 8
Mhu & Cuore Mileage
October 2019 8
Ebook
October 2019 42

More Documents from ""