Andrea Ricci La politica economica italiana dal dopoguerra ad oggi. 60 anni di storia, 60 anni di trasformazioni politiche economiche e sociali Per riuscire a condensare questo tema ho scelto alcuni particolari momenti della storia italiana del dopoguerra , momenti in cui furono compiute delle scelte strategiche di politica economica che diedero avvio ad interi cicli e intere fasi che hanno caratterizzato lo sviluppo economico, politico e sociale del nostro paese. Partiamo dall’immediato dopoguerra, l’Italia esce dalla seconda guerra mondiale con una situazione disastrata sul piano economico politico e sociale. La guerra sul nostro territorio è stata dal ‘43 al ‘45, una guerra di occupazione militare da parte di due eserciti stranieri, quello tedesco e quello alleato ed è stata anche una guerra civile, con serie e drammatiche conseguenze. Dal punto di vista delle distruzioni materiali la guerra aveva prodotto distruzioni limitate nell’apparato industriale del paese. Le statistiche ci dicono che soltanto l’8% del capitale fisso degli investimenti che esistevano in Italia nel 1938 erano stati distrutti e che la distruzione degli apparati industriali era particolarmente concentrata nel mezzogiorno dove più debole era il sistema industriale e dove maggiori furono gli episodi di distruzione soprattutto a causa dello scontro militare tra i due eserciti occupanti. La liberazione del nord avvenne invece dopo il crollo del regime nazista e quindi conobbe, anche a seguito di una. precisa volontà dell’esercito e dei partigiani di difendere gli apparati industriali, distruzioni più limitate . Molto più significative erano le distruzioni nell’agricoltura, d’altra parte allora l’Italia era un paese prevalentemente agricolo. In agricoltura la distruzione fu del 25 % del capitale rispetto ai livelli del 1938. Drammatica fu la distruzione nel settore dei trasporti e delle comunicazioni: strade, ferrovie, porti, aeroporti, marina mercantile, linee telefoniche, apparati di comunicazione, erano stati distrutti pressoché interamente. Altrettanto pesanti furono i danni al patrimonio abitativo dovuti ai bombardamenti nelle grandi città , oltre un milione furono i vani distrutti. Accanto alle distruzioni materiali forse pesavano, ancor di più, quelle immateriali. In primo luogo mentre l’Italia usciva dalla guerra era in preda ad una disarticolazione monetaria. Nel nostro paese circolavano ben tre monete, le lire del regno d’Italia nel centro sud, la lira della Repubblica Sociale Italiana nel nord e le Amlire, le lire emesse dalle truppe di occupazione alleate. Questo generava ovviamente problemi notevoli negli scambi ma altrettanto forte era la disarticolazione in campo amministrativo. L’esistenza di due apparati statali, quello della Repubblica Sociale e quello del regno d’Italia nel centro sud avevano necessità di essere immediatamente integrati. Distruzioni immateriali pesanti si potevano contare in termini, semplicemente, di perdite di vite umane militari e civili. Una parte consistente della nuova generazione di italiani e italiane era caduta morta e ferita sotto la guerra. Questa situazione determinava nuove e penose condizioni di vita che erano caratterizzate da un affollamento abitativo enorme, da una scarsità di alimenti, la disponibilità di calorie pro capite era tornata ai livelli di 50 anni prima all’epoca della grande carestia del 1897/98 che caratterizzò l’Italia unitaria. Accanto alla scarsità di alimenti mancavano anche le cose banali della vita quotidiana, la mancanza di abbigliamento, di vestiario era una caratteristica di quel periodo. Tutto questo dal punto di vista economico sociale si traduceva in una condizione drammatica, alta inflazione, distruzione del risparmio, il 70-80% del risparmio calcolato sul valore del ’38 era azzerato, i salari e le pensioni in termini reali erano dimezzati, i disoccupai oltre i due milioni. Alcune cifre ci danno l’idea sintetica della situazione: se noi facciamo pari a 100 il valore della produzione manifatturiera del 1938 nel 1945 esso era sceso al 29,1, l’indice della produzione agricola da 100 che era nel ’38 nel ’45 era il 67,3. Sul piano dei gruppi dirigenti del nostro paese che cosa era accaduto all’indomani della liberazione e nei mesi seguenti? Al mutamento radicale di regime politico rispetto alla ventennale dittatura fascista non era corrisposta una analoga discontinuità dal punto di vista della classe dirigente economicoamministrativa. Gli assetti proprietari del capitalismo nell’immediato dopoguerra rimangono sostanzialmente immutati, se noi andiamo a leggere i rappresentanti che sedevano nei consigli di amministrazione delle principali imprese italiane nell’immediato dopoguerra ci accorgiamo che i nomi cambiano ma i cognomi restano sempre gli stessi. La continuità viene attraverso il mantenimento di quel carattere tipico del capitalismo Italiano che vedeva gruppi familiari in posizione dominante nelle principali aggregazioni di imprese nel nostro paese, e nell’immediato dopoguerra vi fu un cambiamento di facciata nel senso che i figli succedettero ai padri. La struttura del capitalismo italiano così come si era formata e rafforzata durante il fascismo era di tipo oligopolistico e cioè incentrata su alcune, poche, grandi imprese. Particolarmente concentrata nei settori a più alta intensità di capitale, elettricità, gomma ,chimica . Una posizione predominante all’interno del capitale italiano aveva allora l’industria elettrica. In primo luogo l’impresa EDISON di Valerio che per disponibilità finanziaria, avendo il monopolio produttivo e distributivo della rete elettrica,
godeva ampie possibilità di manovra e di condizionamento. Dall’altra parte la stessa continuità si aveva anche all’interno della burocrazia statale perché sostanzialmente la burocrazia statale fascista e in particolare quella dirigenziale uscì confermata dal processo che si innescò nell’immediato dopoguerra; il processo di epurazione dell’amministrazione partì molto timidamente e in poco tempo si esaurì senza risultati consistenti. In questo periodo –‘45/’49 – (il periodo della ricostruzione) avvengono profondi cambiamenti politici ma anche due scelte fondamentali che caratterizzeranno l’evoluzione strutturale dell’economia italiana e daranno l’impronta alla politica economica dell’intero dopoguerra. Si può dire che nel periodo della ricostruzione, nello scontro politico e sociale, vinse la linea liberista. La prima di queste scelte strategiche di enorme valore riguarda l’integrazione dell’economia italiana in quella internazionale, una scelta netta, portata sino in fondo facendo dell’Italia, tra tutti i paesi europei, quello che più di ogni altro spinse per l’integrazione commerciale e monetaria all’interno dell’economia occidentale. Oggi questa può apparire una cosa scontata e banale ma così non fu allora, per l’Italia fu una svolta storica non soltanto perché si usciva da 20 anni di autarchia fascista accentuata in modo particolare dopo il 1936 con la guerra di Etiopia e le sanzioni contro l’economia italiana; ma anche perché precedentemente il decollo industriale italiano era stato segnato da una scelta protezionista all’inizio degli anni ’80 dell’800. L’Italia rispetto agli altri paesi europei, anche prima del fascismo, proprio per il suo ritardo storico, aveva fatto ampio uso del protezionismo commerciale e doganale. La scelta di una rapida e accelerata liberalizzazione fu quindi una scelta strategica che diede l’impronta ai decenni futuri di sviluppo del paese e che rappresentò una svolta nell’orientamento delle classi dirigenti del nostro paese. Naturalmente in questa scelta contavano molto le ragioni politiche, la necessità di integrare non soltanto dal punto di vista politico ma anche economico l’Italia al blocco occidentale che si andava costituendo. In primo luogo perché, essendo l’Italia un paese povero di materia prime, per puntare ad uno sviluppo industriale accelerato per colmare quel ritardo che l’aveva caratterizzata rispetto ad altri paesi europei come la Francia o la Germania nello sviluppo industriale, doveva necessariamente, per assicurarsi l’approvvigionamento di materie prime, procedere verso una forte integrazione nei mercati mondiali. Ma fu una scelta dettata anche da ragioni sociali. In secondo luogo dalla scelta di un determinato modello di sviluppo che, come vedremo poi, fu caratterizzato nei primi decenni del dopo guerra dal ruolo prioritario e determinante della domanda estera sulla domanda interna. Naturalmente le ragioni politiche non possono essere poste in secondo piano tanto è vero che la scelta verso la apertura internazionale dell’economia italiana fu determinata in gran parte anche dall’adesione che l’Italia diede al piano Marshall, cioè agli aiuti finanziari che gli USA misero a disposizione, non senza pesanti condizioni politiche, nei confronti dei pesi europei per la ricostruzione. Gran parte degli aiuti che l’Italia ricevette, pari a oltre 1 miliardo di dollari, allora una cifra molto consistente, vennero utilizzati in maniera massiccia per aumentare le riserve valutarie del paese piuttosto che per investimenti produttivi perché allora il principale ostacolo alla apertura internazionale, all’integrazione della economia italiana così come di quella europea, derivava dalla scarsità di valuta estera e quindi il piano servì in gran parte per dare all’Italia quelle riserve (valutarie) che potessero consentire un progressivo e rapido inserimento nell’economia internazionale. Le tappe istituzionali di questa apertura sono molto definite e rapide; nel 1946, e quindi immediatamente dopo la conclusione del conflitto, l’Italia aderisce al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale le due istituzioni di Bretton Woods nate due anni prima. Nel 1949 aderisce all’OECE, quella che oggi si chiama OCSE che era una organizzazione europea nata per la gestione degli aiuti del piano Marshall e che poi divenne ,alla sua conclusione nel 1952, la sede principale di discussione per la liberalizzazione commerciale. Quella sede che poi diede vita ad un altro organismo, il GATT , che nacque appunto dalle discussioni, dai dibatti e dagli accordi che all’interno dell’allora OECE furono fatti tra le economie capitalistiche occidentali. Nel 1949 la lira entra nel sistema di cambi fissi di Bretton Woods e si fissa la parità a 625 lire per dollaro , una parità che durerà sino al 1971. Nel 1950 aderisce all’unione europea dei pagamenti che fu uno strumento di multilateralismo negli scambi europei e che comportò lo smantellamento rapido delle quote di importazione e dei dazi doganali. L’Italia fu il paese che per primo liberalizzò i traffici commerciali all’interno dell’Unione Europea dei pagamenti che sostanzialmente coincideva con l’Europa occidentale.
Nel 1953, vi fu l’adesione alla CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) il primo nucleo della futura Comunità Economica Europea, che era la comunità del carbone e dell’acciaio e nel 1957 si firmò a Roma il trattato di istituzione della Comunità Economica Europea. Questa scelta di aprire l’economia italiana agli scambi internazionali e di procedere ad una rapida e pressoché integrale liberalizzazione fu decisiva ,come poi vedremo, nell’indirizzare il futuro economico del paese. L’altra scelta strategica che venne effettuata in questo periodo è una scelta di politica monetaria, nell’immediato dopoguerra uno dei problemi principali, come dicevo era quello dell’inflazione. Alcune cifre: nel 1938, se facciamo l’indice dei prezzi pari a 100 , abbiamo che nel 1944 questo indice era lievitato a 858, poi una accelerazione drammatica, nel 1945 a 2060, nel 1946 a 2884, nel 1947 a 5159 . Vuol dire che in meno di dieci anni i prezzi erano aumentati di 50 volte . Esisteva nell’immediato dopoguerra una oggettiva situazione inflazionistica che derivava dalla scarsità dei beni, dal crollo della produzione industriale e della produzione agricola a fronte di una domanda crescente perché, oltre ai consumi di sussistenza necessari, c’era anche la necessità degli investimenti per la ricostruzione dell’apparato produttivo del paese. Questa grande scarsità di beni, accompagnata da una massa liquida derivante dalle emissioni monetarie delle tre monete in circolazione, determinava oggettivamente la presenza di fattori inflazionistici. Tuttavia questa presenza oggettiva vedeva alcune cause scatenanti ben precise. In primo luogo la creazione di moneta da parte delle autorità occupanti e cioè l’emissione delle Amlire che venivano usate sostanzialmente come una tassa di occupazione nel senso che si stampavano Amlire per approvvigionare le truppe occupanti gratis. Soltanto due anni dopo, a seguito della visita di De Gasperi negli Usa, la rottura dei governi di unità nazionale e l’estromissione dei partiti socialista e comunista, le autorità americane riconobbero un parziale risarcimento della forte emissione di Amlire, 100milioni appena. Così come “una tassa di occupazione”, che costituì un fattore inflazionistico, fu la fissazione da parte delle forze di occupazione alleate di cambio lira dollaro molto svalutato rispetto all’anteguerra. Il risultato fu che il valore reale del dollaro era più alto della svalutazione reale della lira nei confronti della valuta americana, il che consentiva a questi di avere molti più beni con gli stessi dollari. Ma esistevano comportamenti inflazionistici anche da parte delle rinate autorità monetarie Italiane. In primo luogo vi fu l’abolizione del collocamento forzoso dei titoli pubblici e il finanziamento monetario quindi del deficit pubblico, il nuovo stato italiano aveva ovviamente bisogno di spendere per agevolare il processo di ricostruzione delle infrastrutture e anche per garantire consumi di sussistenza a prezzi politici, inferiori a quelli delle mercato, alla gran parte della popolazione italiana. In precedenza un meccanismo di finanziamento ,che il regime fascista in anni di guerra aveva imposto, riguardava l’obbligo da parte delle banche di acquistare titoli pubblici emessi dallo stato, questo obbligo fu smantellato quasi subito dalla Banca d’ Italia in collaborazione con il Ministero del Tesoro e il canale privilegiato di finanziamento della spesa pubblica fu il finanziamento monetario e cioè si stampava moneta per finanziare la spesa pubblica. La seconda condizione interna monetaria di carattere inflazionistico riguardò l’assenza di restrizioni al credito bancario privato, le banche quasi immediatamente furono lasciate libere di concedere prestiti. In una situazione così difficile e complicata dove molto forti erano gli intenti speculativi, la liberalizzazione del credito bancario fu una della cause di accelerazione dell’inflazione perché andava ad incrementare la massa liquida in circolazione a cui non corrispondeva una analoga quantità di beni. L’ultimo punto che vale la pena sottolineare perché rappresenta per oltre 40 anni una conquista importante del movimento operaio ma che allora sicuramente ebbe un effetto inflazionistico, fu l’introduzione della scala mobile nel 1946. Il primo meccanismo di indicizzazione salariale risale all’immediato dopoguerra, il 1946, il movimento operaio era ancora forte e per pochi mesi riuscì ad imporre al capitalismo italiano un meccanismo di parziale tutela perché in realtà salari e pensioni erano state falcidiate dall’inflazione che c’era stata sino a quel momento. Rispetto alla necessità di stroncare l’inflazione tutti erano d’accordo, sia il movimento operaio che i partiti della sinistra; sia la democrazia cristiana che il capitale privato e i partiti di ispirazione liberista perché era evidente, anche ricordando l’esperienza del dopo guerra tedesco( la prima guerra mondiale), che una condizione di iper-inflazione non poteva consentire il superamento di quelle drammatiche condizioni economico sociali. Il problema fu allora quale tipo di linea antinflazionistica scegliere. Le sinistre proponevano un pacchetto di misure che tendeva ad introdurre forme di pianificazione e direzione pubblica nell’economia. In primo luogo proponevano di mantenere per un periodo piuttosto lungo il sistema di razionamento dei beni essenziali. Nei primi mesi del dopo guerra, come dicevo, i beni di consumo essenziali erano forniti, ad un prezzo politico inferiore a quello del mercato e per quantità determinate a seconda della consistenza del nucleo familiare. Questo era un
sistema che consentiva di nascondere la portata inflazionistica della scarsità di offerta di beni che c’era. Quindi era una misura che, se smantellata, avrebbe provocato un immediato rialzo dei prezzi. Un secondo strumento che veniva proposto era quello del cambio della moneta e cioè la proposta era di ritirare tutte le lire in circolazione di ogni provenienza, tanto le Amlire che quelle dei due governi che durante la guerra avevano retto il territorio italiano, e di sostituirle con una nuova moneta. Naturalmente questa era una misura non puramente monetaria perché accanto ad essa veniva proposta l’istituzione di una forte imposizione patrimoniale. La finalità era quella di azzerare la massa monetaria in circolazione e quindi di avere un immediato controllo, perlomeno iniziale, della quantità di circolante esistente, dall’altro quella di far emergere i pescecani, profittatori di guerra che avevano accumulato ricchezze monetarie attraverso la speculazione e il mercato nero e quindi di espropriare gli speculatori attraverso l’imposizione patrimoniale oltre all’obbligo di mostrare la fonte della propria ricchezza monetaria. Era una misura, quella del cambio, dal forte impatto politico e sociale, e non una semplice manovra neutra di carattere monetario. Un’altra misura che la sinistra richiedeva era il controllo centralizzato della valuta estera per pianificare le importazioni, in modo tale da canalizzarle verso quelle merci necessarie alla ricostruzione, e quindi di dirigere il commercio estero in modo tale che la scarsa valuta non fosse utilizzata per consumi di lusso sostenuti dalla grande concentrazione monetaria che si era determinata anche a seguito dell’attività nel nostro paese degli speculatori , ma che andasse tutta a sostegno di quelle importazioni decisive al rilancio economico. Infine l’ultima misura, potremmo dire alternativa perché infine ne passò un’altra, era quella del controllo del credito bancario sempre con lo scopo di limitare l’accaparramento speculativo di beni e canalizzare le risorse verso attività utili al rilancio economico del paese. La linea che passò fu un’altra: quella imposta da Luigi Einaudi nominato nel 1945 governatore della Banca d’Italia e che nel terzo governo De Gasperi, quello che vide l’estromissione dei partiti della sinistra dal governo, divenne Ministro del bilancio e del tesoro Quindi nella seconda metà del ‘47 le principali cariche istituzionali economiche erano concentrate in una sola persona, quella di Luigi Einaudi che era contemporaneamente governatore della banca centrale Ministro del tesoro e bilancio, come governatore rimase formalmente in carica sino all’anno successivo e fu affiancato, durante il periodo che fu ministro del tesoro, da Donato Menichella che gli successe come governatore. La linea di Einaudi era decisamente una linea liberista, come d’altra parte la sua formazione culturale stava a testimoniare, e si impose a seguito del cambiamento di governo , del cambiamento politico che ci fu e della sconfitta politica della sinistre e che poi si trasformò in una sconfitta e restaurazione sociale. Il mercato interno venne liberalizzato rapidamente. Il programmato cambio della moneta, che era stato deciso dal governo Parri e continuamente rinviato con mille scuse, (addirittura era stata fissata una data, nel marzo del 1947) dopo due anni di dibatti e discussione non si fece perché la Banca d’Italia dichiarò che erano state rubate le matrici di stampa delle monete. Fu necessario rimandare di altri mesi, fino a che le sinistre furono estromesse dal governo ed il cambio della moneta non si fece più. L’utilizzo della valuta estera venne affidato alle libere scelte del privato. L’imposta patrimoniale, anch’essa decisa, venne ridimensionata fino ad essere ridotta a poca cosa e le banche vennero lasciate libere di erogare credito. Tutto ciò sino all’agosto/settembre del 1947 tanto che questa scelta di totale liberalizzazione dei mercati interno, creditizio, monetario valutario venne allora contestata dalle sinistre perché erano scelte che favorivano l’inflazione. L’accusa che le sinistre fecero era che il governo Einaudi volesse aumentare drammaticamente l’inflazione nella prima metà del ’47 per creare le condizioni della svolta sia politica quanto economica che immediatamente seguì. Infatti nell’Agosto del ’47 una di queste misure di liberalizzazione venne drasticamente ridotta, quella relativa al credito bancario. Vi fu una drammatica stretta creditizia, nel senso che furono fissati dei limiti quantitativi all’erogazione del credito bancario, ciò portò nel giro di poche settimane, al collasso il mercato creditizio. Allora il credito bancario era l’unica fonte di finanziamento, ovviamente ancora non esistevano i mercati finanziari, i titoli, le obbligazioni, altre modalità di finanziamento per le imprese. Questa decisione di stretta così drastica, immediatamente assopì l’inflazione che nel giro di poche settimane ritornò su livelli fisiologici. Naturalmente il controllo dell’inflazione ottenuto attraverso una manovra così drastica ed unicamente concentrata sulla circolazione monetaria e creditizia , perché tutte le altre misure di liberalizzazione dei mercati reali vennero confermate, produsse oltre al crollo della inflazione anche quello dell’attività produttiva, vi fu una recessione pesantissima che durò per oltre un anno. Una recessione in un pese caratterizzato da condizioni così drammatiche e con una necessità cosi forte da accelerare la propria produzione per ricostituire l’apparato economico del paese, ebbe delle conseguenze sociali pesantissime.
La disoccupazione schizzo in alto, fu uno degli strumenti attraverso i quali il movimento operaio venne sconfitto dentro le fabbriche in primo luogo, e poi politicamente. Fu quindi una scelta strategica. Le conseguenze furono il rallentamento della ripresa industriale, l’aumento della disoccupazione, la riduzione dei salari, il blocco della domanda interna. La cosa che evidenzia il carattere di classe di questa scelta riguarda il fatto che accanto alla stretta creditizia, come misura complementare per ridurre la spesa pubblica e quindi tenere a freno il finanziamento monetario del deficit, vi fu il drastico aumento del prezzo del pane e dei prezzi amministrati. Il pane, che era ancora uno di quei beni che rimaneva razionato ed amministrato per garantire di sfamare la popolazione, nel ’47 con la scusa di dover diminuire la spesa pubblica, venne aumentato abbassando ulteriormente la condizione di vita delle masse popolari. Questa scelta insieme a quella della apertura internazionale, definisce la linea strategica verso cui si indirizza l’economia italiana nei quindici anni successivi, e cioè la scelta strategica di un modello di sviluppo industriale trainato dalla domanda estera e dalle esportazioni. Caratterizzato cioè da un mercato interno ridotto a causa dei bassi salari, e quindi fondato sostanzialmente sul basso costo del lavoro e sulla necessità di fondare sulle esportazioni lo sviluppo industriale del paese. Conseguenza strutturale fu quella del rafforzamento del controllo politico sui canali di finanziamento dell’industria perché naturalmente la stretta creditizia cosi forte dovette essere compensata da un aumento dei finanziamenti statali all’industria privata per garantirne l’esistenza, scelta che perdurò poi nei decenni successivi. Un secondo momento importante si ha nel 1949, anno in cui l’Italia raggiunge i livelli produttivi del ’38, quindi 4 anni dopo la guerra ci si rimette al passo e poi negli anni ’50 l’Italia conosce il famoso “ boom economico” che è caratterizzato da quelle condizioni che schematicamente si sono definite prima. Come modello viene definito da alcuni economisti, Augusto Graziani è stato quello che più di altri ha teorizzato il funzionamento dell’economia italiana di quegli anni, come un modello export lead e cioè trainato dalle esportazioni. Prima di arrivare alla crisi di questo modello di sviluppo nei primi anni 60 voglio brevemente delineare un’altra linea strategica degli anni ’50 che riguarda la politica industriale, possiamo dire che nella seconda metà degli anni ’50 e primi anni ’60 la politica industriale italiana ha vissuto una sorta di epoca d’oro. La struttura industriale italiana era caratterizzata già nell’immediato dopoguerra da una forte presenza pubblica, eredità della grande crisi bancaria degli anni 30 dove il fallimento delle banche aveva condotto prima all’assorbimento da parte dello stato della proprietà dei grandi istituti bancari i quali, essendo divenuti a partire dalla seconda metà degli anni ’20 i proprietari di grandi imprese industriali, passarono allo stato anche buona parte del capitale industriale del paese. L’industria pubblica nasce quindi come una operazione di salvataggio delle banche e delle grandi imprese private e quindi in assenza di un disegno unitario di nazionalizzazione, fu una circostanza occasionale derivante dalla necessità di salvare il grande capitale industriale e finanziario del paese. Il tipo di gestione di questa presenza pubblica rappresenta una particolarità italiana rispetto all’esperienza degli altri paesi industrializzati, particolarità che non è soltanto quantitativa ma anche qualitativa. In Italia la presenza pubblica nella finanza, nell’industria, nelle banche, viene adottata attraverso il modello dell’ente pubblico come ente di gestione , cioè come ente pubblico autonomo dall’amministrazione. In Italia si scelse la forma della holding pubblica e cioè un modello che sostanzialmente, dal punto di vista formale, è del tutto analogo a quello privatistico ma la cui proprietà è pubblica. Questo è un modello che ha una origine specifica nel nostro paese perché fu teorizzato e praticato da Francesco Saverio Nitti nei primi anni del 900. Egli era uno dei principali sostenitori dell’ente pubblico autonomo dall’amministrazione come luogo di intervento dello stato nell’economia, infatti fu l’INA l’istituto nazionale delle assicurazioni , nel 1912, quando Nitti era presidente del consiglio a essere il primo esempio di questo tipo. Questa scelta non è soltanto una scelta gestionale ma comporta anche delle conseguenze politiche: in primo luogo all’interno del governo e di ministeri economici prevale una logica di modello contabile e regolamentativo e non gestionale di indirizzo perché questo è affidato ad enti e persone che sono al di fuori del controllo diretto del governo. In secondo luogo comporta,(questa scelta delle società per azioni a maggioranza od a totalità pubblica sostanzialmente, perché questa fu , attraverso poi modificazioni di carattere giuridico , fin dall’inizio il connotato dell’IMI e dell’IRI) l’assenza di un coordinamento e di un indirizzo unitario per l’industria di stato. Non c’era un centro da cui dipendesse questa miriade di enti pubblici, di società per azioni a partecipazione statale. Tanto è vero che allora le scelte decisive che furono compiute dalle imprese pubbliche derivarono più dai manager pubblici che da precisi indirizzi di governo
Nei primi decenni, fino al 1956 , la gestione e lo sviluppo strategico dell’impresa pubblica sia nel settore creditizio sia nel settore industriale non fu determinato dal governo ma sostanzialmente dai manager pubblici che allora erano di grande livello rispetto a quelli che abbiamo conosciuto successivamente. Basta ricordare l’ENI di Enrico Mattei, fu una sua creazione nel senso che dietro non vi fu un preciso disegno della democrazia cristiana e del governo di allora ma anzi, in qualche modo, la crescita ed il rafforzamento del ruolo interno, ma anche internazionale, dell’ENI fu dovuta alla volontà ed al disegno industriale di questo imprenditore pubblico. La stessa cosa si può dire di Oscar Sinigaglia che era un manager dell’industria siderurgica che impose nel nostro paese, contro la volontà del capitalismo privato, la siderurgia a ciclo integrale, prima in Italia esisteva una siderurgia che si basava sulla materia prima derivante alla rottamazione , questo tipo di siderurgia diventò inefficiente per lo sviluppo tecnologico che si era conosciuto negli anni trenta e successivamente. Comportava quindi un costo dell’acciaio molto più elevato di quello che sarebbe stato possibile attraverso un ammodernamento tecnologico degli impianti, per questa ragione era contrastato dal capitale privato (che non voleva investire ). . Perché ho indicato il ‘56? Perché venne istituito il ministero delle partecipazioni statali, quindi ci fu il tentativo di far assumere funzioni strategiche di indirizzo da parte del governo attraverso la riduzione della autonomia manageriale delle imprese pubbliche e ci fu anche uno slittamento della missione delle imprese pubbliche che essendo enti pubblici autonomi costituiti in società per azioni ed essendo svincolate, sino ad allora, da indirizzi di tipo politico avevano come obbiettivo la massimizzazione del profitto alla stessa stregua delle altre imprese private. Anzi, in un rapporto di concorrenzialità con le altre imprese private, ma molto più spesso in un rapporto di connivenza tranne i casi eccezionali detti sopra di Mattei e di Sinigaglia. Le partecipazioni statali diventano uno strumento di controllo e di intervento politico e la “missione” viene esplicitamente definita non più sulla base della esigenza di massimizzare il profitto ma sulla base di perseguire il successo economico dell’impresa. Il successo veniva identificato non dal punto di vista della redditività ma dal punto di vista della produzione e dell’occupazione, tant’è vero che in questa fase la politica industriale condotta attraverso l’impresa pubblica diventa anche politica di riequilibrio territoriale perché in questa fase cominciano ad essere posti dei vincoli agli investimenti della impresa pubblica nel mezzogiorno per cui si arriverà a dire, qualche anno dopo, che il 60% dei nuovi investimenti doveva essere collocato nel mezzogiorno. Questa svolta fu sancita anche nel ‘58, dall’uscita delle imprese pubbliche da Confindustria proprio a dimostrazione della teorizzazione di una differenza di “missione” tra l’impresa pubblica e quella privata. Ora, se da un lato si è messa in evidenza il carattere positivo di questa scelta, dall’altra parte si vede anche il germe di una delle degenerazioni della impresa pubblica per il modo attraverso il quale questo nuovo strumento, poi Ministero delle Partecipazioni Statali come nuovo indirizzo venne concretamente attuato da parte delle classi dirigenti. L’industria pubblica diventò poi, e nei decenni successivi in modo sempre più spinto, una fonte , un canale di clientelismo e di finanziamento anche dei partiti di governo. Allora fu una scelta innovativa accompagnata, nello stesso periodo, dalla nuova fase della cassa del mezzogiorno che era stata istituita nel 1950 ma che aveva avuto fino al ‘56/’57, prevalentemente, funzioni assistenziali (nel senso che la Cassa del Mezzogiorno aveva avuto come scopo sino ad allora quello di investimenti e sostegno all’agricoltura e di finanziamento di opere pubbliche nel mezzogiorno) diventa, con una serie di leggi e di provvedimenti normativi uno strumento di industrializzazione. La cassa del mezzogiorno insieme alle imprese pubbliche gestite sulla base di un più forte indirizzo politico diventa lo strumento di espansione della industria italiana anche in alcune zone del sud. In particolare, la scelta fu quella di localizzare nel mezzogiorno gli impianti ad alta intensità di capitale con un preciso scopo di rafforzamento dell’apparato industriale. La scelta di questi impianti, acciaio ,energia , trasporti e telecomunicazioni aveva lo scopo di fornire prodotti di base a basso costo all’industria manifatturiera del nord. In questo modo quindi la scelta delle partecipazioni statali e della funzione di coordinamento e indirizzo del governo della nuova fase della cassa per il mezzogiorno assume anche finalità di rafforzamento dell’apparato industriale privato e quindi non soltanto finalità di carattere politico, di riequilibrio economico e sociale del territorio nazionale, ma anche strettamente economico. Infine l’altro elemento di questa fase che voglio sottolineare riguarda l’esempio più noto ed importante di nazionalizzazione del nostro paese, l’industria elettrica. Siamo nel 1962/63 ai primi governi di centro sinistra e quindi all’ingresso del partito socialista italiano nell’area di governo. Si pone il problema della nazionalizzazione dell’industria elettrica che era uno dei centri motori del capitalismo italiano e quindi era una operazione di grande portata. Operazione necessaria tuttavia anche al capitale privato per eliminare le rendite monopolistiche private che
facevano crescere il costo energetico italiano in misura non più tollerabile per lo stesso sviluppo dell’industria privata italiana. Allora però, ferma restando la decisione molto contrastata ma che conquistò alla fine il consenso di tutti i partiti di governo di procedere alla nazionalizzazione dell’industria elettrica, vi fu tuttavia uno scontro rispetto alle modalità attraverso le quali doveva essere fatta. Da un lato c’era Mediobanca, che era un istituto di credito industriale, una banca di investimenti formalmente di proprietà pubblica, perché era di proprietà delle tre banche di interesse nazionale dell’IRI, ma che in realtà aveva acquisito una forte autonomia, ma non ancora quella, anche in termini di potere economico, che ebbe negli anni ‘70/’80 (anche se ovviamente il regista era sempre Cuccia), tant’è che fu sconfitta. La nazionalizzazione fu decisa dalla D.C. e dal P.S.I. e doveva avvenire non attraverso la forma dell’esproprio brutale ma tramite l’acquisto da parte dello stato, quindi pagando indennizzi molto consistenti agli industriali elettrici, fondamentalmente all’Edison di Valerio ed alle altre società che ruotavano intorno a questa. Il problema era: in che modo doveva essere effettuato, ed a quali fini, questo acquisto forzoso pubblico dell’industria elettrica. Mediobanca aveva presentato un progetto che aveva come fine quello di ridefinire le gerarchie, le caratteristiche del capitalismo privato italiano, di superare sostanzialmente un capitale a carattere familiare e dominato da pochi gruppi di potere, perché pensava di utilizzare le enormi risorse 5000 miliardi, che allora erano una grande cifra e che dovevano essere pagate al capitale elettrico privato. Pensava di gestire in modo unitario e centralizzato questi indennizzi sciogliendo le vecchie società elettriche, costituendo una sorta di fondi di investimento ante litteram per canalizzare queste risorse verso nuovi progetti industriali sul modello di società tipo public company, e cioè senza una partecipazione azionaria forte e dominante, ma attraverso un modello gestionale che lasciava una larga autonomia al management, perché diffusa doveva essere la proprietà. Vince invece la linea Carli, era il governatore della Banca d’Italia, che prevedeva che le vecchie società dovevano rimanere e che erano queste a dover essere risarcite. Qual è la differenza? Ovviamente l’Edison era una grande società che aveva un azionariato diffuso, avevano Valerio e gli altri una quota minoritaria con la quale però controllavano l’intera società. Se gli indennizzi venivano dati alla società voleva dire che questi venivano gestiti da Valerio che era proprietario, di una cifra ridotta della società. Se invece la società veniva sciolta e venivano risarciti i singoli azionisti con l’obbligo di costituzione di fondi di investimento, Valerio perdeva potere. Quindi la scelta era strettamente di potere, di quale configurazione doveva avere la proprietà del capitalismo italiano. Vince la linea di continuità e le conseguenze sono state pesanti perché allora vi fu l’occasione, derivante da questa enorme massa di risorse finanziarie pubbliche date al capitale privato, di riorganizzare e ristrutturare lo stesso. Questa opportunità fu in qualche modo persa per le modalità con cui venne effettuata la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Successe che le grandi società elettriche, con la Edison in testa , utilizzarono queste risorse in modo scriteriato gettandosi nel settore chimico. Nasce la Montedison dalla fusione della Edison e della Montecatini e si crea un eccesso di capacità produttiva chimica perché nel frattempo anche l’industria pubblica aveva messo in piedi produzioni chimiche. Questo condurrà entro pochi anni alla crisi prima e poi allo smantellamento definitivo della chimica italiana. Comportò anche l’impossibilità ,da parte delle esperienze industriali più innovative, di avere le risorse necessarie per procedere verso una modernizzazione dell’apparato industriale privato del nostro paese. In questo periodo entra in crisi l’Olivetti, una delle aziende pioniere a livello mondiale nel campo dell’informatica. Muore il suo fondatore ,che era lontano dall’avere il controllo finanziario perso anche a seguito di difficoltà derivanti dal fatto che era una industria nascente e bisognosa di finanziamenti, ma ne deteneva il controllo strategico e morale. Morto il fondatore l’azienda non riesce ad ottenere da parte del capitale privato italiano le risorse per svilupparsi, anzi in qualche modo viene volontariamente azzoppata perché vista come un potenziale concorrente nell’ambito della finanza. E’ noto che Valletta , allora manager della Fiat, era un avversario della crescita della Olivetti e riuscì ad impedire la necessaria canalizzazione di risorse verso un progetto industriale così innovativo. Naturalmente se le risorse statali che furono affidate al capitale privato avessero avuto un indirizzo, una regia da parte pubblica sia pure indirettamente attraverso Mediobanca e attraverso le banche pubbliche, si poteva riorganizzare il capitale industriale italiano.
L’altro momento strategico che adesso voglio trattare riguarda la scelta deflazionistica del 1963/64. L’Italia viene da un quindicennio di boom economico caratterizzato da una condizione di bassi salari, la competitività di costo era uno dei principali punti di forza dell’economia italiana sui mercati internazionali, a cui si accompagnava anche un basso livello di protezione sociale. Il wellfare state italiano non era lontanamente paragonabile a quello di altri stati europei come quello francese e tedesco, che già in quegli anni avevano sviluppato una rete diffusa di servizi pubblici, era trainato quindi dalla domanda estera ed era caratterizzato da un sistema protezionistico interno che aveva sostituito il protezionismo esterno dei dazi doganali, fatto di agevolazioni fiscali, sussidi, tolleranza verso i comportamenti non corretti a protezione di settori industriali e produttivi arretrati e quindi era caratterizzato anche da una forte consistenza della rendita. Non soltanto della rendita urbanistica. In quegli anni c’è anche lo sviluppo accelerato e massiccio delle grandi città che comporta una esplosione della rendita urbana ma anche di quella che vi si nascondeva, quella della piccola industria e dei ceti commerciali ed artigianali, tanto che allora si diceva che accanto al dualismo regionale nord-sud c’era anche il dualismo settoriale tra l’industria moderna che operava sul mercato internazionale e il settore produttivo industriale, commerciale ed artigianale che non essendo esposto alla concorrenza internazionale era molto meno dinamico e (o perché) godeva di questo regime protezionistico. Nel frattempo questo boom aveva prodotto una sostanziale situazione di piena occupazione, è vero che esistevano ancora sacche ampie di manodopera non utilizzata concentrata in particolare nel sud, tuttavia, soprattutto nei mercati del centro-nord, la situazione occupazionale aveva raggiunto i massimi livelli, i tassi di disoccupazione in questo periodo oscillavano tra il 3-4% dopo 15 anni d’ininterrotto boom economico. Una situazione di questo tipo non poteva durare dal punto di vista della distribuzione del reddito e quindi delle condizioni sociali che l’avevano garantita, nel frattempo si era avviata anche sul piano politico la svolta a sinistra con la nascita del centrosinistra, nei primi anni ’60 vi fu la forte ripresa del movimento operaio nelle fabbriche del nord. La stagione dei rinnovi contrattuali 1961/3 è segnata da una forte ripresa delle lotte operaie, scioperi e addirittura occupazioni di fabbriche, cose che non si vedevano dall’immediato dopoguerra. Questi rinnovi si chiudono con consistenti aumenti salariali, ben superiori agli aumenti della produttività, si inverte la tendenza alla redistribuzione del reddito che in precedenza era stata dai salari ai profitti e ora era dai profitti ai salari. La quota dei salari sul prodotto industriale nel 1953 ammontava al 70% nel 1961 era scesa al 57% a dimostrazione del fatto che il boom economico era stato caratterizzato da questo forte schiacciamento salariale che aveva consentito l’espansione delle merci italiane sui mercati internazionali. Nel ‘63 la quota dei salari sul prodotto industriale ritorna al 65%, un fortissimo recupero in soli due anni. Ben 8 punti in percentuale, rispetto al reddito prodotto dall’industria, passano dai profitti ai salari. C’è quindi a seguito di questa tornata di rinnovi contrattuali nelle fabbriche del nord uno schiacciamento consistente dei margini di profitto delle imprese, quale fu la risposta di queste ultime a questa situazione? La risposta fu duplice, in primo luogo un rialzo dei prezzi per ricostituire i margini di profitto e quindi una impennata inflazionistica, gli anni del boom erano stati al contrario caratterizzati da una situazione di stabilità monetaria molto forte, nel1958 la lira fu premiata con l’oscar delle monete di Bretton Woods come la moneta più stabile e più forte del sistema anche a seguito di una pressoché nulla inflazione interna, 1-2% di inflazione su 15 anni. Nel ’63 si assiste dunque ad una impennata inflazionistica perché le imprese vogliono recuperare i margini col rialzo. La seconda risposta delle imprese e del capitale privato fu la fuga dei capitali all’estero, l’aumento dei salari e lo schiacciamento dei profitti da un lato, la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’esperienza del centro sinistra, l’avvio della programmazione economica, le paure del capitalismo privato italiano nei confronti di una nuova stagione politica, portarono ad una massiccia fuga di capitali verso l’estero. Da ricordare che allora era illegale, oggi ci sembra una cosa da non prendere nemmeno in considerazione, non si può parlare di fuga ma di investimenti all’estero. Nel sistema di Bretton Woods i movimenti di capitale non erano liberalizzati e allora i cittadini italiani non potevano liberamente investire le loro risorse all’estero ma le dovevano portare illegalmente. In un sistema di cambi fissi come era quello (625 lire per dollaro) questa spinta inflazionistica aveva come risultato immediato la perdita di competitività e quindi a seguito di questa forte ripresa operaia si rompeva l’equilibrio macroeconomico che aveva caratterizzato gli anni del boom. Oltre all’inflazione si cominciava a verificare un deficit crescente sia della bilancia commerciale, cioè del saldo tra importazioni ed esportazioni, sia dell’intera bilancia dei pagamenti, accanto ad un deficit nel settore
delle merci c’era un deficit nel settore dei movimenti di capitale. Dove, in genere, queste due partite si dovrebbero compensare in una situazione di disequilibrio controllato, quindi equilibrio complessivo. La bilancia dei pagamenti è fatta da bilancia commerciale o meglio partite correnti, che è il saldo reale degli scambi con l’estero, e movimenti di capitale che è il saldo finanziario. Se uno ha un deficit nel saldo reale ma ha un afflusso di capitale, cioè un surplus nel saldo dei movimenti di capitale la bilancia dei pagamenti è in pareggio e quindi la stabilità monetaria non è messa in discussione. Viceversa se in entrambi i settori ,il saldo commerciale o partite correnti ( il saldo commerciale comprende solo merci le partite correnti comprendono merci e servizi quindi l’insieme del saldo reale) c’è un analogo deficit anche nel saldo dei movimenti dei capitali c’è uno squilibrio complessivo che in un sistema di cambi fissi crea tensione sulla moneta perché c’è una richiesta di valuta estera superiore all’offerta e quindi c’è la necessita di utilizzare le riserve monetarie della banca centrale per sostenere i cambi. Come si risponde a questa situazione (di deficit nella bilancia e difficoltà a mantenere il cambio con l’estero) ? Si risponde di nuovo con una violenta stretta creditizia così come fece Einaudi nel 1947, altrettanto fece Carli nel 1963. L’intensità di questa stretta fu analoga a quella del ’47 e fu una scelta consapevole di recessione. La Banca d’Italia sceglie la recessione per sconfiggere la riscossa operaia, la crisi economica per impedire il mutamento della distribuzione del reddito tra profitti e salari. Attraverso questa violenta stretta creditizia si hanno immediate conseguenze in termini di crollo degli investimenti , che erano state una delle componenti più dinamiche negli anni del boom, i tassi di interesse schizzano in alto e quindi gli investimenti crollano provocando un rallentamento fortissimo della crescita economica. Negli anni ’50 eravamo arrivati a superare in media il 5% come tasso di crescita del prodotto interno annuo. Il crollo quindi degli investimenti, della domanda interna, produce il rallentamento fortissimo della crescita, l’aumento della disoccupazione l’indebolimento dei rapporti di forza nelle fabbriche e il blocco della redistribuzione del reddito che si era avviata a seguito della riscossa operaia. Ma vi sono anche delle conseguenze di carattere strutturale, in questo modo la Banca d’Italia conferma un modello di sviluppo economico fondato sull’esportazione e non sul mercato interno, perché la crescita salariale poteva essere l’occasione per un mutamento dei meccanismi, della dinamica dello sviluppo economico italiano, passando da un modello fondato sulla domanda estera alla costruzione di un mercato di consumi di massa nel nostro paese che comprendeva anche la masse lavoratrici operaie e non soltanto i ceti superiori o parassitari (come allora venivano detti da Napoleoni , l’idea della lotta alla rendita fu tipica degli anni ’60 e in parte dei 70 da parte di una certa sinistra) . Ma comportarono anche delle conseguenze sul mercato del lavoro di carattere strutturale che poi incideranno qualche anno dopo. Quali furono le conseguenze strutturali sul mercato del lavoro? La difficoltà nel reperire finanziamenti a seguito della stretta creditizia comporta , come ho detto, un blocco degli investimenti e quindi le imprese puntano ad aumentare la produttività del lavoro. Non più attraverso l’innovazione tecnologica, l’ammodernamento produttivo, come era stato negli anni ’50 quando l’Italia diventò un paese industriale. Gli anni del boom segnano il decollo definitivo dell’economia Italiana verso un paradigma pienamente industriale, ma puntano ad aumentare la produttività attraverso l’intensificazione dei ritmi, questo produce un aumento forte della domanda di lavoro di personale giovane e maschile (ritenuto) in grado di reggere ritmi più intensi. In questo periodo nell’industria settentrionale, nel grosso dell’industria italiana, c’è una espulsione di anziani e donne e una immissione di maschi giovani, molti meridionali. La necessità di intensificazione dei ritmi diventa vitale di fronte alla impossibilità di ammodernamenti tecnologici derivanti da nuovi investimenti produttivi che erano diventati molto più costosi. Quindi nel ‘63 il modello di sviluppo entra in crisi sul fronte della distribuzione del reddito e la scelta consapevole delle classi dirigenti del paese e in primo luogo della banca d’Italia e quella della stretta monetaria per ripristinare le condizioni di redditività del capitale, era possibile una strategia alternativa allora? Ci fu molto dibattito in quegli anni e successivamente da parte di chi contestò quella scelta, si affermò che un’altra strategia era possibile e che doveva colpire gli interessi particolari, gli interessi della rendita, gli interessi dei ceti parassitari che sino ad allora erano cresciuti come cemento del consenso politico del governo. Si doveva colpire questi ceti attraverso misure di carattere fiscale ridistribuivo, quindi scaricare in qualche modo l’aumento dei salari non sui profitti ma sulla rendita e sugli interessi corporativi. Lo si poteva fare attraverso una riforma fiscale ,anzitutto, e attraverso una programmazione dell’intervento pubblico nell’economia, costruire un moderno sistema di welfare in modo tale che l’aumento delle condizioni di vita e del potere di acquisto dei salari, ormai necessario, non fosse esclusivamente di carattere monetario ma passasse anche attraverso un aumento del salario diretto
costituito dai servizi sociali. Si poteva intraprendere una politica industriale mirata a modernizzare i settori arretrati e non a sussidiarli. Si potevano rendere operativi i controlli sui movimenti di capitale per impedire le fughe, perché la Banca d’Italia fa la stretta creditizia motivandola anche col fatto che la fuga di capitali generava tensioni sul mercato valutario ma i controlli che la banca stessa doveva fare per impedire le fughe in realtà non venivano fatti. Come Einaudi nel ’47 aveva tollerato l’espansione del credito bancario per creare le condizioni della stretta , allo stesso modo in questo periodo la fuga di capitali non viene contrastata salvo poi dire: “ allora bisogna agire”. Dunque le alternative c’erano ma avrebbero comportato anzitutto un diverso equilibrio politico del paese, è a livello politico che il movimento operaio viene sostanzialmente sconfitto e reso impotente. Il centro sinistra nasce e in quel momento viene sostanzialmente sconfitto sul piano economico e sociale da una scelta presa dal capitale finanziario e dalle autorità monetarie che determinano una situazione di recessione economica. Però questa situazione dura poco perché nel giro di qualche anno l’economia Italiana ed internazionale vengono travolte da una tre shock che mutano completamente il panorama economico mondiale e segnano la fine della grande fase della crescita economica capitalistica del dopoguerra e l’inizio del periodo della crisi. Quali sono i tre shock? Il primo è quello salariale; di nuovo una situazione di quel tipo non si poteva reggere, non si poteva pensare di proseguire a quei ritmi lo sviluppo economico e industriale del paese mantenendo una condizione di salari bassi, quindi l’autunno caldo del ’69 inaugura la stagione della grande fase del conflitto operaio che attraverserà tutto il decennio degli anni ’70, in particolare la prima metà, quindi lo shock salariale derivante dalle stagioni contrattuali ‘69/’72. Il secondo shock è quello petrolifero; nel1973 il prezzo del petrolio quadruplica a seguito della guerra del Kippur tra Israele , Egitto e stati arabi. L’OPEC decide prima di chiudere la stretto di Suez e poi di quadruplicare il prezzo del greggio. Il terzo shock è di tipo valutario; il 15 agosto 1971 Nixon dichiara al mondo la fine del sistema di Bretton Wood perché il dollaro non è più convertibile in oro. Questa situazione produce immediatamente in Italia e nelle altre economie occidentali una situazione di stagflazione (che è una situazione caratterizzata dalla contemporaneità di inflazione e recessione economica, cioè di aumento dei prezzi e da declino della crescita economica) è una situazione che contrasta con i modelli teorici keynesiani, allora erano dominanti, che invece stabiliscono uno scambio tra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione e quindi di crescita. Tanto è vero che nel 1975 , per la prima volta dal dopoguerra il PIL italiano ha una crescita negativa, accadrà successivamente solo nel 1993 e oggi diciamo che ci siamo vicini. Quale è la risposta che dà il governo, le autorità monetaria, l’Italia, in termini di politica economica, in questa situazione di crisi? Accanto a quella politica della strategia della tensione , quelle economica è la svalutazione strisciante come meccanismo di salvaguardia dei profitti e dell’equilibrio esterno. Mentre, col sistema di Bretton Wood attivo, il sistema era stato quello, riuscito, di mantenere la stabilità del cambio e quindi la stabilità interna,( e si sono utilizzate le strette creditizie sino ad arrivare a scegliere la recessione per fermare l’avanzata operaia in termini di distribuzione del reddito), adesso si sceglie la strada opposta. Principalmente perché il livello di lotta sociale ha raggiunto condizioni assolutamente inedite, nel senso che in questo periodo dal ‘69 alla prima metà del ‘70 il movimento operaio è forte come mai lo è stato nel dopoguerra, quindi uno scontro frontale non poteva avere un esito sicuramente favorevole. In ogni caso non è questa la strada che scelgono le classi dirigenti italiane. In secondo luogo abbiamo un sistema mondiale trasformato, non abbiamo più i cambi fissi, non abbiamo più le materie prime a basso costo, abbiamo già una situazione di crisi economica e recessione anche senza la stretta creditizia e quindi in questa fase si sceglie un’altra strada che è quella della svalutazione strisciante della lira. Cosa vuol dire? Essendo i cambi fissi, all’aumento del tasso di inflazione, all’aumento dei prezzi, corrisponde un aumento, addirittura in certe fasi più che proporzionale, della svalutazione della lira, il deprezzamento della lira. In questo modo si garantisce la competitività delle merci italiane sui mercati internazionali, perché il recupero avviene attraverso la modificazione del valore esterno della lira. Ma questa scelta che produce la spirale svalutazione inflazione, spirale perché se si svaluta si produce una spinta inflattiva interna, perché aumenta il costo delle importazioni, noi dobbiamo pagare il petrolio
in dollari, se la lira cala di valore rispetto al dollaro noi dovremo pagare di più il petrolio e quindi l’inflazione interna aumenta e questo vale per tutte le materie prime. Quindi la svalutazione produce inflazione, ma per rispondere all’inflazione, che produce una perdita di competitività estera, cioè per ricostituire i margini di profitto delle imprese, cosa si fa? Si svaluta e così via. Quindi si mette in moto una spirale di svalutazione/inflazione che ovviamente, in questo periodo è necessariamente accentuata dalla completa indicizzazione salariale. In questo periodo la scala mobile raggiunge il massimo livello di copertura con l’accordo Lama-Agnelli del 1975, la copertura del 100%, gli scatti trimestrali ed il punto unico di contingenza. Questa situazione non solo ha l’effetto di determinare una impennata inflazionistica mai vista a partire dall’immediato dopo guerra, il livello dei prezzi arriva ormai intorno al 20% di rivalutazione annua, ma diventa anche uno strumento di politica industriale atipica perché la risposta alla crisi attraverso la svalutazione favorisce la competitività di prezzo ovviamente ,delle merci italiane all’estero , e quali sono i settori che ne traggono più vantaggio? Sono i settori che hanno il loro punto di forza nel più basso prezzo, perché la svalutazione comporta che le merci italiane all’estero costano meno. Quindi aumenta la quantità di quelle merci che sono molto sensibili al prezzo che sono poi quelle tradizionali dei settori così detti maturi (moda calzature…). Il modello di specializzazione produttiva italiano in questo periodo si va accentuando su questa dimensione: prodotti tecnologicamente maturi, prodotti di consumo. Tanto più che questa specializzazione viene ulteriormente accentuata dalla ristrutturazione delle grandi imprese del nord che di fronte al conflitto operaio rispondono ,questa volta, non tanto con l’intensificazione dei ritmi , perché non è possibile, non più attraverso gli aumenti degli investimenti perché quel tipo di modello produttivo aveva prodotto quella figura sociale operaia che era la protagonista di quel ciclo di lotte, ma rispondono attraverso il decentramento produttivo. Decolla la terza Italia. Anche per questo la piccola e media impresa del centro e del nord –est si specializza nella produzione di beni di consumo a basso contenuto tecnologico e quindi la svalutazione favorisce la esportazione di merci con una forte elasticità della domanda al prezzo, favorisce le piccole e medie imprese, determina l’accentuazione della specializzazione produttiva italiana, quella che abbiamo ancora oggi, verso questo tipo di settori. Quale è la scelta politica che sta dietro la decisione di intraprendere la strada della spirale svalutazione/inflazione? Questa scelta impedisce la stabilizzazione del reddito a vantaggio del lavoro perché sposta sempre in avanti la “torta “ della distribuzione del introducendo un meccanismo di rincorsa profitti- salari . In sostanza la scelta è quella di spostare sul livello politico lo scontro sociale, le conseguenze in quegli anni hanno anche risvolti drammatici perché a questo punto per garantire un mutamento strutturale dei redditi a favore del lavoro non basta più strappare i contratti dentro le fabbriche ma occorre controllare i meccanismi di governo della politica economica, quelli che decidono dell’inflazione, della svalutazione, del valore dei salari monetari. Il terreno dello scontro non è più solo all’interno della fabbrica ma diventa politico, generale, e così è stato come la nota storia di quegli anni ci dice. In questo periodo il settore industriale pubblico perde la funzione strutturale di modernizzazione che aveva avuto negli anni ‘50 e nella prima parte dei ‘60 e si piega all’esigenza di salvare le grandi imprese in crisi. Nasce la GEPI nel 1971, sigla che oggi evoca disastri, perché infatti divenne il grande carrozzone dove sono confluite tutte le imprese private che fallivano per qualche motivo, senza alcuna logica industriale, fino ad accumulare passivi enormi che si scaricavano sul bilancio pubblico. Però nasce per agevolare il processo di ristrutturazione della grande impresa. La politica meridionale torna ad assumere un prevalente carattere assistenziale, vengono abbandonati i progetti di industrializzazione del sud e la politica diventa sostanziale quella del sostegno della domanda delle imprese del centro nord. Questa situazione di spirale inflazione/svalutazione era resa possibile da una circostanza sul mercato monetario internazionale assolutamente decisiva. Perché la strategia fu quella di una svalutazione ,della lira, differenziale. La lira in quegli anni , dal 1973 al ‘79, si svaluta sul marco, e in questo modo si incentivano le esportazioni perché il mercato tedesco era uno dei principali per le merci italiane ma contemporaneamente c’è una stabilità e addirittura un apprezzamento nei confronti del dollaro. In questo modo si riusciva a tenere sotto controllo la crescita delle importazioni in termine di valore, quindi la lira si svaluta tantissimo rispetto al marco ma si rivaluta rispetto al dollaro, questo era possibile per circostanze che non riguardavano decisioni nazionali ma grazie alle tendenze valutarie generali che erano caratterizzate allora dal rafforzamento del marco e dall’indebolimento del dollaro. L’Italia si collocava nel mezzo sfruttando il vantaggio differenziale evitando di pagare troppo care le importazioni.
Questo aspetto tecnico è importante perché poi, nel ’79, diventerà impossibile proseguire questo tipo di politica. Ultimo aspetto importante degli anni ’70 è relativo all’aumento della spesa pubblica, in questo periodo comincia a nascere il problema del debito pubblico a seguito di deficit pubblici sempre più consistenti derivanti dalla necessità di soddisfare la domanda che proveniva dalle lotte operaie e sociali e dalla necessità di sostenere il decentramento produttivo e la ristrutturazione delle imprese. Nel ’70 la spesa pubblica sul PIL era il 34% nell’’80 arriva a sfiorare il 42% . In soli dieci anni un aumento del 8% della spesa pubblica rispetto al PIL ma senza un analogo aumento delle entrate. E’ qui una delle origini dell’aumento del deficit, all’aumento della spesa pubblica (che avvicina l’Italia alla media europea essendo molto più basso il livello di welfare e di spesa rispetto a Germania e Francia). Espansione del welfare, necessità di sostenere la ristrutturazione industriale, mancato aumento delle entrate fiscali che dal 30% passano al 33% mentre la spesa vadal34% al 42%. La media delle entrate fiscali in Europa era quasi il 42% . Perché non vi fu l’adeguamento delle entrate fiscali? Perché il sistema fiscale è usato ancora come mezzo di procacciamento del consenso politico. Nel 1979 si verifica un cambiamento epocale, non solo in Italia ma a livello mondiale. Questo è l’anno in cui inizia l’offensiva monetarista e neoliberista . In questo anno vince le elezioni inglesi la Tatcher e l’anno successivo Reagan in USA, ma la svolta viene annunciata da un mutamento radicale della politica monetaria degli USA. La Federal Reserve con l’avvento di Wolker come nuovo governatore passa al monetarismo e cioè al controllo ferreo della quantità di moneta in circolazione e quindi ad alti tassi di interesse come risposta al secondo shock petrolifero. Nel ’79 infatti l prezzo del petrolio ha una impennata , non cosi forte come quella precedente che lo aveva visto quadruplicare, che lo porta al raddoppio. Stavolta le autorità monetarie statunitensi rispondono in maniera opposta alla precedente ( politica monetaria inflazionistica) , con una politica deflazionistica , con una “stretta” , questo comporta che il dollaro si rafforza moltissimo rivalutando tantissimo e recuperando il terreno perduto negli anni ’70. Questo significa che noi italiani non possiamo più perseguire la strategia della svalutazione differenziale. In questo stesso anno nasce il sistema monetario europeo nella forma di un regime a cambi fissi tra le valute europee , quindi fluttuano nel rapporto con il dollaro ma sono fisse tra di loro con una banda di oscillazione del 2, 25% e del6% della lira e quindi muta il regime di tassi di cambio per il nostro paese. Fu una scelta di politica economica strategica, fu una delle cause, ma allora fu portata come la causa decisiva, per la fine della esperienza di solidarietà nazionale. Il PCI fu contrario all’adesione dell’Italia allo SME, perché era un cambiamento strutturale della politica economica e monetaria italiana (dirò poi perché) cosi come fu contrario l’allora governatore. della Banca d’Italia Paolo Banfi . Perché PCI e banca erano in accordo? Perché l’adesione al sistema monetario comportava un regime di politica economica di tipo deflazionistico essendo molto differente dal sistema di Bretton Woods sia nel funzionamento che negli scopi. Entrambi sono sistemi a cambio fisso l’uno di carattere regionale , l’altro internazionale ma sono entrambi fissi. Il sistema di Bretton Woods aveva come obbiettivo prioritario la salvaguardia dell’equilibrio interno dei paesi, cioè degli obbiettivi di crescita ed occupazione in una ottica keynesiana; tanto è vero che il sistema di Bretton Woods comportava l’integrazione commerciale, ovvero la liberalizzazione dello scambio delle merci ma la segmentazione, la frammentazione, l’isolamento dei mercati monetari e finanziari attraverso i controlli sui movimenti di capitale che ne erano una delle componenti essenziali. Essi garantivano l’autonomia delle politiche economiche nazionali rispetto ai mercati finanziari internazionali e quindi in questo sistema era l’equilibrio esterno, e cioè l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, che doveva essere adattato all’equilibrio interno. In questo senso l’ottica prevalente era di tipo keynesiano e quindi gli obbiettivi reali di crescita e occupazione prevalevano su quelli monetari. L’aggiustamento tra le monete gravava in modo paritario sia sui paesi in deficit sia su quelli in surplus di bilancia dei pagamenti nel senso che si prevedeva non soltanto che i paesi in surplus dovessero stringere l’offerta di moneta interna, e quindi fare politiche deflattive per mantenere il cambio, ma si prevedeva anche l’obbligo dei paesi in surplus o di rivalutare la propria moneta o di condurre politiche espansive. In sintesi il sistema di Bretton Woods privilegiava gli obbiettivi reali interni, crescita e occupazione, rispetto agli obbiettivi monetari, con l’elemento strategico del controllo sui movimenti di capitale e quindi nessuna globalizzazione dei mercati finanziari. Lo SME nasce invece con un obbiettivo opposto, l’integrazione monetaria e finanziaria internazionale, ed in modo particolare quella europea, e l’ottica prevalente è quella monetarista, cioè della prevalenza
degli obbiettivi monetari e in primo luogo la lotta all’inflazione. Tanto è vero che lo SME nasce e una delle condizioni per aderirvi è l’impegno ad un progressivo e rapido smantellamento dei controlli sul movimento di capitali e quindi l’impegno alla liberalizzazione dei mercati finanziari e all’integrazione dei mercati finanziari interni a livello europeo ed internazionale. Questo elemento è decisivo perché la piena integrazione finanziaria internazionale comporta una perdita di autonomia nello svolgimento della politica economica ed in particolare di quella monetaria nazionale. Un secondo elemento è che nel sistema dello SME l’onere dell’aggiustamento gravava sui paesi in deficit della bilancia dei pagamenti, cioè su quei paesi che conducevano politiche economiche troppo espansive perché il perno dello SME era il marco tedesco. All’inizio lo SME era sostanzialmente un sistema di monete ancorate al marco e quindi in una situazione di liberalizzazione dei movimenti di capitale era la Bundensbank che nei fatti dettava la linea alla politica monetaria di tutti qui paesi che aderivano. Ci fu dal ‘79 un mutamento della politica italiana in senso deflazionistico, un apprezzamento reale della lira molto forte. Dal ‘79 fino al ‘92, questo regime dura 13 anni, la lira si apprezza nei confronti del marco e delle altre monete europee. Questo periodo è caratterizzato da tassi di interesse molto elevati, più elevati di quelli del resto dei paesi europei, peraltro già elevati negli anni ‘80 per mantenere l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti, dalla liberalizzazione dei movimenti di capitale che avviene negli anni ‘80 in maniera molto rapida e dal divorzio tra il tesoro e la banca d Italia, cioè l’impossibilità del finanziamento monetario del deficit pubblico. A partire dalla metà degli anni ‘80 non è più possibile finanziare attraverso emissione di moneta il deficit pubblico e quindi c’è la necessita di reperire le risorse, per il tesoro, sui mercati finanziari con l’emissione dei titoli di stato. C’è poi la progressiva abolizione dell’indicizzazione salariale, perché nel frattempo il clima politico e sociale è cambiato , la ristrutturazione industriale ha mutato i rapporti di forza nelle imprese, i rapporti di classe mutano, nell’’84 c’è il decreto di San Valentino sulla scala mobile che viene in qualche modo depotenziata sino ad arrivare al ‘92 quando viene abolita completamente. E’ da sottolineare, in questo periodo, il conflitto in atto tra la politica monetaria e quella fiscale. Quest’ultima mantiene un orientamento espansivo perché deve sostenere la ristrutturazione della grande impresa e deva sostenere anche la domanda interna. Di fronte all’apprezzamento molto forte della lira c’è una forte perdita della competitività internazionale delle nostre merci. Per evitare una situazione recessiva ancora più grave non si può, di nuovo, accompagnare al calo della domanda estera, una restrizione di quella interna attraverso la riduzione della spesa pubblica. Questa, continua ad essere alta anche perché gli anni ’80 sono il periodo di massimo “splendore” di tangentopoli, del clientelismo, delle degenerazione del sistema politico italiano. Perché è in conflitto con la politica monetaria? Perché la politica monetaria è contemporaneamente fatta di alti tassi d’interesse che comporta il fatto che il debito pubblico “esplode”. Gli alti tassi di interesse comportano un fortissimo aumento delle spese per interessi nel bilancio dello stato. A queste si aggiunge il deficit corrente derivante da una spesa pubblica comunque superiore alle entrate. In questo periodo si genera quindi una spirale dell’indebitamento, generato dagli alti tassi d’interesse che producono un livello di debito che raggiunge a cavallo del gli anni 80/90 il valore del 120% del prodotto interno lordo. Questo sistema si regge su una condizione che è indipendente dalle nostre “volontà nazionali” derivando da una situazione internazionale. Si regge questa situazione perché il deficit dell’Italia di parte corrente sulla bilancia dei pagamenti, dopo l’apprezzamento della lira e perdita di competitività delle nostre merci, con conseguente deficit della bilancia commerciale , deve essere finanziato e ciò viene tramite i capitali tedeschi che affluiscono in massa, negli ’80, prevalentemente sul mercato dei titoli pubblici italiani (grazie all’alto tasso di interessi) e finanziano quindi il deficit di parte corrente. Il venire, nuovamente, meno di una condizione internazionale favorevole produce la crisi di questo regime di politica economica. La crisi avviene nel ’92 dopo la crisi del sistema sovietico e la riunificazione della Germania che a questo punto non può più esportare capitali per finanziare l’integrazione e l’unificazione con la Germania dell’est. Viene meno quindi questo flusso di capitale, la lira viene attaccata dalla speculazione e nel settembre del 1992, dopo che la Banca d’Italia cercò di resistere in maniera che giudicata a posteriori sembra folle perché si bruciarono più di 50000 miliardi, svaluta ed esce dallo SME. Lo SME entra in crisi, è mutata una condizione fondamentale (esportazione di capitale tedesco) e finisce, la lira uscita per prima si svaluta enormemente perdendo in pochi mesi oltre il 30% del suo valore. “ Recupera” in eccesso tutto il valore che aveva acquistato durante gli anni ’80.
Ma nel frattempo altro era successo, il 7 gennaio 1992, è stato firmato il trattato di Maastricht che impone alcuni parametri di convergenza per l’adesione alla futura unione monetaria europea. In questo periodo si conferma l’indirizzo restrittivo in politica monetaria che già era in vigore negli anni ‘80, anche i ’90, con Maastricht, sono anni di alti tassi di interesse, in modo particolare per l’Italia. A questa politica monetaria restrittiva si accoppia una pari politica fiscale: riduzione del bilancio pubblico, privatizzazioni, riduzione della spesa pubblica. Mentre negli anni ’80 alla politica monetaria restrittiva c’era un bilanciamento con la politica fiscale espansiva, nei ’90 è l’insieme della politica economica, bilancio pubblico e moneta, ad essere orientato in senso restrittivo. L’ideologia dominante è quella del neoliberismo, del libero mercato, delle privatizzazioni, della riduzione dell’intervento pubblico, dello smantellamento dello stato sociale. La svalutazione del ’92 da respiro alle imprese che per qualche anno grazie a questa riescono a vivere e la bilancia commerciale ritorna in positivo dopo un decennio. Solo a partire dal 2000 ha cominciato a dare scricchiolii e oggi siamo tornati in profondo rosso. Questa situazione di politiche deflattive continua e si accentua anche dopo l’unione monetaria e viene sanzionata dal patto di stabilità che aggrava ancora di più l’onere previsto dai parametri di Maastricht perché impone ai paesi membri il pareggio nel medio periodo del bilancio pubblico. Maastricht imponeva il livello del 3% tra deficit e PIL, il patto di stabilità dice che durante la fase del ciclo , e cioè nel medio periodo, il bilancio deve essere in pareggio, comunque non deve superare il 3% ma in media deve essere in pareggi, in surplus e questo produce una ulteriore, grave, restrizione fiscale. Questa è una delle ragioni della crisi economica che oggi stiamo vivendo, della situazione di grave stagnazione, la più grave dal dopoguerra in Italia e in Europa. Siamo entrati nel quarto anno di stagnazione e recessione e non si può più parlare di fenomeno di carattere congiunturale ma è una situazione strutturale di cui Maastricht ed il patto di stabilità sono due tra le altre ragioni avendo compresso la domanda interna e hanno agevolato attraverso le politiche fiscali una enorme redistribuzione del reddito dai salari e dai redditi da lavoro verso i redditi in capitali , profitti e rendite. In questo modo, trainando sempre più risorse dai consumi interni, hanno agevolato la finanziarizzazione dell’economia e quindi sono all’origine della situazione di recessione e stagnazione che colpisce l’economia europea. Dopo questa carrellata, volendo rilevare l’elemento più caratterizzante nella gestione della politica economica italiana, si può concludere che è il governo della moneta e del cambio la sede delle decisioni strategiche di politica economica del nostro paese. Sono sempre decisioni in questo campo ad aver dato l’impronta alla politica economica strategica. La politica fiscale, le politiche industriali e settoriali sono sempre stati strumenti finalizzati ad obbiettivi particolari, privi di valenza strategica generale e condizionati spesso da interessi di ordine politici o corporativo. E’ invece il governo, il comando, della moneta ad essere stato la sede decisiva delle strategie economiche come leva centralizzata ed unificata della politica economica perché sottratta più della politica fiscale alle pressioni democratiche, politiche e sociali. Con la realizzazione della unione monetaria europea questo aspetto si è ulteriormente accentuato perché oggi abbiamo una banca centrale europea, che è la sede della politica monetaria di tutti i paesi della unione, che è del tutto sottratta ad ogni forma di controllo democratico e quindi, come dimostrano i fatti, impermeabile alle esigenze sociali, di sviluppo e di crescita.