Il Nulla Che Noi Siamo - Slavoj Zizek E La Difesa Dell'intollerabile

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Università degli Studi di Pisa Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Filosofia Dottorato in Discipline filosofiche a. a. 2002-2003 dott. Stefano Bellanda

Il nulla che noi siamo Slavoj Žižek e la difesa dell’intollerabile di Stefano Bellanda

Introduzione: benvenuti nel deserto Jetzt-zeit § 1. L’intento di produrre una ricerca intorno al filosofo Slavoj Žižek per un verso sembrerebbe non accordarsi a criteri di priorità, se solo il suo nome venisse minimamente raffrontato con tutto ciò che in precedenza viene detto essere filosofia; inoltre, e a conferma di ciò, proprio tale scelta potrebbe apparire anche troppo congeniale ai contesti della pubblicistica culturale dei nostri ultimi anni, addirittura di questi ultimi giorni. Cercherò, invece, di mostrare in qualche modo la necessità del discorso a venire a mo’ di un dialoghetto possibile tra la moda e la morte. Personalmente ritengo come la potenza e la possibilità del discorso di Žižek siano capaci di detonare proprio tentando l’accordo con il movimento frenetico, ma rigoroso, del suo periodare. Il rapporto del suo specifico incedere logico con ciò che può essere detto il contemporaneo diviene strutturale e non può essere neppure minimamente eluso. Rinunciare a Žižek, in termini generali, può per certi versi rappresentare anche una rinuncia a capire che cosa mai possa essere la contemporaneità. § 2. Detto ciò non ci si dovrebbe affrettare a un giudizio sommario sulla natura, o sull’essenza, di questa contemporaneità. L’adeguamento della filosofia alla sua attualità non è certo una determinazione estranea alla filosofia stessa, e non indica affatto un semplice pescaggio dei materiali su cui esercitare l’operazione riflessiva a partire dal contesto in cui si vive: “Ogni filosofia è solo ciò che essa è, se essa è la filosofia del suo tempo. Ciò non significa che essa faccia i comodi annichiliti dei suoi contemporanei. La filosofia deve essere la filosofia ‘del suo tempo’: cioè, essa deve far in modo di essere il tempo per sé.”1

Pensare il contemporaneo in filosofia, cioè, ha a che fare con un’impossibilità per la filosofia di rinunciare a se stessa. Detto in un contesto di auditori che avevano già tra le mani il “nucleo 1

“Jede Philosophie ist nur, was sie ist, wenn sie die Philosophie ihrer Zeit ist, d. h. nicht, wenn sie den Zeitgenossen ihren nichtigen Willen tut. Die Philosophie muß die Philosophie >ihrer Zeit< sein, heißt: sie muß so sein, daß es Zeit für sie ist.”, M. Heidegger, Der deutsche Idealismus (Fichte, Schelling, Hegel) und die philosophische Problemlage der Gegenwart, in Gesamtausgabe, Band 28, Klostermann, Frankfurt a. M. 1997, p. 232 [trad. mia]. Per l’interpretazione più consistente di Heidegger da parte di Žižek si veda Il vicolo cieco dell’immaginazione trascendentale, ovvero Martin Heidegger come lettore di Kant, in SS, pp. 9-83.

instabile” del Da-sein, mi pare chiaro come quella prosopopea della Filosofia altro non fosse che un richiamo ai singoli, una sorta di ricerca del tempo perduto a fronte di una privazione il cui carattere era percepito come eccessivamente pericoloso. Il gesto di ripristino del contemporaneo, della benjaminiana Jetztzeit, nell’orizzonte dei pensieri possibili indicava una modalità d’agire che fuoriusciva dall’ideologico (dall’ideologia del tempo) e si connaturava al raccogliersi di una pluralità di singolarità, in una qualche forma di reciproco rapporto. L’impossibilità della filosofia a una rinuncia di sé corrispondeva all’impossibilità del soggetto-esser-ci alla propria rinuncia: “Il primo vero segno che abbiate imparato a comprendere qualcosa nell’essenziale-impronunciato di cui si è qui costantemente trattato può essere solo questo, che si sia risvegliata in voi una volontà di adempiere all’opera nella sua intima richiesta - ciascuno per la sua parte (an seinem Teil), e secondo le proprie forze e misure.”2

§ 3. In rapporto a questo specifico snodo, si deve leggere nelle righe il (futuro) sostegno dell’azione da parte di una Ent-scheidung, i cui presupposti nichilisti si sono storicamente scontrati con il riempimento ideologico da parte del soggetto egemonico interprete della decisione3. In questo senso non occorre nemmeno ricordare come gli esegeti abbiano letto nella finzione della (filosofia) politica heideggeriana una sconsiderata leggerezza nell’individuazione di quel soggetto, leggerezza che dovette poi ripiegare nell’utopica pólis popolata dai rari (Selten) poeti e pensatori4. Probabilmente nel passo appena citato il crinale corrispondeva proprio all’idea di un compito autentico da esprimere che, per come viene descritto, sembra assumere le fattezze di un “essenzialeinespresso” tesoro sotterrato nel campo, che è il Regno oppure il Reich. Siamo chiaramente di fronte all’arma a doppio taglio su cui convergerà gran parte del nostro discorso e che potrebbe riassumersi con questa domanda: non rinunciare a se stessi significa avere a tutti i costi un compito? Significa necessariamente esporsi all’accomodante rischio di creare una rappresentazione di sé come parte all’interno di un organismo comunitario negato? Oppure proprio nella rinuncia radicale di quella rappresentazione si situa la possibilità di ciò che Žižek chiama “l’azione reale”?5 § 4. Nel glossa della contemporaneità si traccia la linea sottile che demarca una rappresentazione della comunità a partire dal suo impronunciabile di natura però ancora essenzialista (Unausgesprochen-Wesentlichen), una comunità supportata dunque dal gergo che ne espone l’autenticità6 e, dunque, la particolarità identitaria, rispetto a un presente che dichiara l’universale an seinem Teil, presso la propria parte, articolando il paradosso di una rivendicazione impossibile, “noi siamo tutto”, proprio in ragione di un perfetto “decentramento soggettivo” ch’espone radicalmente al vuoto del proprio contenuto. Vi è però un supporto arrischiato, produttore di un reale antagonismo politico, che tiene la voce di questo vuoto, e questo supporto è proprio il soggetto che in questo preciso istante dichiara presente la possibilità dell’impossibile (il possibile in relazione deprivata rispetto alla sua revoca egemonica), in questo modo mettendo in gioco se stesso in rapporto alla propria totale morte simbolica ed esistenziale. È il contemporaneo stesso a richiedere, negandola, una constatazione ineludibile del soggetto che dichiara il discorso. Richiede 2

“Das erste und rechte Zeichen dafür, daß Sie im Unausgesprochen-Wesentlichen, das hier ständig verhandelt wurde, etwas verstehen gelernt haben, kann nur dieses sein, daß in Ihnen ein Wille wach geworden ist, dem Werk in seine innersten Anforderung zu genügen - jeder an seinem Teil und nach seinen Kräften und Maßen.”, M. Heidegger, Hegels Phänomenologie des Geistes, in Gesamtausgabe, Band 32, Klostermann, Frankfurt a. M. 1980, p. 216 [ed. it. La fenomenologia dello spirito di Hegel, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1988, p. 214]. Nonostante il notorio disprezzo di Heidegger nei confronti dell’utopia comunista della pólis senza classi, vorrei paradossalmente alludere a una certa consonanza dell’ultima parte del discorso con l’assunto marxiano del Programma di Gotha: “Jeder nach seinem Fähigkeiten, Jedem nach seinen Bedürfnissen!” [in MEGA, I, 25, Dietz, Berlin 1985, p. 15]. 3 Žižek affronta tale questione nel suo pregnante saggio su Il vicolo cieco dell’immaginazione trascendentale ovvero Martin Heidegger lettore di Kant, in SS, pp. 9-84. 4 F. Fistetti, Heidegger e l’utopia della pólis, Marietti, Genova 1999. 5 Sia ben chiaro come tutto ciò, in modo estremamente ambiguo, è già presente in Heidegger. 6 Th. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità. Sull’ideologia tedesca, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.

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la parola che frena tutti i tempi del mondo in quell’istante, ponendosi come potenzialmente fallimentare contributo di accellerazione alla dissoluzione dell’istanza ideologica. § 5. Nonostante la filosofia possa anche essere pensata solamente in rapporto alla temporalità che essa tendenzialmente ha identificato come oggetto preferenziale del suo discorrere, cioè l’eterno, non è possibile ostracizzare dalla complessità del discorso stesso la temporalità propria del soggetto che dichiara l’eterno7, o perlomeno una fenomenologia di questa dichiarazione. In un senso, dunque, il contemporaneo in filosofia esprime la temporalità più appropriata alla dichiarazione filosofica. Una dichiarazione, cioè, contrastata dal negativo che la mina alla radice, non tanto nel contenuto possibile quanto, piuttosto, nella sua stessa possibilità dichiarativa8. Il negativo della filosofia appartiene essenzialmente alla filosofia nel modo di ciò che la pone come potenzialmente impossibile. Il contemporaneo, dunque, si mostra come il “luogo di tempo” (Zeitraum) in cui il gesto filosofico trova il suo presente e, nello stesso tempo, la possibilità del suo togliersi più incondizionato. Zeit-traum § 6. Per un verso forse più comprensibile, e in genere eccessivamente comprensibile, attualità e contemporaneità indicano semplicemente la media sommatoria di un tempo del mondo (Weltzeit), la vaga percezione di un saeclum che si trascina in un tempo qualitativamente povero, destinato a perpetrarsi per mantenere in funzione il dispositivo della sua produzione. La contemporaneità assume il carattere di epoca, e dunque si iscrive nella “grande catena dell’essere” che semplicemente afferma l’indifferenza di tutti i tempi, in rapporto a un progresso che li estingue nella figura del momento. Si tratta di una percezione tanto intensa, in base all’architettura dell’Erlebnis, quanto ancorata alla mediazione, che pone la propria più catastrofica estinzione alle spalle di una rappresentazione falsante in quanto collettiv(izzat)a9. La contemporaneità, cioè, diventa principalmente un’epoca tra le altre, un qualsiasi Zeitraum proteso alle migliorie dei danni collaterali che tale concezione essenzialmente comporta10. Eventualmente osservando gli ultimi 7

“Wir sahen zugleich, wie die Wurzel des Begriffs der absoluten Wirklichkeit als Ewigkeit (absolute Gegenwart) in entscheinender Hinsicht in die Zeitlichkeit zurückweist.”, M. Heidegger, Der deutsche..., cit., p. 231. 8 La dichiarazione traduce la forma espressiva della verità in uno spazio di confutazione universale e non esoterico: questo nodo traduce la dialettica tra filosofia e politica, in quanto, senza la miracolosa apparizione di quelli che, sulla scorta di Badiou, Žižek chiama “atti etici”, nessuna delle due sarebbe minimamente possibile. In tema di andate e ritorni per e da Siracusa, mi sembra stranamente pertinente ricordare la tradizione riportata da Diogene circa la morte dell’“illuminista” Zenone di Elea, filosofo che dell’élenchos dialogico pone il paradosso più eccessivamente revocante. In fin di vita Zenone si trova a confutare con un mortale argomento ex silentio la contrapposizione egemonica che minava lo spazio di dichiarazione dei suoi stessi paradossi: “E per quel che riguarda la sua attività politica, egli si propose di abbattere il tiranno Nearco [...], ma fu arrestato [...]. Poi disse che egli doveva deporre dello confidenze su alcuni complici direttamente nell’orecchio del tiranno: così gli addentò l’orecchio e non lo lasciò, finché non cadde trafitto, subendo lo stesso destino del tirannicida Aristogitone.” (Diog. IX, 26 [trad. it. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, Roma-Bari 1975, trad. di M. Gigante, pp. 362-363]). Zenone, in quella situazione senza via d’uscita, finge di collaborare. Žižek riporta un esempio per certi versi similare: “E l’azione? Uno dei personaggi eroici della Shoah è per me una famosa ballerina ebrea alla quale, come atto di estrema umiliazione, gli ufficiali del campo ordinarono di ballare in loro onore. Invece di rifiutarsi, accettò di danzare, e dopo aver catturato la loro attenzione afferrò con un balzo il mitra di una delle guardie distratte riuscendo così a uccidere più di una dozzina di ufficiali prima di essere a sua volta uccisa. Il suo gesto non ci ricorda quello dei passeggeri sull’aereo caduto in Pennsylvania, i quali, sapendo che andavano a morire, si fecero strada nella cabina di guida e fecero schiantare l’aereo, salvando centinaia di altre vite?”, BDR, p. 146. 9 Ripetizione e postmodernità, in riferimento alla teoria della storia di Benjamin, in GA, pp. 134-135. Significativo che, per certi versi l’idea benjaminiana riconosca in ogni epoca una tendenza all’immagine catastrofica e in questo senso ogni epoca si dice moderna: “non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, “moderna” e non abbia creduto di essere immediatamente davanti a un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità. Ogni epoca si presenta irrimediabilmente moderna.”, Walter Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2002, p. 633. 10 ma che, come dice Benjamin, si pensa solo in rapporto a un abisso

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anni di questo mondo, la contemporaneità si lega a un abisso dalla natura molto particolare: cioè l’abisso di non essere più in grado di pensare abissi, o, ancora una volta con le parole di Heidegger: “Die Zeit der Weltnacht ist die dürftige Zeit, weil sie immer dürftiger wird. Sie ist bereits so dürftig geworden, weil sie nicht mehr vermag, den Fehl Gottes als Fehl zu merken.”11

Più che l’immagine gnostica (ripresa da Cioran) della caduta nel tempo, questa figura del contemporaneo sembra quindi intimare una revoca definitiva del tempo stesso per come potrebbe mostrarsi in rapporto al suo abisso, cioè al suo termine ultimo (éschaton). A tale immagine s’associa l’impossibilità di un presente che incarni azioni possibili, per cui le disjecta membra del tempo mondano s’accomodano luttuosamente ai prodotti di virtualizzazione del cyberspazio e delle guerre tecnologiche. Tutto il supporto non si reggerebbe se non vi fosse un’intimazione collettiva al non pensare, o se tale intimazione non fosse, com’è, percepita al modo di una necessità interiore in rapporto a una qualche propria sopravvivenza12. § 7. Per riassumere, il pensiero della contemporaneità crea un cortocircuito tra ciò che filosoficamente si deve pensare e ciò che la contemporaneità stessa impedisce di pensare. In questa doppia prospettiva, che, a un occhio clinico, apparirebbe nella forma di un doppio legame o di paradosso pragmatico alla Bateson (la contemporaneità che deve essere pensata non deve essere pensata per permettere alla contemporaneità di continuare ad esistere), si mostra più chiaramente l’urgenza di assecondarsi al testo di Žižek, anche solo in rapporto a una pretesa di natura “semplicemente” teorica: “Ed è fondamentale ribadire la centralità della “teoria pura” nel più concreto e materiale dei conflitti politici, oggi che anche un intellettuale engagé come Noam Chomsky preferisce sottolineare come la teoria si riveli irrilevante nelle lotte politiche di emancipazione: che tipo di contributo può venire dalla lettura dei classici della filosofia e della teoria sociale nell’attuale lotta contro la globalizzazione neoliberista? Contro questa tentazione antiteorica non basta ripercorrere attentamente le molte e diverse ipotesi su concetti come libertà, potere e società [...]. Ciò che invece occorre ribadire è come oggi, probabilmente per la prima volta nella storia dell’umanità, la nostra esperienza quotidiana [...] imponga a tutti di misurarsi con argomenti filosofici essenziali che riguardano la natura della libertà [...].” 13

Nel momento in cui si assiste alla negazione, perpetrata con rigore, della possibilità di essere minimente consoni a una traccia che sia in relazione a se stessa, cioè a una priorità che si genera da sé, e non in rapporto a un bisogno mediato (indotto e surrogato) dall’esterno, appare altrettanto chiaramente la necessità di seguire, per quanto possibile, la ritmica del testo di Žižek14. Altrimenti 11

“Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza.”, M. Heidegger, Holzwege, Gesamtausgabe, Band 5, Klostermann, Frankfurt a. M., p. 269 [ed. it. Perché il poeti?, in Sentieri interrotti, a cura di Piero Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 247. 12 Il riferimento più classico è ovviamente il Marcuse di Eros e civiltà, soprattutto in rapporto alla critica del dominio del principio di realtà: “Ma fin dalla prima restaurazione preistorica del dominio seguita dalla prima ribellione, la repressione dall’esterno è stata coadiuvata dalla repressione dall’interno: l’individuo non libero introietta i proprio padroni e le imposizione di questi ultimi, nel proprio apparato psichico. La lotta contro la libertà si riproduce nella psiche dell’uomo come autorepressione dell’individuo represso, e la sua autorepressione a sua volta sostiene il padrone e le sue istituzioni. È questa dinamica psichica che, secondo Freud, costituisce la dinamica della civiltà.” (H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1968, p. 63). Ma un altro interessante contributo filosofico a riguardo è la prima parte dell’Homo sacer di Agamben in cui si insiste sulla categoria debordiana della società dello spettacolo come asse inseparabile allo stato d’eccezione permanente dell’attuale frangente storico (G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995). 13 TVL, p. 8. 14 Proprio in forza del fatto che Žižek non si fa per nulla portavoce di una adialettica (dunque inconsapevolmente legittimante) istanza antirepressiva, quanto al contrario cerca di analizzare le possibilità reali di spostamento dell’intero ordine simbolico partendo da una radicale interiorizzazione della sottoposizione a quello (intorno a questo fondamentale aspetto si veda in particolar modo il capitolo sulla critica a Judith Buttler in SS, in particolare le pp. 307-330.

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pensando il divieto (o la rinuncia) a essere secondi a questa ritmica, come al divieto (o la rinuncia) a un ritmo inattualmente appropriato ai nostri tempi, a un ottimo beat. Naked Life § 8. Professore di filosofia presso l’Università di Lubiana e fondatore della società lacaniana della Slovenia, nato nel 1949, Slavoj Žižek attivo in patria ormai da decenni, viene per la prima volta tradotto in Italia nel 1999. Žižek ha sempre scritto in inglese, talvolta in tedesco, ormai sempre più raramente, in serbo-croato. Tra addetti ai lavori, estimatori e lettori un po’ radical-chic, Žižek viene chiamato il “gigante di Lubiana”, ma tutto ciò ha a che fare con la convegnistica e con l’anedottica da consorteria, le quali sembrano sempre più apparire come “il metodo della filosofia mondiale”. Forse un po’ più interessante potrebbe mostrarsi la sua provenienza slovena, per così finalmente porre il ruolo e il significato dei Balcani “dal punto di vista del pensiero”. Ma, in relazione a ciò, non potremmo non mettere sul piatto della bilancia il senso di colpa di un’Europa che sembra essere impeccabilmente addestrata a giungere in ritardo di fronte alla storia che la ri-guarda e che le appartiene (forse una strutturale stanchezza della vecchissima nottola di Minerva dell’altrettanto “vecchia Europa”15), senso di colpa che, talvolta, facilmente si lava con l’inchiostro. § 9. Mi sento abbastanza legittimato, dunque, (o, per meglio dire, auto-autorizzato) a provare non tanto una presentazione generale dell’autore, quanto un tentativo di transito che permetta di evidenziare la necessità di una sua contemporanea lettura. In sé l’esposizione ermeneutica rintraccia una condizione per cui difficilmente è possibile stabili(zza)re who’s who, o, per usare una battuta a ciclo ricorsivo che è cara anche al nostro: “Chi gioca in prima base?” (Who’s on first), espressione del trucco ideologico che nasconde la falsità della risposta, in quanto reintroduce “il carattere decettivo di una domanda in ciò che sembra essere una designazione positiva”16. Senza recedere definitivamente alla passe, senza cioè assumere il ruolo del mediatore evanescente, la differenza forse gioca, appunto, in ciò che resta di una lingua dalla quale la filosofia avrebbe ragioni per accomiatarsi. Come sarà chiaramente apparso a chi già ha letto Žižek, il quale si esprime con cristallino incedere17, il registro scelto per la scrittura di questo saggio si pone a un livello di comprensibilità particolarmente carente rispetto a quello del filosofo sloveno. A una sua ormai proverbiale capacità di penetrazione, in un senso propriamente psicanalitico, corrisponde il tono offuscato di queste pagine, secondo la tonalità più propria a essere percepita come del tutto inadeguata al contesto in cui esse dovrebbero situarsi. Forse in forza della gravità delle questioni affrontate mi arrischio a pensarmi ancora in tempo per una scrittura non del tutto corrisposta a una volontà esterna che, per certi versi, potrebbe anche essere la mia, in vista di una rinuncia impossibile, che non è più quella di noi stessi, ma del nulla che noi siamo. Senza rinunciare a nulla, dunque, o, per meglio dire, senza rinunciare al nulla. Risulta quasi superfluo aggiungere come al pretenzioso quanto apparente carattere di “coerenza e completezza”, insomma di (ideologica) totalità, che questo scritto mostrerebbe avere, corrisponde un’operazione realmente riduttiva nei confronti del movimento di pensiero di Žižek; movimento che, oltre a essere sicuramente più complesso di una sua iniziale intuizione, si realizza propriamente nel dettaglio di ogni sua singola prestazione riflessiva. La riduzione, dovuta sicuramente anche a una mia personale e non negabile inefficienza, è però parte di quell’istanza per cui “il tempo si è fatto breve”: certo si tratta del tempo della scrittura e delle sue consegne, ma ciò non deve togliere di mezzo una brevità del tempo che assume una necessità di pensiero di tutt’altra natura, sulla quale si stenta a non fermarsi a riflettere. 15

Cfr. GA, pp. 183-188. TVL, p. 126. 17 Nella prefazione a GFP, i curatori, dopo aver sottolineato come “la prosa dell’autore appare fin troppo scorrevole, semplice e immediata”, accennano all’idea di una scrittura a blocchi che riprende la scansione traumatica dei fotogrammi filmici, D. Cantone e R. Scheu, Nota introduttiva. Žižek, la filosofia è cinema?, in GFP, p. 7. 16

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Wir sind ein Folk Morire dal ridere18 § 10. Il passo di Holzwege che abbiamo innanzi citato si conclude in questi termini: 19

“Das Weltalter , dem der Grund ausbleibt, hängt im Abgrund. Gesetzt, daß dieser dürftigen Zeit überhaupt noch eine Wende aufbehalten ist, sie kann einst nur kommen, wenn die Welt sich von Grund auf, und d. h. jetzt eindeutig, wenn sie sich vom Abgrund her wendet. Im Weltalter der Weltnacht muß der Abgrund der Welt erfahren und ausgestanden werden. Dazu ist aber nötig, daß solche sind, die in den Abgrund reichen.”20

“Coloro che raggiungono l’abisso...”, o, per meglio tradurre: “Bisogna che qualcuno ci va a parlare!” Non è certo solo una tanto ridicola quanto improvvida associazione mentale che mi porta a contrappuntare il “tono oracolare (fatto in casa)” dello Alter Meister della Svevia21, con una delle più riuscite macchiette comiche di Corrado Guzzanti. L’effetto dissacrante dovrebbe forse appropriarsi all’epoca dissacrata che non esperisce l’abisso come abisso, e che non ha modo né misura per dar conto dell’alto e del basso. A quanto pare, finita è l’età dei poeti, ma finita è anche l’età dei filosofi che parlano dei poeti22. Nel “tempo della notte del mondo”, se tale è veramente, è la stessa espressione “tempo della notte del mondo” a diventare ridicola e improvvida. Se veramente “nell’evo della notte del mondo, l’abisso del mondo dev’essere esperito e patito”23, allora proprio quella traduzione deve essere ridicola, comica, indecente. Perché quella verità è intraducibile. A meno di non scendere realmente nelle “profondità dei mari” e confrontarsi con tutto ciò che nega la possibilità pura del filosofico. Scendere non più nelle “contrade” (le Gegend heideggeriane), ma nella suburbia del pensiero dove di tutto, ma veramente di tutto, si può, e si deve dire: “that’s all folks”. § 11. Žižek è uno di quelli “che ci va a parlare”. Una delle caratteristiche più note e forse più lampanti dei suoi lavori e del suo “stile filosofico”, è evidentemente la tendenza a interpolare esempi-situazioni-(talvolta)eventi, che più vicinamente appartengono all’immaginario collettivo di massa (film hollywoodiani, fatti di cronaca nera o scandali pubblici, accadimenti di socio-politica 18

“[...] con il solletico, si sa, possiamo infatti anche morire dal ridere...”. I curatori, che ricordano il Lacan del Seminario XVII (“si incomincia dal solletico e si finisce arsi vivi”), si riferiscono qui al termine inglese, che loro traducono con ‘scabroso’, del titolo Žižekiano Ticklish Subject; più propriamente, infatti, ticklish significa ‘solleticante’ (D. Cantone e L. Chiesa, Nota dei curatori, in SS, p. XII). 19 Il schellingiano Weltalter in accoppiata alla Weltnacht, oltre a rimandare alla prima parte di SS, intitolato appunto La “Notte del Mondo”, trova un breve commento sempre in SS, p. 26. 20 “Posto che, in genere, a questa epoca sia ancora riservata una svolta, questa potrà aver luogo solo se il mondo si capovolge da capo a fondo, cioè se si capovolge a partire dall’abisso. Nell’epoca della notte del mondo l’abisso deve esser riconosciuto e subíto fino in fondo. Ma perché ciò abbia luogo occorre che vi siano coloro che arrivano all’abisso.”, M. Heidegger, Holzwege, cit., p. 270 [ed. it. p. 248]. Mi dovrà perdonare il riferimento assiduo alla figura di Heidegger, che per certi versi non è presentissima nel discorso di Žižek - e che, quando compare, si trova sottoposta a una critica poco indulgente (si veda in particolare SS, pp. 9-83). Rimanere su Heidegger, oltre a significare un ineludibile punto di transito per un discorso che elevi la filosofia a una qualche sua necessità nel tempo presente, è anche il tentativo di intercettare non certo il “debito impensato” di Žižek, ma un possibile interlocutore che possa manifestare il suo discorso come adeguato alla disposizione che la filosofia contemporanea ha irrimediabilmente assunto a partire da Heidegger. 21 È la famosa descrizione fatta da Thomas Bernhard nel suo Alte Meister. 22 A. Badiou, Manifesto per la filosofia, Feltrinelli, Milano pp. 55-63 (in particolare il cap. 7, L’età dei poeti). In riferimento a Paul Celan: “Vi leggo, poeticamente enunciata, la confessione che la poesia non basta più a se stessa, che domanda di essere liberata del fardello della sutura, che spera in una filosofia liberata della schiacciante autorità della poesia.”, ivi, p. 71. 23 Si tratta della recente traduzione di V. Cicero del medesimo passo in M. Heidegger, Holzwege. Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2002, p. 318.

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mondiale o nazionale, eventi propriamente politici [in un senso che spero di riuscire a chiarire], ecc...), con folgoranti transiti ermeneutici in prossimità di autori come Platone, Aristotele, Kant e Hegel. Ci si può trovare di fronte, dunque, a un film come Matrix dei fratelli Warchowski, accompagnato dal Grande Altro lacaniano, solo per citare uno degli esempi più noti24. La natura di questo gesto filosofico, certo comprensibilmente accattivante per alcuni, quanto fastidioso per altri, non ha nulla del facile accostamento sincretista e, dunque, volgarizzante. La genialità di Žižek, se la categoria del genio può ancora oggi assumere le vesti del concetto, non è tanto quella, direi diffusa, di far passare “contenuti alti” attraverso “mezzi bassi”25. Al contrario l’operazione di Žižek muove guerra alla banalità del male, ma, per rendere operativo questo gesto, non può sentirsi esonerato dall’attraversare l’interezza di questa banalità-presunta-Reale. Lo stretto investimento che Žižek dispiega nel tentativo di evidenziare il passante tra psicanalisi lacaniana, filosofia dialettica e cultura pop - a tutti i livelli, o serie (dalla A alla Z), in cui non solo quest’ultima si manifesta - assume le fattezze di un’irrimediabile fenomenologia del presente, senza il medium di un valore che supporti il disporsi gerarchizzato di quei contenuti. Show the shock to shock the show § 12. Non solo, però. Il rapporto tra fenomenologia dello spirito e psicopatologia delle forme di vita quotidiana determina un asse in prossimità del quale non sussiste differenza alcuna di tipo verticale tra i più molteplici contenuti di pensiero. Questa sorta di orizzontalizzazione compiuta allinea le determinazioni di senso lungo un confine di nullificazione totale, che lascia spazio solo ai godimenti che le interpellano. In questo senso, come lo stesso autore autoammette in un “intervista a se medesimo”, “è chiaro che la teoria lacaniana serve come scusa per indulgere nell’idiota godimento della cultura di massa”26, ma ciò solo se siamo in grado di riconoscere nell’idiozia (e nell’idiotés che la supporta) la spinta di autoappropriazione di un vuoto su cui, infine, gioiosamente risiedere27. Indicando un’analogia con il procedimento lacaniano della passe, Žižek viene a concludere: “Un esempio tratto dalla cultura popolare ha per me lo stesso ruolo funzionale dei due passeurs, due idioti, due uomini comuni che rappresentano l’inerente stupidità del Grande Altro, essi sono in grado di trasmetterla al comité de la passe, senza perdere alcun elemento del messaggio. Analogamente, mi convinco di aver davvero compreso qualche concetto lacaniano quando riesco a tradurlo efficacemente nell’intrinseca stupidità della cultura popolare. In questa completa accettazione dell’estrinsecazione in un medium stupido, in questo rifiuto radicale di qualsiasi segreto iniziatico, risiede l’etica di trovare la parola appropriata.”28

Riconoscere il fatto che noi tutti siamo pop, che scappare o ritenersi estranei alla cultura di massa significa semplicemente “escludere dal Simbolico ciò che poi ritorna nel Reale”, diventa dunque un procedimento euristico che, come vedremo, appartiene ai primordi della filosofia: ei\nai ga;r ejntau'qa qeouvj29. Il fatto che la filosofia si salvi dalla rappresentazione del proprio negativo, rifugiandosi nella sua introversa speculazione dell’éternité par les astres, non fa altro che 24

Cfr. il testo monografico The Matrix: the Truth of Exageration, recuperabile presso il suo sito all’indirizzo http://lacan.com/matrix.html; ricorrenti glosse a quel film si possono ritrovare anche in GFP o in BDR. 25 Si pensi a tutta la paccottaglia dei vari “platoni spiegati a” segue varie categorie di personaggi, i quali vengono presunti, mortificandoli a priori, non essere socialmente in grado di avvicinarsi, in una qualche forma meno ebete, a determinazioni di pensiero senza dubbio più interessanti, vitali e profonde di quelle propinategli. In questo senso il motivo di uno Žižek come di un “Lacan per tutti” è da rilevare solo in termini critici (cfr. Cantone, Damiano e Scheu, René, Nota introduttiva. Žižek, la filosofia è cinema? in Il godimento come fattore politico, p. 7). È chiaro, cioè, come anche il sottoscritto deve ammettere una difficoltà intrinseca e talvolta definitiva nel tentativo di attraversare il testo lacaniano. Da ciò non si dovrebbe forse applicare immediatamente la proprietà transitiva per cui Žižek è comprensibile in quanto riduttivo. 26 GA, p. 198. 27 Cfr. M. Senaldi, Postfazione. Il punto di vista dell’idiota, in GA, p. 28 GA, p. 171. 29 DK 22 A 9, 4.

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manifestare ulteriormente il rischio di una sua epocale estinzione che l’avvicina di molto al destino dei dinosauri o, per altra auto-tanasia, a quello di un novello don Ferrante. Was ist das-Philosophie? § 13. Ma perché parlare a riguardo di filosofia e non semplicemente di opinionismo radicale o, al meglio, di teoria critica? L’attenzione minuta e folgorante per i particolari propri della cronaca potrebbe infatti essere fraintesa come uno sguardo tipicamente etnografico, acribicamente voyeristico, che infine scocca la freccia del paradosso, a mo’ di arma impropria nei confronti del pensiero unico. Una rappresentazione un po’ troppo mitizzante di tale movimento di pensiero non coglie però l’intrinseco presente in questo transito continuo: l’attenzione per l’elemento “attualmente folclorico” della società globale-occidentale non denota certo né una rinuncia all’esito esteso del pensiero (l’universale), per rifugiarsi nel totalmente a-filosofico synbebekós, né quindi un’apologia delle micro-identità, delle infinite idiozie che popolano il pianeta Terra, quanto al contrario espone la necessità di un pensiero che faccia emergere il “carattere di condizionamento egemonico” risiedente al fondo dell’assenza di evento che impesta l’Occidente: “Siamo così sempre più rinserrati in uno spazio claustrofobico, al cui interno possiamo solo oscillare tra il non-Evento, il piatto scorrere del New World Order liberal-democratico del capitalismo globale e gli Eventi fondamentalisti (l’emergere di proto-fascismo locali e via discorrendo), che di tanto in tanto turbano la calma superficie dell’oceano capitalista.”30

§ 14. Proprio in relazione a questa immagine desolante e desolata del Reale, l’operazione di Žižek ha piuttosto la natura di un abbandono delle isole dei Feaci, chiuse nelle quali si sogna il quieto vivere del vivere contemporaneo, l’adýnatos nóstos che rischia di trasformarsi in una conservativa nostalgia per l’origine (archetipale, cioè, nel lessico di Žižek mutuato da Lacan, del tutto “fantasmatica”). In questo senso la “teoria pura” mostra la necessità di un ripristino dialettico che non faccia capo all’immagine falsante del movimento hegeliano in termini di presupposta riconciliazione. Anzi, il riferimento a Hegel, nella sua costante funzione discorsiva di critica ante litteram alle posizioni filosofiche contemporanee, espone piuttosto la figura del negativo inizialmente privato del “punto di capitone” che sarebbe forse la Versöhnung. Si tratta cioè, per dirla con un’espressione importante, dell’indugio con/del/nel negativo (tarrying with the negative). Ciò non significa pensare a un’infinita “dialettica negativa” che mostrasse il carattere già da sempre decostruito (e dunque inefficace nel télos) di ogni figura dello Spirito. L’indugio mostra piuttosto la necessità di confrontarsi con ciò che in quel movimento, ipoteticamente infinito, mostra un improvvido potenziale di rimozione31. Proprio la stereotipia postmoderna di un’immagine che discende immediatamente nel Tartaro, per l’evanescenza della sua verità, rischia cioè di presentarsi come la rimozione di una morte simbolica ed esistenziale della quale non si accetta liberalmente l’urto: “Per questa ragione la vera alternativa riguardo ai traumi storici non è tra ricordarli o dimenticarli, dato che i traumi che non siamo disposti o capaci di ricordare ci perseguitano in modo ancor più ineluttabile. Dovremmo invece accettare il paradosso che - per dimenticare veramente un fatto - dovremmo prima essere abbastanza forti da ricordarlo correttamente. Per illustrare questo paradosso ci dovremmo ricordare che l’opposto di esistenza non è inesistenza, ma insistenza: quel che non lasciamo esistere continua a insistere, a lottare per emergere all’esistenza.”32

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DI, p. 56. Per una critica ad Adorno (e Heidegger) si veda GFP, pp. 100 ss. 32 BDR, p. 26. 31

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Tarrying with the negative “Essi vivono...” § 15. L’attraversamento del negativo, utilizzando un’immagine che può quindi appartenere a colui che si suppone rappresentare come “il filosofo tout-court” e, contemporaneamente, allo psicanalista che dichiarava il suo lavoro programmaticamente come “anti-filosofia”33, è da una parte il compito e dall’altra la necessità del pensiero: “Il nostro atteggiamento di fronte al Vuoto è [...] segnato da una profonda ambiguità, da un gioco simultaneo di attrazione e repulsione. Oppure, seconda opzione, lo si può assumere come ciò attraverso cui potremmo/dovremmo passare (e in una certa misura siamo già-sempre-passati): è questo il senso ultimo, l’essenza della nozione hegeliana di “indugiare nel negativo”, resa da Lacan attraverso l’idea del nesso profondo tra pulsione di morte e sublimazione creativa. Perché la creazione (simbolica) possa aver luogo, la pulsione di morte (l’hegeliano negativo assoluto che si autoinvera) deve poter compiere il suo lavoro, deve precisamente svuotare il luogo, rendendolo pronto ad accogliere l’atto creativo. Al posto della vecchia tesi sugli oggetti fenomenici che spariscono/si dissolvono nel vortice della Cosa, ci troviamo dinanzi oggetti che non sono altro che il Vuoto della Cosa incorporata (assorbita in sé) o, per ricorrere al lessico di Hegel, oggetti la cui negatività assume un’esistenza positiva.”34

La fenomenologia di tutto ciò che, a rigor di una tradizione scorporata, è comunemente indicato come non essere appropriato al discorso della filosofia, emerge con una richiesta costringente nel panorama dei lógoi globali: si tratta di un’ineludibile Phänomenologie di tutte le figure del Geist, la quale, dunque, non può rinunciare a transitare nei pressi di quell’apparizione dello spirito, Erscheinung des Geistes, che è il Gespenst, lo spettro che attualmente si aggira per l’Europa e per l’interezza dello spazio globale. “In un certo qual modo, si tratta qui di non voler sapere quel che ogni vivente sa, senza impararlo e senza sapere, cioè che il morto può talvolta essere più potente del vivente”35. Essi vivono è il titolo di un film di Carpenter del 1988, in cui degli alieni controllano il mondo attraverso messaggi subliminali in cartelloni pubblicitari. Il protagonista riesce a riconoscere questo dominio inconscio grazie a dei particolari occhiali da sole. Fantasia, fanta-scienza, fanta-politica, fantasma. Derrida parla dell’effetto visiera come attuale condizione dello Spirito; egli fa riferimento allo shakespeariano “fantasma del padre” che, secondo le testimonianze di chi l’ha visto, “portava la visiera abbassata”, di modo che non era possibile vederne il volto: “Questa Cosa che non è una cosa, questa Cosa invisibile tra un’apparizione e l’altra, non la si vede in carne e ossa neanche quando riappare. Tuttavia questa Cosa ci guarda e vede che noi non la vediamo anche quando c’è. Una dissimmetria spettrale interrompe qui ogni specularità. Disincronizza, ci richiama all’anacronia. Lo chiameremo l’effetto visiera: non vediamo chi ci guarda. Benché nel suo fantasma il re somigli “come tu stesso ti somigli” (“As thou art to thy selfe”), dice Orazio, ciò non impedisce che egli guardi senza essere visto: la sua apparizione lo fa sembrare ancora invisibile sotto l’armatura (“Such was the very Armour he had on [...]”). Questo effetto visiera, di cui certamente non riparleremo più, almeno

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Penso ovviamente a Hegel e a Lacan; sull’anti-filosofia intesa come radicale gesto filosofico si veda l’Introduzione di TN: “This thesis that Lacan is essentially a philosopher seems nonetheless all too hazardous, since it blatantly contradicts Lacan’s repeated statements which explicitly dismiss philosophy as a version of the «discourse of the Master»” (TM, p. 3) ma poi “One is [...] tempted to risk the hypothesis that what Lacan’s “antiphilosophy” opposes is this very philosophy qua antiphilosophy: what if Lacan’s own theoretical practice involves a kind of return to philosophy?” (TN, p. 3-4). “Se esiste una lezione fondamentale condivisa da Hegel e Lacan, questa consiste nell’esatto rovesciamento della versione comune sul fatto che occorra liberarsi dell’inessenzialità delle apparenze e puntare verso l’essenziale: le apparenze contano, le apparenze sono essenziali. Non si può semplicemente opporre il modo in cui la cosa è “in sé” al modo in cui essa appare alla nostra prospettiva corrotta e parziale: l’apparenza ha più peso della cosa in sé, perché designa il modo in cui la cosa in questione è inscritta nella rete delle sue relazioni con gli altri.”, TVL, p. 29. 34 TVL, p. 158. 35 J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994, p. 65.

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direttamente e in questi termini, sarà però supposto in tutto ciò che proporremo d’ora in avanti sullo spettro in generale.”36

§ 16. “Flectere si nequo Superos, Acheronta movebo”, questo è il famoso motto virgiliano (Aen., VII, 312) che Freud pone ad esergo e sigillo della sua Traumdeutung37. Tale indice di programma intende per suo verso sottolineare come le figure fantasmatiche, lungi da poterne dichiarare l’inefficacia semplicemente in forza di rimozione, semplicemente fingendo la loro inesistenza, agiscono nella modalità propria del perturbante (Unheimlich), “accompagnando ogni rappresentazione” e, dunque, assumendo e ricoprendo alla fine il ruolo e l’entità irrappresentabile dell’Io trascendentale. Eppure quello scuotimento del fiume infernale non può anche non produrre l’effetto di liberare i fantasmi dalla loro dimora latente, di una convocazione quasi esorcistica quindi, che si risolva non tanto nella liberazione dal fantasma, ma nella libera accettazione di quello. Il fondamento puramente ideale (e ideologico) di una “vita reale”, che possa tranquillamente non confrontarsi con tali fenomeni, con tali apparizioni, paga lo scotto di una tranquillità, già in sé esiziale alla vita stessa, che si trova inoltre totalmente esposta al ribaltamento più devastante a fronte del primo minimo trauma. Il quale si può presentare, ormai senza alcuna possibilità di mediazione, in uno dei qualsiasi luoghi ritenuti più sicuri della propria auto-rappresentazione. Ecco così come l’esempio del padre di famiglia, che uccide la famiglia con la pistola di famiglia che serviva a proteggere la famiglia, perde il suo zeitgemäßlich carattere esemplare, tanto caro ai colori più tetri della cronaca, per esporre il suo inammissibile nucleo filosofico. Compito (non troppo ingrato, ma neppure compiaciuto) che Žižek si propone è per certi versi proprio quello di “portare alla luce” questo nucleo. Divieto di sosta? § 17. L’intento di Žižek, dunque, non è certo quello di fare psico-sociologia di massa, oppure anche, in una forma meno raffinata che altrove, proclamare l’escatologia che sta al fondo di questa ipotetica psico-sociologia, ripristinando il mai decettibile “tono apocalittico in filosofia”38; non si tratta nemmeno di un’avanzata metodologia antropologica come critica culturale. Molto più radicalmente, Žižek interpreta i fenomeni contemporanei alla luce della loro inammissibilità, alla luce (o al buio) della esigua crepa che mostra come quegli specifici fenomeni siano veramente del tutto intollerabili. Intollerabile è tutto ciò che, semplicemente essendo, annienta i sensi possibili che l’occidente si è costruito per sottrarsi al pensiero radicale di una sua catastrofica fine. Intollerabile, dunque, non è solo la morte, ma anche il riconoscimento dell’apparato alienante che, distanziando dal pensiero di morte, condiziona tutta la vita, tutta la libertà possibile, proclamando quel divieto di sosta permanente39, per il quale non è possibile fermarsi a pensar[lo]. Intollerabile, per certi versi, è la verità che accoglie nel Reale, mostrandolo come un terribile deserto. Ma, al fondo, intollerabile diventa in extremis la stessa tolleranza masochista che vorrebbe produrre l’anestesia del conflitto per poi rilanciarlo, nel modo più disumano, in risposta a una qualsiasi sua più scioccante emersione. In questo scenario l’evento traumatico sostituisce la “silenziosa vocina dell’amico” (“das Hören der

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J. Derrida, Spettri, cit... , p. 14. Non è pleonastico sottolineare come quelle parole che l’autore riferisce all’effetto visiera, come sempre almeno per me, calzano perfettamente circa la presenza di questo magnifico saggio derridariano all’interno del mio scritto: “Questo Derrida, di cui certamente non riparleremo più, almeno direttamente e in questi termini, sarà però supposto in tutto ciò che proporremo d’ora in avanti sullo spettro in generale.” Critico invece Žižek nei confronti degli Spectres derridariani in TVL, p. 98. 37 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Id., Opere, Vol. III, Boringhieri, Torino 19672, p. 1 e p. 553. 38 Il riferimento è ovviamente a quel carattere ricorsivo già presentato da Derrida nel suo D’un ton apocalyptique adopeté naguère in philosophie [Galilée, Paris 1983]. 39 Ennesimo paradosso pragmatico, espressione del tempo in cui lo “>Ausnahmezustand<, in der wir leben, die Regel ist” (W. Benjamin, GS I, 2, p. 697).

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Stimme der Freundes, den jedes Dasein bei sich trägt”40) che, nel capolavoro di Heidegger, evocava all’Eigentlichkeit del proprio Da-sein, e che, forse, ne denotava gli esiti più coscienzialisti41. Il rapporto con il contemporaneo in Žižek esprime dunque il tentativo di evidenziare il carattere sempre traumatico con il cosiddetto “reale”. Eppure tutto ciò non ha nulla a che vedere con un impeto distruttivo e decostruzionista che rischierebbe di (ri)generare un relativismo antipolitico. Proprio quell’indugio in ciò che nega l’indugio permette, come vedremo, di pensare la trasformazione in una forma non utopica o semplicemente oppositiva. I fantasmi dei padri § 18. A fronte della pericolosità di un Occidente che sempre più ritiene se stesso come un qualcosa di già saputo, forse in forza di una sua autorappresentazione (sempre e solo in opposizione alla rappresentazione di un nemico ricorsivamente tipicizzato), Žižek mi sembra dunque ripetere una domanda che, data la prontezza di risposta con cui comunemente la si liquida (semmai s’indugia sulla contrattazione dei termini...), risulta paradossalmente del tutto assente. Assente come domanda, non certo come risposta. La domanda è quella (essenzialmente occidentale): che cos’è l’Occidente? E infine: chi siamo noi? Insediarsi in questa domanda non significa affatto andare a prendere i contenuti più tipici dei nostri discorsi, quanto piuttosto ripristinare il gesto filosofico in rapporto alla sua negazione. In quanto la filosofia non è un’eredità, né una radice storica, né una proprietà patrimoniale. Essa è una possibilità instancabilmente tolta. Pensare alla filosofia come un lascito inestinguibile dell’Occidente, soprattutto nel momento in cui la sua parte “progressista” fatica a trovare parole adatte per non ripresentarsi nella colonialistica figura di dominanza globale, significa non cogliere il carattere non continuativo del gesto filosofico. Eppure, solo apparentemente in modo contraddittorio, Žižek stesso insiste, come vedremo, nella necessità di pensare a “una piccola Europa” ancora in grado di pensare. L’esito paradossale del discorso, se accostato a quella visione del mondo che vede il mondo stesso come totalmente deprivato di una consistenza di pensiero, non fa altro che fornire una traccia più complessa, ma significativa, per insediarci nuovamente in una tradizione, la quale si mostra sensata solo in quanto del tutto e definitivamente svuotata. Una tradizione vuota a cui corrisponde il gesto di svuotamento del soggetto che la porta. Questa pare essere, in Žižek, l’eredità di un nichilismo che, lungi dal rappresentare la chiave di lettura del contemporaneo, appare piuttosto come un “sentiero interrotto” delle possibilità di pensiero dell’Occidente42. L’immagine ectoplasmica del fantasma risulta dunque essere la più appropriata a questo scoglio della filosofia ancora da attraversare. Il fantasma del padre diventa il fantasma di una tradizione che, in modo o nell’altro, sembra giustificarci, sembra fornire l’apparato di senso per le molteplici pratiche che investono lo spazio globale. Ma fondarsi su un fantasma, senza accettarne lo statuto ontologico, significa semplicemente costringersi a un passato che rischia continuamente di ripresentare da una parte una neutralizzazione delle istanze soggettive e dall’altro lo spettro del totalitarismo o del nazionalismo. A questa tendenza globale s’oppone quindi il programma che prende lo strano ed ambiguo nome di “eurocentrismo progressista”, sul quale avremo modo di soffermarci in seguito.

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M. Heidegger, Sein und Zeit, in GA II, Klostermann, Frankfurt a. M. 1976, § 34, p. 217. Fra tutti ricordo J. Derrida, L’orecchio di Heidegger. Filopolemologia, in La mano di Heidegger, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 81 ss. 42 Questa fra tutte: “Il fallimento finale di Heidegger non consiste nel fatto che egli sia rimasto intrappolato nell’orizzonte della soggettività trascendentale, ma nell’averlo abbandonato troppo in fretta, prima di scoprirne tutte le possibilità intrinseche. Il nazismo non era un’espressione politica del “potenziale demoniaco e nichilista della soggettività moderna”, quanto piuttosto il suo contrario: un disperato tentativo di evitarlo.”, SS, p. 26. 41

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Wir sind das Volk § 19. Una delle questioni più interessanti, e forse più misconosciute, dell’intero Heidegger è proprio quella, semplicissima nella formulazione quanto devastante nella portata, che si poneva quasi a sigillo di numerose delle sue “meditazioni” della fine degli anni ’30: “Wer sind wir?”43 L’interpretazione più culturalmente comoda a riguardo fornisce uno spazio minimo alla copertura di quel wir. Tanto che era facile identificare il soggetto della domanda (“wir Deutschen”, oppure “das Deutsche, das wir sind”) e anticipare la risposta in un quasi tautologico “wir sind ein Volk”. L’identificazione priva di domanda tra ‘noi’ e ‘popolo’ risulta maggiormente pericolosa nell’interpretazione in quanto snatura il senso della domanda stessa Se, al contrario, l’interpretazione lasciasse spazio al rischio della domanda, apparirebbe forse una vastità incolmabile, della quale il Wir non sarebbe semplicemente parte, ma ne rappresenterebbe la totalità dell’estensione. Lungi dal fornire il supporto “filosofico” all’ipotesi comunitarista, la chiusa come domanda espone quindi l’universalità di un noi ancora contratto nelle maglie di un pensiero rappresentativo. Il problema del noi, di un soggetto singolare-plurale, investe le resistenze al pensiero che fanno capo a numerose tracce della filosofia odierna criticamente transitata nell’universo heideggeriano. Mi riferisco in particolare a J. L. Nancy, ma anche a tutto un dibattito che cerca di impostare filosoficamente il problema dell’incontro o dello scontro culturale44. Quel problema manifesta tutte la drammatica difficoltà che il pensiero trova nel tentativo di non ricadere da una parte in una versione nostalgicamente originaria e organica del soggetto politico, e dall’altra nell’ennesima astrazione universalista in termini di un soggetto generico e apparentemente vuoto quanto in realtà supportato da una più o meno variabile quantità di proprietà primarie. L’esito forse più paradossale, ma nello stesso tempo straordinariamente pregnante, di questo snodo si riassume in una formula che s’enuncia nella dissonanza di “singolarità universale”. La sua più recente formulazione risale ad Alain Badiou45, nel suo tentativo d’esporre una possibilità (o, più propriamente, un’impossibilità eccedente che contrasti il carattere ideologicamente sedimentato della realtà) che riguardi proprio i destini semantici della predicazione di un noi il quale, nella sua vuotezza di contenuto, non lasci fuori nulla46. Ciò non riguarda la semplice astrazione ideologica di uno spazio neutro di raccolta delle diversità, quanto piuttosto una revoca delle diversità stesse

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In particolare si legga per intero il § 19 del I campo dei Beiträge: Philosophie (Zur Frage: wer sind wir?), in M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), in Gesamtausgabe, Band 65, Klostermann, Frankfurt a. M. 1989, pp. 48-54.. 44 Tengo a citare gli esiti più complessi e significativi di quella strada, per certi versi a senso unico, rappresentata dai postcolonial studies: in particolare lo Homi Bhabha di Location of Cultures (1990) e il Depish Chakrabarty di Provincializing Europe (2000). 45 “[...] la nostra domanda si formula in modo chiaro: quali sono le condizioni di una singolarità universale [singularité universelle]? È su questo punto che convochiamo San Paolo, perché questa è esattamente la sua domanda.”, A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli 1999, p. 25. Parlo di formulazione recente perché non si deve tralasciare come la possibilità fosse già stata esposta da Aristotele nel capitolo IX della sua Poetica, circa la dicitura delle cose kata; to; eijko;j h] to; ajnagkai'on propria della poesia, che non è certo un’astrazione per induzione ma il paradosso dell’universale che compare nel singolare: “Da ciò che si è detto è chiaro che compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verisimiglianza o necessità. [...] Perciò la poesia è cosa di maggiore fondamento teorico e più importante [filosofwvteron kai; spoudaiovteron] della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari. È universale il fatto che a una persona di una certa qualità capiti di dire o di fare cose di una certa qualità, secondo verisimiglianza o necessità”. Badiou come Žižek riconoscono nel gesto propriamente politico il ruolo di interpretare gli eventi kata; to; eijko;j h] to; ajnagkai'on rispetto all’attitudine particolaristica del cosiddetto realismo storico. 46 A quanto pare la formula risulta importante anche per Žižek: “il paradosso di un singulier universel, di una singolarità che appare e “sta per” l’Universale, destabilizzando il “naturale” ordine funzionale della realtà sociale. L’identificazione di “ciò che non ha parte” con l’Intero, di quella parte della società che non occupa alcun posto definito al suo interno (o che resiste e si oppone all’attribuzione di una posizione subordinata) con l’universale, rappresenta l’elementare gesto di politicizzazione che appartiene a tutti i grandi eventi democratici [...].”, TVL, p. 148.

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rispetto alle loro pretese performative che paiono strutturare i falsi (ma non per questo incruenti) conflitti della nostra attualità47. § 20. “Chi siamo noi?” rimane dunque una domanda fondamentale, nonostante (o proprio in forza di) il rischio di una risposta in termini particolaristici o nazionalistici. Alludo quindi a quella sequenza heideggeriana, sotterrata negli scritti più “esoterici” dell’autore, in quanto mi appare in strana risonanza con il discorso che Žižek svolge in relazione al popolo. Recuperando alcune significative pagine di Rancière48, l’autore espone, a mio giudizio, la stessa ambiguità di Heidegger, la quale può essere penetrata solo nel dettaglio di un suo “tradimento”49. Si tratta in un piccolo spostamento, in una correzione del tiro che riesce a trasformare l’atto essenzialmente politico nel suo risvolto performativo totalmente spoliticizzato: “Talvolta il passaggio dal politico in senso proprio al poliziesco può essere una semplice questione di sostituzione di un articolo determinativo con uno indeterminativo, come nel caso delle masse tedescoorientali che manifestavano contro il regime comunista negli ultimi giorni della DDR: prima gridavano «Noi siamo il popolo» (Wir sind das Volk!), compiendo così l’atto della politicizzazione nella sua forma più pura (loro, gli esclusi, la «feccia» controrivoluzionaria rispetto all’ufficialità di «Tutto il Popolo», senza un posto regolare all’interno dello spazio ufficiale -o, per meglio dire, col posto loro destinato dal potere ufficiale che li bolla con epiteti di vario genere, «controrivoluzionari», «hooligan» o, nella migliore delle ipotesi, «vittime della propaganda borghese» -, proprio loro rivendicavano di rappresentare il popolo, «tutti»); poi, nel giro di un paio di giorni, lo slogan era diventato «Noi siamo un popolo!» (Wir sind ein Volk!), segnalando così chiaramente la rapida fine di quell’apertura subitanea alla politica: la spinta democratica veniva deviata per favorire la riunificazione tedesca e questo significava rientrare nell’ordine poliziesco/politico liberal-capitalista della Germania occidentale.”50

Come ci ricordava un altro sfortunato critico dello stato di polizia, “il buon Dio sta nel dettaglio”51! Quel piccolo spostamento di determinazione mette in gioco alcune categorie di pensiero che l’Occidente si pensava avesse del tutto superato. A un primo sguardo, l’affermazione di un universalismo parrebbe ripristinare quell’etnocentrismo occidentale di stampo colonialista, che pretendeva imporre un ordine “universale” (il proprio) alla complessità multiforme del mondo. A parte il fatto che, proprio in relazione a questa particolare tendenza, l’uso grammaticale del tempo passato appare oggi quasi maliziosamente sarcastico, forse la (ripro)posizione del problema dell’universale, assume un significato completamente diverso e, a questo punto, ineludibile. Il problema dell’universalità, cioè, risulta chiaramente dirompente in rapporto agli infiniti particolarismi identitari che sembrano costituire il fondamento logico dell’attuale multiculturalismo. Rievocare lo spettro dell’universale, di questi tempi, non può che procurare l’accusa di un pensiero neocolonialista, un pensiero culturalmente connotato che s’arroga il diritto di estendere i contenuti della sua identità all’inviolabilità dell’altro. Ma il tentativo di Žižek è proprio quello di spezzare il nesso tra universalismo e colonialismo, cercando al contrario di smascherare l’ideologia culturalista che, mantenendo l’egemonia, si supporta attraverso il dispositivo di tolleranza. Non è qui l’ipotetica “cultura superiore” a proclamare l’universale (perpetrando la copertura di un processo di sottomissione con la propaganda di una missione di liberazione globale), quanto al contrario la parte che non ha una collocazione identitaria, in quanto del tutto sottratta alle rivendicazioni particolaristiche. L’universale è cioè predicato dalla parte-senza-parte, in una 47

A. Badiou, San Paolo..., cit., p. 15. J. Ranciere, La mésentente: politique et philosophie, Galilee, Paris 1995. 49 In Heidegger la Zweideutigkeit è iscritta nella forma della “pura interrogazione” (pura, cioè “irresponsabile”, nel senso che nomina l’impossibilità di risposta, una domanda cioè totalmente filo-sofica), in Žižek questa ambiguità alberga nella “pura forma” che dichiara l’evento (dunque in una sorta di esoscheletro della sofia, nell’incondizionata “esposizione del vuoto”). Entrambe le versioni corrispondono a una fragilità intrinseca dell’universale (interrogativo o dichiarativo) esposto alla ricaduta di contenuto nella risposta o nella particolarizzazione della dichiarazione. 50 DI, pp. 26-27. 51 Il “critico” è ovviamente Benjamin e i due testi sono Zur Kritik der Gewalt e il Kafka, entrambi in W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962. 48

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gerarchizzazione che non riconosce in quella parte la sua parola: per dirla con un’espressione a mio giudizio significativa, l’universale è il predicato del nulla. Proprio in quanto non è nulla, quella parte può (sop)portare la dichiarazione di essere il tutto, addirittura nella formula paradossale “noi noi che siamo nulla- siamo tutto”52, generando il cortocircuito in cui nasce la politica: “La politica [...] implica sempre una sorta di corto circuito tra l’Universale e il Particolare: il paradosso di un singulier universel, di un singolare che appare come rappresentante dell’Universale, destabilizzando l’ordine «naturale» e funzionale delle relazioni all’interno del corpo sociale. Questa identificazione della non-parte con il Tutto, della parte della società senza un posto precisamente stabilito (o che accetta il posto subordinato che le è stato assegnato) con l’Universale, è il gesto elementare della politicizzazione [...].”53

§ 21. A questo punto non risulta più paradossale identificare un luogo specifico in cui il cortocircuito trova le (inanticipabili) condizioni per attuarsi54. Qual è dunque lo sfondo ideologico e geopolitico che può accogliere, sempre in modo rinnovato, questo gesto profondamente dialettico (nel senso che abbiamo indicato)? Proprio a conclusione del suo saggio sull’11 settembre, Žižek viene ad affermare come il tempo per costituire un’alternativa europea stia “per scadere”55: questa alternativa è una “tradizione di emancipazione”56 che appartiene all’Europa. Su questa formula varrebbe la pena sicuramente soffermarsi, ma penso che qualche elemento per comprenderla sia desumibile da tutto quello che è stato finora esposto. Risulta chiaro, cioè, come quella tradizione non è certo un lascito o una dottrina riducibile a un percorso storico, del quale oggi ci dovremmo gratificare. Se ragionassimo in questi termini non si vedrebbe il motivo di pensare a un limite ultimo di quelle “magnifiche sorti e progressive” che, lungi dal significarne la persistenza, sembrano piuttosto revocare l’ipotesi di un’eredità europea, perlomeno nei termini in cui Žižek la pensa. Infatti, come già abbiamo avuto modo di specificare, l’idea di una “tradizione di emancipazione” riguarda chiaramente anche il gesto di un’emancipazione dalla stessa tradizione, un’emancipazione che non abbia però i caratteri del martirio57. Lo sfondo rimane quindi ideologico ma contemporaneamente privo di rappresentazione. L’Europa, cioè, per essere fedele a se stessa deve rinunciare al suo tesoro. Deve cioè rinunciare all’idea di una sua inviolabilità culturale, come una sorta di Fort Knox dell’umanità, che rimarrebbe protetta nei sotterranei della sua memoria. Il cosiddetto “eurocentrismo progressista” non ha dunque nulla a che vedere con la proclamata gaffe della superiorità culturale dell’Occidente58, quanto con un gesto, sempre più difficile, che proprio perché riguarda totalmente l’interno (dell’Europa, ma che quali sono i confini dell’Europa?) può eventualmente mantenere il ruolo di riflessione nel suo ormai impossibile esterno geopolitico. Il gesto è, ancora una volta, quello dialettico, soltanto se sottolineiamo nuovamente come ciò non abbia a che vedere con la riconciliazione oniricamente “gioiosa” nella “fine della storia”, quanto piuttosto per un verso nel legame costantemente rituale e critico nei confronti dei fantasmi, che s’aggirano, senza sepoltura, sulla superficie della propria rappresentazione, e per l’altro nell’essere,

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DI, p. 24. Ibidem. 54 TVL, p. 12. 55 BDR, p. 148. Si noti come anche un autore come Cacciari, in una recente conferenza, si sia espresso in termini di una “scadenza a breve” della possibilità europea in rapporto alla firma della sua costituzione. 56 Ibidem. 57 Lo stesso movimento, mi pare, in Benjamin quando parla della “tradizione degli oppressi” (die Tradition der Unterdrückten), in W. Benjamin, GS II, 2, p. 697. 58 “Quando uno dice «eredità europea», qualsiasi intellettuale di sinistra con una sua dignità ha la stessa reazione che aveva Goebbels sentendo la parola «cultura»: mette mano alla pistola e prende a sparare all’impazzata accuse d’imperialismo culturale eurocentrico e protofascista... Tuttavia non sarebbe possibile immaginarsi un’appropriazione di sinistra della tradizione politica europea? Sì, se [...] identifichiamo il nucleo di questa tradizione nell’atto straordinario della soggettivazione politica.”, DI, p. 49-50. 53

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in rapporto a se stessa, la Croce di Malta che sviluppa la propria costante eccentricità in una forma di militanza59. In questo senso Žižek insiste molto proprio sull’ideologia globale permanente che intima come adesso, “dopo tutto quello che è successo”, non c’è evidentemente più tempo per pensare: bisogna agire! Al contrario, lo spazio europeo è (deve essere?) alla fine quello dialettico che nega l’evidenza60 e che, primariamente, nega proprio questa evidenza. Si tratta però di uno spazio possibile e non per nulla necessario, anzi attualmente esposto a una sua revoca definitiva. Forse per questo anche Žižek, come abbiamo appena visto, sembra accordarsi alla logica messianica che afferma come “il tempo si è fatto breve”. Il “carattere europeo” del gesto consiste però nel “rivoltamento dialettico” secondo cui, se da una parte si afferma che non c’è più tempo per fermarsi a pensare, l’azione reale diventa proprio il blocco nei confronti di quell’istanza ideologica di legittimazione generale. Se dunque a quella evidenza alienante diamo di nome di Grande Altro possiamo forse comprendere a che livello si pone proprio la negazione di questo come “eredità tradizionale” dell’Europa.

Un talento nascosto? § 22. Circa la questione precedente, ci siamo forse limitati a presentare quella che potrebbe essere la semplice recezione positiva da parte di Žižek di tutti alcuni autori che, nelle loro differenze, esprimono la necessità di quel gesto grazie al quale, in qualche modo, viene alla luce l’evento assolutamente non riducibile all’istanza ideologica, o perlomeno l’espressione della contraddizione irriducibile tra ideologia ed evento (in termini d’eccedenza dell’idea rispetto alla sua “presa reale”, alla sua concretizzazione egemonica), nel più minuto interstizio della quale s’insedia la possibilità del politico. I riferimenti in questa direzione sono i francesi post-althusseriani Ranciére, Laclau, Balibar e Badiou. Žižek, oltre a ricevere questi stimoli teorici, si protende verso una critica molto forte a tutti quegli autori, in questo modo riuscendo a far emergere il carattere originale del suo contributo. In particolare l’aspetto più consistente della sua critica, proprio in relazione al tema dell’universale, riguarda il necessario e ininterrotto lavorio con l’istanza simbolica (il Potere) che, nei vari autori, viene talvolta rimossa, talvolta implicitamente esagerata (l’ultimo Foucault), talvolta riconvertita in un impianto sistemico da cui trarre la critica illusione di una sua inefficienza rispetto alla libertà del singolo, la quale si esprime come dislocazione plurale del sabotaggio (Butler)61. In questo senso emerge la necessità del confronto continuo con il significante del Grande Altro in rapporto alla dis-integrazione del soggetto. Bisogna dunque far emergere lo stretto rapporto che sussiste in Žižek tra il tema universale-particolare, Grande Altro e dislocazione soggettiva: solo nel traumatico percorso di rinuncia della propria particolarità performativa il soggetto può interpretare il grado d’azione ch’esprima la forma dell’Universale; ma questo svuotamento non si può realizzare con una mera astrazione inconscia del significante del potere. Solo nell’impossibile accettazione della propria inesistenza, il soggetto può predicare la radicale inesistenza del Grande Altro. § 23. Si è infatti partiti da un’urgenza per certi versi del tutto soggettiva che vedeva nel toglimento della filosofia un rischio universale che, quindi, aveva un riflesso sulla rappresentazione del Sé. Sul senso di questa presunta privazione dobbiamo tornare a riflettere, perché la si potrebbe risolvere in 59

Il riferimento è a una piccola croce di ferro presente nel proiettore di pellicola che svolge la funzione, con un movimento veloce e impercettibile, di riconvertire il movimento rotatorio della pellicola cinematografica in un apparente movimento lineare. Senza questo minuto oggettino non avremmo modo di vedere un film perché la bobina si arrotolerebbe inviluppandosi (si veda la magnifica descrizione nel werdersiano Im Lauf der Zeit). Potremmo pensare a quella croce come al nano gobbo (la teologia) della Prima Tesi benjaminiana, nascosto con un’illusione all’interno dell’Automaten, nano grazie al quale vengono vinte tutte le partite. 60 L’evidenza, cioè, è proprio ciò che non ha nessun carattere di evidenza quanto piuttosto di mera ideologia. Chiara l’allusione al movimento dal ‘noto’ al ‘conosciuto’, nell’Introduzione della hegeliana Fenomenologia dello Spirito (La Nuova Italia, Firenze 1996, pp. 48-51), nel cui itinerario (“la via della disperazione”) la coscienza “perde la sua verità”. 61 Si veda SS, pp. 307-330.

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una risentita interiorizzazione permanente del lutto e della perdita che, come vedremo, è solo un epifenomeno in definitiva consenziente al dispotismo simbolico del Grande Altro. Si è dunque passati alla critica di un noi che, ignorando lo svuotamento di senso e, contemporaneamente, la sua ripresentazione nella pop culture, indicava l’impossibilità di un noi iperconnotato nei termini di un originario perduto. A conclusione di tutto ciò, bisogna forse chiederci: “che cosa resta?” Qual è l’ultimo appiglio di senso che rimane a garanzia e supporto di un’azione che viene sempre più richiesta come doverosa? Non rimane forse il soggetto nella sua consistenza innegabile, il singolo consapevole dei desideri che non lo negano e che lo spronano all’azione? Dopo tutta la critica (post)moderna al soggetto cartesiano, non rimane cioè “un irrinunciabile talento nascosto”, da dissotterrare con tenacia per riarticolare un senso comune? O anche questo ultimo vago residuo di rappresentazione salvifica non deve manifestarsi nel fantasma dell’opera che interpreta, per essere così convogliati in prossimità di un’azione realmente da nulla supportata? Questa è l’ipotesi del nostro autore: non deve restare alcun residuo per far posto al nulla. Ma ciò non significa affatto accordarsi, accomodandosi, alla versione blandamente relativista di un’identità plurima e sfaccettata che si può permutare liberalmente e tranquillamente, così come s’indossa un abito qualsiasi. Quell’assenza di resto ci riporta invece all’armadio dove non abiti ma scheletri vengono nascosti e conservati. E così, dunque, in prossimità di queste figure di trapassati bisogna ancora una volta ritornare. Il fantasma è un ecto-plasma, vale a dire una materia gelatinosa e indistinta, sostanzialmente un amalgama, un Mischmasch che parrebbe raccogliere affastellate le più molteplici e veritiere istanze, custodendole salvate all’interno del suo involucro (si pensi alla corazza del padre di Amleto). Žižek riprende e rovescia l’immagine della conchiglia, a suo tempo proposta da Valery, per fornirci una pregnante metafora del soggetto moderno sottoposto alla crisi della propria rappresentazione. Si presti attenzione a questo passo: “[...] nell’opposizione tra realtà e illusione spettrale, il Reale appare precisamente come “irreale”, come un’illusione spettrale per la quale non c’è spazio nella nostra realtà simbolicamente costruita. Esattamente qui, nella “costruzione simbolica della realtà” [...] si nasconde il trucco: il residuo, lo scarto inerte precluso da (ciò che esperiamo come) la realtà, ritorna nel Reale sotto forma di apparizioni spettrali. Perché mai c’è sempre qualcosa di disgustoso in animali come i crostacei, le lumache, le tartarughe? Il vero oggetto di orrore non è la conchiglia, l’involucro privato del viscido corpo che contiene, ma il corpo “nudo”, senza il guscio. In altre parole, non è forse vero che stiamo sempre spinti a percepire il guscio come troppo largo, troppo pesante, troppo consistente rispetto al corpo vivente che lo abita? Non esisterà mai un corpo che si adatti perfettamente al guscio, e inoltre, si avrà sempre la sensazione che il corpo stesso non possieda nessuno scheletro, nessuna ossatura che gli garantisca quel minimo di stabilità e di solidità necessarie: senza il suo guscio, quel corpo si rivela un’entità spugnosa e quasi del tutto priva di forma, In questi casi è come se l’inadeguatezza, la vulnerabilità, la necessità di un riparo sicuro in un ambiente da abitare adatto agli umani, fossero proiettate sulla natura, sul regno animale. In altre parole, è come se questi animali non fossero effettivamente che dei semplici umani che si portano dietro la casa. Ma questo corpo tremulo e flaccido non è forse la perfetta immagine del Reale? L’involucro, il guscio che non contiene alcun corpo vivente vale qui come il famoso vaso evocato da Heidegger: la cornice simbolica che delinea i contorni della Cosa Reale, della Cosa in sé, del vuoto al suo interno. E l’aspetto paradossale è che tuttavia esiste davvero “qualcosa al posto del nulla” dentro l’involucro, per quanto non si tratti di un qualcosa di adeguato, ma sempre di un corpo in certo senso in difetto, vulnerabile, goffamente inadatto: ciò che resta, il residuo della Cosa perduta. Il Reale allora non è la realtà preriflessiva della nostra immediata immersione nel mondo-della-vita. Al contrario, è precisamente ciò che va perduto, ciò a cui il soggetto deve rinunciare per poter davvero immergersi nel mondo-della-vita e, di conseguenza, ciò che ritorna/riemerge in forma di apparizione spettrale.”62

§ 24. L’identità folclorica di un popolo (o di una “cultura”), perlopiù rappresentata come l’essenza più interiore di un gruppo, corrisponde in realtà alla costrizione superegotica del Grande Altro nel quale tutti noi siamo collocati. L’universale del gesto è proprio lo spazio vuoto dell’evento puramente rivoluzionario che, proprio in quanto compiuto da alcuni, riguarda indistintamente tutti. 62

TVL, p. 153-154.

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Ma, specificatamente in rapporto alla possibilità di quell’evento, emerge la necessità di una drammatica kénosi soggettiva che si costringe a rinunciare propriamente a tutto. In particolare a ciò che, pur indistinto nella figura dell’amalgama, potrebbe indicare l’ultimo residuo di un’eccezionale singolarità percepita come sempre persa nel mondo (per certi versi questa concezione corrisponde a quella del soggetto gnostico spirituale63). Una rappresentazione adeguata di un soggetto totalmente invasato dall’inaccettabilità della propria perdita possiamo trovarlo nell’“uomo del sottosuolo” di Dostoevskij, nel sinologo del canettiano Autodafè, oppure nell’inquietante figura del Gollum tolkjeniano per come è mirabilmente reso nella recente versione cinematografica di Peter Jackson: “My Precious! Il mio Tesoro!”. Questo tesoro, così rappresentato, è molto simile al lacaniano oggetto piccolo a, ma potrebbe essere anche pensato come la cosa-ultima o, se vogliamo, l’éschaton, cioè l’ultima-cosa a cui si deve rinunciare64. A quanto pare, cioè, bisogna rinunciare al talento nascosto. § 25. Pur iscritta nell’economia della salvezza, e quindi nella costante relazione a un Regno che “non è di questo mondo”, la metafora del talento sembrerebbe indicare un percorso che riarticola la dimensione organica dei rapporti sociali. Banalizzando questo contenuto di senso potremmo affermare come, all’interno dello spazio democratico, ciascuno è chiamato a gestire la propria esistenza riproducendo al meglio quella capacità, unica o plurima, che a nessuno è negata par excellence65. Il compito filosofico del gnw'qi sautovn coinciderebbe dunque con lo sforzo di riconoscimento di una proprietà, tanto intrinseca quanto per questo irrinunciabile, come punto archemideo individuale di una capillarizzazione degli sforzi alla luce del collettivo. Nell’ideologia liberale dominante, lungi dal rappresentare il principio finalistico del sociale, emerge claustrofobicamente l’orizzonte di senso entro cui s’iscrive tanto l’onda repressiva quanto il suo risvolto di sopportazione martirizzante, per cui il collettivo appare essere per un verso la façade di progressismo palingenetico a scadenza illimitata del mezzo senza fine che è il capitale, per l’altro un impronunciabile ma perfetto carattere di mezzo del collettivo stesso. Il collettivo come mezzo prende la forma della “legge non scritta” che agisce supportando il codice proprio grazie alla sua inammissibilità pubblica66. In questo senso, l’umanità stessa diventa il soggetto di una massima morale imperativa, rovesciata rispetto alla celebre formulazione kantiana: “agisci sempre ritenendo l’umanità un mezzo e mai un(a) fine”, dove l’immagine definitiva di tale scenario viene forse 63

“Una linea che attraversa anche il campo della religione, dove lo specifico punto di emersione del materialismo è segnalato dalle parole di Cristo sulla croce “Padre, perché mi hai abbandonato?”: proprio in questo momento di totale abbandono il soggetto arriva a esperire e ad assumere su di sé l’inesistenza del Grande Altro. Più in generale, la linea è quella che separa la tradizione “idealista” socratico-gnostica, che afferma che la verità è dentro di noi e deve solo essere riscoperta attraverso un viaggio interiore, e la nozione “materialista” giudaico-cristiana per cui la verità può solo emergere attraverso un incontro traumatico ESTERNO, che distrugge l’equilibrio del soggetto.”, TVL, p. 28. 64 Questo tesoro può essere pensato come custodito nella cassaforte dell’intérieur, oppure, ancora più pericolosamente, continuare, con fare paranoico, a pensarlo come sottratto da un Altro/Diverso, da questo “sentimento” si può forse capire il carattere fantasmatico del male radicale: “Il male-Es rappresenta in tal modo il più elementare «corto circuito» nella relazione del soggetto con la causa-oggetto originariamente mancante del suo desiderio: ciò che ci «disturba» nell’«altro» (l’ebreo, il giapponese, l’africano, il turco...) è il fatto che egli pare intrattenere una relazione privilegiata con l’oggetto, come se l’altro possedesse il tesoro-oggetto, ce lo avesse astutamente sottratto (e per questo noi non lo abbiamo) o come se rappresentasse una minaccia per il nostro possesso dell’oggetto.”, DI, p. 38. 65 Sarebbe da citare quel talento del tutto “diseconomico” e improduttivo, almeno dal punto di vista della “normale” gestione dei rapporti umani che corrisponde alla figura melvilleniana di Bartleby, soprattutto alla luce dell’interpretazione di G. Deleuze nel suo Bartleby o la formula, in Id, Critica e clinica, Cortina, Milano1996, pp. 93118. 66 Si legga la parte sulla trasgressione intrinseca in GFP, pp. 25-70. All’interno di un’azienda, in realtà, la questione dell’inammissibilità è di natura diversa rispetto all’esempio tipico del codice d’onore militare, per come viene descritto da Žižek. La logica competitiva delle aziende ultimamente viene supportata da una violenza psicologica nei confronti dei dipendenti anche per mezzo di corsi di aggiornamento o di formazione professionale, in cui viene inculcato ripetitivamente il “chi è meglio di noi?”, insieme a filmati che dimostrano la possibilità di lavorare divertendosi (e dunque, “chi è più felice di noi?”): il grado di inammissibilità di tali oscenità si manifesta internamente all’azienda in quanto non è realmente possibile, a rischio di emarginazione “aziendale”, fornire una critica a quelle somministrazioni.

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fornita ancora una volta nel film Matrix che mostra l’umanità intera trasformata in una pila elettrica. Quella massima dunque si supporta, nel suo silenzio pubblico, proprio in quanto la storpiatura della versione kantiana, formulazione dell’informulabile imperativo categorico (in quanto categoricamente privo d’oggetto), trova la sua dottrina nella fantasmagoria del benessere, collettivo solo in quanto del tutto desoggettivato, anzi trasformato in “talento”, in semplice moneta di scambio. L’essenziale è garantire in qualche modo “il quarto d’ora di Wahrol” che renda sopportabile la sopravvivenza. Oppure, molto più diffusamente, indurre l’apparente libertà di pensarsi ancora salvi nel limbico interregno della propria più intima interiorità, ultimo scrigno di un éschaton tanto personale quanto impronunciabile. Il pendant di questo ragionamento lo si può trovare facilmente nel carattere di “dislocazione soggettiva” che si presenta di continuo nella figura dello user di Internet67. Il virtuale in cui l’individuo si rifugia moltiplicando potenzialmente all’infinito i suoi ID, virtuale che parrebbe fungere da apparato di copertura, illusione di essere sottratti alla sorveglianza del Grande Altro, non fa che ripristinare il movimento di fissaggio di un contenuto del Sé in una proiezione fantasmagorica. Žižek riconosce al processo anche una certa quale prestazione rivelativa: impossibilitato a una tensione “reale” in rapporto al proprio desiderio, sembra, cioè, che finalmente il tesoro sia stato sottratto dal suo fondo abissale permettendo al soggetto di costatarne l’essenza del tutto maleodorante e nauseabonda. § 26. Al tema dell’abbandono di Sé si lega dunque una paura non ammissibile perché corrispondente alla possibilità di disattivare l’ipotesi di un proprio talento pur troppo sempre inespresso, eliminato il quale sembrerebbe non sussistere più alcun appoggio per resistere. Ciò non toglie come proprio questa rinuncia sia effettivamente l’ultimo passo che è necessario fare per dare alla critica una prestazione di rivelazione, e cioè di verità: “Si, dobbiamo realmente rinunciare al tesoro nascosto che c’è in noi stessi, l’amalgama che ci conferisce la nostra dignità più intima - tutte cose così care al personalismo - dobbiamo trasformare il nostro tesoro in un “pezzo di merda”, in un escremento maleodorante, e identificarci con esso.”68

Non è certo la prima volta che in filosofia compare un “elogio dello sterco”. In termini che potremmo definire spoudaióteroi, se non ci assecondassimo completamente alla necessità di togliere di mezzo anche questo ultimo residuo di “intoccabilità” nell’ambito dei parametri di dignità e valore, già Platone nel suo incredibile Parmenide rimproverava, per bocca del filosofo di Elea, la sprovvedutezza di Socrate, in colpa della sua gioventù (!), nel non riconoscere nelle cose più infime, come nella cacca, la dignità di un’interrogazione filosofica: “«E allora, Socrate, sei incerto anche a proposito di quelle realtà che sembrano ridicole, come capelli, fango [phlovj], sporcizia [rJuvpoj]69 o altro, che è privo di importanza e valore [ajtimovtaton te kai; 67

“Esistono fondamentalmente due tipi di racconto del cyberspazio: l’avventura lineare, strutturata come un labirinto “a binario univo”, e la forma “postmoderna” ipertestuale indeterminata dello sviluppo rizomatico. [...] Il rizoma ipertestuale [...] non privilegia alcun ordine di lettura o di interpretazione: non c’è alcuno sguardo d’insieme o “mappa cognitiva”, non c’è alcuna possibilità di unire i frammenti dispersi in una cornice narrativa coerente e comprensiva, si è irriducibilmente attratti verso direzioni conflittuali: noi, gli interagenti, possiamo semplicemente affettare di smarrirci nell’inconsistente complessità dei referenti multipli e delle infinite connessioni... Paradossalmente questa confusione senza speranza, questa mancanza di orientamento finale, non provoca un’ansia intollerabile, ma è stranamente rassicurante: la mancanza di un punto finale di chiusura è una specie di rifiuto che ci protegge dal confronto con il trauma della nostra finitezza.”, GFP, p. 178; si legga inoltre tutto il capitolo Cyberspazio e soggettività, in GFP, pp. 149-182. 68 GA, p. 165. 69 Il termine rJuvpoj deriva dal verbo rJevw: si traduce con sudiciume, lordura (la parte cattiva del formaggio), in definitiva quello che va a male e che viene scartato. E ciò che trapassa nel nulla è quanto di peggio il greco potesse concepire. Come dunque afferma il filosofo del pánta réi: “i morti son da buttar via più degli escrementi [nevkuej ga;r koprivwn ejkblhtovteroi]” (Herakl. DK 22 B 96). Così, nella mente giovane di Socrate, il “tesoro” è l’idea eterna, immutabile, “che non va mai a male”!

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faulovtaton], se cioè bisogna o non bisogna ammettere per ognuna di queste un’Idea separata, diversa da quanto noi trattiamo con le mani?» «No! - ribatté Socrate -. Io credo invece che quelle cose che vediamo esistano così come le vediamo, mentre mi sembra un po’ assurdo [a[topon] credere che vi sia una qualche Idea di queste. In verità a volte mi ha turbato il pensiero [e[qraxe] se questo discorso non sia applicabile a tutte le realtà. Quando però mi soffermo su questa opinione, subito me ne allontano [feuvgwn oi[komai] per il timore di perdermi cadendo in un abisso senza fondo di chiacchiere [ei[j tina buqo;n fluarivaj]. Allora, rifugiatomi [ajfikovmenoj] tra le realtà di cui prima dicevamo esistere le Idee, lavoro impegnandomi [pragmateuovmenoj diativbw] su queste». «Certo, Socrate, sei ancora giovane [Nevoj ga;r ei\ e[ti], - disse Parmenide - e la filosofia non ti ha ancora preso [ajnteivlhptai] come, a mio avviso, ti prenderà il giorno in cui non disprezzerai più nessuna di queste realtà. Ora invece, a causa della tua età, tieni in considerazione le opinioni [dovxaj] degli uomini»”.70

Sembra quasi paradossale: l’indefessa applicazione di Socrate per le Idee “elevate” deriva dal fatto che egli segue le opinioni degli uomini! Rivoltato al nostro discorso: appare chiaro come Socrate non voglia “indugiare nel suo negativo”, nel lurido dettaglio che lo nega, e quindi “va via fuggendo”, rifugiandosi nelle idee, per così, in questo modo, rimanere ingabbiato nell’umano troppo umano mondo delle opinioni. Queste considerazioni stridono fortemente con la sarcastica immagine, fornita da Aristofane nel suo Nephalai, di un giovane Socrate, ancora fisiologo, tutto intento a filosofeggiare peri; th'j empivdoj, cercando di stabilire se le zanzare “cantano colla bocca o col didietro”71. Del resto proprio tali antilogie non fanno che confermare l’attributo di disintegrazione che compete al filosofo, al fatto che egli, cercando l’idea, può rappresentare la “partesenza-parte” che, come abbiamo visto, manifesta l’emergenza del politico. E così quest’altra antilogia che segue ci permette forse di avvicinare meglio quella dislocazione che, a partire dal soggetto, può garantire la prestazione politica. § 27. In un Vangelo apocrifo si trova una strana versione alternativa della parabola dei talenti. Come è noto, nella più essoterica versione riportata dai sinottici, Gesù loda colui che ha fatto fruttare i talenti affidategli, mentre condanna quello che nasconde sotterra il suo unico talento: “Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il talento sotterra: ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così avrei ritirato il mio con interesse. Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.”72

Secondo la testimonianza di Eusebio, nel Vangelo degli Ebrei troviamo una situazione quasi rovesciata: “[...] il vangelo scritto in carattere ebraici [...] commina il castigo non contro colui che ha nascosto (il talento), ma contro colui che ha condotto una vita licenziosa - aveva, infatti, tre servi: uno ha sperperato le sostanze del suo signore con le prostitute e donne di piacere, l’altro le fece fruttificare, ed il terzo nascose il talento: di questi uno fu lodato, un altro rimproverato e il terzo messo in prigione [...].73

Viene dunque lodato, secondo la più rigorosa tradizione esoterica, non il servo che ha riprodotto il conio, quanto quello che ha nascosto il talento. Ho sempre trovato come questo accostamento abbia la natura dell’Unheimlich. Non tanto per i due contenuti di senso, presi nella separazione, quanto, 70

Plato, Parm., 130 c-e [trad. di M. Migliori]. Aristofane, Le Nuvole, Marsilio, Venezia 1995, p. 81. 72 Mt. 25, 24-30. 73 Vangelo degli Ebrei e nazarei, fr. 6 (da Eusebio di Ces., Theoph., 4, 12), in Apocrifi del Nuovo Testamento, TEA, Torino 1990, p. 375. 71

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proprio al contrario, per il loro stare perfettamente vicini e contrari, per il loro contraddirsi reciproco, il loro essere contemporaneamente e reciprocamente “parola di Dio”74. La determinazione a nostro riguardo pregnante interessa non tanto l’elogio ma i paradigmi che corrispondono alle figure paraboliche dei servi. Se da una parte il riprodurre potrebbe esprimere lo sforzo di essere consoni alla Grazia eternamente data, secondo la weberiana figura dell’etica protestante, dall’altra il nascondere potrebbe essere quella custodia (Wahrung) preventiva della Verità (Wahrheit), posta a salvaguardia proprio della sua dissipazione riproduttiva. Molto probabilmente, mi sembra, il gesto qui presentato non esprime contraddizioni o irrimediabili alternative ideologiche, quanto piuttosto la “dialettica messianica” tra cercante e cercato che si rivolta in quella rivelante e rivelato, a fondamento della quale si pone l’evento irriducibile della grazia. Protagonista non è più il soggetto “ermetico”, introflesso nel proprio bisogno di verità, ma la gioia stessa [jouissance?] corrisposta a un trovare che potrebbe apparire del tutto accidentale, un trovare ch’esautora ogni proposito per rivelarlo in-fine nel senso più intimo della sua origine. Questo movimento immobile (Dialektik im Stillstand) non è affatto estraneo all’annuncio del Regno anche nel Vangelo: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia [ajpo; th'j cara'j aujtou'], vende tutti i suoi averi [pwlei' pavnta o{sa e[cei] e compra [ajgoravzei] quel campo.”75

Il testo greco “o}n euJrw;n a[nqrwpoj e[kruyen” si tradurrebbe forse litteraliter “trovandolo l’uomo [lo] nascose”, indicando una qualche contemporaneità d’azione che varrebbe sicuramente la pena soffermarsi a pensare. Chiaramente, però, il gesto che riguarda la precedenza del soggetto è quello di “vendere tutto”, lasciare tutto ciò che prima possedeva, accettando quindi radicalmente lo svuotamento che compete al trovare. Detto in modo estremamente riduttivo, alla luce di questo aspetto è possibile riconoscere un potenziale contributo del soggetto alla rivelazione. Ciò non toglie per nulla di mezzo la dimensione drammatica di tutto questo rapporto con la gioia, la quale per suo conto non recita semplicemente la disdetta del Grande Altro col fare in-fantile di chi riproduce paranoicamente la voce interiore del trovato, articolando così l’ennesima istanza ideologica che trattiene l’evento. Pur rinunciandovi, si ha qui sempre a che fare con la catastrofe dell’cosa-ultima. § 28. Infatti - e questo ci permette di tornare al nostro autore - nell’esito contrastante della sorte di quei Servi, emerge la terribile ambiguità di un Padrone che annulla qualsiasi dimensione tragica del vivere, grazie alla quale sarebbe forse possibile pensare una qualche forma di redenzione, di catarsi del soggetto. La modernità ha instaurato un Reale che, volenti o nolenti, impedisce di pensare il tragico e piuttosto proietta nell’ultra-tragico, tra le due morti dove, seppur seppelliti, i fantasmi non trovano pace: “L’eroe etico è tragico, mentre il cavaliere della Fede dimora in una sfera terribile oltre o tra le due morti, dato che è pronto a sacrificare ciò che gli è più prezioso, il suo oggetto a (nel caso di Abramo, suo figlio). In altre parole, secondo Kierkegaard, Abramo non viene forzato a scegliere tra il dovere nei confronti di Dio e il dovere nei confronti dell’umanità (questo tipo di scelta rimarrebbe nei limiti del tragico); deve invece scegliere tra due diverse sfaccettature del dovere nei confronti di Dio e, di conseguenza, tra due diverse sfaccettature di Dio stesso: Dio in quanto universale (il sistema delle norme simboliche) e Dio in quanto punto di singolarità assoluta che sospende la dimensione dell’Universale.”76 74

Del resto già nel passo riportato del Vangelo di Matteo troviamo un effetto di paradosso in rapporto a un’idea media di “redistribuzione”: “a chi ha sarà dato...”. Tale carattere paradossale è stato reso in una figura splendidamente farsesca da parte di Luis Buñuel proprio nell’incipit del suo splendido La Voie lactée (1968). La farsa, come impossibilità di una finale metabolé dell’azione, esprime come vedremo il carattere ultra-tragico (“tra le due morti”) della modernità in Žižek. 75 Mt. 13, 44. 76 SS, pp. 402-403. Per questa parte si veda Quale futuro per Edipo?, importante capitolo finale di SS, pp. 391-500.

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È proprio e solo in questa irrimediabile situazione, nell’intrinseco legame tra amor fati e disperata decisione, che emerge una reale possibilità dialettica data la quale il soggetto non trova la sua emarcescente estinzione, ma lo spazio d’azione che determina la possibilità di un totale spostamento del simbolico. Žižek suggella il suo lavoro più consistente con la massima lacaniana che intima di “non cedere sul tuo desiderio!”, tale formula, prosegue, “sostiene pienamente il paradosso pragmatico dell’ordinarci di essere liberi: ci esorta ad osare.”77 Proprio questa resistenza può corrispondere alla negazione senza supporto di quell’insopportabile destino. Non si tratta più di una rivendicazione soggettiva (performativa), declinata personalisticamente o comunitariamente nella hegeliana figura del “cavaliere dell’intelletto”; chiarito il campo della (sua) realtà, il soggetto articola una dislocazione senza premesse, esposta al fallimento più incondizionato, ma contemporaneamente nella possibilità di un’efficacia. Si tratta quindi di: “[...] mantenere una distinzione netta tra una semplice “riconfigurazione performativa”, uno spostamento sovversivo che rimane all’interno del campo egemonico e che, per così dire, conduce a una guerriglia interna per rivoltare i termini del campo egemonico contro di esso, e l’atto molto più radicale di una completa riconfigurazione dell’intero campo di definizione delle condizioni stesse della performatività strutturata socialmente.”78

§ 29. Non mi sembra di dover aggiungere altro per cogliere alcune taciute analogie con l’ipotesi messianica e con la dialettica dei due Regni. Nei termini che abbiamo esposto, l’evento (politico) che sovverte “fallimento del presente” non ammette più conciliazione o mediazione (entrambe inserite “all’interno del campo egemonico”) con il “Regno di questo mondo”, il regno secolarizzato presieduto dal Grande Altro. Eppure quella sovversione non ha il carattere della semplice e performativa sostituzione di un regno con un altro. Come abbiamo visto, l’evento propriamente politico è questione di un dettaglio (un articolo), spostato il quale il “buon Dio” può arrivare o può essere subito revocato. Fa parte di una certa tradizione messianica, concentrata nello spazio vuoto tra le singole lettere della Torah, che ci ricorda come il Messia, quando arriverà, non farà altro che produrre “un piccolo spostamento”79. È forse per questo che la filosofia trova una sorella irrinunciabile nella filologia più acribica, perché, al momento opportuno, questo dettaglio spostato sarà forse necessario riconoscerlo. Ma tale incontro di sguardi spirituali non può certo assolversi nell’attuale disciplina dei saperi, sottoposti ai mandati sistemici della propria più secolare tradizione (oramai del tutto inserita “all’interno del campo egemonico”). Non è certo solo Žižek a ricordarci la terribile e angosciante grossolanità del tempo presente, e a farci considerare come la filologia (e con essa la filosofia) non possa esimersi dall’entrare nei fetidi luoghi ai quali mai era stata abituata, ai quali aveva naturalmente abdicato. Il problema si espone in questa domanda a mio giudizio fondamentale: che cos’è il dettaglio nel Regno del grossolano, del nazional-popolare, della società di massa? Non potrà certo essere qualcosa di evidente come confrontare una canzoncina di Riky Martins con le Goldberg di Bach suonate da Gould (correndo il rischio di assecondarsi a pensare che il dettaglio salvifico pendi verso la prima opzione, temendo di spacciarsi per intellettualoide lontano dal Reale!). Forse però non è neppure riconoscere l’indicibile unità del plurale in quelle stesse Variazioni. La domanda che poniamo, e che rimane ancora senza risposta, mi permette di avvicinare la conclusione sul significato per il presente del testo di Žižek. In altro modo si potrà forse giustamente criticare di prendere un po’ più sul serio le lettere e dedicarsi ad altre faccende ben più significative.

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SS, p. 500. SS, p. 329. 79 “il Messia [...] che non indente mutare il mondo con la violenza, ma solo aggiustarlo di pochissimo [nur um ein Geringes sie zurechtstellen werde]”, W. Benjamin, Kafka, in Angelus, cit., p. 262 [ed. or. GS II, 2, p. 432]. 78

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La lettera (rubata) sulla tolleranza § 30. Eppure giocare con la pura lettera (la reine Buchstabe di Hölderlin) può assumere una determinazione estremamente seria e doverosa. È Agamben, in un passo forse irrisolto e fin troppo allusivo del suo ultimo Stato di eccezione, che ci avvisa del fatto che un “giorno l’umanità giocherà col diritto, come i bambini giocano con gli oggetti fuori uso, non per restituirli al loro uso canonico, ma per liberarli definitivamente da esso. [...] Questa liberazione è compito dello studio o del gioco. E questo gioco studioso è il varco che permette di accedere a quella giustizia, che un frammento postumo di Benjamin definisce come uno stato del mondo in cui esso appare come un bene assolutamente inappropriabile e ingiuridificabile”80. La giustizia “inappropriabile e ingiuridificabile”: che cosa dicono insieme questi due attributi? Destituita dal suo carattere giuridico, eppure ancora espressione di “uno stato del mondo”, non appare forse la giustizia come “il Regno dei Fini”, la cosa-ultima, l’éschaton, indizio di una dialettica possibile tra questo e quel mondo che non estingui in un fantasmatico Aldilà la prestazione di un suo pensiero? Nei termini in cui si esprime Benjamin, emerge come la cosa-ultima non possa essere una proprietà del singolo (my precious...), ma contemporaneamente non possa corrispondere a quell’espropriazione pattizia che riguarda l’entrata nel moderno stato di diritto. In termini definitivi, la cosa-ultima non può né essere semplicemente una personalistica (del tutto interiorizzata) determinazione della salvezza, né però può essere amministrata. La giustizia, nella sua qualità d’idea di fine, continua ad emergere in questo scarto dialettico che, se ben ricordiamo, è proprio quell’inanticipabile e singolare cortocircuito tra Universale e Particolare: un mio-non-mio, un non-mio-mio! Un nulla che noi siamo; un nulla che, in rapporto al Regno, dobbiamo essere. Ma se tutto questo è un gioco, a che gioco stiamo giocando? “Esaminiamo allora questo punto, e diciamo: «Dio esiste o no?» Ma da qual parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c’è di mezzo un caos infinito. All’estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né sull’una né sull’altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché non né sapete un bel nulla. «No, ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto; perché, sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso errore, sono tutti e due in errore: l’unico partito giusto è di non scommettere punto» Sí, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato [vous êtes embarqué]”81

§ 31. Sono molti i segnali che ci fanno pensare al nostro tempo come a un’inedita figura che prende il nome di “società del rischio”; una società, cioè, in cui il grado d’indecidibiltà delle scelte manifesta come un’azione, pur sempre necessaria, sia semplicemente un azzardo, una scommessa. Žižek stesso insiste su quella metafora. Ed è per certi versi interessante come egli, sulla scorta di Ulrich Beck, venga a riconoscere una differenza tra un primo e un secondo Illuminismo (nel quale ci troveremmo) che posto a manifestare la tetra evanescenza dell’ordine razionale che il primo voleva costituire: “«il secondo Illuminismo» coincide quindi [...] con il rovesciamento preciso dello scopo del «primo Illuminismo» (costruire una società nella quale le decisioni fondamentali perdano il loro carattere “irrazionale” e divengano pienamente fondate su ragioni valide, cioè su una comprensione corretta dello stato delle cose). Il «secondo Illuminismo» impone a ciascuno di noi l’onere di prendere decisioni cruciali, che potrebbero influenzare la nostra stessa sopravvivenza, senza il supporto di un Sapere appropriato.”82 80

G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 83. Il frammento di Benjamin è tratto da Notizen zu einer Arbeit über die Kategorie der Gerechtigkeit, in Frankfurter Adorno Blätter, 4, 1992. 81 B. Pascal, Pensieri, Arnoldo Mondadori, Milano 1976, p. 162 [cors. mio]. 82 SS, p. 424.

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La situazione in cui siamo, cioè, porta in prossimità di scelte che riguardano l’intero destino dell’umanità, ma non dotate di un supporto di verità atto a indirizzarle83. Come ho voluto sottolineare con la citazione pascaliana, il senso di una decisione in rapporto alla cosa-ultima non riesce ad assumere, anche agli albori dell’era della Ragione, una persuasione di tipo razionale e si deve lasciare piuttosto “prendere dal gioco”, mostrando un contributo alla rivelazione che coincide con l’incalcolabile getto dei dadi, a cui però non possiamo rinunciare in quanto “nous-sommes, embarqué”. In questo gesto ne va di noi, e così quell’ultima chance rimane l’ultima-cosa che ci resta da fare, oppure la cosa-ultima che possiamo ritrovare. § 32. Nel discorso che ho svolto spero sia quindi apparso con una qualche chiarezza come la rinuncia della cosa-ultima non sia una negazione a priori dell’escatologia. Quest’ultima non si esprime nell’anticipazione visiva della fine, per come potremmo banalmente immaginarci i grandi testi apocalittici di tradizione ebraica e cristiana. La chiusa dello scritto sull’escatologia spero non abbia quindi suscitato l’imbarazzante impressione di una farfugliante Stimmung avventista, la quale sarebbe semplicemente un’ennesima ipotesi performativa e quindi del tutto interna all’orizzonte simbolico del Grande Altro. Ciò non toglie che il ripristino dell’escatologia possa pur sempre subodorare di fondamentalismo, la qual cosa, di questi tempi, non è mai un bene. Entrando purtroppo solo di sbieco nel discorso, emerge come il fondamentalismo sia la rappresentazione estrema di ciò che già da sé si dimostrava un limite. Come è noto, il “concetto limite” del sistema mondo proposto da Locke in relazione alla convivenza comune è proprio la domanda: come bisogna comportarsi con gli intolleranti? Bisogna essere tolleranti con tutti, tranne con gli intolleranti. Il paradosso pragmatico che segue alla risposta espone chiaramente quello che Hegel potrebbe definire come la falsità del concetto. L’elemento totalmente apparente della neutralizzazione, il suo significato intellettualistico, si manifesta nel momento in cui risulta palese come essa si regga su un fondamento inammissibile84. La lettera, meglio il prefisso, rubato alla tolleranza è quindi proprio quell’in che doveva essere asportato, per garantire la sopportabilità della tolleranza stessa, e per nasconderne il fondamento. Da un punto di vista neppure troppo dialettico, appare chiaro come la tolleranza sia il “grado attenuato” dell’intolleranza, l’esito di un processo precedente, sostanzialmente una privazione85. Dal punto di vista storico, la tolleranza è la categoria che fa da sigillo alle guerre di religione dei secoli XVIXVII: il sigillo che però non può essere simbolo di nulla, in quanto dichiara la (necessità della) neutralizzazione del conflitto86. Ciò su cui il governante non può legiferare è di fatto ciò che viene pensato come una dimensione innocua e di superficie della salvezza, vale a dire il rito, nel momento in cui questo non entra in relazione conflittuale con la sfera del giuridico. Al di là del vespaio di difficoltà che una tale proposta manifesta nella nostra attualità, ciò che mi preme sottolineare in questo frangente è come tale determinazione così barbaramente esposta non faccia altro che confermare un processo di definitiva interiorizzazione della cosa-ultima, in cui il soggetto come intérieur trova la sua fondazione. Eppure anche nell’intimo del proprio spirito la cosa-ultima è 83

“L’impasse fondamentale della società del rischio sta nello scarto tra la conoscenza e la decisione, tra la catena di ragioni e l’atto che risolve il dilemma [...]: non c’è nessuno che “conosca veramente” il risultato globale; la livello della conoscenza positiva, la situazione è radicalmente “indecidibile”. Ciononostante dobbiamo decidere.”, SS, p. 423. 84 Mi sembra in parte azzeccato il riferimento al celebre seminario lacaniano sulla Lettera rubata anche in quanto, alla luce del ragionamento, sembrerebbe che l’autore del furto della sillaba sia noto al derubato, contemporaneamente, un suo smascheramento risulti inammissibile per salvare la faccia (il prósopon) o, nella versione hobbesiana, la vita. 85 Intorno a questi temi in particolare R. Esposito, Immunitas, Einaudi, Torino 2002; si veda inoltre il recente testo della Maria Laura Lanzillo, Tolleranza, il Mulino, Bologna 2003. 86 Quasi scontato il riferimento a H. Blumenberg, La legittimità del moderno, Marietti, Genova 1992; rimando anche al bel saggio di J. Taubes, Das stählerne Gehäuse und der Exodus daraus oder ein Streit um Marcion, einst und heute, in Religionstheorie und Politische Theologie, Band II: Gnosis und Politik, Wilhelm Fink Verlag - Verlag Ferdinand Schöningh, München - Paderborn - Wien - Zürich 1984, pp. 9-15 [ora tradotto La gabbia d'acciaio e l'esodo da essa, o uno scontro su Marcione, ieri e oggi, in Messianesimo e cultura, a cura di E. Stimilli, Garzanti, Milano 2001, pp. 373384].

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idealmente privata di un conflitto, sottoposta com’è al più persuasivo dei tribunali che è quello della Ragione. Il concetto di modernità come Neutralisierung imposta per certi versi un mandato di cesura con il simbolico in quanto pone fuori dal gioco il “conflitto reale”, il quale avviene nella natura più interiore del simbolo stesso87. Riuscire a tollerare la tolleranza significa principalmente riuscire a tollerare l’ammortizzamento del conflitto reale, cioè la fine di un rapporto con un negativo che minava la stridente stabilità del proprio esser-ci. Ancora da un punto di vista storico, sembra necessario riconoscere come questa estinzione politica e teorica del conflitto non abbia certo prodotto argini ai massacri, che si manifestano, neppure modificandone la natura, soltanto in contingenze dislocate. In questo senso non è certo “abbassando i toni” che si manifesta la possibilità di una qualche lucidità in rapporto al presente e alla sua disattivazione. § 33. Per porre dunque un sigillo non elusivo del percorso qui affrontato non si dovrebbe forse rendere insignificante la critica più incisiva a tutto il ragionamento; critica che, guarda caso, coincide con una domanda, del tutto legittima, posta, nell’urgenza, anche da un autore come San Paolo: “che faremo, fratelli?”. La domanda prende senso e consistenza puramente da sé, cioè puramente in relazione alla terra bruciata che, per contingenza o necessità, si espone al cuore del nostro agire nel mondo. Quello che abbiamo descritto in questo testo è la formulazione di una crisi radicale che stemperare non ha più alcun senso. L’ansia che s’accoda alla situazione non fa altro che il verso di quel demone nietzscheano, il quale bisbiglia nell’orecchio al posto della nostra sempre più flebile “amichevole vocina” della coscienza. Che faremo? Che ci resta da fare? Non si tratta, almeno in Žižek, di una domanda che non trova l’indirizzo di una qualche specifica risposta anche se, per fornire una traccia adeguata, dovremmo relazionarci al pensatore politico che con più energia ne ripropose la formula, autore su cui Žižek si sofferma lungamente. Ci riferiamo ovviamente al “Che fare?” di Lenin, e forse si comprenderà la personale ritrosia all’indugio su quel bel testo recentemente tradotto che è Tredici volte Lenin. Come sappiamo Lenin trae la formulazione della domanda da un romanzo di Nikolaj Gavrilovic Cernysevskij, divenuto bestseller nel tardo Ottocento. In qualche modo la domanda derivata dal pure récit, non fa altro che rimandare al vuoto messo in atto non tanto dalla stessa recita, quanto dal frangersi della sua istanza persuasiva a cui segue la drammatica persistenza della domanda, della sua formula impreferenziale. Essa, e non più l’istanza simbolica, assume l’icona della spada damoclea che pende a fronte di qualsiasi nostra rappresentazione ma, insieme a quest’ultima, di qualsiasi nostra preconizzata estinzione. È chiaro e doveroso come, in certi contesti, nimia reliquuntur; ma da ciò non si potrebbe affermare che tutto ciò che resta del nulla ch’espone la critica, in rapporto al Grande Altro, è quell’inaggirabile domanda, la cui prestazione è del tutto delegata alla filosofia contemporanea come prassi della revoca della propria stessa revoca?

Bibliografia e abbreviazioni BDR: Slavoj Žižek, Welcome in the Desert of the Real, The Wooster Press, New York 2001; ed. it. Benvenuti nel deserto del reale. Cinque saggi sull'11 settembre e date simili, traduzione di Piero Vereni, Meltemi, Roma 2002; DI: Id, Ein Plädoyer für die Intoleranz, Passagen Verlag, Wien 1998; ed. it. Difesa dell'intolleranza, traduzione di Guido Lagomarsino, Città Aperta, Troina (En) 2003;

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In questi termini diventa estremamente interessante il libro di M. Mieggi, Il sogno del re di Babilonia. Profezia e storia da Thomas Müntzer a Isaac Newton, Feltrinelli, Milano 1995; inoltre A. Brandalise, Oltre il Meridiano, in Oltranze. Simboli e concetti in letteratura, Unipress, Padova 2002, pp. 3-32.

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GA: Id, Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa, a cura di Marco Senaldi, Feltrinelli, Milano 1999; GFP: Id, Enjoyment as Political Factor, 2000; ed. it. Il godimento come fattore politico, a cura di Damiano Cantone e René Scheu, Raffaello Cortina, Milano 2001; SS: Id, The Ticklish Subjeckt. The Absent Centre of Political Ontology, Verso, London-New York 1999; ed. it. Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, traduzione di Damiano Cantone e Lorenzo Chiesa, Raffaello Cortina, Milano 2003. TN: Id, Tarrying with the negative. Kant, Hegel and the critique of ideology, Duke University Press, Duhram 1993; trad. parziale Godi la tua nazione come te stesso!, in Il Grande Altro, cit., pp. 61-11; TVL: Id, Die Revolution steht befor. Dreizehn Verzuche zu Lenin, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2002 (ora anche Repeating Lenin, Arkzin, Zagreb 2002); ed. it. Tredici volte Lenin. Per sovvertire il fallimento del presente, traduzione di Federico Rahola, Feltrinelli, Milano 2003.

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