2007-03-24

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LA STAMPA SABATO 24 MARZO 2007 PAGINA I

SETTIMANALE LEGGERE GUARDARE ASCOLTARE NUMERO 1556 ANNO XXXI [email protected]

FULMINI NICO ORENGO [email protected]

VENTI SENZA FANTASIA

TUTTOlibri Presentata (anche) a Roma (attenzione...) la prossima XX Fiera Internazionale del Libro, che aprirà in maggio. C’è già lo slogan: «Venti, senza confini», sopra una mensola che regge nove pallidi menabò, due in più dei sette colorati e stilizzati tomi a sottolineare cambiamenti di gestione e indirizzo. Ma uno sforzo di fantasia, qualcosa di meno legato ad un ambiente da grande magazzino e affidato a un sessuofobo design, non era possibile immaginarlo? Anche per evitare che a disegnare quelli delle prossime edizioni sia Veltroni.

IL ‘900 DEL TERON

DE KOONING

RIGONI STERN

CURTO

Un Verga proletario Le memorie «illetterate» di Rabito

P. III

Una vita informale Coniugò cubismo e espressionismo P. IX

DIARIO DI LETTURA

De Luca e Testa parole e note Tour italiano con Babel e Agota Kristof ZUCCONI

P. XII

ESPERIENZA FARIAN SABAHI

LE PRIMULE PONTE FRA LE DUE IDENTITÀ Com’è difficile per un’iraniana studiare qui quei «cattivi» persiani

S Problema Sono sempre più numerosi gli studenti extracomunitari: come rinnovare manuali e antologie perché abbiano un carattere interculturale

STRANIERI ASSENTI NEI LIBRI DI SCUOLA ALBERTO PAPUZZI

Un problema incombe come una spada di Damocle sulle case editrici di testi scolastici: come rinnovare manuali e antologie perché abbiano un carattere interculturale, che tenga conto della larga presenza fra i banchi scolastici di studenti stranieri, in particolare di quelli di fede islamica. Perché siano politically correct. Per fare un caso, a Torino gli stranieri rappresentano il 14 per cento di tutta la popolazione scolastica della città, compresi i licei e la collina, dove quasi non si vedono. Ciò significa che a livello di scuola dell'obbligo, in aree popolari come Barriera Milano o San Salvario, gli alunni stranieri possono supera-

re il 50 per cento, con punte del 60 in certe classi, da cui magari le famiglie torinesi hanno ritirato i loro figli. Il problema dei testi ha due aspetti. Il primo è l'apprendimento della lingua italiana da parte di studenti africani o asiatici, peruviani o filippini, romeni o bulgari: non può non accompagnare lo studio in particolare delle materie letterarie, che presentano i maggiori scogli linguistici. Il secondo aspetto concerne soprattutto i contenuti dei manuali di letteratura, di storia o di geografia, per non parlare di religione o filosofia. Come può reagire per esempio uno studente maghrebino all'Inferno di Dante o alla storia delle crociate? Sul primo aspetto si lavora

ormai da diversi anni. «Affrontiamo in particolare il problema linguistico con corsi di italiano e grammatiche italiane pensati appositamente per studenti stranieri - dichiara Franca Nicco, editor di De Agostini Scuola (nella redazione di Petrini, il marchio più avanzato sulla questione) -. E' nell'uso della lingua che si gioca infatti l'inserimento più o meno rapido degli stranieri nelle classi. E stiamo progettando materiali più schematici e sintetici, semplificati sul piano lessicale e sintattico, con un gruppo di insegnanti che da tempo lavorano in trincea nelle scuole medie e nelle professionali. Da questo punto di vista, gli studenti islamici non sono diversi da quelli di altre nazionali-

tà e culture». Il vero nodo è avere insegnanti disposti a prendersi a cuore la cosa e capaci di farlo. Franca Bosc, docente di Lingua per stranieri a Torino, ha appena pubblicato con la linguista Carla Marello e Silvana Mosca, dell'Ufficio scolastico regionale per il Piemonte, Saperi per insegnare (Loescher, €8,70), un testo per formare insegnanti di italiano: «Non va male nella scuola elementare che almeno al Nord si dà da fare da 15 anni dice -. La scuola media ha alle spalle cinque-sei anni di esperienze. Molto difficile invece la situazione nella scuola superio-

p

Continua a pagina II

Nelle grandi città del Nord Italia, ad esempio Torino, gli alunni stranieri superano in certe classi il 50 per cento, Affronta il problema il saggio di Davide Zoletto «Straniero in classe. Una pedagogia dell’ospitalità» in uscita da Cortina

ono nata in Piemonte da madre italiana e padre iraniano e ho frequentato le scuole ad Alessandria. Fin da bambina, per fare partecipi la maestra e i compagni delle nostre tradizioni familiari, portavo in aula un vasetto di primule per il capodanno persiano celebrato il 21 marzo in occasione dell'equinozio di primavera. Conciliare le due identità era complicato perché sui nostri libri di testo i persiani erano i nemici dei greci e quindi i cattivi. In quinta elementare preparai un'esposizione sulla storia dell'impero persiano, aiutata dalla mamma che aveva tradotto dei testi dall'inglese e dal francese. Non avevo ancora compiuto i dodici anni quando l'Imam Khomeini tornò in Iran dopo un lungo esilio. Ricordo le immagini in diretta televisiva della Rivoluzione, di cui afferrai fin da subito la gravità ma di cui non ebbi, per molti anni, gli strumenti per capire. I libri di testo adottati nelle scuole italiane non sono ancora adatti a recepire le differenze culturali e, a distanza di trent'anni, colmare il divario tra culture diverse è ancora un'iniziativa personale di mamme, papà e insegnanti. Rispetto ai nostri genitori, noi seconde generazioni abbiamo però qualche strumento in più per crescere i nostri figli. L'epopea preislamica contenuta nel Libro dei re e scritta dal poeta persiano Ferdousi nel X secolo è stata pubblicata dall'editore Semar (2003). Nel romanzo Salam, maman lo scrittore Hamid Ziarati, torinese d'adozione, racconta la Rivoluzione attraverso gli occhi di un bambino (Einaudi 2006). E la vignettista Marjane Satrapi ripropone le vicende di quegli anni difficili nei fumetti Persepolis (Sperling, 2002) da cui è stato tratto un film d'animazione che presto sarà anche nelle sale cinematografiche italiane.

NA

Agenda

II

Tuttolibri

SABATO 24 MARZO 2007 LA STAMPA

Le vallette fan romanzo? Caro signor Fruttero, tutti questi scandali di vallette e veline, calciatori e politici, non potrebbero essere ottima materia per un romanziere? A leggerle sui giornali sembrano storie di livello alquanto basso, ma tanto per fare un esempio anche il mondo dei piccoli industriali della calzatura non sembrava granché, visto da lontano, eppure Mastronardi ne seppe trarre un romanzo magnifico: «Il calzolaio di Vigevano». Marco Taverna, Vigevano

Carlo Fruttero, Tuttolibri-La Stampa, via Marenco 32, 10126 Torino [email protected]

Gentile signor Taverna, condivido la sua ammirazione per Mastronardi e più o meno in quegli anni uscirono altri libri su «materiali» a prima vista di nessun conto. Il dio di Roserio di Giovanni Testori, che seguiva una corsa ciclistica tra dilettanti (feroci, carogneschi) nella periferia milanese e Ragazzi di vita di Pasolini, tutto un programma già nel titolo. Splendidi romanzi, che prima o poi rileggerò. Questo per dire che non esiste ambiente così basso, o addirittura abbietto, che non possa essere trattato da una penna adeguata. Mi vengono in mente Moll Flanders di Defoe, mirabolante carriera di una ragazza dei vicoli; la stessa Becky Sharp della Fiera della vanità, o Nana di

Zola, o perfino Emma Bovary, che vive, e muore, da casalinga disperata nella più grigia, stagnante provincia. E' insomma questione ovviamente, di avere lo scrittore all'altezza (o bassezza). La conoscenza diretta di un dato mondo purtroppo non basta, da sola. Tutti gli editori sono assediati da gente che ha lavorato trent'anni nella pubblicità, in ospedale, nella Cia, alla catena di montaggio, allo zoo, in un bordello ecc. e che vorrebbe scrivere, o ha già scritto, un romanzo in tema. I risultati sono praticamente sempre nulli e allora? Inventarsi tutto? Be', una buona frequentazione non basta, come fece D'Annunzio con l'aristocrazia romana, o Verga coi suoi pescatori, o Matilde

Serao coi suoi fanatici del gioco del Lotto. E mi fa soprattutto sognare l'ipotesi del fotografo-ricattatore fantasticamente manipolato da Gadda, quell'archivio, quelle telefonate, quelle feste…. Oggi si potrebbe pensare a Arbasino, che però in fondo ha già dato, i suoi Fratelli d'Italia prefiguravano non certo l'ambiente ma la corsa inesausta della ruota dove zampetta il criceto più o meno vip. Aldo Busi potrebbe far circolare il suo memorabile venditore di collant tra queste sordide quinte e magari anche Saviano troverebbe qui una Gomorra meno sanguinaria ma altrettanto sfuggente, cruda, crudele. Aspettiamo e speriamo. CarloFruttero

PROSSIMAMENTE

G

razia ricevuta. Soprattutto meritata. Anche senza aver ancora scritto molto e solo racconti, sempre per minimum fax. Da Mosca più balena che ha vinto il Campiello opera prima nel 2004 a, per l’appunto, Per grazia ricevuta, in cinquina allo Strega 2005, oltre a varie partecipazioni (vedi Verissimo nell’antologia La qualità dell’aria a cura di Lagioia e Raimo: otto paginette esemplari su una trasferta in un nord profondamente sofferto). A Valeria Parrella (1974, con lei torniamo volentieri a Napoli) tanto sarebbe bastato per muovere due grandi editori, Rizzoli e Einaudi. Prassi all’americana: trattative pressoché al buio. Dal primo un’offerta alta (300 mila euro? ma da via Mecenate difficilmente confermerebbero), più moderata dal secondo che dovrebbe essere il prescelto. E minimum fax che l’ha lanciata e con cui la scrittrice ha tuttora un legame? Massimo fair play. Bella storia, di talento e di amicizia. CHE COSA E’«GLYPH»?

E’ il titolo del romanzo di Percival Everett, con il quale la Nutrimenti sta per varare la collana «Greenwich», «il meridiano della nuova letteratura» a cura di Simone Barillari e di Leonardo G. Luccone, editor di lungo e eccellente curriculum. Terreno di caccia: gli autori americani e inglesi; osservatorio: sugli scrittori che verranno; particolare attenzione: alla letteratura delle metropoli. Ma sempre programmaticamente «fuori dalle righe». Il

che risulta ampiamente confermato quanto meno da questo esordio. Perché il protagonista del libro, Ralph, è un bimbo prodigio, quoziente intellettivo pari a 475, «che passa il tempo nella culla a leggere trattati filosofici e a divorare libri di narrativa che gli passa furtivamente la mamma: Swift, Sterne, Balzac, Auden....». Tra colpi di scena e rapimenti tanto la minuscola preda è ambita, Ralph riflette su teorie filosofiche e linguistiche, arrivando, anticipa Barillari «a una sorprendente conclusione cui solo un bambino può giungere: il primato dell’amore sull’intelletto». Parodia, demistificazione. ANCHE UNO SPASSO

Benché l’importanza del romanzo (leggere il dialogo tra Baldwin e Socrate) stia soprattutto nella singolarità del linguaggio e della scrittura del suo autore, 51 anni, americano della Georgia, docente universitario in California, «diviso tra Wittgestein e la falegnameria», quasi di cult in Usa i suoi 15 romanzi, sinora sconosciuto in Italia , cui Barillari e Luccone hanno messo gli occhi (battuti sul filo di lana, per un evento curioso, dalla Instar che è appena uscita con Cancellazione, già lodatissima), del quale continueranno a pubblicare le altre opere mentre Everett sarà presente a maggio al Lingotto. (Altra scoperta di «Greenwich», sarà Julia Glass il cui «Three junes» arriverà prima dell’estate).

PARRELLA TRA EINAUDI E RIZZOLI MIRELLA APPIOTTI

E’ contesa dai due editori, la Casa milanese le avrebbe offerto 300 mila euro: ma fra i due contendenti c’è «minimum fax», con cui la scrittrice ha tuttora un legame La scrittrice napoletana Valeria Parrella

Segue da pagina I

Secondo i censori del Nobel ’56 l’autore di The Quiet American «sta peggiorando»; Pound è «malato di mente e non giudicabile»; Neruda «non merita nessun riconoscimento internazionale» (politica docet, sarà premiato nel 1971); Camus «la Chute è un capolavoro come La peste, ma la commissione è scettica sulla sua posizione filosofica riecheggiante Kierkegaard, deve aspettare» (invece l’alloro gli arriva l’anno dopo). Quanto a Borges «non può essere messo ai primi posti in questa lista». Brecht, magari: ma «è morto in agosto...».

1956: NOBEL ADDIO

Quell’anno «doveva vincerlo la Spagna», così fu ma con il più debole Ramon Jimenez invece che con il sostenutissimo Menendez

re: l'Italia è l'unico Paese in Europa che ha deciso l'inserimento diretto dei giovani di provenienza extracomunitaria ma non si è dotata di strumenti per facilitare questo inserimento». Ma il tema complesso, su cui si scontano pesanti ritardi, è la disponibilità di manuali che rispecchino un'impostazione interculturale, che si adattino a una società multietnica. Senza dimenticare il rischio che vedere le cose da stranieri, essere del tutto politically correct, provochi reazioni negative negli studenti italiani, o nelle loro famiglie, o sia oggetto di strumentalizzazioni politiche. «Immagino che la difficoltà per uno studente islamico sia

quella di dover studiare la storia o la letteratura del mondo occidentale, perché questo prevedono naturalmente i programmi ministeriali - osserva la Nicco -. Gli editori scolastici tentano di allargare un po' l'orizzonte, noi lo abbiamo fatto, come altri: per la storia presentando le vicende di altri continenti, nelle antologie proponendo autori di altre culture. Ma non è facile trovare spazio nei manuali, che hanno pagine e prezzi standardizzati». Pessimista Bosc: «Sui testi scolastici la presenza di stranieri nelle nostre scuole non è ancora percepita: sono ancora eurocentrici, e magari in classe hai cinesi. I manuali di ultima generazione, soprattutto per la scuola media, hanno tentato qualche ritocco molto superficiale, per esempio ho visto un testo di storia che quando parla di Pericle

Pidal. Lo perse, insieme a Ungaretti e ad altri 41 di grande stazza, un Vasco Pratolini appena quarantatreenne sostenuto non dal proprio Paese ma dal francese Paul Renucci e poi vagliato dall’esperto di fiducia degli svedesi, Ingemar Wizelius. Dopo aver definito Le amiche «artisticamente insignificante», Cronaca familiare «nebbioso e troppo privato», Le ragazze di San Frediano (appena comparso in tv) «un aneddoto tirato troppo per le lunghe», Wizelius giudica Via de’ Magazzini di «bravura satanica» e Metello il capolavoro con il quale lo scrittore fiorentino avrebbe ritirato il Premio una volta completata la trilogia. Mai ottenuto. Ma ci sono ulteriori gustosi retroscena sugli altri grandi trombati, leggibili da pochi giorni, dopo che l’Accademia ha tolto i sigilli sui documenti relativi al Nobel ’56. Enrico Tiozzo, non nuovo alla scoperta dei «segreti» svedesi, racconta anche quelli nel prossimo numero di Belfagor. «GREENE DELUDENTE»

Stranieri assenti nei libri di scuola p

LA RUPE TARPEA

SCRIVERE A

LA POSTA DI CARLO FRUTTERO

DOCET, LA FIERA DELL’EDUCAZIONE Si terrà quest’anno per la prima volta a Roma, dal 30 marzo all’1 aprile, «Docet» mostra-convegno dell’editoria e della didattica per la scuola, dai nidi alle superiori. Negli anni dispari resterà a Bologna, dove nacque come costola della Fiera dei Ragazzi: l’anno scorso ospitò 200 espositori e accolse 16 mila visitatori). Nel nuovo polo fieristico romano sono in programma numerosi incontri,

fa riferimento anche a Sighirìa, una civiltà analoga dello Sri Lanka. Ma in generale su Islam e Arabi siamo affidati alla buona volontà dell'insegnante». «Mancano i testi che corri-

rivolti a insegnanti e genitori, con gli “addetti ai lavori” (editori, autori di testi scolastici, rappresentanti di associazioni). Tra i temi di dibattito: il bullismo, la digital generation (i ragazzi e le nuove tecnologie informatiche), le biblioteche scolastiche. Il biglietto d’ingresso costa 10 euro (ridotto 5). Per info: www.docet.bolognafiere.it

spondano effettivamente a una visione interculturale propria di una società plurilinguistica e plurietnica. Mancano strumenti adeguati che consentano agli insegnanti di fare scelte non ste-

rotipate, di uscire dalla routine scolastica», spiega il milanese Edoardo Lugarini, direttore editoriale di Nuova Italia dal 1994 al 2002, che adesso si occupa di formazione di docenti. «Non si capisce se gli editori - prosegue - siano oggi di stimolo o di freno alla riforma dei testi. Per loro è decisivo il momento dell'adozione ed è chiaro che un testo molto aperto alle nuove esigenze può anche andare incontro a diffidenze e rifiuti». Non basta inserire nei manuali il mito africano della creazione o la visione araba delle crociate, per rispondere ai bisogni di classi plurietniche: «Il problema non è quello di dare "esempi" - aggiunge Lugarini -, inserendo tre brani cinesi piuttosto che tre brani romeni, ma di cambiare i criteri che regolano la scelta di autori e testi, per portarli a dialogare fra loro in ampi quadri di civiltà. Con una capacità di accoglienza dell'altrui identità che favorisca non già l'integrazione culturale, che

LUCIO CALPURNIO BESTIA

NIFFOI SEMBRA BOSSI

A

l libro settimo e a fama consolidata e, anzi, certificata, è lecito affrontare Salvatore Niffoi e l'ultima sua produzione con cuore più leggero e mano più pesante. E al di là di Carmine Paullana, il protagonista di Ritorno a Baraule (Adelphi, pp. 199, €16 ), la cui vicenda eterna del rincasare sull'isola dal continente alla ricerca delle radici, e delle tracce per chiarire il passato e defilarsi in pace, si sviluppa su una trama magari non proprio avvincente, ma di sicuro sopportabile. Di insopportabile, di insopportabilmente stucchevole, di già stantio, di sfiancante c'è questo approccio glocal alla scrittura, dove i sentimenti universali prendono l'aroma della cipolla tagliata. Dove c'è Carmineddu che esce dal tzilleru di tziu Predepaulu e dove si scopre che l'odio - con indifferenza di latitudine - è una lama più tagliente d'una scheggia d'ossidiana. Siamo sul versante letteratura, pare, e così, per esempio, sul versante economico c'è il web nuragico di Tiscali, sul versante antagonista c'è la battaglia equa e solidale per la patata andina e su quello casereccio c'è il gusto per il buon formaggio fatto come una volta. Niffoi è di quelli persuasi dell'intraducibilità delle cose e dei loro nomi, perché l'anima non si traduce, ma si coglie col respiro, perché è uguale ovunque. E' una bella moda da bancarella che vende il miele con l'etichetta scritta a mano. Ed è una moda intercettata quando ancora non era tale (la moda) dal barbaro dei barbari, Umberto Bossi, coi suoi Varèss e Bèrghem e col mito molto transnazionale delle piccole patrie. Poi il no global e il glocal sono diventati il gonfalone, come le pantere nere di Harlem nel salotto chic di Leonard Bernstein. Non sarebbe nulla, di per sé, ma poi del libro, chi non è sardo, capisce il solito cinquanta per cento.

detta così sembra l'azione unilaterale dell'immigrato, ma l'inclusione culturale, cioè lo scambio alla pari tra le culture espresse da tutti gli allievi della classe». A questi ritardi si aggiungono quelli di una burocrazia statale che magari disegna straordinari progetti ma zoppica al momento di tradurli in pratica. Così in Italia non è ancora uscita la figura dell'insegnante di italiano di supporto, né quella del facilitatore linguistico, presente nelle scuole francesi. Possono apparire problemi marginali. In realtà, sull'inserimento degli studenti stranieri, sulle seconde generazioni di extracomunitari, su questi successi o fallimenti, si gioca una parte, non piccola, del destino del nostro Paese. Per questo, come spiega Davide Zoletto nel suo saggio fresco di stampa per Cortina Straniero in classe (pp. 178, € 12), è più che mai necessario elaborare e praticare «una pedagogia dell’ospitalità».

NA

Il personaggio

Tuttolibri

SABATO 24 MARZO 2007 LA STAMPA

Vincenzo Rabito «Terra matta», generazioni cresciute assieme alla fame e alla fatica

III

IL LIBRO

nella testimonianza di un manovale siciliano, «illetterato» ricco di intelligenza e cuore

IL SECOLO DEL TERON UN VERGA PROLETARIO VINCENZO RABITO

Terra matta

MARIO RIGONI STERN

Dopo le prime dieci dodici pagine per prendere il ritmo e comprendere il senso preciso delle parole a noi insolite, la lettura corre via veloce così che tutto è chiaro senza leggere le note. Ho capito e seguito la vita di Rabito Vincenzo da caruso alla vecchiaia e ogni tanto mi fermavo, non per meditare su quanto leggevo nei ricordi delle teremate - con un’erre sola! - nella mia ormai lunga vita. Compagni incontrati in Albania, in Russia, nei Lager durante gli anni della nostra guerra. Cari compagni di sventura che per qualche ragione riuscivo a seguire anche nei loro dialetti; uomini che mi facevano leggere le lettere che ricevevano da casa magari attraverso strani giri; come quello che un giorno nel Lager I/B, un teron, mi pregò di leggere e poi di scrivere la risposta a una donna che l’aveva tradito e che, diceva, più l’avrebbe aspettato. Erano uomini che seppure illetterati avevano intelligenza e cuore più di tanti altri ritenuti colti. Leggete, leggete voi che ancora amate i libri questo Terra matta di Vincenzo Rabito, la vita di un manovale siciliano che con testardaggine e passione, e tanta verità, e forza e bravura di scrittore ha voluto lasciarci come testimonianza di generazioni cresciute assieme alla fame e alla fatica. Facciamolo leggere a chi ha ancora comprendonio e impariamo da lui anche noi che, dicono, sappiamo scrivere. Perché è un libro non inutile, direbbe Primo Levi. Commozione, rabbia, stupore, paura, dolore, odio, coraggio, ribrezzo, amicizia, dovere, finzione sono sentimenti umanissimi, anche e più sentiti dai semplici e dai poveri. Qui li troviamo tutti, genuini. La fanciullezza, la fame, il lavoro da piccolo caruso, l’affetto tra i poveri e l’arrangiarsi per sopravvivere. Poi la guerra. Zona di guerra, per dove si trova aveva scritto come suo indirizzo alla madre. Soffermatevi su quelle prime cinquanta pagine. Ho ritrovato la fatica e la verità dei nostri connazionali più umili e più poveri ai quali la patria aveva messo una divisa sulla pelle e un fucile in mano per uccidere dentro una guerra e non sapevano il perché. Certo, erano soldati un po’ disor-

EINAUDI, pp. 411, € 18,50

Vincenzo Rabito, nato a Chiaramonte Gulfi nel 1989, è scomparso nel 1981. La sua autobiografia - 1027 le pagine del dattiloscritto originale - ha vinto il «Premio Pieve-Banca di Toscana» nel 2000, ed è conservata presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Il testo pubblicato da Einaudi, a cura di Evelina Santangelo e Luca Ricci, ne è una scelta. Rabito scrisse le sue «confessioni» fra il 1968 e il 1975, servendosi di una vecchia Olivetti. Così l’ha «letta» la giuria del «Premio Pieve»: «Vivace, irruenta, non addomesticabile, la vicenda umana di Rabito deborda dalle pagine della sua autobiografia. (...) Rabito si arrampica sulla scrittura di sé per quasi tutto il Novecento, litigando con la storia d’Italia e con la macchina da scrivere, ma disegnando un affresco della sua Sicilia così denso da poter essere paragonato a un Gattopardo popolare». Eccone l’incipit: «Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola». Renato Guttuso, «Fuga dall’Etna», 1939: nelle memorie di Rabito rivive la Sicilia contadina tra Otto e Novecento

dinati e poco disciplinati e in quelle memorie scritte dopo tanto tempo, le date, le operazioni, le località e i toponimi non concordano; uno ci si perderebbe, e dopo aver capito qualcosa guarderebbe a questo raccontare fantasioso, ma anche vero, come qualcuno aveva guardato a Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu. L’incolto e il povero, dentro la guerra vivono un’esistenza che gli altri stentano a capire; è ben diversa la realtà vissuta del semplice, come da questo teron che non si autolesiona per non morire dilaniato, o per non essere catturato, e invece scrive: «Ma io questo non lo faceva, perché uno male sopra la mia persona non l’aveva il coraggio di farmilo». Dopo i combattimenti, come zappatore, viene messo a scavare le fosse per seppellire i morti e ricorda: «Quinte, se vedeva che erino più descraziate di noi italiani, queste povere soldate austriace, percé, prova ne sia che, quanto cera un morto austriaco e ci volemmo guar-

dare che cosa ci avevino nelle tasche, non ci trovammo mai cose per manciare, solo ci trovammo fomare e cartucce e bombe ammano. Sempre avevino cose per ammazzare, mai per manciare. Quinte stavano più male che noe». Le pagine della sua infanzia in Sicilia e come ragazzo del 99 nella Grande

Un ragazzo del ’99, da caruso alla vecchiaia, il sogno di un pezzo di terra da coltivare in Abissinia, lo sbarco degli Alleati Guerra sono da leggere per capire i tanti caduti ignoti dentro gli ossari; e quel pazzo valore della povera gente che per orgoglio, nel giugno del 1918, respinse la grande offensiva con la Battaglia del Solstizio che decise la guerra contro l’Austria-Ungheria. Il 3 novembre, sulla strada della Valsugana che porta a Trento, ricorda: «... e ci dovem-

mo contantare che avemmo vinta la guerra. E tutte ci abbiamo gurdate in faccia e tutte diciammo: Ancora manciare per noi non ci n’è. Abbiamo vinto la guerra e abiammo perso il manciare». Arrivati a questo punto, che già sarebbe un gran bel libro, continuando la lettura troviamo il dopoguerra con tutti i problemi dei reduci poveri e delle promesse non mantenute, e la nascita del fascismo. Rileviamo come un caruso siciliano ha visto i fatti di Ancona del 16 giugno 1920, quando i bersaglieri dell’11˚ reggimento si ammutinarono, rifiutando di imbarcarsi per l’Albania, con gli anarchici, i repubblicani e i socialisti che saccheggiavano le armerie. Ritroviamo la Firenze degli Anni Venti e, infine, ancora la Sicilia povera dell’interno, con la sua gente e una grande donna, Qurriere Salvatrice che è la madre di Vincenzo Rabito. Leggiamo di quel dopoguerra, della miseria, del fascismo, del sogno di poter lavorare, di andare in Abissinia per avere terra da coltivare e invece

si ritrova in camicia nera nel deserto libico e, infine, con gran fortuna, già ragazzo del 99, decorato al valore, ottiene un posto di stradino nella sua assolata Sicilia e cammina con badile e piccone sulle spalle per recarsi puntuale al lavoro. Tutti i personaggi che incontriamo in Terra matta li sentiamo vivi come pochi hanno saputo scrivere. Mi viene il ricordo di Verga, letto nella mia lontana giovinezza. Qui abbiamo un Verga proletario. Durante la Seconda Guerra Mondiale viene richiamato a fare servizio nella sua terra per fronteggiare lo sbarco degli Alleati e in quell’estate del 1943 si ritrova tra cannonate e bombardamenti, e italiani allo sbando e tedeschi che combattono. E soldati americani che parlano siciliano. Questo nostro carissimo teron testardo e operosissimo che volle vivere, interrompe il manoscritto nell’estate del 1970, ma raccoglie e ci consegna un secolo della nostra storia più sofferta.

NA

Narrativa italiana

IV

Tullio Avoledo è nato nel 1957 a Valvasone, in Friuli. Vive a Pordenone, dove lavora presso l'ufficio legale di una banca

Avoledo Tra inganni e tradimenti vacilla il sistema socio-economico

SE DILAGA LA BANCA SUPREMA

p Tullio Avoledo p BREVE STORIA

DI LUNGHI TRADIMENTI

p EINAUDI p pp. 390, €17,50 p ROMANZO

SERGIO PENT

Probabilmente Tullio Avoledo è un alieno. Se non lo fosse, si tratta comunque di una creatura speciale, uno spirito critico e lungimirante che vive tanto intensamente il suo tempo al punto da saper delineare le dinamiche del futuro prossimo con una precisione profetica allarmante. I romanzi di Avoledo si svolgono nel presente, ma è un presente ibrido, osservato con sarcasmo da qualcuno che quelle azioni, quei gesti, quei disagi, li ha pre-

LORENZO MONDO

Giovanni Donna d’Oldenico, medico di professione, coltiva forme di narrativa che, al di là della controllatissima scrittura, sono ricche di motivazioni spirituali. Aveva già scritto un romanzo, Polvere, in cui ispirandosi vagamente alla fantasia eroica ambientava in un Medioevo d’invenzione l’eterna lotta tra il Bene e il Male. Con il secondo libro, intitolato Giusto (Marietti, pp. 155, €15) fa un’operazione diversa e più originale, quanto meno dal punto di vista stilistico. Ad apertura di libro, c’è un uomo anziano che sta morendo e la moglie non vuole che chiuda gli occhi senza vedere per l’ultima volta il figlio. Si affanna dunque a cercarlo, a dorso d’asino e poi a piedi, inoltrandosi in luoghi impervi, in mezzo a gente di cattiva reputazione. Sono quelli

visti perché li ha creati. E da molto lontano. Leggendo queste storie tese, vibranti, programmate all'insegna di una quotidianità sempre subdola e inquietante dietro la facciata della normalità, si ha l'impressione di sfogliare le pagine di un giornale che analizza scopertamente gli eventi del nostro tempo, ma che arriverà in edicola solo tra qualche mese. Prima ancora che un robusto narratore, Avoledo è un legale bancario, un lettore onnivoro a 360 gradi, un musicofilo appassionato di suoni eleganti e appartati, un piccolo mostro dell'informatica e forse qualcos'altro ancora. Una mente critica, in sostanza, che sa rappresentare con sicurezza i pericoli insiti in una società come la nostra, dove i «file» del disastro planetario possono essere aperti in ogni istante. Dopo la limpida perfezione di un romanzo come Tre sono le cose misteriose, l'enigmatico profeta di Pordenone - come amiamo definirlo - si ripresenta in pista con un testo altrettanto generoso, come sempre ampio e variegato ma - anche questo è un dato singolare - privo di sovrabbondanze verbose e di parentesi riempitive. Il suo mondo è racchiuso abitualmente in nervose dinamiche socio-politiche in grado di allertarci senza sirene spiegate, di inquietarci senza l'impulso di cor-

rere al riparo, di impietrirci perché a un segnale d'allarme totale non si può restare indifferenti. Ritroviamo qui Giulio Rovedo, il legale del Nord-Est già protagonista del romanzo d'esordio, L'elenco telefonico di Atlantide. Rovedo è ormai una foglia al vento in balia di eventi economici che tendono sempre più a destabilizzare gli equilibri individuali e mondiali. Un numero tra numeri sempre meno determinanti, una pedina inconsapevole nel gioco messo in piedi dalla giovanissima, sensuale ma impenetrabile in tutti i sensi - Cecilia Mazzi, che giunge come un fulmine biondo ad annunciare la madre di tutte le fusioni bancarie, dopo l'inatteso suicidio del precedente capo del personale e qualche testa eccellente tagliata in diretta. Cecilia Mazzi chiama a sé il pavido Rovedo, un giovane e oscuro calabrese laureato in economia e una altrettanto oscura segretaria d'ufficio, per farsi accompagnare in un'impresa che li porta nel Sugaiguntung, fittizia repubblica dell'Indonesia in cui dovrebbe avere inizio una tentacolare operazione di «offshoring» mirata a decentralizzare in paesi nuovi, poveri o alternativi le risorse della Banca Suprema. Il romanzo si gioca sulle diaboliche, imperscrutabili manovre di personaggi assurdi quanto reali che cercano di destabilizzare le sicurezze del sistema socio-economico mondiale: solo questo è lecito rivelare. UN MONDO ALLA «MATRIX»

Tra inganni e tradimenti - non ultimo, quello quasi platonico ma diabolico di Rovedo con la robotica Cecilia - personaggi che sembrano usciti da un mondo alla Matrix con la ventiquattrore e il consueto, quasi obbligato finale proiettato in un futuro appena dietro l'angolo, Avoledo gestisce un progetto distruttivo esemplare e altisonante, sparandoci addosso tutte le sue conoscenze tecno-informatico-economiche, ma sempre all'insegna di una pacata quotidianità da romanzo iperrealista. E' proprio l'istintiva capacità di manovrare il presente nei suoi minimi elementi di disagio gli affetti, la precarietà del lavoro, i veloci sovvertimenti di prospettiva - che ammiriamo in questo scrittore che riesce a vedere molto più lontano della nostra classe politica media impegnata in una perpetuo harakiri da oratorio. Sono pochi, pochissimi, i nuovi narratori che sanno analizzare con impegno - e senza mancare di rispetto al lettore - i deliri sempre più allarmanti della nostra società: Scurati, Covacich, Saviano col suo pericoloso exploit, su tutti. E Tullio Avoledo, in una ancor limitata ma davvero buona compagnia.

Donna d’Oldenico «Giusto», il patto inaudito di una donna con l’angelo

A DORSO D’ASINO FORSE UN PROFETA che sembra prediligere questo figlio in fama di profeta, animato da una «gagliarda socialità» che imbarazza e tiene in ansia i genitori. Ma dove passa - tra prostitute, ladri e manigoldi - lascia un segno, di turbamento e di suprema conciliazione. E’ sempre stato diverso, fin dalla nascita, quando per sottrarlo alla caccia di armigeri spietati la famiglia fu costretta a emigrare, attraverso il deserto, in un paese lontano. Dovettero la loro salvezza a un predone che, dopo averli

catturati per venderli come schiavi, sembrò ammansirsi davanti al tenero fardello. A distanza di anni, la madre incontra in una taverna il vecchio bandito che si offre come guida nella sua ricerca. E il figlio ritrovato tende amichevolmente la mano a quell’uomo, dicendo: «Verrà il tempo in cui ti ricambierò il favore, Barabba». E’ il solo nome che ricorre nel racconto e getta piena luce sull’identità dei personaggi, sul patto inaudito che la donna ha stretto a suo tempo con l’angelo annun-

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SABATO 24 MARZO 2007 LA STAMPA

PAROLE IN CORSO GIAN LUIGI BECCARIA

IL CERVO CORNA D’AMERICA

S

tefano Mattioli, zoologo, addetto di una disciplina molto giovane, la «gestione faunistica», che si occupa delle tecniche per il censimento della fauna selvatica, della salvaguardia della fauna delle aree protette ecc., mi scrive lamentando che la giovinezza della disciplina in Italia si rifletta nella terminologia, portando cioè ad accettare molti termini stranieri. I colleghi torinesi osserva - attingono dal francese, e chiamano il cervo maschio di un anno «daguet», i triestini e trentini attingono invece dal tedesco e chiamano «Flehmen» l'arricciamento del labbro superiore del camoscio, la maggioranza infine si appiattisce sull'inglese e usa «yearling» per indicare l'esemplare di un anno, «marker» per marcatore genetico, ecc. Ci sono molti termini regionali - dice Mattioli - che potrebbero soppiantare le parole straniere. Da un secolo i cacciatori triestini chiamano la torretta di osservazione «altana» (ingl. high seat, ted. Hochsitz). E si pensi alle guardie da caccia della Tenuta Presidenziale di San Rossore che chiamano i maschi adulti di daino «palanconi» e quelli subadulti «balestroni» per via della forma dei palchi (cioè delle corna). Sono piuttosto pessimista in proposito, non per quanto riguarda le sorti dell'italiano, che è una lingua di cultura ancora autonoma e vitale. Lo sono quanto al lessico tecnico-scientifico. Andiamo decisamente verso un conguaglio e una omologazione del lessico su quello americano. Le lingue scientifiche nazionali sono in pericolo. I thesauri informatici specializzati non offrono più corrispondenze della nostra tradizione europea, e tutto questo sta portando alla eliminazione occulta della nostra fulgida e lunga tradizione linguistica, da Galileo ai naturalisti del Settecento, da Lagrange a Peano.

ziante, sull’umiltà dello sposo, l’uomo giusto, che accetta di annullare la sua paternità, di «associare la propria finitudine all’infinitezza di Dio». A questo punto sappiamo anche quale scambio sacrificale avrà luogo tra Barabba e l’innominato profeta. Giusto, quanto al contenuto, sembrerebbe proporre episodi sconosciuti di un vangelo apocrifo. Ma non ne rispecchia il candore. L’immaginazione, sollecitata ancora una volta dagli spazi bianchi del testo sacro, ubbidisce invece a una tutta moderna intelligenza. La presa del racconto sta proprio nella ricercata indeterminatezza in cui è calata una vicenda in sé notissima, nei personaggi resi anonimi come se dovessero in primo luogo svelarsi a se stessi: prendere a poco a poco coscienza di una sorte che li solleva dalla gente comune per incidere a lettere di fuoco i loro nomi nella storia e nella leggenda.

Esordio Nella «Stanza di sopra»

l’adolescente di Rosella Postorino

UNA FIGLIA NEL NOME DEL PADRE Rosella Postorino è nata a Reggio Calabria nel 1978. Vive e lavora a Roma

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Rosella Postorino LA STANZA DI SOPRA NERI POZZA pp. 197, €15 ROMANZO

BRUNO QUARANTA

Che cosa c’è di vivo (la vita condizione prima del romanzo) in La stanza di sopra, l’esordio di Rosella Postorino, scrittrice sospesa fra la Liguria di Ponente e Roma? Apparentemente (e non solo apparentemente), la vita, qui rappresentata nell’estrema sua folgore che è l’agonia. C’è un padre «immobile, da dieci anni», uno «spaventapasseri inutile che sta andando a male, sta marcendo dentro un letto nella mia casa, il letto nella stanza di sopra»; c’è una madre «senza sogni», «la testa che grida»; c’è una figlia che ostinatamente, disordinatamente, ma non avara di bussole, cerca il punto di equilibrio. E dunque: perché la domanda «che cosa c’è di vivo?». Perché, forse, Rosella Postorino eccede in lucidità. Nella sua officina, ogni destino è oltremodo chiaro. Mentre il narratore ideale (beninteso non si può rimproverare a un esordiente di non esserlo), come lo ritrae, per esempio, Giacomo Debenedetti, ha, sì, «ben fermo nella sua testa il suo progetto, il suo piano, nell’arco dinamico e conduttore della vicenda, dalla quale si sprigiona il senso di certi destini», ma poi, «nonostante questa sua lucidità sull’insieme, nonostante questa sua antiveggenza di quello che succederà», avanza «come un cieco sulla linea preventivata della trama (...), corre il rischio dei destini in cui si è immedesimato». Forse, Rosella Postorino, secondo un’immagine di Natalia Ginzburg, scrittrice natu-

ralmente nelle sue corde, così parrebbe, le tigri le porta a spasso, anziché liberarle, imbastendo una sfida a metà. Di capitolo in capitolo. Mai lungo. Talvolta brevissimo, quasi un «a sé», un intermezzo diaristico, dove sono gli inchiostri adolescenziali, ingenuamente sicuri, sapientemente ritrovati, a brillare: «Recidere tutti i papaveri sul bordo della strada. Strapparli alla terra. Portarli qui. Lanciarli sul mio letto per ricoprirlo. Un letto rosso, un letto di papaveri». Intorno a un letto spinato, nella Stanza di sopra, la quindicenne di Rosella Postorino compie la sua formazione. Giorno dopo giorno, inchinandosi alla tentazione e, insieme, respingendola: «Io non ho niente da spartire con quel pupazzo putrefatto, io non l’ho chiesto in cambio di nulla». Dipanando un gomitolo linguistico non irrilevante, spalancato alle metafore, all’indicatore di stile che sono, nonché alle immagini plastiche, però non ad effetto («La primavera ha aggredito gli scalini, li ha strizzati

Un uomo immobile, uno «spaventapasseri inutile», l’ostinata ricerca (infine possibile) di una comunione e li ha stesi»), Rosella Postorino sale le scale, a poco a poco, ma inesorabilmente, si avvicina al povero cristo. E’ un’ascesa cosparsa di cadute, obbediente a un radicale «bisogno di comunione». Vagherà, la ragazza che porta gli anfibi anche d’estate, fra il padre arcigno, arroccato, irriducibilmente avvinghiato al no, della migliore amica, a cui chiederà l’impossibile, la filiale intimità, e l’uomo della notte, l’uomo della festa («Vuole davvero fare l’amore con questi resti di donna? Con queste ossa di bambina?»). Infine trovando il sentiero salvifico, riuscendo cioè a varcare la soglia, aggrappandosi a «quella scultura intagliata nel letto», sussurrandogli «il suo lamento come l’unica ninnananna possibile», sconfiggendone la tenebra. Accorderanno un alfabeto padre e figlia: un pianto liberatorio li trasfigurerà, per sempre sventando lo schiaffo sveviano dell’incomprensione.

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Memoria

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SABATO 24 MARZO 2007 LA STAMPA

Nei ricordi di Paula Fox (foto AP), una galleria di immagini di vita americana tra le due guerre, negli Anni Venti e Trenta

Autobiografia L’infanzia e l’adolescenza randagie della Fox,

scrittrice di culto, tra l’orfanotrofio e la madre infine ritrovata

PAULA, UNA VITA SENZA VESTITI MASOLINO D’AMICO

In questa singolare, laconica ma intensa autobiografia Paula Fox l’oggi ottantaquattrenne scrittrice-culto di Jonathan Franzen e di altri narratori della giovane generazione, cui si aggiunge ora Melania Mazzucco, con una breve ma densa introduzione - ripercorre i fatti della sua infanzia e adolescenza randagia. Sono spesso lampi, episodi brevi, dettagli significativi: proprio come nella sua narrativa, campeggia il particolare apparentemente secondario ma pregno di riverberazioni, come può avvenire in una fotografia scattata a caso ma in qualche modo inquietante. E’ il suo metodo caratteristico, altrove, ma non qui, integrato con dialoghi di particolare asciuttezza. Paula Fox nacque nel 1923 da una coppia giovane, scervellata e fisicamente decorativa composta da una madre giovanissima di origine cubana e da un

padre aspirante sceneggiatore cinematografico a Hollywood. Costoro la abbandonarono prontamente in un orfanotrofio, donde fu tolta da un lontano parente, un flemmatico uomo di chiesa, che per alcuni anni, retrospettivamente ricordati come una sorta di età dell’oro, le diede un tetto e una certa sicurezza. A un certo punto però la madre, una donna inquieta, cronicamente insoddisfatta, sembrò volersela riprendere, in ogni caso la tolse al buon reverendo e cominciò ad affidarla sporadicamente alla propria madre e poi a una serie di custodi talvolta improbabili. Paula sperimentò un tumultuoso soggiorno a Hollywood con i genitori, poi un altro sulla costa opposta, a Long Island, con la nonna cubana e, di passaggio, quattro zii tutti più anziani di sua madre. Nel ’31, a otto anni, seguì la nonna a Cuba e fu ospite con lei in una piantagione appartenente a una ricca congiunta accudita da decine di servitori, fino allo scoppio di una rivoluzione che depose il

IL LIBRO

PAULA FOX

IL VESTITO DELLA FESTA traduzione di Gioia Guerzoni FAZI , pp. 248, €15

dittatore di allora. Poi ci fu New York; di nuovo la Florida con la nonna; poi il New Hampshire; ancora New York quando ormai Paula aveva quindici anni; un collegio femminile a Montreal; quindi New York ancora, e infine la California. Qui Paula ancora molto giovane sposa disastrosamente un attore che ha la tendenza a scomparire per lunghi viaggi oltremare, e qui ha una figlia, nata dal rapporto occasionale con un quasi sconosciuto. Il libro termina a questo punto, nei primi Anni Quaranta, ma c’è una coda di molti anni dopo, quando Paula quasi contemporaneamente rivede sua madre, ormai novantaduenne e moribonda, e viene contattata da quella figlia, che pur pentendosi subito dopo aveva dato in affidamento, in seguito non era mai più riuscita a rintracciare. L’arrivo di questa alleata inattesa sana in qualche modo la piaga sempre rimasta aperta del pessimo rapporto con la madre, e tra le due donne nasce una simbiosi fulminea e profonda che chiude un cerchio doloroso. Dolorosa infatti è stata tutta l’odissea di Paula, prima bambina poi adolescente, sempre lasciata a se stessa (tranne il periodo col pastore protestante), sempre incerta su cosa ci si aspetti da lei, sempre alla mercé dei capricci dei genitori, vittima della mai dissimulata ostilità della madre ma anche dell’inaffidabilità del padre, simpatico quando piomba all’improvviso ma egoista, leggero, incosciente (si tiene i suoi soldi, non paga i conti, le fa regali assurdi come, una volta, un piccolo alligatore vivo), e alcolizzato come Scott Fitzgerald, del quale offre una versione di serie bassa categoria. UN BALLO CON JOHN WAYNE

Il titolo Il vestito della festa modifica un po’ quello originale, Borrowed finery, ossia, «Bei vestiti presi in prestito»: una costante nella precaria esistenza di questa creatura abbandonata è l’assenza di abiti appropriati da mettersi. Da piccola ella si sente spesso diversa e ridicola nelle varie scuole dov’è mandata e dove non ha mai modo di mettere radici; quando è più grande, è costretta talvolta a farsi prestare indumenti da altre ragazze, di cui non è nemmeno grande amica. Moderne teorie sostengono che nell’uomo, come negli animali, la funzione della memoria non è tanto di deposito di dati sul passato a cui attingere quando vogliamo, quanto di magazzino di informazioni presumibilmente utili per il futuro: mi sono scottato la zampa sul fuoco, non ce la metterò più. Per questo chi ha avuto un’infanzia felice, priva di minacce, non ne ricorda quasi nulla, mentre chi invece ha avvertito sin da piccolo la necessità di captare ogni sintomo possibile per prevenire disgrazie future può sviluppare una capacità di ricordare addirittura implacabile. Da bambina Paula Fox ha registrato, si direbbe, tutto; e adesso è in grado di restituire, oltre a tanti episodi personali, una galleria di immagini di vita americana vissuta nel periodo tra le due guerre negli Anni Venti e Trenta dalla quale non sono non esclusi nemmeno certi aspetti glamorous, vedi il passaggio di qualche divo del cinema incontrato in carne ed ossa. Una volta le capita persino di ballare a lungo con un giovanissimo e simpatico John Wayne.

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BLOC NOTES MARAINI

Il gioco dell’universo = Lui etnologo, antropologo,

orientalista, scomparso nel 1993, lei l’artefice di «Marianna Ucrìa». Di taccuino in diario in poesia, Dacia Maraini ricostruisce la parabola intellettuale ed esistenziale del padre Fosco. «Il gioco dell’universo» (Mondadori, pp. 191, €17) è l’omaggio a un cittadino di dappertutto, sul filo di una raffinata curiosità. ANTOLOGIA

Favole, apologhi e bestiari = Da Chiaro Davanzati e dal

«Novellino» a Franco Marcoaldi, ai giorni nostri. Un’antologia di «Favole apologhi e bestiari» a cura di Gino Ruozzi per i tipi Bur (pp. 615, €14). Un «inventario» di moralità poetiche e narrative nella letteratura italiana, affollato di «maggiori», da Dante a Croce. CULICCHIA

Atto unico sul tram a Torino = C’era la deamicisiana

«Carrozza di tutti», l’omnibus di un mondo concluso. C’è, ora, il tram di Giuseppe Culicchia, su cui due coniugi scoprono che la loro città è cambiata, eccome. «Ritorno a Torino dei signori Tornio» (Einaudi, pp. 49, €8,50) è un atto unico scritto in occasione del centenario dell’Azienda tranviaria torinese. ALBERTO MANGUEL

Stevenson sotto le palme = Nella traduzione di Siivia

Bre, una novella di Alberto Manguel sugli ultimi giorni di Stevenson a Samoa («Stevenson sotto le palme», Nottetemo, pp. 75, €12). Manguel, originario di Buenos Aires, è autore di «Una storia della lettura». AFRICA

Gli stranieri portafortuna = Marco Aime e Lawa Tokou,

un antropologo e un cantastorie del Benin, presentano il popolo taneka attraverso alcuni racconti orali tramandati nel tempo: «Gli stranieri portano fortuna» (Epoché, pp. 143, €12).

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VI

Narrativa straniera

Lo scrittore Rick Moody visto da Levine (copy «The New York Review of Books» - Ilpa)

Rick Moody Un coacervo di trame

intorno alla sceneggiatura smarrita

L’ATTORE IN CIMA AL POZZO

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Rick Moody DIVINERS. I RABDOMANTI traduzione di Licia Vighi BOMPIANI pp. 544, € 20 ROMANZO

CLAUDIO GORLIER

Che bello, non dover raccontare la trama di un romanzo. Sta di fatto che nell’ultimo, poderoso ma assai leggibile libro di Rick Moody, Diviners. I Rabdomanti, di trame ce n’è una caterva, incrociate, sovrapposte, manipolate. Nessuno stupore: se di nouveau roman si può parlare oggi negli Stati Uniti, o meglio di romanzo trasversale, mediatico, emulsionato, allora bisogna pensare a Moody, da Tempesta di ghiaccio, portato sullo schermo da Ang Lee, a Il velo nero. Moody è Moody, e tanto basta. Il recensore del New York Times Book Review ha definito I Rabdomanti «un libro ineluttabile». Cominciamo dal titolo, il quale rimanda agli specialisti nel trovare fonti d’acqua potabile. In realtà, Moody si riferisce alla sceneggiatura di una miniserie televisiva, una specie di saga generazio-

nale paragonabile - è stato osservato - a una produzione di immane successo tratta da un romanzo, Radici. Disgraziatamente, Annabel, segretaria della produttrice, Vanessa Meandro di Brooklyn, ha perduto la sceneggiatura e deve arrabattarsi per inventarne un’altra. Scatta così una serie - il termine che uso non è casuale - di vicende supremamente mediatiche, con una folla di imprevedibili personaggi. Diciamo intanto che Vanessa, pur giovane, soffre di obesità, male insidioso e quanto mai diffuso oggi negli Stati Uniti, che sogna il successo e discende da antenati rabdomanti. A parte Annabel, un altro personaggio chiave emerge imperiosamente, in effetti l’inventore dell’idea portante della sceneggiatura. Si tratta di Thaddeus Griffin, africano-americano, apprezzato attore di film di serie B, magniloquente, pieno di sé e privo di scrupoli. Che tipo è, sostanzialmente, Thaddeus? Eccolo, nelle pa-

I VIAGGI DI AUSTER L’autore e i suoi personaggi. Destini che s’incrociano, responsabilità che esigono d’essere rischiarate. E’ il filo su cui scorre «Viaggi nello scriptorium» di Paul Auster (Einaudi, pp. 111, €14,50, traduzione di Massimo Bocchiola). Di Paul Auster, sempre da Einaudi, le poesie, con il titolo «Affrontare la musica» (stesso traduttore, pp. 288, €15).

role di Moody: «Il classico dongiovanni affetto da svariate malattie veneree e da uno spiccato desiderio di morte, con alle calcagna una schiera di giornalisti di cronaca rosa che spiano ogni sua mossa e che si ubriacano mettendo il conto in nota spese». Thaddeus corteggia Annabel, e così si guadagna l’accesso alla Mezzi di Produzione, l’agenzia di Vanessa. C’entra pure, notate, l’Italia, nel senso che Rosa Elisabetta Meandro, madre di Vanessa, è di discendenza italiana; i suoi venivano da Siena, erano ovviamente rabdomanti, e Rosa rammenta - in italiano nel testo originale - il suo caro paese. A Pienza, sempre in Toscana, gli ascendenti erano stati coinvolti nella storia complicata di un pozzo. In quanto a lei, «formidabile... era stata rispettabile madre di quartiere, custode delle aree di parcheggio per i vecchi residenti nell’isolato, patrocinatrice della comunità e delle parrocchie locali, funzionario elettorale». Unico, fatale errore della sua vita, lei, nata Viscusi (nome, secondo me, non casuale, di un rispettabile professore universitario di Chicago), aver sposato Claudio Meandro, un ubriacone, il cui cognome, chiaramente, possiede una valenza simbolica. Le vicende che si accavallano e si intrecciano nel romanzo, la miriade di sottotrame, possiedono il ritmo e il taglio, non a caso, di veri e propri episodi di programmi televisivi o indirettamente cinematografici, portando continuamente in scena sviluppi inaspettati, non di rado tragicomici: un vero caos organizzato. Moody, nel suo recente giro in Italia, ha secondo me appropriatamente letto al pubblico il diciottesimo capitolo, dove realtà quotidiana e magia si fondono. Senza contare l’episodio della donna colpita in testa da un mattone misteriosamente caduto: caso o studiato attentato?

«I rabdomanti»: tra America e Italia vicende supremamente mediatiche, una folla di imprevedibili tipi Alla fine, dopo un affollarsi di sorprese e di combinazioni, la vicenda della sceneggiatura riprende nelle mani di due nuovi personaggi, uno dei quali, eminente magistrato, sta appunto progettando una sceneggiatura sanamente americana, «qualcosa di patriottico», con dentro «Dio e la nazione». Si conclude «come tutte le belle storie». Così, con estrema ironia, si chiude il romanzo, ritratto di un’America virtuale, multietnica, concreta in quanto, paradossalmente, immaginaria. Moody si pone quale espressione estremamente significativa di una narrazione deliberatamente satura, e non a caso lui ama prendersi gioco dei minimalisti, che, spiega, non sono mai davvero esistiti. Il pensiero va, tra i suoi modelli, molto chiaramente a Thomas Pynchon, e un parallelo piuttosto evidente si può additare in DeLillo, in particolare quello di Underworld. Con una trasparente civetteria, Moody sostiene che ormai New York non è più America, ma soltanto se stessa, e dunque confessa il suo debito per scrittori europei, ad esempio Thomas Bernhard. Ma la sua torrentizia, folgorante inventività linguistica, la sua mesmerizzante strategia narrativa, sono ben americane. Complimenti a Licia Vighi per la sua ammirevole traduzione.

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SABATO 24 MARZO 2007 LA STAMPA

Fernando Royuela Storia cattiva, terribile, ma tremendamente bella

LO SPIETATO NANO DI SPAGNA

p Fernando Royuela p LA MALA MORTE p traduzione di Federica Frasca revisione di Virginia Caporali

p VOLAND p pp. 327, €13

Lo spagnolo Fernando Royuela PAOLO COLLO

Bisogna proprio dire che è ben strano il destino - la fortuna - dei libri e di conseguenza dei loro autori. Anche di quelli scritti in lingua spagnola. Se da una parte si assiste infatti ai successi - decine di migliaia e, in alcuni recenti casi, centinaia di migliaia di copie vendute nel nostro Paese dei cosiddetti libri «di intrattenimento», un po' sulla ben collaudata ma ripetitiva falsariga americana di misteriosi misteri, di misteriose sette e di misteriose congiure, così di moda ma certamente di non eccelso valore letterario; dall'altra assistiamo alla pubblicazione di vere e proprie «perle» che però ben di rado riescono a imporsi a un pubblico un tantino più vasto di quello che poi finisce per leggerli. Mi riferisco ad autori come Soler, Martínez de Pisón, Atxaga, la giovane Portela o il vecchio Pombo, tanto per non fare nomi (ma sono molti di più, ve lo assicuro). Autori bravi e di qualità, ma non per questo noiosi o ermetici. Autori che sanno inventare e raccontare e soprattutto slegati dalle mode e dai «generi». Ma forse è inutile stupirsi ogni volta (e ripetersi). Però

non potevo evitare una simile e scontata premessa dopo aver letto La mala morte. Il suo autore, Fernando Royuela (Madrid, 1963), assai considerato nel suo Paese, ha inoltre pubblicato El prado de los monstruos (1996), Callejero de Judas (1997) e il recente - e psichedelico - Violeta en el cielo con diamantes (ogni riferimento a un noto brano dei Beatles «non è» puramente casuale). E questo La mala muerte, apparso nel 2000 e subito premiato (Premio Ojo Crítico), è un libro cattivo, terribile, ma tremendamente bello. E' la storia di un nano, che si chiama Grego-

«La mala morte»: Gregory il Grande distrugge tutti i miti del passaggio al dopo-Franco rio, ma anche Nano, o Goyo, o Goyto, o Gregory il Grande, o..., e che così si presenta al mondo (e ai lettori): «Mio padre doveva essere un figlio di puttana qualunque, che fecondò a casaccio il ventre di mia madre. Forse era uno dei camionisti che, sulla strada per Valencia, si fermavano a pranzare al Paquito, alla pe-

riferia del paese, lungo la statale. Era lì che mia madre lavorava. Preparava stufati, lavava tegami, serviva al bancone e faceva dell'altro quando le pigliava la voglia o le pagavano il servizio». E poi, un fratello morto schiacciato da una locomotiva e un padre putativo malato di tubercolosi... Gregorio finirà per sedici lunghi anni a lavorare nel circo dell'italiano Stefano Di Battista (a cui era stato venduto da sua madre), accanto alla bella Doris e ai fratelli CulíCulá. Ma da quella sorta di maleodorante schiavitù riuscirà a fuggire, solo e senza documenti, proprio il giorno in cui a Madrid viene fatto saltare in aria Luis Carrero Blanco, presidente del Governo spagnolo, «...si librò nell'aria come un santo che levitasse per amore di Cristo, solo che l'aiutò il plastico che i terroristi gli fecero esplodere sotto i piedi». Sono questi gli ultimi anni della dittatura del Caudillo, che Royuela ci fa rivedere attraverso gli occhi cisposi, cinici, infiammati dalla fame e dall'alcol di Gregorio: «Francisco Franco Bahamonde, Caudillo di Spagna per grazia di Dio, era un cadavere in preda alla flebite che sopravviveva grazie a un respiratore; un rottame intubato dal cui naso uscivano cavi simili a estremi cordoni ombelicali, che faticosamente lo tenevano ormeggiato a questo mondo in un tentativo di immortalità destinato al fallimento». La sua è una visione crudele, che distrugge tutti i miti, retorici, eroici, di destra, di sinistra, democratici, buonisti, del passaggio al dopo-Franco. E la stessa Madrid ci appare come mai l'abbiamo vista - quasi dickensiana, scura, sporca, piovigginosa -, dipinta con un realismo che ci riporta a L'alveare e a La famiglia di Pascual Duarte di Cela o a Sudore di Amado. Una scrittura feroce, ai confini della blasfemia e della coprolalia, ma sempre perfetta, studiata, sensata (e resa in italiano all'altezza dell' originale). E per Gregorio - cui sicuramente spetterebbe un posto tra i personaggi inventati dalla narrativa spagnola - sono anni di furti, di elemosina, di truffe, di delazione, di morte, di estrema violenza, di personaggi e azioni innominabili vissuti come la più assoluta «normalità». Ma poi le cose cambieranno, e così pure la vita dello spietato Nano (ma è bene che siano i lettori a scoprirlo). Fino alla fine, fino alla sua di mala morte: «L' avventura finirà, non c'è dubbio, come deve finire, come è scritto, come è inevitabile che accada». Un libro difficile da dimenticare.

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Confronti

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SABATO 24 MARZO 2007 LA STAMPA

George Steiner: nel suo saggio sviluppa dieci variazioni su un tema della filosofia di Schelling molto caro anche a Pareyson. Steiner terrà a Torino il 29 marzo una lectio su «Un verso di Dante» per il ciclo «I Nove Maestri»

Filosofia Le meditazioni di Steiner

sull’enigma del male, una sfida etica

TRISTEZZA È LA NOSTRA ORIGINE

p George Steiner p DIECI (POSSIBILI) RAGIONI DELLA TRISTEZZA DEL PENSIERO p trad. di Stefano Velotti p GARZANTI, pp. 90, €11

GIANANDREA PICCIOLI

Uno dei temi ricorrenti nell'opera di George Steiner è quello dell'impotenza della cultura: nella Germania di Hitler si studiavano i grandi filosofi tedeschi, si leggeva Goethe, si assisteva a teatro alle opere di Shakespeare tradotte da Schlegel, si ascoltavano il Fidelio e l'altra musica sublime, Nona compresa, eppure accanto a quei teatri, a quelle sale da concerto, a quelle case dove Bultmann e Gadamer trascorrevano serate a discu-

tere di tragedia greca, passavano i treni piombati. E del resto anche oggi nessuno di noi riesce non dico a impedire ma nemmeno a rallentare anche solo una minima parte degli orrori che ci circondano. Invecchiando, e quasi inconsapevolmente tracciando il bilancio di un'esistenza vissuta tra i libri, Steiner radicalizza il discorso: è il pensiero stesso di ogni vivente, uomo o altro essere, che è percorso fin dall'origine dal senso del suo limite. In Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, ora da Garzanti nella bella traduzione di Stefano Velotti, sviluppa dieci variazioni su un tema schellinghiano molto caro anche a Pareyson: il fondamento oscuro e inerte, il dio prima di Dio, da cui si separa ogni esistenza ma che come un'ombra continua a sovrastare ogni essere, quello divino compreso, e che è la «sostanza» entro cui si accende la libertà ma che con la sua inerte passività incombe anche come male su tutta la creazione. Di questo grandioso mito teogonico, che qui non è possibile riassumere, Steiner conserva il senso di ineliminabile tristezza «la grigia massa di nausea nascosta nel cuore dell'essere» che vibra insieme con le onde cosmiche dell'inizio e che ac-

Politica Fiamma Nirenstein accusa la sinistra, pacifista e antisionista

PERCHÉ ODIATE ISRAELE, SIMBOLO E MODELLO? p p p p p

Fiamma Nirenstein ISRAELE SIAMO NOI Rizzoli pp. 260, €17,50 SAGGIO L’autrice vive a Gerusalemme e scrive per «il Giornale» e «Panorama». Tra i suoi libri, «L’abbandono: perché l’Occidente ha tradito gli ebrei»; un’intervista a Bernard Lewis («Islam: la guerra e la speranza»); «Gli antisemiti progressisti», editi da Rizzoli

compagna ogni pensiero: «L'esistenza umana, la vita dell'intelletto, significa un'esperienza di questa malinconia e la capacità vitale di superarla. Siamo stati creati, per così dire, «rattristati». (…) Un velo di tristezza (tristitia) è steso sul passaggio dall' homo all'homo sapiens. Il pensiero porta con sé un'eredità di colpa». L'origine del tutto e la tristezza del pensiero sono come un'erma di Giano posta alla partenza del tempo. Non si può seguire, variazione per variazione, l'articolarsi del discorso steineriano. Ogni capitolo del breve, brillante saggio affronta un aspetto del tema: infinità del pensiero e totalità del reale, rapporto tra pensiero e dicibile, tra originalità e ripetizione, pensiero e verità («Come le "superstringhe" della moderna cosmologia, le "verità" vibrano in dimensioni molteplici, inaccessibili a ogni prova definitiva»), dispersione e oblio, e quindi dispendiosità del pensiero, sua incompiutezza e opacità («Nessuna luce finale, nessuna empatia d'amore dischiude il labirinto dell'interiorità di un altro essere umano»), sua capacità di apprensione («Noi siamo le creature abilitate ad affermare o negare l'esistenza di Dio»).

Domande Anni 50 Zavattini

VIENE IN MENTE SINGER

Cesare Zavattini, vulcanico inventore anche di giornalismo

Come sempre in Steiner (basta ricordare lo splendido terzo capitolo di uno dei suoi libri metodologicamente più rivelatori, Le Antigoni), il moto della riflessione oscilla tra estremi opposti e al lettore è lasciata la soluzione o, più probabilmente, la sospensione dell'enigma. Vengono alla mente i grandi interrogativi senza risposta, perfino ingenui nella loro essenzialità e imbarazzanti per il nostro bon ton intellettuale, che percorrono i racconti di un altro grande ebreo, Isaac Bashevis Singer. Ma sono le sole domande che vale la pena di porre: «Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell'enigma della natura o dello scopo, se ce n'è uno, della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte e alla possibile presenza o assenza di Dio. Potremmo anche essercene allontanati». Un enigma sospeso non è inutile, come tende a sostenere la gran parte della cultura contemporanea, tutta volta all'acquisizione di certezze verificabili: è piuttosto un pungolo alla problematicità, una difesa dagli slogan ideologici o dogmatici, un contributo a dare sostanza etica ai nostri atti.

ALBERTO SINIGAGLIA

Israele eravamo noi, che capimmo quel sogno e fummo stupefatti nel vederlo realizzato. Il ritorno d’una parte del popolo ebraico sui luoghi della Bibbia, tanto più agognati dopo la gratuita caccia all’ebreo che si era scatenata in Europa. Il fuggire lì da altre persecuzioni: un’immigrazione, senza precedenti per entità e rapidità, da Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Libia, Libano, dallo Yemen, dall’Urss. Il prodigioso fondersi di lingue, di costumi, in armonia con chi non aveva mai lasciato quella terra, dove si diceva palestinese chi pregava il Dio di Abramo e chi pregava Allah. Israele eravamo noi, sedotti dalla semplicità di Ben Gurion e Golda Meir, i capi pionieri; dal socialismo realizzato nel kibbutz; dal deserto trasformato in orti e giardini; dalla cultura seminata tanto prima che nascesse lo Stato: Palestine Orchestra (oggi Filarmonica

dava la parola a chi non aveva voce

SENTIRE LA PELLE D’ITALIA

p Renzo Martinelli (a cura di) p DOMANDE AGLI UOMINI di CESARE ZAVATTINI p Le Lettere p pp. 215, €15

GIORGIO BOATTI

Se in futuro qualcuno si proverà a narrare la storia del nostro Paese anche attraverso le rubriche giornalistiche via via apparse sulle più diverse testate dovrà riconoscere a Cesare Zavattini quell' indiscusso primato di originalità che il vulcanico «Zac» sapeva imprimere ovunque mettesse mano. Di rubriche connotate dal suo personalissimo approccio Zavattini ne mise alla luce per quel che si sa - due. La pri-

d’Israele) inaugurata da Toscanini settant’anni fa, Politecnico di Haifa (1924), Università di Gerusalemme (1925), Teatro Habima (1931), l’Istituto Witzmann (1934). Israele siamo noi, afferma Fiamma Nirenstein, ben sapendo che oggi è difficile trovare chi assenta. Eppure, con rabbia e con orgoglio, ne fa il titolo del nuovo libro, in copertina i colori della bandiera israeliana. Sì, fa pensare alla Fallaci per il piglio che a tratti assume, per la passione che non nasconde, per l’allarme che con Oriana condivide nel planetario incalzare dell’integralismo islamico. Ma, giornalista da anni a Gerusalemme, bada a cifre, date, fatti. Anche ai più sgradevoli: un capo di Stato che commette reati sessuali, uomini corrotti al governo, errori politici e militari, un generale rimosso per la disastrosa missione in Libano. Come possiamo dire: Israele siamo noi? Fiamma Nirenstein spiega perché possiamo. Pur sapendo

ma, «Italia domanda», in realtà era stata pensata, nel 1947, come testata settimanale da pubblicare presso Mondadori. L'intenzione era quella di fare un periodico dove la gente comune, avvicinata nei più svariati luoghi del Paese, potesse attraverso i giornalisti porre le domande più pressanti, anche le più scomode. I quesiti avrebbero dovuto essere pubblicati senza alcuna censura né limite. Il ruolo della redazione sarebbe stato di individuare chi poteva adeguatamente darvi risposta. Nell'intenzione di Zavattini i giornalisti avrebbero dovuto soprattutto interpellare i potenti chiamati in causa, affinché rispondessero in modo adeguato. Alla fine, nel 1950, da questa idea, scartata l'ipotesi del settimanale, scaturì una rubrica per Epoca, salutata da grande successo sin dal primo numero. La seconda rubrica «Domande agli uomini» venne alla luce sei anni dopo, nell'autunno del 1956, e per circa un anno apparve ogni settimana su Vie nuove, testata a vasta diffusione popolare. Come spiega Renzo Martinelli nella sua bella introduzione al libro che ora raccoglie le Domande agli uomini di Cesare Zavattini, a far approdare la rubrica sul settimanale edito dal Pci fu quasi certa-

Fiamma Nirenstein

quanto sia arduo far capire che non è un chilometrico «muro di apartheid» quello che per gli israeliani è un «recinto di difesa» da un terrorismo suicida che non distingue cittadini ebrei e arabi, che ha fatto migliaia di vittime civili sugli autobus, nei luoghi di svago, nelle università. Pur sapendo che quasi nessuno si preoccupa per le minacce del rais iraniano che vuole annullare Israele. Pur sapendo quanto pervasivamente

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mente Fidia Gambetti (già vice-direttore), legato a Zac da fraterna amicizia. «Domande agli uomini» partiva sempre dall'idea che aveva ispirato anche «Italia domanda»: il ruolo del giornalismo è quello di dare la parola a chi solitamente non ha modo di far ascoltare la propria voce, per consentire loro sia di porre le domande che contano sia di raccontare del proprio vivere. Spiegando il senso della rubrica Zavattini scriveva: «Credo che i capi perdano spesso il tatto, la loro mano non sente più, toccando gli avvenimenti, che sono tutti composti di pelli umane. In questa rubrica vedremo un po' di queste pelli umane…». E infatti nelle 39 storie - tutte le puntate della rubrica - vengono incontro personaggi che hanno molto da raccontare di sé e di un'Italia densa di una saggezza e di un'ironia che le domande degli intervistatori sanno valorizzare in modo sapiente. Zavattini, in questa rubrica, si riserva il ruolo del regista che suggerisce gli interrogativi più spiazzanti - «che cosa ne pensa dei capi?», «che cos'è Dio per lei?», «come spenderebbe un milione vinto al Totocalcio?» - a due collaboratori, Lucio Battistrada e Piero Anchisi, che percorrono in lungo e in largo la penisola, intercettando nei modi più informali le persone poi intervistate con esaustiva larghezza (la rubrica occupava una pagina intera). Ne escono personaggi indimenticabili, il cameriere saggio e un po' cinico, l'ex disoccupato napoletano che avendo un passato da borseggiatore sul tram tiene sempre le mani in tasca, per evitare guai. Non poche figure, di grande impatto, sono al

In una rubrica della rivista «Vie nuove» lo specchio di un Paese lontano anni luce da Vallettopoli femminile: come la ragazza che a Roma lavora al tiro al bersaglio, dura e fragile al tempo stesso. O la donna di Fornero, Valle Strona, madre di otto figli che un giorno, distrutta dalla fatica, confessa al marito di aver voglia di morire. La risposta di lui è brutale: «Fai presto, vai giù al ponte e ti butti». Poi però le aggiunge: «La vita è una lotta. Dobbiamo tener duro insieme». La donna racconta di aver pianto ma poi, dice, «Ho capito che aveva ragione. Mi aveva dato più forza che se mi avesse carezzato». Un'altra Italia, lontana anni luce da Vallettopoli. [email protected]

si confondano antisemitismo, antiamericanismo e odio per Israele. Dove ha germinato quell’odio? Perché quanto s’intrecciò con il fascismo e con il nazismo oggi contamina la sinistra e il pacifismo? Come si può dialogare con il terrorismo, addirittura giustificare Hamas, la cui storia è «punteggiata da centinaia di attentati ignobili»? Con autobiografica sincerità, che farà molto discutere, l’autrice vede l’origine del male nella propria generazione: la sua voglia di libertà e diritti umani è degenerata nel «tragico incontro» con il comunismo. «L’ispirazione sociale e pacifista si è trasformata in una macchina giustificazionista di comportamenti contrari alla morale». Del tutto insensibili al farsi della storia, «abbiamo chiamato “resistenti” i terroristi in Iraq; non abbiamo voluto capire, per paura, il messaggio delle Torri Gemelle». Israele, dunque, siamo noi perché simbolo della minaccia che ci sovrasta?

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Idee

Tuttolibri

SABATO 24 MARZO 2007 LA STAMPA

La Lucy dei Peanuts di Schultz nella sua veste di psichiatra

Psicoanalisi Evoluzione e pratica

di un sapere ormai «senso comune»

CI SERVONO I MISTERI DELL’ANIMA AUGUSTO ROMANO

Ma davvero la psicoanalisi è finita? Le campane a morto non cessano di suonare, ma anche si sa che le liquidazioni affrettate esprimono desideri e timori piuttosto che constatazioni. E allora converrà seguire Eli Zaretsky, che in questo interessante saggio si assume il compito di storicizzare la psicoanalisi, di mostrare cioè le linee delle sue trasformazioni, collegandole con le vicende politiche e sociali che hanno punteggiato il secolo passato. Questo approccio ci permette anzitutto di renderci conto che la psicoanalisi ha prodotto effetti duraturi nella mentalità collettiva: essa ha permeato il modo di percepire noi stessi e il mondo circostante, inserendosi in quel vasto ed eterogeneo movimento di emancipazione individuale e sociale che, tra utopia e realtà,

è stato uno dei principali fattori di trasformazione (una volta si sarebbe detto «di progresso») nella società contemporanea. Una storia sociale della sensibilità sarebbe certamente incompleta se non registrasse un lessico ignoto ai nostri nonni ed oggi sulle labbra di tutti: inconscio, lapsus, complesso, sessualità, Super Io non sono soltanto parole ma segnali che indicano possibilità, interpretazioni, giudizi, stimoli all'azione. Semplificata, volgarizzata, spesso travisata, la psicoanalisi è entrata, nel bene e nel male, nel sentire comune. Ma allora, quale psicoanalisi è morta? Per rispondere, dobbiamo seguirne la storia, assumendo come punti di riferimento due assi fondamentali, entrambi correlati con le vicende sociali. Il primo riguarda la sua evoluzione interna. La psicoanalisi nasce come teoria e pratica della soggettività: postula cioè una individualità distinta dai ruoli e centrata sulla interio-

rità. In parallelo con la crisi dei contenitori collettivi (famiglia, chiese), la rivoluzione freudiana si pone come esigenza di liberazione dell'individuo dalle immagini inconsce dell'autorità. In questo modo, inaugura contemporaneamente una prassi terapeutica, una interpretazione della cultura e un'etica dell' esplorazione interiore. Da questo punto di vista, mentre sostituisce agli atteggiamenti censori della società patriarcale lo spirito della comprensione analitica, rinforza i valori della democrazia come prassi antiautoritaria. Al tempo stesso però, come nota Zaretsky, descrivendo l'individuo come eternamente desiderante, fornisce una sorta di sostegno ideologico alla crescita della società dei consumi. Naturalmente, non era questa l'intenzione di Freud, la cui ispirazione puritana lo induceva a immaginare l'individuo maturo, «analizzato», come colui che è in grado di tollerare la frustrazione e di rimandare la gratificazione. Negli Anni 30 del secolo scorso, e in modo più impetuoso dopo la seconda guerra mondiale, si impone un nuovo paradigma, imperniato non più sul padre ma sulla madre. Di conseguenza, vengono in primo piano i temi della vulnerabilità e della dipendenza e i bisogni di rispecchiamento e di riconoscimento. Mentre la psicoanalisi classica vedeva nel nevrotico una pulsione rimossa che cerca soddisfazione, le nuove correnti focalizzano l'attenzione su un Io narcisistico ferito che cerca rassicurazione. Sul piano della tecnica, aumenta l'importanza della relazione personale terapeuta-paziente, improntata al contenimento e all'accoglimento. E' questa una linea che, anticipata da Jung e Ferenczi, giunge a Kohut e oltre. Il secondo asse definisce la contrapposizione tra un orientamento «conservatore» ed uno che, a seconda dell'accen-

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Eli Zaretsky I MISTERI DELL'ANIMA traduzione di Adriana Bottini FELTRINELLI pp. 520, € 45 SAGGIO

tuazione che si vuol dare all'uno o all'altro aspetto, può esser detto «umanistico», «progressista», «radicale», «utopico». La corrente conservatrice è la più interessata ad acquisire uno statuto di rispettabilità e ad essere accettata nella comunità scientifica. Essa tenta di legittimare la psicoanalisi come scienza, trovandone i presupposti nel darwinismo ed oggi cercando supporti nelle neuroscienze. Più che alle teorie, grande importanza è attribuita alla tecnica; l'orizzonte ideologico in cui essa si muove è quello dell'adattamento e della normalizzazione; la sua collocazione geografica prevalente gli Stati Uniti. La corrente progressista accentua invece la funzione della psicoanalisi come critica della cultura e, valorizzando un pensiero che affonda le radici nel Romanticismo, tende a promuovere il soggetto nel suo permanente dissidio con la società. I suoi testi di riferimento sono le grandi opere problematiche della letteratura universale; la sua etica è quella della espressività individuale e del rifiuto dell' utilitarismo; il suo orizzonte utopico è la libertà istintuale. Questi assi valgono soltanto come un tentativo di sistematizzazione, molteplici essendo le concrete combinazioni e transizioni tra atteggiamenti opposti. Cosa è dunque morto della psicoanalisi? Si potrebbe dire:

Morto l’originario ottimismo onnipotente, resta imprescindibile la consapevolezza della nostra interiorità l'originario ottimismo onnipotente, le pretese di dare spiegazioni totalizzanti (si pensi agli infelici tentativi di applicare il metodo psicoanalitico all’arte), l'idea di essere un corpus compatto di teorie e procedure terapeutiche (prevale oggi l'eclettismo). Ma di fronte all'ingenua illusione di sostituire al mondo interiore l'azione pubblica, la psicoanalisi, nelle sue correnti più vitali, continua a ricordarci che le modificazioni delle strutture sociali non portano frutti duraturi se non sono accompagnate da una continua consapevolezza della nostra interiorità. Sin qui il libro, informato e stringente, di Zaretsky. Altri sarebbero però i motivi per dubitare della psicoanalisi: la sua matrice deterministica, l'importanza esclusiva attribuita al «romanzo familiare», la concezione stessa dell'inconscio, che non prevede progetti ma soltanto desideri. Non mancherà occasione di tornare a parlarne.

VICINO E LONTANO ENZO BIANCHI

QUANDO LA FEDE PRENDE CORPO «Islam e cristianesimo a confronto» attraverso l’esperienza concreta di uomini e donne che mettono in pratica ogni giorno i «principi dottrinali» del Corano e del Vangelo

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ettere Islam e cristianesimo a confronto in un centinaio di pagine può sembrare presuntuoso: sintetizzare duemila anni del vissuto di una fede che si è diffusa in tutto il mondo a partire dalla predicazione di un pugno di discepoli nella periferica provincia romana della Palestina e che, circa sei secoli dopo, ha iniziato a confrontarsi - e sovente anche a scontrarsi - con un altro credo monoteista, a sua volta capace di dilatarsi a popoli e realtà diversissime potrebbe dar luogo a banalizzazioni fuorvianti. E invece nell'agile volume realizzato da Xavier Jacob e Francesco Strazzari (EDB, pp. 124, € 11) troviamo presentato e rispettato l'essenziale di questo confronto così cruciale anche ai giorni nostri. Il segreto di questa riuscita lo si può individuare nel retroterra che lo ha preparato: i due autori, infatti, mettono sì a confronto «islam e cristianesimo», cioè due fedi, due mondi religiosi, due dottrine con i loro testi sacri e le loro tradizioni, ma lo fanno avendo sempre presente il confronto reale, quotidiano tra cristiani e musulmani, cioè tra persone concrete, tra uomini e donne che «vivono» della loro fede, che si sforzano di mettere in pratica ogni giorno quei «principi dottrinali» che scaturiscono rispettivamente dal Vangelo e dal Corano. E queste persone concrete, i due autori le conoscono bene: l'uno - Jacob, religioso assunzionista che vive in Tur-

chia dal 1959 e vi ha insegnato filosofia per vent'anni - grazie al contatto quotidiano con musulmani turchi a cui sovente deve «rendere conto» della speranza cristiana da cui è abitato; l'altro - Strazzari, giornalista de Il Regno, attento ascoltatore prima che intervistatore dei propri interlocutori di altre fedi e confessioni - grazie alla sua capacità di lasciar «parlare» l'altro, di stimolare il raccontarsi di chi è diverso e sconosciuto dai lettori potenziali. Anche il luogo scelto per le «conversazioni» trasformate in manuale non è fortuito: Kadiköy, l'antica Calcedonia, affacciata sulla sponda asiatica del Bosforo, sede del IV concilio ecumenico nel 451 d.C. che «formulò il dogma di Gesù Cristo Dio fatto uomo». Della storia delle due fedi troviamo non tanto delle eco, ma piuttosto il loro prendere corpo in postulati teologici e norme comportamentali, in testi normativi e in professioni di fede. Così, proprio grazie agli uomini e alle donne concrete che stanno dietro le affermazioni dottrinali, questo libro - pensato per cristiani che desiderano conoscere meglio l'Islam - diventa uno strumento prezioso anche per presentare la fede cristiana ai musulmani che vivono in mezzo a noi e che, a loro volta, hanno talora visioni parziali o schematiche della religione dell'altro. Sì, affrontare con serenità anche i punti più controversi e le differenze più marcate tra queste due fedi monoteiste può aiutare gli uni e gli altri a rinsaldare le rispettive identità, favorendo nel contempo la convivenza e il rispetto reciproco.

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Visioni

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SABATO 24 MARZO 2007 LA STAMPA

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Willem de Kooning Una biografia

racconta l’uomo e l’artista, tra espressionismo e tumultuosi amori

UNA VITA DIPINTA IN ASTRATTO GUIDO CURTO

de Kooning. L'uomo, l'artista. Ha una sequenza non casuale il titolo dell'immensa (886 pagine) e nonostante ciò avvincente biografia di Willem de Kooning, scritta da Mark Stevens e Annalyn Swan con uno stile così piacevole d'aver meritato il Premio Pulitzer nel 2005. Di quest'oggi quotatissimo pittore, nato in Olanda, a Rotterdam, nel 1904 e immigrato giovanissimo negli Usa nel 1926, povero in canna, ma ricco di belle speranze, viene ripercorsa la folgorante carriera, che lo porta a diventare negli anni Cinquanta uno dei maggiori esponenti dell'espressionismo astratto statunitense. Ma più che l'artista è l'uomo che viene descritto con luci e ombre nel libro, narrando la sua irruenta vie de bohème, il vizio dell'alcol, il carattere insofferente e difficile, l'essere un donnaiolo impenitente ma anche padre

Nato in Olanda nel 1904, immigrato negli Usa, dalla povertà al successo (700 dollari nel 1948 per il suo «Painting») affettuoso innamorato dell'unica figlia, la bionda e dolce Lisa, un uomo generoso che, quando se lo può permettere, elargisce soldi a piene mani alle tante amanti e, suo malgrado, anche alla sola donna che ha sposato, l'insopportabile Elaine Fried, illustratrice e pittrice con un solo momento di celebrità, quando nel 1962 dipinge il ritratto ufficiale di John Kennedy. La vita dura ed esaltante del fascinoso Willem de Kooning meritava davvero un romanzo. Il libro prende l'avvio dall'Olanda, dove l'artista nasce il 24 aprile del 1904 a Rotterdam. Grazie a un lavoro analitico e puntuale di documentazione durato dieci anni, Stevens e la Swan scoprono prima «Un'infanzia difficile» e poi la

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ermania Est, 1964 1965. Un'irresistibile valanga di musica beat rotola sull' Europa; l'onda d'urto sonora travolge muri e frontiere, aggira la cortina di ferro, sorvola il filo spinato e i nidi di mitragliatrice, si impossessa delle piazze dei Paesi del blocco comunista. Di colpo, nella plumbea atmosfera della Rdt, con i tedeschi dell' Est nella morsa soffocante del regime di Ulbricht e Honecker, «i concerti cominciarono a spostarsi dai club e dai centri culturali ai locali privati dei piccoli centri, nelle sale dal ballo e all'aperto». Nei weekend, gruppi di giovani presero a sciamare verso le periferie delle grandi città e le campagne delle regioni del Sud, in appuntamenti con grandi raduni musicali che replicavano in tutto e per tutto lo stile di vita dei loro coetanei occidentali. La promiscuità tra ragazzi e ragazze, favorita dai balli di

«Voglia d'indipendenza», «Sognando l'America», dell'inquieto de Kooning. Nonostante il cognome così altisonante, che in olandese significa Il Re, Willem è figlio di un birraio e di una cameriera. I due s'erano sposati a 21 anni proprio a causa della nascita di Willem. La coppia dura poco e quando il bimbo ha solo due anni iniziano le pratiche di separazione. In quell'infanzia difficile, tormentata dalla povertà, de Kooning va a lavorare molto presto e a 12 anni lo troviamo a fare l'apprendista presso la ditta Gidding & Zonen specializzata in «decorazioni eleganti» di stile Art Nouveau. Qui s'appassiona a dipingere e, fortuna vuole, che la sede di lavoro sia proprio accanto alla Academie van Beeldende Kunsten en Technische Wetenshappen di Rotterdam. Nel 1918 de Kooning sente la vocazione all'arte e s'iscrive ai corsi serali della Reale Accademia. In questa prima sezione gli autori non si limitano a tratteggiare una biografia antiagiografica, ma hanno la capacità di ricostruire il contesto sociale e storico dentro al quale de Kooning vive e lavora. Così il lettore può farsi un' idea di come fosse l'Olanda in quei rivoluzionari primi anni del '900: un Paese in rapido cambiamento, che da prevalentemente agricolo si sta industrializzando. Scopriamo come viveva la gente comune, in una sorta di microstoria dove le vicende della famiglia de Kooning diventano esemplari, come in un saggio di Carlo Ginzburg. Parte cruciale del libro è la seconda dedicata a «L'immigrante» con una data fatidica, il 18 luglio 1926, giorno in cui de Kooning s'imbarca come clandestino nella sala macchine del piroscafo Shelley e dopo 12 giorni di navigazione sbarca negli Usa. Qui trova subito un lavoro ben pagato come imbianchino a nove dollari al giorno e dopo una settimana può già comprarsi un abito nuovo. Paradossalmente sarà proprio il crollo della Borsa del 1929 a far la fortuna del ventenne de Kooning. Per superare la Grande Depressione, l'America democratica di Roosevelt promuove il Federal Art

gruppo come lo shake, incrinava la rigida morale del comunismo ortodosso (altro che libero amore!), scontrandosi con l'intervento repressivo dello Stato. Le autorità reagirono con durezza, accusando quella musica di «immoralità americana e di decadenza» e imponendo l'obbligo, nelle canzoni, di usare la lingua tedesca a tutela dell'integrità dell'identità nazionale. Il momento più acuto del conflitto si registrò nell'autunno del 1965, a Lipsia, quando la polizia sciolse con la forza un concerto in cui erano stati chiamati a esibirsi 48 gruppi musicali, arrestando 276 manifestanti. Italia 1961. Esce la versione italiana di Little Devil, una canzone di Neil Sedaka. Da noi si chiama Esagerata e i versi sono del grande Leo Chiosso, recentemente scomparso. Little Devil è una donna provocante e moderna, sessualmente liberata e aggressiva: Neil Sedaka la vive come una sfida, da accettare e possibilmente vincere, («Hey lit-

de Kooning, «Woman I», 1950-52, considerata una delle rappresentazioni femminili più inquietanti della storia dell’arte

IL LIBRO

MARK STEVENS e ANNALYN SWAN

de Kooning L'uomo, l'artista

trad. di Irene Inserra e Marcella Mancini JOHAN & LEVI EDITORE pp. 856, €35

Project, che dal 1933 finanzia il lavoro degli artisti disoccupati. Imitando prima Arshile Gorky e poi anche guardando anche a Pollock, ma tenendo ben salde le sue radici europee, de Kooning rinnova il suo stile pittorico giungendo in breve tempo alla totale autonomia con quella straordinaria capacità di coniugare figurazione e astrazione, espressionismo e cubismo. Grazie a questo suo inimitabile linguaggio informale e biomorfo, e spesso quasi sensuale, durante e subito dopo la seconda guerra mondiale de Kooning s'impone nell'ambiente artistico newyor-

chese come un Maestro. Tanto che nel 1948 il potentissimo direttore del Moma, Alfred Barr, compra per 700 dollari un suo dipinto dal titolo emblematico: Painting. Anche il Whitney Museum acquista l'anno dopo un suo lavoro e de Kooning viene invitato ad una rassegna collettiva del prestigioso museo. E' tutto un crescendo di successi: nel 1951 vince il premio di 4000 dollari alla 60th Annual American Exibition dell'Art Institute di Chicago. In quest' escalation, lo appoggiano galleristi famosi come Sydney Janis e Xavier Fourcade. La celebrità è accompagnata da una tumultuosa vita sentimentale, costellata da molte amanti, anche se poi solo due gli rimarranno accanto fino alla morte: Elaine Fried, l'unica donna che de Kooning sposa, e Joan Ward, madre dell'amata figlia Luise. Ma tante altre sono le sue muse ispiratrici: Virginia Diaz la funambola acrobata da circo sua prima fidanzata americana, Mary Abbott la consigliera, Shirley Stoler l'attrice, Ruth Kligma la ragazzina sexy, Mera McAlister, Susan Brockman, Mimi Kilgore. Di questi travolgenti e travagliati amori e delle molteplici brevi relazioni il libro rende conto, tratteggiando una vita degna di un romanzo di Scott Fitzgerald. La biografia però non tralascia di narrare con acribia il percorso artistico segnato, ad esempio, da un viaggio a Roma nel 1959 dove conosce Burri, Scialoja, Afro e apprezza molto il loro lavoro. Il suo grande successo (e non solo il suo, anche quello di tutti gli altri espo-

L’OCCHIO E L’ORECCHIO GIOVANNI DE LUNA

GIOVANI IN LOTTA A RITMO DI ROCK Come la musica e le canzoni hanno anticipato negli Anni 60, in Occidente come nell’Est comunista, pensieri, tendenze e mode delle nuove generazioni: un “dossier” della rivista “Zapruder”

nenti dell'espressionismo astratto) declina però repentinamente con l'affermarsi della Pop Art nei primi Anni Sessanta. Abbandonato da critici un tempo amici come Harold Rosenberg, de Kooning sempre di più si rifugia nell'alcol, un compagno scomodo che in verità ha sempre un po' troppo frequentato fin dalla giovinezza. Per sfuggire all' alcolismo, nel 1962 si trasferisce con la moglie da New York «in campagna», a

E’ stato uno dei maggiori esponenti del linguaggio informale, coniugò cubismo ed espressionismo: il declino arrivò con la Pop Art Spring, a due passi dal cimitero dov'è sepolto Pollock. La solitudine però non gli giova e subentra una fase in cui dipinge poco e s'ubriaca molto. Siamo al «Crepuscolo», ultima parte del libro dove viene narrata la fase discendente della sua fortuna, benché il valore economico delle sue opere rimanga sempre altissimo. Negli Anni Ottanta, infatti, la sua mente incomincia ad essere offuscata dal morbo di Alzheimer, tanto che viene interdetto con molti, penosi strascichi polemici e legali. Dopo il 1990 non dipinge più. Gli restano vicini soltanto la moglie Elaine, la figlia Lisa e il gallerista Fourcade. Il suo decesso è datato 19 marzo 1997, ma la sua mente lucida e irruenta aveva già smesso di vivere già da molto tempo.

tle devil I'm gonna make an angel out of you»); in italiano diventa solo un pericolo, una tentazione da cui fuggire («Esagerata capire proprio non vuoi/ Che non posso tenerti tra le braccia quando vorrai/... No no no, esagerata non mi puoi cacciare nei guai se non la smetti certo mi perderai/ Così deluso di te per questa Waterloo/ Esagerata per sempre nella nebbia sparirò») . Nella società comunista come in quella del mondo capitalista, due concezioni del mondo presero a fronteggiarsi e a scontrarsi. La musica fu uno dei luoghi dove il cozzo tra le generazioni assunse dimensioni clamorose. Allora veramente le canzoni furono in grado di fare la storia. Non solo di rispecchiare lo spirito del proprio tempo, ma di anticiparne ritmi e cadenze, intervenendo direttamente nel determinare comportamenti, mode, pensieri, slogan, scelte collettive di milioni di giovani in tutto il mondo. Ce lo ricorda un

numero monografico di Zapruder, la rivista che - grazie all'entusiasmo di un gruppo di giovani ricercatori - sta dando un importante contributo allo svecchiamento delle tradizionali categorie metodologiche della storia contemporanea (www.storieinmovimento.org). Il numero di gennaio-aprile 2007 (Accordi e conflitti. Musica, società e politica in età contemporanea) è interamente dedicato al rapporto tra musica e storia. In particolare i saggi citati di Emanuela Vita, («Ost-musik. Il dissenso nella Rdt attraverso le subcultura negli Anni Sessanta»), e Marco Peroni, («Ci vuole orecchio. Come le canzoni raccontano la storia»), ci regalano la sorprendente visione di questi incunaboli del '68 che lasciano affiorare gli stessi tic, le stesse ossessioni sessuofobiche, la stessa ottusa resistenza sia negli «uomini di marmo» che governavano la Germania Est, sia nella cultura dominante dell'Italia democristiana.

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Percorsi

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SABATO 24 MARZO 2007 LA STAMPA

Due copertine di cineromanzi: «Riso amaro» con Silvana Mangano, 1949, e «Amarsi male», 1969, con Michaela Pignatelli

Lo schermo di carta Da consumo di massa (fino a dieci

milioni di lettori) a reperto d’epoca, oggetto di collezionismo

NEI CINEROMANZI I SOGNI ANNI 50 FRANCESCO TROIANO

E quando i vhs non c’erano? E all’epoca in cui anche la sola idea di un dvd pareva fantascienza? Semplice, potevi andare al cinema, vedere il film e rassegnarti a perderlo per il futuro; oppure comperare un cineromanzo e serbar traccia durevole della pellicola amata. Il cinema stampato, argomento di una mostra all’Archivio di Stato di Torino, è al centro del bellissimo volume Lo schermo di carta, che - oltre a funger da catalogo dell’esposizione - è rassegna incomparabile di un fenomeno fuori dall’ordinario e di rado indagato nella cultura popolare indigena. Il cineromanzo conobbe la sua età dell’oro nel corso degli Anni 50, con un pubbli-

co stimato intorno ai dieci milioni di lettori. Prendendo spunto dai linguaggi del fotoromanzo e del fumetto, esso costituì una sorta di versione parallela - e, in qualche misura, finanche autonoma dei titoli cinematografici di maggior successo: non v’erano particolari preferenze nelle scelte, si andava infatti da Il caso Paradine di Hitchcock a Guardie e ladri di Steno e Monicelli, da Il selvaggio di Benedek a La donna del fiume di Soldati, sino all’Antonioni scosceso de L’avventura e de La notte, opere certamente assai difficili da rendere col mero ausilio di foto e didascalie. Ibridi affascinanti di diversi mezzi, oggetti nella loro poveristica essenza rappresentativi d’un’Italia non ancora post-rurale e poco inurbata, i cinero-

manzi erano surrogati della settima arte per persone cresciute in piccoli paesi ove le sale non c’erano oppure sostituti economici - più delle terze visioni, che pure allora esistevano - del cinematografo, rivolti a chi non si poteva permettere il costo del biglietto. Curato esemplarmente da Emiliano Morreale, il volume - che trova il proprio punto di forza nello straordinario apparato fotografico, in massima parte fondato sulla collezione privata di Gianni Amelio, unica al mondo per dimensioni, qualità e quantità - esamina il fenomeno sotto svariati punti di vista. Se in alcuni interventi la lente adoprata è quella dello psicologo sociale, di rilevante interesse sono pure le testimonianze di autori, interpreti e registi - da Giovanna Ralli a

Lucia Bosè, da Mario Monicelli a Francesco Rosi, da Dino Risi a Carlo Lizzani ascoltabili nel dvd allegato Sfogliare un film: un viaggio nella memoria del cinema di casa nostra, avente come filo conduttore appunto il cineromanzo. Sfogliando le pagine del libro, scorre sotto i nostri occhi un segmento ragguardevole della celluloide d’antan: la grazia autarchica di Eleonora Rossi Drago e Silvana Pampanini ne La tratta delle bianche va di pari passo con quella eterea ed elegante di Audrey Hepburn in Guerra e pace, il sorriso charmant di Massimo Serato in Quartieri alti rivaleggia con la fisicità proletaria del William Holden di Picnic, la sensualità sofisticata di Rita Hayworth ne La signora di Shanghai si confronta con quella sfrontata di Silvana Mangano in Riso amaro. IL DECLINO NEGLI ANNI 60

Di solito accompagnati da rubriche (dall’angolo della posta ai consigli dei divi), i cineromanzi rappresentavano con assoluta fedeltà l’immagine di un paese lontano dall’aver perduto la propria innocenza, dove quello di far l’attrice era al più sogno ma non aspirazione di ragazze nella maggior parte consacrate all’idea del matrimonio. E’, probabilmente, anche per questo che i cineromanzi decadono rapidamente nel corso dei ‘60: i giorni del boom rendono l’Italia più scaltra ed esigente, benestante e smaliziata che nel passato. Il declino è, ovviamente, lento e l’agonia assume singolari aspetti: sul principiar dei ‘70, ad esempio, prendono piede testate quali Cinesex e Cinestop che, facendo tesoro della maggior libertà sessuale dovuta ad un certo allentarsi delle maglie censorie, propongono - sia pur nei limiti del softcore - versioni sovente più spinte dei film in circolazione (un esempio? Il thriller L’iguana dalla lingua di fuoco, firmato nel ‘71 da Riccardo Freda con lo pseudonimo di Willy Pareto, presenta nella sua forma cartacea tutte le scene erotiche tagliate al cinema). Si tratta, tuttavia, di piccoli escamotage, di espedienti messi in atto per non prender atto della realtà dei fatti: il cineromanzo era ormai divenuto reperto

LA MOSTRA

LO SCHERMO DI CARTA a cura di Emiliano Morreale IL CASTORO pp. 302 € 55

E’ il catalogo della mostra aperta all’Archivio di Stato e al Museo Nazionale del cinema di Torino fino al 19 aprile. Ripercorre «storia e storie dei cineromanzi», ne sono esposti circa 200 originali, tratti dalla collezione di Gianni Amelio (ma, scrive il regista nell’introduzione, «guai a chi mi chiama collezionista: mi sono limitato a non tradire le cose che amo»). In allegato un dvd di 50 minuti con interviste ad attori e registi, da Lucia Bosé e Giovanna Ralli a Monicelli e Risi.

d’epoca, un oggetto del passato destinato a fare la gioia di appassionati e collezionisti. «La prima cosa che mi colpisce sfogliando i cineromanzi - ha dichiarato Piero Tosi - è la bellezza dei volti, delle attrici e degli attori. Queste erano cose che un ragazzo o una ragazza si portavano a casa in modo segreto, tattile, nell’intimità delle camere, e la sera, immagino, con una luce piccola piccola, venivano riguardati nel letto, accarezzati e amati. Perché c’erano volti che si potevano amare». Oggi ce ne sono di meno; forse perché - parafrasando Gloria Swanson in Viale del tramonto - i sogni sono rimasti grandi, è il cinema ad esser diventato piccolo.

NEWTON COMPTON EDITORI È chimica, quando tra due persone scatta qualcosa. È chimica di respiri che soffiano sulla stessa lunghezza d’onda, di elettricità che pervade il corpo e toglie ogni inibizione senza chiedere permesso. Da subito come un + e un – che si attraggono, come un satellite che entra nell’orbita di un pianeta e ne rimane ipnotizzato, come la terra e la luna, come io e Deda.

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NA

La classifica AI PUNTI LUCIANO GENTA

CAMILLERI TRA PECORE E PECORECCI

Tuttolibri

SABATO 24 MARZO 2007 LA STAMPA

L

a società nella quale viveva secondo lei non era cosa, essendo la vita di corte troppo peccaminosa, troppo dedita ai piaceri materiali, all’accumulo della ricchezza e all’esibizione dello sfarzo»: nulla a che vedere con l’oggi, ovviamente... Qui, nella prima pagina de Le pecore e il pastore, il giallo storico di Camilleri unica novità tra i primi dieci insieme al giallo psicologico di Simenon, si parla della Sicilia nel XII secolo. Siamo alle origini del culto di santa Rosalia patrona di Palermo, primo tassello di un mosaico, di un andirivieni nel tempo fino ai giorni nostri, che ha al centro un

«pastore»», il vescovo di Agrigento sotto il fascismo, «ammiratore» del regime e anticomunista ma nel contempo solidale con le lotte contadine, avversato dagli agrari, ferito a morte nel 1945 in un agguato. Per la sua salvezza si sacrificano le «pecore», dieci giovani monache di clausura «lasciano la vita» digiunando. Dipanare quali retroscena nasconda il fatto, in cui tra gli altri ha parte Tomasi di Lampedusa, è il gioco che attrae Camilleri, come sempre filologico orologiaio di enigmi. La sua indagine, di necessità senza compiacenze per santa romana chiesa, va a formare una sorta di triade «a mente fredda» con

XI

Odifreddi e Augias in una classifica sempre dominata dal duetto di «cuori caldi» Moccia e Amici. Alza lo sguardo verso una «rigenerazione della politica» Fausto Bertinotti, prima novità saggistica dove si conferma il titolo di un microeditore della provincia pisana, Felici: Il fattore I, scritto dallo psicologo Piero Paolicchi, vuole delineare «una teoria generale dell’imbecillità», più che mai virus dei tempi. Come dimostrano i sempre più diffusi titoli, più tartufeschi che trasgressivi, dei nostri editori. Sta uscendo da Fazi il romanzo Troie. Dalle pecore al pecoreccio. Si preparino i trans. Preferibilmente con foto.

I PRIMI DIECI

1

100

2

Scusa ma ti chiamo amore

A un passo dal sogno

MOCCIA RIZZOLI

SFONDRINI, ZANFORLIN MONDADORI

6

7

45

Le pecore e il pastore

Narrativa straniera

1. Scusa ma ti chiamo amore 100 Moccia [1] 18,00 RIZZOLI

71 [3] 45 [-] 41 [2] 26 [4] 25 [6] 24 [5]

5. Everyman Roth 6. L’innocenza Chevalier 7. Nei boschi eterni Vargas

24 [7]

8. L’oro dei Lama Cussler; Dirgo

43 [3]

11,00 SELLERIO

10. Fuori da un evidente destino 12 Faletti [-] 18,90 BALDINI CASTOLDI DALAI

40 [3]

3. La scomparsa dei fatti Travaglio

31 [2] 24 [-]

31 [6]

13 [4]

17,00 RIZZOLI

30 [4]

12 [-]

16,50 MONDADORI

24 [7]

11 [8]

12,00 FELICI

19 [5]

9. Il bambino con i petali in tasca 14 Irani [-] 14,50 PIEMME

10. Un gruppo di allegre signore 11 McCall Smith [-] 14,00 GUANDA

Tascabili

1. 10+. Il mio mondo ... Del Piero

37 [1]

11 [-]

15,00 FAZI

2. Centro d’igiene mentale Cristicchi

24 [3]

10 [6]

10,00 RIZZOLI

3. L’Italia spensierata Piccolo

13 [2]

12,00 MONDADORI

10 [5]

2. Ti prendo e ti porto via Ammaniti 3. Il mio nome è rosso Pamuk

4. Le donne che leggono... Bollmann; Heidenreich

12 [6]

4. Proibito parlare... Politkovskaja

19 [-]

11 [-]

5. E’ una vita che ti aspetto Volo

17 [4]

10 [-]

6. La pensione Eva Camilleri

16 [6]

7. 1984 Orwell

15 [-]

10 [4]

8. Esco a fare due passi Volo

14 [2]

8 [7]

9. Neve Pamuk

12 [-]

8 [-]

10,00 FELTRINELLI

10. L’infinito viaggiare Magris

4. La setta degli assassini Troisi

5 [7]

5. La spia di Shandar Robson

5 [-]

6. Arthur e il popolo dei Minimei 4 Besson [6] 7. Nihal della terra del vento... Troisi

4 [-]

8,40 MONDADORI

11 [-]

8. Cronache del mondo emerso... 4 Troisi [4] 20,00 MONDADORI

11 [3]

12,80 EINAUDI

10. Il collo mi fa impazzire... Ephron

6 [-]

18,00 MONDADORI

8,40 MONDADORI

7. La classe fa la ola... Beer (cur.)

3. Sognando la finalissima Garlando

16,00 MONDADORI

8,40 MONDADORI

8. Rivergination Littizzetto

11 [2]

17,00 MONDADORI

6,00 MONDADORI

7. E’ facile smettere di fumare... 10 Carr [5]

2. Il piccolo principe Saint-Exupéry

9,90 PIEMME

7,80 MONDADORI

6. Micromega vol. 2 Autori vari

22 [1]

7,00 BOMPIANI

10,00 MONDADORI

5. Sulla sua strada... Minervini; De Luigi

1. Le due guerriere... Troisi 17,00 MONDADORI

11,80 EINAUDI

10,00 RIZZOLI

10. Esportare la libertà Canfora

35 [1]

8,40 MONDDORI

15,00 MONDADORI

9. La vita digitale Andreoli

1. L’ombra del vento Ruiz Zafon

Ragazzi

12,00 MONDADORI

10,00 EWI

8. I complici... Abbate; Gomez

40

AUGIAS, PESCE MONDADORI

12,00 L’ESPRESSO

7. Il fattore I Paolicchi

10

41

CAMILLERI MONDADORI

25,00 ARCANA

6. Compagni di scuola... Romano

FALCONES LONGANESI

HOSSEINI PIEMME

29,00 RIZZOLI

5. Una vita con Karol Dziwisz

OZ FELTRINELLI

Inchiesta su Gesù...

9,00 LATERZA

4. La città degli uomini... Bertinotti, Valzania

La cattedrale del mare

Il colore del sole

15,00 MONDADORI

16,50 MONDADORI

19,00 LONGANESI

13 [9]

2. Inchiesta su Gesù Augias; Pesce

55

Il cacciatore di aquiloni

14,00 MONDADORI

15,00 IL SAGGIATORE

15,80 EINAUDI

16,00 FELTRINELLI

9. Testimone inconsapevole Carofiglio

3. Il piccolo libraio di Archangelsk 44 Simenon [8] 4. Il cacciatore di aquiloni Hosseini

71 [1]

17,00 MONDADORI

17,00 NERI POZZA

15,50 MONDADORI

8. Ho voglia di te Moccia

55 [2]

13,50 EINAUDI

15,00 FELTRINELLI

7. Gomorra Saviano

2. La cattedrale del mare Falcones

1. Perché non possiamo... Odifreddi

5

68

Non dire notte

9

43

Varia

14,60 LONGANESI

17,50 PIEMME

17,50 MONDADORI

6. Boccamurata Agnello Hornby

68 [1]

16,00 ADELPHI

14,00 MONDADORI

5. Tango e gli altri Guccini, Macchiavelli

1. Non dire notte Oz

18,60 LONGANESI

10,00 SELLERIO

4. Il colore del sole Camilleri

8

44

Saggistica

15,00 FELTRINELLI

14,00 MONDADORI

3. Le pecore e il pastore Camilleri

ODIFREDDI LONGANESI

SIMENON ADELPHI

Narrativa italiana

4

71

Perché non possiamo essere cristiani

Il piccolo libraio di Archangelsk

CAMILLERI SELLERIO

2. A un passo dal sogno... Sfondrini; Zanforlin

3

71

9. Ci vuole un fiore Rodari; Endrigo

4 [-]

7,90 GALLUCCI

10 [-]

8,80 MONDADORI

10. Salviamo la balena bianca Stilton

4 [10]

8,20 PIEMME

LA CLASSIFICA DI TUTTOLIBRI È REALIZZATA DALL’ISTITUTO DEMOSKOPEA DI MILANO, ANALIZZANDO I DATI DELLE COPIE VENDUTE OGNI SETTIMANA, RACCOLTI IN UN CAMPIONE DI 120 LIBRERIE A ROTAZIONE, DI CUI 80 EFFETTIVE. SI ASSEGNANO I 100 PUNTI AL TITOLO PIÙ VENDUTO TRA LE NOVITÀ. TUTTI GLI ALTRI SONO CALCOLATI IN PROPORZIONE. LA CIFRA FRA PARENTESI, SOTTO IL PUNTEGGIO, INDICA LA POSIZIONE IN CLASSIFICA NELLA SETTIMANA PRECEDENTE. LA RILEVAZIONE SI RIFERISCE AI GIORNI DAL 10 AL 16 MARZO

A

Seul leggono Primo Levi, finora mai tradotto. A vent'anni dalla morte, escono adesso in coreano Se questo è un uomo e Il sistema periodico. Preceduti, con qualche clamore, da un'altra traduzione: quella, dal giapponese, di un saggio del professor Suh Kyung-sik appunto su Primo Levi. Suh Kyung-sik, che insegna a Tokyo, è un giapponesecoreano: straniero ovunque. Ha letto Levi, dieci anni fa è andato sulla sua tomba a Torino, e ha scritto poi della somiglianza fra la diaspora ebraica e la vicenda della propria famiglia. Fuga, esilio, vessazioni (due suoi fratelli furono imprigionati dal regime autoritario di Park Chung-hee), sradicamento, disperazione sempre. Il desiderio di capire la crudeltà della storia umana, e insieme la paura di capire. Ma senza quella paura, la paura di non

riuscire neanche a immaginare tragedie e dolori, l'uomo non è più uomo: così scrive il nippo-coreano nel suo omaggio remoto ma accorato a Primo Levi. CRISTO UCCISO DAI MARXISTI

I coreani di oggi sono come gli ebrei di duemila anni fa, vivono «in un'epoca che prepara indicibili sofferenze, in una terra gravida di odio e contraddizioni», fa dire Lee Mun-yeol a un personaggio del suo ultimo romanzo, Homo executans. Lee Mun-yeol è uno scrittore sessantenne, molto venduto, molto amato, e molto discusso. Un conservatore, che disprezza il governo «di sinistra» del presidente Roh Moo Hyun, paladino dei diritti civili e del dialogo fra le due Coree. Nel romanzo pullulano le citazioni della Guerra giudaica di Giuseppe Flavio, e i parallelismi con la Corea odierna: Cristo si reincarna negli slums di Seul e nella persona di un meccanico, ma viene ucciso

CHE LIBRO FA... IN COREA GIOVANNA ZUCCONI

SEUL SCOPRE PRIMO LEVI Si traducono “Se questo è un uomo” e “Il sistema periodico”, esce un saggio biografico di un critico che, alla luce della diaspora ebraica, ripercorre le crudeltà dei regimi asiatici

dalle forze dell'Anticristo, ossia l'antiamericanismo, il marxismo e il governo in carica. «I tempi sono così cupi che devo ricordare che un romanzo è soltanto un romanzo», ha detto l'autore: ma tutti leggono, nel libro, quello che c'è, ovvero una parabola politica contemporanea. UN THRILLER SULLA BOMBA

Altro scrittore bestseller è Kim Jin-myung. In Il fiore di Mugunghwa è sbocciato, del 1993, immaginava una penisola coreana riunificata e dotata di armi nucleari: si dice l'abbiano letto e apprezzato anche nella Corea del Nord, e al Sud continua a vendere. Ora, invece, pubblica un thriller in cui uno scienziato (sudcoreano) completa il riarmo atomico (nordcoreano) e diventa un eroe a Pyongyang: ma ne approfitta per rapire Kim Jong-il e costringerlo a vivere per centoventi lunghe ore nella fame e nelle sofferenze che in-

fligge al proprio popolo. Si pentirà? Capirà che la Bomba porterà alla rovina l'intera penisola? Pare che Kim lo scrittore abbia spedito il libro, con pepata lettera d'accompagnamento, a Kim il dittatore. Si ignora la reazione. MALASANITÀ E CONSUMISMO

Nella penisola (quella, non questa) giornali e politici discutono di malasanità. Della fragilità del governo di centrosinistra, sempre sul filo della sfiducia. Delle basi americane. Di consumismo (Hermès ha aperto a Seul, dopo Parigi, New York e Tokyo: i coreani vanno pazzi per i beni di lusso). Di revisionismo e di pacificazione, verso chi collaborò con gli occupanti giapponesi nella prima metà del Novecento. I giornalisti scioperano, nella Penisola: gli editori del settimanale Sisa hanno censurato un'inchiesta sul management della Samsung, e i redattori scioperano, da mesi, a oltranza.

NA

XII

Diario di lettura

De Luca e Testa

Tuttolibri

SABATO 24 MARZO 2007 LA STAMPA

Erri De Luca è nato a Napoli nel 1950. Dirigente di Lotta Continua, prima di diventare scrittore e giornalista ha fatto l'operaio. Il suo primo libro è Non ora, non qui (1989, Feltrinelli), l'ultimo, con Gennaro Matino, è Sottosopra. Alture dell'Antico e del Nuovo Testamento (Mondadori).

Gianmaria Testa firma la «cantata scenica» Don Chisciotte e gli invincibili insieme a Erri De Luca e Gabriele Mirabassi (dvd + testo edito da Fandango). Fa il capostazione a Cuneo, come cantautore è stato «scoperto» in Francia: tutto esaurito all'Olympia di Parigi. Ultimo disco: Da questa parte del mare.

IO VADO A ODESSA IO NELLA CITTA’ DI K

LE SCELTE

GIOVANNA ZUCCONI

Uno porta l'altro sempre con sé, nella custodia della chitarra. L'uno e l'altro sono i lettori che sono (diversissimi) grazie ai padri. Uno legge solo la mattina presto, e solo a casa; l'altro non ha luoghi né orari, legge durante i lunghi giri per concerti anche per nostalgia, perché «leggere è una sorta di ritorno a casa». Insieme, girano l'Italia con la lo spettacolo Don Chisciotte e gli invincibili. Erri De Luca e Gianmaria Testa: in tournée insieme, ciascuno con le proprie letture appresso, oppure sospese. «Sul mio tavolaccio ho adesso la Sonata a Kreutzer di Tolstoj col testo a fronte così non ho bisogno di troppo vocabolario. Ho appena riletto I racconti di Odessa di Babel'. Sono un lettore molto mattutino, leggo prima che il mondo cominci a svegliarsi. Cose in ebraico antico, yiddish, russo. Fine delle letture. In viaggio no, giro soprattutto in macchina per le serate con Gianmaria, e leggere guidando è sconsigliabile. Quando leggo leggo e quando sto in giro sto in giro, una cosa per volta». Così Erri De Luca. «Non ho luoghi deputati né ore preferite neanche per suonare. Quando ero ragazzo sì, suonavo sempre nello stesso posto, in corridoio, davanti alla camera da letto di mio fratello. Poi crescendo, girando, anche questo si è perso. Il treno è un buon posto per leggere, l'aereo no

Lo scrittore Erri De Luca e il cantautore Gianmaria Testa girano l’Italia con «Don Chisciotte e gli invincibili» perché sono troppo impegnato a tenerlo su. Quando sei in viaggio leggere è come tornare a casa, a volte però la nostalgia impedisce di concentrarsi, di assimilare». Così, invece, Gianmaria. Erri sta leggendo e traducendo un lungo poema: per lavoro, dunque? «Lavoro è una parola proibita, tutto rientra nel piacere. La lettura è intrattenimento». Idem per Gianmaria: «Sono un lettore spesso ammirato, ma scollego la lettura dal mio lavoro, che è scrivere canzoni. C'è un'enorme differenza, in una canzone gestisci una tensione che dura tre minuti, chi scrive libri sopporta per più tempo il peso di spremere l'arancia del mondo». Gianmaria porta Erri sempre con sé, nella custodia della chitarra: due suoi libri, le poesie di Opera sull' acqua che legge spesso in concerto anche all'estero, e quelle sull'emigrazione riunite in Solo andata. E girando con Erri-persona per teatri, fra Napoli e Milano, fra Savona e Belluno, cosa si è portato dietro ultimamente? «Pubblicato da un editore microscopico di Cuneo, Ogni bel gioco di Andrea De Benedetti. Sottotitolo: “Sport da praticare quando aboliranno il calcio”. È divertente, parla del curling, del biathlon eccetera, da un'angolatura interessante. Ero molto appassionato di calcio, tifoso ahimé della Juve, ma il disgusto ormai ha prevalso». Altro? «La vita davanti a sé di Romain Gary. L'ho comprato in aeroporto partendo

f

MAURO CORONA

Storie del bosco antico MONDADORI, pp. 146, €8,80

Erri De Luca dice di leggere solo i libri di persone di cui si fida, e di Mauro Corona si fida: «andiamo a scalare insieme, beviamo insieme». Sul tavolo tiene solo i vocabolari dalle lingue in cui legge: francese, inglese, russo, yiddish, ebraico. Russi i suoi poeti (Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, Josif Brodskij, Osip Mandel'stam), russi ovviamente Tolstoj e Babel' che legge e rilegge. Cita anche «Il lapis del falegname» di Manuel Rivas (Feltrinelli), «Soldati di Salamina» di Javier Cercas (Guanda), «I girasoli ciechi» di Alberto Méndez (Guanda).

f Da sinistra: Gabriele Mirabassi, Erri De Luca e Gianmaria Testa in scena per il loro «Don Chisciotte e gli invincibili»

per Stoccolma, perché mi piaceva la copertina: facendo un'eccezione l'ho cominciato in aereo, ed è riuscito a distogliermi dalle mie scaramanzie. È un bel libro: parla di un figlio di p..., letteralmente, che viene affidato a una ex prostituta la quale gestisce un asilo per figli di p..., nella Francia multietnica... Non l'ho finito perché l'ho dimenticato a casa, sono contento che sia ancora lì ad aspettarmi». Lì, a casa, in campagna, nelle Langhe. Mentre a casa, in campagna, verso Bracciano, ci sarà pure qualche libro contemporaneo che transita per il tavolaccio antelucano di Erri De Luca? «Leggo qualcosa di qualcuno di cui mi fido. Per esempio Mauro Corona, che scrive schietto, cose sincere. Mi ha fatto piacere parlare bene di Pugni di Pietro Grossi, mi piaceva Francesco Biamonti, mi piace la letteratura israeliana. Ho letto bei libri di scrittori spagnoli contemporanei sulla guerra civile: Rivas, Cercas, Méndez. Hanno trovato una formula letteraria per rimarginare il lutto. Da noi non è successo, la letteratura nostra ha perduto tutte le occasioni di scrivere la storia forse per troppo mestiere, i nostri scrittori sono troppo professionisti». Molto si sta pubblicando però, De Luca, sugli anni Settanta. «È tutta salute, rispetto a quando quel periodo era affidato agli scongiuri emessi per sentenza dalla magistratura». A proposito di sentenze: come stabilite quali libri leggere e quali scartare? Valgono i consigli degli amici, le recensioni, l'istinto? Erri De Luca: «Gli amici quando mi consigliano un libro me lo sabotano, me lo tolgono al volo di mano. Un libro non è consigliabile, è un libero incontro e gli incontri non possono essere consigliati. Io lo faccio, ma con me non funziona». E con i libri che le arrivano che cosa fa? «Do un'occhiata

dentro, se non mi riguardano li butto via subito, li regalo, è inutile che stiano a prendere povere da me. Seguo soltanto un critico letterario, Giuseppe Bonura sull'Avvenire: di lui mi fido». E Gianmaria Testa: «Me ne passano per le mani tanti, purtroppo con gli anni ho preso ad abbandonarli se non mi piacciono. Però mi dispiace, penso alla fatica di chi li ha scritti, e poi le parole scritte non fanno strepiti, tendo ad essere benevolo. Qualche volta mi lascio convincere dagli articoli di qualcuno, anche se nella mia ignoranza fatico a distinguere fra la critica e la réclame». Usare la parola réclame significa autodenunciare la propria età, lo

De Luca: «Sono un lettore mattutino, leggo prima che il mondo cominci a svegliarsi» Testa: «Romain Gary mi distoglie dalle scaramanzie» sa vero? «Quanta distanza ci sia fra la réclame e il prodotto si vede anche dalle corrispondenze, realizzate oppure mancate, fra un libro e chi l'ha scritto. Un libro è la réclame della persona, che a volte ti delude, altre volte no: di Erri De Luca e di JeanClaude Izzo sono poi diventato amico». L'ultima folgorazione, per Gianmaria Testa, è la Trilogia della città di K. di Agota Kristof. L'ultimo stupore è per Il seminatore del suo amico Mario Cavatore: è piaciuto anche a Erri De Luca, l'hanno presentato insieme. Il libro che vorrebbe rileggere è La morte di Ivan Il'ic, romanzo breve di Tolstoj come la Sonata a Kreutzer che sta rileggendo il suo amico Erri. E legge libri sulla montagna, sua grande passione, Erri De Luca? «No, sono libri di

TUTTOlibri RESPONSABILE: NICO ORENGO. IN REDAZIONE: LUCIANO GENTA, BRUNO QUARANTA.

genere e i libri di genere non mi piacciono. Come i gialli: senti dentro il tictac del meccanismo a orologeria. Mi scoccio. Non mi riguarda». Mi scoccio (con la esse che diventa "sc", alla napoletana) oppure mi riguarda: categorie critiche indubbiamente efficaci. Valgono anche per la poesia? «Leggo quelle sicure, vecchie, che mi riguardano. Cvetaeva, Achmatova, Brodskij, Mandel'stam. Nelle poesie ti accorgi subito se funzionano o no, ma anche quando non funzionano qualche cosa ti rimane sempre». Poeti italiani? «Mi sono fermato a quelli che piacevano a mio padre. Ungaretti, Gatto. Mio padre era un lettore formidabile, riempiva la stanza di libri e io dormivo lì, con quella tappezzeria. È stato facile». Altre stanze, altro padre: quello di Gianmaria Testa. «Quando ero piccolo mio padre affittava una cascina, che era parte di una proprietà con al centro una villa del Settecento. All'ultimo piano c'era una stanza addobbata di libri. Noi avevamo le chiavi, io andavo su, prendevo a caso, foderavo il libro di carta di giornale e me lo portavo al pascolo. Ho letto tutto, Moby Dick e Sussi e Biribissi, La tregua e la Domenica del Corriere illustrata da Walter Mollino, e ho incontrato Fenoglio che non mi ha più lasciato... Il rapporto con i libri, la loro carnalità, è cominciato lì, allora». E anche la poesia è un ritorno a casa, all'infanzia. «Ne leggo con parsimonia, e tendo a ricercare quella che mi ha allevato. Ungaretti, i sonetti del Foscolo... quella musicalità...». «Lettore lento» Gianmaria Testa, «lettore forte proprio no» Erri De Luca. Uno porta l'altro in tournée, dentro la custodia della chitarra. E l'altro che cosa mette nello zaino? «I Salmi. Libri no, quaderni neppure». Aspettano a casa, al ritorno.

ANDREA DE BENEDETTI

Ogni bel gioco

NEROSUBIANCO, pp. 72, €10

Tifoso disgustato, Gianmaria Testa rimarca il sottotitolo di questo libro pubblicato da un piccolo editore della sua Cuneo: Sport da praticare quando aboliranno il calcio. Ha in lettura anche «La vita davanti a sé» di Romain Gary (Neri Pozza), che vinse il Goncourt nel 1975 e fu antesignano nel raccontare le banlieues e la Belleville multietnica. Dice: «Se dovessi dire i miei dieci romanzi preferiti, cinque sarebbero romanzi brevi di Tolstoj». Fra gli amori recenti, la «Trilogia della città di K.» di Agota Kristof, «letta in francese e non riletta in italiano perché era perfetta così».

f

MARIO CAVATORE

Il seminatore EINAUDI, pp. 157, €12

E gli scrittori che diventano amici, e gli amici che diventano scrittori? Per Gianmaria Testa c'è stato Jean-Marie Izzo, e c'è Mario Cavatore, anche lui di Cuneo, amico fraterno da una vita. Con stupore, allora, ne ha accolto il manoscritto del «Seminatore», uscito in volume nel 2004. Libro che riapre una pagina storica, quando nella Svizzera degli anni Trenta i bambini rom venivano strappati alle famiglie per sradicare il nomadismo. Un personaggio romanzesco e romanzato si vendica del rapimento dei suoi figli inseminando più donne svizzere che può...

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