Resistenza 1993

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(Aggiornamento al 20 luglio 1993)

ITERPRETAZIOI E USI POLITICI DELLA

RESISTEZA ITALIAA EL DIBATTITO DEI PRIMI AI '90 citare come: V. Ilari, "Das Ende eines Mythos. Interpretationen und politische Praxis des italienischen Widerstands in der Debatte der frühen neunzinger Jahre", in Peter Bettelheim und Robert Streibl (HG.), Tabu und Geschichte. Zur Kultur des kollektiven Erinners, Picus Verlag, Wien, 1994, pp. 129-174).

di Virgilio Ilari

“La riduzione a “pupi”, dei quali è rigidamente previsto ogni gesto e ogni battuta, tanto da suscitare, al cospetto di grandi e remote epopee, l’impazienza del pubblico, ansioso della rasserenante con clusione, è l’esito estremo, e caricaturale, di ogni storia divenuta ‘sacra’." (Luciano Canfora, La sentenza, 1985)

1. Le formule di Claudio Pavone: la Resistenza come "guerra civile" e intreccio di "tre guerre" La celebre classificazione dei tre “tipi” di storiografia che compare nella seconda 1 Unzeitgemass , sembra bene attagliarsi alla storiografia sulla Resistenza italiana: si può 2 infatti sostenere che la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia (1953 ) e 3 Una guerra civile di Claudio Pavone (1991) segnano rispettivamente la prima 4 consacrazione della fase “monumentale” intesa come superamento della memorialistica , 5 e il culmine della fase “critica”, esplicitamente ispirata all’“esempio” di Henri Michel . 6 Una fase peraltro aperta nel 1977 da Sergio Cotta con Quale Resistenza? : “una proposta di interpretazione per trarla fuori dal mito in cui rimane tenacemente involta”, oggetto, anche da parte di Pavone, di un perdurante ostracismo “di sinistra” che rende involontario 7 omaggio alla sua importanza ermeneutica . Fra queste due opere si colloca poi la fioritura “antiquaria”, promossa dall'Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia (MLI) e dalla rete dei circa 60 istituti regionali e locali. Prevalgono nel libro di Pavone gli elementi di continuità con la storiografia precedente: l’autore riconosce del resto il proprio debito nei confronti del libro di Battaglia, definito “pionieristico”, e della successiva fioritura “antiquaria”, cui lo stesso Pavone ha dato contributi fondamentali, e che considera l'indispensabile “retroterra” della propria opera. Eppure l’interpretazione di Pavone contraddice quella dominante in due

punti essenziali, riconoscendo nella Resistenza italiana sia il carattere “anche” di vera “guerra civile” tra fascisti e antifascisti, sia l'intreccio di “tre guerre” diverse, “patriottica, civile e di classe”. In questo modo, pur respingendone le inferenze etico-politiche, Pavone rivaluta almeno in parte i punti qualificanti delle interpretazioni minoritarie ed “eterodosse”. Infatti la formula della “guerra civile” corrisponde sia alla visione 8 filo-fascista (implicando il riconoscimento di una relativa “rappresentatività” della RSI) , 9 sia a quella “azionista” (implicando il primato morale e politico dell'antifascismo storico e della guerra combattuta al Nord sugli altri protagonisti e sugli altri fronti della guerra di Liberazione). La formula delle “tre guerre” rivaluta invece, almeno in parte, le opposte interpretazioni, rivoluzionaria e anticomunista, della Resistenza come prodromo di una successiva “guerra civile virtuale” fra le diverse componenti della Resistenza, che 10 negavano significato strategico e permanente alla collaborazione “ciellenista” basata sul “patto di unità antifascista”. Ovviamente Una guerra civile, malgrado il titolo possa richiamare 11 apparentemente quello del libro pubblicato da Ernst Nolte nel 1988 , non rientra affatto nella tendenza al “revisionismo” storiografico, che del resto in Italia ha riguardato finora più il fascismo regime che la RSI e la stessa Resistenza. Come ha rilevato Otto Kallscheuer, il capitolo italiano del più generale dibattito che si è avuto in Europa sulla “demitizzazione” della Resistenza appare concentrato esclusivamente sulla sua valenza politica interna, come fondamento della “Repubblica dei partiti” ora messa in questione dalla cosiddetta “rivoluzione italiana”. In una prospettiva non italiana, e in particolare tedesca, può apparire sorprendente (e, ad essere giusti, quasi irritante) che in Italia si sia tranquillamente ignorata la questione posta da Tony Judt nella sua “provokative Aufsatz über ‘Mythos, Gedaechtnis und nationale Identität im 0achkriegseuropa’”, e cioè la rottura delle “offiziellen Versionen der nationale 0achkriegsgeschichte, ihr 12 ‘Gründungsmythos’ vom nationalen Befreiiungskampf gegen die Deutschen” . La questione del “nemico” nazionale, del rapporto con la Germania, è stata in Italia del tutto disgiunta dalla questione della Resistenza e del suo rapporto con l’identità nazionale. Dissimulate entrambe dietro una sempre più stanca e sterile riproposizione rituale della polemica antinazista e antifascista, segnalando anche a questo proposito quell’esaurimento della cultura storico-politica nazionale che costituisce uno dei sintomi della crisi italiana di fine secolo. Certo la formula della “guerra civile” non ha mancato di suscitare “sconcerto” e “contrasto di opinioni molto animato”: ma Norberto Bobbio l’ha condivisa, osservando che essa ha in Pavone “un significato descrittivo molto preciso, e come tale à un significato emozionalmente neutro, né negativo né positivo”, tale da consentire una valutazione non “emozionale”, bensì politologica e giuridica del dato storiografico. Tuttavia, decisivo per l’interpretazione della guerra antifascista e di classe del 194345 come “guerra civile” appare a Bobbio il fatto che Pavone vi riscontri quella “criminalizzazione” del nemico da cui Carl Schmitt e poi la storiografia revisionista hanno ricavato la tesi del carattere “civile”, più che “interstatuale”, della stessa seconda 13 guerra mondiale .

2. La visione azionista: la "guerra civile" come legittimazione del nesso Resistenza-antifascismo storico 14

L'altra formula, quella delle “tre guerre”, è passata invece quasi inosservata , a 15 parte le riserve di Luciano Canfora e l’esplicita adesione di Bobbio , entrambe coerenti con le rispettive matrici culturali, “togliattiana” e azionista. Eppure essa merita un approfondimento particolare. Com’è noto, sotto il profilo giuridico la legislazione italiana (del Regno, del 16 CLNAI riconosciuto come “autorità di Governo” nel 1944, e della Repubblica) qualifica ufficialmente la Resistenza talora come sinonimo, e più spesso come aspetto particolare della guerra “di Liberazione nazionale” condotta dall’Italia in situazione di “cobelligeranza” con gli Alleati nel periodo 9 settembre 1943 - 1° maggio1945. In quest’ultima vengono ricomprese sia le operazioni delle forze regolari inserite nelle Armate alleate, sia quattro diverse “resistenze”: quella delle forze regolari nei combattimenti del settembre 1943; quella dei militari passati successivamente con gli eserciti partigiani in Francia e nei Balcani: quella degli “internati militari italiani” (IMI) in Germania: infine la Resistenza per antonomasia, cioè quella delle forze partigiane e delle organizzazioni clandestine (“autonome” ovvero “di partito”) nel territorio nazionale occupato. La distinzione fra le “tre guerre” riguarda esclusivamente quest'ultima, cioè la “Resistenza in senso proprio e forte, combattuta nel Nord, politicamente e militarmente, 17 da una cospicua minoranza” . Soltanto questa può essere propriamente giudicata “anche” una “guerra civile”: ed è proprio questo che ne giustifica il “primato” morale e 18 politico rispetto alle altre , in quanto condotta prevalentemente da volontari civili e sotto la direzione non solo politica, ma anche militare dell'antifascismo storico. Inoltre essa sottolinea la diversità qualitativa della Resistenza italiana rispetto a quelle del resto dell’Europa Occidentale e Settentrionale, collegandola con un “fenomeno tipicamente 19 italiano, di politica interna”, quale l’antifascismo . La formula di Pavone assevera la visione “azionista” della guerra partigiana, teorizzata da Ferruccio Parri, presidente del CLNAI e capo del primo Governo del dopoguerra: al tempo stesso “patriottica” e “civile” (in quanto “antifascista”), ma proprio per questo “unitaria” e “nazionale”, un “Secondo Risorgimento” caratterizzato rispetto al 20 Primo dal primato politico-militare della “guerra di popolo” sulla “guerra regia” . La visione azionista ampliava il concetto di “Liberazione nazionale”: non solo dall’occupante e dai fascisti di Salò, ma dal “fascismo” (inteso in senso traslato, come 21 “rivelazione” di vecchie tare nazionali ). Non solo essa innestava la Resistenza italiana 22 sull’antifascismo , ma comprendeva entrambi, insieme alle lotte passate e future per l’emancipazione sociale, in un “Movimento di Liberazione” liberal-socialista a carattere 23 transnazionale . L'autoscioglimento del Partito d’Azione nel 1947 non indicava che i suoi esponenti (confluiti nei partiti laici e socialisti) considerassero concluso il compito che si erano prefissi. Anzi fu proprio la cultura azionista a sollevare per prima, nel 24 dopoguerra, il tema della “desistenza” , ovvero della “Resistenza tradita” dal prevalere delle componenti reazionarie e cattolico-moderate.

Ma questa interpretazione cozzava con la presenza sotterranea di una “terza” guerra, quella rivoluzionaria e “di classe”. Anche se il PCI respingeva le sollecitazioni 25 che in questo senso provenivano soprattutto dai socialisti , subordinandola all’obiettivo immediato della liberazione nazionale, essa restava l’elemento fondamentale di divisione all’interno della Resistenza. Del resto fu poi su questo ostacolo che naufragò il progetto 26 liberal-socialista perseguito dal Partito d’Azione . 3. L'interpretazione anticomunista e rivoluzionaria delle “tre guerre” come prodromo della “guerra civile virtuale” fra le diverse componenti della Resistenza Al contrario di Pavone, Sergio Cotta aveva invece sottolineato non solo la 27 “compresenza” , bensì la “confliggenza” fra i diversi obiettivi perseguiti dalle varie componenti della guerra di Liberazione (rivoluzione sociale, rivoluzione democratica, semplice “rinnovamento”, limitazione della guerra all’aspetto militare, difesa dei rapporti di produzione, questione monarchica). In questo la Resistenza italiana rifletteva, pur con le specificità nazionali, il carattere della seconda guerra mondiale, “ideologica”, sì, “ma 28 non unitaria, bensì di coalizione” . Facendo propria la formula dell’“unità antifascista”, i comunisti non rinunciavano in linea di principio alla “terza” guerra, quella di classe. Certo, riconoscevano priorità al duplice obiettivo proposto dagli azionisti (guerra esterna contro i tedeschi e civile contro i fascisti), ma proprio in questo modo candidavano la classe operaia alla guida morale e politica del paese, e acquisivano la forza necessaria per vincere in seguito una eventuale guerra civile col nemico di classe. Per quasi un decennio dopo la Liberazione tutto il partito si riconobbe in questa linea: dopo l’attentato del luglio 1948 contro Togliatti furono proprio Longo e Secchia, vicesegretari, a trattenere il PCI dal “raccogliere la provocazione”, e a impedire lo scoppio della guerra civile con gli anticomunisti. Fu solo dopo la “destalinizzazione” che la sinistra rivoluzionaria fece proprio lo slogan azionista della “Resistenza tradita”: imputando però il tradimento al costante “opportunismo burocratico” (cioè acquiescente alle direttive sovietiche) di Togliatti. Ma ancora nel 1977 uno dei teorici della lotta armata sosteneva che in caso di invasione sovietica dell’Italia i “rivoluzionari” avrebbero dovuto prioritariamente schierarsi assieme ai reazionari e ai “revisionisti” (cioè il PCI) per difendere la patria, e solo dopo la vittoria affrontare la 29 guerra civile . I militari e gli Alleati distinguevano invece le “tre guerre” in termini clausewitziani, cioè in base ai diversi scopi perseguiti, e accettarono la formula dell’“unità antifascista” soprattutto per vincolare e controllare i comunisti. La famosa circolare dello Stato Maggiore n. 333/Op., del 10 dicembre 1943, ordinava alle formazioni militari di limitarsi alla “guerra al tedesco”, pur senza opporsi alla “guerra ai fascisti” condotta dalle formazioni dei partiti antifascisti. Il “proclama Alexander” radiodiffuso il 12 novembre 1944 mirava al disarmo dei partigiani per il timore di dover fronteggiare una insurrezione comunista: il generale Cadorna ed Edgardo Sogno dovettero faticare per convincere sia gli Alleati sia i partigiani “autonomi” dissidenti che l’unificazione delle forze partigiane nel Corpo Volontari della Libertà era il modo

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migliore per impedirla . Nel dopoguerra la formula “unitaria” e “nazionale” servì a considerare la Resistenza un fatto concluso, a carattere essenzialmente politico-militare. Ma spesso furono proprio gli anticomunisti a denunciarla come una legittimazione del PCI: nel 1948, alla vigilia delle elezioni, furono gli ex-partigiani “bianchi” e “autonomi” 31 a uscire dall’ANPI (seguiti nel 1949 dagli ex-azionisti). Contro la “prima” Repubblica, giudicata troppo antifascista e troppo poco anticomunista, Sogno diede vita nel 1970 ai 32 “Comitati di Resistenza democratica” , né mancarono periodiche iniziative per la 33 “riconciliazione nazionale” fra ex-partigiani “bianchi” ed ex-“repubblichini” in nome del comune anticomunismo. Nella prospettiva reazionaria e anticomunista, come nella prospettiva rivoluzionaria, la tesi delle “tre guerre” doveva intendersi non già come semplice compresenza di diversi obiettivi all’interno di una stessa guerra, bensì in senso forte, clausewitziano e leninista, come tre diverse guerre con obiettivi strategici divergenti, unite solo tatticamente e tendenti per loro natura a sfociare in una successiva guerra civile. Il patto di “unità antifascista” era dunque tacitamente inteso, sia dagli anticomunisti che dai rivoluzionari, come una tregua, non come la legittimazione di un nuovo Stato. Prima ancora della resa nazifascista, da una parte e dall’altra ci si preparò segretamente a combattere la guerra civile. Questa non ci fu, per un complesso di fattori: la dissuasione (esercitata dalla schiacciante superiorità militare degli alleati e dall’esempio “greco”); le direttive di Stalin al PCI conseguenti agli accordi di Yalta che assegnavano l’Italia alla sfera di influenza occidentale, disciplinatamente osservate dal Partito; la stanchezza del paese, pienamente avvertita dagli opposti schieramenti politici; il senso di responsabilità e l’abilità dei due leaders, De Gasperi e Togliatti; ma anche perché il patto di “unità antifascista”, tradotto nell’accordo storico sulla Costituzione della Repubblica, offerse la cornice formale della convivenza civile, spiegando tutta la forza vincolante della democrazia formale e dello Stato di diritto. Per questo sopravvisse al 1948, quando l’anticomunismo integrò o, come afferma polemicamente Bobbio, 34 “sostituì” l'antifascismo come principio di legittimazione della Repubblica. Non fu poco. Perfino Gian Enrico Rusconi, uno degli autori che, come diremo meglio in seguito, ha maggiormente utilizzato l’argomento della “guerra civile virtuale” in sottesa polemica con il fondamento antifascista della Costituzione, ha contrapposto l’accordo raggiunto in diciotto mesi alla Costituente, al mancato accordo sulle riforme costituzionali dopo quattro anni di dibattiti, giudicandolo “la controprova che stiamo 35 cessando di essere una nazione” . 4. Implicazioni politiche attuali dell’“unità antifascista” La rimozione della guerra civile e l'ideologia "unitaria" e "nazionale" della Resistenza, non è del resto caratteristica solo di quella italiana. "Perfino in Jugoslavia osservava Pavone nel 1991 almeno a livello ufficiale e politico, si nega che la Resistenza 36 sia stata una guerra civile" . Proprio riferendosi al caso jugoslavo, Cotta rilevava come il "mito" della Resistenza unitaria era "rivolto a salvaguardare l'indipendenza

nazional-costituzionale" e perciò non poteva cessare "finché perdureranno le ragioni di 37 ordine internazionale che lo rendono vantaggioso" . Nel 1954 Luigi Longo rivendicava al PCI il merito di non aver "mai dato tregua ai 38 nemici aperti o mascherati" dell'unità antifascista : ma ciò non significa che la formula, durante e dopo la guerra, fosse patrimonio esclusivo dei comunisti. Giovava anche a liberali e democristiani: sia perché riconosceva loro un peso politico organico, indipendente dall'entità del loro apporto all'antifascismo storico e alla lotta armata, sia perché assegnava loro la rappresentanza obbligata di tutte le componenti estranee all'antifascismo storico, anzitutto i militari, gli industriali, il clero, in seguito anche della 39 "zona grigia" e del cosiddetto "attesismo" vituperato soprattutto dagli azionisti e rivalutato soprattutto dai cattolici. Fino a che la Resistenza non assunse quel senso "ampio e traslato à di legittimazione dell'intero sistema politico repubblicano e della sua 40 classe dirigente" cui accenna Pavone . In questo modo il nesso Resistenza-antifascismo perse il contenuto politico e ideologico che gli aveva attribuito la visione azionista: l'antifascismo non connotava più soltanto, e neppure principalmente, gli uomini, i partiti, i programmi, le idee che ne erano stati effettivamente protagonisti durante il Ventennio mussoliniano, ma tutti i Resistenti. Una patente elargita in seguito sempre più largamente, anche a tutti coloro che semplicemente non avessero sostenuto la RSI, alle nuove leve dei partiti del CLN, talora perfino agli ex-fascisti di Salò riammessi alla vita politica nei partiti democratici, insomma quasi all'intero popolo italiano, con l'eccezione soltanto di coloro che la respingevano esplicitamente collocandosi ai margini, anche se non fuori, della democrazia e della legalità repubblicana. Gli ex-azionisti lo deprecarono e lo deprecano: ma non poterono, e in fondo neanche vollero davvero opporsi a questa rimozione del carattere "civile" e "di parte" della guerra combattuta al Nord. La loro sconfitta era l'esito ineluttabile della loro stessa vittoria: una situazione analoga a quella delle minoranze democratiche che lottarono ad Est contro i regimi comunisti e che vennero ovunque emarginate dopo il 1989. Così la formula dell'"unità antifascista" mutò in quella dell'"unità antifascista": e lo stesso concetto dell'"unità" implicò sempre meno l'aggettivo "ciellenista" e sempre più l'aggettivo "nazionale". Paradossalmente, questo fu in fondo un esito "demistificante" del "mito", perché attenuò il primato della Resistenza in territorio nazionale rispetto alle altre componenti della Guerra di Liberazione. Così, anche attraverso successive misure di equiparazione giuridica, accanto alla figura del partigiano vennero rivalutate l'una dopo l'altra quelle dei combattenti all'estero, delle forze regolari del Sud, degli internati in Germania, reinserendo la Resistenza nel contesto della grande tragedia e della grande esperienza umana e nazionale del 1943-45. Questo È un aspetto più difficile da valutare, e ciò spiega in parte perché sia generalmente trascurato nelle analisi e nelle polemiche sulla Resistenza come mito fondante della Repubblica: ma suggerisce che la Guerra di Liberazione nel suo complesso abbia altrettanta importanza come esperienza collettiva e memoria storica della Nazione, ben oltre la questione delle forme costituzionali dello Stato: sullo stesso piano delle altre due grandi vicende, il Risorgimento e la Grande Guerra. Compressa, più che rimossa, dalla "guerra fredda", la formula dell'"unità antifascista" dispiegò ancora un ruolo politico preciso negli anni del "compromesso storico" e del

terrorismo che spense (anche fisicamente, nella persona di Aldo Moro) questa stagione della politica nazionale. Essa tornò in auge a partire dal 1974, toccando il culmine con l'elezione alla Presidenza della Repubblica di Sandro Pertini (1978-85), che riuniva nella sua persona le figure di combattente della Grande Guerra, esule antifascista e capo partigiano. Essa legittimava la definitiva integrazione del PCI nel sistema democratico, e tendenzialmente nella maggioranza parlamentare, anche se non nella coalizione di Governo, data la pregiudiziale "Atlantista" che implicava un "gradimento" ai singoli partiti, concesso dagli Stati Uniti al PSI già con una certa riluttanza, e negato fino alla fine al PCI. Questo conferì alla democrazia italiana il carattere che i politologi definirono "consociativo", e che si espresse nelle formule politiche dell'"arco costituzionale" e delle maggioranze di "solidarietà nazionale" estese al PCI (le quali integrarono, più che sostituirono, la formula della "solidarietà democratica" con la quale si indicavano i Governi e le maggioranze di centrosinistra). L'"uso politico" del passato non è di per sé "falsificazione" " o "mistificazione" storiografica. Esso influenza certamente l'interpretazione, ma soprattutto nel senso che la rende via via più penetrante e più complessa, rivelando fattori e potenzialità che non si potevano facilmente o chiaramente percepire prima che svolgessero i loro effetti: anche nelle biografie, è a partire dalla maturità, e spesso addirittura dalla morte, che si intendono l'infanzia e la giovinezza del personaggio. Gli stessi giudizi storici non possono essere veramente intesi, neanche da chi li formula, se non analizzandone le premesse e le implicazioni, cioè mettendoli in rapporto col divenire degli "usi politici" attuali. Se questi non vi fossero, o cessassero, non vi sarebbero o perderebbero ogni rilievo anche i giudizi. La rivalutazione dell'"unità antifascista" ebbe anche uno specifico effetto collaterale sulla politica estera e militare, favorendo al tempo stesso una maggiore autonomia nazionale rispetto alla NATO e la progressiva accettazione del Patto Atlantico da parte 41 del PCI . La svolta nella politica militare del PCI avvenne nel luglio 1973, pochi mesi dopo la morte di Secchia. Nel 1974 la nomina di un Capo di Stato Maggiore della Difesa proveniente dalla Resistenza (il generale Viglione) e la revoca da parte di Andreotti (allora ministro della Difesa) del divieto di manifestazioni comuni tra FF.AA. e partigiani stabilito nel 1948 dal ministro Pacciardi, ebbero come contropartita il concreto sostegno del PCI all'approvazione del "secondo riarmo" delle Forze Armate (attuato con le "leggi 42 promozionali" del 1975-77) , e la salvaguardia del carattere popolare dell'Esercito contro le tentazioni di esercito volontario e l'offensiva antimilitarista promossa dalla sinistra 43 extraparlamentare e dai radicali . Non a caso l'annuncio della svolta "occidentalista" del PCI fu dato nel dicembre 1988 dalla proposta Pecchioli di esercito volontario, che 44 liquidava la pregiudiziale Togliatti a favore della coscrizione obbligatoria . Ma negli "anni di piombo" che allora cominciavano, la formula dell'"unità antifascista" costitu anche un tassello importante della "guerra psicolologica" contro il 45 terrorismo rosso (1972-1984) sorto dalla "stagione dei movimenti" (1966-1977) , che faceva proseliti anche grazie alla opposta mitologia della "Resistenza tradita". Del resto le Brigate Rosse adottavano tattiche di terrorismo urbano e modelli organizzativi analoghi a

quelli dei GAP (Gruppi di Azione Partigiana) e vivevano nel culto di figure "mitiche" 46 come quella del "gappista" Giovanni Pesce . A tacere, naturalmente, del documentato 47 rapporto di influenza reciproca fra Pietro Secchia e Giangiacomo Feltrinelli . Il PCI aveva sempre inteso la formula dell'"unità antifascista" come un criterio-guida di azione politica, e la integrava con la formula della "Resistenza continua". Quest'ultima implicava un aspetto più particolare (la "vigilanza antifascista" contro il MSI), ma anche uno generale (il perseguimento degli "ideali" della Resistenza e l'"attuazione" della Costituzione antifascista). Quando il PCI abbandonò la linea della cosiddetta "doppiezza" 48 rinunciando anche in linea di principio alla conquista del potere con la forza , l'ala rivoluzionaria respinse il "continuismo": la sua tesi del "tradimento" implicava che al più tardi nel 1956 si fosse verificata una frattura storica, e che il processo dovesse avere ora un inizio radicalmente nuovo: una "nuova Resistenza", appunto, ma stavolta contro la Repubblica sedicente antifascista e in realtà anticomunista e antidemocratica. Ma nel clima dei primi anni '70 lo slogan della "nuova Resistenza" venne utilizzato anche dagli "ortodossi", in riferimento all'eversione di destra e alle minacce di golpe, e dunque a difesa della legalità repubblicana. Così poté poi essere ritorto proprio contro il terrorismo rosso, isolandone il proselitismo, e dando una ulteriore legittimazione ideologica all'azione repressiva del Governo, della magistratura e delle forze di polizia. Negli anni '90 la formula della "nuova Resistenza" venne utilizzata anche a proposito della lotta contro la criminalità organizzata (mafia, camorra), soprattutto per indicare la mobilitazione dell'opinione pubblica e delle popolazioni meridionali in sostegno della polizia e della magistratura, ma anche la necessità di una militarizzazione della repressione (legislazione "d'emergenza" limitatrice delle libertà individuali e delle 49 garanzie processuali) in nome della "guerra" alla mafia . 5. "Una inutile strage": la delegittimazione della violenza e la rivalutazione dell'"attesismo" Il PCI restò del tutto isolato nella "mobilitazione antifascista" e negli scontri di piazza dell'estate 1960, anche se essi furono presi a pretesto da quanti, all'interno della DC, vollero la caduta del Governo Tambroni. Invece le trame "golpiste", le "deviazioni" dei servizi segreti, le "stragi di Stato", il terrorismo "nero" contribuirono fortemente a riattualizzare la "vigilanza" antifascista e lo spirito unitario della Resistenza. Ma sembrarono anche giustificare il ricorso alla lotta armata e all'insurrezione contro i poteri dello Stato da parte della sinistra extraparlamentare. Durante la guerra partigiana al Nord, il terrorismo urbano ebbe un ruolo decisamente secondario rispetto alla guerriglia in montagna. Elemento della guerra "psicologica" ("propaganda armata") fu l'espressione più feroce della guerra civile. Benché fossero soprattutto gli azionisti a volerla tale, solo i comunisti riuscirono a praticare veramente il "gappismo" nelle grandi città: nonostante la ferocia dei tempi, acuita dalla barbarie nazifascista, solo un'esigua minoranza dei partigiani possedeva i requisiti psicologici necessari per questo tipo di lotta. Altissima, rispetto alle bande in montagna, era nei GAP di città la presenza degli intellettuali e delle donne effettivamente impiegate in azioni

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armate . Le stesse categorie iper-rappresentate nelle Brigate Rosse. Ma il "gappismo" rappresentò l'estensione della guerra partigiana dalle montagne, ove era nata, alle città. Invece la lotta armata della sinistra extraparlamentare nacque e restò sempre puro terrorismo urbano, cioè pura guerra psicologica, pura propaganda armata fine a sé stessa, un allucinante rito di morte predestinato a qualsiasi etero-direzione e strumentalizzazione. Nonostante le teorie sulla "guerriglia urbana", sul "contropotere territoriale" e sul "movimentismo", una guerra di guerriglia era semplicemente impossibile, neppure seriamente pensabile, nell'Italia degli anni '70 e '80. La rivendicazione di una continuità ideale con la Resistenza, e ancor più l'evidente analogia fra le tattiche e la struttura organizzativa del "gappismo" e del terrorismo brigatista, dette nuovo alimento alla vecchia polemica antiresistenziale: si cercò infatti di coinvolgere l'intera guerra partigiana, o quanto meno il "gappismo" nella condanna morale delle BR. Retrospettivamente, non solo la sanguinosa "propaganda armata" dei gappisti, ma la stessa guerriglia in montagna appariva inutilmente feroce, priva di concreta portata militare per l'irrilevanza delle perdite materiali inflitte all'avversario; addirittura cinica per il calcolo di trarre vantaggio politico dalle stesse rappresaglie nazi-fasciste. Non sempre i "distinguo" fra terrorismo e Resistenza furono facili o 51 sereni . Alla Resistenza organizzata, politico-militare, quella comunista e "ciellenista", venne contrapposta una ancor più mitica "resistenza diffusa", morale e umana, e soprattutto da parte cattolica e radicale si cercò di accreditare che fosse stata quella la "vera" Resistenza, la "vera" base morale della nuova Italia. In risposta a questa tesi, la legittimità etico-politica della stessa guerra partigiana dovette essere difesa negando che fosse stata violenta, presentandola arditamente come rifiuto della violenza, interamente attribuita al nemico nazifascista. La questione fu posta rimettendo in discussione i due episodi maggiormente controversi della Resistenza gappista: l'attentato di via Rasella che provocò la rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine, e l'assassinio del filosofo Giovanni Gentile, motivato proprio dal suo appello alla concordia nazionale e dalla sua richiesta alla RSI di astenersi dalle rappresaglie (in cui si vide un insidioso attacco alle basi morali della lotta), e che fu approvato dal PCI, dal PdA e dagli alleati, ma che il PCI non ammise mai di aver deciso a livello di Direzione. E' peraltro significativo che nessuno abbia finora ricordato un terzo famoso episodio, esemplare dei conflitti interni alla Resistenza, e cioÈ l'eccidio del marzo 1945 alle Malghe di Porzus, in Friuli, dove partigiani di una Brigata comunista del Friuli che non figura nei ranghi del Corpo Volontari della Libertà, uccisero 19 partigiani delle Brigate "Osoppo" (tra i quali Ermes Pasolini, fratello di Pier Paolo), 52 contrari per ragioni nazionali alla collaborazione politico-militare con gli slavi . La polemica sulla strage di via Rasella fu sollevata nel marzo 1979, con un provocatorio intervento al XV congresso del PCI, dal leader radicale Marco Pannella, allora impegnato assieme a Craxi e alle destre nell'opposizione al "compromesso storico" DCPCI. Il tema rientrava nell'accusa di cinismo rivolta al PCI per aver sostenuto e di fatto imposto la "linea della fermezza" nella vicenda del rapimento di Moro da parte delle BR, cui Pannella e Craxi imputavano strumentalmente la responsabilità ultima dell'assassinio del presidente della DC (cioè proprio dell'atto che aveva liquidato la 53 politica del "compromesso storico" da essi avversata!) .

Nel 1985 Luciano Canfora affrontava con un'ampia e rigorosa ricostruzione storica l'altro episodio, l'assassinio di Gentile, mettendo in risalto il ruolo determinante giocato nella vicenda sia dai servizi segreti alleati sia dal delirio sanguinario, dall'odio accademico e dalle paranoie massoniche del latinista Concetto Marchesi, rettore dell'Università di Padova e autore del "tremendo atto d'accusa" contro Gentile, 54 considerandolo il principale mandante morale dell'omicidio . Sui due episodi, interrogandosi sulle ragioni per le quali essi avevano costituito un 55 tabù della sinistra, tornava nel 1991 l'autobiografia dell'ex-azionista Vittorio Foa . Ma altri protagonisti della guerra partigiana respingevano ogni ipotesi di "pentimento" per la 56 durezza della guerra, inclusa la fucilazione dei prigionieri fascisti . 6. Un "attacco alla Resistenza"? Il tema della "guerra civile virtuale" nel dibattito politico dell'estate 1990 Se l'eterodossia delle due formule di Pavone non basta a inscrivere il saggio nella letteratura revisionista, l'approccio "apolitico" e lo stesso tema prescelto (la "moralità" 57 della Resistenza) significativamente suggerito all'autore da Parri costituiscono comunque una novità nella letteratura sulla Resistenza italiana. Lo stesso Bobbio osserva come l'indagine politologico-giuridica sul tipo di guerra, "non sia stat(a) quasi mai pres(a) 58 in considerazione nel dibattito sulla guerra civile italiana" . Ma l'importanza di un libro che indipendentemente dagli intenti dell'autore rivaluta l'interpretazione "azionista" della Resistenza, non poteva essere solo storiografica. Infatti È comparso in un momento in cui il giudizio sulla Resistenza tornava ad assumere un rilievo politico attuale. Nell'estate 1990 c'erano state campagne di stampa e roventi polemiche sulla guerra civile fra comunisti e anticomunisti che avrebbe potuto seguire alla "guerra civile" antifascista. Una inchiesta giudiziaria sui collegamenti fra servizi segreti e terrorismo nero aveva reso nota l'esistenza di una organizzazione paramilitare segreta predisposta dal Governo per la resistenza in caso di invasione sovietica, innestata su formazioni di partigiani "bianchi" mantenute in armi dopo il 1945 con compiti sia di difesa dei confini orientali sia di difesa interna anti-insurrezionale: e in agosto la stampa e l'opposizione di sinistra ne avevano fatto un "caso" politico (il cosiddetto "caso Gladio"), da un lato sostenendo l'illegittimità di tali provvedimenti, e dall'altro accusando il sistema di potere democristiano di aver creato il clima di guerra civile rompendo l'unità antifascista. Scavalcando le cautele del presidente del Consiglio Andreotti e degli altri leaders storici della DC, il Presidente della Repubblica Cossiga aveva non solo difeso la legittimità delle misure, ma addirittura alzato il tiro, rivendicando poi con orgoglio (nel gennaio 1992) di aver personalmente fatto parte di formazioni mobilitate dalla DC alla vigilia delle elezioni del 1948, con armi fornite dai Carabinieri e tenute nascoste in parrocchia. Nel settembre 1990 un ex-partigiano comunista, Otello Montanari, aveva innescato un'ondata di polemiche (e perfino di indagini giudiziarie) asserendo il coinvolgimento, o almeno la connivenza del PCI nelle fucilazioni di prigionieri, sbandati o sospetti fascisti

(e perfino di semplici avversari politici o "di classe") verificatesi dopo la Liberazione nel 59 tristemente famoso "triangolo della morte" in EmiliaRomagna . Un ex-brigatista rosso emiliano, Franceschini, aveva ricordato come ancora alla fine degli anni '60, in Emilia, gruppi di ex-partigiani comunisti custodissero e tenessero in efficienza armi poi 60 simbolicamente consegnate ai terroristi rossi . Infine nel marzo 1991, per la prima volta, gli stessi antichi dirigenti della Commissione Nazionale Vigilanza del PCI ammettevano apertamente il carattere militare e clandestino dell'organizzazione guidata da Pietro 61 Secchia e Giulio Seniga . Nel PCI si stava allora completando il processo di "detogliattizzazione" funzionale alla strategia "gorbacioviana" di transizione al "postcomunismo", e ai più immediati obiettivi 62 interni della destra "migliorista" . Nel settembre 1990 Massimo Caprara, che ne fu per nove anni segretario, accusava Togliatti di aver "coperto" i responsabili degli eccidi per 63 non dare argomenti alla propaganda anticomunista . Nel febbraio 1992 Panorama pubblicava stralci di una lettera del 1943 pescata negli archivi ex-sovietici, facendone risultare falsamente che Togliatti si augurasse lo sterminio dei prigionieri italiani in 64 Russia . Più in generale, la componente occidentalista del Partito, ormai prevalente, sferrava una requisitoria durissima contro i resti della componente "nazionalpopolare", censurandone i "vizi" ideologici (antiamericanismo, antimperialismo, "terzomondismo", anti-sionimo) e accusandola di "stalinismo" e "nazionalcomunismo". Questa campagna ridava spazio, tra l'altro, anche alle vecchie accuse di "opportunismo burocratico" e di "tradimento della Resistenza" mosse a Togliatti dall'ala rivoluzionaria del Partito, che non gli aveva mai perdonato di esser rimasto fedele alla formula dell'"unità antifascista" anche dopo il 1948. Vista nell'ottica interna di un Partito abituato al settarismo e all'odio teologico, la polemica contro l'interpretazione "unitaria" e "nazionale" della Resistenza era un tassello della tardiva "vendetta" della sinistra rivoluzionaria contro Togliatti: ma anche della più attuale campagna della destra "postcomunista" per delegittimare la componente "nazionalpopolare" del Partito e i residui della politica di "compromesso storico" con la DC. Tendeva cos ad accreditarsi nuovamente l'immagine della Resistenza prevalente negli anni della "guerra fredda": non solo come guerra "civile", ma come guerra "di parte"; non già compimento del Risorgimento, bens rottura dell'unità nazionale; matrice non tanto della Repubblica e della Costituzione, quanto della partitocrazia e di un "consociativismo" che aveva alterato il corretto rapporto maggioranza-opposizione; e foriera nel dopoguerra di una "guerra civile virtuale" che avrebbe poi finito per sfociare "naturalmente" nel terrorismo di sinistra. La valenza politica di queste polemiche È stata letta da molti ex-partigiani come un "attacco", alla Resistenza: e, da molti comunisti, all'eredità politica di Togliatti. Ma ovviamente, se di attacco si trattava, Togliatti e la Resistenza ne costituivano solo gli "obiettivi tattici", quelli che Clausewitz definiva gli Zielen. Gli scopi politici Zwecken erano necessariamente altri. La destra parlamentare, incoraggiata da Cossiga e da un atteggiamento meno ostile dei media, ha salutato queste polemiche come la fine della "pregiudiziale antifascista" e della "ghettizzazione" del MSI-DN. Ma questo appare al massimo un effetto collaterale, non certo l'intento vero, o almeno principale, della campagna. La si poteva "leggere" all'interno della vicenda che ha portato alla

trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra, come parte di una rilegittimazione della sinistra dopo la fine del comunismo. Ma anche come un nuovo tentativo di delegittimazione etico-politica della "prima" Repubblica "nata dalla Resistenza" e fondata sul patto di "unità antifascista". 7. La “demitizzazione” della Resistenza. Una polemica “postsessantottina” contro la formula dell’“unità antifascista” Nel 1977, un anno prima dell'assassinio di Aldo Moro e dell'elezione di Pertini, in piena retorica "neo-resistenzialista", un ex-partigiano cattolico e uno dei maggiori avversari del "Sessantotto", aveva analizzato criticamente il fondamento storico, l'origine, le implicazioni politiche delle opposte formule della "Costituzione nata dalla Resistenza" e della rivoluzione "tradita", mostrando come fossero divenute "miti di legittimazione", 65 rispettivamente dell'ordine esistente e del suo mutamento radicale . Allora la denuncia del "mito" dell'unità antifascista veniva "da destra", in esplicita polemica contro il tentativo di usare il richiamo al CLN per giustificare il "consociativismo" (cioè il 66 coinvolgimento del PCI nelle grandi scelte della politica nazionale) , e il libro di Sergio Cotta passò sotto silenzio. Quindici anni dopo, in piena crisi della "prima" Repubblica, un ex"Sessantottino" collaboratore di Quaderni rossi e Classe operaia, ha ottenuto invece una discreta 67 attenzione di stampa, anche se in parte negativa , con una vivace polemica contro il "mito paterno-materno" della Resistenza, proponendone una "nuova" contro l'agonizzante Repubblica antifascista da parte dei "reduci del Sessantotto", candidati in tal modo alla 68 guida del paese . Diversamente da Cotta, Romolo Gobbi non ha analizzato i contenuti e le origini del mito, e non ha distinto fra quello dell'"unità antifascista" e della "rivoluzione tradita", anche se di fatto la sua polemica investe esclusivamente il primo dei due. Così la sua pretesa "demitizzazione" è rimasta del tutto estrinseca e a tratti quasi comica, perché nella foga di demolire "le posizioni epiche degli storici della Resistenza" con le "testimonianze" dei romanzi (Calvino, Fenoglio, Revelli) e con la "memoria non eroicizzante" degli ex-partigiani, Gobbi arriva quasi a negare che una Resistenza comunque vi sia effettivamente stata, il che non ha mancato di creare qualche imbarazzo 69 ai suoi corifei . Metà del saggio è dedicata a contestare la tesi, cara soprattutto al PCI, dell'identificazione tra classe operaia e Resistenza nazionale. Riprendendo tesi già 70 sostenute nel 1973 , Gobbi nega che gli scioperi del 1943-45 esprimessero la coscienza rivoluzionaria e la volontà di resistenza della classe operaia, riducendoli invece a pure rivendicazioni economiche di tipo tradizionale, oltre tutto strumentalizzate dalle aziende. Ritiene pura invenzione il salvataggio degli impianti da parte degli operai, sostenendo che i tedeschi non intendevano affatto trasferirli in Germania e sottolinea l'impegno del CLNAI a revocare la "socializzazione" delle aziende decretata dalla RSI come contropartita per i finanziamenti degli industriali alla Resistenza. Quanto agli aspetti militari, sottolinea l'ostilità reciproca fra contadini e partigiani, ironizza sulla resistenza

delle Forze Armate in territorio nazionale all'8 settembre, tacendo su quella nei Balcani, 71 minimizza l'entità, la durezza, i risultati militari della guerriglia partigiana in montagna , mettendo in rilievo come il grosso delle bande fosse formato da renitenti alla leva 72 fascista, gli sembra infima la cifra di almeno 100 mila partigiani combattenti , e descrive l'insurrezione del 25 aprile a Torino come poco più che una primaverile "merenda" campestre nella periferia della città. Ciò proverebbe, secondo Gobbi, che la Resistenza (e l'antifascismo) sono un "mito" confezionato dalla "storia ufficiale". Liquidati sbrigativamente i fondamenti storici del "mito", l'autore crede quasi esaurito il suo compito proprio nel momento in cui dovrebbe semmai cominciare. Infatti accenna appena, di sfuggita, alle funzioni politiche del mito, rilevandone due. La prima sarebbe quella "nazionale", di dispensare al popolo italiano una "autoassoluzione" per il consenso al fascismo e l'acquiescenza all'occupazione nazista: una tesi che rovescia di segno quella azionista della Resistenza come "riscatto" antifascista, compimento dell'unità nazionale e "biglietto di ritorno" nella 73 comunità internazionale , e che richiama lo sprezzante (e politicamente interessato) giudizio dei Comandi Alleati, in particolare britannici, ostili a riconoscere all'Italia crediti da far valere al tavolo della pace. Del resto non a caso Gobbi pesca questo vieto 74 argomento del "troppo comodo cavarvela così" da un "antropologo americano" . Aria sempre fritta nelle virtuose filippiche sulla rimozione della cattiva coscienza collettiva, 75 dall'arringa dell'avvocato Vergès nel processo al "boia di Lione" alle Geremiadi del 76 "caso Jenninger" . Ma il vero bersaglio di Gobbi è l'altra funzione del mito, quella di fondare la Repubblica sulla formula dell'"unità antifascista". A questa formula Gobbi rivolge tre diverse accuse. La prima è di aver "impedito il formarsi in Italia di una vera dialettica tra governo e opposizione" e quindi "l'alternanza nella gestione del potere". La seconda, 77 ripresa da Edgar Morin , ‚ di aver "confuso le idee", ricomprendendo nel fascismo anche il semplice "autoritarismo". La terza è che il "perdurare dell'ideologia resistenziale è stato determinante per la nascita e lo sviluppo del terrorismo". Gli accenni di Gobbi sono telegrafici, ma contengono la chiave di lettura ideologica e il senso politico del pamphlet, che è di riciclare in un linguaggio apparentemente "liberal" la vecchia polemica neo"bordighista" contro il togliattismo. 78 Così l'accostamento alla metafora Jüngeriana "passare al bosco" ingentilisce l'esplicito invito di Gobbi a una "nuova Resistenza" contro la vacillante "Repubblica nata dalla Resistenza e fondata sull'antifascismo", da parte di "una nuova schiera di intellettuali, che non abbiano giurato fedeltà alla prima Repubblica, che siano uniti da un'esperienza 79 comune di opposizione radicale al sistema politico" . A chi alluda, lo dice poi in un'intervista: "I post-sessantottini: quelli di Lotta Continua, di Potere Operaio, di 80 Avanguardia Operaia" . La prima accusa è in sostanza quella rivolta all'interpretazione "unitaria" e "nazionale" (e "togliattiana") dalle interpretazioni minoritarie di sinistra, sia quella democratica (azionista) sia quella rivoluzionaria, accomunate dalla formula della "Resistenza tradita" (da reazionari e "moderati", secondo gli azionisti:

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dall'"opportunismo" filosovietico di Togliatti, secondo i rivoluzionari) . La seconda accusa È un corollario della prima, e riguarda la formula della "Resistenza continua", usata dal PCI sia per tenere buona l'ala rivoluzionaria del Partito, sia per rivendicare il coinvolgimento dell'opposizione comunista nelle grandi scelte della politica nazionale (e cioè quello che i politologi hanno definito il carattere "consociativo" della democrazia italiana). La terza accusa consiste in una spudorata chiamata di correo, nel perfetto stile del 82 "pentitismo" di moda nell'Italia postcomunista. Infatti la responsabilità di aver incubato il terrorismo non grava affatto sulle formule togliattiane dell'"unità antifascista" e della "Resistenza continua" (che costituiscono le vere "bestie nere" di Gobbi), utilizzate semmai proprio per isolare e contrastare le tentazioni rivoluzionarie e guerrigliere della sinistra comunista: bens proprio su quelle opposte della "Resistenza tradita" e della "Nuova Resistenza" contro la Repubblica consociativa, così maldestramente e scopertamente riciclate da Gobbi nel nuovo clima degli anni '90, associandosi opportunisticamente al vilipendio dell'antifascismo e della Resistenza. Del resto lo riconosceva già nel 1984 lo stesso Giorgio Galli, cioÈ uno di coloro che lo slogan antitogliattiano l'avevano agitato fin dal 1957, al punto da leggere l'intera storia del PCI con gli occhiali di Bordiga, non vedendovi altro che una serie ininterrotta di malefatte togliattiane (dalla liquidazione degli anarchici e trotzkisti in Spagna, alla "svolta di Salerno" alla "destalinizzazione"); e che ancora nel 1976 ribadiva il giudizio, associandosi "sessantottescamente" a quello sconsolato di Luigi Longo sulle "occasioni 83 mancate" del PCI . 8. La critica di Rusconi alla visione azionista della Resistenza e alla legittimazione "antifascista" del PCI e della Repubblica Commentando le polemiche dell'estate 1990 sulle stragi del "triangolo rosso", il repubblicano Andrea Manzella avvertiva lucidamente che "elevando ad accusa storicopolitica il rilievo del profilo criminale della Resistenza à si passa inevitabilmente il segnoàsi va a colpire non il PCI o altri protagonisti politici, ma la tavola dei valori, la 'virtù' che ci fu dietro il 'terrore' (come, con cognizione di causa, distingueva 84 Robespierre): in definitiva, il nucleo fondante della Costituzione" . Furono tuttavia il saggio di Pavone (ottobre 1991) e la pubblicazione della lettera di Bobbio a Mussolini (giugno 1992), e solo marginalmente il pamphlet di Gobbi (agosto 1992), a provocare un inizio di dibattito politologico sul rapporto tra Resistenza e quella che comincia ormai ad essere chiamata "Prima" Repubblica, innescato dalle critiche di Gian Enrico Rusconi, e poi di Rocco Buttiglione, alla cultura azionista. 85

Recensendo su Micromega il libro di Pavone, Rusconi riprendeva in sostanza l'interpretazione anticomunista della Resistenza come prodromo di una guerra civile "virtuale" fra comunisti e democratici. Affermava in premessa che la legittimazione antifascista "non (era) più una risorsa credibile, spendibile sul mercato politico". A suo avviso "l'insistenza sulle affinità e convergenze tra fascismi e comunismi" (prodotta dalla crisi dei regimi dell'Est) svalutava l'antifascismo come "criterio di giudizio etico-politico sul presente", e contestava "la qualità democratica" che l'(ex)PCI derivava dalla

Resistenza. La versione azionista della "guerra civile" ribadita da Pavone gli sembrava riduttiva e fuorviante, perché obliterava la conflittualità interna alla stessa Resistenza, "sottoutilizzando" lo schema interpretativo delle tre guerre. Questo si risolveva in una "pedagogia della moralità assoluta della Resistenza (identificata con quella 'azionista')", in "un'autobiografia corale dei protagonisti attenta alla pluralità delle loro motivazioni", spiegando la "desistenza" con le loro "frustrazioni e delusioni" personali. Rusconi invitava "gli storici e gli uomini di cultura di sinistra" a considerare il "revisionismo" come l'occasione "per una più puntuale rivisitazione conoscitiva dell'esperienza storica da cui traggono origine" i loro valori ideali. E riscontrava "il senso ultimo della guerra civile" nella "ridefinizione" di ciò che unisce e ciò che separa, in definitiva del "valore nazione". Nasceva di qui, a suo avviso, la distanza dalla Resistenza: nel fatto che gli Italiani erano "diventati agnostici in tema di patria e nazione". Nel gennaio 1992 Bobbio replicò a Rusconi contestando la teoria della guerra 86 civile virtuale, e sottolineando come non a caso quella guerra non ci fu . Ma nel giugno 1992 Panorama pubblicava un secondo scoop, dopo quello, sfortunato, della lettera di Togliatti: nientemeno che una lettera del 1935 di Bobbio a Mussolini, per ribadire la propria fede fascista contro i sospetti avanzati nei suoi confronti dalla polizia politica, e una, di poco successiva, del padre, per sollecitare la riammissione del figlio ad un 87 concorso universitario . Ciò dette spunto per un nuovo e più diretto attacco di Rusconi alla "cultura azionista" . Egli contestava l'idea dell'azionismo come essenza morale della Resistenza, compromessa dall'intrusione dei partiti di massa. Gli azionisti, esemplati nella figura di Bobbio, si erano auto-emarginati dalla politica, ritenendo "di salvare l'autenticità della Resistenza nella dimensione meta-politica della moralità cultura". Considerando vera Resistenza solo la lotta armata, condotta quasi esclusivamente da azionisti e comunisti (Rusconi tace l'apporto degli "autonomi"), gli intellettuali del PdA ne avevano espunto arbitrariamente la Resistenza "passiva", la "zona grigia", dove era stata maggioritaria la componente cattolica, e non avevano compreso la cultura e la base di consenso del mondo democristiano, vedendovi solo la copertura politica di una massa indistinta di opportunisti e fascisti. In tal modo essi avevano lasciato al PCI, l'altro grande protagonista politico della lotta armata, "la regia delle memorie e dell'eredità politica della Resistenza". Un atteggiamento tuttora perdurante, che si rifletteva nella cautela di Bobbio, restio a sollecitare definitiva chiarezza sulle stragi del "triangolo rosso". Rusconi rilevava che il PCI aveva "identificata (la Resistenza) come impresa nazionalpopolare, non come guerra civile": ma aggiungeva che proprio per questo l'aveva trasformata in "una potente identificazione di parte, della sinistra socialcomunista". La tesi di Rusconi suona piuttosto stridente con la logica, perché è davvero singolare che una guerra diventi "di parte" proprio perché le si nega il carattere "civile": ma essa esprime l'imbarazzante contraddizione di fondo che segna l'interpretazione anticomunista (e soprattutto anti"nazionalpopolare") della Resistenza come prodromo di una guerra civile virtuale. Secondo Rusconi, difendendo la Resistenza, Bobbio si preoccupava di salvare la legittimazione storica della Repubblica. Ma a suo avviso era ormai tempo, "dopo l'eutanasia del comunismo, dinanzi alla virtuale disgregazione dell'intero sistema partitico tradizionale e in piena diaspora delle culture e delle moralità", di trovargliene una nuova. Non per rinnegare "le radici della Repubblica", ma "al contrario, per rivalorizzarle nei

loro contenuti fondanti, irrinunciabili, distinguendoli da quelli storicamente caduchi". Una tesi, quest'ultima, che stava alla base del pamphlet di Gobbi, uscito subito dopo il secondo intervento di Rusconi. Anche per Gobbi era ormai tempo di sostituire il vecchio mito della "patria" con il "nuovo mito" della "matria" proposto da Edgar Morin, "una religione di questa terra madre", una "nuova mitologia" che "ci dovrebbe aiutare a risolvere i più gravi problemi politico-ecologici, per uscire dalle catastrofi che si 89 annunciano" . 90

La tesi rusconiana della povera DC incompresa e bistrattata dagli "utili idioti" azionisti, piacque molto al cattolico Rocco Buttiglione, ideologo del movimento ecclesiale politico "Comunione e Liberazione". Buttiglione invitò il giovane segretario del MSIDN a compiere il passo definitivo verso la piena riabilitazione democratica 91 "riabilitando" (!) a sua volta la Resistenza . 92

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La tesi piacque invece un po' meno, com'era naturale, a Bobbio e a Pavone : accomunando Rusconi e Buttiglione, Bobbio rivendicò in particolare il primato della lotta armata sulla "zona grigia". Rusconi invece le restituì cittadinanza piena, negando che 94 nella Resistenza ci fossero "abusivi" : Buttiglione si sentì allora incoraggiato a rovesciare il ragionamento, negando a sua volta cittadinanza resistenziale proprio alla lotta armata, e riabilitando alla grande proprio l'"attesismo" tanto vituperato da quelli che, più vecchi di lui, la guerra partigiana l'avevano vista e fatta davvero. La vera Resistenza, 95 sentenziò, fu solo la "resistenza passiva", dalla quale "nacque la convivenza civile" . Poi, de guerre lasse, i quotidiani tacquero. 96

Bobbio intervenne ancora con una lettera a Il Mulino , collegando l'attacco di Rusconi all'azionismo a quello portato nel 1988, "con altrettanta veemenza", dal cattolico 97 Augusto Del Noce , in fondo continuato ora dal suo discepolo Buttiglione: ma accostandolo anche al "pamphlet anticomunista" di Gobbi. Rusconi replicò, sullo stesso 98 numero, con una lettera aperta e con un nuovo articolo , in cui commentava i punti fondamentali del dibattito: a) la tesi azionista della Resistenza come "moralità armata"; b) la rivalutazione cattolica dell'attendismo come "resistenza passiva"; c) la complessità del "mosaico cattolico"; d) il carattere "policentrico" della Resistenza; e) il rapporto tra il concetto azionista di "guerra civile" e quello di "guerra civile virtuale"; f) il carattere etico della "guerra fratricida" come ridefinizione della nazione; g) la tesi della "Resistenza tradita" e "il mito di un evento mancato"; h) il tema della "Resistenza continua" come "fonte originaria di un processo democratico in fieri". Quanto al rapporto fra antifascismo-Resistenza e sistema politico-costituzionale, Rusconi criticava come "semplicistica e antistorica" la tesi di Gobbi che l'"arco costituzionale" avesse impedito l'alternanza di governo fra partiti conservatori e progressisti, fatto dovuto "a ragioni di natura ben diversa". Ma osservava che l'antifascismo era "la premessa della democrazia, non il suo equivalente", e che dunque esso non bastava alla piena legittimazione democratica del PCI. Riconosceva comunque che la guerra civile virtuale era stata evitata grazie "alla lealtà politica di uomini che si riconoscevano in una comunanza di storia e di destino". Di una tale virtù a suo avviso c'era nuovamente bisogno, di un nuovo "patriottismo costituzionale, da intendere non già (come in un certo dibattito tedesco) quale surrogato della tradizionale identificazione nazionale, ma come

suo inveramento nella norma democratica". Sei mesi più tardi, un nuovo intervento giornalistico di Rusconi ebbe ad oggetto una prudente rivalutazione "giocata" in chiave antiazionista" del personaggio di Edgardo 99 Sogno , simbolo vivente dell'anticomunismo nella Resistenza, già resuscitato nel 1990 ad una modesta vita politica prima nel PLI e poi nel PSI, e in seguito clamorosamente elogiato proprio per il suo impegno anticomunista dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Un elogio, quest'ultimo, fatto a titolo di pubblica riparazione per l'ingiusto ostracismo inflittogli per volere della sinistra, ma che rientrava nel quadro delle polemiche per il "caso Gladio" e in particolare in una rovente quérelle personale di Cossiga con l'on. Luciano Violante, del PDS, che quindici anni prima magistrato a Torino aveva condotto contro Sogno una discussa inchiesta giudiziaria per un presunto "golpe bianco" che lo accusava di aver ordito assieme all'anziano ex-leader repubblicano Randolfo Pacciardi. 9. Un singolare recupero “habermasiano” della Resistenza come fondamento di un possibile “Verfassungpatriotismus” italiano oltre la “Repubblica dei partiti”. Rusconi ha ripreso e ampliato queste tesi, approfondendole e in parte 100 modificandole, in uno dei sei saggi che compongono un suo volume, comparso nel marzo 1993, concepito come un contributo a quello "sforzo culturale e concettuale" che egli considera necessario per recuperare oltre la crisi dello Stato-nazione, un nuovo concetto di "nazione-dei-cittadini" ("Staatbürgerschaft") collegato "all'universo dei valori 101 della società civile" , e fondato su un nuovo vincolo che Rusconi definisce "patriottismo della Costituzione" ("Verfassungpatriotismus"), ingegnandosi di dare a 102 questa formula un accento diverso da quello habermasiano . Il saggio svela il suo intento solo nelle ultime tre pagine, stemperandone così l'evidenza e forse anche l'efficacia supposta dall'autore, ma la tesi (già espressa nel precedente articolo sul n. 6/1992 de Il Mulino) risulta non di meno chiara: smorzare la polemica antiresistenziale condotta nei mesi precedenti dal composito e non sempre abile fronte del "nuovismo" antipartitocratico, sostenendo che la Resistenza non deve essere necessariamente travolta dal crollo della "Repubblica dei partiti", ma può ancora svolgere una qualche residua funzione pedagogica, se non più mitopoietica, nel nuovo sistema politico che dovrà nascere. Quasi, insomma, un avvertimento a "non buttare il bambino assieme all'acqua sporca": una conclusione più cauta che equitativa, che suona alla fine estrinseca rispetto alla sostanza e all'intento della polemica dei mesi precedenti, nella misura in cui si sforza più di sopirla e minimizzarla che di renderne conto e di risolverla: e piuttosto striminzita rispetto alle dimensioni del testo che la precede senza condurvici. Pur ammettendo infatti che il recente dibattito sulla Resistenza sia in fondo 103 originato dalla crisi della "repubblica dei partiti" , Rusconi respinge come "sterile" la tesi che lo ha interpretato come un insidioso "attacco alla Resistenza". "In realtà afferma categoricamente non ci si trova di fronte ad orchestrazioni politiche, ma a segni di un più generale disorientamento", che fa toccare "con mano la nostra incapacità di narrare, in modo critico e solidale insieme, la vicenda che ci ha riconfermato 'nazione' nel momento

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in cui rifondava su nuove basi la democrazia"

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Lo schema delle "tre guerre" tracciato da Pavone gli sembra "insostituibile ma 105 non risolutivo" : o quanto meno "sottoutilizzato", in quanto "non riesce a determinare quale combinazione tra le tre guerre condiziona effettivamente la formazione della 106 legittimità dell'ordine democratico in fieri" . Rimprovera ancora a Pavone l'imprinting azionista: "non sorprende che alla fine riproponga la tesi della interruzione della spinta innovatrice della Resistenza, senza che vengano offerti criteri di spiegazione all'infuori 107 delle delusioni direttamente espresse dai protagonisti" . Benché accolga lo schema delle "tre" guerre, Rusconi sembra in effetti riconoscerne soltanto due, la guerra "civile" e la guerra di "liberazione nazionale". Nella sua interpretazione la terza guerra, la "guerra di classe", resta sullo sfondo: essa gli appare bloccata dalla strategia del grande padronato, col suo selettivo sostegno finanziario all'antifascismo clandestino in città e ad alcune formazioni di montagna, che neutralizza “il postulato (comunista) della complicità se non dell’equivalenza tra 108 capitalismo e fascismo” e impedisce l’epurazione del fascismo economico . Peraltro osserva che, se Gobbi ha avuto il merito di ridimensionare la pretesa “lotta di classe” nelle fabbriche del 1943-45, va comunque oltre il segno supponendo negli operai “un atteggiamento agnostico e strumentale verso il movimento politico di Resistenza”. Rusconi giudica infatti i “comportamenti conflittuali” nelle fabbriche “forme tipiche e importanti di ‘resistenza’ nel senso letterale del termine, e quindi di intenzionale, non 109 solo oggettivo, logoramento del regime nazifascista” . “Meno lineare di quanto sembra” è per Rusconi anche il nesso azionista tra antifascismo “storico” e Resistenza. Il regime fascista non cade sotto i colpi dell’antifascismo: le bande partigiane si formano "del tutto spontaneamente dal basso à per un senso di orgoglio civile e patriottico contro la disgregazione dello Stato” e la Resistenza armata appare “caratterizzata fin dall'inizio e in profondità dal policentrismo 110 geografico e politico-ideologico” . Dopo aver ricordato come nella visione azionista il “vero nemico” non fossero i 111 tedeschi, bensì i fascisti , e persino per alcuni esponenti azionisti come Nuto Revelli 112 il blocco postbellico delle forze reazionarie “clerico-fasciste” , Rusconi sembra indicare nel carattere “fratricida” della Resistenza il vero “intreccio” tra la “guerra civile” (enfatizzata dalla visione azionista) e la “guerra di liberazione nazionale” (enfatizzata dalla visione comunista, ma anche sia pure per diverse ragioni dai 113 partigiani “autonomi” ). “Tra il 1943 ed il 1945 si combattono nell'Italia centro-settentrionale due concezioni di patria e nazione: quella nazional-fascista e l'idea di una nuova nazione ri-orientata ai valori democratici. Vista così la guerra di ‘liberazione nazionale’ non può che essere una guerra civile in quanto ridefinisce i criteri 114 di una nuova identità nazionale” . Il “contenuto etico della guerra civile sta nella decisione di pochi di agire, a proprio rischio, in nome dell'intera nazione riscattata". Essa fu “storicamente nel giusto” 115 perchè estese anche agli avversari il “beneficio comune” della democrazia . In tal senso

Rusconi sembra considerare contraddittoria la svalutazione della “resistenza passiva” praticata dalla maggioranza dei cattolici, considerata dagli avversari (e soprattutto dagli azionisti) come una mera mistificazione dell'opportunismo e dell’“attendismo”. Contraddittoria sembra anzi considerare la stessa polemica partigiana contro l’“attendismo” della maggioranza e contro l’“epurazione mancata” e l’amnistia ai fascisti 116 che reca la firma del Guardasigilli Togliatti . Dalla Resistenza nacque dunque una nazione nuova, segnata da una “pratica 117 politica che porta alla Costituente (1946-47) e quindi alla Carta costituzionale” : ma anche da una “lealtà reciproca” più profonda della “guerra civile virtuale” tra blocco moderato e blocco socialcomunista incombente sull’Italia del 1945-48. Le testimonianze di due ex partigiani, il cattolico Ermanno Gorrieri e l’azionista Nuto Revelli, concordano da fronti opposti nel “dato di fatto” che molti partigiani non disarmarono 118 completamente . Ma Rusconi aggiunge che “per tutti i possibili attori in causa il ricorso alle armi viene ipotizzato esclusivamente come difesa dell’ordine democratico ... di qui il paradosso di una guerra civile virtuale reciprocamente rimproverata tra parti politiche che non la vogliono, in nome della democrazia che intendono difendere”. Una conclusione, questa, che sembra tuttavia discendere troppo meccanicamente dall’interpretazione della guerra civile antifascista come rifondazione etica della nazione. E' vero che né De Gasperi né Togliatti volevano la guerra civile: ma è vero anche che soprattutto non la voleva il paese, e che questo rifiuto ebbe parte non secondaria nel plebiscito del 18 aprile 1948. Al di là della “doppiezza” e del lealismo democratico di Togliatti, il PCI era costretto a rispettare il verdetto delle urne dai rapporti di forza politico-militari interni e dalla situazione internazionale: ma questi fattori dissuasivi avrebbero sicuramente giocato in senso opposto qualora la maggioranza fosse andata al Fronte Popolare. In quel caso la difesa comunista della democrazia formale si sarebbe scontrata con la difesa democristiana e angloamericana della democrazia socioeconomica e del “limes” geopolitico, e un esito “greco” sarebbe stato molto probabile. Nella visione di Rusconi, la nazione è una identificazione collettiva che si fonda 119 sia su “comuni radici storiche” sia su “buone ragioni attuali” . Il “mito” della Resistenza ha fornito le une e le altre alla nuova nazione italiana nata dalla guerra civile. Ad un “primo livello”, il “mito fondante” della democrazia si è espresso sotto forma di “narrazione” e “memoria del sacrificio, dell’eroismo, del martirio”, allargandosi progressivamente alla celebrazione di “tutte le vittime dirette e indirette della guerra”. Una “operazione propiziata” da quello che Rusconi definisce “patriottismo dell’espiazione”, e di cui mette in risalto la “funzione auto-assolutoria per chi è stato a guardare e ad aspettare”. La sinistra vi ha contrapposto polemicamente la formula della “Resistenza continua”, considerandola cioè come “fonte originaria di un processo democratico in fieri ... sublimata a pura moralità civile e democratica”: un’operazione che Rusconi giudica pedagogica e non meno ambigua dell’altra, “non a caso insofferente” 120 verso quanto ricordi il suo indubbio nesso con il regime partitocratico . Rusconi non può contestare il “nesso Resistenza-Repubblica”, ma nega che l’“obsolescenza del regime politico cui ha dato luogo” comporti necessariamente quella della Resistenza. Senza citarne direttamente l’autore, rovescia la tesi di Gobbi che “la solidarietà nazionale dei CLN” abbia bloccato l’“alternanza”, sostenendo che proprio “il

deteriorarsi” di quella in seguito alla guerra fredda abbia prodotto “governo spartitorio, lottizzazione, consociativismo, partitocrazia ecc. per culminare nell'attuale crisi dell’intero sistema partitico e istituzionale”. Riprendendo in chiusura l’idea già espressa nel n. 6/1992 de Il Mulino, Rusconi ripropone allora una nuova funzione della Resistenza, che non si vede peraltro in cosa differisca da quella “pedagogica” poco prima rimproverata alla sinistra, né in che senso sarebbe come Rusconi perora “sottratta alla ritualità”: e cioè un moralistico recupero delle sue “virtù civiche”, e tra queste in primo luogo “la capacità di apprendere e praticare di fatto la democrazia senza aggettivi da parte di uomini e partiti che avevano concezioni diverse e antagonistiche di democrazia”, in una parola, il “patriottismo della Costituzione”. Nell’accezione di Rusconi, beninteso. NOTE 1 Friedrich Nietzsche, “Sull'utilità e il danno della storia per la vita”, 1874. 2 Prima edizione. Nuova edizione “riveduta e aggiornata” 1964 (Einaudi, Torino). 3 Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino. 4 R. Battaglia, “La storiografia della Resistenza. Dalla memorialistica al saggio storico”, in Il Movimento di Liberazione in Italia, 1959, n. 57, pp. 80131. 5 H. Michel, Les courants de pensée de la Résistance, PUF, Paris, 1962; La guerre de l'Ombre. La Résistance en Europe, Grasset, Paris, 1970 (ed. it., Mursia, Milano, 1973). 6 Sergio Cotta, Quale Resistenza?, Rusconi, Milano 1977. 7 Di Cotta Pavone cita solo, marginalmente e polemicamente, un intervento a un convegno del 1966 (“Lineamenti di storia della Resistenza italiana nel periodo dell’occupazione”, in Rassegna del Lazio, XII, 1965): op. cit., pp. 52, 615, 679, 790. 8 Cfr. Giorgio Pisanò, Storia della guerra civile in Italia, FPE, Milano, 1965. 9 L’aggettivo si riferisce al Partito d’Azione (194247). 10 L'aggettivo deriva dalla pronuncia italiana della sigla “CLN” (Comitato di Liberazione Nazionale, composto dai sei partiti antifascisti, DC, PLI, PRI, “d'Azione”, PSIUP e PCI). 11 Ernst Nolte, Der europaeische Buergerkrieg 19171945. 0ationalsozialismus und Bolschewismus, Verlag Ullstein GmbH, Frankfurt/ Main Berlin, Propylaeen Verlag, 1987 (ed. it., Sansoni, Firenze, 1988, con un saggio di Gian Enrico Rusconi). 12 Otto Kallscheuer, “Zerfall der Erinnerung. Italienische Debatten ueber Widerstand und Nation”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 2 Juni 1993, p. N5. 13 Norberto Bobbio, “Guerra civile?”, in Teoria politica, VIII, n. 12, 1992, pp. 297307. 14 Cfr. però Eugenio Tassini, “1943-1945. Perchè fu una guerra civile”, in Europeo, 25 ottobre 1991, pp. 116-122 (con interventi di Giordano Bruno Guerri, Nicola Tranfaglia, Giose Rimanelli e Vittorio Foa). 15 Luciano Canfora, “Perchè tre guerre?”, in Il Manifesto, 24 novembre 1991. Cfr. Bobbio, op. cit., pp. 298 e 3067 (nt.2); Id., “le tre guerre. La polemica sui delitti del ’45”, in La Stampa, 9 settembre 1990.

16 Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. 17 Pavone, op. cit., p. xi. 18 Pavone, op. cit., p. 225: “Fu proprioànella tensione insita nel carattere 'civile' che trovarono modo di riscattarsi gli elementi negativi tipici della guerra in quanto tale. Franco Venturi ha detto una volta che le guerre civili sono le sole che meritano di essere combattute”. 19 Cotta, op. cit., p. 44. 20 De Luna, Storia del Partito d’Azione, Feltrinelli, Milano. 1982, pp. 99 ss., 156 ss. 21 Secondo l’interpretazione di Giustino Fortunato, cit. in Cotta, op.cit., p. 45. 22 Cotta (op. cit., pp. 41 ss.) sottolinea per· tre “differenze di ordine strutturale” fra l’antifascismo e la Resistenza. Il primo fu un fenomeno “essenzialmente politico”, “tipicamente italiano” e “di élite”. La seconda fu invece “politico-militare”, con “una netta dimensione internazionale” e un “movimento di massa”. Anche per questo la mappa delle diverse componenti dell’antifascismo non corrisponde meccanicamente a quella delle diverse componenti della Resistenza, dove non tutti gli “antifascismi” storici vennero rappresentati, e dove furono presenti, oltre tutto in modo politicamente e strategicamente decisivo, non solo singoli personaggi, ma vere e proprie componenti politiche che in precedenza avevano colluso con il fascismo, quali i militari, i monarchici, i nazionalisti, gli industriali, il clero. 23 Questa espressione non ha tuttavia avuto molta “fortuna”. Essa sopravvive nel nome dell'Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia (MLI). 24 Cotta, op. cit., p. 21. 25 Cotta, op. cit., p. 105. Cfr. Luigi Longo, Sulla via dell'insurrezione nazionale, Edizioni di cultura sociale, Roma, 1954, p. xiii: “si noti ... che, ogni qualvolta abbiamo invitato gli operai a battersi contro i padroni sfruttatori e collaborazionisti con i tedeschi, abbiamo sempre sottolineato che anche le lotte operaie dovevano svilupparsi sul piano politico, patriottico e unitario proprio del C.L.N.”. 26 De Luna, op. cit., pp. 315 ss. 27 Cotta, op. cit., pp. 66 ss. (“Unita ma non uniforme”). 28 Cotta, op. cit., pp. 96 ss. (“L'unità difficile”). 29 Giovanni Frignano, Teoria della guerra di popolo, Collettivo Editoriale Librirossi, Milano, 1977. Cfr. Ilari, “Riflessioni critiche sulla teoria politica della guerra di popolo”, in Memorie storiche militari, 1982, pp. 107-172. 30 Ferruccio Botti e V. Ilari, Il pensiero militare italiano dal primo al secondo dopoguerra, USSME, Roma, 1985, pp. 339403 (“Le Forze Armate di fronte alla guerra partigiana”). 31 Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. I “bianchi” e gli “autonomi”, guidati da Enrico Mattei (DC) e dal generale Raffaele Cadorna, formarono la Federazione Italiana Volontari della Libertà (FIVL). Nel 1949 Parri guid· la scissione di una parte degli azionisti, fondando la Federazione Italiana Autonoma Partigiani (FIAP). 32 Edgardo Sogno, Il golpe bianco, Edizioni dello Scorpione, Modena 1978, pp. 61 ss. 33 Appellativo che i partigiani davano ai soldati e funzionari della Repubblica Sociale Italiana.

34 Dino Messina, “Di chi era la Resistenza. Bobbio contro i revisionisti”, in Il Corriere della Sera, 9 ottobre 1992. 35 G. E. Rusconi, “Patriottismo della Costituzione”, in Il Mulino, XL, n. 334, marzoaprile 1991, p. 327. 36 Pavone, op. cit., p. 223. 37 Cotta, op. cit., pp. 1819. 38 Longo, op. cit., p. xii. 39 Longo definiva l’attesismo “la posizione di coloro che aspettavano che gli alleati, con le loro divisioni, venissero a liquidare il risorto fascismo e l’occupazione tedesca e a investirli del governo della nazione” (op. cit., p. x). 40 Pavone, op. cit., p. xi. 41 Ilari, “Pacifismo e interventismo nella cultura politica italiana”, in Limes, I, n. 23, 1993, pp. 42 Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere (1943-1978), Vallecchi, Firenze, 1979, pp. 176 ss. 43 Ilari, Storia del servizio militare in Italia, vol. V (“La difesa della patria”), CeMiSS, ed. Rivista Militare, Roma, 1992, I, pp. 244 ss., 253 ss., 286 ss., 290 ss. 44 Ilari, Storia, cit., V, I, pp. 317 ss. 45 Donatella Della Porta, Il terrorismo di sinistra, Istituto Cattaneo. Il Mulino, Bologna, 1990, pp. 51 ss. 46 Giovanni Pesce, Quando cessarono gli spari, prefazione di Luigi Longo, Feltrinelli, Milano, 1977. 47 Il primo autore di rilievo ad asserire una “continuità” tra la Resistenza e la “contestazione” del Sessantotto (e a felicitarsene, ignorandone allora il futuro esito terrorista), è stato Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari, 1966 (4a ed. 1977, p. viii-ix). Più tardi Bocca ha sottolineato le analogie organizzative fra Gruppi d'Azione Partigiana e Brigate Rosse ma senza sostenere dirette derivazioni (Il terrorismo italiano 1970-1978, Milano, 1978). La continuità col terrorismo di sinistra è invece asserita da Giorgio Galli, Storia del Partito Armato 19681982. Rizzoli, Milano, 1986, pp. 910, e indagata nella sua genealogia (in riferimento al legame tra Pietro Secchia e Giangiacomo Feltrinelli) da Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Rizzoli, Milano, 1984, pp. 160 ss.. Cfr. Angelo Ventura, “il problema delle origini del terrorismo di sinistra”, in Donatella Della Porta (cur.), Terrorismi in Italia, Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 80 ss.; Luigi Manconi, “Il nemico assoluto. Antifascismo e contropotere nella fase aurorale del terrorismo di sinistra”, in Raimondo Catanzaro, La politica della violenza, Istituto Cattaneo. Il Mulino, Bologna, 1990, pp. 4792. 48 Pietro Di Loreto, Togliatti e la “doppiezza”. Il PCI tra democrazia e insurrezione 1944-49, Il Mulino Bologna, 1991. 49 Cfr. Nando Dalla Chiesa, Milano-Palermo, la nuova resistenza, Baldini & Castoldi, Milano, 1992; Giancarlo Caselli, “Dalla lotta al nazifascismo alla lotta alla mafia per la cultura della democrazia”, in Patria indipendente, XLII, n. 2, 31 gennaio 1993, pp. 49. Alla fine la formula si è inflazionata. Alludendo a Craxi, divenuto il politico corrotto per antonomasia, e ai progetti di amnistia per tutti gli altri inquisiti, una vignetta del disegnatore satirico Forattini mostra Andreotti col fazzoletto rosso, il mitra e la cartuccera che dice furbescamente in “romanesco”: “è la nova Resistenza! Fucilamo er tiranno, famo n'amnistia generale e magnamo per artri 50 anni!” (La Repubblica, 8 febbraio 1993). 50 Pietro Secchia, voce “Gap”, in Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza, Milano, La Pietra, II, 1971, pp. 475-476.

51 In una grande manifestazione di lavoratori contro il terrorismo promossa dal sindacato “unitario” (CGIL-CISL-UIL) dopo il sequestro di Aldo Moro da parte della Brigate Rosse (1978), un esponente dell’ANPI ritorse contro i gruppuscoli di sinistra uno dei loro simboli, quello della pistola “P.38”, osservando che durante la guerra partigiana quella era l'arma individuale degli ufficiali nazisti. 52 Pavone, op. cit., p. 733, nt. 106, lo menziona di sfuggita, in una nota di sei righe dedicata ai distintivi usati dalla Brigata responsabile dell'eccidio. Minore reticenza in Battaglia, op. cit., p. 442 e Bocca, op. cit., p. 453-454 (che peraltro giustifica l'episodio in modo disgustoso, accusando il comandante dell'Osoppo, decorato di medaglia d'oro al V.M., di "attesismo" e "grafomania", e di essere l'"uomo sbagliato nel posto sbagliato”, sordo alle esigenze della politica internazionale che avrebbero imposto “di sacrificare in parte gli interessi nazionali”). 53 Gli interventi di Pannella e i commenti di numerosi intelluali, tra cui BagetBozzo, Bobbio, Bocca, Galli della Loggia e Settembrini furono pubblicati nei nn. 56, 7, 89 e 10 di Quaderni radicali 1979, e riuniti assieme ad altri a cura di Angiolo Bandinelli e Valter Vecellio (Una “inutile strage”? Da Via Rasella alle Fosse Ardeatine, Tullio Pironti editore, Roma, 1982). Pochi mesi più tardi Pannella avrebbe incalzato il PCI anche sulla questione del movimento contro l'installazione degli Euromissili, contrapponendo un pacifismo “vero” a quello comunista, accusato di fare il gioco dell'URSS. Cfr. Ilari, “Storia politica del movimentoi pacifista in Italia (1949-1985)”, in Carlo Jean (cur.), Sicurezza e difesa, Angeli, Milano, 1986, pp. 26065; Id., “Pacifismo e interventismo”, cit., pp. . 54 Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Sellerio, Palermo, 1985. Pavone, che sostanzialmente giustifica l’uccisione, tace non solo il ruolo di Marchesi, ma anche la ragione specifica dell’attentato, e cioè l’appello del filosofo alla conciliazione: il che è quanto meno singolare in un libro dedicato al tema della guerra civile (op. cit., pp. 503-505). 55 Vittorio Foa, Il cavallo e la torre. Riflessioni di una vita, Einaudi, Torino, 1991. 56 Nuto Revelli, “Fucilavamo i fascisti e non me ne pento”, intervista ad Antonio Gnoli, in La Repubblica, 16 ottobre 1991. 57 Pavone, op. cit., p. ix. 58 Bobbio, op. cit., p. 302; Id., “La morale della Resistenza”, in La Stampa, 27 ottobre 1991. 59 Miriam Mafai, “La verità su quel triangolo rosso”, in La Repubblica, 31 agosto 1990; Bocca, “Fischia il vento urla la bufera ...”, ibidem. 60 Intervista del 4 settembre 1990 al gruppo dei “Quotidiani Veneti”. Su Franceschini cfr. Liano Fanti, S’avanza uno strano soldato. Genesi del brigatismo rosso reggiano, Sugarco, Milano, 1985, pp. 115-141. 61 Romano Cantore, “Quando il PCI era pronto per il golpe” (intervista a Salvatore Sechi), in Europeo, 1117 marzo 1991, pp. 821; R. Cantore e Vittorio Scutti, “Di Gladio ne esisteva un’altra, quella rossa”, ibidem, 22-31 maggio 1991, pp. 6-11 (intervista a Luciano Canfora alle pp. 10-11). Cfr. Bocca, “La vera storia di Gladio rosso”, in La Repubblica, 13 settembre 1991. 62 Benchè prima delle elezioni del 5 aprile 1992 il segretario del PDS avesse ventilato una candidatura di Nilde Jotti alla Presidenza della Repubblica, la vedova di Togliatti venne sostituita nell'ufficio di presidente della Camera (terza carica costituzionale dello Stato) dal leader della destra "migliorista", Giorgio Napolitano. 63 Giampaolo Pansa, “Coccodrilli senza pudore”, in La Repubblica, 12 settembre 1990. 64 La pubblicazione incompleta della “lettera” da parte dello storico excomunista Franco Andreucci offrì occasione ad un polemico intervento del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e perfino ad un

espostodenuncia dell’avvocato Augusto Sinagra per i reati di “favoreggiamento bellico” e “attività antinazionale di cittadino all'estero” contro dirigenti e funzionari dell’ex-PCI. Cfr. Carlo Rossella, “Quale Palmiro”, in Panorama, 16 febbraio 1992, pp. 3847; Pansa, “Quel Togliatti che ammazzava gli alpini”, in L'Espresso, 11 ottobre 1992, pp. 152159 (= Id., I bugiardi, Sperrling & Kupfer, Milano, 1992). In realtà il giudizio di Togliatti sulla sorte, eventualmente tragica, dei prigionieri italiani in Russia era analogo a quello da lui espresso sui bombardamenti alleati al Nord, che nel periodo della “cobelligeranza” fecero il doppio di vittime civili che durante la guerra 1940-43 (41.000 contro 18.000: le vittime civili delle rappresaglie nazifasciste furono 14.000): “noi ci sentiamo stringere il cuore a vedere le nostre città e i poveri nostri villaggi distrutti. Ma chi potrà impedire al cittadino di altri paesi di ricordarci (i bombardamenti italiani su Londra e in Spagna o l’iprite usata contro le popolazioni abissine?)” (Canfora, op. cit., p. 269). 65 Cotta, op. cit., pp. 12 ss., cfr. p. 168. 66 Cotta, op. cit., p. 4 di copertina: “la celebrazione del CLN serve a sostenere il sistema degli organismi di massa e dei loro comitati unitari, ai quali si attribuisce una rappresentatività non formale ma organica (cioè non elettiva!) che annulla la distinzione fra maggioranza e opposizione. Ne esce così svuotato il sistema di democrazia maggioritaria ed elettiva, basata sulla dialettica partitica ... Viene riproposto, nei medesimi termini di allora, un disegno respinto negli ultimi mesi della guerra di liberazione, e infine dal voto plebiscitario del 18 aprile 1948” (cfr. pp. 142 ss.). 67 Cfr. le opinioni di Vittorio Foa, Claudio Pavone e Gaetano Arfé raccolte da Simonetta Fiori, “Spazzatura d’autore!”, in La Repubblica, 29 agosto 1992. Polemiche ha suscitato l’adozione del libro di Gobbi quale testo di “educazione civica” nel prestigioso liceo classico “D'Azeglio” di Torino, dove studi· da ragazzo lo stesso Bobbio, su proposta di un docente, Francesco Coppellotti, traduttore di Ernst Nolte (Massimo Novelli, “Il libro sulla Resistenza divide il liceo antifascista”, in La Repubblica, 28 febbraio 1° marzo 1993). Rusconi definisce il pamphlet “una anacronistica resa dei conti interna alla sinistra” (Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 47). 68 Romolo Gobbi, Il mito della Resistenza, Rizzoli, Milano, 1992. 69 Cfr. Piero Ostellino, “Che fare di un mito cinquant’anni dopo”, in Il Corriere della Sera, 2 novembre 1992. 70 R. Gobbi, Operai e Resistenza, Musolini editore, Torino, 1973. 71 La svalutazione della guerra partigiana all’estero e in montagna (in quanto maggiormente “militare” e maggiormente “unitaria” dell'azione clandestina e del terrorismo urbano) è un tratto caratteristico delle interpretazioni “rivoluzionarie” della Resistenza (cfr. Cotta, op. cit., p. 31). Altro tratto caratteristico è la tendenza a ipervalutare il peso delle formazioni politicomilitari di sinistra non aderenti al CLN, come “Stella Rossa” (Torino), “Prometeo” (Milano) e “Bandiera Rossa” (Roma: cfr. Silverio Corvisieri, “Bandiera Rossa” nella Resistenza romana, Samonà e Savelli, Roma, 1968). 72 Anche così sottostimata la cifra rappresenta pur sempre il doppio di tutti i volontari che presero parte alle guerre del Risorgimento: e senza tener conto del fatto che la guerra partigiana interess· solo le regioni Centrosettentrionali, e della particolare difficoltà psicologica e pratica della scelta di unirsi alla guerriglia. Sull’entità assoluta e relativa delle forze partigiane, cfr. V. Ilari, Storia del servizio militare in Italia, vol. IV (“soldati e partigiani”), CeMiSS, ed. Rivista Militare, Roma, 1991, pp. 109-123 e 232-243. 73 Aldo Garosci, “I risultati politici della guerra partigiana”, in Quaderni di Giustizia e Libertà, n. 56, 1945, pp. 512. Tesi contestata già nel 1948 dalla storiografia moderata e filofascista (cfr. Attilio Tamaro, Due anni di storia 1943-45, Tosi editore, Roma, III, pp. 17475) quasi negli stessi termini di Gobbi. 74 David Kertzer, Riti e simboli del potere, Laterza, Bari, 1989, p. 99. 75 Antonio Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, RomaBari, 1988, pp. 105 ss.

76 Mario Pirani, Il fascino del nazismo. Il caso Jenninger: una polemica sulla storia, Il Mulino, Bologna, 1989. 77 Edgar Morin, Per uscire dal ventesimo secolo, Lubrina, Bergamo, 1989, p. 7677. 78 Ernst Juenger, Trattato del ribelle, Adelphi, Milano, 1990. 79 Gobbi, op. cit., pp. 105-107. 80 Nello Ajello, “La Resistenza, un mito da buttare”, in La Repubblica, 29 agosto 1992, p. 31. 81 Gobbi, op. cit., p. 105: “Non fu Berlinguer a inventare il ‘compromesso storico’; questa scelta politica fu fatta da Togliatti fin dalla ‘svolta di Salerno’ nel 1944 ... Da allora non ci fu vera opposizione in Italia, ma una spartizione del potere tra i partiti dell’arco costituzionale”. 82 “Pentiti” vengono pudicamente definiti dalla legge italiana i condannati per reati di terrorismo o di mafia che lucrano un regime carcerario attenuato, sconti di pena, riabilitazioni e sussidi di reinserimento sociale mediante la delazione dei complici. 83 Giorgio Galli, Storia del PCI (1a ed. 1957), Bompiani, Milano, 1976, p. iiiiv. Richiamandosi ad una raccolta di scritti di Luigi Longo comparsa nel 1975 e intitolata significativamente Chi ha tradito la Resistenza, Galli scriveva: “l’ipotesi di partenza è quella indicata nel mio libro di quasi venti anni fa: il Pci ha mobilitato meno di quanto sarebbe stato possibile le energie rinnovatrici presenti nella classe operaia e nella società italiana”. 84 Andrea Manzella, “Quel patto che nacque in montagna”, in La Repubblica, 12 settembre 1990. 85 Gian Enrico Rusconi, “Per una revisione storica della Resistenza”, in Micromega, n. 5/1991, pp. 2534. 86 Bobbio, “La guerra che non ci fu”, in La Stampa, 17 gennaio 1992. 87 Giorgio Fabre, “Alla lettera”, in Panorama, 21 giugno 1992; Bobbio, “Quella lettera al Duce”, in La Stampa, 16 giugno 1992. 88 Rusconi, “Bobbio, l’ultimo azionismo”, in Il Mulino, XLI, n. 342, luglio-agosto 1992, pp. 575-586. 89 Gobbi, op. cit., pp. 107-108. 90 Era questo l’appellativo sarcastico che gli anticomunisti davano negli anni '50 e '60 agli esponenti della sinistra democratica, ai socialisti e perfino ai “nazionalneutralisti” che accettavano la collaborazione con il PCI o si opponevano alla discriminazione nei suoi confronti. 91 P. Battista, “Buttiglione al MSI: ‘Dopo l’addio al mito fascista riabilitate la Resistenza”, in La Stampa, 17 settembre 1992; Buttiglione, “Riconciliarsi su una parola”, in Il Tempo, 19 settembre 1992. 92 G. Bosetti, “Le due storie della Resistenza”, in L'Unità, 4 ottobre 1992; Bobbio, “La Resistenza appartiene a chi ha combattuto”, in La Stampa, 11 ottobre 1992. Cfr. Dino Messina, “Di chi era la Resistenza. Bobbio contro i revisionisti”, in Il Corriere della Sera, 9 ottobre 1992. 93 Pavone, “Chi sono i veri fondatori della Repubblica”, in L’Unità, 8 ottobre 1992. 94 Rusconi, “La zona grigia della Resistenza”, in L'Unità, 6 ottobre 1992; Id., “Non ci furono ‘abusivi’”, in La Stampa, 14 ottobre 1992. 95 Buttiglione, “Ma dalla Resistenza passiva è nata la convivenza civile”, in Avvenire, 8 ottobre 1992.

96 “Lettere sull’azionismo”, in Il Mulino, XLI, n. 344, novembre-dicembre 1992: Bobbio a Rusconi, pp. 1021-1026; Rusconi a Bobbio, pp. 1027-1029. 97 Augusto Del Noce, “Dal dibattito sull'antifascismo alla malattia mortale”, in Il Tempo, 3 febbraio 1988. 98 Rusconi, “Alle radici della legittimazione della Repubblica”, in Il Mulino, XLI, n. 344, novembre/dicembre 1992, pp. 1033-1034. 99 Rusconi, “La Resistenza? Non era un Sogno”, L'Espresso, 4 luglio 1993, pp. 114-117: “Partigiano. E anticomunista. Lo capite adesso, dice Edgardo Sogno, che ero nel giusto io e nel torto Pci e azionisti? Uno studioso di sinistra prova a vedere se gli si può dare ragione. La sua conclusione ...”. Cfr. Id., Se cessiamo di essere una nazione, cit., p. 46-47. 100 Rusconi, “Le radici della legittimazione della Repubblica. Senso e mito della Resistenza”, in Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 45-100. Alle pp. 86-91 sono riportate le due Lettere sull'azionismo scambiate tra l’autore e Bobbio e già apparse ne Il Mulino, n. 6, 1992. 101 Rusconi, op. ult. cit., p. 14. 102 Ibidem, pp. 123 ss. La differenza più apprezzabile dalla sottigliezza politologica che dall'incolta concretezza dei comuni membri della “Staatbuergerschaft” consisterebbe nel fatto che Juergen Habermas considera la formula un surrogato della identificazione nazionale tradizionale, mentre Rusconi come “inveramento di quest'ultima nella norma democratica” (cfr. p. 85). 103 Ibidem, p. 50. 104 Ibidem, pp. 45 e 46. 105 Ibidem, p. 48. 106 Ibidem, p. 57. 107 Ibidem, p. 58. 108 Ibidem, p. 61. 109 Ibidem, p. 62. 110 Ibidem, p. 51. 111 Ibidem, p. 54. 112 Ibidem, pp. 74, 77, 78-79. 113 Ibidem, p. 52. 114 Ibidem, p. 59. 115 Ibidem, p. 60. 116 Ibidem, pp. 63 ss. 117 Ibidem, p. 49. 118 Ibidem, pp. 75 ss.

119 Ibidem, p. 30. 120 Ibidem, pp. 81-82. 121, Ibidem pp. 80-131. 122 H. Michel, Les courants de pensée de la Résistance, PUF, Paris, 1962;

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