Saggio Sul Dono

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“Il paziente ascolta il messaggio, ma esso rimane in lui senza eco. Probabilmente egli pensa fra sé e sé: “la cosa è davvero molto interessante, ma io non provo nulla di tutto ciò”. Abbiamo accresciuto il suo sapere, ma per il resto non abbiamo prodotto in lui alcun mutamento. La situazione è all’incirca la stessa di quella che si verifica con la lettura degli scritti psicoanalitici. Il soggetto “si scalda” solo quando legge i passi da cui si sente personalmente coinvolto, e che dunque riguardano i conflitti che al momento sono attivi in lui.” (S. Freud)

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§ 1. Nikolàj Stavrògin non ricordava con sicurezza i nomi degli affittuari della casa in cui aveva vissuto al tempo in cui accaddero i fatti della sua confessione: “Si chiamava Matrëša [...] Questa bambina rassettava la camera e rifaceva il letto dietro il paravento. Ho dimenticato il numero della casa. Ora so da informazioni raccolte che la vecchia casa è stata demolita e che al posto delle due o tre case che c’erano prima ce n’è una nuova molto grande. Ho anche dimenticato il nome dei miei borghesucci (forse non lo sapevo neanche allora). Ricordo che la donna si chiamava Stepànida; il patronimico mi pare che fosse Michàjlovna. Il nome del marito non lo ricordo.”1

E Stravrògin dimentica in un albergo in Svizzera, sopra un camino, quella fotografia di una bimba, comprata perché gli somigliava proprio Matrëša2. Si tratta di particolari volti più che altro a indicare una del tutto consapevole incuranza, per voce della coscienza del personaggio stesso, di fronte a eventi così drammatici. È noto come del protagonista reale dei Demoni, così come d’altri nichilisti dostoevskiani maggiori o minori, da Svidrigàjlov e in parte allo stesso Ivan Karamazov, sono perlopiù marcati i tratti di una fortissima presenza di spirito,

di una coscienza costante e parossistica fino alla gravità materiale, in qualche modo disattivata solo dal suicidio o dalla follia: “sono nel pieno possesso delle mie facoltà mentali”3, afferma Stavrògin; la persistenza dell’immagine maledicente di Matrëša è comunque voluta, non ritorna accidentalmente, Stavrògin potrebbe certamente allontanare quell’immagine ma, semplicemente, non lo fa: “Ho il perfetto dominio della mia volontà, come l’avevo prima! E così continuerà finché non avrò perso la ragione”4. Avrebbero del resto poco senso, forse, le memorie di un pazzo. Com’è noto, la confessione in questione è tratta da quella seconda parte del capitolo IX dei Demoni rifiutata dalla rivista per l’eccessiva scabrosità dell’argomento: Nikolàj legge al monaco Tichon le vicende che interessano una piccola ragazza, quasi una bambina, la quale, in breve, sedotta e rifiutata da un consapevolissimo Stavrògin, s’impicca, segnata da enorme senso di colpa verso una direzione non chiara: “Il suo viso esprimeva una disperazione che si sarebbe creduto impossibile vedere sul viso di una bambina. Continuava ad agitare contro di me il suo piccolo pugno in atto di minaccia e continuava a scrollare il capo in segno di rimprovero”5. Ma questo rimprovero era contemporaneamente rivolto a se stessa, “nel delirio parlava di ‘sfaceli’, di aver

1

F. Dostoevskij, “Confessione di Stavrogin”, in Il sogno di un uomo ridicolo, BIT, Milano 1995, pp. pp. 41-42. Si tratta del cap. IX parte 2, solitamente riposto in appendice al romanzo. 2 Ivi, p. 53.

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Ivi, p. 54. Ivi, pp. 53-54. 5 Ivi, p. 49. 4

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‘ucciso Dio’”, ricorda la madre6. Il nichilismo perfetto di Stavrògin, al contrario, parrebbe scevro d’alcun richiamo alla colpa; come l’incendio terroristico nel romanzo, esso è completamente voluto: “È tutto doloso! Questo è nichilismo! Se c’è qualcosa che brucia è nichilismo! - intesi quasi con orrore, e, sebbene non ci fosse più da meravigliarsi di nulla, pure la realtà evidente ha sempre in sé qualcosa che scuote”7. Nikolàj, ad un passo dal voyeurismo più sadico, quindi patologico, si trattiene alla distanza di sicurezza dell’intuizione, egli sa d’aver condotto la ragazza al disastro. Il limitare in questa terra dell’immaginario senza forma s’accompagna a un’indifferenza molto vicina tanto al desiderio suicidale quanto a un paradossale controllo dello stesso: “Ed ecco che, in quei giorni, mi posi la domanda, se potevo piantar lì tutto e abbandonare l’intenzione concepita, e sentii subito che avrei potuto in qualunque momento. In quell’epoca volevo uccidermi perché mi sentivo preso dalla malattia dell’indifferenza; a dire il vero, non so neanche perché volevo uccidermi”8. Insomma, Stavrògin non solo non conosce e non sente “né il male né bene”, non solo ne ha “perduto il senso”, ma sa pure “che il male e il bene in realtà non esistono nemmeno [...] e non sono altro che 6

Ivi, p. 48. F. Dostoevskj, Gli indemoniati, Luigi Reverdito Editore, Varese 1995p. 475. 8 F. Dostoevskij, “Confessione...”, cit., p. 44.

pregiudizi”. Vi era anzi un certo piacere in questa conoscenza ma, così conclude in modo un po’ inaspettato, “raggiunta quella libertà, mi sarei perduto”9. § 2. Matrëša è in parte anche un’immagine di Liza. Così come Liza è in parte un’immagine di Matrëša. Sono entrambe strumenti di Nikolàj e proprio perché inscritte totalmente nella relazione perversa, secondo lo schema delle transazioni di Eric Berne, incapaci di operare, a differenza di Sònja per Raskòlnikov, redenzione reale nei confronti di Stavrògin. La struttura dei rapporti, a posizione variabile, tra persecutore, vittima e salvatore, è noto come non possa costituire alcun esito “sanamente” amoroso quando costantemente e, invariabilmente, riproporsi esattamente come sintomo. Poco prima di morire linciata dalla folla, Liza, in uno stato di ormai disincantata prostrazione, proferisce a Stavrògin le seguenti parole: “Questa nobile franchezza ve la ripago con la stessa moneta non voglio esser la vostra suora di carità. Andrò, magari, davvero a fare l’infermiera, se non saprò morire opportunamente oggi stesso; ma anche se ci andassi, non verrei da voi, sebbene anche voi non siate da meno di qualsiasi invalido senza braccia e senza gambe. Ho sempre avuto l’impressione che mi avreste portata in qualche posto dove abita un enorme ragno cattivo, grosso come un uomo, e

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Ivi, p. 51.

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che noi tutta la vita saremmo stati lì a guardarlo e ad averne paura. Così trascorrerebbe il nostro reciproco amore.”10

La morte di Liza è uno di quegli eventi che Lukàcs potrebbe definire “come incondizionata casualità dei presupposti”11. In ciò, continua il filosofo ungherese, si mostra il distacco dalla forma romanzo, esattamente nei termini per cui “Dostoevskij non raffigura geneticamente” e quindi i presupposti sono semplicemente dati, “poco importanti”12. Intuizione fondamentale per una storia delle forme e per una teoria generale del romanzo, dal momento che queste investono esattamente lo statuto del soggetto, della soggettività e del loro rapporto con una dottrina della redenzione sotto “la gabbia d’acciaio”, riferendosi a Weber, e che richiama la tesi, fondamentale e paradossale, di questo incredibile abbozzo di saggio: “Dostoevskij non ha scritto alcun romanzo”13! La dinamica della morte di Liza non è affatto chiara nelle vicende specifiche soprattutto circa la sua compensazione all’interno di uno schema moderno del diritto - quanto, sostanzialmente, inevitabile. Essa, cioè, evoca il tema arcaico del destino all’interno dello spettro barocco della modernità, cioè dello schiacciamento

del destino nell’allegoria. Liza non sa che Stavrògin è sposato. Maria Lebjàdkin viene sgozzata insieme a suo fratello da Lipùtin, ma l’incendio a scopo terroristico che avrebbe dovuto anche sbarazzarsi dei cadaveri non fa il suo dovere. Condotta dalla necessità di sapere, Liza si trascina in uno stato di semifolle agitazione nella scena del crimine. Vi è ovviamente molta gente, si parla di alcuni ubriachi che “davano in escandescenze” e un po’ di sovraeccitati “usciti dai gangheri”, persone che mormorano sugli strani tornaconti per la ragazza, “[a]d un tratto vidi alzarsi e riabbassarsi un braccio sopra la testa di lei”14. “Anch’io come testimone oculare, sebbene da lontano”, afferma il narratore, “dovetti fare la mia deposizione in istruttoria: dichiarai che tutto si era svolto proprio a caso, ad opera di persone forse anche montate ma poco coscienti, ubriache e che ormai non ragionavano più. E di tale parere rimango tuttora.”15

Per Liza e Matrëša si potrebbero utilizzare le parole di Orazio: “So Guildenstern and Rosencrantz go to’t”16. Ma che dire dell’icastica risposta di Amleto, la verità della quale potrebbe essere addirittura eccessiva? “They are not near my conscience”17.

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F. Dostoevskj, Gli indemoniati, cit., p. 484. G. Lukács, Dostoevskij, SE, Milano 2000, p. 26. 12 Ivi, p. 25-26. 13 Ivi, p. 24.

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F. Dostoevskj, Gli indemoniati, cit., p. 497 Ivi, p. 498. 16 Hamlet, V, v. 60. 17 Ivi, v. 63.

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§ 3. Ripartiamo da Kant: “la comprensione della molteplicità nell’unità di ciò che è stato appreso in modo successivo, è dunque un regresso che toglie di nuovo la condizione temporale nel progresso dell’immaginazione e permette un’intuizione della simultaneità. Essa è dunque (poiché la successione temporale è una condizione del senso interno e di un’intuizione) un movimento soggettivo dell’immaginazione per cui essa fa al senso interno una violenza [Gewalt] che dev’essere tanto più notevole quanto più grande è il quanto che l’immaginazione comprende in un’intuizione”18. Come ricompare, per la prima volta, l’immagine di Matrëša nella coscienza di Stavrògin? Il giorno in cui la bambina compierà il suo gesto definitivo, Nikolaj è attentissimo nel controllare tutte le tracce che avrebbe potuto lasciare nell’appartamento, di modo da non dare minimo addito a sospetti: “Mi venne in mente che, siccome nessuno mi aveva incontrato quando ero entrato dal portone ed ero salito su per la scala, dovevo evitare che m’incontrassero ora, quando sarei sceso giù; spostai perciò cautamente la sedia dalla finestra, in modo che gli inquilini non mi potessero vedere. Presi un libro, ma lo buttai da parte e mi misi ad osservare un minuscolo ragno rosso che stava sulla foglia di un geranio; restai assorto. Ricordo tutto fino all’ultimo particolare.”19

In questa scena sarebbero da annotare affinità e divergenze con il compagno Raskòlnikov, tanto basti però mettere semplicemente in evidenza come l’aspetto patogeno del gesto criminale del protagonista di Delitto e castigo fosse fin dal principio diagnosticabile anche solo come una megalomania, accompagnata da sintomi ossessivi che avranno un ruolo sempre più consistente nello svolgersi delle vicende del romanzo: “Raskòlnikov era convinto che questo ottenebramento della ragione e questa paralisi della volontà s’impadroniscono dell’uomo come un malattia, si sviluppano gradualmente e raggiungono il loro acme poco prima che venga commesso il delitto; persistono nel tempo necessario al suo compimento e anche un po’ di più, a seconda degli individui, dopo di che passano, come passa qualsiasi altra malattia. Quanto alla domanda: è la malattia a causare il delitto, oppure è il delitto che, per sua particolare natura, è sempre accompagnato da quella specie di malattia? - non si sentiva ancora in grado di rispondervi. Stabilite queste premesse, aveva deciso che, per quanto riguardava lui personalmente, nella faccenda non avrebbero potuto verificarsi sconvolgimenti morbosi di quella specie; che egli avrebbe conservato la ragione e la volontà del tutto inalterate durante l’intera esecuzione del suo progetto: e questo per il semplice motivo che il suo «non era un delitto»”20.

In Raskòlnikov vi è in realtà un tenzone, sempre limitante in prossimità del delirio, tra l’ideale

18

I. Kant, Critica della capacità di giudizio, BUR, Milano 1995, p. 295. 19 F. Dostoevskij, “Confessione...”, cit., p. 50 (cors. mio).

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F. Dostoevskij, Delitto e castigo, v. I, Garzanti, Milano 1992, pp. 79-80.

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superomistico dell’al di là del bene e del male, e la concretizzazione di questo, proprio come ideale eccesso sublimante -, nel conflitto di rimozione della colpa. Per questo l’esito finale del romanzo è veramente redentivo: proprio nel momento in cui la colpa, sempre pretesa riconosciuta, viene realmente esperita, in quanto perdonata. Attraverso l’accettazione sans condition dell’amore di Sònja, Raskòlnikov ritrova la coscienza della propria finitezza che aveva rimosso con un processo di sublimazione. Questo nuovo incontro è trascritto nella stupenda descrizione di Sònja, anch’ella coinvolta nella trasformazione che lei stessa ha operato: “Nei suoi occhi brillò una felicità infinita; capì, e per lei non ci fu più alcun dubbio: egli l’amava, l’amava immensamente: alla fine, quel momento tanto atteso era arrivato...”21. Uno degli aspetti più commoventi di queste ultime vicende del romanzo di Dostoevskij è indubbiamente la pazienza di Sònja, cioè il riflesso sano della condanna di Raskòlnikov, dei suoi anni di prigionia. I lunghissimi tempi della conclusione del romanzo si contraggono nell’exaíphnes della possibilità: “Sette anni, soltanto sette anni!”22. E così il romanzo, invece di essere la fine della storia, diventa la possibilità del cominciamento di “una nuova storia”23 o, per usare qui il titolo girardiano, 21

F. Dostoevskij, Delitto e castigo, cit. , v. II, p. 619. Ivi, p. 620. 23 Ibidem.

la fine della menzogna romantica e l’inizio della verità romanzesca. Per Nikolaj, invece, le cose vanno in modo molto diverso (o forse solo apparentemente diverso). Tempo dopo dispetto ai fatti già narrati, Stavrògin ha un sogno, un sogno che in qualche modo ricorda quello dell’uomo ridicolo nell’omonimo racconto. Protagonista della scena è una sorta di isola greca immaginaria popolata da un’umanità sostanzialmente felice: “Magnifico sogno, alto errore! Il sogno più inverosimile di quanti mai siano stati, al quale tutta l’umanità, per tutta la vita, dava tutte le sue forze; per il quale sacrificava tutto; per il quale i suoi profeti morivano sulle croci e venivano immolati; sogno senza il quale i popoli si rifiuterebbero di vivere e non potrebbero neanche morire. Mi parve di provare tutte queste sensazioni in sogno; non so che cosa precisamente sognassi, ma mi pareva di vedere ancora le rocce, il mare e i raggi obliqui del sole morente, quando mi svegliai e apersi gli occhi, che per la prima volta in vita mia sentii umidi di lacrime. Una sensazione di felicità a me ancora ignota mi attraversò il cuore sino a farmi male. Era già sera fatta; attraverso la finestra della mia piccola stanza, tra il verde dei fiori posti sul davanzale, irrompeva un fascio di raggi obliqui del sole morente e mi inondava di luce. Mi affrettai a richiudere gli occhi, come anelando di far tornare il sogno svanito, ma un tratto, come in mezzo a una luce abbagliante, vidi un minuscolo ragnolino rosso. Lo ricordai quale l’avevo visto sulla foglia di geranio, quando similmente entravano obliqui nella stanza i raggi del sole morente. Si conficcò in me come una lama, mi sollevai e sedetti sul letto...”24

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Ivi, pp. 52-53.

14

È proprio a questo punto che ricompare l’immagine di Matrëša con il suo accusante pugno chiuso, l’immagine che accompagnerà Stavrògin si può immaginare fino all’ultimo istante della sua vita conclusasi, guarda caso, con un medesimo suicidio per impiccagione. Terrificante espediente letterario da parte di Dostoevskji, quello di presentare l’immagine non come il contenuto di un sogno ma come quello dello stadio appena successivo al risveglio (un erweckte Lust o Unlust)25; altrettanto inquietante il carattere, veramente, di phantásmata e lo stato di coscienza che lo caratterizza, tra l’evocazione spiritista e la realtà evanescente avvolta dall’evanescenza della figura evocata: “Non mi si presenta da sé, ma sono io che lo evoco e non posso non evocarlo, sebbene mi tormenti la vita. Oh, almeno la vedessi un giorno da sveglio, magari 25

Walter Benjamin, nella sua genialità, colse la centralità dell’attimo del risveglio (singolare e collettivo) in una prospettiva di apertura rivoluzionaria. Cfr. soprattutto W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino 2002. Nel momento dello stropicciarsi gli occhi al risveglio, proprio “in questo istante”, afferma il filosofo berlinese “avviene che lo storico assume in sé il compito dell’interpretazione dei sogni” [ivi, p. 520]; ed altrove: “[...] nel contesto onirico noi cerchiamo un momento teleologico. Questo momento è l’attesa [das Warten]. Il sogno attende segretamente il risveglio, il dormiente si consegna alla morte solo fino a nuovo ordine attendendo l’istante [die Sekunde] in cui, con astuzia [mit List], si sottrarrà ai suoi artigli” [ivi, p. 434]. Cfr. inoltre qui § 4.

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in un’allucinazione!”26. Si potrebbe parlare qui di “effetto visiera”, per come Derrida ci presenta la fenomenologia del fantasma del padre, unione di Geist ed Erscheinung, appunto nell’Amleto: “Questo effetto visiera [...] sarà però supposto in tutto ciò che proporremo d’ora in avanti sullo spettro in generale, in Marx e altrove. [...] quel che distingue lo spettro o il revenant dallo spirito, inteso come spirito nel senso di fantasma in generale, è una fenomenicità indubbiamente soprannaturale e paradossale, la visibilità furtiva e inafferrabile dell’invisibile o l’invisibilità di una X visibile, quella sensibilità insensibile di cui parla Il Capitale [...], a proposito di un certo valore di scambio: è anche , indubbiamente, l’intangibilità tangibile di un corpo proprio senza carne, ma sempre di qualcuno in quanto qualcun altro, che non è il caso di precipitarsi a determinare come io, soggetto, persona, coscienza, spirito, ecc. Questo basta già a distinguere lo spettro, non solo dall’icona, dal phántasmata platonico, e dal semplice simulacro di qualcosa in generale, al quale è pure così vicino e di cui, sotto altro aspetti, condivide più di un tratto. Ma non è tutto, e neanche quel che c’è di più irriducibile. Altra suggestione: questo qualcun altro spettrale ci guarda, noi ci sentiamo guardati da lui, al di fuori di ogni sincronia, prima e al di là di ogni sguardo da parte nostra, secondo una anteriorità [...] e una dissimmetria assolute, secondo una sproporzione assolutamente indominabile. Qui l’anacronia è legge. Ci sentiamo visti da uno sguardo che sarà sempre impossibile incrociare”27

L’azione dello spettro è proprio quello di trascinare nella propria direzione, egli è l’azione irrapre26 27

F. Dostoevskij, “Confessione...”, cit., p. 53. J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1993 , p. 14-15.

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sentabile del rimosso - che ci guarda senza essere visto. L’inquietudine di questa caverna profonda, in cui parremmo responsabili dell’impartecipazione alla verità del nostro divenire, costretti a vagare nello stesso stato materiale delle creature della nostra Einbildungskraft, si può forse aggirare ricorrendo al motivo dell’associazione. Facendo ciò si deve introdurre un terzo, il terapeuta, finora rimasto estraneo al tertium non datur del nichilismo: o tutto, o niente. Il terzo, cioè, deve evitare il transfert, ovverosia, meglio, saperlo gestire perché, comunque, per il dispiego più o meno conscio della propria energia, non può evitarlo. Il fallimento del caso di Dora, del resto, è stato attribuito anche a una mancata gestione del transfert da parte dello stesso Freud. In tutto ciò agisce l’arma a doppio taglio della potenza associativa. Proprio nel saggio su Dora, che ritornerà a più riprese, Freud fornisce uno spaccato decisivo intorno a questo problema della associazione: “Quando un paziente, durante il trattamento, ragiona secondo una linea di argomenti precisi ed esaurienti, è legittimo che il medico si senta per un attimo in imbarazzo, così da offrirgli l’opportunità di domandare: «È vero o no che quel che dico è perfettamente coerente e giusto? Che cosa c’è da cambiare nella versione dei fatti che vi do io?». Ma subito diviene chiaro che il paziente si serve di pensieri di questo genere, che l’analisi non può attaccare, allo scopo di coprirne

altri che son preoccupati di sfuggire alla critica della coscienza”28.

In questi termini emerge proprio il punto che qui maggiormente interessa. Sempre sollecito a ribadire l’intelligente “presenza di spirito” da parte di Dora, Freud è ovviamente più interessato ai luoghi in cui proprio quella presenza si mostra esattamente come sintomo, in cui la stessa efficienza del controllo psichico tocca esattamente il sistema di rimozione. A questo punto l’associazione, oltre a fornire le basi dell’ermeneutica analitica, è anche la metafora di un evento che la sorregge. Senza evento, cioè, non ci sarebbe scienza della psiche; tant’è che la psicanalisi, in qualche modo, è proprio una scienza. O almeno, paradossalmente, vorrebbe esserlo. § 4. L’associazione deve essere esplicitata, non lasciata alla semplice intuizione. Il gesto di ripresentarla per portarla alla coscienza mantiene quel grado distruttivo, dell’abbassamento metaforico rispetto alla potenza che la metafora, in quanto viva, sottopone alla possibilità di un suo controllo. Nell’uso dell’associazione vi sta, in fondo, l’epistemologia irrisolta della psicanalisi; aspetto, quest’ultimo, tanto poco interessante rispetto piuttosto all’inevitabile rapporto che la filosofia contemporanea, per essere tale, deve 28

S. Freud, Il caso di Dora, in Opere 1905-1921, Newton § Compton, Milano 1992, p. 31.

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continuare a tessere con la proposta freudiana, quanto però significativo e sintomatico rispetto all’incomprensione e al fallimento terapeutico del singolo caso umano. Una bibliografia vastissima, per fare solo un esempio, è stata accumulata intorno a Il caso di Dora e soprattutto alle vicende che l’hanno accompagnato. Delle deduzioni freudiane s’è arrivato a parlare, e forse in qualche modo a ragione, di strategia di controllo sessuale: “Psychoanalysis is a strategy for male (sexual) mastery over the female, a theory that proclaims the duty of the woman to embrace sexual submission. It goes so far as to identify such submission with the woman’s “pleasure principle”: This is what she “really wants”! C. The analytical situation models this relationship of mastery and submission. What is “transferred” are not so much the sexual desires of the (woman) patient onto the (male) analyst, as the power-politics of the (male) analyst onto his (female) patient. “Transference” is a theory that displaces and disguises this strategic mastery of the (male) analyst (to turn Freud’s interpretive strategies against him).”29

L’associazione che qui si propone rimane, per ora, solamente sul piano rappresentativo e vorrebbe valere solamente come generatore associativo per continuare il discorso, tant’è che l’associazione era stata già anticipata proprio dalla precisa selezione dei passi citati. L’associazione, quindi, ha il merito di mantenere attivo il grado metaforico proprio 29

Richard T. Gray, Notes on Dora, http://courses.washington.edu/freudlit/Dora.Notes.html.

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cfr.

nella sua ostinata banalità. Si sarà cioè già notata la presenza di un ragno, prima minuscolo poi enorme, nei fatti di Stavrògin e nella narrazione di Liza. Questo ragno, piccolo ed enorme nello stesso tempo e nello stesso spazio, in ogni caso mostruoso (Ungeheuer), può essere assunto semplicemente come elemento di disturbo, di interruzione del continuum esperienziale allo stesso modo dell’Erhabene kantiano nella Critica del giudizio. Com’è noto in quest’ultimo è proprio il rimando all’infinito non riducibile alle categorie dell’intelletto a costituire il fondamento della Urteilkraft, la quale, alla fine, è una capacità associativa all’interno della reine Vernunft. “Chiamiamo sublime [Erhabene]”, scrive Kant, “ciò che è assolutamente grande [schlechtin groß]”, “ciò che è grande al di là di ogni confronto”30: “Ma quando noi diciamo di una cosa non solo che è grande, ma che è assolutamente grande, che lo è in assoluto, in ogni senso (al di là di ogni confronto), cioè che è sublime, allora si vede subito che non permettiamo che per quella cosa venga cercata un’unità di misura che le sia adeguata al di fuori di essa, ma solo in essa stessa. È una grandezza che è uguale solo a se stessa. Ne deriva che il sublime non va dunque cercato nelle cose della natura, ma solo nelle nostre idee”31.

Avendo ottenuto l’ambito delle Ideen, la definizione dell’Erhabene si accresce: “sublime è 30 31

I. Kant, Critica..., cit., p. 267 (§ 25 ss.). Ivi, pp. 272-273.

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ciò che, per il solo fatto di poter essere pensato, dimostra una facoltà dell’animo che oltrepassa ogni unità di misura dei sensi”32. Si voglia sottolineare la determinazione di un rapporto associativo che, in Kant, non corrisponde certo sempre a un fattore, banalmente, di serenità. Si parla di sbigottimento, Bestürzung, cioè un vero e proprio inquieto disturbo, addirittura di Verlegenheit, imbarazzo, come nell’esempio della basilica di S. Pietro: “si ha qui un sentimento dell’inadeguatezza [ein Gefühl der Unangemessenheit] della propria immaginazione [Einbildungskraft] per le idee di un tutto: l’immaginazione raggiunge il suo massimo e, sforzandosi di aumentarlo, ricade su se stessa, ma in tal modo si ritrova in uno stato di compiacimento e di emozione [in ein rührendes Wohlgefallen]”33. “Il sentimento del sublime”, si dice altrove, “è dunque un sentimento di dispiacere [Unlust], per l’inadeguatezza dell’immaginazione nella stima estetica [...] e al contempo in ciò stesso un piacere risvegliato [erweckte Lust] dall’accordo di questo giudizio dell’inadeguatezza della più grande facoltà sensibile con le idee della ragione”34. Quasi come un calembour si pensi al rapporto tra rappresentabilità dell’Io ideale, del processo di idealizzazione, e del contemporaneo divieto di

rappresentazione intimato, in definitiva, dall’istanza censoria del Super Io. Nello stesso tempo, si pensi alla funzione di appagamento psichico della nevrosi. Certamente, “il sogno è un appagamento di desiderio” ma, come scrive Freud a Fliess: “Non solo il sogno è un soddisfacimento di desiderio, ma lo è anche l’attacco isterico. Ciò è vero per i sintomi isterici, ma probabilmente si può applicare a qualsiasi prodotto della nevrosi”35. Ritornando immediatamente a Kant: attraverso il controllo della stima matematica, l’“intelletto è [...] soddisfatto [befriedigt]”: l’immaginazione sceglie “come unità di misura una grandezza che si può cogliere con un colpo d’occhio”, (“ma un tratto, come in mezzo a una luce abbagliante, vidi un minuscolo ragnolino rosso”), però, attraverso questa scelta, l’apprensione (Auffassung) “è sì possibile in un’intuizione dell’immaginazione, ma non la [...] comprensione [Zusammenfassung] (cioè non è possibile con la comprehensio aesthetica)”36:

32

35

Ivi, p. 273. Ivi, p. 279. 34 Ivi, p. 293.

“l’animo presta ascolto in se stesso alla voce della ragione, la quale, per tutte le grandezza date [...] esige la totalità, e dunque la comprensione in una intuizione, e richiede l’esibizione [Darstellung] per tutti quei membri di una serie di numeri progressivamente crescente e non esclude da questa esigenza nemmeno l’infinito (spazio e tempo trascorso), ma anzi rende inevitabile pensarselo (nel giudizio S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904, Bollati Boringhieri, Torino 1986, p. 382. 36 I. Kant, Critica..., cit., p. 283.

33

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della ragione comune) come dato interamente (nella sua totalità).”37

Sono passi, questi, che rimarranno profondamente segnati nel giovane Hegel della Differenz: “La scissione è la fonte del bisogno della filosofia [...]. Nella cultura ciò che è manifestazione dell’assoluto si è isolato dall’assoluto e si è posto come elemento autonomo. Ma la manifestazione non può nello stesso tempo rinnegare la sua origine e deve mirare a costituire come un intero la molteplicità delle sue limitazioni”38. Un po’ sovraccaricando il significato di questo hegeliano Bedürfnis, sembrerebbe agire un sentimento che muove in prossimità della totalità, allo stesso modo come una volontà di significare spinge all’utilizzo del principium firmissimum in Meth. G 5. Non tanto per una intellettualistica volontà di sapere, cioè di rappresentare, ma per un bisogno per il quale il tutto non può essere lasciato fuori dalla verità. Si tenga presente come in psicologia vi sono modalità considerate sane o malate proprio di questo bisogno. Ciò, comunque, significa per certi versi che proprio quello che non può essere controllato dalla coscienza, il suo lato desiderante, diventa il fondamento della sintesi di quest’ultima; per Kant ciò si esprime attraverso un sentimento di

inadeguatezza (il “fondamento di questo compiacimento che [...] ci rende nota l’inadeguatezza, e quindi anche la non-finalità [Unzweckmäßigkeit] soggettiva della rappresentazione”39), per Freud si dà esattamente come sintomo, come ritorno del rimosso. “La stessa facoltà di poter pensare l’infinito dell’intuizione soprasensibile come dato (nel suo sostrato intelligibile)”, scrive Kant, “oltrepassa ogni unità di misura della sensibilità ed è grande al di là di ogni confronto anche con la facoltà della stima matematica; non certo, ovviamente, in una prospettiva teoretica, in funzione della facoltà conoscitiva, ma tuttavia come estensione dell’animo, il quale sente [fühlt] di avere in sé la facoltà di superare in un’altra prospettiva (in quella pratica) i confini della sensibilità”. E poco più avanti: “Sublime è dunque la natura in quei suoi fenomeni la cui intuizione comporta l’idea della sua infinità. Ma questo non può accadere se non mediante l’inadeguatezza anche della più grande tensione della nostra immaginazione”40. A questo punto il fenomeno, la Erscheinung, si ripristina in una modalità d’evento, tanto da poter parlare di evento di coscienza piuttosto che di coscienza dell’evento. Ma il passaggio alla sfera pratica mette in campo, per Kant, il regno dei fini, per Freud, piuttosto, il problema della finitezza o infinitezza

37

Ibidem. W. F. Hegel, Differenza tra il sistema di Fichte e quello di Schelling, in Primi scritti critici, Mursia, Milano 1990, p. 13.

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39 40

I. Kant, Critica..., cit., p. 279. Ivi, p. 285 (cors. mio).

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dell’analisi: “la fine di un’analisi”, scrive Freud, “è, a mio avviso, una faccenda che riguarda la prassi”41. In quest’ambiguità, tra libertà infinita e imperiosità assoluta, - là dov’era l’Es deve esserci l’Ich - si gioca il ruolo violento ed euristico del terzo. § 5. “L’immaginazione procede da sé all’infinito, senza che niente le sia d’ostacolo [...]; ma l’intelletto la guida mediante concetti di numero per i quali essa deve dare lo schema”42. Certamente, forse, per poterci riferire a Freud, bisognava piuttosto citare il sentimento del perturbante, dello Unheimlich; anche se la soglia tra il sublime e l’orrendo, talvolta, è del tutto effimera: “necessità incondizionata, abisso della ragione, più dell’eternità dà vertigine”43; oppure, nuovamente con Freud: “Le anime nell’Inferno di Dante, o le apparizioni soprannaturali nell’Amleto, nel Macbeth o nel Giulio Cesare di Shakespeare, possono essere anche tetre e terrificanti, ma non per questo sono più inquietanti del mondo gioviale degli dèi

omerici”44. Così suona l’importante incipit del celebre saggio freudiano: “È molto raro che uno psicoanalista si senta spinto a studiare argomenti di estetica, anche quando con estetica non si voglia intendere semplicemente la teoria del bello, bensì la teoria della qualità del sentimento. Egli lavora su altri strati della vita psichica e non ha molto a che fare con quegli impulsi emotivi controllati che, ostacolati nella loro finalità e sottoposti all’influenza di numerosi fattori concorrenti, sogliono fornire il materiale degli studi di estetica. Di quando in quando, però, capita che egli debba interessarsi a qualche ambito particolare di tale argomento e, di solito, detto ambito finisce con l’essere piuttosto fuori del comune, così da essere stato trascurato nella letteratura specialistica dell’estetica.”45

A Freud, cioè, interessano alcuni momenti narrativi, soprattutto il racconto fantastico: perché il suo dominio è “di gran lunga più ricco di quello del perturbante nella vita reale, dato che contiene Nel genere integralmente quest’ultimo”46. fantastico, soprattutto, viene a costituirsi la situazione per cui la tipica operazione di ordinamento degli impulsi emotivi, la scrittura in genere, diventa il veicolo di maggiore mobilitazione di ciò che, in quanto rimosso, non si lascia ordinare. Ciò significa che l’elemento incontrollabile, determinato dalla persistenza, a

41

S. Freud, “Analisi terminabile e interminabile”, in Opere, XI, Boringhieri, Torino 1979, p. 532 42 I. Kant, Critica..., cit., p. 281. 43 I. Kant, Critica della ragion pura, Milano, Bompiani 1987, pp. 634-635.

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44

S. Freud, Il perturbante, in Opere 1905-1921, Newton § Compton, Milano 1992, pp. 1049-1070, p. 1068. 45 Ivi, p. 1049 (cors. mio). 46 Ivi, p. 1068.

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causa di “complessi infantili rimossi”47, di quella animistica e primitiva “onnipotenza del pensiero”, che in sostanza è una “sopravvalutazione narcisistica dei processi psichici”48, viene più facilmente mobilitato dalla produzione che, in qualche modo, è sottoposta al controllo perlomeno estetico. Se nel 1919, a riguardo, parlava di una sorta di interruzione nel soggetto di quel processo che ha condotto la civiltà occidentale a un rapporto con la verità come “verificazione” (“Né le più strane coincidenze tra desiderio e suo esaudimento, né le più ingannevoli apparizioni o i più strani rumori potranno turbarlo, o suscitare in lui quel genere di paura che può essere definito «paura del mistero». Tutto si risolve nel problema di «verificare», di accertarsi della realtà materiale dei fenomeni”49), è noto come dieci anni più tardi, nel 1929, egli riconosca, confrontandosi soprattutto con l’Otto del Sacro, che, in realtà, un cosiddetto “sentimento oceanico”, “un sentimento di indissolubile legame, di immedesimazione con la totalità del mondo esterno”, “un’intuizione intellettuale non certo priva di una sua risonanza emotiva”50, sia presentissimo anche nella vita psichica più civilizzata, tanto da esserne un polo di 47

Ivi, p. 1067. 48 Ivi, p. 1062. 49 Ivi, p. 1067. 50 S. Freud, “Il disagio della civiltà”, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 200.

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quel conflitto con il controllo della libido che determina l’enorme disagio, generalizzato, della civiltà stessa. Alla fine, per la teoria psicanalitica, vale il fatto che “una volta formatosi nella vita psichica nulla può perire, che tutto in qualche modo si conserva e che, in circostanze opportune, attraverso ad esempio una regressione che si spinga abbastanza lontano, può nuovamente venir portato alla luce”51. La circostanza opportuna, la buona riuscita, può essere del tutto causale, è come un tesoro trovato in un campo mentre si scavava una fossa. Per questo motivo, ritornando al tema delle associazioni e anticipando quello dei lapsus, il perturbante ha chiaramente un rapporto preferenziale con le strategie, ad esempio letterarie, atte a evocarlo più facilmente; altrettanto, però, esso ha la natura dell’accadimento, in cui veramente l’evento del suo accadere rimanda a una sua origine nascosta, misteriosa o, se vogliamo, semplicemente rimossa. Si è visto come, in Kant, lo spaventoso, das Ungeheuer, è in qualche modo legato al necessario non presentarsi della totalità proprio nella rappresentazione. Per Freud “si può dimostrare che l’elemento spaventoso è costituito da qualcosa di rimosso che si ripresenta”: “se è questa veramente la natura del segreta del perturbante, possiamo capire perché la consuetudine linguistica ha dato all’espressione das Heimliche anche un 51

Ivi, p. 204.

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significato opposto, corrispondente a quello di das Unheimliche. Infatti questo elemento perturbante non è in realtà nulla di nuovo o estraneo, ma un elemento ben noto e impiantato da lungo tempo nella psiche, che solo il processo di rimozione poteva rendere estraneo. Inoltre questo richiamo alla rimozione ci mette in grado di comprendere la definizione di Schelling, secondo il quale il perturbante è ciò che doveva rimanere nascosto ma è venuto alla luce”52.

§ 6. Un uomo cammina per strada e gli cade un vaso in testa. Qui il rapporto tra i termini è dato solo da una semplice congiunzione, la quale avviene, comunque, nel tempo. Nel frattempo quell’uomo ha la testa rotta e, probabilmente, è pure morto. Questa, cioè, è l’instrutturabile rappresentazione del synbebekós aristotelico: “Accidente significa ciò che appartiene ad una cosa e che può essere affermato con verità della cosa, ma non sempre né per lo più: per esempio, se uno scava una fossa per piantare un albero e trova un tesoro. Questo ritrovamento del tesoro è, dunque, un accidente per chi scava una fossa: infatti, l’una cosa non deriva dall’altra né fa seguito all’altra necessariamente; e nemmeno per lo più chi pianta un albero trova un tesoro.”53

È chiaro come in quest’esempio dello stagirita non voleva esserci alcun intento metaforico o esoterico. Che un uomo scavi in un terreno per scavare una fossa e trovi un tesoro è possibile, ma non ha nulla 52 53

S. Freud, Il perturbante, cit., p. 1062. Aristot., Metaph., D 30, 1025a 14-19 (cors. mio).

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di necessario. Quindi, in rapporto alla conoscenza, è un puro accidente. Nello stesso tempo, però, è interessante che il medesimo esempio ricompaia in qualche modo nella narrazione evangelica proprio in rapporto alla verità: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde nuovamente, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo”54. Continuando il gioco delle associazioni, proprio per lasciarlo da parte, si può sottolineare che l’a-topia del regno dei cieli, si pensi al sogno di Stagròvin, ha una vicinanza con il non-essere se pensiamo a un’ontologia che ha un rapporto di produzione con la verità. Il regno dei cieli, cioè, non lo si genera nell’orizzonte degli eventi. Semplicemente lo si trova. Singolare, però, che anche questo spunto sia presente in qualche modo di nuovo in Aristotele: 54

Mt. 11, 44 (su questa tranche evangelica ci si è già diversamente soffermati in altra sede, cfr. S. Bellanda, Il nulla che noi siamo). La verità di Gesù è precedente, e contemporaneamente successiva, a qualsiasi precedenza: il passo citato viene spesso associato a Lc. 9, 59-60, che qui si prenderebbe proprio a stimolo di una riflessione sul senso e significato dell’psicanalisi: “A un altro disse: «Seguimi». E costui replicò: «Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre». Gesù replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio»”. Si noti, inoltre, la dimensione in qualche modo economica che riveste la rappresentazione del regno; cfr. Pr. 7, 4: “Principio della sapienza: acquista la sapienza; a costo di tutto ciò che possiedi acquista l’intelligenza”.

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“L’accidente, in effetti, risulta essere qualcosa di vicino al non-essere [ga;r to; sumbebhko;" ejgguv" ti tou' mh; o[nto"]. Questo è evidente anche in base a questa argomentazione: degli esseri che non sono al modo dell’accidente, c’è generazione e corruzione [gevnesi" kai; fqorav], invece degli esseri per accidente [tw'n de; kata; sunbebhko;"] non c’è generazione né corruzione”55.

Più che detrarne una sorta di bassezza, potrebbe qui risuonare un richiamo al nietzscheano uomo della buona riuscita56, o altrimenti ricordare come, seppur criticato da Aristotele, l’Uno-verità descritto da Melisso consta tra i suoi attributi necessari proprio l’assenza di generazione e corruzione, e, tra l’altro, in forza di ciò, “non soffre”57. Ma, per Aristotele, è proprio per questi motivi che di esso, dell’accidente, “non c’è nessuna scienza”:

55

Ivi, E 2, 1026b 21-24. La traduzione di Reale è stata qui leggermente modificata. 56 “esiste nei più diversi luoghi della terra e sulla base delle più diverse civiltà una continua riuscita di singoli casi, con i quali viene realmente rappresentato un tipo superiore [ein höherer Typus]: qualcosa che in rapporto all’umanità nel suo insieme è una sorta di superuomo. Tali casi fortunati di una grande riuscita sono sempre stati possibili e saranno forse sempre possibili. E persino intere generazioni, stirpi, popoli possono, a volte, rappresentare un tale caso ben azzeccato [Solche Glücksfälle des grossen Gelingens]”, F. Nietzsche, L'anticristo. Maledizione del cristianesimo, in Opere, vol. VI/3, pp. 165-262, p. 170. 57 Meliss., DK 30, B 7.

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“Una prova di ciò si ha nel fatto che nessuna scienza si occupa di esso: né la scienza pratica, né la scienza poietica, né la scienza teorica. Infatti chi fa una casa non fa anche tutto ciò che, poi, accidentalmente la casa verrà ad avere. Infatti questi accidenti sono infiniti; nulla impedisce, in effetti che la casa, una volta che sia costruita, agli uni sembri gradevole, ad altri invece scomoda, ad altri ancora utile, e che sia anche diversa, per così dire, da tutte quante le altre cose: ora, l’arte 58 del costruire non produce nessuno di questi accidenti.”

Tenere fuori la verità dall’evento rende poco onore al vero tanto quanto tenere fuori l’evento dalla verità. Se accidente è “ciò che appartiene ad una cosa e che può essere affermato con verità della cosa, ma non sempre né per lo più” e se “di esso non c’è nessuna scienza” allora si può in parte affermare che non c’è scienza della verità. È pur vero che in Meth. a, libro del resto d’alcuni ritenuto spurio per validi motivi genetici, si dice che la filosofia è la scienza della verità (ojrtw'" d’ e[cei kai; to; kalei'sqai th;n filosofivan ejpisthvmhn th'" ajlhqeiva" [a 1, 993 b 20-21]); ma in A la verità, si perdoni l’estremo di generalizzazione, sembra non aver un ruolo fondamentale in rapporto alla scienza, così come addirittura alétheia non compare tra i termini definiti D. Si parla piuttosto di scienza dei principi, delle cause, con una omonimia del tutto singolare tra la prote philosophia, nel senso della metafisica, e la prote philosophia, nel senso di quella degli antichi, che muoveva i primi 58

Aristot., Metaph., E 2, 1026b 4-10.

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balbettii nell’ambito della conoscenza. Intorno a questa omonimia si vorrebbe far porre l’attenzione sull’implicita persistenza, piuttosto che sulla più che argomentata differenza tra termini uguali. In qualche modo questa omonimia ha la stessa natura dell’omonimia tra cane, animale, e cane, costellazione: è, cioè, un’omonimia totalmente accidentale. Del resto Aristotele ci avvisa che “l’accidente è quasi un puro nome [w{sper ga;r o[noma; ti movnon to; sunbebhkov" ejstin]”59: ónoma mónon, solamente un nome, unico e irripetibile. Insomma, un nome proprio. Considerando che Aristotele non è un qabbalista, si può arrivare alla conclusione che non c’è scienza del nome proprio. Ciò non toglie che anche in esso la verità resti in gioco. L’aspetto che sembra tenere sempre in gioco la verità, in questi giochi di parole, è confermato dallo stesso Aristotele: l’accidente esiste, è uno dei modi in cui l’essere si dice, ed è un bene, se non ci fosse accidente, si conclude, “tutto sarebbe di necessità [eij de; mev, pavnt’ e[stai ejx ajnavnkh"]”60. Tutto, cioè, sarebbe pre-destinato. § 7. “Ah che tormento al pensiero che tutte le creature sono come liane che danzano attorno al grande tronco di Dio e si arrampicano verso l’alto solo perché c’è lui a sorreggerle”61. È doveroso

ricordare (quanto banale farlo) come il rapporto tra salvezza e verità, per nulla assente nella grecità, assuma una configurazione affatto diversa nella modernità, e il ruolo delle associazioni, certo improprie, nella presente argomentazione è proprio quello di riportare l’attenzione piuttosto al moderno e alla sua specifica esperienza della verità. La differenza tra Dostoevskij e gli altri, continua Lukàcs, è “che il nichilismo non è una convinzione ma un’esperienza vissuta [...] In Dostoevskij Dio è morto - negli altri: un errore chiarito. Per questo solo in Dostoevskij è successo qualcosa in virtù dell’ateismo”62. È successo qualcosa! E questo qualcosa è successo proprio in virtù dell’ateismo. Lo “gnosticismo rivoluzionario” di Lukàcs, “ad un passo dal marcionismo”63, contro quel“l’elemento luciferino-geoviano”64 che attraversa la modernità, potrebbe essere messo al centro di una riflessione proprio sulla natura dell’evento nell’esperienza gnostica della verità: all’interno di un mondo totalmente paralizzato al suo interno, la gabbia d’acciaio, oppure, per richiamare nuovamente Shakespeare, la Danimarca come prigione, “il Dio trascendente vi interviene improvvisamente in un certo momento, questo evento, che niente collega a un antecedente qualunque, spezza la storia e la 62

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Ivi, E 2, 1026b 13. 60 Ivi, E 2,.1027a 14. 61 N. Lenau, Faust, Marietti, Casale Monferrato 1985.

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G. Lukàcs, Dostoevskij , cit., pp. 31-32. Sono queste parole di Franz Rosenzweig in una testimonianza precedente alla composizione dello Stern. 64 G. Lukacs, Dostoevskij , cit., p. 13. 63

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rivela come un’impostura”65. Puech tiene altrettanto a sottolineare come “una simile concezione è incompatibile con l’autentica concezione cristiana del tempo”66. L’aspetto che maggiormente interessa Lukàcs parrebbe essere, però, la fenomenologia di un’impossibilità piuttosto che l’evento di un darsi del possibile: “Il regno di Dio in voi. La sostanza dell’anima (seconda etica) nel mondo di Dostoevskij fa sì che lo stato dell’essere redenti sia dato come problema della vita; in ogni altra opera ognuno cerca la propria anima - per questo il mondo empirico è sempre presente e insuperabile. In Dostoevskij esso è visibile solo come attraverso un velo: il suo mondo è il caos del solipsismo etico. Perciò: nostalgia di un perdono universale (perché allora il solipsismo sarebbe superato): si esperisce solo un passo, solo un movimento - e il velo cade; e poiché questo è impossibile, si odia l’altro, oppure se stessi, a seconda di come si percepisce la causa.”67

Sostanzialmente, si viene a dire, c’è una necessità nell’insieme dei rapporti, più o meno raffinati, più o meno consapevoli, che la totalità dei personaggi dostoevskijani hanno reciprocamente. È, cioè, la sostanza irredenta del mondo a fornire lo scenario di un’eterna coazione a ripetere, vale a dire appunto la struttura della relazione triangolare tra vittima, 65

H.-Ch. Puech, “La gnosi e il tempo”, in AAVV, Le metamorfosi del tempo, red edizioni, Como 1999, pp. 7-65, p. 31. 66 Ibidem. 67 G. Lukàcs, Dostoevskij , cit., 28-29.

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persecutore e salvatore, nella quale, com’è visto, ogni posizione nega l’altra. E la cui espressione e causa materiale rimane, in definitiva, l’odio. L’odio, quella “menzogna romantica” dell’amore mimetico, quella violenza sacra e sacrificale, contro sé e contro l’altro, che nemmeno la coscienza di una vita come sueño può spezzare dal suo demonico legame. Afferma Faust, in una straordinaria opera, purtroppo dimenticata, di Nikolaj Lenau: “[...] non sono altro che ombre che offuscano la coscienza di Dio, sono un sogno di Dio [...] io sono un sogno che vola via dalla tua prigione, un sogno fatto di piacere, di colpa e di dolore, e sogno di immergermi il coltello nel petto”. Ma la risposta di Mefisto è lacerante; certo, tutto è sogno, ma “[n]on tu ed io e la catena che ci lega”68. Bisognerebbe sempre chiedersi se l’annuncio dell’uomo folle, nella Gaia scienza, possa essere considerato come un regalo, come un dono. In ogni caso ci si potrebbe comunque domandare se quel regalo sia “proprio un bel regalo”, come si dice talvolta. Un’omonimia non casuale, quanto etimologica, tra dono (gift in inglese) e veleno (Gift in tedesco), permetterebbe d’alludere, forse troppo facilmente, alla potenza euristica, in rapporto al ragionamento, di quelle voces mediae che stanno a cuore a Derrida soprattutto, appunto, ne La farmacia di Platone. Ma l’etimo vorrebbe qui 68

N. Lenau, Faust, cit., p. 203.

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soltanto fornire lo spunto di un problema che interessa una semplice banalità del dono: vi è, cioè, il dono buono e il dono cattivo. Voler rimuovere quest’ambiguità del dóron per accoglierne stoicamente la struttura rischierebbe di portarci a uno spinozismo degli attributi infiniti per il quale vale sempre bene la massima: “fata nolentem trahunt, volentem ducunt”. Tra questi regali anche la morte e la paura della morte. “Con ogni probabilità”, dice Freud, “la nostra paura è tuttora legata all’antica credenza che il morto divenga nemico del sopravvissuto e cerchi di trascinarlo a dividere con lui la sua nuova vita”69. Del resto, però, anche il Cristo torna trionfante dalla morte per trascinarci con lui a condurre una “nuova vita”. Così come, già lo s’è citato, in quella “casa dei morti” che è la Siberia dei deportati, anche Raskòlnikov inizia con Sonja “una nuova storia”, una nuova vita, cioè. Si tratta, molto probabilmente, di semplici casi di omonimia. § 8. L’aspetto forse più spocchioso della teoria freudiana è contenuto in una delle produzioni più significative dell’autore, la cui formulazione, nonostante le apparenze, dovrebbe essere assunta veramente come la posizione di un grandioso problema, piuttosto che di una domanda retorica:

“La nostra teoria non ha precisamente la pretesa di produrre uno stato che spontaneamente nell’Io non c’è mai, e la cui creazione ex novo darebbe luogo alla differenza essenziale tra l’uomo analizzato e quello non analizzato?”70

A dispetto della comunque ottima traduzione italiana, il titolo tedesco che aveva dato Freud (Die endliche und unendliche Analyse), rasenta il contatto con ciò che si è detto essere esterno a qualsiasi dispositivo di controllo, vale a dire l’infinito. Ma proprio di quei dispositivi, che in Foucault hanno assunto la funzione di paradigma epistemico della volontà di sapere con la sua storia di sorveglianza della follia, parla proprio Freud nello stesso saggio: “neppure noi raggiungiamo sempre in pieno, e dunque con sufficiente radicalità, il nostro obiettivo che è quello di sostituire alle malcerte rimozioni dispositivi di controllo affidabili ed egosintonici”71. In questo discorso, dunque, che cammina sempre sul limitare tra un bieco positivismo, di cui Freud è stato sempre accusato, e un’altissima riflessione sul soggetto e sulla sua verità, si vorrebbe marcare piuttosto quest’ultimo esito. Non si può certo attraversare l’interezza argomentativa di questo splendido saggio freudiano, basti solo ricordare come esso si generi a partire da un problema esattamente pratico. Vale a dire se il terapeuta può 70

69

S. Freud, Il perturbante, cit., p. 1063

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S. Freud, “Analisi ...”, cit., pp. 405-535, pp. 509-510. Ivi, p. 512.

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utilizzare l’anticipazione della fine empirica dell’analisi come fondamentale strumento terapeutico. In questa scelta, afferma Freud, v’è un elemento kairotico, “il leone salta una sola volta”, la necessità, cioè, di agire sul momento preciso, in qualche modo, cioè, sull’evento72. V’è, però, anche un altro significato, “di gran lunga più ambizioso”, nell’espressione “fine di un’analisi”, il quale non fa altro che rimarcare la differenza fondamentale tra analisi incompleta e analisi non finita73. In rapporto a quel significato, quindi, Freud si domanda “se l’azione esercitata sul paziente sia stata portata avanti a tal segno che da una continuazione dell’analisi non ci si possa ripromettere alcun ulteriore cambiamento. Dunque è come se mediante l’analisi si potesse raggiungere un livello di assoluta normalità psichica”74. Parlare di assoluta normalità psichica può, è comprensibile, far venire i brividi. Basti aggiungere, a riguardo, che lo stesso Freud ne nega in qualche modo l’esistenza: “Ma un Io normale è, come la normalità in genere, una finzione ideale. Non è una finzione, purtroppo, l’Io anomalo, inutilizzabile per i nostri scopi”75. Il problema che piuttosto sta a monte del ragionamento è quella della possibile azione di un trauma successivo su un paziente già analizzato. 72

Ivi, p. 502. Ivi, p. 503. 74 Ibidem. 75 Ivi, pp. 517-518.

Come si può intuire, si tratta di un accidente che rischia di mandare a rotoli l’intero impianto della psicanalisi, minandone le uniche basi di verificazione e di verità. Se un’analisi terminata avrebbe dovuto influire sulla struttura della personalità che portava all’emersione del sintomo, il ripresentarsi del sintomo in seguito all’analisi dev’essere ricondotto al fallimento dell’analisi; oppure c’è un’azione dell’evento (traumatico) che modifica successivamente la struttura stessa della personalità, a dispetto della sua completa formazione nella fase infantile? Questa, se si vuole, è una riduzione personale della questione freudiana, ma, in rapporto all’insieme di problemi qui presentati, è tesa a concentrarsi su un singolo aspetto: se l’analisi è la modificazione delle persistenze inconsce, quale ruolo esercita l’evento assolutamente imprevisto - per ora si usi questa formula - e fino al suo presentarsi altrettanto inconscio, sulla storia psichica del soggetto? Ovverosia: c’è un’azione dell’evento, oppure l’evento è il mero ripresentarsi del sintomo e quindi della tendenza nevrotica del soggetto a volerlo, a volere esattamente quell’evento?76 § 9. Una volta nominato il problema si può fare un passo indietro e soffermarci invece sul tema della persistenza. Proviamo a riferirci nuovamente a

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Si vedano le pp. 505-506.

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Kant: “il fine dell’esibizione di un concetto diventa gravoso per il fatto che l’intuizione dell’oggetto è quasi troppo grande per la nostra facoltà apprensiva”77; paradossalmente, in questo passo kantiano compare in qualche modo una anticipazione della questione della rimozione. Ad un certo punto del saggio, infatti, Freud nomina una costellazione importante che trae in campo il rapporto tra verità e sacrificio: “L’apparato psichico non sopporta il dispiacere, deve scacciarlo ad ogni costo, e, quando la percezione della realtà reca dispiacere, è essa - ossia la verità - a dover essere sacrificata.”78

Si tratta evidentemente di una ripetizione alternativa di una delle acquisizioni base, o dei presupposti, dell’intera psicanalisi; un’intuizione già presente nella Traumdeutung e poi sviluppata nei Tre saggi sulla teoria della sessualità. Per abbreviare il ragionamento, si può riassumere utilizzando il concetto di resistenza, secondo la struttura economica interna della psiche: “i meccanismi di difesa contro i pericoli del passato ritornano nella cura sotto forma di resistenze contro la guarigione. Ciò significa che la guarigione stessa è trattata dall’Io alla stregua di un nuovo

pericolo”79. Se qui la verità sacrificata ha a che vedere con la guarigione, con la salvezza si potrebbe dire, allora si può affermare che il processo in cui la guarigione emerge coincide con la verità che si riesce a sopportare. Vi è, cioè, un momento apocalittico, un dono di conoscenza, che si fatica ancora a comprendere se possa o meno giovarci. È interessante che il processo rifletta una qualche specularità, abbozzata in Totem e tabù, tra la struttura delle società arcaiche e l’arcaismo originario dell’Io. Senza voler eccessivamente sovrastimare l’istanza dell’eredità arcaica, del resto l’analisi si interessa delle modificazioni possibili, “non dobbiamo trascurare il fatto che l’Es e l’Io sono originariamente una cosa sola; e non si tratta da parte nostra di mistica sopravvalutazione dell’ereditarietà se riteniamo attendibile l’ipotesi che per l’Io non ancora esistente siano già determinate le direzioni dello sviluppo”80. Quando, dunque, si parla di “caratteri distintivi, originari e connaturati all’Io”81, non ci si riferisce tanto a una sorta di irremovibilità del destino psichico, quanto esattamente alla natura genealogica della formazione dell’Io stesso. In ciò risultano significativi proprio i meccanismi di difesa che, maturati economicamente, dimostrano la loro disfunzionalità in termini altrettanto economici, 79

77

I. Kant, Critica..., cit., p. 281. 78 S. Freud, “Analisi...”, cit., p. 520.

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Ivi, p. 521 Ivi, p. 523. 81 Ibidem. 80

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nella sclerotizzazione nevrotica: “Così i meccanismi di difesa si trasformano in infantilismi e condividono il destino di tante istituzioni che tendono a conservarsi al di là dell’epoca in cui si sono rivelate utili”82: “Di tutte le false credenze e superstizioni che l’umanità reputa di aver superato non ce n’è una di cui non sopravvivano residui ancora oggi tra noi, o negli strati più infimi dei popoli civilizzati, o, addirittura negli strati più elevati della società civile. Le cose, una volta venute al mondo, tendono tenacemente a rimanervi.”83

Casuale e inevitabile è il destino, ma questo, afferma Girard, corrisponde sempre al riprodursi di una struttura sacrificale in cui il capro espiatorio assorbe, interrompendola per un breve lasso di tempo, la scarica della collettiva violenza mimetica accumulata in un gruppo sociale. Lo gnostico Girard, nonostante affronti talvolta le persistenze84, è comunque convinto che con l’apocalissi cristiana, con il disvelamento del dispositivo, la verità si sia, sostanzialmente, data, e quindi, pur ripresentandosi qua e là nella storia dell’Occidente, il dispositivo sacrificale tenda alla totale sparizione dalla scena. Se però, nonostante la narrazione evangelica, di una persistenza di ciò si può parlare anche nel moderno, 82

Ibidem. Ivi, p. 512. 84 Cfr. il capitolo sul pógrom descritto da Machaut in R. Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987.

allora è possibile pensare la morte di Liza proprio in uno scenario simile, uno scenario in cui la figura di Nikolaj non fa altro che interpretare il plusvalore soggettivo, tutto sommato vicino al tipo di coscienza di Edipo in rapporto al suo crimine. In questo senso la coscienza di Stavrògin, nonostante la raffinatezza fenomenologica del suo nichilismo, avrebbe comunque qualcosa d’arcaico. Arcaico come l’archetipo jungiano, ma altrettanto arcaico come quel depositum letteralmente primitivo che parrebbe la metafora più consona ad accomunare l’origine delle comunità umane con le topiche o le atopie dell’inconscio. Per Freud, però, nella trasformazione della violenza agisce piuttosto un processo di traslazione: “Dopo tutto noi supponiamo che nel corso dell’evoluzione dall’uomo primitivo all’uomo civile si sia prodotta una assai notevole interiorizzazione, o riflessione verso l’interno, dell’aggressività; per conseguenza i conflitti interni degli uomini costituirebbero senza dubbio l’esatto equivalente delle lotte esterne che col tempo si sono venute attenuando.”85

Nello schema delle pulsioni, la versione sana di ciò corrisponde niente meno che a una forma di sublimazione che mantenga intatta la Bestrebung, vale a dire la spiritualizzazione, il conferimento di un ordine spirituale al pólemos delle pulsioni:

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S. Freud, “Analisi...”, cit., p. 527.

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“Le nevrosi rivelano, da un lato, concordanze vistose e profonde con le grandi produzioni sociali dell’arte, della religione e della filosofia, e dall’altro sembrano il risultato di una distorsione di tali produzioni. Potremmo azzardarci ad affermare che l’isteria è la caricatura di una creazione artistica, che la nevrosi ossessiva è la caricatura di una religione, che il delirio paranoico è la caricatura di un sistema filosofico. Questa discrepanza risale in ultima analisi al fatto che le nevrosi sono formazioni asociali; esse cercano di ottenere con mezzi individuali ciò che nella società si produce attraverso un lavoro collettivo. Nell’analisi delle pulsioni che operano nelle nevrosi, si apprende che l’influsso determinante viene esercitato in esse dalle forze pulsionali di origine sessuale, mentre le corrispondenti formazioni culturali poggiano sulle pulsioni sociali emerse dall’unificazione di componenti in grado di unire gli uomini allo stesso modo in cui li uniscono le esigenze dell’autoconservazione; il soddisfacimento sessuale è prima di tutto un fatto privato dell’individuo.”86

Tutto sommato, è proprio di sublimazione, dell’azione specifica di questa, che si sta parlando. Bisognerebbe arrivare al punto di comprendere se tutto ciò ha a che vedere con il dono. Si deve, in fondo, comprendere come un ordine spirituale, in contatto con la verità al modo di un’attenzione securitante eppur mai scevra del rischio d’esserci, possa nei tempi in cui si vive porre la dinamica dell’incontro e quindi della redenzione, pur nella catastrofe del riconoscimento. Che è la tragedia stessa dell’incontro spirituale: un gesto in cui il 86

S. Freud, Totem e Tabù, in Opere, v. 7, Boringhieri, Torino 1975, pp. 79-80.

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bisogno si articoli nel desiderio e questo rasenti il contatto con l’anima e con l’incondizionatezza, pulsionale e quindi vitale, che le è propria. Al modo della carezza.

‫ א‬Con il venir sempre meno dell’idea di normalità, viene anche a intensificarsi il riconoscimento della necessità di processi di sublimazione. Se, cioè, l’uomo non può determinarsi sulla base delle proprie pulsioni, perché ciò minerebbe la sua stessa sopravvivenza, in Freud si crea anche la consapevolezza di come uno ius publicum europeum, cioè la struttura del contenimento pulsionale sul piano politico, abbia operato come censura esiziale, se dalle sue costole storico-concettuali è venuto fuori il fascismo. In questo senso, sembrerebbe che l’azione necessaria della censura si sia rivoltata contro se stessa, generando l’espressione di un sovraccarico pulsionale, cioè il vitalismo distruttore del nazismo, proprio entro lo stesso dispositivo di censura: tale è l’idea di totalitarismo. Il totalitarismo non è stato lo Stato etico, cioè il dominio dell’Io sull’Es e Super-Io, quanto l’affermazione dell’Es nella forma del Super-Io. Fra i dispositivi di censura, quello del diritto è parso il meno lungimirante: se la violenza non può essere eliminata ma traslata, e se quindi la sublimazione spirituale è l’unico processo psichico a trasformare produttivamente quello che, come mero conflitto pulsionale, sarebbe costretto alla patologia, come può quel diritto essersi fondato prima sulla ghettizzazione e poi sulla soppressione di un’intera sua parte, e proprio la parte più spirituale? Allora la soppressione del popolo ebraico si mostra esattamente come il prodotto di un sistema di diritto che necessita di traslare la propria aggressività non in una sola sublimazione, ma in un conflitto di sublimazioni, in una guerra permanente. In questa situazione totalitaria non è più possibile operare come forza di mediazione tra le istanze espressive e censorie; si è piuttosto

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in uno stato di eccezione in cui la stessa possibilità di mediazione è tolta, anzi è l’oggetto stesso del toglimento: qui non è l’Es a scagliarsi contro il Super-Io, né quest’ultimo contro il primo, ma insieme contro l’istanza di mediazione e, quindi, in modo incontrastabile. È come se un poliziotto paranoico uccidesse il suo analista affermando che lo perseguita e che è la causa dei suoi mali. Ora, per Freud tutto ciò sembrerebbe non essere un caso, ma un esito se non necessario quantomeno sintomatico dell’intero processo di civilizzazione, cioè il processo occidentale di sublimazione. Essendone pienamente parte - la psicanalisi non sarebbe stata possibile senza la civilizzazione - il pensiero cade sul grado di complicità, oppure su possibilità di apertura o perlomeno di narrazione che non solo abbassino il grado di complicità ma anche in qualche modo riescano ad immaginare un’immagine della collettività dove non vi è guerra tra le sublimazioni, ma un lavoro comune e reciproco. Nel primo caso vi è l’accusa marxista della psicanalisi come scienza borghese, nel secondo quello sfondamento a sinistra che ha permesso un ingresso trionfante dell’analisi nell’apparato di produzione concettuale del comunismo europeo. In principio, cioè, vi si riconosceva un approfondimento dell’aporia del messianismo secolarizzato, e questo tema si interiorizzò a tal punto da mettere in secondo piano anche la lettura delle strutture di potere nei termini di istanze censorie non reali. Il tema dell’inconscio diventava il motivo più adeguato per rilanciare la rappresentazione impossibile della società senza classi.

Pier Cesare Bori87, del resto condivisa, che il romanzo, che Freud aveva intenzione di scrivere su Mosè, sia semplicemente decantato nei tre saggi L’uomo Mosè e la religione monoteistica88. Freud scrive a Zweig nel 1934: “Mi si lasci in pace con il Mosè. Mi deprime già abbastanza che sia naufragato questo tentativo, probabilmente l’ultimo, di creare qualcosa. Non che me ne sia liberato. L’Uomo, e ciò che volevo fare di lui, mi perseguita senza posa”89. E quasi in punto di morte il padre della psicanalisi così si esprime su quel progetto: “mi perseguita come un “fantasma irrequieto”90. Il modello a cui Freud pensava era molto probabilmente il Giuseppe di Thomas Mann, autore per il quale egli portava immensa e sincera stima91. Perché Freud rinuncia a scrivere questo romanzo, oppure, perché non vi riesce? La difficoltà di Freud di scrivere L’uomo Mosè era per un verso inscritto nell’inopportunità di evocare un passato realmente 87

§ 10. Com’è noto, è stato il popolo ebraico a interpretare maggiormente questa battaglia dell’uomo nel corso della storia. Il popolo ebraico, il popolo di Freud, è il popolo dello spirito. È tesi di

P. C. Bori, “Il «Mosè» di Freud: per una prima valutazione storico-critica”, in L'estasi del profeta ed altri saggi tra ebraismo e cristianesimo dalle origini sino al «Mosè» di Freud, il Mulino, Bologna 1989, pp. 179-222, [anche Id, “Una pagina inedita di Freud: la premessa al romanzo storico su Mosè”, in L’estasi..., cit., pp. 237-258]. 88 In S. Freud, Opere, XI, cit., pp. 337 ss. 89 S. Freud - A. Zweig, Briefwechsel, Frankfurt, 1968, pp. 108 s. 16.12.1934 90 182, notizia risalente al 28.4.38 91 S. Freud, “A Thomas Mann per il suo sessantesimo compleanno” (1935), in Opere, v. XI, cit., p. 467.

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omicida nella storia del popolo ebraico, al tempo già così segnato dalla catastrofe. Si fatica a comprendere la critica girardiana alla psicanalisi, ne La violenza e il sacro, che, com’è noto, è tesa ad evidenziare la realtà dell’omicidio che sottende a ogni narrazione mitica92. In fondo nell’omicidio del fondatore stesso del popolo ebraico vi era proprio l’esigenza scientifica di un fattore che faceva tracimare costantemente la psicanalisi in una qualche forma di gnosi monofisita. Ma affermare che “la cosa nascosta fin dall’origine dei tempi” era in effetti un vero omicidio/patricidio, caduto nell’oblio dell’inconscio, poteva essere in qualche modo legittimante l’ordine dello sterminio reale che si perpetrava in Europa già dal 1937. Vi era cioè un pudore che l’uomo di scienza anticipava sul suo compito il quale, comunque, in tempi più normali, sarebbe stato volto a mostrare la superiorità di quel suo stesso popolo, in grado di sublimare un omicidio reale in una dimensione veramente del puro spirito: il popolo ebraico, questa in fondo era la tesi del saggio, è il popolo dello spirito e tale era la sua missione di persistenza nel disagio della civiltà occidentale. V’era, però, un altro elemento meno appariscente nel destino quasi frammentario dell’ultimo lavoro freudiano. Sulla base di precise difficoltà che richiamavano contemporanei problemi della teoria delle forme, si citi solo 92

R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980, pp. 266-305.

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Benjamin a riguardo, era il fatto che solo un romanzo sarebbe stato in grado di narrare la verità di ciò che qualsiasi esperimento di verifica non era in grado di riprodurre. Freud, cioè, aveva la serissima intenzione di scrivere un romanzo su Mosè e non riuscì a concluderlo, non solo per la sua morte, ormai “stanca di giorni”. Come Mosè, cioè, non potette vedere la terra promessa della verità romanzesca, quella in grado di trapassare il desiderio mimetico nel simbolo cristiano! Ormai, il contrasto postumo tra Freud e Girard sembrerebbe trasporsi in una disputa confessionale. § 11. Affatto singolare: Freud non è riuscito a scrivere un romanzo su un personaggio di cui tutti conoscono il nome, ma che nessuno sa s’è esistito. Freud ha però scritto un romanzo su un personaggio realmente esistito di cui, però, nessuno sa il nome. Perché Il caso di Dora è chiaramente un romanzo. In realtà il nome, oggi, è più che noto e sulle vicende di Ida Bauer (1882-1945), ebrea della borghesia viennese, sono state scritte anche biografie. Non è questo, però, l’aspetto rilevante. Il tema del segreto professionale s’intreccia qui con una teoria del soggetto; il caso mal riuscito s’accompagna a un’eteronimia in cui si fatica a capire quale sia il vero soggetto in causa. Il personaggio, nonostante tutto, sembra essere costretto a impersonare le vicende narrate; oppure è proprio la vicenda, la mutabilità del destino, a

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costituire il carattere del personaggio? Non con la tragedia s’ha qui a che fare, ma con il trapasso dalla menzogna romantica alla verità romanzesca, dall’isteria alla normalità psichica. In realtà è lo stesso Freud stesso a rifiutare l’ipotesi del romanzo, in qualche modo per quelle stesse motivazioni che si esponevano nell’incipit del perturbante. Freud non è interessato agli eventi che possono essere disposti in modo controllato come un puzzle, al contrario soltanto le espressioni apparentemente casuali, le associazioni e i lapsus sono i momenti più interessanti dell’interpretazione analitica, e questo, com’è noto, appartiene maggiormente alla vita piuttosto che all’arte. Contemporaneamente è la necessaria attenzione sia verso il paziente che verso la scienza a tenere assieme anonimato e pubblicazione degli atti: “persone di una certa delicatezza, o semplicemente timorose, si preoccuperebbero innanzitutto degli obblighi del segreto professionale e si direbbero spiacenti di non potere offrire alla scienza alcuna delucidazione sui problemi di cui si occupano; ma secondo me il medico non è responsabile solamente nei confronti del singolo paziente, ma anche della scienza: e questa responsabilità nei confronti della scienza significa in definitiva niente altro che la responsabilità verso i molti altri pazienti che soffrono e soffriranno degli stessi disturbi. [...] È inutile che dica che non ho lasciato alcun nome che potesse dare una traccia al lettore non medico; la pubblicazione del caso su una rivista strettamente scientifica e tecnica dovrebbe fornire inoltre una garanzia contro questi lettori non qualificati. Naturalmente non posso essere certo che la paziente stessa non venga spiacevolmente colpita

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dall’esposizione del suo caso se accidentalmente le capiterà fra le mani: ma essa non apprenderà da queste pagine niente che già non sappia, e dovrà piuttosto chiedersi chi, oltre lei, potrebbe mai riconoscerla come protagonista della storia. Mi rendo conto che - almeno in questa città - ci sono molti medici che, per quanto riprovevole possa sembrare, considerano la storia di un caso clinico come questo, non tanto un contributo alla psicopatologia della nevrosi, quanto piuttosto un roman à clef concepito per loro personale diletto. Posso assicurare i lettori di questa specie che ogni caso clinico che io potrà avere occasione di dare alle stampe in futuro sarà protetto contro la loro perspicacia da analoghe misure di segretezza, quand’anche questa determinazioni comporti da parte mia severe restrizioni nella scelta del materiale” 93.

Ad majorem gloriam della scienza, cioè dell’uomo e della sua salute, e contro la pruderie ipocrita della comunità scientifica e non, che sarebbe soltanto interessata ad andare in cerca del nome di una giovane paziente sottoposta a queste nuove pratiche dove, oscenamente, si parla tanto di sesso. Ma il fallimento del caso di Dora ha a che vedere in una misura diversa sempre con il disvelamento del nome. Riguarda piuttosto l’impossibilità di risolvere il destino del soggetto in una sua narrazione. § 12. L’Io ha sempre un nome proprio. Quel nome che, come sintomo, viene con più facilità dimenticato, seguendo l’inizio della Psychopathologie des Alltagslebens, è in realtà sinonimia 93

S. Freud, “Il caso...”, cit., pp. 13-14.

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impronunciabile, o pronunciabile raramente, nei migliori istanti. Per concludere la prima parte di questo saggio si è scelto di avvicinarci a un testo di J.-C. Milner, interpretando quello sfondamento a sinistra dell’analisi che il vento del nichilismo fascista aveva per un attimo esorcizzato94. Impossibile seguire l’intero ragionamento del linguista francese che, partendo ovviamente da Lacan, presenta un’immagine del rapporto triangolare tra le supposizioni: il y a (“proposition thétique qui n’a de contenu que sa position même”), ovverosia réel (R); il y a de lalangue, lalingua, detta symbolique (S), ed infine il y a du semblable “dove s’istituisce tutto ciò che fa legame”, è l’imaginaire (I)95. Il rapporto tra reale, simbolico e immaginario è come quello di un nodo che non si può sciogliere. Ogni supposizione è in realtà un’omonimia di un verità che si può dare solamente come evento, un evento di verità precario e contingente, anche accidentale, dove i tre nomi indistinti risuonano per breve assieme in un’unica sinonimia:

Immaginario e reale non possono assolutamente pensare di essere il punto di cristallizzazione del rapporto: “nulle configuration imaginaire ne peuvent perpétuer ni garantir un effet qui tient de l’instant et de la contingence”, mentre se questa congiuntura viene detta reale i nodi 97 immediatamente vengono a repellersi . Cosa significa? Significa che la verità non può essere affidata a un portatore che la conservi, immediatamente negando la verità nel momento di affermarla come propria: “C’est là pourtant que s’installera le mensonge même, puisque de ce qui, de structure, ne peut être qu’une rencontre contingente, un ordre prétend désormais faire une institution constante.”98

“La synonymie, si elle existe, ne saurait donc être que précaire et inassurée. Si elle s’inscrit dans les représentables et les dicibles, ce ne peut être qu’au prix, l’instant d’après, d’une dispersion désordonnée”96

Milner presenta alcune dimensioni del moderno in cui ciò si è verificato, a partire dalla struttura giuridica (sia in senso kantiano che in quello della dottrina del diritto) del soggetto individuale come portare di proprietà sinonimiche99, dove alla fine “la concisione del distintivo diventa sobrietà borghese, la potenza del Nome viene convertita in misura e in numerario, l’istanza del Nome puro diviene segnatura di soggezione [assujetti]”100. Si tratta,

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97

J.-C. Milner, Les noms indistincts, Édition du Seuil, Paris 1983. 95 Ivi, p. 7. 96 Ivi, p. 55.

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Ibidem. Ivi, p. 59. 99 Ivi, p. 57. 100 Ivi, p. 59. 98

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cioè di quei discorsi alla fine fondati su un Maîtremot, una parola-dominante, cioè su un qualsiasi nom des noms (ens summum, ens entium) che si deve porre come ultima parola in quanto prima parola101: “la Maître-mot, variable, mais unique pour un ensemble donné d’énoncés ; particulier, mai porteur des propriétés répétées de la fonction du Lien”102. La definizione, o meglio nominazione, di Milner è straordinaria: imaginal, transcendantal particuler103. Se ci si pensa bene, potrebbe essere questa la forma di una falsa sublimazione in cui il particolare vuole assurgere al trascendentale, e quindi all’universale. Lo spazio immaginario del legame diventa imaginale, ovverosia quello della Réalité. Essa il più potente Maître-mot dell’Occidente perché la tecnica dei saperi pensa di esserne in qualche modo non dominata in quanto ancora in grado di un controllo (con lo scetticismo per un verso, o con la filologia dall’altra). Ma questa è una pura finzione che, in ultima analisi, fa proprio riferimento alla realtà come paroladominante, referenza di ogni simbolica. Le paroledominanti non sono in sé insopportabili, esse sostengono un Mondo, una Società, una Storia104 e quindi si deve pensare al mondo che sostengono per poterle ripensare: “Guardiamoci dal credere alla

sinonimia permanente e necessaria. Ma guardiamoci anche di acconsentire alla sua impossibilità radicale”105. Soprattutto non si può facilmente evitare, bellissima espressione di Milner, l’“effetto inesorabile delle sinonimie richieste e delle omonimie subite”106, per il quale il soggetto proprio per liberarsi di precedenti soggettazioni si protende alla formazione, consapevole o meno, di altre parole-dominanti. Se proprio questo procedimento viene ipostatizzato, ipersublimato, in una sorta di principio che si può chiamare Libertà reale, ci si accorge dell’inestricabile paradosso della libertà:

101

105

102

106

Ivi, p. 71. Ivi, p. 72. 103 Ivi, p. 71. 104 Ivi, p. 76.

“Plutôt que le vouloir soluble, ne serait-il pas plus simple alors de nier le paradoxe? Autrement dit, de poser la synonymie absolue. Du coup, l’art suprême se pratique aisément : passer, sans que nul le perçoive, d’une liberté à l’autre, d’une révolte réelle à une révolution représentable en institutions, d’un sujet désirant à un sujet maîtrisé.”107

Questa sinonimia assoluta che, in un istante, trasforma “rivolta reale in rivoluzione rappresentabile in istituzioni”, e passa “da un soggetto desiderante a un soggetto dominato”108, è,

Ivi, p. 60. Ivi, p. 79. 107 Ivi, p. 99. 108 Ibidem.

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oltre che il nome del totalitarismo, anche la forma del rischio iscritto nella logica dell’Occidente109. § 13. Eppure, proprio per concludere, ci sarà accorti di come è possibile trovare il tesoro nel campo; guardarsi cioè dal pensare “que tous les mots sont vains et que la vérité n’existe pas”110. Bisognerebbe però seguire alla lettera il precetto evangelico che prima si era citato: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia [ajpo; th'j cara'j aujtou'], vende tutti i suoi averi [pwlei' pavnta o{sa e[cei] e compra [ajgoravzei] quel campo.”111

potenziale contributo del soggetto alla rivelazione. Nascondere quindi chiaramente non significa affatto obliare nuovamente, ma conservare all’opportunità del giorno, alla maturità dei tempi. Non avere fretta di nominarlo, per non incappare in quel paradosso dove l’espressione diventa copertura della verità e dominio dell’identico, dominio della nevrosi. Trovare semplicemente i tempi e i modi giusti perché un nome proprio nominato sia semplicemente l’espressione di se stesso. Il contingente stare assieme del simbolico, dell’immaginario e del reale. Nel loro amoroso legame.

Il testo greco “o}n euJrw;n a[nqrwpoj e[kruyen” si tradurrebbe forse litteraliter “trovandolo l’uomo [lo] nascose”, indicando una qualche contemporaneità d’azione che varrebbe sicuramente la pena soffermarsi a pensare. Chiaramente, però, il gesto che riguarda la precedenza del soggetto è quello di “vendere tutto”, lasciare tutto ciò che prima possedeva, accettando quindi radicalmente lo svuotamento che compete al trovare. Detto in modo estremamente riduttivo, alla luce di questo aspetto è possibile riconoscere un 109

Cfr. J.-C. Milner, Les penchant criminels de l’Europe democratique, Verdier, Parigi 2003. 110 J.-C. Milner, Les noms..., cit. , p. 78. 111 Mt. 13, 44.

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