Mistero Sulla Morte Di Mastrogiovanni -2-

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Politica

giovedì 13 | agosto 2009 |

Stimato maestro, due traumi nel suo passato. Lo erano andati a prelevare in forze, pare per disturbo alla quiete

Muore legato in reparto psichiatrico, era fuggito davanti ai carabinieri >> dalla prima Daniele Nalbone

Fonti interne alle forze dell’ordine raccontano di un incidente in cui, guidando contromano, alcune sere prima, avrebbe tamponato quattro autovetture parcheggiate, «ma nessun agente, né vigile, ha mai contestato qualche infrazione e nessuno ha sporto denuncia verso l’assicurazione» ci racconta Vincenzo, il cognato di Francesco. Mistero fitto, quindi, sui motivi dell’“assedio”, che getta ovviamente nel panico Francesco. Scappa dalla finestra e inizia a correre per il villaggio turistico, finendo per gettarsi in acqua. Come non bastassero carabinieri e vigili urbani «è intervenuta una motovedetta della Guardia Costiera che dall’altoparlante avvertiva i bagnanti: “Caccia all’uomo in corso”» racconta, ancora incredula, Licia. Per oltre tre ore, dalla riva e dall’acqua, le forze dell’ordine cercano di bloccare Francesco che, ormai, è fuori controllo. «Inevitabile» commenta suo cognato «dopo quanto gli è accaduto dieci anni fa». Il riferimento è a due brutti episodi del passato «che hanno distrutto Francesco psicologicamente» spiega il professor Giuseppe Galzerano, suo concittadino e carissimo amico, come lui anarchico. Il 7 luglio 1972 Mastrogiovanni rimase coinvolto nella morte di Carlo Falvella, vicepresidente del Fronte universitario d’unione nazionale di Salerno: Francesco stava passeggiando con due compagni, Giovanni Marini e Gennaro Scariati, sul lungomare di Salerno quando furono aggrediti, coltello alla mano, da un gruppo di fascisti, tra cui Falvella. Il motivo dell’aggressione ce la spiega il professor Galzerano: «Marini stava raccogliendo notizie per far luce sull’omicidio di Giovanni, Annalisa, Angelo, Francesco e Luigi, cinque anarchici calabresi morti in quello che dicono essere stato un incidente stradale nei pressi di Ferentino (Frosinone) dove i ragazzi si stavano recando per consegnare i risultati di un’inchiesta condotta sulle stragi fasciste del tempo». Carte e documenti provenienti da Reggio Calabria non furono mai ritrovati e nell’incidente, avvenuto all’altezza di una villa di proprietà di Valerio Borghese, era coinvolto un autotreno guidato da un salernitano con simpatie fasciste. Sul lungomare di Salerno, però, Giovanni Marini anziché morire, uccise Falvella con lo stesso coltello che questi aveva in mano. Francesco Mastrogiovanni fu ferito alla gamba. Nel processo che seguì, Francesco venne assolto dall’accusa di rissa mentre Marini fu condannato a nove anni. Nel 1999 il secondo trauma. Mastrogiovanni venne arrestato «duramente, con ricorso alla forza, manganellate, e calci» spiega il cognato Vincenzo, per resistenza a pubblico ufficiale. Il motivo? Protestava per una multa. In primo grado venne condannato a tre anni di reclusione dal Tribunale di Vallo di Lucania «grazie a prove inesistenti e accuse costruite ad arte dai carabinieri». In appello, dalla corte di Salerno, pienamente

prosciolto. Ma le botte prese, i mesi passati ai domiciliari e le angherie subite dalle forze dell’ordine lasciano il segno nella testa di Francesco. «Da allora viveva in un incubo» racconta Vincenzo fra le lacrime. «Una volta, alla vista dei vigili urbani che canalizzavano il traffico per una processione, abbandonò l’auto ancora accesa sulla strada e fuggì per le campagne. Un’altra volta lo ritrovammo sanguinante per essersi nascosto fra i rovi alla vista di una pattuglia della polizia». Eppure da quei fatti Mastrogiovanni si era ripreso alla grande, «tanto da essere diventato un ottimo insegnante elementare», sottolinea l’amico Galzerano, «come dimostra il fatto che quest’anno avrebbe finalmente ottenuto un posto di ruolo, essendo diciottesimo nella graduatoria provinciale». Era in cura psichiatrica ma si stava lasciando tutto alle spalle. Fino al 31 luglio. Giorno in cui salì «di sua volontà» sottolinea Licia del campeggio Club Costa Cilento «su un’ambulanza chiamata solo dopo averlo lasciato sdraiato in terra per oltre quaranta minuti una volta uscito

dall’acqua». Licia non potrà mai dimenticare la frase che pronunciò Francesco in quel momento: guardandola, le disse: «Se mi portano all’ospedale di Vallo della Lucania, non ne esco vivo». E così è stato. Entrò nel pomeriggio di venerdì 31 luglio per il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Dalle analisi risultò positivo alla cannabis. La sera stessa venne legato al letto e rimase così quatttro giorni. La misura non risulta dalla cartella clinica, ma è stata riferita ai parenti da testimoni oculari. E confermata dal medico legale Adamo Maiese, che ha riscontrato segni di lacci su polsi e caviglie della salma durante l’autopsia. Legato al letto per quattro giorni, quindi. Fino alla morte sopravvenuta secondo l’autopsia per edema polmonare. Sulla vicenda la procura di Vallo della Lucania ha aperto un’inchiesta e iscritto nel registro degli indagati i sette medici del reparto psichiatrico campano che hanno avuto in cura Mastrogiovanni. Intanto oggi alle 18, nel suo Castelnuovo Cilento, familiari, amici e alunni porgeranno l’ultimo saluto al “maestro più alto del mondo”.

> Parma, ospedale psichiatrico

I numeri del Censis parlano di una collaboratrice ogni dieci nuclei

Famiglie italiane e badanti Un paese più ricco o più “in nero”? Stefano Galieni

Il rapporto del Censis, su collaboratrici familiari e “badanti”, giunge a ridosso della regolarizzazione che riguarderà almeno 500 mila persone. Si tratta di dati quantitativi da cui emergono però importanti spunti di riflessione sul mondo sommerso del lavoro e della riorganizzazione della società nell’epoca del nucleo familiare ristretto. Dal rapporto risulta che oltre il 10% delle famiglie italiane ha alle proprie dipendenze figure di questo tipo. Rispetto all’ultima rilevazione, effettuata nel 2001, si tratta di una crescita del 37%. In stragrande maggioranza sono donne. Una parte di queste sono già regolarmente assunte e quindi garantite dal contratto generale, molte, in quanto straniere e irregolarmente presenti non lo sono altre non rientrano nemmeno in questa ricerca. Il 71,6% è costituito da donne immigrate presenti in media da 7 anni e mezzo in Italia, lavorano 35 ore alla settimana guadagnando circa 930 euro al mese. Ma se è vero che chi ha come compito quello di tenere pulita la casa finisce col “rispettare” la media delle ore lavorative dichiarate, sono tantissime quelle che, dovendo accudire anziani non autosufficienti, vivono in casa con questi. Spesso per loro, e sono tante, il confine fra tempo di vita e tempo di lavoro è labile, ce ne sono che denunciano di lavorare 18 ore di fila quasi senza avere giorni di riposo. Le 930 euro di salario poi corrispondono ad una prestazione di 35 ore settimanali a cui vanno aggiunti i regolari contributi. Caf e patronati sono pieni di vertenze di lavoratrici che denunciano di

> Due badanti al lavoro > Alexey Pivovarov/Prospekt

aver percepito non più di 600 euro mensili o di coloro che, per restare in regola con il contratto di soggiorno, si sono viste detrarre dal salario i contributi. Si apprende poi che il 58,1% lavora per una sola famiglia, le altre si dividono fra una casa e l’altra. Si spiegherebbe in questa maniera il fatto che le famiglie che dichiarano di aver una persona alle proprie dipendenze è di 2.451.0000 (il 10,5% delle famiglie italiane) mentre le lavoratrici risultano essere 1.485.000. Un gap che non può essere spiegato con la capacità e l’efficienza delle lavoratrici di saltare da una famiglia all’altra ma che va cercata nel sottobosco del lavoro nero. Quelle che possono rientrare a pieno titolo nella categoria delle “badanti” (termine spesso vissuto giustamente dalle stesse come dequalificante) sono quel 35,6% che

vive stabilmente presso la famiglia per cui lavora. L’82,9% si occupa della pulizia della casa, il 54,3% di preparare i pasti, il 42,7% anche di fare la spesa. Ma il principale ruolo sociale, quello che ha fatto passare anche ai leghisti più accaniti la voglia di procedere con espulsioni di massa, riguarda l’assistenza ad anziani, (se ne occupa il 49,5%) e a persone non autosufficienti (32,4%). In crescita esponenziale la percentuale di coloro che avendo negli anni maturato competenze professionali, provvede anche a fornire specifica assistenza medica (28,8%). La presenza di colf e badanti è oramai diffusa su tutto il territorio nazionale anche se ancora la prevalenza è nelle grandi città e nelle province centro-settentrionali, più marcata nei luoghi in cui la fram-

mentazione del nucleo familiare e le necessità lavorative creano forti condizioni di disagio per anziani e minori. Non a caso il 36,6% delle interpellate dichiara che rientra fra i propri compiti il semplice “fare compagnia”, garantire soprattutto per anziani e non autosufficienti anche un sostegno psicologico e affettivo che altrimenti manca. Il problema della regolarizzazione riguarda almeno i due terzi delle lavoratrici straniere – il resto viene da paesi comunitari o hanno ottenuto la cittadinanza – molte faticano con i rinnovi, confessano la propria condizione di irregolarità malgrado lavorino in Italia da oltre sei anni. Rispetto all’ultima rilevazione si è poi alzata l’età media delle lavoratrici, il 13,6% ha superato i 50 anni, mentre la maggioranza relativa (il 39,3%) ha una età compresa fra i 30 e i 40. Ma i numeri non riescono a raccontare progetti di vita, tentativi di lasciare una professione spesso carica di sfruttamento e di soprusi per valorizzare studi e competenze dimenticate in un cassetto nei propri paesi di origine. Gran parte delle donne impegnate in queste professioni ha infatti un tasso di scolarizzazione estremamente elevato – rapporto Caritas Migrantes – e aspira a veder riconosciuti i propri titoli per poi poter ricostruire in Italia, su basi più stabili, il proprio nucleo familiare. Molte sono quelle che tutt’ora continuano ad inviare enormi rimesse nei paesi di origine alle proprie famiglie. Donne che suppliscono a un welfare assente, forza lavoro non più status symbol dei ricchi ma di cui necessita anche il traballante ceto medio. Nell’Italia del boom economico, a svolgere questi compiti erano ragazze italiane, le preferite erano marchigiane e venete, per affidabilità e pulizia ma erano poche le famiglie che potevano vantarne l’utilizzo. Oggi, ad averne bisogno sono in molti e a competere per questi lavori sono tornate anche le donne italiane, figlie e mogli di un paese in crisi dove la forbice fra poveri e benestanti continua ad allargarsi.

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