Copyright 1976 Savelli spa 00193 Roma v ia Cicerone 44 Copertina «Davif» Illustrazione: poster satirico americano (1972)
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Indice 7. Caratteristiche e portata della crisi economica 1929-32 55. Crisi economica e lotte operaie 75. La nuova crisi dell'economia capitalistica e le prospettive politiche 93. Precisazioni e messe a puntO sulla recessione 1974-75 APPENDICE
113. 121. 133. 153.
Finito di stampare nel mese di marzo 1976 nella tipografia della Savelli spa
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Dove va r economia capitalistica? La crisi economica italiana
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Indicazioni bibliografiche
I Caratteristiche e portata della crisi economica 192~ 32 j
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Cicli e' onde lunghe' dell'economia capitalistica
E' noto che l'analisi dell'andamento dell'economia capitalistica da un secolo e mezzo a questa parte consente di individ uare con precisione il carattere ciclico dello sviluppo economico, cioè l'alternarsi con relativa regolarità di fasi di boom e di fasi di crisi. Alla base delle fasi ascendenti, in specie di quelle più marcate, hanno agito fattori propulsori specifici che hanno aperto nuovi sbocchi. Questi nuovi sbocchi sono stati determinati alternativamente o contemporaneamente ,da un'estensione dell'area geografica investita dalla produzione capitalistica, dall'introduzione di innovazioni tecnologiche, da alterazioni brusche dovute non ai rado a dei rapporti di concorrenza. L1 cause extraeconomiche durata dei cicli ha oscillato tra un massimo di dieci-undici e un minimo di sei-sette anni (per esempio un ciclo si è protratto da11825 a11836, un altro dal 1900 a11907) l. Una tendenza del pensiero economico marxista ha ritenuto tuttavia di dover individuare, al di là dei cicli classici, dei cicli
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1. Per un quadro riassuntivo completo cfr. il capitolo sulla crisi del primo volume del Trattato marxista di economia di E. MANDEL. Roma, SaveUi, 1975 z. In una prefazione al CaPitaleEngels accenna. a un ciclo decennale tra il 1825 e il 1867, aggiungendo che questo ciclo «sembra invero aver compiuto il suo corso, ma solo per ,farci approdare nel pantano di disperazione di una depressione permanente e cronica» (1886) (Il caPitale, Roma, Rinascita, 1956, libro l, 1, pp. 37-8).
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8 lunghi o, per usare un'espressione più rigorosa, delle onde lunghe dello sviluppo capitalistico. Questa interpretaZione, per la verità, è stata diffusa tra gli economisti soprattutto in seguito a due saggi di Joseph Schumpeter ed è stata oggetto' di attacchi virulenti da parte di economisti che si richiamavano al marxismo. Ciò non toglie che sia stata formulata del tutto esplicitamente, ripetiamo, da,studiosi marxisti già all'inizio degli anni venti e anticipata sommariamente anche prima da Parvus e da van Gelderen 2. L'interpretazione dei cicli lunghi è legata in particolare al nome di Kondrat' ev, un economista che, dopo essere stato per un certo tempo direttore dell'Istituto della congiuntura,economica di Mosca, venne liquidato dalla repressione staliniana, Ma anche Leone Trotskij si è avventurato su questo terreno, soprattutto in una relazione al III congresso dell'Internazionale comunista (giugno 1921), Valendosi di statistiche fornite dalle stesse fonti borghesi, ha individuato per un periodo di 138 anni, a partire dalla lotta per l'indipendenza americana, sedici cicli e, al di là di questi cicli, cinque fasi più ampie. Dal 1781 al 1851- diceTrotskijnellasuarelazione-lo sviluppo è molto lento: ci sono movimentiappenapercettibili.Vediamoche nel corso di settant'anniil commercioestero aumenta solo da 2 a 5 pounds pro capite, Dopo la rivoluzionedel 1848, che ha agito nel . senso di estendere il quadrodel mercatoeuropeo, si produce un punto di rottura. Dal 1851al 1873 la curvadellosvilupposi impenna.In ventidue anni il commercioestero aumentada 5 a 21 pounds,mentre la quantità del ferro aumentanello stessoperiodo da 4,5 a 13 kg pro capite, Poi, dal 1873 segue un'epoca di depressione. Dal 1873 al 1894 circa rileviamo una stagnazionedel commercio britannico (anche se prendiamo in considerazione !'interesse sul capitale investito in aziende estere):c'è un caloda 21 a 17,4pounds nel corso di ventidue anni. Quindisopraggiungeun altro boomche dura sino al 1913: il commercio estero aumentada 17 a 30 pounds. Infine con il 1914 comincia il quinto periodo, il periodo della distrUZione dell'economiacapitalistica. . 2. Parvus (A.L. Helphand) affrontò il problema in questione in un articolo del 1896 pubblicato da «Die Sachsische Arbeiterzeitun~, e poi in un opuscolo di alcuni anni dopo, Die Hande/krìsis und die Gewerkschaften (La crisi commerciale e i sindacati). Quanto a van Gelderen, la sua anticipazione è contenuta in un articolo della rivista di sinistra olandese «De Nieuwe Tijd.. (1913).
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Come si combinano le onde lunghe con i cicli brevi?
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Molto semplicemente risponde Trotskij -, In periodi di rapido sviluppo capitalistico le crisi sono brevi e di carattere superficiale, mentre i boom sono di lunga durata e di grande portata. In periodi di decli~o capitalistico, le crisi sono di carattere prolungato, mentre i boom sono fugaci, superficiali e speculativi. In periodi di ristagno le fluttuazioni si svolgono sulla base di uno stesso livello '.
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Trotskij doveva tornare sull'argomentoin altri scritti. Vale
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la pena di richiamarne uno una lettera alla redazione di Un giornale scientifico nella misura in cui costituisce una confutazione anticipata delle abusive identificazioni tra Trotskij stesso e Kondrat'ev ricorrenti nelle polemiche dell'epoca staliniana: Dopo il III congresso dell'Internazionale comunista, il professor come sempre eludendo Kondrat' ev ha affrontato il problema penosamente la formulazione della questione adottata dal congresso e ha tentato di definire, accanto al 'ciclo breve' di un stesso periodo di circa dieci anni, il concetto di un 'ciclo lungo' di circa cinquant'anni. Secondo questa costruzione simmetricamente stilizzata, un ciclo economico lungo si compone di cinque cicli brevi e inoltre .la metà di essi hanno il carattere di un boom, mentre l'altra metà è di crisi con tutte le fasi transitorie necessarie. La determinazione statistica dei cicli lunghi compilata da Kondrat'ev dovrebbe essere sottoposta a una verifica attenta e non eccessivamente fiduciosa, sia per quanto riguarda i singoli paesi sia per quanto riguarda il mercato mondiale nel suo complesso. E' già possibile confutare in partenza; il tentativo del professor Kondrat'ev di attribuire a epoche 'da lui definite 'cicli lunghi' lo stesso ritmo rigorosamente regolare che si può riscontrare nei cicli brevi: si tratta ovviamente di una falsa generalizzazione sulla base di un'analogia formale. Il ricorrere periodico dei cicli brevi è condizionato dalla dinamica interna delle forze capitalistiche e si manifesta sempre e dovunque, una volta che esista il mercato. Quanto ai larghi segmenti della ~urva dello sviluppo capitalistico (cinquant'anni) che il professar Kondrat'ev incautamente propone di denominare pure cicli, il loro carattere e la loro durata sono determinati non dal gioco interno reciproco delle forze capitalistiche, ma da quelle condizioni esterne per i cui canali fluisce lo sviluppo capitalistico. L'espansione del capitalismo in nuovi paesi e
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3. The Pirst Pive Years 01 Communist Internalional, New York, Piòneer Publishers, 194.5,voI. I, pp. 201-6.
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nuovi continenti, la scoperta di nuove risorse naturali e, nell'ondata di questi fattori, avvenimenti decisivi di natUra 'sovrastruttUraie' come le guerre e le rivoluzioni, determinano il carattere e l'alternarsi di fasi ascendenti, stagnanti o declinanti dello sviluppo capitalistico 4.
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Questa precisazione - importante dal punto di vista del metodo perché ribadisce la necessità di non isolare l'analisi economica dall'analisi globale delle tendenze operanti nella società capitalistica è di per sé sufficiente a mettere in guardia contro ogni tentazione di trasformare una interpretazione dell'andamento storico concreto dell'economia capitalistica in una specie di legge insopprimibile per cui cicli lunghi di sviluppo accelerato si alternerebbero inevitabilmente a cicli lunghi di ristagno o di sviluppo contenuto. Resta tuttavia che le critiche rivolte alla tesi 'Trotskij-Kondrat'ev' si sono dimostrate false; resta, soprattutto, che !'interpretazione è confortata dall'analisi storica concreta'.
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4. Lettera comparsa nella primavera del 1923 e pubblicata in «Founh International», maggio 1941. 5 . U n esempio di critica di stampo staliniano è fornito dal libro di L. L. LJUBosIC, Questioni della teoria marxista-leninista delle crisi agrarie, Torino, Einaudi, 1955: «la teoria antiscientifica del Kondrat'ev sui 'grandi cicli della congiuntUra' di 30-60 anni, tenta di spiegare le crisi agrarie persistenti con una duratUra ondata di ribasso del 'grande ciclo'. Lo schema artificiale degli inesistenti 'grandi cicli' fu inventato dal sabotatore Kondrat'ev per spiegare la profonda decadenza, lo sfacelo e tUtti gli inconvenienti del capitalismo dopo la prima guerra mondiale con la lunga onda depressiva del 'grande ciclo' cui sarebbe fatalmente subentrata una nuova era di prosperità del capitalismo. Riteniamo superfluo dilungarci ad analizzare questa 'teoria' apologetica borghese, che mira unicamente a contrapporre alla dottrina di Lenin e di Stalin sulla crisi generale del capitalismo l'affermazione della 'incrollabile perpecuità del regime capitalistico Non a caso, di questa teoria dei 'grandi cicli', che predice unà nuova era di prosperità capitalistica, si fece banditore il giuda Trotskii, agente delle spie fasciste che ardi i suoi piani nefandi e commise i suoi atroci misfatti calcolando sull'accerchiamento del capitalismo e mirando a ristabilirlo nel nostro paese» (pp. 456-7). Una critica alla «scorretta teoria di Kondrat'ev sui cicli lunghi, che anche Trotskij ha ampiamente accettato» e che si baserebbe «sull'azione che la grande crisi agraria del XIX secolo esercitò sull'industria» è introdotta di passata anche nello scritto di EUGENVARGA,La grande crisi e le sue conseguenze politiche (tradotto nel volume dello stesso Varga La crisi del caPitalismo,Milano, Jaca Book, 1971, p. 325).
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Infatti, !'ipotesi della possibilità non della 'fatalità' di una nuova fase ascendente dell'economia capitalistica, che i portavoce dello stalinismo respingevano con il consueto armamentario di argomenti di sapore poliziesco, si è dimostrata valida: non essendo stato rovesciato dalla rivoluzione e avendo superato la prova della seconda guerra mondiale, se pur con la perdita di nuove aree, il capitalismo ha conosciuto a partire dalla fine degli anni quaranta o dall'inizio degli anni cinquanta una nuova fase ascendente vigorosa che ha investito contemporaneamente gli Stati Uniti, il Giappone e l'Europa occidentale. Il quadro abbozzato da Trotskij può essere, dunque, completato come segue: dal 1914 al 1940 si è registrata una nuova onda lunga di ristagno odi sviluppo limitato, mentre dal dopoguerra (o dal 1940 negli Stati Uniti) sino al 196~-68 circa si è avuta una nuova onda lunga di sviluppo accelerato 6. Analogamente a quanto avvenuto in fasi precedenti, la fase ascendente del secondo dopoguerra è stata caratterizzata da una esplosione tecnologica. Come l'ondata dal 1847 al 1873 era stata contraddistinta dalla sostituzione della macchina a vapore con il motore a vapore, quella tra il 1893 e il 1914 dall'introduzione del motOre elettrico e del motore a scoppio, cosi l'ondata più recente ha visto l'affermarsi dell'elettronica e dell'energia nucleare. Rimane una questione aperta su cui torneremo alla fine del nostro scrit-
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to - se dopo il 1968 sia commciatao no una nuova onda lunga depressiva. 1/ .ic/o degli anni flenti
Dall'inizio del secolo all'inizio degli anni venti si erano succed uti tre cicli economici. Il primo, dal 1900 al 1907, era 6. Nel capitolo Die'lange Wellen' in der GeschichtedesKaPitalismus (Le 'onde lunghe' nella storia del capitalismo) del suo Der Spatlea.f1italismus (Frankfurc, Suhrkamp Verlag, 1972),. ERNEST MANDELtraccia il seguente quadro delle onde lunghe alternate, cioè di espansione sostenuta e di ristagno o sviluppo limitato: 1793-1825, 1826-1847, 1848-1873, 1874-1893, 1894-1913, 1914-1939, 1940 (1945)-1966, 1%7 Una sintesi di questo capitolo è stata introdotta in un articolo dello stesso Mandel, comparsb nel «Monde diplomatique» del novembre 1974.
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stato legato allo sviluppo della sidèrurgia (compresi gli usi militari), delle costruzioni navali, delle centrali elettriche e dei telefoni. Il secondo, tra il 1907 e il 1913, era stato caratterizzato dagli stessi elementi stimolanti. Il terzo,-tra il 1913 e il 1921, era stato condizionato dalle esigenze belliche e, successivamente, della ricostruzione. Tra gli elementi più specifici erano entrati in gioco una crescita notevole dell'industria chimica e !'impulso dell'industria automobilistica. Il rilando postbellico inizia dal 1919. In Europa, dove nndustria si riprende con lentezza, assume un carattere in larga misura speculativo. Negli Stati Uniti invece ha un respiro ben maggiore, con una notevole riconversione dell'industria àlle esigenze di pace. (Per non. citare che tre indicatori, la . produzione di petrolio passa da 356 milioni di barili nel J 918 a 378 nel 1919 e 442 nel 1920, la produzione di automobili aumenta nello stesso triennio da 1.153.000 a 1.974.000 e a 2.350.000, mentre la costruzione di navi ha un andamento più irregolare in quanto sale da 3.303 migliaia di tonnellate nel 1918 a 4.075 nell'anno successivo per cadere a 2.746 nel 1920). Ma già nel 1921 si verifica una caduta che comincia in Giappone nel mese di marzo per coinvolgere nel mese successivo gli Stati Uniti e quindi l'Inghilterra, la Francia. e l'I talia. . . .E' con l'avvio al superamento della crisi del 1921 che si inaugura il ciclo degli anni venti, cui porrà fine il terremoto del 1929. Tra i fattori trainanti di questo ciclo, lo sviluppo su scala mondiale dell'induStria a1.itomobilistica, dell'industria della gomma, dell'industria petrolifera, delle attrezzature industriali, degli apparati elettrici, dell'industria chimica. Si verifica un boòm delle esportazioni di capitali statUnitensi, in primo luogo in direzione della Germania. Durante questo periodo, sino alla vigilia del' crollo clamoroso, si diffonde una straordinaria euforia tra gli uomini di affari, tra gli economisti e tra gli uomini politici. Si prevede quasi senza eccezioni una durata indefinita del boom e si succedono i panegirici dell"epoca nuova' in cui esisteva ormai la possibilità del benessere universale, se non dell'universale arricchimento.
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ufficiale. Seri elementi di squilibrio politici o più strettamente economici - continuavano ad agire: si pensi ai problemi creati dal ritorno al go/dstandard con allineamenti. delle monete all'oro sulla base di rapporti rivelatisi erronei, e alle conseguenze negative per la bilancia commerciale e la bilancia dei pagamenti, nonché alla tormentosa questione delle riparazioni e dei debiti di guerra. In realtà, nell'ambito della fase cui ci riferiamo, r ascesa non è Stata affatto costante né generalizzata e il boom vero e proprio non ha avuto inizio .. che nel 1925. I dati globali indicano che tra il 1925 e il 1929 la produzione mondiale delle materie prime ha registrato un incremento dell'Il %,la produzione industriale tra il 23 e il 27% e il commercio mondiale di circa il 20% (Rev;ew o/ World Production 1925-1931, pubblicata dalla Società delle Nazioni). Ma in paesi importanti, come la Gran Bretagna e il Giappone, l'andamento è stato sensibilmente meno positivo che negli Stati Uniti e nella stessa Germania. In Gran Bretagna, se si sono sviluppate nuove industrie e se nella regione di Londra e del Sud-Est la congiuntura è stata favorevole, nel Galles, nella regione di Manchester e nel Nord-Est si è avuta una disoccupazione abbastanza elevata, soprattutto dopo lo sciopero generale del 1926. L'industria del carbone e dell'acciaio, i cantieri navali e le costruzioni hanno conosciuto una situazione depressiv~. Quanto al Giappone, il tasso di sviluppo negli anni venti è stato pari a circa la metà del decennio precedente e di quello successivo. Negli stessi paesi a sviluppo più sostenuto non sono man-
cati- anche dopoil 1925- i momentidi pausao di rallentamento. Nel 1927 un ribasso della produzione si è verificato negli Stati Uniti (nndice industriale, basato su& media 1923-25, cadeva da 111 nel maggio a 99 in se~embre). Nel 1925, d'altronde, era già iniziata la flessione nell'industria delle costruzioni. Nell'inverno 1925-26, dopo il fallimento della Stinnes nel giugno precedente, si era avuto in Germania un sensibile aumentO della disoccupazione e contemporaneamente erano calati in modo drastico gli investimenti '. 7. Oltre alle fonti via via indicate, ci serviamo largamente dei dati forniti dal recente libro di CHARLESP. KINDLEBERGER, The WOf'kJ Depress;on 1929-1932, University of California Press, 1973.
Eppure un esame anche sommario basta a mettere in luce quanto la realtà differisse dal quadro tracciato dalla retorica. I l
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Aggiungiamo qualche altro dato per dare un'idea della portata dell'ascesa di quel periodo e di certe sue caratteristiche. Negli Stati Uniti, nel momento culminante del boom, la disoccupazione era dell'ordine del 3,1 %, mentre gli aumenti complessivi dei salari tra il gennaio 1925 e il gennaio 1929 non erano andati oltre il 5% (l'aumento è statO dell'8% tra il 1923 e il 1929). Quanto ai prezzi, l'indice generale ha registrato tra il 1926 e il 1929 una riduzione di circa il 5% con un andamento opposto dei prezzi agricoli (+ 5%) rispetto a quelli delle altre merci (- 8% circa). Per passare a qualche dato più significativo, la produzione industriale, rispetto al 1913, ha segnato nel 1929 i seguenti aumenti:
Stati Uniti + 75% Belgio + 52% Francia + 39,05% Germania + 10% Gran Bretagna + 9%
mentre i profitti delle società finanziarie sono cresciuti addirittura del 150%8 . Al quadro del periodo mancherebbe un elemento importante se ndn accennassimo al boom della borsa, destir..atO a diventare oggetto di inesauribili polemiche dopo lo spettacolare crollo dell'autunno 1929. Tendenze speculative in borsa si erano delineate a partire dal 1924: già nel 1925 si era toccato in due occasioni il tetto dei tre milioni di azioni negoziate in un solo giorno e lo stesso livello era stato raggiunto tre volte nell'anno successivo. Ma era nel 1928 e nei primi mesi del 1929 che il fenomeno assumeva le dimensioni più clamorose. L'attrazione della borsa era tale che si verificavano dirottamenti dagli investimenti industriali e una diminuzione dei depositi bancari e a causa delle speculazioni borsistiche, in particolare dalla metà del 1928, si verificava anche una caduta degli stessi prestiti esteri. Finanzieri,1 speculatori e agenti di borsa costruivano un fantastico castello di sempre nuove società finanziarie, investment trusts ecc. , I escogitando
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Va da sé che questi dati hanno un valore relativo: b~ti pen~are che la Francia ha raggiunto il punto più alto della produzione industriale non nel 1929, ma nel 1930 e che, per la Germania, per ragioni ovvie, il riferimento del 1924 è più significativo di quello del 1913 (effettivamente, rispetto al 1924, il progresso maggiore è stato ottenuto appunto dalla Germania). N el corso degli anni venti la produzione industriale negli Stati Unici ha registrato un incremento notevole della produttività: l'aumento per uomo-ora è stato pari al 40%. Contemporaneamente si è sviluppato un forte movimento di concenesclusele trazione: nel 1930 le duecento maggiori società erano cresciute, rispetto a dieci anni prima~ due o banche tre volte di più delle società minori ed erano arrivate a controllare circa metà del patrimonio complessivo delle società. Abbiamo già segnalato la relativa modestia degli aumenti salariali: tra il 1923 e il 1929, come si è detto, l'incremento dei salari è scatOsolo dell'8% di fronte a un incremento della produzione industriale per uomo-ora del 32%. I profitti, invece, nell'arco del decennio, hanno registratO un aumento quasi doppio di quello della produttività, e cioè dell'SO%,
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consentire la partecipazione all'avventuroso festino anche di coloro che disponevano di capitali relativamente limitati i (grazie agli 'acquisti a termine' e con il ricorso ai prestiti di ' agenti di borsa, per cui un acquirente doveva sborsare solo una parte del valore delle azioni, in molti casi non oltre il 25%9). Il saggio di Galbraith, The Great Crash, fornisce in proposito significativi dati e illustrazioni. Solo alcune cifre per dare un'idea delle dimensioni del fenomeno. L'indice dèll'«Annalisc>" comprendente ven-. ticinque azioni industriali, passava da 138 al30 marzo 1926 a 469 il 19 settembre 1929, mentre il più celebre Dow.Jones (<<W ali Street Journal») , comprendente 400 azioni sempre 8. Cfr. a questo proposito i dati !forniti da BERLEe MEANSin Societàper azioni eproprietàprivata, Torino, Einaudi, 1966. Altre fonti e altri dati sono indicati nel volume di ARTHUR M. SCHLESINGERJR.,L'etàdi Roosevelt.La crisidel vecchioordine,Bologna, Il mulino, 1957. 9. Galbraith fornisce la cifra di un po' meno di un milione di partecipanti al boom borsistico, facendo giustamente notare ché, nonostante la consistenza del numero, non si trattava del fenomeno 'di !. massa' esaltatO dall'apologetica del periodo (The Greal Crash, Lon- ] don, Penguin, p. 102). : o
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16 dell'industria, passava da 163 nell'aprile 1926 a 381 all'inizio di "ottobre del 1929. In un periodo di tre anni la somma complessiva deU'aumento dei corsi superava i 100 miliardi di dollari. Nel 1928 l'indice delle azioni industriali elalx>rato dal 4(Times. passava da 245 a 331; le azioni Radio crescevano da 85 a 420, le Du POnt da 310 a 525, le Montgomery Ward da 117 a 440, le Wright Aeronautic da 69 a 289. Quanto ai prestiti garantiti da titoli (broker's loans), che all'inizio del decennio avevano oscillato tra il miliardo e il miliardo e mezzo di dollari, all'inizio del 1926 erano già di oltre due miliardi e mezzo per arrivare a circa tre miliardi e mezzo alla fine del 1927 e a quattro miliardi il primo giugno 1928. Nel 1929 superavano gli otto miliardilo. "Nei tre mesi estivi del 1929 l'ascesa assumeva un carattere frenetico: mentre per tutto il 1928, pure molto favorevole, !'indice industriale «Times» aveva segnato un incremento di 86,S punti, nel giugno-agosto 1929 l'indice saliva di ben 110 punti (da 339 a fine maggio a 449 a fine agosto). Quanto alle singole azioni, valgano tre esempi, sempre per i tre mesi suindicati del 1929: le Westinghouse passavano da 151 a 286, le Generai Electrie da 286 a 391 e le Steel da 165 a 258. E' stata soprattutto l'euforia della borsa a contribuire a creare quella psicologia di incondizionato ottimismo, che appare come uno dei tratti del periodo e che doveva inevitabilmente attirare l'attenzione critica dei posteri, forti del senno di poi. Si potrebbe raccogliere in proposito una esilarante antologia a dimostrazione della clamorosa incapacità di previsione sino alla vigilia stessa del disastro come del carattere antidiluviano di certe concezioni di politica economica. Herbert Hoover si meriterebbe senz'altro un posto di primo piano grazie, per esempio, a un discorso dell'Il agosto 1928, in cui non si era peritato di affermare:
17 ultimi Otto anni, vedremo presto con l'aiuto di Dio, il giorno in cui la miseria sarà bandita da questo paese.
Per parte sua, il predecessore di Hoover, Coolidge, con un candore mistO a cinismo aveva espresso nitidamente l'ideologia della classe dominante in quel periodo, ispirata a un vero e proprio culto degli affari e al mito tenace dellaissez faire: 4(Gliaffari più importanti degli americani aveva derto con singolare acutezza sono gli affari», proclamando contemporaneamente che «l'uomo che costruisce una fabbrica costruisce un tempio e l'uomo che vi lavora vi prega». La.sua .
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diffidenza verso il governo in cui pure avrebbe dovuto avere una parte non irrilevante lo aveva portatO, d'altra
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parte, a dire: «Se il governo federale scomparisse, la gente comune non se ne accorgerebbe per lungo tempo». La. cecità non era appannaggio degli uomini politici. Uomini di affari ed economisti, più o meno noti, meritano pure una segnalazione. Che cosa dire, per esempio, di illustri professori di non" meno illustri università, da Lawrence a Fisher, spietatamente rievocati da Galbraith, che facevano gli elogi della stabilità della borsa proprio pochi giorni prima del tracollo? Che cosa dire della malcapitata Harvard Economie Society che, dopo avere a lungo previsto una recessione, capovolgeva il proprio pronostico proprio nell'estate del 1929? Che cosa dire dei violenti attacchi di cui erano immediatamente oggetto quei pochissimi che osavano avanzare l'ipotesi che il boom non potesse durare indefinitamente? Di contro all'incapacità degli esponenti del capitalismo di prevedere le reali tendenze di sviluppo va ricordata l'acutezza di analisi e di previsione di chi si sforzava di applicare correttamente il metodo marxista. Già all'inizio degli anni venti, quando si era delineato il rilando del dopoguerra, si erano sviluppate intense discussioni sulle prospettive dell' economia capitalistica e l'Internazionale comunista era stata una dei principali teatri di queste discussioni. Nella relazione già citata Trotskij non aveva affatto negato le possibilità di una ripresa, come non doveva negarle in scritti successivL Ma aveva sottolineato come, nel contesto dato, le fluttuazioni clcliche si sarebbero inserite in un quadro complessivo, in un' 'onda lunga' di depressione o di crescita contenuta. La stessa tendenza era individuata da Varga in un libro .
Oggi noi americanisiamo più vicinial trionfo finale sulla miseria che in qualsiasi altro momento in qualsiasialtra nazione.Gli ospizi dei poveri stanno scomparendo.Non abbiamo ancora raggiunto la meta, ma se ci saràdatal'opportunitàdi proseguirecon i metodi degli lO. Ci sono leggere differenze tra i dati forniti da Galbraith e quelli forniti da Varga (op. cit., p. 150). Ma non infirmano la portata del fenomeno.
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del 1922, con un esplicito richiamo a Trotskij che allora non aveva ancora un sapore ereticale H.
registrava un nuovo clamoroso crollo. Questa volta i banchieri non solo non intervenivano, ma dichiaravano esplicitamente
che non era loro obiettivo mantenere un determinato livello .,..
Lo scoPPiodella crisi
Segni premonitori. della crisi si erano avvertiti sin dalla primavera del 1929. La borsa di New York aveva conosciuto una prima giornata difficile il 26 marzo, quando erano stati scambiati oltre Otto milioni di azioni e l'indice del «Times» aveva registrato una caduta di 15 punti. In settembre si verificarono delle flessioni, preannunciando la fine del portentoso boom. Ma l'uragano che doveva sconvolgere Wall Street si scatenava tra il 24 e il 30 ottobre con un succedersi di vicende drammatiche e con una caduta verticale delle quotazioni. La grande depressione, destinata a marcare profondamente gli Stati Uniti e, in misura più o meno grande, il mondo intero, si era irresistibilmente messa in moto. Il crollo in borsa cominciava con il precipitare di una serie di titoli mercoledi 23 ottobre. Ma il panico scoppiava soprattutto il mattino successivo, il giovedl nero: tutti cercavano di vendere, gli acquirenti venivano meno e le quqtazioni si abbassavano vertiginosamente. Venivano scambiati éomplessivamente tredici milioni di azioni! A metà della giornata i grandi banchieri decidevano di intervenire energicamente, costituendo una specie di pool di acquirenti cui quattro grandi banchieri contribuivano ciascuno con alcune decine di milioni di dollari (la cifra esatta è oggetto di contestazione: alcuni l'hanno valutata a 40 milioni di dollari ciascuno, altri a una somma tra i 20 e i 30 12).Il risultato voluto era raggiunto: la valanga veniva contenuta. Si trattava, tuttavia, di un successo effimero. Già all'inizio della settimana successiva i titoli subivano nuovi massicci cedimenti e il 29 ottobre il martedì nero
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11. C'è appena bisogno di dire che le previsioni della relazione citata non si sono realizzate interamente. Ma era stata colta in termini sostanzialmente corretti la caratteristica generale del nuovo ciclo. 12. Nei giorni immediatamente successivi i banchieri ributtavano sul mercato una buona parte dei titoli acquistati per tutelarsi contro il pericolo dei crolli che poi si Sono effettivamente determinati.
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dei titoli. Il giorno dopo si delineava una parziale ripresa, ma: poi la parabola dlsceiioente'riprendeva sino a toccare punte i record negative il 13 novembre. j Qualche elemento sulle dimensioni dei fenomeni men._. .. .
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zionati. L'indice Dow Jonescadevada 381 il3 settembre a 198 il 13 novembre (alla fine dell'anno doveva risalire sino a 250). Secondo !'indice deU'«Annalist» dal 19 settembre al 13 novembre si verificava una caduta da 469,5 a 221 (con un ricupero sino a 275 il 21 dicembre). Secondo l'indice del ((Times» il 29 ottobre si produceva una flessione di 43 punti con un annullamento dei guadagni registrati nel corso dei dodici mesi precedenti. Lo stesso giorno erano vendute alla borsa di New York ben 16.410.030 azioni. Il 28 ottobre le azioni della General Motors diminuivano il loro valore di circa due miliardi di dollari. Quanto alla perdita complessiva registrata dalle azioni in poche settimane, sempre àlla borsa di New York, ammontava a oltre 26 miliardi di dollari (con una diminuzione di valore di circa il 40%). Nelle tre giornate dell'Il, 12 ,e 13 novembre l'indice del «Times» subiva una nuova flessione di 50 punti. Per evitare di ritornarci, aggiungiamo qui qualche dato riguardante l'arco complessivo della crisi. L'indice ((Times»che era a 224 alla chiusura del 13 novembre 1929 - scendeva sino a 581'8 luglio 1932. Nello stesso periodo le azioni della Standard Oi! precipitavano sino a 22 (262 il 3 settembre 1929) e quelle della General Motors sino a 8 (73 il 3 settembre 1929). La caduta era ancora più catastrofica per i cosiddetti investment trusts, che tanta par~e avevano avuto nell'ascesa.. speculativa. Sempre 1'8 luglio 1932 Blue Ridge era scesa alla quotazione di 63 tent e Shenandoah di 50. United Founders e American Founders erano attorno ai 50 cent, mentre il 3 settembre 1929 avevano raggiunto rispettivamente 70 e 117 dollari 13. 13. Molti dei dati che riportiamo, risalenti a varie fonti, sono stati utilizzati negli studi citati di KindIeberger, Galbraith, Varga e Schlesinger. KindIeberger riporta, per parte sua, una esauriente tabella sui corsi medi delle azioni in vari paesi dal gennaio 1926 al settembre 1935.
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Sulle cause del crollo a Wall Street e sui rapporti tra questo crollo e la grande depressione si sono accese sin dall'autunno del 1929 polemiche e discussioni. Galbraith, nello studio citato, ritiene che il crollo sia stato p.ro.vocatoy-,inultima analisi, dal venir meqQ"q~Uajid.ucia-Non c'è dubbio che il clima di euforia alimentato dalle ripetUte prese di posizione aì banc@eri,economistie uominidi governo, aveva CO~!Q~J1Q._~n'~.9Igjmu:kd2.QQm.AellaQ.~a. Era inevitab"ITeche un movimento in senso inverso si delineasse e con rapidità non appena cominciasse a essere intaccata la fiducia nella inesauribilità della portentosa ascesa. Quanto : più la costruzione era stata stimolata e tenuta in piedi con artifici di ogni genere e quanto meno aveva Cor.d§p.9ncle.oza... ! con l'andamento reale deii~conò'mia~-i:aiito-pli)improvviso e
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le dimensioni raggiun~e negli Stati Uniti tra il 1925 e il 1929 e soprattutto tra il 1928 e il 1929 -; mai il capitalismo ha subito una catastrofe borsistica della portata di quella che ha sconvolto Wall Street nelle giornate 'n~re' d. un ottobre divenuto un puntO di riferimento quasi obbligato. Queste semplici considerazioni sono sÙfficienti a confutare l'ipotesi secondo cui la grande depressione avrebbe avuto come causa prima il croUo di Wall Street. L'interpretazione opposta corrispondente ai criteri di indagine marxisti e condivisa anche da molti che al marxismo non si richiamano ma che sanno cogliere la reale concatenazione dei fenomeni è confortata, peraltro, dalla cronologia degli avvenimenti. I sintomi inequivocabili di un mutamento di congiuntura si erano manifestati, infatti, prima delle drammatiche settimane di ottobre, e il fatto che sul momento fossero stati SOttOvalutati non altera minimamente la sostanza delle cose. .v ediamo più concretamente. L'indice complessivo «Annalist» registrava per il periodo tra maggio e novembre l'andamento seguente:
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\"-r~viDoso.dovevà-essere ii croilo:'Perricorrere'~'~~ ~g~
sportiva, un atleta che, si droga può realizzare per un certo periodo eccezionali performance, superiori a quelle che i suoi mezzi normalmente gli consentirebbero; ma quando la saturazione è raggiunta e l'organismo ha una reazione di rigetto, sopraggiunge inevitabilmente un collasso demolitore. Al di là delle manifestazioni macroscopiche, il meCC!l~ismo negativo veniva messo in moto da coloro che, per essere più direttamente legati al contesto produttivo o per avere comunque mantenuto una maggiore lucidità di analisi, per primi avevano avvertito che la congiuntura era giunta a una svolta e che non sarebbero servite nuove iniezioni di stupefacenti. Proprio le vendite da parte di costoro avevano determinato i primi sintomi di flessione ai primi di settembre del 1929. Qui arriviamo alla causa fondamentale del crash. Se non esiste una corrispondenza meccanica e tanto meno una corrispondenza inunediata tra congiuntura economica e andamento della borsa, ciò non toglie che il secondo elemento non può affatto prescindere dal primo. Quando l'economia encra in difficoltà e poi in una crisi vera e propria, quando diminuiscono, si contraggono e in certi settori scompaiono i margini del profitto, il mercato borsistico encra a sua volta in crisi e, ripetiamolo, tanto più esplosiva e drammatica è questa crisi quanto maggiore era stata la precedente divaricazione tra potenzialità economiche reali e. operazioni speculative. Mai nella storia del capitalismo tale divaricazione aveva raggiunto
maggio giugno
= 108,8 = 107,5
luglio = 108,5 agosto = 106,8 settembre = 105,7 ottobre = 103,7.
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L'indice della produzione industriale elaborato dalla Federal Reservecalava nell'ottobre a 117, mentre era stato di 126 quattro mesi prima. L'industria automobilistica passava in migliaia di unità da 636 in maggio a 576 in giugno, 518 in luglio, 513 in agosto, 430 in settembre, 394 in ottobre, 214 in novembre e 160 in dicembre. La produzione dell'acciaio subiva pure una contrazione già partire da maggio: da 126 (migliaia di tonnellate) a 124 in giugno, 122 in luglio, 121 in agosto, 117 in settembre, 116 in ottobre e 106 in novembre. Quanto all'industria delle costruzioni che, come si è visto, aveva cominciato a declinare già nel 1925 -,registrava una ulteriore caduta: 652 in luglio, 489 in agosto, 445 in settembre, 446 in ottobre, 350 in novembre e 300 in dicembre (le
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cifre indicano i contratti mensili di costruzione espressi in milioni di dollari). Secondo altri dati gli investimenti netti in case di abitazione diminuivano rispetto al 1928 di un miliardo di dollari. Nello stesso tempo si delineava un aumento delle SCorte commerciali che passavano da 500 milioni di dollari nel 1928 a 1800 milioni nel 1929, mentre diminuivano nettamente gli acquisti da parte dei consumatori (+ 7,4% nel 1927-28, 1,5% nel 1928-29). Quanto all'occupazione !'indice (1925 100) aveva la seguente evoluzione: maggio 121, giugno 126, luglio 124, agosto 123, settembre 121, ottobre 117. I prezzi cominciavano a scendere, in generale, a partire da settembre con un movimento destinatO a protrarsi per tre anni. L'indice complessivo dei prezzi del Bureau of Labour Statistics passava da 140 in settembre a 135 in novembre e dicembre, Contemporaneamente si delineava una progressiva contrazione delle importazioni (le esportazioni cominceranno a declinare dal gennaio 1930 14). Se il boom speculativo della borsa e il successivo crollo non possono essere considerati come la causa della grande crisi, ciò non significa, tuttavia, che non abbiano avutO effetti rilevanti. Come si è accennato, non c'è dubbio che l'euforia borsistica ha con~~C?~ ~t~olare, sia pure artificios~ente, l,la..c_0':1~~~t':l.~}àvor~vole,come vi ha contribuito, su un altro piano, il diffondersI delle vendite rateali (si calcola che nel i 1929 circa un terzo delle automobili fossero acquistate con i questo sistema). In altri termini, le risorse derivanti da operazioni o speculazioni sulle azioni e l'a\up~mQ d~J.potere diacq~is~ di certi strati almeno della popolazione dilatavano \ -la domanda e contribuivano a prolungare la durata dell'alta congiuntura, Abbiamo menzionato, d'altro canto, altri effetti del boom borsistico, specie nell'ultima fase: si verificava una deviazione dagli investimenti direttamente produttivi a investimenti di carattere speculativo e si contraevano, a partire dal giugno del 1928, i prestiti esteri. In questo senso, la speculazione borsistica incideva sull'andamentO produttivo,
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14. Per questi dati, richiamati anche da Schlesinger, cfr. J. M. KEYNES, Fluctuations in Net Investments in United States, in ..Economical Journal~, settembre 1936 e WILSON,Fluctuations.
1i"ese non è facile stabilire -ésattamente in quale misura (si iiga presente, tra l'altro, che in non pochi casi i prestiti 'i::èri erano una forma di sostegno alle esportazioni ericane e la loro riduzione poteva comportare una conrazione di certi sbocchi l'). Certo è che il crashha contribuitO notevolmente a dare alla risi la forma esplosiva che nessun' altra crisi dell'economia apitalistica ha assuntO in ugual misura prima o dopo di allora. Il fattore psicologico ha avutO un'influenza molto grande, sc>pratttitio pér il fattO che la catastrofe si è prodotta in un ambiente sociale, politico e culturale preso completamente alla sprovvista perché cullato da millenaristiche illusioni. Il croUo deter.~ina.:v.~_una.ridistribuzione di ricchezza; i gruppi l'iÒ forti riuscivano ad approfittare anche di quella contingenza.. Ma complessivamente il potere ciL?-cqp,istOsubiva un~ drastica riduzione, soprattuttO per quanto riguarda quegli stratI -..:.-nUmeriCaménte abbastanza rlsti:ètti '-1 cui consumi.. a:çcrèsciuti erano stati un elemènto. di sostegno nella fase ascendente. E la rovina di strati dLa.zionlsti costringeva ' costOro a vendere, anziché ad acquistare, una serie di beni di f consumo (automobili, oggetti di vestiario, di lusso, appartamenti ecc.) di modo che la saturazione del mercato si accentUava e i prezzi cadevano ulteriormente, Commercianti e pic-\ coli e medi industriali erano trascinati in questO vortice.
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Il collasso dei titoli ha notato opportunamente Galbraith colpi in primo luogo i ricchi e gli agiati. Ma rileviamo che nel mondo del 1929 si trattava di un gruppO vitale. I membri di questo gruppO disponevano di una larga aliquota del redditO dei consumatori; erano la fonte della parte del leone del risparmio personale e dell'investimentO. Qualunque cosa avesse colpito la' spesa o gli investimenti di questo gruppO, avrebbe avutO vasti effetti sulla spesa e sul reddito dell'economia in generale. Il crollo della borsa sferrò appuntO questo colpo. Per di più, il crollo tOlse brUscamente all'economia il sostegno che le era venutO dalla spesa dei guadagni realizzati in borsa.
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SuU'influenza che la distribuzione del reddito di allora con il contenimento della dinamica dei salari operai e la com15. Il crash stimolava a sua volta una ulteriore, drastica caduta dei prestiti esteri con conseguenze molto serie sulle esportaZioni del grano, del cotOne, del tabacco ecc.
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pressione dei redditi contadini ha avuto nella genesi della grande depressione avremo modo di ritornare in sede di analisi delle cause del fenomeno.
rendita fondiaria deve essere, comunque, pagata, che egualmente gravano in modo costante certe spese generali, che le spese fisse non variabili sono percentualmente più alte di quelle dell'industria, che la riduzione della procluzione o l'eventuale riconversione richiede maggior tempo che nell'industria. Il citato studio di Ljubosic fornisce in per il periodo tra il 1923 e il 1935 dati di per proposito sé eloquenti. Per riferirsi qui a un solo elemento, l'incidenza percentuale della rendita fondiaria sul prezzo del frumento ha avutO la seguente evoluzione:
La crisi agraria
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Un problema che si sono posti tUtti gli studiosi della grande crisi è quello della incidenza che ha avuto nella sua genesi e nel suo sviluppo la prolungata crisi agraria. E' necessaria a questo p~oposito una breve digressione. Sino alla metà del secolo scorso approssimativamente l'andamento dell'agricoltura aveva avuto un peso determinante
.1923
sullo svolgersi dei ciclieconomici 16. Successìvamente,il ciclo
-
era ovviamente
più alta
-
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1930 = 50,7% 1931 = 53,9% 1932 = 52,9%
Eugen Varga ha scritto che «nell'economia agraria predominava la produzione semplice di merci e la prod uzione per il proprio bisogno» 17, in altri termini, economia c6ntadina aveva il netto sopravvento sull'economia capitalistica. Un'affermazione cosi drastica doveva inevitabilmente attirare dure critiche: tra gli stessi economisti sovietici trovava decisi oppositori: tra gli altri, Liubosic criticava Varga sia su questo punto sia sulla concezione complessiva della crisi agraria 18. Resta, tuttavia, che la composizione organica del capitale continuava a essere notevolmente più bassa in agricoltura che nell'industria con tutte le conseguenze che ne discendono; Le specificità sommariamente indicate hanno come prima implicazione che la crisi agraria si manifesta meno come caduta della produzione che come caduta dei prezzi e incrementO delle scone. Solo a più lungo termine si verifica una
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e talora sensibilmente
16. Marx ha indicato, per esempio, nel cattivo raccolto del 1846 la causa della importante crisi del 1847 (Il capitale, cit., libro 111,2, p. 89). Secondo KindJeberger !'influenza decisiva del raccoltO si è fatta sentire sino al ciclo del 1857 e «forse del 1866" (op. cit.. p. 85).
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Ciò significa che proprio nei momenti più gravi della crisi, data la dinamica discendente dei prezzi, la «spesa fissa» della rendita ha pesato maggiormente sul contadino.
più alta in quasi tutti gli àltri paesi decisivi. Altro dato utile per la t:omprensione delle ripercussioni della crisi: sempre nel 1929 le esportazioni corrispondevano al 28% del reddito agricolo statunitense. Alla radice delle crisi agrarie sono le contraddizioni tipiche dell'economia capitalistica in generale e le crisi si manifestano con i classici fenomeni di sovrapproduzione. Ma nell'agricoltura, dati i tratti specifici (carattere monopolistico della proprietà della terra, presenza della rendita fondiaria) che limitano la penetrazione del capitalismo o le danno un'impronta particolare, la elasticità, cioè l'adattabilità alle esigenze della crisi, è considerevolmente minore. Basti ricordare che la
= 38%
1926 = 26,2% 1929 = 36%
aveva acquistato una relativa indipendenza rispetto alla produzione agricola. Ciò non significa, c'è appena bisogno di accennarlo, che l'andamento della produzione agricola fosse irrilevante. Basti ricordare che nel 1929 e a {ordori nei decenni precedenti il peso dell'agricoltura nella produzione complessiva continuava a essere notevole con l'impiego nel settOre agricolo di una aliquota consistente della popolazione attiva. Valga l'esempio degli Stati Uniti, dove nel 1929 un quarto dell'occupazione riguardava ancora l'agricoltura. La percentuale
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17. Op. cit., p. 323. 18. Dalla premessa analitica di Varga discendeva la tendenza a ridurre la crisi agraria a una crisi dell'economia contadina. Ora, da ln latO il processo di decadenza della piccola azienda non è affatto limitato ai periodi di crisi, dall'altro la crisi coinvolge tutta l'agricoltura, anche quella in cui maggiore è stata la penerrazione capitalistica.
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26 riduzion~ anche sensibile della produzione, non di rado con una contrazione delle aree coltivate (questo secondo fenomeno è, tuttavia, il più delle volte conseguenza di misure di politica economica che tendono a incoraggiarlo con premi, concessioni ecc.). In secondo luogo - ed è' un punto ancora più importante le crisi agrarie hanno avutO la tendenza ad assumere ritmi di sviluppo ben diversi da quelli delle crisi industriali, cioè meno bruschi e molto meno rapidi. In questo senso non esiste una corrispondenza esatta tra i due cicli, i cicli agrari essendo notevolmente più estesi, al di là delle effettive
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oscillazioni interne.
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Da questO sarebbe errato ricavare la conclusione che si tratti di fenomeni del tutto indipendenti. Ripetiamo: i ritmi e certe caratteristiche sono diversi e non esiste una corrispondenza esatta. Ma, in primo luogo, le cause strutturali sono le stesse (la crisi agraria è pur sempre una crisi capitalistica di sovrapproduzione che nasce dalle contraddizioni fondamentali del capitalismo). In secondo luogo, le crisi industriali tendono inevitabilmente ad aggravare le crisi agrarie nella misu,ra in cui comportano un restringimento degli sbocchi, mentre il protrarsi di una crisi agraria anche in una congiuntura globalmente favorevole è un ostacolo a uno sviluppo sostenuto dell'industria. Nel corso dell'ultimo secolo si sono avute due grandi crisi agrarie prolungate: la prima dal 1873 al 1895, la seconda dal 1920 al 1940. Il semplice dato cronologico suggerisce due coincidenze. La prima - meno importante - è la coincidenza dell'inizio di una crisi agraria con una crisi industriale (1873 e 1920-21). La seconda è una coincidenza delle due grandi crisi agrarie con due onde lunghe di crescita contenuta o di ristagno relativo (1873-95 e 1920-40). Si tratta di una conferma empirica, in ultima analisi, dell'azione reciproca che pur sempre esiste tra i due fenomeni. La crisi agraria dell'ultimo quarto del secolo scorso come gli studiosi marxisti non hanno mancatO di rilevare già a partire da Kautsky - ha tratto origine dalla concorrenza ttansoceanica che, in seguito allo sviluppo dei mezzi di trasporto, aveva investito violentemente l'Europa. L'agricoltura transoçeanica godeva dell'essenziale vantaggio di non essere gravata
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dalla rendita fondiaria e di svilupparsi su terreni in cui era possibile ottenere per i grandi prodotti di base rendimenti più elevati. Ciò valeva per le due Americhe E per l'Australia. Nel caso dell'India e della Russia entravano in gioco fattori diversi, ma con lo stesso risultato; i prodotti potevano affluire sul mercato a prezzi più bassi. Ne derivava una caduta generalizzata dei prezzi, dovuta sia all'abbassamentO del valore di mercato sia all'abbassamentO dei prezzi al di sotto di questo stesso valore, data la sovrapproduiione. La cristallizzazionedella rendita, la lentezza e l'insufficienzadella sua riduzione in un periodo di diminuzionedel sovrapprofittoche è la rendita fondiariastessa scriveLjubo§ic furono alla loro volta una delle cause principalidella peculiaritàe della durata eccezionale della crisi agraria 19.
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Il superamentO della crisi avveniva per l'azione convergente delle riconversioni culturali (sviluppo della produzione del bestiame, trasformazione a prato e a pascolo di terre prima coltivate a grano), e cioè di una almeno parziale nuova divisione mondiale del lavoro, di una razionalizzazione
19. Il seguente passo di Engels è stato giustamente rievocato in
tutti gli studi marxistisull'argomento:
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«I transatlantici, le ferrovie dell'America settencrionale e meridionale e quelle dell'India, dettero a paesi del rutto particolari la possibilità di affacciarsi come concorrenti sui mercati granari europei. Da un lato c'erano le praterie dell'America settentrionale, le pampas argentine e le steppe, già per natura adatte a essere dissodate con l'aratro; terreni vergini che da molti anni producevano abbondanti raccolti anche con sistemi primitivi di coltivazione e senza concime. Dall'alcro c'erano le terre delle comunità contadine russe e indiane, costrette a vendere parte del loro prodotto, e una parte sempre maggiore, per recuperare il denaro necessario al pagamento delle imposte che l'implacabile despotismo dello StatO spremeva da esse, spesso per mezzo della toreura. Questi prodotti venivano vendUti al prezzo offerto daI mercante, poiché il contadino, alla scadenza di un pagamento, doveva procurarsi il denaro a ogni costo. Di fronte a questa concorrenza, di fronte alla concorrenza della terra vergine della steppa e dei contadini -russi e indiani oppressi da imposte insostenibili, il fittavolo e il contadino europeo non potevano .più continuare a pagare le vecchie rendite. Una parte della terra in Europa si dimostrò definitivamente incapace di sostenere la concorrenza della produzione del grano e le rendite caddero dovunque».
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ottenuta con un uso delle macchine facilitato dalla diminuzione dei prezzi industriali, dall'introduzione di dazi protettivi. Contemporaneamente si era venuta delineando una certa parificazione delle condizioni strutturali: in particolare negli Stati Unici si era esaurita la riserva di terreni liberi e si era imposta la rendita fondiaria. La seconda crisi agraria ha: dimensioni mondiali: non colpisce un continente in particolare, ma li coinvolge tutti. D'altro canto, investe non solo alcuni settori, ma tutti i settori senza eccezione, rendendo cosi assai più difficile un recupero
tramite.nuove riconversioniculturali.
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L'inizio della crisi risale alla prima metà del 1920. Il fenomeno assume Particolare gravità negli Stati Uniti, dove il reddito agricolo lordo cade da 17,7 miliardi di dollari nel 1919 a 10,5 miliardi nel 1921, mentre nello stesso periodo !'indice complessivo dei prezzi agricoli scende da 215 a 125. Conseguenza della crisi: diminuiscono notevolmente i prezzi della terra e aumentano notevolmente i debiti (le spese per interessi per ettaro raddoppiano tra il 1916 e il 1923). Dopo il 1921, con l'inizio del nuovo ciclo economico, si registra una ripresa dei prezzi, e tra il 1924 e il 1928, in corrispondenza con l'alta congiuntura, si opera una certa ristabilizzazione. Tuttavia, si accentua e si generalizza il cosiddetto fenomeno delle forbici, cioè la divaricazione tra prezzi agricoli e prezzi industriali a vantaggio di questi ultiJni. Contemporaneamente aumenta in misura considerevole il peso della commercializzazione dei prodotti. (con il divario tra prezzi all'ingrosso e prezzi al minuto). Si delinea cosi un tratto caratteristico della nuova crisi. A gravare sull'agricoltura non è più solo la rendita fondiaria, ma anche la struttura monopolistica o tendenzialmente monopolistica del capitale finanziario. Un'altra caratteristica consiste nel fatto che la crisi producé vere e proprie tendenze regressive. In ultima istanza, si determina una riduzione sensibile della produzione. Molti settori subiscono una involuzione. C'è un ritorno - relativo - alla trazione animale con un ribasso del livello di meccanizzazione e diminuisce l'impiego di concimi. Come risorsa estrema, ci sono tendenze a rifugiarsi in una agricoltura di autoconsumo. Più ancora che nella grande crisi del secolo scorso i prezzi
registrano una dinamica discendente per la combinazione della diminuzione del valore di mercato dei prodotti agricoli (in seguito aU'introduzione di nuove tecniche ecc.) e della caduta dei prezzi al di sotto di questo valore declinante (in . seguito alla sovrapproduzione). I dati statistici indicano chiaramente che la crisi agricola ha preceduto la crisi generale: già prima del fatidico autUnno del 1929. si verificano, infatti, una caduta dei prezzi e un incremento delle scorte. Dopo la relativa stabilità del periodo 1924-28 (sovrapproduzione latente), già alla fine del . 1928 esplode la sovrapproduzione. La crisi si a~va tra il 1930 e il 1934 per !'incidenza della crisi industriale. Il miglioramento relativo tra. il 1935 e il 1937 è seguito da un nuovo peggioramento della situazione nella seconda metà dello stesso 1937. In realtà, la crisi giungerà a conclusione solo con l'inizio della seconda guerra mondiale. L'indice generale dei prezzi agricoli considerando come base 100 la media del periodo agosto 1909-luglio 1914-ha il seguente andamento:
-
1920
= 211.
= 125 = 132 = 142 1924 = 143 1925 = 156 1926 = 145
1921
1922 1923
1927 = 139 1928 = 149 1929 = 146 1930 = 126 1931 = 87 1932 = 65
1.0 stesso indice dà per i prezzi dei cereali negli Stati Uniti (medie annuali): 1927 1928 1929
1930
= 128 = 130 = 120 = 100
= 63 = 44 1933 = 62
1931 1932
1934
= 93
1935 = 103
= 108 = 126 1938 = 74
1936 1937
Pet quanto riguarda la caduta in vari paesi dopo il 1928, vale la pena di ricordare che nel 1933 i prezzi agricoli corrispondono alle seguenti percentUali dei prezzi del 1928:
-, .'
'--.
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.~~
31
30 Germania
= 64,6%
Gran Bretagna = 75,7% Stati Uniti = 47% Canada = 50,6% I
Argentina = 52,5% Nuova Zelanda = 52,8% Italia = 52,9% Olanda = 57,9%
Le scorte mondiali complessive -
eccettuata l'Unione Sovietica sono come media annua di 18.670 migliaia di tonnellate nel periodo 1925-29 ed evolvono come segue dal 1928 al 1934 20:
-
= 19.160 1929= 25.964 1930 = 24.739
1928
1931 = 27.134 1932 ='26.971 1933 = 29.475
1934 = 31.271
presentate dal reddito agricolo del 1932 e del 1933 rispetto a quello del 1929 (che pure, ricordiamolo, non era stato per l'agricoltura un anno record): Germania
1932 66%
1933 73,5%
Inghilterra Stati Uniti Canada
82,5% 43,2% 46%
23 53,4% 45%
Argentina 59,4% 51,7% Ungheria 56% 54,8% Romania 49,4% 42,4% Danimarca 68% 71,2% Va notato si tratta di una peculiaiità della crisi agricola che già abbiamo richiamato che alla caduta dei prezzi e all'aumento delle scorte non corrisponde necessariamente una contrazione della produzione. Nel 1932, anno in cui la produzione industriale tocca i punti più bassi, la produzione agricola in volume non è affatto diminuita né si sono ridotte, in generale, le aree messe a cultura. Nel 1932, secondo rAnnuaire Internationa/ 1935-1937, la superficie a frumento nel. mondo (esclusa l'Unione Sovietica), che era stata di 101,3 milioni di ha. nel periodo 1926-30, è addirircura di 105,6 . milioni di ha. e la produzione -mondiale, che era stata di 1021,9 milioni di quintali nel 1926-1930, è passata a 1049,4 milioni. Solo più tardi, sotto lo stimolo della caduta dei prezzi dei prodotti al di sottO del loro valore, si manifesta negli Stati Uniti e in altri paesi una tendenza alla contrazione della produzione, tendenza stimolata, specie negli Stati Uniti, da misure governative. Per limitarsi agii Stati Uniti, l'indice del volume della produzione dei cereali, base 1924-29 100, ha la seguente evoluzione:
-
Il rapporto tra prezzi agricoli e prezzi industriali si sviluppa . a detrimento dei primi: l'indice delle forbici con la media del periodo 1909-14 eguale a 100 - è il seguente tra il 1928 e il 1934: 96, 95,,87, 70, 61, 64, 73. . ~jubosic sottolinea, per parte sua, come i prezzi dei prodotti agricoli registrino tra il 1929 e il 1932 diminuzioni tra il 55 e il 60%, scendendo sino a due volte al di sotto del livello prebellico e risultando inferiori persino ai prezzi del 1895, i . più bassi di tutto il secolo scorso 21. Secondo altre stime, riferite da Kindleberger, dalla base 100 per il periodo 1923-25 i prezzi agricoli passano a 70 nelluglio-ottobre 1929 con un paràllelo aumento delle scorte di circa il 75%. Nel dicembre 1932 viene raggiunto l'indice 24,4 con un ulteriore incremento delle scorte del 50% circa. Nei tre anni 1930, 1931,1932 il ribasso dei prezzi è rispettivamente del 40, del 28 e del 12% 22. In queste condizioni il reddito agricolo subisce naturalmente una severa contrazione. Per limitarci a una sola serie di
-
dati, ecco, per alcuni paesi sig~ificativi, le percentuali rap-
=
1928 20. Cfr. i dati dettagliati per una serie di prodotti impol.:tantinello stUdio citato di Varga (p. 332), che utilizza come fonte il «London and
Cambridge EconomicService».
1929 1930
= 108 = 93 = 85
1931 = 89 1932 = 85 1933 = 61
1934 = 44 1935 = 71 1936 = 55
.
21. Op. cit., p. 263. 22. ll1i, p. 86. Cfr. nello stesso Kindleberger dati sull'andamento specifico di alcuni prodotti fondamentali.
~',~"':~._'''''''
-
23. L'indicazione manca nella fonte che è il World Economic 1933-1934 della Società delle Nazioni.
SUr1Iey
32 33 L'indice complessivo dei prodotti agricoli segna per lo stesso periodo: 1928 1929 1930
= 104 = 101
= 101
1931 = 107 1932 = 100 1933 = 97
1934 1935 1936
= 94 = 92 = 9S
.
Quanto alle superfici coltivate, secondo l'Annuario dell'Istituto internazionale di agricoltura utilizzato da Varga, l'anedamento sarebbe stato (in milioni di ha.);
-
'1929 30
barbabietola tabacco cotone iuta canapa
2,22 2,42 33,62 1,39 0,47
-
-
1930 31
1932 33
1;96 2,42 30,88 0,76 0,35
1,77 2,07 29,13 0,87 0,27
Nella sua interpretazione della crisi Kindlebe.çger sostiene che si è avuta un'azione reciproca tra caduta dei prezzi agricoli, arresto dei prestiti esteri e rafforzamento delle tar~e protettive. Afferma inoltre che tra il 1925 e il 1929 si era già verificata «quella che per analogia potrebbe essere definita una deflu:ione strutturale nell'economia mondiale dei prodotti primari... L'accumulazione delle scorte aveva contribuito per un certo periodo ad attenuare la gravità della situazione e nello st~sso senso aveva agito, sino alla metà del 1928, l'abbondanza del credito. Il mondo, secondo il nostro autore, avrebbe potUto sottrarsi alle conseguenze della sovrapproduzione di materie prime se avesse evitato la deflazione monetaria. Ma la combinazione di surplus e. di deflazione monetaria ha fornito «lafatale miscela» 24. Secondo noi, è più giusto sOttolineare l'andamento relativamente indipendente della crisi agraria, che, a parte le considerazioni storico-teoriche generali, dovrebbe discendere da tutta la nostra esposizione. Ciò non significa affatto, lo ribadiamo, che la crisi agraria non abbia contribuito a preparare la crisi generale e non sia stata a sua volta seriamen24. Op. dI., p. 107.
te aggravata - sino a raggiungere le eccezionali dimensioni indicate.- dall'esplodere della grande depressione (basti pensare all'incidenza della contrazione generalizzata dei consumi). Dalla fine del ~929 la connessione tra crisi agraria e ciclo negativo generale diventa ovviamente più stretta. . Sia detto di passata, questa è una con(erma ulteriore della profondità della penerrazione del capitalismo nelle campagne come della sostanziale identità della molla fondamentale della crisi.
Il momento culminante
Abbiamo già visto come, dopo le flessioni prodottesi già nei mesi precedenti, la crisi si sviluppasse ormai in modo netto nell'autunno del 1929. Vale la pena di ricordare che neppure dopo le vicende dell'autunno gli esponenti più aUtorevoli della classe dominante comprendevano tUtta la gravità della crisi né si rendevano conto di essere di fronte a un fenomeno di lunga durata. Alcuni sintomi parziali (come i fatti dovevano rapidamente dimostrare) del tutto effimeri una relativa ristabilizzazione del corso medio delle azioni nei primi mesi del 1930, un andamento analogo di indici della produzione industriale, delle importazioni e dell'occupazione, . un rallentamento della caduta dei prezzi di una serie di materie prime contribuivano ad accreditare le interpretazioni ottimistiche. Anche questa volta erano le dichiarazioni di Hoover ad assumere un carattere quasi simbolico. Nel marzo 1930 !'incauto presidente proclamava che gli effetti peggiori del crollo di autunno sull'occupazione sarebbero stati superati entro sessanta giorni. Il primo maggio esprimeva di nuovo la convinzione che il peggio fosse passato e qualche settimana più tardi affermava che entro l'autunno si sarebbe ritornati alla normalità. La crisi doveva, invece, prolungarsi per oltre tre anni: la ripresa vera e propria non sarebbe venuta prima del 1933. Sarà la crisi più lunga subita dal capitalismo nel corso della sua storia e finirà col coinvolgere il mondo intero, anche se saranno diversi, nei vari paesi, forme, ritmi e profondità. Manifestazioni della crisi saranno la guerra delle tariffe, la
e
-
-
,op'.
35 ~.4
crisi monetaria e la crisi del sistema bancario, che determineranno, specie in alcuni paesi, momenti particolarmente drammatici, dal crollo del Kredit Anstalt in Austria nel 1931 alla chiusura delle banche negli Stati Uniti agli inizi del 1933. Vediamo alcuni dati essenziali per una valutazione, se pur sommaria, della portata della crisi. Non ritorneremo ovviamente sugli sviluppi nell'agricoltura già ricordati nel capitolo
precedente.
.
Da statistiche redatte dalla Società delle Nazioni, ripr:ese anche da Arndt, si ricava innanzi tUtto il seguente andamento generale per quanto riguarda la riduzione percentuale della produzione industriale, del reddito nazionale e dei prezzi all'ingrosso tra il 1929 e il. 1932 nei tre principali paesi ind ustriali: Stati Uniti produzione industriale reddito nazionale
54% 53%
prezzi all'ingrosso
38%
Germania
.
Gran Bretagna
42% 39%
17% 20%
35%
30%
La durata considerevolmente più lunga della crisi del 1929-32 rispetto ad altre crisi emerge, per esempio, da un calcolo dei mesi della recessione nella produzione del ferro, del carbone, e nell'edilizia. Per il ferro, nelle tre crisi 1907 -08, 1920-21 e 1929-32 la durata è stata rispettivamente di 3, 16 e 39 mesi, per il carbone di 6, 4 e 41, per l'edilizia di
9,ge57.
.
La produzione industriale mondiale ha avuto per le due sezioni fondamentali dei mezzi di produzione e dei mezzi di consumo il seguente andamento, partendo dalla base l 00 per il 1928:
mezzi di produzione mezzi di consumo
1913
1929
1930
1931
1932
1933
69 81
110 105
96 98
82 91
62 89
75 96
Come fa nocare Varga, !'indice della produzione di mezzi di produzione, nella tabella riportata, risulta più alto di quanto in realtà non fosse perché nel calcolo è inclusa l'V nione Sovietica; per la stessa ragione l'indice della produzione dei mezzi di consumo registra, ,,-nche se limitatamente, una
maggiore contrazione 25. la. dinamica complessiva è, comunque, fuori discussione. Dalle statistiche della Società delle Nazioni si possono trarre i seguenti dati sulla produzione industriale nei vari paesi (1928 100): 1929 1930 1931 1932 1933'
=
Stati Uniti 107,2 Gr!tn Bretagna 106 Francia 109,4 Germania 100,4
86,5 87,8 110,2 90,1
73 88,8 97,6 73,6
62,5 90,1 79,5 61,2
56,5 89,9 80,8 67,3
Giappone Polonia Canada
105,6 81,8 91,7
100,7 69,3 76i
101,0 52,2 62,8
120,7 48,2 65,2
111,4 99,7 108,1
Belgio 100,1 89,8 82,8 69,9 74,3 Nel quadro di una generale tendenza recessiva l'entità e il ritmo della caduta sono diversi: il Giappone costitUisce addirittura un'eccezione. Altro indice significativo è quello della produzione di macchine. Prendiamo i dati di alcuni paesi europei (1928 100):
=
1929
1930
1931
1932
1933
101 114 107 100
83 114 103 76
60 99 84 56
38 70 76 44
42 78 84 45
i
\
\
Germania Francia Gran Bretagna Polonia
Secon~o calcoli ufficiali l'indice della produzione della industria manifatturiera ha avuto la seguente evoluzione
(1947-49 = 100) 26: 1929 = 58 1931 1930 = 48 1932
= 39 = 30
1933
= 36
~ Q ! \ (I "
I l'
25. Senza contare l'Unione Sovietica l'indice sarebbe, per i mezzi di produzione, 104 nel 1929, 94 nel 1930 e 78 nel 1931, per i mezzi di consumo rispettivamente 104,93 e 92. 26. u. S. BUREAUOF THE CENSUS,Historica/ Statistics o/ the United Stales, ColonialTimes lo 1957, Washington, 1960.
\
::;;
'
'
36
37
L'indice dell'attività edilizia è stato (1930
= 100)
27:
= 252,3 1930 = 100,0 1932 = 28,0 1929 = 197,3 1931 = 78,8 1933 = 19,0
1925
da Varga. Per gli Stati Uniti il profitto netto di 433 società industriali considerate dalla Standard Sratistics, partendo dalla base 100 per il 1928, è passatO a 113,5 per il 1929, 67,6 per il 1930, 28 per il 1931 e 7 per il 1932. Per la Gran Bretagna - base 1924 = 100 -l'andamentO è stato: 1929 = 120,1; 1930 = 119,4;1931= 92,5;1932 = 15,8.Per laGermania la somma dei profitti in milioni di marchi è stata di 315 nel 1929,207 nel 1930, 116 nel 1931 e -73 nel 1932. La caduta dell'attività economica nella quasi totalità dei paesi deÌ mondo non poteva non provocare una seria caduta .dell' occupazione. Forniamo in proposito una serie di dati da prendere con il beneficio d'inventario (la diversità delle stime non infida, comunque, la tendenza generale). Già nel primo anno di crisi dal novembre 1929 al novembre 1930 -l'indice complessivo delle buste-paga negli Stati Uniti cade di circa un terzo (da 95,1 a 68,5 28).La crisi colpisce la classe operaia non solo con i licenziamenti, ma anche con drastiche e ripetUte riduzioni di salari. Nel 1931 i salari e gli stipendi complessivi sono già ridotti a circa la metà del 1925! Alla fine del 1932 le paghe settimanali nelle industrie del ferro e dell'acciaio sono inferiori del 63% a quelle del 1929. Quest'ultima stima riportata da Schlesinger 29 sembra, a dire il vero, eccessiva; Kindleberger dta per parte sua una stima secondo cui l'indice dei lactory payrolls sarebbe passato da 1923-25 100 a 75 nel marzo 1931 e a 43 nel giugno 1932 30. Historical Statistics indica come guadagno orario medio di un operaio alla produzione nell'industria manifatturiera 0,566 dollari nel 1929,0,552 nel 1930, 0,515 nel 1931, 0,446 nel 1932, 0,442 nel 1933 e come guadagno medio settimanale, sempre per la .
Secondo altre stime la produzione industriale complessiva è caduta tra il 1929 e il 1933 del 48,7%. Rispetto, poi, a un indice 1923-25 = 100, sempre la produzione industriale è scesa a 87,78 e 76 rispettivamente nel marzo, agosto e settembre 1931 ed è arrivata addirittUra a 59 nel giugno 1932 (fonte: 'Federal Reserve Bulletin'). Quanto alla produzione dell'aHiaio, stando alle indicazioni della relazione per il 1931 della U nited Steel Corporadon, la produzione media dell'acciaio non lavorato era stara di 43 milioni di tonnellate annue tra il 1922 e il 1931, ma nel 1931 era solo di 26 milioni. L'anno successivo si verificava un'ulteriore caduta di circa la metà. Quanto al reddito nazionale, subiva una riduzione di oltre la metà (da 82,7 miliardi di dollari nel 1929 a 40 miliardi nel 1932, secondo i dati forniti da Statistical Abstract 01the United States 1939, e da 87,4 a 41,7 secondo le stime 'riferite da Schlesinger). Il prodotto nazionale lordo, calcolato sulla base dei prezzi del 1929, secondo il già citato Historical Statistics, evolveva
come segue (1929
1929
1930
= 100
= 96
1931
= 100):
= 85
1933 = 77
1932.= 77
Ricordiamo, infine, che in Germania tra la fine del 1928 e la fine del 1932 il redditO nazionale cadeva da 75,4 a 45,2 miliardi di marchi. . Molto nettO il declino degli investimenti. Kindleberger ricorda che gli investimenti interni lordi, che erano stati .di 16.000 milioni di dollari nel 1929, sono caduti a 1.000 milioni nel 1932, mentre gli investimenti netti in quest'ultimo anno sono stati di - 6.600 milioni (si sono verificati. cioè. notevoli disinvestimenti). Difficile stabilire in quale misura siano caduti i profitti. Riprendiamo a titolo puramente indicativo alcuni dati forniti
-
-
=
stessa categoria, 44,2 dollari nel 1929, 42,1 nel 1930, 40,5
.
n~11931, 38,3 nel 1932 e 38,3 nel 1933 (34,6 nel 1934 31).
.
-
28. Questi dati - come altri riportatipiù avanti sono tratti da un importante libro sulla stOria sindacale americana, Labor's Giant Step di ART PREIS, New York, Pioneer Publishers, 1964. Il dato sulle paghe settimanali nell'industria del ferro e dell'acciaio, che può suscitare perplessità è fornito da Schlesinger (op. cit., p. 232), che cita studi di D.D. Bromley,].T. Flynn ed altri (nota 147).
29. Op.cit.,p. 232. 27. Ibid.
.
30. Op. cit.,p. 169, nota 72. 31. La crisi provoca una riduzionedegli iscritti ai sindacati.Nel
38
39
L'occupazione industriale, secondo dati del «Federal Reser100): ve Bulletin» conosce il seguente andamento (1925
Secondo dati della Società delle Nazioni i prezzi all'ingrosso tra il 1929 e il 1932 hanno subito una contrazione media del 35% negli Stati Uniti, del 35% in Germania e del 30% in Gran Bretagna. Considerando il periodo 1929-33, la caduta media annua è stata del 32% in Germania, del 36% in Francia, del 31 % in Gran Bretagna e del 31 % negli Stati Uniti. Per gli Stati Uniti !'indice BLSdei prezzi all'ingrosso dei prodotti più importanti ha il seguente andamento (1926
=
marzo 1931 = 78; agosto 1931 73; giugno 1932 = 60
= 74;
settembre 1931
=
Secondo stime riprese da Galbraith i disoccupati raggiungono i 13 milioni nel 1933 Con un rapporto di 1 a 4 rispetto alla forza-lavoro complessiva. Le valutazioni del National Industriai Conference Board danno una cifra pressoché uguale (12.300.000) per il marzo dello stesso anno. La National Research League arriva, invece, a un totale sensibilmente superiore: 17.920.000. Secondo Arndt gli operai occupati passano da 48 milioni nel settembre 1929 a 36 milioni nel marzo 1933. Altre valutazioni indicano per il 1933 una disoccupazione pari al 36% della popolazione attiva 32. Historical Statistics calcola 1.550.000 disoccupati nel 1929, 4.340.000 nel 1930, 8.020.000 nel 1931, 12.060.000 nel 1932 e 12.830.000 nel 1933, pari rispettivamente al 3,2, 8,7, 15,9, 23,6 e 24,9% della forza-lavoro civile comples'siva. Per quanto riguarda altri paesi, la Gran Bretagna registra nel 1932 tre milioni di disoccupati, cioè circa un quarto della popolazione assicurata, e la Germania, agli inizi del 1933, tra i 6 e i 7 milioni. In Giappone, nel 1933-34, la percentuale dei senza lavoro tra gli operai industriali raggiunge il 40%. Dati globali, comprendenti i 32 principali paesi capitalistici, danno le seguenti medie annue (in milioni) 33:
1929 = 5,95 1932 = 26,37 1930 = 11,08 1933 = 22,34 1931 = 19,18 1934 = 22,34
=
100):
e nel 1933 si erano ridotti complessivamente a 2.127.000 dai 4.029.000 del 1920. Il sindacato minatori di Lewis gìà nel 1931 non aveva più di 60.000 iscritti contro 400.000 nel 1920. Secondo altre fonti gli iscritti sarebbero stati nel 1920 5.000.000 scendendo già nel 1929 a 3.400.000 con una contrazione nel decennio dal 12 al 7% degli effettivi della classe operaia (cfr. SCHLESINGER, op. cit., p. 103). 32. Dato richiamato in un recente articolo di PIERREDROUINnel «Monde» deI4.VII.75. 33. «Monthly Bulletin of Statistics» della «International I.abour Review».
= 95,3; 1930 = 86,4; 1931 = 73,0; 1932 =
.64,8. Per quanto riguarda le materie prime, ci limitiamo a qualche esempio di prodotti tra i più significativi: cacao caffè rame cotone gomma grano zinco 10,51 23Y2 74,3 18,04 giugno 1929 dicembre 1929 9,13 15Y2 68,3 16,64 marzo 1930 69,2 14,74 8,67 14 dicembre 1930 6,16 1OY2 46,8 9,16 marzo 1931 5,41 8Y2 9,9 10,15 9 marzo 1932 5,8 6,44 4,44 marzo 1933 3,40 974 5,0 6,19
1935 = 21,39
1931.gli iscritti all'AFLdiminuivano a un ritmo di 7.000 alla settimana
1929
I I
I I
20,56 19,06 15,25 8,94 7,13 3,31 3,03
1,50 1,32 1,15 0,77 0,76 0,72 0,54
6,64 5,65 4,94 4,09 4,01 2,79 3,00
(va notato che per il cacao, il caffè, il cotone e la gomma il calcolo è sempre in cent per libbra; per il rame il calcolo è in sterline per tonnellata lunga per gli anni 1929 e 1930, per gli anni successivi in cent per libbra; per il grano il calcolo è in dollari per bushel per gli anni 1929 e 1930 e successivamente in cent 34). Va infine segnalata la seria inCidenza della crisi sul commercio mondiale: si verifica una caduta sia per il crollo dei prezzi sia per la diminuzione del volume. La riduzione è valutabile a circa un terzo. Dal gennaio 1929 al febbraio 1933 si sviluppa una spirale che va, per !'importazione mondiale complessiva, da 2.998 milioni a 944 milioni di dollari-oro.
I
j h. !
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34. Kindleberger riporta in proposito tabelle più dettagliate includendo altri prodotti.
t'i 41 .
40
rinunciavano alla base aurea. Si sviluppavano fenomeni di tipo inflazionistico a ere ondate principali: la prima riguardante alcuni paesi d'oltremare produttori di materie prime; la seconda che, in concomitanza con il ritiro della Gran Bretagna dalla base aurea, coinvolgeva la stessa Gran Bretagna, i suoi dominion e paesi scandinavi; la terza connessa all'abbandono del go/dstandard da parte degli Stati Uniti. Quanto al sistema bancario, nel 1931 si aveva una crisi in Germania, seguita subito dopo dal crollo del Kredit Anstalt austriaco, cui contribuiva il ritiro di crediti francesi come . ritorsione a una prospettata unione doganale austro-tedesca. Negli Stati Uniti il collasso bancario si produceva alla fine della presidenza Hoover, proprio nel periodo del trapasso di poteri al neoelecco FranIdin Delano Roosevelt. Le banche erano state già chiuse una prima volta nel Nevada nell'ottobre del 1932; nel febbraio erano state chiuse temporaneamente le banche del Michigan e del New]ersey, sempre per evitare che i depositi venissero maSsicciamente ritirati. n 4 marzo Roosevelt chiudeva tutte le banche del paese.
Varga, valendosi sempre di dati della Società delle Nazioni, sintetizza l'andamento come .segue (in miliardi di vecchi
dollari-oro):
.
1928 importazioni
34,7
esportazioni 32,8
1929
1930
35,6
33
.
1931
1932
1933
29,8
20,8
14
12,5
26,5
18,9
12,9
11,7
I mutamenti nel commercio mondiale non colpiscono tutti i paesi nella stessa misura: nel corso stesso della crisi, per esempio, il Giappone riesce ad accrescere la propria percentuale, .mentre perdono terreno, tra le maggiori potenze, sia la Germania sia gli Stati Uniti, che vedono venir meno le loro eccedenze commerciali, soprattutto nel 1932. Sono, tuttavia, i paesi produttori di materie prime a essere colpiti più gravemente, data l'evoluzione della ragione di scambio. S.G. Triantis ha svolto in proposito uno studio analizzando
le tendenze di 49 paesi esportatori di prodotti primari 35. Prescindendo qui dalla più dettagliata suddivisione in quattro categorie, risulta, comunque, che questi paesi hanno registrato nelle loro esportazioni tra il 1925-29 e il 1932-33 cadute da un minimo del 30-45 sino a un massimo di oltre l'SO%. Per fare qualche esempio, il Cile ha perduto oltre l'SO%, la Cina tra il 75 e l'SO, la Bolivia, Cuba, il Perù, la Malesia tra il 70 e il 75, l'Argentina, il Canada, le Indie olandesi, il Messico tra il 65 e il 70, il Brasile, l'Ungheria, la Jugoslavia, la Nigeria, l'Egitto e la Grecia tra il 60 e il 65. La situazione di molti di questi paesi diveniva ancora più drammatica nella misura in cui non avevano più o avevano molto meno di prima -la possibilità di fare ricorso ai prestiti esteri. Come abbiamo accennato, una soluzione che quasi tUtti i paesi hanno cercato per i problemi determinati dalla crisi, è stata quella delle tariffe protettive. Il che ha finito col creare ostacoli supplementari alla ripresa. Infine, il terremoto della depressione non poteva non avere ripercussioni sul sistema monetario e sul sistema finanziario. PJ.:ima la Gran Bretagna (1931), poi gli Stati Uniti (1932)
La riPresa e la n.tlova recessione
Il 1933 segna la fine della crisi e l'inizio di un cilancio. Tuttavia, l'andamento non è affatto univoco: permangono differenze sensibili tra le condizioni dei singoli paesi o di gruppi di paesi. Nei paesi del blocco aureo la crisi tende a prolungarsi e la Francia, in particolare, continuando nel suo corso anomalo, non raggiunge il puntO più basso che nel 1935. I paesi sottosviluppati che, si è visto, hanno sofferto drammaticamente per la caduta verticale dei prezzi delle materie prime, sono pesantemente gravati da un crescente indebitamento. Le stesse economie in ripresa si urtano a persistenti difficoltà, risentendo, tra l'altro, dello stato di estrema crisi del mercato mondiale dei capitali (<
-
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35. Cydica/ Changes ;n Trade Ba/ances o/ Countr;es Export;ng Pr;mary Products,University ofToronto, 1967.
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43
luglio dello stesso anno è risalitO a 100. Il brusco 'aumento era dovuto, però, più a una accumulazione di scorte che a un rilando organico degli investimenti. Difatti nel luglio 1934 !'indice è caduto di nuovo a 71 e solo alla fine del 1935 ritornerà a 100 (90 nel luglio dello stesso anno). Contemporaneamente cominciano a diminuire i disoccupati che, con l'avviarsi della ripresa, scendono dal 25 al 17% degli iscritti ai sindacati. Secondo stime dell'AFLl'andamento è più precisamente: 1933 13.700.000, 1934 12.400.000, 1935 12.000.000 (va notato che i sindacati recuperano almeno in parte gli iscritti che avevano perduto: da 3 milioni alla fine del
=
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=
1933 passano a 3,6 milioninel 1934 e a 3,9 l'anno dopo).
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!
I prezzi registrano una ripresa: sulla base 1920 100, !'indice generale passa da 63 nel marzo 1933 a 74 nel luglio dello stesso anno. Nei mesi successivi scende a 71 per risalire poi a '75 nel 1934 e a 76,5 nel 1935. Il nuovo boom si produce nel 1936-37. Nel marzo 1936 si chiude finalmente il lungo declino, iniziato nel 1929, dei prestiti commerciali. Una ulteriore spinta al rilancio viene dal pagamento di 1.700 milioni di dollari di titoli ai veterani della prima guerra mondiale, che costituiscono una forte iniezione al consumo. Contemporaneamente si verificano aumenti di salari. Alla metà del 1937 il prodotto nazionale lordo supera il livello del 1929. Va tenuto, però, conto che nel frattempo la popolazione è aumentata del 10% e la produttività di circa il 15%. Per di più, la ripresa, è disuguale: mentre i beni di consumo non durevoli, sempre alla metà del 1937, superano i livelli del 1929 di circa il 10%, per le costruzioni il livello resta ancora inferiore tra il 40 e il 50% (e abbiamo detto sopra che il declino del settore era cominciato già nel 1925). In Germania un profondo cambio della Situazione avviene con J'introduzione delle structure e delle leggi naziste. La misura capitale è la distruzione dei sindacati che rende impossibile per la classe operaia la difesa dei propri interessi, facilitando così l'operazione di far pagare duramente alle classi sfruttate il peso della crisi (per esempio, sono abbandonate le 40 ore e nel 1938 si arriva alla legalizzazione delle 48 ore settimanali come minimo). Progressivamente viene introdotto il servizio nazionale del lavoro e viene condotta una campagna per il ritorno delle donne all'economia domestica (tale ten-
denza non sarà rovesciata che al momento dell'avanzata preparazione della guerra e dopo !'inizio della guerra stessa). Programmi di lavori pubblici (costruzioni pubbliche, autostrade ecc.) vengono varati per fronteggiare la disoccupazione; ma, in ultima analisi, la crisi sarà superata solo con il riarmo a ritmi sempre più sostenuti, soprattutto a partire dal Il Piano quadriennale, varato nel settembre del 1936. Per un certo periodo si verifica un movimento di ritorno della popolazione dalle città alle campagne. Infine, strumento importante della politica economica del Terzo Reich sarà !'introduzion~ del controllo dei cambi. Il commercio estero si svilupperà sulla base del sistema di clearing. A parte le industrie belliche vere e proprie, si sviluppa la chimica, in particolare !'industria della gomma sintetica. Alla fine del 1934 gli investimenti privati sono pari a 1.070 milioni di marchi contro 440 nel 1932. La spesa pubblica, d'altro canto, aumenta notevolmente: 6,7 miliardi di marchi nel 1932-33, 9,7 nel 1933-34 e 31,5 (cioè quasi la metà del reddito nazionale) nel 1938-39. Alla fine del 1934 gli investimenti pubblici diretti ammontano a 3 miliardi di marchi. In questo contesto cala progressivamente la disoccupazione. Dagli oltre 6 milioni di disoccupati dell'autunno 1933 si passa a 4,1 un'anno dopo, a 2,8 nel febbraio 1935 e a 1,2 nel febbraio 1936. Al maggior numero di lavoratori occupati oltre che all'aumento dell'orario di lavoro e ai passaggi a categorie superiori si deve l'aumento dei guadagni monetari degli operai di 8,7 miliardi di marchi tra il 1933 e il 1937 (solo il 13,4% di questa differenza è da attribuire ad aumenti delle tariffe 36). In Gran Bretagna negli anni 1932-37 si verifica una ripresa industriale importante, in contrasto con quanto era avvenuto negli anni venti, quando, come abbiamo segnalato a suo tempo, il tasso di sviluppo era stato nettamente inferiore a quello dei maggiori paesi capitalistici. L'~umento complessivo della produzione industriale è del 50% circa (20% rispetto allo stesso 1929). La svalutazione unitamente a una politica di denaro a buon mercato costituisce un notevole incentivo. I
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36. Per la Germania una fonte utile è The National Economy01Ger!
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many, in «EconomicJournal»,
settembre
1938.
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4S
settori di maggiore espansione sono l'industria elettrica, !'industria motociclistica, l'industria delle costruzioni. Uno spostamento verso le industrie nuove si.registra anche per le esportazioni. La disoccupazione aveva colpito severamente la Gran Bretagna: aveva raggiunto una punta del 17,6% con una concentrazione nelle zone del carbone, dei cantieri navali e dei cotonifici (in alcuni casi era stato raggiunto il tetto del 50%). La contrazione è lenta e parziale: nel 1935 la disoccupazione resta dell'ordine del 12-13%. Nel 1937 è meno della metà del 1932, ma resta superiore a quella del 1929, corrispondendo al 10% della popolazione assicurata. Gli occupati sono tuttavia passati,. complessivamente, da 10,2
milioni nel 1929 a 11,5 nel 1937 37.
Per il Giappone ci limitiamo a ricordare che si produce un boom tra il 1934 e il 1936, con lo stimolo delle spese militari e con l'aiuto assicurato agli esportatori dalla svalutazione dello yen. Nel periodo immediatamente successivo viene raggiunto
il pieno impiego.
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La Francia, come si è detto, conosce un andamento peculiare. La politica di rivalutazione, che raggiunge il culmine con un 26% nel febbraio del 1934, provoca una. caduta del commercio di esportazione (3.600 milioni di franchi nel 1930, 1.500 nel 1932 e 1.300 nel 1935). Anche le importazioni si contraggono (rispettivamente da 4.400 a 2.500 e a 1.700 milioni). I prezzi cadono da 462 nel 1931 a 407 nel 1932, 388 nel 1933,366 nel 1934 e 347 nel 1935 (1914 100). Da una tabella già riportata si ricava; d'altronde, l'andamento della produzione industriale: 1930 = 11O,2; 1931 97,6; 1932 79,5 e 1933 = 80.,8.I disoccupatinon raggiungono i livelli di altri paesi e in uno dei momenti economicamente peggiori sono sul mezzo milione. Questo dato occulta, tuttavia, il fatto importante del deflusso di circa un milione di lavoratori stranieri (polacchi, italiani,algerini). Anche in Francia avviene, poi, un parziale ritorno dalle città alle campagne.
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L'avvento del governo di fronte popolare segna una reazione alla politica deflazionistica (tagli alla spesa pubblica, riduzioni delle pensioni agli ex-combattenti e dei salari agli 37. Cfr. per dati in proposito sia Kindleberger sia Arndt.
statali ecc.). Gli accordi di Matignon rappresentano. un successo economico della classe operaia (aumenti salariali, 40. ore, ferie pagate). I vantaggi salariali acquisiti sono però rapidamente corrosi, in tutto oin parte, dagli aumenti dei prezzi. I prezziall'ingrosso- 1913 10.0. passano da 375 nel maggio 1936 a 420 nel settembre dello stesso anno, mentre i prezzi al minuto- 1930. 100 salgono nello stesso periodo da 76,4 a 80.,5. Nel settembre il governo Blum rinuncia al go/djtandarde opera una svalutazionedel franco del 25 %. Le esportazioni vengono stimolate: crescono del 12% tra l'ottobre 1936 e l'aprile 1937. La produzione industriale tra l'agosto 1936 e l'aprile 1937 aumenta del 13%; la disoccupazione diminuisce del 17% dall'agosto 1936 all'aprile 1937. I governi succeduti al fronte popolare e in particolare il governo Reynaud dovevano capovolgere di nuovo la politica economica francese. Un rilancio industriale aveva luogo tra il novembre 1938 e il giugno 1939; ma si era ormai alla vigilia della guerra che doveva rimettere tutto in discussione, in Francia come altrove. Sia pure in diversa misura e a diverse scadenze, la ripresa finiva con il coinvolgere anche i paesi produttori di materie prime. Nei paesi del Commonwealth i prezzi ricominciavano a salire già dal 1933-34; nel 1935 Australia e Nuova Zelanda raggiungevano rispettivamente gli indici 80 e 95, fatto il 1929 eguale a 10.0. Il Sud-Africa arrivava a 80. e la stessa India era in ripresa, benché con maggiori difficoltà (58 nel marzo del 1933; 65 neI1935-36). Un rilancio delle esportazioni argentine era facilitato da una svalutazione del peso e da una siccità negli Stati Uniti. A Cuba i prezzi del 1936 erano il doppio che nel 1929. Nelle Indie olandesi, invece, nel 1936 la crisi
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e.ra ancora
in pieno sviluppo (1929
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100.; marzo 1933
=
49,6; 1935 = 46; 1936 = 44). Per la produzione di alcunematerie prime importantivalga la tabella seguente: rame zinco gomma cotone grano 1929 1932 1936 1937
1.915 886 1,684 2.141
1.450. 778 1.473 1.620.
868 70.9 862 1.140.
12.70.0.
3566
11.40.0.
3.812
15.0.0.0.
3.491
18.50.0.
3751
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47 46 (per il rame, lo zinco, la gomma il calcolo è in migliaia di tonnellate, per il cotone in milioni di libbre, per il grano in milioni di bushel). In generale, la situazione dei paesi sottosviluppati restava difficile per tutto il dec~nnio, in. particolare per il pesante indebitamento e la difficoltà di sostenere con crediti esteri i programmi di investimento. Va, tuttavia, segnalato che la crisi del sistema mondiale capitalistico e l'accresciuta difficoltà, se non !'impossibilità di importare in seguito alla caduta delle esportazioni, aveva, specie in certi paesi dell'America latina, l'effetto di stimolare uno sviluppo dell'industria nazionale, segnatamente di alcuni beni di consumo. Il quadro della grande depressione non sarebbe completo se non si ricordasse che il rilando faticosamente realizzato nel 1936-37 doveva essere di corto respiro. Già nell'estate-autunno del 1937 si delinea negli Stati Uniti una nuova recessione. Comincia a cadere il prezzo del cotone: da 15 cent nel marzo a 9 cent in agosto. Nel mese di settembre la caduta si generalizza. La produzione industriale entra in una nuova spirale discendente: secondo l'indice Standard Statistics da: 141 il 25 agosto (1926 = 100) si passa a 125 due settimane dopo, e alla fine del mese si registra una riduzione del 30% rispetto al punto più alto del mese di marzo. Secondo l'indice Federal Reserve la produzione industriale subisce la flessione seguente: 116 nei primi otto mesi del 1937, 106 nel settembre dello stesso anno, 99 nell'ottobre, 86 nel novembre, 83 nel dicembre (1923-25 100). L'utilizzazione degli impianti produttivi per l'acciaio scende dal1'85% in agosto al 38 in novembre e al 26 in dicembre. La produzione del cotone ha !'indice 143 nel marzo, 116 in agosto, 81 in dicembre (1923-25 = 100). I prezzi dei prodotti agricoli cadono a loro volta del 24% tra il 3 aprile e la fine dell'anno. Declinano anche i prezzi più in generale (tra 1'8 e il 10%). La borsa conosce di nuovo giornate di angoscia: anche il 1937 ha la sua giornata nera: martedì 19 ottobre. La ripresa era stata, dunque, di corto respiro: vi avevano avuto una parte importante la ricostituzione delle scorte e fattori eccezionali già segnalati. Il commercio estero subiva nuovi squilibri. D'altra parte, la riduzione del deficit di bilan-
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cio, con la contrazione delle spese, contribuiva pure alla caduta. La lezione della grande depressione doveva però servire, anche se in ritardo: già nell'aprile del 1938 il governo statunitense varava un programma di rilancio, rassegnandosi a un bilancio in passivo. Come sottolinea Kindleberger, solo allora la dottrina di Keynes veniva effettivamente accettata. Resta che la nuova fase dell'economia capitalistica e la nuova onda lunga' non sono state il prodotto di misure tipo quelle dell'aprile 1938, ma della seconda guerra mondiale con tuttO quello che la sua preparazione e il suo svolgimento hanno significato per il riequilibrio del sistema. E' significativo, peraltro, che se, per ragioni ovvie, i paesi sottosviluppati dovevano risentire maggiormente anche della crisi del 1937-38, poco ne risentivano, invece, i paesi europei e il Giappone, già largamente impegnati in una crescente attività di armamenti.
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Qualche considerazione sulle cause
Per la sua genesi, per le sue caratteristiche, per la sua profondità, per la sua durata la grande depressione ha costituito una verifica storica gigantesca dell'l teoria marxista delle crisi. Resa possibile, in ultima analisi, dalla contraddizione tra il valore d'uso e il valore di scambio, tra la merce e il suo equivalente in denaro, più che qualsiasi altro momentO della storia del capitalismo la crisi del 1929-32 ha segnato «il crollo del tentativo di mantenere il vecchio livello di valori, prezzi e tassi del profitto con una massa di capir.ale accresciuta». Più che mai ha espresso il «conflitto tra le condizioni di accumulazione e di valorizzazione del capitale, che non è che il dispiegarsi di tutte le contraddizioni inerenti al capitalismo, che intervengono tutte in questa spiegazione della crisi: contraddizione tra lo sviluppo assai considerevole della capacità produttiva e lo sviluppo più limitatO delle capacità di consumo delle grandi masse; contraddizioni derivanti dall'anarchia della produzione che è il risultato della concorrenza, dell' aumento della composizione organica del capitale e della caduta del tasso del profitto; contraddizione tra la crescente socializzazione della produzione e la forma privata di appropriazione» (MandeD.
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Premesso questo, si tratta tUttavia di individuare come abbiano operato in concreto le specifiche cause delIa crisi, rendendo più esplicito quanto era contenuto nella descrizione abbozzata nei capitOliprecedenti. Gli apologeti del capitalismo si sono sforzati sin dall'inizio di individuare le cause in fattori esterni al sistema o in tendenze patologiche o in errori soggettivi, mettendo in risalto le conseguenze della speculazioneborsistica, sottolineando il cattivo uso del goldstandard o evocando una serie di 'accidenti' storici. Per parte sua, Herbert Hoover, in un messaggio del dicembre del 1930, ha addebitato la crisi alla speculazione e alla sovrapproduzione di una serie di materie prime. Successivamente ha messo SOttO accusa i cartelli europei, colpevoli di aver determinato al tempo stesso sovrapproduzione e aumenti dei prezzi. Va da sé che molte delle cause e molti degli inconv~nienti segnalati dagli economisti ufficiali e dai rappresentanti dei governi sono reali. Ma l'errore consiste sia nel confondere il particolare con il generale o l'effetto con la causa, sia nel considerare aberrazioni evitabili Con più lungimiranza fenomeni o tendenze intrinsecamente connessi al funzionamento del sistema. La crisi del 1929 ha presentato problemi di interpretazione non tanto per il suo prodursi a conclusione di un ciclo, dopo tutto abbastanza classico, quanto per il suo carattere esplosivo e per la sua durata. Galbraith ha fatto giustamente rilevare che sino al novembre 1929 la recessione non aveva presentatO - a parte il crollo a Wall Street tratti molto diversi da quelli delle prime fasi di recessioni precedenti o successive (949). Mandel ha richiamatO alcuni raffronti statistici da cui risulta che considerando non solo i primissimi mesi, ma addirittura i primi nove mesi della recessione, le variazioni negative per quanto riguarda l'occupazione, il prodottO nazionale lordo, la produzione industriale, il volume delle vendite al dettaglio, le ordinazioni di beni durevoli, non sono state qualitativamente diverse rispetto alla crisi negli Stati Uniti del 1937-38, 1948-49, 1953-54, 1957-58 38.Quello che ha contraddistinto la crisi del 1929 è stata l'ampiezza della
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38. E. MANDEL, Trattato marxista di economia, cit., voI. Il, cap. XIV.
caduta per un periodo prolungato e, nonostante ie diversità e la non sincronizzazione nelle scadenze e nei ritmi, la dimensione mondiale. Quanto profondamente l'economia fosse stata scossa e quali fossero i limiti dell' 'onda lunga' dei decenni tra le due guerre è stato confermato dal prodursi di una nuova, seria crisi nel 1937-38 dopo un breve periodo di rilancio. Nella fase culminante del boom degli anni venti - analoga-
mente a quanto avvenutoneglialtri cicli
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si è creato, innan-
zi tutro, uno squilibrio netto tra i diversi settori, con uno sviluppo molto più sensibile della produzione di beni strumentali, in eccedenza rispetto alla domanda. Tra il 1919 e il 1929 si è avuto, più precisamente, un incremento annuo medio del 6,4% per questo settore, mentre per i beni non
durevoli !'incrementoè stato solo del 2,8%
39.
In secondo luogo, lo sviluppo della produttività e l'aumento dei profitti, in specie dei profitti del capitale finanziario,sono stati lo abbiamo vistO senza paragone superiori all'aumento dei salari, cresciuti solo dell'8% tra il 1923 e il 1929. Ciò significa che il potere di acquisto di gran parte della popolazione non conosceva una espansione apprezzabile e che restavano, dunque, decisivi i consumi di una minoranza ricca o agiata. Contemporaneamente ha agito uno stimolo a investimenti speculativi al di là delle esigenze economiche reali. Va aggiunto, per completare il quadro, che a partire dal 1924 era stagnante il reddito dei contadini, in quel periodo parte consistente della popolazione complessiva (in milioni di dollari, questo reddito passava da 10,4 nel 1922 a II,3 nel 1923, 12 nel 1924, 12,7 nel 1925, 12,1 nel 1926, 12,3 nel 1927, 12,5 nel '1928 e 12,65 nel 1929). Il fatto che non esistessero allora le misure a favore dei disoccupati introdotte successivamente ha rappresentato un altro fattore di seria contrazione dei consumi e quindi .un ostacolo supplementare alla ripresa 40.
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39. Cfr. HUGH }ONESe RADICE,An American Experiment, London, 1936. Secondo la stessa fonte i beni di lento consumo sarebbero aumentati del 5,9%. 40. Nel 1932, per esempio, solo un quarto dei disoccupati ha ricevuto una assistenza sotto forma di generi alimentari e di combustibile. A N ew York coloro che potevano essere iscritti ai ruoli assisten-
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Non c'è dubbio che la crisi agraria ha avutO una effettiva incidenza non solo dal punto di vista interno degli Stati Uniti, ma anche e soprattUtto dal punto di vista delle relazioni economiche internazionali. La caduta dei prezzi delle materie prime ha compresso gravemente le capacità di acquisto da parte dei paesi sottOsviluppati o comunque produttori di materie prime e la loro situazione è peggiorata via via che per prevenire o fronteggiare la crisi sono state ristabilite o introdotte barriere protettive. Per di più, lo abbiamo ricordato, a partire dalla metà del 1928 si è registrata una fIessione poi accentuatasi dei prestiti esteri statUnitensi in direzione- dei suddetti paesi. Poiché in molti casi i prestiti" erano serviti a facilitare l'acquisto di prodotti finiti americani, la loro diminuzione o sospensione aveva la conseguenza di colpire ulteriormente le esportazioni e accrescere, dunque, la crisi negli stessi Stati Uniti. Nel saggio ripetutamente citato Galbraith segnala cinque 'debolezze' che sarebbero alla base del disastro del 1929 e ne spiegherebbero la durata eccezionale. Si tratterebbe della «cattiva distribuzione del reddito» (per cui nel 1929 u~ 5% di privilegiati riceveva oltre un terzo dei redditi personali complessivi); della «cattiva struttUra» delle aziende industriali e finanziarie (che avrebbe favorito la speculazione a valanga e il successivo catastrofico collasso); della «cattiva struttura» del" sistema bancario (impegni delle banche in operazioni speculative, frammentazione eccessiva con resistenza di un gran numero di unità indipendenti); del «dubbio stato della bilancia estera» (eccedenze crescenti della bilancia commerciale, da 375 milioni di dollari nel 1923 e nel 1926 a un miliardo nel 1928, speculazioni sui prestiti esteri); dello «stato infelice» della scienza economica (scarsa capacità di previsione, mito del bilancio in pareggio) mito della intangibilità del goldstandard ecc.).
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zionalmente la recessione e di ritardare la ripresa, e cioè
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tutti i fatti esaminati conducono alla conclusione che un grado di deliberata pianificazione e di direzione dei fenomeni economici, sia nazionale che internazionale, assai maggiore di quanto i paesi democratici non fossero disposti ad accettare, era condizione essenziale per la soluzione dei problemi economici nel mondo del dopoguerra 43.
Che questi fattori abbiano operato in tUtto o in parte, che taluni, come per esempio la crisi agraria, abbiano influito notevolmente sia sull'incubazione sia sulla profondità e persistenza della crisi, è fuori discussione: noi stessi li abbiamo richiamati. Ma quello che l'analisi di Galbraith e, in diversa misura, quella di Arndt non fanno risaltare è come questi fattori non siano che manifestazioni stOricamente concrete delle contraddizioni di un capitalismo giunto ormai nella fase di decadenza, come all'andamento dell'onda lunga dei decenni del 1920 e del 1930 avessero contribuito fattori più propriamente politici, come il terremoto della guerra mondiale e quello ancor più sconvolgente della rivoluzione russa, come, lo ripetiamo, certe 'debolezze' non fossero superate non tanto per scarsa intelligenza economica o insufficiente volontà
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Per parte sua Arndt 41 mette in risalto tre fattori che negli anni venti hanno operato nel senso di estendere interna-
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42. Più oltre, unicamente alla «relativa decadenza della divisione internazionale del lavoro», Arndt segnala, per gli anni trenta, «un arresto quasi completo dell'emigrazione e degli investimenti internazionali,.. 43. Op. cit., pp. 396-7.
ziali ricevevano 2,39 dollari la settimana per unità familiare (SCHLESINGER,op. cit., p. 233). 41. Gli insegnamenti economici del decennio 1930-40, Torino, Einaudi, 1949.
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52 politica, quanto per intrinseca incapacità del sistema di superarle (è facile, per esempio, denunciare le conseguenze negative delle protezioni doganali o i tentativi di ciascun paese di preoccuparsi soprattutto del suo particulare, ma non si dovrebbe dimenticare che le misure protettive erano ispirate dall'esigenza certo a breve termine, ma non per questo meno perentoria di evi.tare cadute ancora più gravi di settori delicati della produzione nazionale). E Arndt, in linea astratta, non ha torco a indicare come problemi fondamentali da risolvere «il controllo dei cicli economici» e una specie di pianificazione nazionale e sovrannazionale; ma in linea concreta questo controllo e questa pianificazione non si sono realizzati né prima né dopo il fatale autunno 1929 né sono stati introdotti ora proprio perché lo impedisce il meccanismo stesso dell'economia capitalistica. Kindleberger, sia nell'introduzione sia nella conclusione del suo studio, avanza a sua volta l'idea della necessità di una regolamentazione internazionale. 10 fa in una forma particolare: «una parte della ragione della lunghezza e la spiegazione principale della profondità della crisi è consistita nella incapacità della Gran Bretagna di continuare a svolgere il ruolo di underwriter [garante] del sistema e la riluttanza degli Stati Uniti ad assumerlo sino al 1936» (op. cito p. 28). La nazione-guida avrebbe dovuto accettare questo ruolo: «a) nel mantenere un mercato relativamente aperto dei beni indifficoltà; b) nel fornire prestiti anti-crisi a lungo termine; c) nel discounting [assicurare il risconto] nella crisi» (pp. 291-2). . L'obiezione a una simile impostazione è ovvia: la deprecata carenza di leadership non era una causa, bensi una delle forme in cui la crisi si manifestava. Il capitalismo si era intrinsecamente indebolito nel corso di due decenni perché l'antica potenza egemone non aveva più il dinamismo economico del passato (la relativa stagnazione della sua produzione negli anni venti ne era la manifestazione più trasparente) e perché la potenza candidata a sostituirla veniva coinvolta nella crisi prima e più profondamente degli altri paesi sviluppati e si preoccupava più di uscire dal marasma in cui era precipitata che di evitare guai agli altri. Questa valutazione doveva essere confermata dalla situazione degli anni quaranta e cinquanta. Gli Stati Uniti conquisteranno una solida leadership non per
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aver capito la necessità di questa leadership per l'equilibrio internazionale del sistema, ma perché la loro economia conoscerà un'ascesa consistente e prolungata e le stesse crisi dcliche si inseriranno in una nuova 'onda lunga' di sviluppo accelerato: su queSta base si assicureranno per qualche lustro una incontrastata superiorità rispetto a tutte le altre potenze capitalistiche. Nuovi squilibri sorgeranno quando questa situazione sarà scossa prima dall'ascesa verciginosa di paesi come la Germania occidentale e come il Giappone e poi dalla grave recessione in pieno sviluppo mentre scriviamo queste pagine.
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Crisi economica e lotte operaie
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Il nesso tra crisi e movimento di massa nei teorici del marxismo
Nell'attuale fase di crisi dell'economia capitalistica si è riproposto acutamente il problema degli effetti che una crisi può avere sulla situazione e sulla dinamica di lotta del movimentO operaio. Non è, quindi, un esercizio accademico richiamare sinteticamente quanto hanno scritto in proposito i principali teoriei marxisti, peraltro impegnati nelle lotte delle organizzazioni operaie del loro tempo. Innanzi tutto, per riferirei all'aspetto più generale dell'andamentO dei salari, Marx sottolinea a più riprese che i m,ovimenti
generali del salario sono regolati esclusivamente
dall'espansione e
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contrazione dell'esercitoindustriale di riserva, lequa/i
corrispondono a/l'alternarsi del periodo del ciclo industriale. Non sonodunque determinati dal movimentodel numeroassolutodella popolazione operaia, ma dalla mutéVo/eproporzionein cui la classe operaia si scinde in esercito attivo e in eserciro di riserva, dall'aumento e dalla diminuzione del volume relativo della sovrappopolazione, dal grado in cui questa viene ora assorbita ora di nuovo messa in libertà l.
In altri termini, essendo una merce, la forza-lavoro è sottoposta alle condizioni del mercato in cui viene venduta: l'eccedenza dell'offerta sulla domanda tende a far cadere il prezzo e viceversa. Naturalmente, soprattutto nella pratica attuale, la 1. Il capitale, Roma, Rinascita, 1956, voI. I, 3, pp, 87-8; cfr. anche pp. 91-2 e 121.
/
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logica economica non agisce allo stato puro, ma è condizionata dall'elementO politico, cioè dal grado di organizzazione e dal livello di combattività della classe operaia nel momento dato. Storicamente i paesi dell'Europa occidentale hanno attraversato due grandi periodi, il primo dal secolo XVIalla metà del secolo XIX, durante il quale i salari si sono ridotti sempre di più all'alimenrazione minima necessaria per la sopravvivenza, il secondo dopo la metà del secolo XIX durante il quale prima c'è stato un aumento, poi una stagnazione o addirittura Una flessione e quindi un nuovo aumento. C'è appena bisogno di ricordare, inoltre, che nel corso del boom prolungato degli anni cinquanta e della prima metà degli anni sessanta la caduta della disoccupazione in vari paesi capitalistici è stata accompagnata da aumenti salariali, in certi casi anche abbastanza
consistenti
2,
Infine, durante gli ultimi due anni, in una
situazione di recessione sempre più netta e generalizzata con un notevole aumento della disoccupazione o della disoccupazione parziale, si sono verificate in alcuni paesi -; per la prima volta dopo quindici-vent'anni - contrazioni dei salari reali. Il meccanismo specifico è stato quello non della riduzione in assoluto, ma dell'usura in seguito al processo inflazionistico. Tuttavia la crescente massa dei disoccupati e il pericolo di una disoccupazione ancora più vasta hanno certamente agito come elementi di freno, impedendo o limitando seriamente razione di recupero rispetto ai prezzi che non era stata senza risultati negli anni precedenti. Soprattutto in relazione al grado di crisi complessiva del sistema, ancor più importante del rapporto crisi-salari è il rap2. Nel capitolo V del primo volume del suo Manuale Mandel riporta statistiche interessanti sull'andamento dei salari durante vari secoli. Vale la pena richiamare quelle riguardanti i salari reali dei minatelri britannici che da un indice 110-115 nel 1475-80 sarebbero passati all'indice 56 nel 1528, 45 nel 1600, 38 nel 1610-20, 55 nel 1700, 65-70 nel 1740-50, 53 nel 1765-70, 47 nel 1772, 38 nel 1800 per superare di nuovo 100 solo verso il 1880. Tra il 1850 e il 1914 in 'Gran Bretagna e in Francia i salari reali sarebbero quasi raddoppiati. Per '1\1anto riguarda la Gran Bretagna dal 1800 al 1966 il rapporto tra salari e occupazione è messo in luce con riferimenti statistici in un saggio di PAOLOSYLOSLABINIcontenuto in Problemidello sviluppo economico,Bari, Laterza, 1970.
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porto crisi-lotte e, potenzialmente, lotte rivoluzionarie della classe operaia. A questo proposito il richiamo alle concezioni dei teorici marxisti è tanto più utile in quanto in polemiche recenti non sono mancati tentativi di interpretazioni unilaterali in appoggio alla tesi secondo cui la crisi economica agirebbe in senso sfavorevole a una radicalizzazione e a un allargamento delle lotte o addirittura a un mantenimento dei livelli medi degli anni seguiti al 1968. In Marx ed Engels il problema non viene affrontato in modo sistematico, ma emerge da vari passi di epoche diverse. In una prefazione del 1886 al CaPitale, dopo aver constatato l'aumentO dei disoccupati «di anno in anno» e l'insolubilità del problema, Engels afferma: «Possiamo quasi calcolare l'epoca in cui i disoccupati perderanno la pazienza e prenderanno la loro sorte nelle proprie mani»~.Se ne ricava, dunque, che per i disoccupati veniva prospettata una funzione positiva nella lotta rivoluzionaria della classe operaia. Da una serie di altri passi dello stesso Engels e di Marx traspare chiaramente !'idea che una crisi economica fosse una condizione perché si creasse una situazione di instabilità e di crisi politica e la lotta rivoluzionaria della classe operaia ricevesse impulso. Per fare qualche esempio, i rivolgimenti politici del 1848 sono messi in relazione con la crisi -del 1847 e al contrario, il rilancio degli affari del 1849 è presentato come il fattore che «spezzò lo slancio dei movimenti rivoluzionari del continente» 4. In una introduzione alla Guerra civile in Francia Engels scrive ancor più esplicitamente che la crisi del 1847 è stata la madre della rivoluzione del 1848, l'ascesa del 1849-51 la madre della controrivoluzione. Una impostazione analoga aveva del resto ispirato una pagina significativa della giovanile opera engelsiana La situazione della classe operaia in Inghilterra 5, come ispirerà allo stesso autore in età matura una più cauta considerazione sull'influenza che una crisi economica era destinata ad avere «sulla storia politica e intellettuale della classe operaia dell'America e dell'Inghilterra» (Lettera a Wisnewsky, 3 febbraio 1886).
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3. Il capita/e, cit., p. 38. 4. l1/i,voI. 11I,2, pp. 89-90. 5. Roma, Rinascita, 1955, pp. 308-9.
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Indicazioni nello stesso senso compaiono nell'epistolario tra Marx ed Engels, Per non fare che qualche esempio, il 19 agosto 1852, dopo aver individuato alcuni segni dell'avvicinarsi di una crisi, Marx aggiunge: «Larivoluzione potrebbe venire prima di quanto desideriamo». Nella risposta del 21
agosto Engels precisa:
Per esempio, 1'11 dicembre 1851 Engels scriveva a proposito della situazione in Francia: Entro un paio di mesi i rossi dovranno avere di nuovo un'occasione in cui potersi mostrare, magari già diJrante le elezioni: ma se allora aspetteranno di nuovo, li do per spacciati, e allora neanche con la più bella crisi commerciale riusciranno ad altro che avere un sacco di legnate che li metteranno definitivamente da conto per qualche anno. Che conto si può altrimenti fare della plebaglia, quando disimpara a battersi?
.
Dipende ancora molto dall'intensità della crisi se genererà subito una rivoluzione: subitO, cioè tra sei o ottO mesi. Il cattivo raccoltO in Francia ha rair che là si possa arrivare a qualche cosa; ma se la crisi diventa cronica e il raccoltO in fondo sarà un po' meglio di quanto non ci si sia aspettato, la stOria può sempre durare fino al 1854. Confesso che vorrei che mi restasse, ancora un anno per studiare, devo finire ancora qualche cosa,
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In una lettera di alcuni anni dopo, il 14 aprile 1856, dopo aver accennato ai problemi critici che lo sviluppo dell'industria continentale creava all'industria inglese, Engels dice: «In questo enorme slancio dell'industria continentale risiede il germe più vitale della rivoluzione inglese». Corrispettivamente, Engels aveva sottolineato che la prosperità avrebbe'potuto frenare la maturazione degli operai. A proposito della Francia aveva scritto, infatti, il 24 settembre 1852: «Pare che après tout gli operai si siano perfettamente imborghesiti per la momentanea prosperitye per le prospettive della gIoiredell'emPire, Ci sarà bisogno di una dura lezione a forza di crisi, se devono riesser presto capaci di qualche cosa». Un concetto analogo ritorna in una lettera del 7 ottobre 1858 dello stesso autore che, dopo aver parlato di «progressivo imborghesimento del proletariato inglese», aggiunge: «Qui non c'è altra salvezza che un paio di annate pessime...». D'altra parte sempre Engels considera che una crisi potrebbe stimolare anche forti movimenti di riforma. Il 13 marzo 1857 prospetta la possibilità di «una bella crisi di sovrapproduzione in Inghilterra», commentando: «Questo non può che portare aiuto al movimento radicale per la riforma». Sarebbe errato ricavare da questi richiami !'impressione che il rapporto tra crisi e lotta rivoluzionaria fosse concepito da Marx e da Engels in modo troppo meccanico. Essi non ignoravano certo che la utilizzazione di una crisi in senso rivoluzionario esige l'esistenza di precise condizioni politiche.
Il 15 novembre 1857, riferendosi alla crisi di quell'anno, diceva: Sarebbe desiderabile che prima che arrivasse un secondo colpo decisivo si verificasse quel 'miglioramento' che rendesse la crisi, da acuta, cronica. La.pressione cronica è necessaria per un certo tempo per riscaldare il popolo. Il proletariato in questo caso colpisce meglio con una migliore çonnaissançede çause e con maggiore accordo: proprio come un attacco di cavalleria riesce molto meglio quando i cavalli abbiano dovutO trottare per un 500 passi, prima di arrivare alla carica, Non vorrei che scoppiasse qualcosa troppo presto, prima che tutta l'Europa ne fosse contagiata; la lotta dopo sarebbe più dura, più noiosa e più indecisa.
Marx faceva una considerazione simile un mese dopo a proposito dell'utilità di una sosta della crisi dal punto di vista degli interessi del «partito» 6. Lenin analizza agli inizi del secolo la crisi commerciale e industriale allora in corso traendone la conclusione che nel contesto dell'autocrazia zarista avrebbe potuto contribuire
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a radicalizzare
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Ma è soprattutto
in
relazione alla crisi del 1907 e agli sviluppi della situazione dopo r esaurirsi dell'ondata rivoluzionaria del 1905 che precisa la sua concezione nel quadro del dibattito tra le varie tendenze della socialdemocrazia russa. Per un certo periodo
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contrariamente ad altri
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continua a credere possibile un
rilancio rivoluzionario a scadenza breve e tutte le sue impostazioni sono ovviamente condizionate da questa premessa.
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gli operai e i contadini
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6. Tutte le citazioni sono tratte da MARX-ENGELS,Carteggio, Roma, Rinascita, 1950. 7. Opere,voI. v, Roma, Editori riuniti, 1958, pp. 75-9.
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Cosi nel progetto di risoluzione per il V congresso del POSDR indica la prospettiva di una continuazione e di un aggravamento della crisi economica in corso e di una ripercussione della stessa sulla lotta di classe nel senso di provocare l'inasprimento e lo sviluppo di «un'azione economica di massa generale, a cui partecipino strati molto più larghi del proletariato che non in quelle [manifestazioni] precedenti». Raccomanda, quindi, di considerare ..ilmovimento economico quale fonte principale e importantissima della crisi rivoluzionaria che si sta sviluppando» 8. Altrove ritorna sullo stesso concetto, sul concetto cioè che ..Ia crisi avrebbe approfondito la lotta. politica tra le classi, contribuendo a far maturare una nuova crisi rivoluzionaria» 9. D'aitra parte egli non contesta gli effetti positivi che può avere per il rafforzamento della compagine del proletariato e delle sue posizioni di lotta ..una ripresa degli affari». Tàle ripresa avrebbe potuto facilitare la generalizzazione degli scioperi, il coinvolgimento di strati più vasti del proletariato: l'esperienza della rivoluzione aveva dimostrato il nesso tra ..il movimento di scioperi e .rascesa
dati sulla crisi, neanche la più idealmente esatta; può in sostanza decidere se si sia o no in presenza di un'imminente ripresa rivoluzionaria, poiché questa ripresa dipende da mille fattOri che è impossibile considerare in anticipo. Senza il terreno generale della crisi agraria e della depressione industriale sono impossibili crisi politiche profonde: questo è incontestabile. Ma dall'esistenza di questo terreno generale non si può arguire se la depressione frenerà per qualche tempo la lotta di massa degli operai o se ad un certopunto questa stessadepressione spingerà alla lotta politica nuove masse ed energie fresche. Per risolvere la questione si può seguire una sola strada: ascoltare attentamente il pulsare di tutta la vita politica e stUdiare, in special modo, il movimento
e gli umori delle grandi masse proletarie
1'.
Non si poteva affermare più chiaramente che le conclusioni dei marxisti rivoluzionari devono basarsi su un'analisi della situazione nella sua totalità, N el periodo in cui Lenin scrive queste pagine anche Trotskij si cimenta con lo stesso problema. Vi ritornerà a più riprese: all'inizio degli anni venti, dopo la sconfitta della seconda rivoluzione cinese e nel corso degli anni trenta. Per questo ha potuto dare in proposito un contributo più organico dei grandi teorici che lo avevano preceduto, compreso Lenin.
rivoluzionaria» l0.
Ma è in un articolo comparso su ..Proletari» nel novembre 1908 che Lenio, stimolato dalle esigenze di polemiche interne, precisa la sua concezione, Dopo ave~ accennato a due tesi che si contrapponevano (secondo alcuni non si poteva più ..condurre come in passato la lotta economica offensiva degli operai» ed era quindi impossibile una ripresa rivoluzionaria imminente, secondo altri l'impossibilità della lotta economica spingeva alla lotta politica, rendendo quindi «inevitabile un'imminente ripresa rivoluzionaria»), scrive:
Il motivo
conduttore
di molti suoi scritti
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in chiave
polemica nei confronti delle posizioni di altre tendenze del movimento operaio russo e internazionale è che è sbagliato stabilire un nesso quasi automatico o univoco tra crisi economica e radicalizzazione o rilancio della lotta economica e politica della classe operaia. Nel periodo di reazione dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905 Trotskij polemizza sia contro quegli economisti che escludevano una ripresa dell'industria russa in quel periodo, sia contro quei dirigenti bolscevichi e menscevichi che, accettando per buona questa premessa, traevano la conclusione che ci sarebbe stato un riacutizzarsi della crisi rivoluzionaria. Sostiene che, nel contesto dato, una crisi avrebbe avuto «l'effetto non di stimolare la classe operaia, ma di deprimerla» e che sarebbe stata, invece, la ripresa economica «inevitabile» a dare impulso alla lotta rivoluzionaria. Di fatto, un rilancio industriale ebbe
-
Pensiamo che i ragionamentidegli uni e degli altri siano fondati sullo stesso errore, che consistenel semplificareuna questione tanto complessa. Senza dubbio, l'analisiminuziosadella crisi industrialeha grande importanza. Ma è altresl innegabileche nessuna raccolta di 8. ll1i, voI. XII, pp. 121 e 127-8. 9. ll1i, voI. xv. p. 304. lO, Ivi, voI. XIII, pp. 37-8. E' vero che Lenin ripona qui argomenti di altri che poi confuta. Ma la confutazione riguarda la parola d'ordine del boicottaggio che i suoi interlocutori ricavavano dalla premessa analitica, non l'impostazione del problema tra ripresa e rilando delle lotte.
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111;,voI. Xv, pp. 263-4.
62 luogo attorno al 1910 e abbastanza presto si scatenò una fone ondata di scioperi, culminati poi nelle grandi lotte della vigilia
della prima guerra mondiale 12. Ancora più importante la discussione sullo stesso problema al III congresso dell'Internazionale comunista (giugno 1921). Nella relazione di cui abbiamo fatto cenno a proposito dei cicli economici, Trotskij comincia con il respingere ogni
richiamo semplicisticoalle valutazionidi Marx e di Engels 13. Venendo al nodo della questione, dice testualmente: Ci si potrebbe chiedere se le grandi lOtte per i salari, di cui un esempio. classico è lo sciopero dei minatori in Inghilterra, condurranno automaticamente alla rivoluzione mondiale, alla guerra civile finale e alla lotta per la conquista del potere politico. Ma non è marxista porre il problema in questO modo. Non abbiamo nessuna garanzia di uno sviluppo automatico. Ma, quando alla crisi segue una congiuntura transitoria favorevole, che cosa può significare per il nostro sviluppo? Molti compagni dicono che, se in questa fase ci sarà un miglioramento, sarà fatale alla nostra rivoluzione. No, in nessun caso. In generale, non esiste una dipendenza automatica del movimentO rivoluzionario proletario da una crisi. Esiste solo un'azione dialettica re~iproca. E' essenziale capirlo.
Dopo aver richiamaro le sue posizioni alla fine degli anni dieci, prosegue: Se oggi, in un periodo del più grande esaurimento della classe operaia in conseguenza della crisi e della continua lotta, non riuscissi-
12. Cfr. il capitolo La preparazione di una nuova rivoluzione dall'opera La mia vita, in corso di pubblicazione presso l'editore Mondadori. Cfr., sempre di Trotskij, Statin, Milano, Garzanti, 1947, pp. 177-8. 13. Trotskij fa una messa a puntO a proposito dell'affermazione di Engels sulla crisi del 1847 e la rivoluzione del 1848: «la rivoluzione del 1848 non è stata generata dalla crisi che non ha fatto altro che darle l'ultimo impulso. Essenzialmente la rivoluzione è stata prodotta dalle contraddizioni tra le esigenze dello sviluppo capitalistico e le catene del sistema sociale e dello Stato semifeudale. la rivoluzione esitante del 1848, rimasta a mezza strada, ha, tuttavia, spazzato i residui del regime delle ghilde e della servitù e ha così allargato il quadro dello sviluppo capitalistico. A queste condizioni e solo a queste condizioni, l'ascesa del 1851 ha segnato l'inizio di tutta una fase di prosperità capitalistica durata sino al 1873;).
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63 mo a vincere, il che è possibile, allora un mutamento nella congiuntura e un miglioramento del livello di vita non avrebbero un effetto negativo sulla rivoluzione, ma al contrario sarebbero altamente favorevoli. Un tale cambiamento sarebbe negativo solo nel caso in cui la congiuntura favorevole segnasse !'inizio di una lunga epoca di prosperità 14.
Qualche mese dopo mento
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dicembre 1921
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rirorna sull'argo-
nei termini seguenti:
- la cessazione della crisi e !'incipiente ripresa economica nei paesi industriali più importanti ci porterà politicamente più vicini alla possibilità di un movimento rivoluzionario di massa. Se in futuro il deterioramento dovesse continuare nella stessa direzione dell'ultimo anno il che considero improbabile, impossibile, ed economicae mezzo mente infondato - in questO caso, secondo la mia opinione, lo
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sviluppo rivoluzionariosarebberitardato 15. Nel 1928 una problematica analoga è rievocata in riferimentO alla situazione in Cina dopo la sconfitta della rivoluzione del 1925-27 _Trotskij respinge la tesi dell'Internazionale comunista ormai stalinizzata secondo cui la crisi industriale e commerciale avrebbe potuto determinare a breve scadenza una ripresa rivoluzionaria. «Dopo treschiacdanti sconfitte- afferma~ una crisi economica non stimola, ma al contrario deprime il proletariato, che è già stato dissanguatO...». La sconfitta della classe operaia "permetterà alla borghesia cinese di superare in qualChe modo la terribile crisi economica che esiste attualmente nel paese; naturalmente dò sarà ottenuto a spese degli operai e dei contadini. Questa fase di 'ristabilizzazione' raggrupperà di nuovo gli operai, darà loro coesione, restituirà loro fiducia in se stessi in modo che successivamente si leveranno di nuovo contro il nemico più duramente e a un livello storico più elevato» 16. All'inizio della grande depressione il problema diventa di ancor più bruciante attualità. In uno scritto del gennaio 1930 Trotskij ribadisce il suo ammonimento: 14. The First Five Years o/ Communist International, New York, Pioneer Publishers, 1945, voI. I, pp. 207-11. 15. Ivi, voI. Il, pp. 72-3; cfr. anche pp. 83 e 203. 16, L'insurrezione di Cantonin Problemidella rivoluzionednese e altri scritti su questioni internazionali 1924-1940, Torino) Einaudi, 1970, p. 202.
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E' falso che una crisi, sempre e in qualsiasi situazione, radicalizzi le
masse.
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Esempio: l'ItaIia, la Spagna, i Balcani ecc. E' falso che la radicaIizzazione deUa classe operaia corrisponda immancabilmente a un periodo di declino del capicalismo.Esempio: il cartismo in Inghilterra ecc... La disgrazia sta nel fatto che l'aumento dello sfruttamenco non comporca in ogni circostanza una maggiore combattività del proletariato. Cosi, in una congiuntura decrescente,in un periòdo di sviluppo della disoccupazione, soprattuno dopo aver perduto deUe' baccaglie, l'aumento dello sfruttamenco provoca non la radicalizzazione delle masse, ma, al contrario, l'abbattimento, lo sbandamento, la disgregazione. Per esempio, è quello che abbiamo visto presso i minatori inglesi, aU'indomani dello sciopero del 1926 17. .
In uno scritto sulla Germania del settembre 1932 Trotskij prevede abbastanza correttamente il mutamento della congiuntura mondiale che si realizzerà nella prima metà del 1933 e prospetta la possibilità che il mutamento della congiuntUra comporti «sin dalle prime fasi una decisa ascesa delle masse». Individua puntualmente i limiti del ~uovo ciclo ascendente e conclude: Senza correre il rischio di sbagliare si possono fare i seguenti pronostici: la ripresa economica sarà sufficiente ad accrescere la fiducia degli operai in se stessi e,a dare nuovo impulso alla locca,ma non basterà affaccoad assicurare una possibilità di rinascita al capitali-
smo, in particolare
al capitalismo europeo
".
65 egli non ~scludeva affatto che una crisi economica potesse far precipitare una crisi rivoluzionaria, e comunque precisava che gli effetti negativi della crisi sulla classe operaia e sull'andamento delle sue lotte sono ipotizzabili come la variante più probabile quando la classe operaia abbia già subito una sconfitta. «Una crisi economica può affrettare una esplosione rivoluzionaria e questo è accaduto più di una volta nella storia» e, di converso, «la storia registra che una ripresa di lunga durata ha spesso assicurato il sopravvento delle correnti opportunistiche in seno al proletariato» 20. E in La mia vita ricorda che le sue considerazioni degli anni dieci sugli effetti negativi della crisi (e positivi di una ripresa) partivano dal presupposto che il proletariato russo usciva da un periodo «di grandi lotte e di grandi sconfitte». Sempre nelle stesse pagine aggiunge che, se «la dialett'Ìca del processo non è di per sé complessa», tuttavia, è «più facile esprimerla nelle linee generali che coglierla ogni volta negli avvenimenti concreti», e ribadisce che le relazioni reciproche tra tendenze economiche e lotte politiche devono essere ricavate «dal processo nella sua globalità» 21. Qui è trasparente la coincidenza con l'impostazione di metodo che anche Lenin si era pteoccupato di sottolineare. E per noi è sin troppo ovvio èhe nessuna citazione o antologia di citazioni può esentare chi intenda porre il problema in rapporto alla grande depressione o alla crisi attuale da un'analisi di tutti
i fattori che agiscono
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e interagiscono
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nel con-
Infine, dopo l'avvento di Hitler al potere, contro le illusioni irresponsabilmente diffuse dagli staIiniani, afferma nettamente: «Non ci attendiamo per la Germania immediate ripercussioni in senso rivoluzionario da un ulteriore aggravarsi della
teSt9 storico concreto.
Il pensiero di Trotskij non può, tuttavia, essere ridotto al motivo sul quale le esigenze della polemica politica e della chiarificazione teorica lo hanno spinto a insistere maggiormente. Come risulta già da alcune delle citazioni riportate,
Non è oggetto di questo capitolo l'analisi degli avvenimenti politici degli anni trenta. Tuttavia, volendo accennare agli
crisi industriale»
19.
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17. 1/ trterzoperiodod'erroridell'Internazionalecomunista, in Crisi del caPitalismoe movimentooperaio,Roma, Savelli. 1975, pp. 43-4. 18. Scritti 1929-1936, Torino, Einaudi, 1962, pp. 391-4. 19. può1957, durare Milano,Quanto Schwarz, pp.Ritler?, 266-7. in La Il1 InternazionaledopoLmin,
La crisi e gli sviluppi politici degli anni trenta
20. Ibid. 21. In La chiave della situazione è in Germania Trotski; fa la previsione, rivelarasi fondata, che la radicalizzazione operaia e la riorganizzazione sindacale negli Stati Uniti si sarebbero verificate «non nel periodo di congiuntura economica peggiore, ma, al contrario, quando si ritornerà a una nuova attività, a una nuova ascesa>o(Scritti 1929-1936, cit., pp. 276-7).
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66 67 effetti che la grande depressione ha avuto sull'evolvere della situazione politica, va constatato, innanzicutto, che negli stessi anni della crisi il mondo è stato scosso da eventi di grande e si~nificativa portata di segno diverso o addirittura opposto -, daU'inizio della rivoluzione spagnola con la caduta della monarchia (aprile 1931) all'avvento di Hider al potere (gennaio 1933), dall'apertura delle campagne militari dell'imperialismo giapponese in Cina (settembre 1931) al cambio di rotta nella politica della classe dominante statunitense rappresentatO dalla vittoria di Roosevelt nelle elezioni presidenziali del 1932,
storica della classe operaia rappresentata dalla vittoria del franchismo. Negli Stati Uniti la classe operaia entra nella crisi con una percentuale di sindacalizzazione non solo limitata ma già nel 1929 in fase di sensibile contrazione e per di più con un'organizzazione sindacale corporativa e settorialistica. Sul piano politico non ha raggiunto neppure lontanamente il livello conquistato da vari decenni dalla classe operaia dell'Europa. In queste condizioni la crisi costituisce un duro colpo che la indebolisce politicamente e organizzativamente. Solo nel 1932 si registrano le prime dimostrazioni importanti di disoccupati: quella del marzo a DettOit e quelle che vedono mobilitati a partire dal maggio i disoccupati reduci di guerra che esigono il pagamento di 'certificati di ricompensa' in teoria esigibili solo nel 1945. La rianimazione del proletariato va di pari passo con la ripresa: in quel momento maturano alla coscienza le dure esperienze che gli operai e gli sfruttati in genere hanno fatto durante la lunga crisi. Il giugno 1933 vede un'ondata di sciopeci che analogamente ad altri successivi si concludono con un bilancio negativo. Ma non era che un preludio. Nel 1934 si sviluppa la grande lotta degli operai dell'industria automobilistica di Toledo nell'Ohio, una lotta che ha grandi ripercussioni e provoca vigorose mobilitazioni, concludendosi nel giugno con un successo sia per gli aumenti salariali strappati (5 %, con un minimo del 5% al di sopra delle tariffe del settore Auto lndustry Code),sia per il delinearsi di una riorganizzazione sindacale (preludio all'organizzazione sulla base di categoria e non più per mestieri o specializzazionD. Seguono nello stesso anno gli scioperi non meno significativi dei camionisti di Minneapolis e dei marittimi di S. Francisco. Il culmine dellIlovimento è raggiunto con l'ondata di scioperi con occupazioni di fabbriche oltre mille tra il 1936 e il 1937 con la partecipazione di circa mezzo milione di operai. Negli scioperi in generale sono coinvolti 1.861.000 operai (il numero degli scioperi è di 2.172 nel 1936 e di 4.740 nel 1937). La lotta più importante è il grande sciopero con occupazioni. di impianti degli operai della General Motors tra la fine del 1936 e gli inizi del 1937. Significative le rivendicazioni avanzate: riconoscimento del sindacato dell'automobile (UAW) e contratto;
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N on si tratta di scoprire un legame rigido tra la crisi e.il suo andamento da una parte e ciascuno di questi avvenimenti dalI'altrà. Non c'è dubbio però che la crisi economica ha contribuito in certi casi con forza irresistibile a far precipitare tutta una serie di contraddizioni sociali e politiche tra le classi. e all'interno delle stesse classi dOminanti. E' dipeso da fattOri peculiari, soprattutto politici, se l'esplodere di queste contraddizioni ha portato a una radicalizzazione della lotta della classe operaia e di altri strati sfruttati e a successi nel corso di questa lotta, oppure ha aperto la strada a operazioni reazionarie Vittoriose della classe dominante. lo stato in cui la classe operaia è entrata nella fase economica depressiva ha avuto in proposito una influenza molto grande. Non si dimentichi che, in linea generale, la classe operaia aveva subito sconfitte di notevole portata negli anni precedenti (Gran Bretagna 1926, Cina 1927); senza Contare le sconfitte deli'inizio degli anni venti in paesi decisivi dell'Europa occidentale (1922 in Italia, 1923 in Germania). Tuttavia, ripetiamolo, la crisi fa riesplodere le contraddizioni aprendo obiettivamente nuove possibilità. In Spagna, dove già il collasso economico alla fine della prima guerra mondiale era stato il preludio di una radicalizzazione della lotta politica, la crisi finanziaria del 1929 influisce fortemente sulla caduta di Primo De Rivera. Questo avvenimento è il primo episodio di una nuova fase che culmina con l'abbattimento della monarchia nell'aprile del 1931. Da allora al 1938 la Spagna entra in un periodo di drammatici conflitti sociali e politici, di crisi prerivoluzionarie e rivoluzionarie, di successi e di sconfitte parziali, sino allo sbocco della sconfitta
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68 abolizione del lavoro a cottimo; 30 ore alla settimana e 6 ore giornaliere; p.agamento degli straordinari in ragione di una volta e mezza la paga oraria normale; fissazione di un minimo salariale; introduzione del sistema di anzianità (seniority) e riassunzione dei sindacalisti licenziati. Queste rivendicazioni sono realizzate solo in parte; ma la vittoria maggiore consiste nell'imposizione del riconoscimento del nuovo tipo di organizzazione sindacale. Qualche mese prima, alla fine del 1935, era nato il CIO (Congress of Industrial Organizations). Nel settembre del 1937 il CIO ha già 3.718.000 iscritti, mentre la vecchia centrale, l'AFL, ne dichiara, sempre per il 1937, un numero pressoché equivalente (3.600.000). La-Germania rappresenta la variante tragica. La crisi - con il colossale aumento della disoccupazione colpisce duramente la classe operaia come forza sociale e nel momento culminante porta addirittura a una specie di paralisi deUa sUa attività 22. La grande massa dei disoccupaci esercita un peso enorme e finisce con il diventare politicamente decisiva (in senso negativo). lo sbocco di una delle sconfitte più spaventose e più gravide di conseguenze che il proletariato abbia subito su scala mondiale in tutta la sua stOria non era fatalmente prestabilitO. I partiti operai disponevano di una 'grande forza e il P;u1:ito comunista in particolare aveva accresciutO la sua inf1ue~za, come aveva indicato il considerevole successo elettorale del 1930. Ma la mancanza di una chiara prospettiva, l'incapacità della direzione socialdemocratica e di quella staliniana a mobilitare le masse in una dinamica di lotta rivoluzionaria, la divisione provocata dal conservatorismo tenace della prima e dal settarismo irresponsabile della seconda fecero sì che una parte notevole degli strati sociali colpiti dalla crisi e gettati nella disperazione subissero l'attrazione deU'ideologia e dell'iniziativa politica del nazismo, fornendogli la base di massa necessaria per la conquista del potere. Questa conquista avviene quando la ripresa su scaia mondiale non si è ancora avviata. Ma anche dopo il mutamento della congiuntura, data la gravità della ,
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22. Anche a questo proposito hanno grande valore le analisi di Trotskij sulla Germania di quel periodo. Cfr. E ora?, in Scritti 1929-1936. cito
disfatta, la classe operaia non è in grado di ricavare i vantaggi che avrebbe potuto ricavare in altre condizioni. In Francia, infine, la crisi si produce con due anni di ritardo rispetto ad altri paesi e in forma meno esplosiva; in compenso si prolunga sino al 1935. Al suo sopraggiungere la classe operaia non ha subito sconfitte né del tipo di quella della classe operaia tedesca nel 1933 né del tipo di quella della classe operaia inglese nel 1926. Nel 1934 riesce a sventare con successo le manovre fasciste di scrumentalizzazione del malcontento deUe classi medie. Così le misure deflazionistiche del governo e la crisi agiscono, in ultima analisi, come elementi di radicalizzazione sociale e politica. Il puntO di arrivo sarannO la vittoria elettorale del fronte popolare e la crisi rivoluzionaria del giugno 1936. Proprio nel quadro di lotte tese a combattere le conseguenze della crisi, la classe operaia passerà all'offensiva su tutti i piani e riuscirà a strappare conquiste di grande rilevanza. L'in terpretazionedi Varga elerispostedella borghesiaalla crisi Tra le interpretazioni della crisi merita di essere ricordata quella contenuta in vari scritti di ~ugen Varga, che ha cercato di esprimere l'ortodossia della direzione dell'Unione Sovietica e dell'Internazionale comunista in una fase di burocratizzazione sempre più accentuata23. Anche su questo piano si è precisato il destino di questo economista, dotato di capacità notevoli e in grado di dare contributi rigorosi, ma danneggiato dall'intento di non contrapporsi alla linea staliniana e quindi condannatO a forzare o falsare le analisi per giustificare le conclusioni politiche tratte dai dirigenti e a farsi periodiche autocriciche sempre in omaggio alle esigenze 23. Questi scritti sono stati in parte raccolti nel volume della Jaca Book che già abbiamo citato, purtroppo in una disastrosa traduzione dal tedesco. Per un'analisi delle tesi di Varga merita di essere esaminato, nonostante alcune valutazioni molto discutibili e varie carenze (per esempio !'interpretazione riduttiva del dibattito del III congresso deU'Int,ernazionale comunista), lo scritto di ERNESTO GALLI DElLA LOGGIA in Storia del marxismo contemporaneo, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 980-1015.
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politico ideologiche contingenti. Trotskij, che pure aveva collaborato con lui ai tempi dei primi congressi della Terza Internazionale, ha formulato uno sferzante giudizio nei suoi confronti definendolo «teorico e cortigiaflo famoso, questo Polonio shakespeariano che ha sempre pronta una parola amabile per ogni 'principe', ora a sinistra, ora a destra, a seconda del tempo che fa>,Z4. Gli scritti di Varga sulla crisi risentono largamente delle teorizzazioni staliniane del cosiddetto terzo periodo; delle schematizzazioni analitiche che le caratterizzavano; dell'impostazione che prospettava l'inevitabilità di una vittoria aella rivoluzione su scala mondiale a scadenza ravvicinata; delle caratterizzazioni settarie dei parciti socialdemocratici come socialfascisti; della necessità di cogliere ogni occasione per associarsi al linciaggio degli oppositori2 5. Ciò non significa che tutta una serie di dati analitici e di richiami teorici non siano corretti e pertinenti (per questo li abbiamo ripetutamente utilizzati). Ciò non toglie che Varga non abbia colto nel segno a proposito della profondità della. crisi, del carattere effimero della ripresa che sarebbe seguita, dell' 'onda lunga' depressiva. Né si trattava di richiami generici alle formule 'catastrofistiche' del terzo periodo.
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E' importante- avevainfattiscrittonel1931 che anche dopo la cessazione della fase acuta della crisi non subentrerà in alcun modo un generale ravvivamentoche abbraccitutti i paesi e i settori della produzione, tanto meno una nuova stabilizzazionedel capitalismo, come profetizzava Hilferdirigalcunianni fa. Al contrario:la fase di depressione diviene profonda e duratura, l'ascesa,in quei paesi nei quali in generale avrà luogo, sarà relativae breve e non alta, cui seguirà una nuova fasedi crisiancorapiù profondae pesantedi quella presente
26.
24. Il «terzoperiodo»cit., p. 86. 25. Abbiamo già accennato alle polemiche contro Trotskij-Kon-
drat'ev.Altrove Varga scrive:«I rinnegatiTrotskij e Thalheimerhanno contribuito il più possibile da parte loro a confondere gli operai, poiché essi presentarono il fascismo come 'bonapartismo', come il dominio di una cricca che, appoggiandosi alla piccola borghesia e al proletariato straccione, governa contro la borghesia» (op. cit., p. 482, nota 23). A parte la singolare confusione con Thalheimer, chi abbia letto una sola pagina di Trocskij sull'argomento non ha difficoltà a rendersi conto della operazione falsificatoria. 26. Op. cit., p. 275.
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Analogamente non può essere considerata solo come un richiamo rituale l'affermazione che, qualora dalla crisi non fosse derivata una vittoria della rivoluzione proletaria, sarebbe stato inevitabile il precipitare verso una nuova guerra' 7. ChiaritO questo, accenniamo sinteticamente agli errori più rilevanti. In primo luogo, affiora ripetute volte una previsione catastrofistico-meccanicistica secondo cui la crisi non avrebbe lasciato al capitalismo nessuno sbocco: «Il suo [del scrive agli capitalismo) destino appare senza via di uscita inizi del 1930 sottO la trasparente influenza dei motivi conMolto prima di poter pervenire duttori del terzo periodo alla realizzazione di questi progetti, il capitalismo soccomberà all'attacco delle masse proletarie»zs. La stessa deformazione si manifesta anche in aspetti parziali dell' analisi. Bastino due esempi, su diversi piani. Dalla individuazione corretta dei conflitti di interessi tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna nella lotta pp.r l'egemonia mondiale, Varga ricava meccanicamente la conclusione che «la guerra tra queste due potenze mondiali è inevitabile nel caso che la rivoluzione proletaria non la preceda»' 9. La valutazione degli 'effetti di disgregazione sociale provocati dalla crisi lo induce a considerare che gli operai occupati tendevano a diventare una esigua minoranza, mentre la stragrande maggioranza tra il 75 e 1'80% sarebbe stata rappresentata dall'esercito dei disoccupati. Da questa for-
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poranei ricava l'aberrante conclusione sociopolitica (e addirittur~ si autocritica per non averla ricavata prima!) che gli operai a pieno tempo divengono con la sempre progressiva (sid) disoccupazione organica i rappresentanti dello scarso strato degli operai privilegiati traditori, della nuova aristocrazia operaia che si è venduta al capitale e costituisce una forza controrivoluzionaria ~O. 27. 28. 29. 30.
Ivi, p. 402. Ivi, p. 218. Ivi, p. 387. Ivi, p. 219, nota61.
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73 Infine, rifacendosi in modo esplicito a una tesi dell'Internazionale comunista stalinizzata, partendo dalla constatazione di per sé giusta della tendenza al restringimento degli spazi della democrazia borghese, giunge a proclamare che la fascistizzazione, cioè il ricorso del capitalismo «alla dittatura terroristica aperta», è per la classe dominante una soluzione
obbligata 31. Altrove accenna a tendenze alla fascistizzazione negli Stati Unici 32. Sarebbe ozioso riprendere qui la polemica con le teorizzazioni abusive e con le prospettive politicamente irresponsabili del cosiddettO terzo periodo. Questo lavoro di chiarificazione e di denuncia è stato fatto nel vivo degli avvenimenti da Trotskij e dal movimento trotskista con una lucidità che anche gli avversari hanno dovUto riconoscere, esplicitamente o implicitamente, un quarto di secolo più tardi. Quel che più conta, i fatti hanno pronunciato una sentenza senza appello. Non è invece superfluo sottolineare quanto fosse schematico ritenere che alla borghesia restasse una sola soluzione per uscire dalla crisi (questo nell'ipotesi che il proletariato non riuscisse a imporre la propria soluzione socialista). Una chiarezza di metodo in proposito potrà servire, tra l'altro, a non commettere errori di natura analoga nell'attuale fase di nuova crisi generalizzata dell'economia capitalistica e del sistema imperiaIista nel suo complesso. I limiti di questo scrittO ci impediscono di entrare nei dettagli. Basti quindi richiamare che, nei fatti, le soluzioni perseguite dalla borghesia nello sforzo di uscire dalla crisi sono State tre, anzi, addirittura quattro. Eccole in una sommaria definizione:
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1) la risposta della dittatura fascista che assume una portata storica soprattutto in Germania, della quale abbiamo già indicato alcune linee essenziali (supersfruttamento della classe operaia grazie alla distruzione di tutti i suoi strumenti di difesa economico-politici, intervento dello Stato nell'economia in forma moltO più pesante che in qualsiasi altro
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31. Ivi, pp. 402 e 404. 32. Ivi, p. 161.
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periodo, politica di lavori pubblici, lancio di una economia di guerra ecc.). 2) la risposta del New Deal rooseveltiano che tende ad assicurare una cerra difesa agli strati più colpiti dalla crisi, a introdurre certi elementi di regolamentazione sul piano economico, a promuovere incentivi pubblici, a sviluppare una politica espansionistica senza lanciare una campagna di armamenti (tale campagna sopraggiungerà solo più tardi); 3) la risposta 'ortodossa' e tradizionale, soprattutto per quanto riguarda la politica economica inrerna, da parte della borghesia britannica (intervento statale molto limitatO, aiuto all'economia privata solo sottO forma di protezioQi dalla concorrenza estera, denaro a buon mercato, non ricorso al deficit di bilancio, ricerca del pareggio ecc.); 4) la risposta del governo di fronte popolare in Francia,. che ha analogie con la politica di New Deal dai puntO di vista dei contenuti economici (stimolo del potere di acquisto, misure di regolamentazione, lavori pubblici, politica espansionistica ecc.), ma se ne differenzia nettamente dai punto di vista della formula politica e della ispirazione ideologica. Pur nella varietà di queste soluzioni, nelle cospicue differenze, nelle acute contrapposizioni politiche, sussistono, tuttavia, importanti elementi comuni. Il primo e più rilevante è quello di una forte accentuazione e tendenziale generalizzazione dell'intervento economico dello Stato, con tentativi di introdurre elementi embrionali di razionalizzazione. In questo senso, le esperienze degli anni trenta da un lato si ricollegano a tradizioni di altre fasi della storia del capitalismo in cui le iniziative del potere politico dalle campagne imperialistiche di saccheggio alle campagne di armamento degli anni precedenti la prima guerra mondiale avevano pesatO notevolmente sullo sviluppo economico, dall'altro anticipano le tendenze che si dispiegheranno nel dopoguerra e che saranno uno dei tratti caratteristici del nuovo boom prolungato. Il secondo è che le misure adottate nelle diverse varianti - non erano di per sé sufficienti al superamento della crisi e di fatto non riuscivano a evirare la nuova recessione del 1937-38. In ultima analisi, anche i paesi che all'inizio avevano fatto una diversa scelta si imbarcavano in un'economia di .
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armamenti e solo a questo prezzo e al prezzo di un nuovo uscivano finalmente dalla,depressione. conflitto mondiale Sarebbe del tutto ozioso cercar di ipotizzare il corso degli avvenimenti qualora la guerra non fosse scoppiata. Il fatto è che il nesso delle contraddizioni e i modi stessi con cui si era cercato di superarle conducevano inevitabilmente a una conflagrazione. E a un cerro m()mento, per così dire, le armi sparavano da sole.
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III La nuova crisi dell'economia capitalistica e le prospettive politiche
Qualche raffronto tra il 1929-32 e il 1974-75
Mentre scriviamo la recessione dell'economia capitalistica iniziata nell'autunno del 1974 si è approfondita e generalizzata. La produzione nel prime trimestre del 1975 ha registrato quasi dovunque sensibili riduzioni e la caduta ha coinvolto i settori più importanti, dall'automobile alle costruzioni, dagli elettrodomestici ai prodotti tessili, daUa petrolchimica alla siderurgia. Le capacità produttive inutilizzate sono aumentate in proporzioni consistenti e i progetti di investimento hanno subito ridimensionamenti su larga scala. La disoccupazione nei paesi imperialisti ha superato il tetto dei sedici milioni. Il volume del commercio internazionale ha subito una contrazione per la prima volta dopo la fine della guerra l. Senza soffermarci su questa crisi, riteniamo tUttavia
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1. Un'a.nalisi organica della crisi sino al giugno 1975 è in due articoli di ERNEST MANDEL, La récessiongénéraliséede /'économie caPitaliste internationale e La récessionet les perspectivesde l'économie capitaliste mondiale, comparsi su «Inprecor», n. 16-17 e 27-28 (<.e la prima parte del nostro scritto La crisi economicae la rispostadei rivoluzionari, Milano, Batl<:Ìierarossa, 1974, tre capitoletri del quale sono riporrati in appendice al presente volume.
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utile suggerire alcuni elementi di raffronto tra il 1929-32 e il 1974-75 e abbozzare qualche considerazione di carattere politico. La crisi in corso, innanzi tutto, ha fatto piazza pulita di tutta una serie di teorizzazioni circolate negli anni cinquanta e sessanta, dalle quali non erano rimasti immuni magari indirettamente - studiosi che si richiamavano al marxismo 2. Il nocciolo di queste teorizzazioni era che r economia era ormai in grado di evitare, se non parziali recessioni, crisi generalizzate di grandi dimensioni, che classiche piaghe della società la disoccupazione in primo luogo - non erano capitalistica che un ricordo del passato, che la società 'opulenta' era, se non compiutilmente e dovunque realizzata, in fase di irreversibile attuazione.
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Per la verità, come gli economisti meno inclini alla infatuazione apologetica non avevano mancato di sottolineare, la stessa fase di ascesa era stata contrappuntata da recessioni abbastanza regolari e, tUtto sommato, abbastanza 'tipiche', anche se per lo più di portata limitata. Ciò si era verificato in particolare negli Stati Uniti con le recessioni del 1949, del 1953, del 1957, del 1960 e del 1969-71. Una eccezione era stata invece considerata per molti anni la Germania occidentale, colpita per la prima volta da una recessione vera e propria solo nel 1966-67 e quindi nell'inverno 1970-71, ma con punti bassi della congiuntura nel 1959 e nel 1963 (considerazioni analoghe si potrebbero fare per il Giappone). . Oltre a sottolineare il significato di queste manifestazioni nella stessa onda lunga, l'analisi marxista aveva individuato i fattori specifici che erano alla base dell'ascesa e che potevano temporaneamente attutire e non fRepmpr~ere alla superfi~ie ma non eliminare le contraddizioni organiche dell'economia capitalistic~, destinate a r' p.splodere in futuro 3.
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2. Ci riferiamo a chi, come Sweezy, aveva finito con l'accettare la tesi dell'integrazione della classe operaia nel sistema ed era andato alla ricerca di altre forze motrici della rivoluzione sia nei paesi coloniali sia ai margini del sistema. Ci riferiamo egualmente a coloro che avevano esagerato le possibilità dell~.0.Eerazioni'razionalizzatrici' prospettate o auspicate dalle classi dominanti o da certi loro settori più 'illuminati'. 3. Cfr. a questo proposito, tra l'altro, Lesperspectiveséconomiqueset po/itiques internationales (<
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A partire dalla metà degli anni sessanta in particolare l'analisi marxista aveva messo in luce le ragioni per cui si sarebbe prodotto un superamento di quella sfasatura tra i cicli economici nei vari paesi o gruppi di paesi che era stata un fattore di compensazione e di riequilibrio relativo nel periodo precedente, con l'avvio a una sincronizzazione di cui sarebbero state conseguenz~ inevitabile la generalizzazione e l'approfondimento' delle recessioriL QueSta sincronizzazione si è effettivamente verificata con la crisi in corso da cui pressoché nessun paese capitalistico, comunque nessun paese capitalistico decisivo, è andato esente (la crisi sta scuotendo anche la tradizionale oasi della repubblica elvetica e la stessa Svezia, in cui il boom sembrava in un primo momento destinato a prolungarsi; ha conosciuto difficoltà, per esempio nel settore automobilistico. Parziale eccezione quella della Norvegia, piccolo paese dove ha giocato il fattore peculiare della recente scoperta di importanti giacimenti petroliferi). Così, dopo uno dei boom più lunghi e più vivaci di tutta la sua storia, dopo un'onda lunga di sviluppo sostenuto che nella cittadella statunitense ha toccato il quarto di secolo,. l'economia capitalistica ha conosciuto di nuovo, con una intensità e con una durata orQ1aiconsiderevoli, tUtte le manifestazioni classiche di una crisi: caduta della produzione, sottoutilizzazione del potenziale produttivo, disoccupazione massiccia, caduta dei prezzi delle materie prime, disorganizzazione del sistema monetario, contrazione çlel commercio mondiale. Sullo sfondo hanno operato contemporaneamente contraddizioni non meno classiche della produzione agricola, con un alternarsi e combinarsi di eccedenze di prodotti, di cadute dei prezzi alla produzione, di strozzature clamorose, di fenomeni di penuria derivanti da misure di razionalizzazione . poco lungimiranti e dalle forme caotiche assunte dall'esodo
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rurale. 1957) e TenaanceJ et perspectivesde l'économiemonaiale (ivi, ianvier 1961); gli scritti di MANDELL'apogeoael neocapita/ismoe il suo destino futuro, Classe operaia e neocapitalumo, Prospettive minacciose per l'economia caPitalistica internazionau, Si aggrava ulteriormente la (rui generale ael sistema imperialista (in Neocapita/ismo e (risi ael aollaro, Bari, Laterza, 1973) e il nostro intervento D01Ie va l'economia capitalistica? riportato in appendice al presente volume (in Tenaenze ael capitalismo italiano, Roma, Editori riuniti, 1962, voI. I).
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Tra gli elementi della crisi attuale non riscontrabili o non nel 1929-32, si è centrata in misura altrettanto consistente l'attenzione, a giusto titolo, sulle persistenti tendenze'inflazionistiche. Abbiamo vistO a suo tempo che tendenze inflazionistiche si erano verificate anche durante la grande depressione. Ma oggi una caratteristica di fondo è il perpetuarsi di spinte inflazionistiche generalizzate e di considerevole entità, che né la caduta della produzione né la disoccupazione né le manovre deflazionistiche dei governi e delle banche centrali hanno potuto eliminare o riportare entro i limiti ritenuti sino a qualche anno fa compatibili con uno sviluppo relativamente equilibrato del sistema (vari economisti indicavano questi limiti attOrno al 5%, mentre il tasso è stato per lo meno doppio anche nei paesi che più sono riusciti a comprimerlo nel corso di un anno e mezzo di dura recessione). Non è qui il luogo di ritornare sulle cause di un fenomeno, cui hanno contribuito i meccanismi del sistema monetario basato sul gold exchange standard in pratica sul ruolo egemone oel dollaro
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4. In un libro recente (The Bankers,Waybright/Talley,1974) MARTINMAYER, dopo aver descritto le nuove tecniche elettroniche nell'attività bancaria - che hanno facilitato tra l'altro \'im-
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introdotte
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piego su vasta scala di depositia breve termine per prestiti a lungo
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periodo, una caduta verticale del potere di acquisto delle grandi masse, che peraltro rappresentano per tutta una serie di prodotti una fetta di domanda solvibile notevolmente più larga che alla fine degli anni venti (basti ricordare la diffusione massiccia dei cosiddetti beni di consumo durevoli che, come è notO, sono stati uno dei fattori trainanti del boom prolungato). Questo anche facendo astrazione dal fatto che le dimensioni della disoccupazione alla metà del 1975 restano di gran lunga inferiori a quelle del 1929-32. La crisi attuale non ha d'altra parte registratO episodi clamorosi tipo il catadisma borsistico dell'autunno 1929: la forte caduta delle azioni nel 1974 ha obbeditO a un meccanismo analogo a quello del 1929, ma non ha assunto un carattere altrettantO brusco e concentrato in un breve arco di tempo; per di più, già nel 1975 si è venuta delineando una sensibile tendenza alla ripresa. Analogamente, i fenomeni di crisi bancarie con relativo panico sono stati molto più contenuti: e l'esperienza accumulata nel passato è servita a banchieri e a governi per prendere rapide e per il momentO efficacimisure per circoscrivere casi di fallimento come quelli verificatisi lo scorso anno in Germania e in Italia (dò non significa che non si sia accumulato materiale esplosivo, come è stato segnalato da alcuni specialisti) 4. In terzo luogo, l'esistenza degli sbocchi rappresentati dai
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importanti fanno sì che l'estendersi della disoccupazione parziale o totale non comporti, almeno per un certo
la volontà dei governi americani di scaricare'sugli altri
paesi il peso della loro inflazione stimolata dalle spese connesse al10ro ruolo di gendarme imperialista, il crescente indebitamento pubblico e privato, last but not least le sempre più accentuate strutture monopolistiche od oligopolistiche. Comunque sia, l'importanza di questo elemento aggravante non ha bisogno di dimostrazioni. Se entro certi limiti tendenze inflazionistiche possono facilitare operazioni di riconversione e di ridistribuzione dei redditi a sfavore delle classi sfruttate e di strati limitati della stessa borghesia, un'inflazione generalizzata e permanente costituisce un fattore di disorganizzazione alla lunga insopportabile. Anche a breve termine la presenza delle spinte inflazionistiche ostacola, poi, il lancio di una politica di sostegno a largo respiro da parte dei governi, dato il rischio che un deficit-spending accentui ulteriormente queste spinte. Nella valutazione delle reazioni dei governi alla crisi del 1929-32 si è forse messo troppo l'accentO sulla scarsa lungimiranza dei governi stessi e sulla fedeltàanacronistica a miti superati, trascurando che ha pesato notevolmente sulle classi dominanti !'incubo che una politica espansionistica da parte dei governi mettesse in opera una inflazione galoppante: il 1923 in Germania, Con !'inflazione colossale, era ancora ben presente alla memoria.
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Se !'inflazione generalizzata e persistente non solo crea difficoltà supplementari per il superamento della crisi, ma fa pesare la prospettiva di complicazioni ancora più serie nel momento in cui la congiuntura muterà, altri elementi hanno sinora giocato e giocheranno probabilmente nel prossimo fururo nel senS0 di contenere la portata e le conseguenze della depressione. In primo luogo, conquiste strappate dalla classe operaia e garanzie di sicurezza sociale esistenti in quasi tutti i paesi più
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paesi collettivistici colpiti solo marginalmente dalla crisi cioè di mercati non suscettibili di gravi e brusche contrazioni, ha avuto l'effetto di contenere la crisi di alcuni settori di alcuni paesi, nonostante l'incidenza limitata in termini assoluti. Fatta pure la tara di tutte le esagerazioni e scontati gli inevitabili ridimensionamenti, la capacità di IU:sorbimento di prodotti industriali, di macchinari e di industrie interamente costruite da parte di paesi produttori di petrolio, favoriti dall'evoluzione della ragione di scambio, ha in parte avuto e potrà avere effetti analoghi. Infine, c'è appena bisogno di ricordarlo, le risorse e le tecniche di intervento da parte dello Stato sono incomparabilmente maggiori che all'epoca della grande crisi. Dal punto di vista ideologico l'atteggiamento della classe dominante è mutato profondamente, anzi, è sembratO addirittura capovolto. Di rado si sono levate voci per esigere il rispetto dell' 'autonomia' dei meccanismi economici, molto più spesso, specie in certi paesi, è stato mosso ai responsabili politici il rimprovero di non essere intervenuti tempestivamente, di aver tardato ad approntare gli strumenti anticrisi necessarI. Abbiamo già accennato al fatto che nella prima fase la grande depressione non aveva presentato caratteristiche qualitativamente diverse da quelle di altre recessioni precedenti o successive. Se esaminiamo la situazione al primo trimestre del 1975, per quanto riguarda il fondamentale dato della produzione industriale rileviamo, rispetto allo stesso periodo del 1974, le flessioni seguenti: Stati Uniti-12,l%; Germania occidentale 8,5%; Giappone 16%; Francia 9%; Gran Bretagna - 5.4%; Canada - 4% (Italia - 12%). Tra il 1929 e il 1930, sempre per la produzione industriale, l'evoluzione negativa dell'indice (1928 100) era stata; Stati Uniti da 107,2 a 86,5; Germania da 100,4 a 90; Giappone da 111,4 a 105,6; Francia da 109,4 a 110,2 (eccezione già a suo tempo
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termine e una maggiore espansione di crediti speculativi o comunque scrive: -Ci sono nel sistema miliardi di dollari di di natura. dubbia perdite potenziali di prestiti e ci si avvicina sempre di più a una esplosione. La struttUra bancaria che viene costruita attUalmente, Pll~ crollare: più l'apparato regolatore le permetterà di crescere e più catastrofico sarà il crollo»,
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rilevata); Gran Bretagna da 106 a 97,8; Canada da 108,1 a 91,7. La contrazione era stata complessivamente maggiore, ma non in misura tale da comportare una differenza
qualitativa.
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Ciò significa che, se quanto accaduto sinora autorizza la constatazione che la crisi in corso è la più grave degli ultimi quarant'anni, una valutazione più precisa della sua portata e della sua dinamica e l'istituzione di un più puntuale raffronto con la grande depressione dipendono soprattutto dalla durata che la crisi avrà avuto prima che si delinei una nuova fase di rilancio. A proposito di questa scadenza, tUtti i pronostici ottimistici o moderatamente ottimistici si sono sin qui rivelati poco fondati e la data prevista è regolarmente scivolata in avanti. Stando all'ultimo rapporto dell'oCSE, diffuso mentre scriviamo, la ripresa è prospettabile per la metà del 1976, mentre altri pensano che anche questa previsione pecchi di ottimismo (per esempio i commentatori del settimanale inglese «Tbe Eco.nomist»). Sarà anzi utile riportare a titolo indicativo un passo di questa rivista; «Attualmente si legge nel numero del 26 luglio scorso le luci antinebbia indicano che nnflazione mondiale sta convertendosi nel peggiore slump dopo la fine della guerra; al di là di questo c'è la vaga sagoma di un boom, benché sia oggetto di disputa se comincerà vèrso la fine del 1976 o nel 1977 e se durerà 18 mesi o meno. Dopo di che cala di nuovo la nebbia». Dopo aver notato che «lacontrazione dei profitti determinata dall'esplosione salariale non sarà capovolta da richieste salariali più moderate durante uno slump. Al contrario, il restringimento dei margini di profitto è accentuato dalla sottoutilizzazione degli impianti e delle attrezzature esistenti e dalla sottoccupazione del lavoro», l'editorialista conclude: «Il mondo sembra destinato a essere sospinto fuori dall'attuale slump in una situazione in cui i reali profitti degli affari saranno più bassi che al momento di bassa redditività che è stata all'origine dello slump. E' ora del tutto possibile che !'inflazione possa essere contenuta più rapidamente di quanto i pessimisti non suppongano. Ma chi ristabilirà la redditività degli affari e il loro dinamismo?». Dato che, in ultima istanza, proprio la restaurazione di tassi del profitto considerati accettabili dai capitalisti è la condizione
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83 determinante della ripresa e, in primo luogo, del rilancio degli investimenti, la gravità della previsione e dell'angosciata domanda dell'«Economist» appare in tutta la sua portata.
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A parte un'eventuale ripresa 'tecnica' di corto respiro, dOvuta cioè a un rinnovo delle scorte, !'ipotesi più probabile resta dunque quella di un ulteriore prolungarsi della crisi, seguito poi da un rilancio di durata breve o relativamente breve, in nessun modo paragonabile a quello registrato durante l'onda lunga degli anni cinquanta e della prima metà degli anni sessanta. I
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5. Cfr. «Lemonde..del 29.VII. 75.
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D'altra parte è possibile cogliere sin d'ora le contraddizioni che si produrrebbero anche nell'ipotesi che tali fattori di
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La comparsa di nuove capacità di produzione petrolchimica e siderurgica nei paesi dell'oPBP avrà un effetto diamecralmente opposto sulla congiuntura internazionalea seconda che si accetti !'ipotesi di una crescita dell'economiacapitalisticada! 4 a! 5% o si supponga, invece, che questOtasso medio cada a medio termine almeno a! 2% o a un livelloancora inferiore. Nel primo caso tale comparsa provocherebbe solo turbamenti di portata ridotta nell'economia dei paesiimper4distici,'riassorbibili'con una ridistribuzione dei capitali e della manodopera.Nel secondo caso (a nostro avviso più probabile),provocherebbeturbamentirilevanti,una disoccupazione strutturale relativamenteelevata, un ristaAÌ10relativo del consumo interno in questi paesi il che avrebbea sua volta un effetto deprimente su tutta l'attivitàcapitalisticainternazionale,compresela redditività e l'espansionedi nuovi settori dell'industriapesante nei paesi semicoloniali6.
Tanto più che l'ottimismo non sembra giustificato neppure per quanto riguarda le spinte inflazionistiche. Sempre secondo l'oCSE una riduzione dell'inflazione è possibile solo a condizione che si mantenga un'aliquota consistente di disoccupati. La formula del caso sarebbe la seguente: «sempre più inflazione per uno stesso livello di occupazione e più disoccupazione per uno stesso livello di inflazione». E, comunque, l'attualestrùtturale disoccupazione non è solo congiunturale, ma in parte. anche 5.
In linea astratta è possibile prospettare le linee di una ristrutturazione economica su scala mondiale, con nuove forme di divisione del lavoro e con il delinearsi di nuovi settori trainanti (produzione accresciuta di attrezzature industriali e di intere industrie, sviluppo ulteriore dell'elettronica, riorganizzazione e rilancio dell'industria chimica ecc.). Non poco è stato effettivamente scritto in proposito a partire dalla cosiddetta crisi del petrolio, cioè dalla seconda metà del 1973. Ma, di massima, queste riconversioni a /ortiori le ristrutturazioni in pieno sviluppo difficilmente comporteranno una possibilità di allargamento dell'occupazione. AI contrario, è prevedibile che i processi di accumulazione avverranno con l'emarginazione dalle sfere produttive di aliquote proporzionalmente crescenti di popolazione attiva Con tutte le inevitabili implicazioni non solo sociopolitiche, ma anche più .strettamente economiche.
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Se si considera plausibile questa valutazione e se si considera che n<:llecondizioni attuali dell'economia capitalistica, con l'esistenza di notevoli capacità produttive in eccedenza, è difficile prospettare prima di un periodo relativamente lungo una nuova ondata di innovazioni tecnologiche del tipo di quelle che hanno determinato o sostenuto le onde lunghe di sviluppo accelerato, appare fondata l'ipotesi di un nuovo ciclo stagnante o di sviluppo contenuto, in cui si inseriscano cicli brevi con fasi ascendenti limitate e seguite a scadenze più rapide da pesanti r~cessioni. Non si tratta evidentemente di avanzare una ipotesi con una applicazione meccanica e astratta di schemi dedotti da fasi di sviluppo precedenti. Si tratta di constatare alcuni dati di fatto e soprattutto che il nuovo ciclo si è iniziato non con la crisi del .1974-75, ma già a partire dal 1966-67 (conferendo valore quasi simbolico alla recessione tedesca) o, al più tardi, dal 1969, e che la crisi è sopraggiunta appunto dopo che si erano già sperimentate le difficoltà di un rilancio sostenuto e prolungato su scala mondiale, dopo cioè che già si erano manifestate alcune caratteristiche di un'onda lunga di sviluppo limitato. Si tratta di cogliere certe tendenze; proprio su questa 6. «Inprecoc»,n. 27-28, 1975.
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base, come abbiamo vistO,appare poco plausibile !'ipotesi che la crisi attuale venga superata con un nuovo rilancio impetuoso dell'economia capitalistica. In quale misura le Strutture internazionali istituite alla fine della seconda guerra mondiale potranno svolgere quell'azione anticrisi che neSSun paese e nessun organismo mondiale era stato in grado di svolgere durante la grande depressione? C'è . appena
bisogno di richiamareche se la grande crisi ha dato il
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colpo mortale al gold standard anche se non è stat~ solo la crisi a distruggerIo la crisi attuale Sta sancendo la fine del sistema monetario creato trent'anni or Sono. Contemporaneamente Sta SOttoponendo a dura prova le strutture comunitarie dell'Europa capitalistica che, se non sono state infrante, sono assai profondamente scosse e in ogni caso difficilmente potranno Continuare a sussistere nelle forme assunte sinora. A questo proposito vale la pena di ricordare come ponesse il problema Kindleberger alla conclusione dei suo studio, ultimato prima dell'inizio della crisi: Non è chiaro ancora scriveva se il MECsarà capace di garan_ tire una direzione nell'assicurare un mercato ai beni in difficoltà o ag_ gressivi, nello stabitizzare il flusso internazionale dei capitali o nel provvedere un meccanismo di risconto per la crisi. Visto che l'egemonia degli Stati Uniti è SCossae l'Europa guadagna terreno, ci sono tre sbocchi possibili: a) una leadership ribadita o rilanciata da parte degli Stati Uniti dopo un capovolgimento dell'ondata di protezionismo; h) un'assunzione di direzione e di responsabilità nella stabilizzazione del sistema mondiale da parte dell'Europa; c) un'effettiva cessione della sovranità economica a istituzioni internazionali (banca centraie mondiale, mercatO mondiale di capitali e un reale accordo GATT). L'ultima variante è la più seducente, ma la più improbabile. Quindi una delle due altre soluzioni deve essere accettata, gettando la monetina per decidere, pur di evitare le alternative non desiderabili e cioè a) una lotta tra gli Stati Uniti e la CEEper la leadership dell'economia mondiale; h) che gli uni non vogliano dirigere e gli altri non possano più farlo, come accadde tra il 1929 e il 1933; c)che ciascuno
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si riservi il diritto di vetO
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Non entriamo ne. merito delle considerazioni di Kindleberger, che peraltro abbiamo già analizzato per quanto_
, 307-8. 7. The WorldDepression, Universityof CaliforniaPress, 1973, pp.
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riguarda la valutazione del 1929-32: il loro carattere astratto, che sfocia addirittura nell'utopistico o meglio nel grottesco con il suggerimento di affidare alla sorte la soluzione del problema dell'egemonia nell'intento di evitare sbocchi non desiderabili, è sin troppo trasparente. Ci interessa invece sottOlineare che in ultima istanza il problema viene tradotto in termini politici. Questa traduzione è non solo legittima, ma addir.ittura necessaria. La crisi che il capitalismo attraversa da sette anni a questa parte (partiamo dalla simbolica data del 1968) non è solo economica, ma sociale e politica contemporaneamente: è una crisi globale del sistema. Il punto non è tanto, quindi,stabilire se la crisi attuale possa assumere le dimensioni devastatrici della grande depressione e neppure di rispondere al quesito se tali dimensioni saranno assunte eventualmente da una crisi successiva. Dopo tutto non si vede perché la crisi del 1929-32, nelle sue forme specifiche e nella sua portata, non potrebbe restare unica nella storia del capitalismo. Il punto è cercare di comprendere cOD;lela crisi attuale e le eventuali crisi successive incideranno sulla crisi complessiva del sistema e come le condizioni generali del sistema in questa fase incideranno a loro volta sugli sviluppi dell'economia a breve scadenza o nei prossimi dieci-venti anni. . In fin dei conti, quello che in una serie di paesi decisivi ostacola la ripresa e tende a renderla, comunque,precaria e limitata è l'impossibilità politica di imporre di nuovo for- . me e ritmi di sfruttamento che consentano una restaurazione del tasso del profitto. Negli anni trenta e quaranta questo obiettivo era stato conseguito attraverso rivolgimenti politici che avevano portato alla sconfitta di settori essenziali della classe operaia internazionale e alla seconda guerra mondiale. Oggi la borghesia deve far fronte alla stessa esigenza: hic Rhodus,hic salta! Qui il pronostico economico cede il passo al pronostico sociopolitico. E qui si tocca con mano una delle maggiori differenze della situazione attuale rispetto a quella del 1929-32, che fa passare in seconda linea l'elemento pure in sé importante della durata e portata della crisi.
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La classe operaia di fronte a battaglie decisive
La classe operaia è entrata nella nuova fase dell'economia capitalistica notevolmente rafforzata nella sua compagine sociale, con un peso specifico accresciuto, con una maggiore coscienza della propria funzione e della propria forza. Come abbiamo già indicato altrove, questo sostanziale rafforzamento della classe operaia è stato tra i fattori decisivi dell'ascesa di lotte iniziatasi Con il 1968 e culminata nei punti più alti in situazioni rivoluzionarie o prerivoluzionarie in Francia, in Italia, in Spagna, in Portogallo o in situazioni di grande e prolungata conflittualità sociale come in Gran Bretagna 8. All'inizio della crisi,in nessun paese capitalistico avanzato il proletariato si trovava sotto il peso di una dura sconfitta e neppure in una fase di declino o di sensibile perdita di coma causa del persistere battività. Al cOntrario, se pure dell'egemonia di direzioni burocratiche riformiste o neoriformiste - non era stato in grado di sviluppare una l,atta complessiva in una dinamica anticapitalistica che giungesse a porre il problema del potere, aveva ruttavia strappato una serie di conquiste, riuscendo a stabilire rapporti di forza più favorevoli dentro e fuori delle fabbriche, con una limitazione dell'autorità padrortale, con !'imposizione di forme diverse di contro11o operaio e con l'espressione, nelle esperienze più avanzate (in Italia nella seconda metà del 1969, in Portogallo nella prima metà del 1975), di organismi di democrazia proletaria, primi embrioni di un dualismo di poteri. Nel quadro della crisi generale del sistema e di una sempre più acuta crisi di direzione della classe dominante, poteva contemporaneamenre sfruttare a proprio favore la critica crescente e la mobilitazione attiva di altri strati sfruttati, di vasti settori piccolo-borghesi, proragonisti o compartecipi di significativi movimenti, e la dinamica, potenzialmente anticapitalistica, del movimento di maSSa degli studenti..la semplice lettura dei più rappresentativi organi di stampa della borghesia o degli scritti o discorsi dei suoi esponenti è d'altronde suf-
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8. Ci sia consentito rinviare in proposito ai nostri saggi Verificadel leninismo in Italia (nel Partito leninista, Roma, Bandiera rossa, 1972) e Dinamica delleclassisodali in Italia, Roma, Savelli, 1975.
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fidente a fornire elementi illuminanti sulla diversità della situazione attuale rispetto a quella del 1929-32. Se anche negli anni trenta la crisi economica aveva provocato una crisi ideologica profonda, ne erano stati investiti allora quasi esclusivamente strati intellettuali. Ora sono coinvolti settori consistenti della classe dominante, del suo personale politico e tutti quegli intellettuali e quei portavoce che non si siano degradati al livello di propagandisti di terz'ordine, ed è rimessa in discussione tutta la gamma dei valori su cui la borghesia aveva fondato culturalmente la propria egemonia. Non d sembra esagerato dire che, specie in certi paesi, si stanno delineando manifestazioni non solo di avanzata disgregazione ideologica, ma anche di vera e propria demoralizzazione della classe dominante. Riprendendo e concludendo: la classe operaia ha conquistato maggiori difese economiche contro la crisi (il fatto che i disoccupati non precipitino automaticamente nel pauperismo e che le forme di disoccupazione parziale non portino neppure all'emarginazione sociopolitica del corpo della classe, permette di contrastare assai più vigorosamente di quarant'anni fa i fenomeni di decomposizione e di demoralizzazione); continua a di~porre di un notevole potere contrattuale, mentre la sua forza politica, al di là delle specificità e degli inevitabili alti e bassi, ha avuto negli ultimi dieci-quindici anni una parabola ascendente; si trova di fronte a un avversario minato da una crisi di direzione senza precedenti, indebolitO da una recentissima sconfitta storica come quella indocinese, incapace di definire soluzioni alternative, scosso profondamente nella stessa convinzione ideologica della sua superiorità e dell'insostituibilità della sua funzione. In un simile contesto l'ipotesi meno probabile è che la classe operaia si rassegni a fare passivamente le spese della crisi, a subirne le conseguenze sociopolitiche negative, a consentire la piena restaurazione dell'autorità capitalistica, ad accettare, senza contrastarla con mobilitazioni vigorose, quella ricostruzione del saggio del profittO necessaria alla ripresa e meno ancora quei margini più ampi di profitto che sono conditiosine qua non di un nuovo rilancio a largo respiro dell'economia capitalistica. Consideriamo, del restO, l'imparro che la crisi ha già avuto
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da un anno o un anno e mezzo a questa parte. Lungi dall'aver determinato o favorito tendenze all'arretramento o alla demoralizzazione, ha incontestabilmente contribuito a sviluppi politici tra i più significativi di questo arco di tempo. Se la situazione portoghese ha avuto nella prima parte dell'anno sviluppi cosi rapidi, se la classe dominante non è riuscita a tradurre in pratica il progetto di riconversio-
ne democratica' abbozzatoal momento della caduta della dittatura e se il movimento di massa ha assunto un grande dinamismo con la maturazione politica di consistenti strati di avanguardia, una delle cause principali è stata proprio la con-o dizione di crisi dell'economia dell'Europa occidentale e del mondo capitalistico in generale, che ha reso assai più ardua la riconversione restringendo, se non completamente annullando, gli indispensabili margini di manovra. In Italia ci sarebbe stato forse il grande successo elettorale dei partiti operai e.in primo luogo del Partito comunista, se proprio i problemi posti dalla recessione non avessero fatto precipitare. ulteriormente la crisi di direzione della classe dominante e non avessero fatto maturare nella classe operaia e negli altri ceti sfruttati la presa di coscienza che le soluzioni andavano e ricercate non perseguendo obiettivi settoriali o catevanno goriali, per importanti e legittimi che siano, ma sul piano politico globale? E la recessione non sta forse alla base anche della persistente e sempre più grave crisi politica e sociale della Gran Bretagna, il cui proletariato ha dato prova da molti anni di una combattività non inferiore a quella della classe operaia francese, spagnola o italiana? Negli stessi Stati Uniti le tendenze economiche degli ultimi anni, anche prima dell' esplodere della crisi vera e propria, provocando per la prima volta dopo oltre un trentennio una contrazione dei salari reali, hanno cominciato a determinare i primi sintomi di una rianimazione delle lotte operaie. Per uscire, poi, dall'ambito dei paesi sviluppati, la drammatica crisi attraversata dall'Argentina non è stata forse precipitata ed aggravata dalla recessione mondiale che ha ridotto drasticamente gli spazi che non del tutto erroneamente la borghesia argentina pensava di poter utilizzare nel momento in cui iniziava la rischiosa, ma dal punto di vista pressoché obbligata, operazione di un rilancio del peronismo?
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La conclusione deve essere, dunque, che grandi lotte tra le classi, conflitti acuti in cui oggettivamente si porrà la questione del potere, sono iscritti nella realtà e nelle tendenze di questa fase. Non ne consegue automaticamente una visione ottimistica circa l'esito di queste lotte e di questi conflitti. Il loro esito dipenderà, infatti, dalla capacità che la classe operaia avrà di darsi una strategia rivoluzionaria complessiva, di fornirsi degli strumenti di lotta neces~ari, di esprimere quella direzione rivoluzionaria la cui assenza è alla origine delle sconfitte o delle potenzialità non sfruttate dell'ultimo mezzo secolo, dall'avvento del nazionalsocialismo in Germania all'instaurazione della dittatUra militare in Cile. In questo senso, resta sbagliato dire che la borghesia non ha nessuna via d'uscita. Le soluzioni la borghesia non potrà trovarle e imporle facilmente, data la profondità della crisi storico-mondiale del sistema e dati i rapporti di forza attuali in paesi decisivi. Ma se le battaglie in corso o in prospettiva non sfoceranno in una soluzione anticapitalistica, se non porteranno al salto qualitativo del rovesciamento del sistema, un'usura, sia pure parziale, finirà con l'essere inevitabile e una ristabilizzazione, sia pur precaria, finirà con l'imporsi a vantaggio dell~ classe dominante. In tale eventualità certe ipotesi, per ora astr.atte, del lando di nuovi settori trainanti di uno sviluppo capitalistico potrebbero cominciare a concretizzarsi. Dire che il prezzo sarà pagato dalla classe operaia e dagli altri ceti sfruttati ma anche da larghi strati di ceto medio e è fare un'affermazione sin troppo dalla stessa borghesia ovvia. Ma di questa affermazione va colto tUtto il valore pregnante. Il prezzo del rilancio sarà una drastica riduzione del livello di vita per un periodo verosimilmente non tanto breve; sarà l'emarginazione di aliquOte crescenti della popolazione attiva dal processo produttivo; sarà la decadenza di nuovi settori e di nuove aree e, su scala mondiale,di paesi o gruppi di paesi. Il prezzo sarà l'annullamento delle conquiste della classe operaia degli ultimi dieci-quindici anni. Sarà l'instaurazione di regimi politici che di democratico non avranno più neppure le apparenze giuridico formali, almeno nei paesi in cui la crisi politico-sociale sarà stata più profonda. U n simile sbocco non può essere prospettato consolandosi olimpicamente con la convinzione che il nuovo rilancio capi-
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talistico e la nuova ristabilizzazione saranno a loro volta rimessi in discussione dal riesplodere delle contraddizioni intrinseche del sistema. Non dubitiamo che questo avverrebbe, presto o tardi. Ma si impone, a nostro avviso, una considerazione che qui riproponiamo benché trascenda l'oggetto del saggio. E' vero che il capitalismo nel corso dell'ultimo mezzo secolo ha alternativamente subito e superato crisi economiche, sociali e politiche di grande portata, .come quella seguita alla prima guerra mondiale, come la grande depressione, come la crisi alla fine della seconda guerra mondiale. Ma il prezzo pagato dall'umanità ed essenzialmente dalle classi sfruttate è stato enorme: sanguinose repressioni, contro rivoluzioni, regimi di oppressione con pochi precedenti nella stOria, paurose carestie e immense privazioni, massacri nella seconda guerra mondiale e in innumerevoli guerre parziali. Detto in altri termini: ogni volta che la classe operaia non può o non sa sfruttare a suo favore una crisi riyoluzionaria, il mondo tende a fare un nuovo passo avanti verso la barbarie. Non si tratta di un concetto retorico o di una visione pessimistica da decadenti, ma di una tendenza storica concreta. Si rifletta su alcuni eventi-chiave dell'ultimo decennio, come il massacro dei comunisti in Indonesia, la guerra imperialista di sterminio nel Vietnam, l'instàurazione della dittatura militare in Cile. Ciascuno di questi eventi racchiude indicazioni sin troppo eloquenti sulla barbarie che le classi dominanti non esiteranno a imporre o non sapranno evitare nell'intento di difendere la loro egemonia, di mantenere in vita un si..tema storicamente in decomposizione. E le spaventose dilapidazioni delle potenzialità produttive oggi esistenti di cui sono un simbolo sinistro le colossali spese militari -, le carestie devastatrici che di recente quando ancora non si era spenta reco degli epinici sulla società opulenta! hanno di nuovo investitO intere aree del globo dall'Africa occidentale al continente indiano, il rinnovarsi della distruzione di prodotti alimentari mentre decine e centinaia di milioni di esseri umani muoiono di fame o sono sistematicamente denutriti, la crescente degradazione dello stesso ambiente naturale sono altrettante manifestazioni di una barbarie
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dilagante sotto forma di una irrazionalità sempre più vistosa, anche se 'razionale' dal punto di vista delle 'leggi' del sistema 9. Se questo è vero, non c'è bisogno di insistere sul valore che le lotte di questi anni e di questi decenni hanno per il futuro dell'umanità.
luglio - agosto 1975 9. La mancata valorizzazione delle potenzialicà produttive non è esclusivamente un fatto patOlogico, da ricondurre a momcnri di recessione, ma si,è verificata anche durante i cosiddetti miracoli economici, Secondo una valutazione di Mandel «le perdite della produzione a causa delle capacità produttive non utilizzate" durante ronda lunga degli anni cinquanta e sessanta «sono superiori a quelle della crisi del 1929-32,. (Neocapitalismoe crisideldollaro,cit., p, 4).
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IV Precisazioni e messe a punto sulla recessione 1974 75
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Situ az ione congiunturale eprospettive alla fine del ] 9 75
A sei mesi di distanza dalla stesura dell'ultimo capitolo del nostro saggio è possibile fare qualche utile messa a punto sugli sviluppi della recessione nella seconda parte del 1975, anche se non sono ancora a disposizione i dati consuntivi sull'intera annata. Innanzitutto qualche dato sommario. La tendenza per quanto riguarda il reddito nazionale lordo è stata di una generale contrazione, mentre nel 1974 la caduta non .aveva riguardato che alcuni paesi e comunque era stata contenuta entro limiti modesti. Complessivamente, secondo le stime dell'oCSE riguardanti i sette paesi industriali più importanti, si dovrebbero registrare £1essionida un massimo del 4,5% per l'Italia a un miaimo del 2% per la Francia: solo per il Giappone e per il Canada ci dovrebbe essere un aumento rispe~ivamente dell'l,5 e dello 0,8%. Secondo una valutazione dell'<<Economist>>(15 novembre 1974), anche il Canada registrerebbe
un valore negativo (
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Se consideriamo, poi, la produzione industriale indice per ovvie ragioni, più significativo la caduta appare ben più nettamente. Nel novembre 1975 si erano rilevate le seguenti variazioni rispetto all'anno precedente (tra parentesi includiamo le variazioni per il mese di agosto):
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1. Le stime deU'OCSE risalgono al mese di ottobre, dell' -Economist1t a qualche settimana più tardi.
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Stati Uniti 8% (- 12,5%) Giappone - 10,5% (- 14%) Germania occ. - 3% (- 12%) Francia - 3% (- 9%) Gran Bretagna - 9% (- 6%) Italia -15% (-12,2%) Secondo le stime dell'OCSEper tutto il 1975 l'andamento, sempre per la produzione industriale, dovrebbe risultare come segue (tra parentesi i dati riassuntivi per il 1974): .Stati Uniti - 8,7% (- 0,6%) Giappone - 10,6% (- 5,1%) Francia - 9,2% (- 3,2%) Germania oèc. - 7% (-l,l %) Gran Bretagna - 5,3% (- 2,6%) Italia - 9,6% (+4,3%) 2. Se si ricorda che nel 1973, ultimo anno della fase di ascesa, la produzione industriale era aumentata del 9% negli Stati Uniti, del 17,5% in Giappone, del 6,4% in Francia, del 6,8% in Germania, deI1'8,1% in Gran Bretagna e del 9,7% in Italia, appare in tUtta la sua ampiezza una caduta che, pur senza raggiungere le punte estreme della grande depressione, ha tuttavia battuto tUtti i record degli. ultimi quarant'anni. Il commercio internazionale ha continuato a subire una contrazione che nel primo semestre del 1975 è stata dell'ordine del 10% circa e nel secondo non è stata bloccata, anche . se si è ven uta delineando una situazione più differenziata con un'espansione del mercato statunitense e un'ulteriore stagnazione dell'Europa occidentale e del Giappone. In generale, come è noto, i saldi attivi o le riduzioni dei passivi nelle bilance commerciali di vari paesi sono stati assai più il risultato di riduzioni delle importazioni più consistenti di quelle delle esportazioni che il frutto di un'espansione reale delle esporta2. Per certi paesi queste stime peccano per difetto, per altri probabilmente per eccesso (per es. per la Gran Bretagna è probabile che la caduta sia stata sensibilmente superiore, per gli Stati Uniti, invece, inferiore).
zioni stesse. Secondo un calcolo indicativo, alla fine del 1975 gli Stati Uniti dovrebbero aver registrato rispettivamente -12,5% per le importazioni e -2,8% per le esportazioni, il Giappone -14,8% e -1,3%, la Francia -10% e -5,3%,la Gran Bretagna -7,3% e -2,3%, l'Italia -19% e -1,3%: unica eccezione la Germania occidentale, le cui importazioni sarebbero rimaste pressoché stazionarie (-0,5%), mentre sarebbero diminuite le esportazioni (-10,8%).. Per quanto riguarda l'occupazione, nell'inverno 1974-75 i disoccupati, per il complesso dei paesi imperialisti, si sono aggirati sui 15 milioni, per superare i 16 milioni alcuni mesi dopo. Nonostante certi capovolgimenti di tendenza, soprattutto negli Stati Uniti, si prevede che durante !'inverno 1975 -76 possa essere toccato il tetto dei 17 milioni. Alla fine del 1975, in percentuale sulla popolazione attiva, l'andamento dovrebbe essere stato, comunque, il seguente: Stati Uniti 8,4%, Giappone 1,9%, Francia 4,9%, Gran Bretagna 4,7%, Italia 3,5 % (c'è appena bisogno di ricordare un'ennesima volta che le valutazioni ufficiali peccano normalmente per difetto) 3. Aggiungiamo, infine, che anche in un paese come la Spagna, che nel 1974, pur essendo entrato già nella parabola discendente, aveva registrato per la produzione industriale valori positivi (+ 8% nei terzo e + l % nel quarto . quadrimestre), nel 1975 il declino è stato netto (- 11% nel primo e - 9% nel secondo quadrimestre) e che in un altro paese, la Svezia, che, come già abbiamo indicato altrove, aveva per un certo tempo costituito un'eccezione, nel 1975 il reddito nazionale lordo è rimasto stazionario e la produzione industriale è caduta (del 3% circa) 4. Questi dati schematici al di là delle rettifiche che
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3. U n record poco invidiabile va attribuito, per quantO riguarda la disoccupazione, al Cile, SOttola dittatura militare: attorno al 20% alla fine del 1975. Per quanto riguarda l'Italia, a contenere la disoccupazione, nel contesto politico datO, è stata tra l'altro la riduzione della durata del lavoro, come fa notare anche una nota del dossier pubblicatO come supplemento a «Le Monde» (L'année économiqueel sociale 1975: la crise,p. 14).
4. Cfr. gli articoli di
PEDRO GARCIA sulla Spagna e di BENNY
ASMANsulla Svezia in «Inprecoc», 18.XII.75, n. 40-41.
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dovranno éssere apportate in sede di bilancio definitivo della scorsa annata confermano, dunque, che nella recessione in corso si sono ripresentate in modo accentuato le manifestazioni tipiche di una crisi dell'economia capitalistica, Confermano contemporaneamente alcune peculiarità che, come già abbiamo accennato altrove, non erano emerse o non erano emerse con tale rilievo durante la grande depressione. La più clamorosa e la più dibattuta di queste peculiarità, cioè la persistenza nella fase discendente degli .aumenti dei prezzi al consumo e di tendenze infIazionistiche, non è affatto venuta meno nel corso degli ultimi mesi. I tassi sono senza dubbio diminuiti, ma restano, tUttavia, sensibilmente più elevati di quelli medi degli anni cinquanta e sessanta, ritenuti dagli economisti non incompatibili con un normale funzionamento del sistema. Nel 1974 gli aumenti medi dei prezzi al consumo nei sette paesi industriali più importanti erano stati complessivamente del 13,6% da un minimo del 7% nella Germania occidentale a un massimo del 24,4% in Giappone. Nel settembre 1975 si erano registrati, rispetto allo stesso mese dell'anno precedente, gli incrementi seguenti: USA7%, Giappone 10,3%, Francia 10,7%, Canada 10,6%, Germ~ia occidentale 6,1 %, Gran Bretagna 26,6%, Italia 13%. Per il consuntivo del 1975 le stime dell'oCSE prevedono, sempre per gli stessi paesi, un aumento medio di circa il 10% con un ventaglio che andrebbe dal 5,8% della Germania al 21,5% della Gran Bretagna 5. Se questi dati vengono raffrontati ai dati sulla caduta della produzione, la gravità del fenomeno appare in tutta la sua portata. Un secondo fenomeno peculiare della recessione 1974-75 consiste nel fatto che, nonostante le notevoli oscillazioni, la borsa n~n ha conosciuto le brusche esplosioni e le cadute catastrofiche che hanno dato un'impronta così profonda alla grande depressione, specie negli Stati Uniti. Nel 1974 si era prodotta la tendenza a una grave caduta specie nel periodo tra agosto e novembre -, ma già alla fine dello stesso anno la tendenza si era invertita. Il 1975 ha confermato la ripresa. Tra il 2 gennaio e il 29 dicembre si sono registrati sui principali
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5. Tra i paesi europei il primaro dell'inflazione è spettato all'Islanda con il 53% tra il novembre 1974 e il novembre 1975.
mercati finanziari le seguenti variazioni negli indici più noti: New York + 36%, Londra + 144%; Tokio + 177%; Parigi + 34%; Francoforte + 38% 6. Negli Stati Uniti !'inizio del nuovo anno è stato contraddistintO da un nuovo rilando: !'in-
dice Dow Jones ha registrato a Wall Street nella prima settimana un aumento di 52 punti, superando quota 900. Anche in Italia, dopo una lunga depressione, a partire dalla seconda metà di ottobre si è delineata una ripresa. Contemporaneamente, i casi di fallimento o gravi sconvolgimenti bancari hanno continuato a essere assai meno rilevanti che nel 1929-32. Fenomeno nuovo rispetto alla norma dei periodi di recessione: il risparmio è aumentatO sensibilmente in tutti i paesi industriali sia nel 1974 sia nel 1975; il fenomeno sarebbe dovuto a un senso di incertezza per quanto riguarda il futuro e, a partire da un cerro momento, alla speranza che la tendenza prolungata all'aumento dei prezzi finisca con l'invertirsi. Quanto ai fattori già segnalati che non esistevano ai tempi della grande depressione (dalle garanzie che la classe operaia è riuscita a ottenere contro una caduta drastica del proprio livello di vita con il conseguente contenimento della caduta del potere di acquisto, agli sbocchi rappresentati dai paesi a economia collettivistica) hanno indubbiamente continuato ad. agire nel senso di un attutimentO relativo della recessione. D'altra parte, il fatto che in alcuni paesi (Stati Uniti, Giappone, Germania occidentale) la ripresa si è ormai delineata e 6. Secondo i commentatori lo spettacolare rialzo registrato a londra, il più rilevante della storia di quella Borsa, è dovuto a una serie di fattori specifici, più o meno «tecnici»(panico e quindi caduta eccessiva tra il maggio 1972 e il gennaio 1975, particolare onerosità, date le norme vigenti in Inghilterra, degli investimenti in titoli esteri, tasso di inflazione tale da scoraggiare investimenti in titoli a reddito fisso, restrizioni per gli acquisti di monete auree sudafricane). Wall Street, per parte sua, ha scontato in anticipo gli effetti della ripresa, mentrè Tokio ha continuato a risentire degli effetti della crisi energetica, oltre che della politica monetaria della banca centrale (ma, dato il delinearsi della ripresa, è prevedibile che la Borsa giapponese ricomincerà a tirare nell'anno appena incominciato) (<
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in altri si prospetta entro la prima metà dell'anno in corso, costituisce un importante elemento differenziale rispetto al 1929-32. La grande depressione è durata oltre quaranta mesi in paesi come gli Stati Uniti e la Germania, leggermente meno in certi altri, mentre la recessione attuale sarà durata, in generale, all'incirca la metà. Va detto subito che, secondo valutazioni pressoché unanimi, la ripresa ha assunto 'sinora un carattere prevalentemente «tecnico», cioè è stata connessa a esigenze di ri-' costituzione delle scorte. Comunque, se il fondo è stato toccato e si ricomincia a risalire la china, ciò avviene con lentezza.. settorialmente e non senza oscillazioni in senso negativo. Per esempio, negli Stati Uniti l'aumento delle vendite al dettaglio nel periodo ottobre-novembre 1975 non è andato oltre il 4% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, in cui già la crisi era in pieno sviluPPo,mentre il reddito nazionale lordo è aumentato nel quarto trimestre '75 assai meno che nel terzo. La disoccupazione, che nella prima metà dell'anno aveva superato il tetto del 9%, sarebbe caduta all'8,3% con un aumento della popolazione occupata, rispetto a giugno, di circa un milione e mezzo (cfr. «The Economist» del 17 gennaio 1976), Nella Germania occidentale la produzione industriale ha registrato in settembre un incremento non superiore al 2%, mentre le ordinazioni interne non sono ancora tornate ai livelli del 1970 (quelle esterne 1970 = 100 hanno raggiunto nel terzo trimestre dello scorso anno quota 122 contro 115 nel secondo trimestre, ma erano a quota 135 negli ultimi tre mesi del '74). In Giappone la produzione industriale è aumentata del 6% tra marzo e settembre, restando però al di sotto del cOl'rispondente periodo del 1974, Alcuni commentatori - tra cui lo stesso «Economist» - hanno colto qualche sintomo favorevole anche in Gran Bretagna, ma non si può parlare di ripresa. La previsione più diffusa è che la ripresa da un lato riproporrà abbastanza rapidamente seri problemi, dall'altro non sarà di ampio respiro 7. Vale la pena di accennare ad
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7. Tale previsione è comune a commentatori e studiosi degli 0:rientamenti più diversi. Basti ricordare lo stUdio della Chase
alcuni dati, dei quali c'è appena bisogno di sottolineare il carattere ipotetico. In un recente studio Chase Econometrics, che si basa su un modulo internazionale applicato a undici paesi, si avanza il prònostico che la congiuntura favorevole negli Stati Uniti duri per tutto il 1976 (+ 6,1 % per quanto riguarda il reddito nazionale lordo) e per una parte del 1977; una nuova fase decrescente si inizierebbe nello stesso 1977. Il Giappone registrerebbe un analogo andamento. La Gran Bretagna, al pari di altri paesi, conoscerebbe una rapida espansione nei primi mesi del 1977, mentre verso la metà dell' anno successivo una nuova flessione nella Germania occidentale coinvolgerebbe tUtta l'Europa capitalistica. Una nuova recessione si verificherebbe, dunque, nel 1978-79. Per parte sua l'OCSEha previsto per il 1976 le seguenti variazioni: reddito Stati Uniti Giappone Germania occidèntale Francia Canada Gran Bretagna Italia
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U no dei più gravi ostacoli a una ripresa consistente sia dal punto di vista delle dimensioni sia da quello della durata è l'e':: sistenza di capacità produttive in eccedenza. Negli Stati Uniti tali capacità sarebbero state pari al 35% per !'industria manifatturiera alla metà del 1975 (28% nell'ottobre dello stesso anno), In Giappone !'industria non sarebbe sfruttata che al 70% e la stessa percentuale varrebbe per l'Italia (con punte ancora più alte nella siderurgia, nei cantieri navali .e nell'industria automobilistica). D'altra parte, nonostante i segni di Econometrics di cui facciamo cenno, una serie di valutazioni di TRISTANDOELNI'IZsugli Stati Uniti, comparsi su «Le monde», l'articolo Bn allendanl la reprise di ERNESTMANDEL(<
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ripresa già menzionati, la domanda non sembra. tirare eccessivamente negli stessi Stati Uniti 8. Un rilando della produzione appare dunque in larga misura possibile senza la creazione di nuovi impianti, con una ripresa contenuta degli investimenti, con un prevalere di investimenti di razionalizzazione. Quest'ultima tendenza porterebbe inevitabilmente a nuove contrazioni della manodopera occupata e, in ultima analisi, dei consumi, con un ricrearsi a scadenza abbastanza ravvicinata delle condizioni di nuove flessioni produttive. «Le aziende industriali scrive François Renard a proposito degli Stati Uniti («Le Monde» del 20.1.76) - si mostrano ormai più preoccupate di ristabilire i loro margini di utili" e di ridurre il loro indebitamento che di preparare un'espansione tipo quella che si è conosciUta durante gli anni sessanta». Al tempo stesso potranno sorgere difficoltà di reperimento degli investimenti e dei finanziamenti necessari. Durante la crisi, anzi già nella fase precedente, la caduta dei profitti e difficoltà di vario genere hanno ridotto molto seriamente le possibilità di autofinanziamenti. Le aziende sono, dunque, costrette a ricorrere alle banche e non di rado a indebitarsi pericolosamente. Per di più, si possono creare gravi strozzature nella misura in cui lo Stato, le amministrazioni locali e il settore economico pubblico cercano a loro volta di rastrellare sul mercato dei capitali e di attirare il risparmio, provocando casi una veci e propria concorrenza in cui i privati rischiano di trovarsi svantaggiati{nella misura in cui esiste la convinzione che, per ragioni politiche, lo Stato e il settore pubblico in generale non possono venir meno ai loro impegni). In ultima analisi, tuttavia, fattore decisivo resta la possibilità di un rilando consistente del saggio del profitto o, quanto meno, la prospettiva di un tale rilando a una scadenza non troppo remota. Su questo piano i capitalisti non hanno potuto sinora registrare seri passi avanti. Gli stessi limiti del deprezzamento del capitale costituiscono un ostacolo al rilancio del saggio del profitto. Ma, soprattutto, non si sono delineati, in genere, mutamenti sostanziali nei rapporti di forza tra le classi: la
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8. Altri esempi, tratti da varie pubblicazioni economiche, sono nel citato articolo di Mandel.
combattività e la capacità di resistenza della classe operaia, almeno in tutta una serie di paesi, hanno reso impossibile la
sospirata restaurazione9.
.
Prima ancora, tuttavia, di essere rallentata o bloccata a distanza relativamente ravvicinata dai fattori suaccennati, la ripresa rischia di essere minata da una nuova accelerazione degli aumenti dei prezzi, da un riesplodere delle tendenze inflazionistiche. Già nel periodo recente l'entusiasmo per i primi sintomi di ripresa negli Stati Uniti è stato smorzato da sintomi di un rilancio quasi immediato dei tassi inflazionistici. Le stime dell'OCSE prevedono per il 1976 aumenti dei prezzi al consumo in tutti i maggiori paesi industriali, da un massimo del 15,3% in Gran Bretagna a un minimo del 4,8% nella Germania occidentale. Per un periodo più lungo 1975-78 le previsioni della Chase Economet~ics sono di un aumento medio del 9% negli Stati Uniti, del 6% nella Germania occidentale, del 10% in Francia, del 12% in Italia e del 17% in Gran B retagna. Si tratta presumibilmente di previsioni trOppo ottimistiche; una accelerazione anche temporanea della ripresa accrescerebbe notevolmente queste percentuàli. Ne sono convinti, tra gli altri, i redattori dell'«Economisc>',che nell'ultimo numero del 1975 concludevano come segue un editoriale in cui pure segnalavano note, dal loro punto di vista, positive (come un supposto spostamento a destra deU'opinione pubblica nelle "democrazie occidentali»): "Sarà certamente importante che i tassi di inflazione più ridotti da realizzare nel 1976 non facciano che catapultare l'Occidente e i suoi fornitori di materie prime in un più deleterio rilancio di superinflazione nel 1978-1979, che condurrebbe, ancora più sicuramente se ciò dovesse accadere, a uno s/ump ancora più spaventoso. La conseguenza di una peggiore inflazione la prossima volta con lo sbocco di un peggiore slump, sarebbe la
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9.
E' significativo,
per esempio, che in alcuni paesi, come l'Italia, il
Belgio, la Francia, e sino a un periodo recente la Gran Bretagna la crisi non si sia tradotta nel 1974 e neppure ne1197 5 complessivamente considerato in una riduzione del potere di acquisto dei salariati (anzi, si sono verificati addiritt;.lta degli aumenti: cfr.la tabella a p. 21 del supplemento citato a «Le Monde..). Negli Stati Uniti, invece, c'è stata compressione del potere d'acquisto sia nel 1974 sia nel 1975, nella Germania occidentale nel 1975. .
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fine della politica moderata incapace di evitare entrambi i disastri. Per favore, non un altro boom a meno che non possa evitare le trappole del precedente». Per parte sua, l'ex-governatore della Banca d'Italia, Carli, ha fatto della drammatizzazione dei pericoli, politici oltre che economici, dell'inflazione, il centro di una relazione tenuta ai primi di dicembre dinnanzi a un paludato congresso internazionale: «Combattere !'inflazione con mezzi diversi dalle politiche dei redditi e principalmente facendo ricorso a una politica monetaria ha l'effetto di impedire alle imprese il trasferimento dei maggiori costi sui prezzi. Di qui il circolo vizioso: stretta dei profitti, minore capacità di raccogliere capitale di rischio, aumento deil'indebitamento, minore propensione a investire, richieste di varie forme di aiuto, una delle quali ha come conseguenza un maggior deficit del settore pubblico. Di fronte a queste contraddizioni, le tesorerie e le banche centrali devono decidere come finanziare i cresciuti disavanzi: l'alternativa essendo quella di ,finanziare tali disavanzi facendo ricorso alla creazione di moneta (inflazione) oppure di evitare il ricorso alla creazione di moneta, finanziandosi sul mercato, in concorrenza con il settore privato: il risultato è minori investimenti, minore occupazione, minore produzione. la combinazione delle due esigenze, "minore inflazione con maggiore produzione" non è stata ancora trovata. A me sembra che in certi paesi (compreso il mio) il fatto che il disavanzo del.seccore pubblico si muova in una direzione, in una sola direzione, presto o tardi rappresenterà una via obbligata per il governo che si troverà a scegliere fra inflazione o minor investimento, minore occupazione, minore produzione, e sarà costretto ad effettuare gli aggiustamenti a livelli sempre inferiori di attività». Non dissimile l'alternativa delineata per gli Stati Uniti nel già citato articolo di Tristan Doelnitz: «Se il deficit sarà finanziato con la creazione di moneta, il settore privato avrà aècesso ai capitali necessari alla sua crescita; non ci sarà crowding Olit [eccessivo affollamentò per la concorrenza tra settore pubblico e settore privato], ma l'estensione della massa monetaria aggraverà l'inflazione; se, al contrario, il deficit sarà finanziato con il risparmio, l'economia sarà minacciata di ristagno nella stabilità».
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Tutto questo conforta !'ipotesi che l'economia capitalistica è entrata in' una nuova onda lunga di ristagno o di sviluppo contenuto. Se sono fondate le previsioni suaccennate sull'andamento sino al 1978-79, con il susseguirsi di una ripresa di breve durata e di un rapido precipitare in una nuova recessione, alcuni tratti di un'onda di ristagno si saranno manifestati a quella scadenza già per l'arco di un decennio (ricordiamo che l'inizio . del nuovo ciclo può essere fissato al 1966-67, o, al più tardi, al 1969). Il rapporto Morris che introduce il citato studio della Chase Econometrics va nello stesso senso. Afferma infatti che «nel prossimo decennio dobbiamo prospettarci una crescita molto più lenta e instabile» con «un'economia mondiale colpita da tassi di inflazione più alti e da più vaste fluttuazioni». E conclude: «In breve si tornerà a cicli economici tradizionali di recessione) di turbamento. Paragonato ai prossimi dieci anni il periodo di stabile crescita economica che va dal 1954 al 1973 sarà giudica tOper quello che realmente era: una aberrazione». Chi ricorda gli epinici degli economisti apologeti e di tutti gli avvocati difensori del neocapitalismo durante il lungo boom può misurare in tutta la sua ampiezza la disfatta ideologica della classe dominante: quello che era stato salutato come il punto di arrivo della società capitalistica con il superamentO delle contraddizioni e delle «anomalie» del passato, appare ora non solo come un'eccezione, ma addirittura come un'aberrazione. C'è appena bisogno di dire che l'attuale interpretazione è molto più plausibile della precedente. N on ritorniamo su quanto accennato in altra parte del volume, sul fatto che, in linea di ipotesi, non è affatto esclusa la possibilità di una ristrUtturazione dell'economia capitalistica con una nuova divisione del lavoro su scala mondiale e l'affermarsi di nuovi settori trainanti. Potremmo aggiungere che anche sul piano del riammodernamento dei settori industriali già esistenti non mancano le possibilità di impegnare considerevoli risorse (come ha ricordato Doelnitz, negli Stati Uniti il 21 % delle fabbriche sono state costruite da oltre vent'anni e solo il 57% ha meno di dieci anni, mentre nel 1973 quest'ultima percentuale era del 63%). Ma anche a voler fare astrazione dai fattori socio-politici - in ultima analisi, ripetiamolo, decisivi non è emerso in questi mesi nessun elementO tale da iridurre ad attenuare in qualche
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modo le valutazioni già date sugli ostacoli e sulle contraddizioni che opereranno anche nel caso che una riconversione di ampio respiro cominci a tradursi in pratica. Per non fare che un esempio, i progetti delle industrie automobilistiche di spostarsi, per ragioni sia economiche sia politiche, verso paesi del cosiddetto terzo mondo, rischiano di scontrarsi con difficoltà già presenti in questi stessi paesi sul piano economico e inevitabili, a scadenza più o ineno lunga, anche sul piano politico. Ne dovrebbe sapere qualche cosa la FIAT, il cui progetto di Belo Horizonte cominciava a concretizzarsi proprio mentre l'indusrria automobilistica entrava in crisi anche .nella terra promessa brasiliana e menrre Volkswagen, Generai Motors, Chrysler e Ford vedevano cadere i profitti degli anni precedenti (non crediamo, d'altra parte, che i grandi gruppi automobilistici abbiano troppe ragioni di rallegrarsi della situazione cui devono far fronte in Argentina).
di licenziamenti. C'è appena bisogno di richi~e la situazione delfItalia. Per la Gran Bretagna, in aggiunta alla falcidia già operata in grandi fabbriche come la Chrysler (un terzo dei dipendenti messi alla porta!), si prospetta, secondo un progetto in preparazione, il licenziamento di 60.000 unità
su un totale di 180.000nell'industriadell'acciaio11. In secondo lUlJgo,la crisi stimolerà una diversa distribuzione della popolazione attiva, accentuando il peso del terziario. E' ancora troppo presto per disporre degli elementi necessari a una verifica di quanto già avvenuto su questo piano nella fase culminante della recessione. Non è tuttavia inutile riportare la seguente tabella sull'evoluzione degli ultimi vent'anni in alcuni paesi (fonte: rapporto CEEsull'evoluzione regionale nella Comunità): GERMANIA OCClDENT ALE agricoltura industria serVIZI
Alcune tendenze strutturali
1955
1968
1974
22 43 35
10 48 42
7 48 45
6 49 45
3 47 50
3 42 55
27 36 37
16 40 44
12 39 49
.42 32 26
22 41 37
17 44 39
GRAN BRET AGNA
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Vale la pena di accennare, sia pure rapidamente, a certe tendenze strutturali che la crisi ha già stimolato e che sembrano destinate ad accentuarsi se l'andamento dei prossimi 5-10 anni sarà quello ipotizzato. Innanzi rutto, la tendenza alla contrazione dell'occupazione, alla caduta dell'incidenza della popolazione attiva sul totale della popolazione non verrà capovolta, al contrario potrà accentuarsi, specie in determinati paesi. Abbiamo richiamato alcune previsioni sull'occupazione per l'inverno in corso. Per il 1976 nel suo complesso si prevedono da parte dell'OCSEvariazioni positive solo per Canada, Giappone e Stati Uniti (peraltro in misura assai modesta, cioè rispettivamente del 2, dell'uno e del 2%), mentre per tUtti gli altri paesi la percentUale dei disoccupati continuerà a salire (il massimo dovrebbe
registrarsi in Gran Bretagna con + 2,8%) I
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In certi casi
proprio in questi mesi si sono delineate le minacce più pesanti lO. Secondo recenti valutazioni la disoccupazione negli Stati Uniti resterà al di sopra del 7% nel 1976 per scendere di poco al di sotto nell'anno successivo (6,9%) e contrarsi sino al 5 % solo in quattro anni (cfr. «Le Monde» del 23.I.76).
agricoltura. industria servIzI FRANCIA agricoltura industria servizi ITALIA agricoltura industria servIzI
11. Si è attirata anche di recente l'attenzione sul fatto che in Italia, mentre piovono i licenziamenti o i ricorsi alla Cassa integrazione, esistono offerte di lavoro non soddisfatte (nel gennaio 1976 sarebbero 10.000 in provincia di Torino e 20.000 nella regione lombarda). A parte l'attendibilità di cifre presentate troppo genericamente, fenomeni frizionali sono possibili nella misura in cui l'impiego largamente prevalente di manodopera senza una precisa formazione rende difficile !'inserimento di disoccupati in posti a un certo livello di specializzazione o anche in posti richiedenti una formazione più tradizionale rimasti provvisoriamente scoperti. Non si deve però concludere
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Per quanto riguarda gli Stati Uniti, secondo un rapporto sull'economia statunitense nel 1960 del Bureau of Iabour Statistics, tra il 1955 e il 1973 l'agricoltura sarebbe passata dal 14 al 5%, l'industria dal 37 al 34% e i servizi dal 49 al 61 %. A proposito della crescita dei servizi o settore terziario, due richiami per mettere in guardia contro false interpretazioni. Il primo è che questa crescita nOn significa automaticamente crescita dei ceti medi o dei lavoratori indipendenti. Al contrario, per lo più comporta un allargamento complessivo della . classe
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cezione più corretta, vari settori del terziario u. Ciò è confermato, grosso modo, da dati diffusi di recente dall'Isco sul consistente aumento dei lavoratori dipendenti tra il 1962 e il 1973 nei paesi dell'Europa occidentale, negli Stati Uniti e in Giappone: il totale di questi lavoratori nei paesi indicati corrispondeva nel 1973 all'85% degli addetti alla produzione con un massimo del 92% in Gran Bretagna e un minimo del 68,7% nel Giappone (l'Italia registra il 71,3% con' un aumento di circa il 10% nell'ultimo decennio). Il secondo richiamo è che in certi periodi, quelli di crisi in particolare, l'incremento del terziario può nascondere forme di sottoccupazione. Se la tendenza alla contrazione dell'occupazione industriale dovesse continuare, quest'ultimo fenomeno, specie in paesi come l'Italia, potrebbe assumere una particolare rilevanza. Circa la tendenza più generale alla contrazione dell'occupazione parlano chiaro alcuni dati di fonce OCSEsulle percentuali di disoccupazione ai momenti culminanti di diversi cicli (per le tendenze apparse in Italia già a partire dalla crisi del 1963-64 rinviamo allo scritto riportato in appendice) 13:
5,0 1,3 0,9 2,1 2,5 5,6 3,1
Non ritorniamo sui dati già riportati del 1974 e del 1975. Anche nei paesi dove la resistenza operaia è stata maggiore e più difficilmente gli industriali hanno potuto .ricorrere a massicci licenziamenti (Italia, Spagna in una certa misura, Gran Bretagna) si è accentuata la contrazione in forme indirette (in particolare non compensazione del lurn over).La stessa Cassa integrazione che pure costituisce una garanzia per i salariati, è un riflesso dei rapporti di forza e, dal punto di vista economico, è una forma di sostegno alla domanda che . attutisce le conseguenze della crisi corrode tendenzialmente la massa della popolazione attiva. Ancor più tale corrosione si manifesterebbe qualora fossero approvati e tradotti in pratica i progetti che prevedono un prolungarsi della Cassa o di forme equivalenti di sostegno per un periodo di cinque anni. Si verificherebbero, peraltro, effetti derivati su diversi piani. Si creerebbero diseguaglianze tra i settori che godrebbero di queste garanzie e quelli che ne sarebbero privi e rischierebbero di scivolare verso la marginalizzazione e il pauperismo. Ci sarebbero spintt. alla ricerca di un lavoro aggiuntivo; ricerca legittima dal punto di vista economico (visto che, comunque, i lavoratori in Cassa integrazione subirebbero una riduzione di salario) e anche dal punto di vista morale (rifiuto di una condizione di ozio forzato), ma che avrebbe la conseguenza di creare, specie nel terziario, una concorrenza ai danni di coloro che, non disponendo di altre
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Per quanto riguardail tipo di manodoperaimpegnatoprevalente- . mente nell'industria, Georges Friedmann ha segnalato di recente che in Francia, secondo un'inchiesta IN5EE,gli 05 cioè gli operai senza più i manovali erano il 54% dèl totale con una qualificazione fIessione di poco più di due punti rispetto alI %2.
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12. Per i criteri di definizionedella classeoperaiaci permettiamo . di rinviare al nostro saggioDinamicadelleda.rsisoçia/iin Ila/ia,Roma Savelli,1976 2.
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1973
3,8 1,2 0,6 1,3 1,4 3,3 3,1
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che risolvendo il problema della «rieducazione» il problema della disoccupazione possa essere avviato a soluzione; troppo grande è, infatti, la sproporzione tra i due fenomeni.
13, In una rewwne deU'QCSIi " le... ehe .; ..wl.,
prima metà anni sessanta Stati Uniti Giappone Germania occidentale Francia Gran Bretagna Canada Italia
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operaia, di cui fanno parte, se si usa il termine nell'ac-
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aggiustati all'inflazione in misura più larga dei tassi di interesse, di modo che le aziende sono stimolate a riconversioni con tecniche atte a far risparmiare manodopera [...], Se i recenti aumenti della disoccupazione possono essere attribuiti in gran parte all'evoluzione congiunturale, può darsi che anche la disoccupazione «struttUtale» sia più alta che in precedenza».
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risorse, non potrebbero accettare compensi troppo bassi. Più in generale, po~il ripetersi di recessioni a scadenza ravvicinata nel quadro di un ciclo di ristagno tenderebbe a ricreare o ad acuire differenziazioni che a partire dal 1968 si erano venute riducendo, la maggiore e, alla lunga, la più trawnatica delle differenziazioni essendo ovviamente quella tra manodopera che resta inserita nel processo di produzione e quella che ne viene espulsa. La recessione e una fase di ristagno non saranno senza conseguenze sulla struttura economica e sulla composizione delle classi dominanti. Anzi, certe tendenze già si sono sviluppate o sono state ulteriormente stimolate dove si erano manifestate anche in precedenza. Abbiamo accennato alla caduta dell'autofinanziament'o e al rilancio della funzione delle banche. Nella misura in cui una distinzione è possibile ne consegue un accresciuto peso specifico del capitale finanziario. In secondo luogo, il processo ulteriore di concentrazione e di razionalizzazione che la crisi inevitabilmente ha provocato e provoca, favorirà non solo, in generale, i gruppi più potenti, ma in particolare le multinazionali. Il 1975 ha permesso di toccare con mano, più direttamente che in passato, di quali vantaggi possano avvalersi questi moderni mostri, in grado di spostarsi con relativa facilità da un settore all'altro, da un paese all'altro, da un continente all'altro. La loro minore vulnerabilità, almeno sinora, di fronte alla risposta operaia e all'azione sindacale e la loro minore preoccupazione per le implicazioni politiche in un paese dato, di decisioni econonomiche gravi per i livelli produttivi e per l'occupazione, hanno permesso loro di essere in prima linea nei licenziamenti e nelle operazioni di taglio dei «rami secchi». Non è un caso, dunque, che in Italia le vicende più drammatiche dello scorso anno abbiano coinvolto fabbriche come la Leyland-Innocenti, la Singer, la Imperial-Telefunken, la Ducati-Thompson ecc. 14.
La crisi è destinata, d'altra parte, a stimolare ulteriormente !'intervento dello Stato e ad allargare la sfera d'azione del cosiddetto settore pubblico. Non c'è bisogno di fare esempi, dato che gli esempi
da quelli di varie aziende
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14. Le ristruttUlaZÌoni dell'economia capitalistica e le ricomposizioni della classe dominante, nella misura in cui allargano il settore statale e aumentano la concentrazione nelle mani di gruppi numericamente liniitati, indeboliscono alla lunga la borghesia come forza sociale, anche se corrispondono alla logica del sistema. Abbiamo attirato l'attenzione su questo elemento a proposito dell'Italia nel citato Dinamica dellec/assisocialiin Italia.
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quello clamoroso della Chrysler inglese e a quello non meno significativo della Citroen francese sono dinnanzi agli occhi di tUtti. Basti aggiungere anche negli Stati Uniti, per citare Arnold Weber, ex-sottosegretario al lavoro e attualmente docente dell'Università Carnegie-Mellon di Pittsburgh, dopo il primo «trasferimento di poteri dai proprietari ai manager» se ne verificherebbe ora un secondo «dai manager ai poteri pubblici» e, sul piano ideologico, per la prima volta dopo la grande depressione, si sono udite voci a favore di una pianificazione (gruppi di sindacalisti, per ispirazione di Leonard Woodcock, segretario dell'uAw, sindacato dell'auto- r mobile, hanno stimolato li'-formazione di un Initiative Committee for National Planning). Infine, non ritorniamo sul concetto che il corso economico sarà in larga misura determinato da fattori politici, dipenderà cioè dal fatto che la classe operaia si rassegni o no a fare le spese della crisi e della riconversione, sacrificando il proprio livello di vita sull'altare della ricostituzione del profitto. Limitiamoci a sottolineare che, a conferma della tesi secondo cui non esiste una corrispondenza meccanica tra crisi e dinamica della lOtta della classe operaia, in un contesto di recessione internazionale generalizzata, si sono avuti sviluppi .politici diversi e di ancora più diversi se ne potrebbero delineare in avvenire. In alcuni paesi la crisi ha stimolato lotte e mobilitazioni che hanno mantenuto o creato condizioni altamente conflittuali e provocato o contribuito a provocare situazioni prerivoluzionarie o rivoluzionarie. In altri le lotte non ci sono state o sono rimaste estremamente circoscritte e la classe dominante ha potuto prospettare un corso conservatOre, se non addirittura reazionario. Una divaricazione politicamente pericolosa si è andata creando con sempre maggiore evidenza tra la penisola iberica, l'Italia, la Francia da un latO e la Germania e altri paesi del Centro e Nord-Europa dall'altro, con la Gran Bretagna in una regione di frontiera e, proprio mentre scriviamo, in una congiuntura estremamente delicata. .
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Vada sé che se nel prossimo avvenire ci fossero nel primo gruppo di paesi sviluppi favorevoli per il movimento operaio, tutto potrebbe essere rimesso in discussione anche negli attuali bastioni della conservazione. Ma l'analisi di questa eventualità come della variante negativa, cioè di un riflusso nei paesi politicamente più avanzati non rientra nel tema di questo scritto.
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15 gennaio 1976
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Appendice
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Dove va r economia capitalistica?
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La denuncia di ogni tesi revisionista e di ogni illazione arbitraria tratta dalle esperienze economiche dell'ultimo decennio nell'Europa occidentale (come del resto in Giappone) non può prescindere da una netta e franca ammissione: non solo gli economisti borghesi, ma anche gli economisti marxisti se pure in misura diversa, di tutte le tendenze del movimento operaio sono stati presi alla sprovvista dagli avvenimenti. Non si tratta qui di rispondere alle critiche degli avversari di classe, quasi sempre un impastO di malafede e di ignoranza. Non c'è bisogno di ripetere che i marxisti non hanno mai creduto alla cosiddetta tesi della crisi economica catastrofica o alla tesi dell'impoverimento assoluto che in realtà non è che una deformazione del pensiero marxista; e non c'è neppure bisogno di richiamare con Lenin che in qualsiasi situazione il capitalismo ha possibilità di ricupero, sia sul terreno economico che su quello politico-sociale, se il suo antagonista glielo consente.
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Ma, a parte tutto questo, quello che non si era previsto è
che il capitalismo, in particolare dell'Europa occidentale, in una fase storica di crisi profonda del sistema su scala mondiale, potesse attingere così alti livelli di sviluppo produttivo e, ancor più, che questo si verificasse per un periodo di tem-. po abbastanza lungo senza che si producessero crisi economiche esplosive di tipo classico. La ricerca delle cause di questi fenomeni riveste una grande importanza non solo ai fini dell'analisi economica o a fini di
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studio, ma anche e soprattutto per trarne pratici orientamenti di lotta per il movimento operaio. Le relazioni che sono state sottoposte a questo convegno, se in linea di massima sono soddisfacenti per l'aspetto descrittivo, cioè nell'esame dei fattori che hanno operato negli anni scorsi, sono invece, mi pare, piuttOsto carenti, anzi addirittura trascurano, l'aspetto delle prospettive. La domanda che vorrei porre è la seguente: questo capitalismo, le cui strutture sono state ampiamente analizzate da molti intervenuti, dove va dal punto di vista della congiuntura, delle tendenze economiche congiunturali? Allo scopo è necessario ricapitolare sinteticamente i fattori impostisi nel recente passato. Ho già accennato che le indicazioni fornite dalla relazione, su questo piano, sono pertinenti, ma mi pare che, nella misura in cui una distinzione del genere è possibile, vi sia una certa sopravvalutazione dei fattori più propriamente politici rispetto ai fattori più propriamente economici. Che il capitalismo italiano abbia dovuto tener 'conto del movimento delle masse. della coscienza del peso sociale che la classe operaia non ha mai smarrito neppure nei momenti più neri di depressione, non è contestabile: come non mi pare contestabile che certe forme specifiche di sviluppo sarebbero state diverse se il fattOre movimento delle masse non fosse intervenuto. Ma una volta sottolineato questo, si deve rilevare che il tipo nuovo di sviluppo capitalistico è stato in sostanza determinato, prima di tUtto, da esigenze di natura più profonda e più generale. Si è accennato - e concordo su questoalle esigenze derivanti 'dalla nuova situazione mondiale, all'esigenza di dare una soluzione ai problemi posti da una esplosione tecnologica tale da assicurare alla struttura produttiva incrementi e mutamenti che il capitalismo di vecchio tipo sarebbe stato incapace di assimilare. Si è parlato, per esempio, della politica salariale dell'epoca fascista. Ora, anche a prescindere dai rapporti di forza, il capitalismo italiano di questo dopoguerra non avrebbe potUto imbastire una propria politica economica efficiente con una dinamica salariale simile a quella del ventennio. Ciò avrebbe implicato contraddizioni, conflitti, rotture prima ancora dico in senso logico e non temporale sul piano più strettamente economico che non su quello politico e sociale.
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Aggiungo, tra parentesi, una considerazione sul parallelismo che è stato introdotto tra sviluppo delle lotte di massa e sviluppo produttivo, con il riferimento particolare di Amendola al decennio 1900-1910 da una parte e all'ultimo decennio dall'altra. Si è detto, più o meno, che laddove c'è un grande impulso del movimentO delle masse, della lotta di classe, si raggiungono i ritmi più elevati di incremento produttivo. Ciò può essere vero solo parzialmente e non bisogna indulgere troppo alle generalizzazioni. Si tengano presenti alcuni esempi di portata opposta. La Germania federale ha avuto un ritmo di sviluppo sensibilmente più accentuato di quello inglese; e in Germania il movimento operaio ha conosciuto una lunga stagnazione, mentre l'Inghilterra ha visto nello stesso periodo grandi lotte sindacali e politiche del movimento operaio. lo stesso vale se si considerano due piccoli paesi, l'Olanda da una parte e il Belgio dall'altra. Ma, a pane questa questione di gerarchia che pure ha un certo rilievo, soprattUtto quando si può temere che la sottolineatura dei risultati del movimento delle masse rivesta un carattere apologetico nei confronti di una linea politica determinata, quali sono i fattori che hanno sollecitato lo sviluppo economico di questi anni? Quali fattori agiranno, e in quale misura, in avvenire? Mi basti ricordare anzitutto l'esplosione tecnologica e l'utilizzazione di nuove risorse energetiche nonch~ il ruolo dello Stato, nelle varie forme, su cui tanto si è insistito anche in questo convegno. Sottolineerei anche il mutamentO della struttura della domanda da parte delle larghe masse con il peso crescente della richiesta dei beni di consumo durevole (prodotti su più vasta scala grazie ai progressi tecnologici e a prezzi resi più abbordabili specie con i noti sistemi delle vendite rateali ecc.). C'è, infine, un altro fattore, che mi pare non sia stato sottolineato con la dovuta forza almeno nella relazione orale, cioè le possibilità offerte dal mercato internazionale, in virtù, da una parte, dell'espandersi delle possibilità di assorbimento della produzione anche industriale italiana sui mercati europei, dall'altra dei nuovi sbocchi offerti dai paesi coloniali o ex-coloniali e dipendenti tramite le risorse nuove del neocolonialismo (non va dimenticato che il neocolonialismo ce l'abbiamo in casa e parecchie volte sono imprese
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di Stato a compiere autentiche neocolonialistico).
operazioni di carattere
Se vogliamo ora delineare, con l'approssimazione inevitabile in questo genere di pronostici, quelle che potranno essere le prospettive future, dobbiamo chiederci in quale misura i fattori suindicati continueranno ad operare nei prossimi anni e se entreranno in gioco altri fattori economici prevedibili o non prevedibili attwlImente. Mi pare che anche dalla discussione del convegno emerga un sottofondo che non è espresso chiaramente. Mi pare che si dia o si tenda a dare quasi per scontato un proseguimento indefinito dell'alta congiuntura,. accettandolo ormai come elemento pressoché stabile per tutta l'Europa occidentale per un periodo indeterminato. Qui non si tratta, ripetiamo, di sollecitare divagazioni accademiche su accelerazioni o decelerazioni, ma di porre i problemi della prospettiva in connessione con quelli degli orientamenti politici del movimento operaio. Su questo piano, da un lato le relazioni sono manchevoli, dall'altro si è dettO ripetutamente che sussistono, anzi si acuiscono le contraddizioni, e più in particolare che tende e tenderà ad acwrsi sempre di più la contraddizione fondamentale della società capitalistica, quella tra il carattere sociale del processo produttivo e il carattere privatO dell'appropriazione, Consento senz'altro con una tale affermazione, che ha però un carattere as$olutamente generico. Bis'ogna vedere in quali forme specifiche, in qual modo concreto questa contraddizione si acuirà, si manifesterà ed opererà nella realtà, nel tessuto economico e sociale dell'Italia e dell'Europa occidentale. Del resto, questa contraddizione permanente del sistema non è certo denunciata dai maexisti perché rappresenti una specie di ingiustizia, una specie di incongruenza, ma in quanto implica un elemento di freno relativo o assoluto nel processo produttivo, impedendo, in primo luogo, la valorizzazione dell'immenso potenziale creativo delle masse, degli operai come produttori.
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Dei q uattro fondamentali fattori che sono stati indicati, il primo è senz'altro destinato ad operare ancora per un certo periodo avvenire (diciamo a media scadenza). L'intervento dello StatO ha ancora ampi margini in paesi come quelli
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europei. Non va tUttavia dimenticato che anche l'azione statale, dal punto di vista delle possibilità finanziarie, non può presci8dere da certi limiti. Se vogliamo d'altronde esaminare i fenomeni tendenziali nella struttura capitalistica più avanzata, quella degli Stati Uniti, vediamo chè gli Stati Uniti a difficoltà di questo genere si sono già scontrati di recente: neppure le imponenti risorse dello Stato nordamericano sono illimitate. Maggiori interrogativi si pongono, a mio modo di vedere, per quanto riguarda il progresso tecnologico. Nella storia del capitalismo constatiamo che le esplosioni tecnologiche si verificano a ondate e dopo un certo tempo vi è una fase di assestamento, per cosi dire, di digestione delle innovazioni introdotte nella fase precedente. In genere, se si considera che la presente esplosione si prolunga ormai da un certo numero di anni, c'è da supporre che l'esigenza di assestamento comincerà a farsi sentire abbastanza nettamente a scadenza non lontana. Ciò vale anche per J'Italia, poiché, se è vero che J'Italia ha ancora margini ampi di sviluppi tecnologici a livelli più avanzati, non bisogna tuttavia dimenticare che, tra i paesi europei occidentali, eccettuata la Germania, essa ha il parco-macchine relativamente più recente (il 44% del parco-macchine è stato rinnovato negli ultimi dieci anni contro il 45% della Germania). . E' vero che i paragoni con il passato valgono sempre relativamente e vari segni indicano che a scadenza non lontana ci potranno essere nuove ondate di impressionanti progressi tecnologici (ce ne ha dato un'idea nel suo intervento il compagno Di Pasquantonio), Ci sono, dunque, due varianti: quella di un relativo rallentamento del progresso tecnologico per esigenze di assestamento, e quella di una nuova ondata che sopraggiunga prima che l'ondata precedente sia stata digerita, Se ciò si verificasse, molto difficilmente potrebbe essere evitata una disoccupazione non del vecchio tipo italiano, ma tecnologica, del tipo più moderno, capitalistico avanzato, Per quanto riguarda la struttura dei consumi, un'inversione di tendenza è ovviamente impossibile, ma ciò ha tutta una serie di implicazioni e innanzi tutto una. I beni di consumo durevoli comportano una domanda per sua natura più suscettibile di fluttuazioni di quella dei beni di consumo non
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durevoli. La fluttUaZione avrà senz'altro il segno negativo qualora si cominci a delineare un processo di saturazione. E' questo uno dei punti che dovrebbe essere esaminato più da vicino poiché si è sottolineato da tutti che questo è stato uno dei settori stimolanti del processo economico negli ultimi anni. Se esaminiamo la situazione negli Stati Uniti, vediamo che ormai si è raggiunta una notevole saturazione e che questo settore non costituisce più lo stimolante produttivo che tut.tora rappresenta per i paesi dell'Europa occidentale. Se si pensa, per esempio, ai livelli che l'Europa con la sua popolazione certo densa, ma in cifre assolute relativamente limitata, può raggiungere nella produzione automobilistica, si ha l'impressione netta che questi limiti di saturazione non siano poi relegati in un futuro assai remoto. Qui ci colleghiamo al quarto aspetto, cioè all'accresciuta concorrenza intercapitalistica all'interno del Mercato comune. Su questa tendenza tutti sono d'accordo, ma si tratta di intuirne le conseguenze, economiche e sociali. Penso . che si preciserà una tendenza alle compressioni salariali, prima in determinati paesi, poi in altri, magari non compressioni in senso assoluto, bensi in senso relativo, sotto forma di ritmi di incremento minori di quelli registrati negli anni scorsi. Del resto, in certi paesi europei occidentali fenomeni simili si sono abbastanza chiaramente delineati, per esempio in
Inghilterra e nel Belgio.
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Per quanto riguarda, infine, i mercati dei paesi sottosviluppati, data l'immensità del mondo ex-coloniale o coloniale, dato lo sviluppo, sia pur relativo, di alcuni paesi e il progressivo avvento all'indipendenza di altri, ci sono ancora dei margini. Entreranno, tuttavia, prima o poi, in gioco dei fattori politici. In particolare, nella misura in cui le rivoluzioni coloniali potranno avere uno sviluppo di natura socialista, per esempio alla cubana, il capitalismo troverà sempre maggiori difficoltà di penetrazione in questi mercati, dove giocherà ai suoi danni la I.:ompetizioneeconomica con gli Stati operai. Per concludere, direi che, se nelle attuali condizioni non è ipotizzabile, sulla base dei dati di cui disponiamo, la minaccia di una crisi esplosiva di tipo classico, l'economia europea, e anche quella italiana, sempre più inevitabilmente legata alla
prima e in essa integrata, tenderanno a trovarsi di fronte a difficoltà crescenti a medio termine e più precisamente potranno arrivare a uno stadio analogo a quello in cui si trovano gli Stati Uniti, caratterizzato cioè da bassi saggi di incremento, minori in ogni caso di quelli che hanno contraddistinto la fase. di alta congiuntura, da recessioni frequenti, da una larga disoccupazione tecnologica più o meno permanente e ultimo fattore, ma: non meno importante da una larga inutilizzazione del potenziale produttivo. Ecco, dunque, la forma concreta in cui tenderà a manifestarsi a scadenza media anche nel capitalismo europeo occidentale ed italiano la:contraddizione generale del capitalismo: la disoccupazione tecnologica, l'inutilizzazione parziale dell' apparato produttivo forniranno alle larghe masse un indice palpabile e non solo percepibile sul piano teorico del freno che rappresenta per la produzione il permanere dei rapporti di produzione capitalistici. Ciò sarà tanto più facilmente comprensibile in quanto il capitalismo contemporaneo non si trova più a dover far fronte a un paragone ellittico tra i ritmi della sua produzione e quelli che potrebbero stabilirsi in una ipotetica società socialista. Oggi esiste anche il secondo termine di paragone, cioè lo sviluppo dell'URSSe degli altri Stati operai, e, dati i livelli anche assoluti che l'uRSS comincia a raggiungere, ciò tenderà ad avere una influenza anche politica negli stessi paesi avanzati dell'Europa occidentale. (Prima parte dell'intervento pronunciato al Convegno organizzato dall'Istituto Gramsci tra il 23 e il 25 marzo 1962. In Tendenzedel capitalismoitaliano,Roma,Editoririuniti,1962, voi. I, pp. 369-74).
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La crisi economica italiana
L'estate ha segnato nella congiuntura politica italiana la svolta che era stata universalmente prevista. La nuova recessione è cominciata ed è ora in pieno sviluppo. I dati del deterioramento della situazione sono individuabili a tutti i livelli. La produzione industriale che nei primi sette mesi dell'anno aveva conosciuto un sensibile aumento, in agosto ha subito un'inversione di tendenza: è calata del 4,6%. La congiuntura negativa ha investito in pieno il settore automobilistico (la FIAT e .1'ALFA ROMEO hanno denunciato eccedenze rispettivamente di 200.000 e di 20.000 vetture) e il padronato ha cominciato ad attuare pesanti riduzioni degli orari di lavoro (24 ore settimanali alla FIATper circa 71.000 operai). La crisi dell'auto sta coinvolgendo una serie di industrie piccole e inedie a essa collegate (e saranno senza dubbio coinvolti anche altri settori collegati come la distribuzione, la riparazione, ecc.; delle 21.620 aziende artigiane piemontesi del settore secondo la Federazione nazionale artigiani metalmeccanici solo il 20% continuano a produrre regolarmente; il 50% incontra serie difficoltà e il 10% si trova «in condizioni estremamente preoccupanti e ai limiti della sopravvivenza» (dr. «La stampa» del 27 ottobre). Nell'industria tessile le notizie per il mese di ottobre non sono meno gravi: alla fine di settembre i lavoratori in Cassa integrazione erano 20.000, oggi sono diventati 50.000 (<
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sospensioni che potrebbero essere indice di crescenti tensioni (SNIA VISCOSA, MONTEFIBRE, alcune fabbriche petrolchimiche a Ferrara e a MantOva). Quanto all'edilizia, la crisi non è una novità: il fatto che non si delinea alcun segno di rilando. Tra il '71 e il '73 la produzione di abitazioni si è ridotta della metà. Nel primo quadrimestre del '74 il volume dei fabbricati progettati ha registrato una contrazione del 7% rispetto all'anno precedente e gli stessi fabbricati iniziati hanno subito un'ulteriore compression~, anche se più modesta 3,5'*
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4% della popolazione attiva). Quanto ai consumi, basti ricordare la caduta nelle vendite delle autovetture (-3,4% nei da considerare però che già nel '73 primi ottO mesi del '74 la vendita era stata bassa e che, d'altra parte, i primi mesi del '74 coprono un periodo in cui la congiuntura era ancora ascendente) e la caduta delle vendite delle carni bovine (secondo 'il direttore del Consorzio italiano macellatori industriali, negli ultimi mesi la caduta si sarebbe aggirata tra il
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30 e il 35%).
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Per quanto riguarda i prezzi, l'Italia aveva già stabilitO un poco invidiabile .primato tra i paesi capitalistici nel primo quadrimestre del '74 (collocandosi nella categoria tra il15 e il 20%, restava indietro al solo Giappone, il cui incremento dei prezzi si avvicinava al 25%, superando, invece, tutti gli altri paesi capitalistici, tra cui la stessa Gran Bretagna). Nel settembre l'aumento annuo rispetto allo stesso mese dell'anno precedente è ormai attorno a125% (24,6% con un incremento record mensile deI3,3%!). U n altro elemento che merita di essere segnalato: le difficoltà di colmare il gigantesco deficit della bilancia dei pagamenti (che raggiungerà i 6.000 miliardi di lire), saranno accresciute dal diminuito. gettito di una delle voci che in passato ha più contribuito all'equilibrio della bilancia dei pagamenti (nel periodo rappresentato dai primi otto mesi del '74 le entrate valutarie dovute al turismo sono state di 837 miliardi contro 960 dello stesso periodo dell'anno precedente l). Va infine ricordato, per completare il quadro, che per evitare sconquassi maggiori la borghesia italiana si è già indebitata verso l'estero per un totale di Il.000 miliardi di lire (3,6 miliardi di dollari sotto forma di prestiti sottoscritti da istituti e società varie; 8,2 miliardi di dollari sotto forma di prestiti a compensazione del deficit della bilancia valutaria, crediop. IMI, ferrovie ecc.; 1,2 miliardi di dollari di cui 650
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l. Da notare - per dare un'idea della profondità della crisi che nel 197 O, in uno stUdio di previsione, i maggiori economisti consideravano come vincoli necessari per un buon andamento economico il non superamento della barriera del 6% per l'aumento dei prezzi e dei 300-400 miliardi per quanto riguarda il deficit della bilancia dei pagamenti. - ... ~
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milioni utilizzati SOttoforma di prestito stt:tnd-bydel FMI; 312 milioni di dollari sono forma di oil facilities del Fondo monetario per compensare il deficit oil; 1,889 miliardi di dollari da parte della Comunità europea con scadenza dicembre prossimo; 2 miliardi di dollari sotto forma di prestito tedesco garantito in oro a 6 mesi rinnovabile per due anni).
Un declino di lungo periodo
Le gravi difficoltà economiche attuali possono essere comprese in turta la loro portata solo tenendo presente in quale contesto più generale si inseriscono. La recessione che si è attualmente delineata si verifica a distanza ravvicinata da un'altra recessione di cui si possono cogliere le prime indicazioni già verso la fine del '70 e che non è stata superata che nella primavera del 73. Quello che è forse ancora più significativo, già prima della recessione del 1971-72l'andamento economico di lungo periodo aveva conosciuto un tendenziale declino, Soffermiamoci prima di tutto su questo secondo fenomeno. A partire dall'inizio degli anni cinquanta l'economia italiana ha attraversato, grosso modo, tre cicli di durata pressoché uguale: 1951-58; 1958-64; 1964-71. Il tasso di sviluppo complessivo tra il primo e il secondo ciclo è passaro dal 5, l % al 5,7%; mentre nella terza fase è calato dal 5,7% al 3,8%. Se si accetca un'altra valutazione, basata su periodi più ampi, indipendentemente dal ciclo, il risultato non cambia: nel periodo 1951-61l'incremento è stato del 5,8% per cadere nel 1962-73 al 4,7% (media 1951-73 5,4%) (vedi «24 ore», numero speciale gennaio 1974). Va precisato che il rallentamento del ritmo è da attribuire per una metà al rallentamento nella produzione industriale (!'industria manufatturiera è stata in questo senso la più colpita). Gli investimenti industriali, che negli anni cinquanca erano aumentati al tasso medio del 7,3 % e che si erano accresciuri nel 1962-63, nel biennio 1963-65 sono caduti del 37%, per risalire poi con ritmo rallentato al punto che solo nel 1969 è stato raggiunto il livello del 1963 (il '70 registrerà un
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ulteriore rilancio, tuttavia non in settori importanti; poi comincerà la nuova depressione), Dal 1963 va datata, d'altra parte, la caduta dell'autofinanziamento, per cui l'espansione entro i limiti indicati solo al prezzo di potrà continuare un progressivo indebitamento delle aziende 2. I profitti, che erano rimasti a un livello elevato in tutto il decennio degli anni cinquanta, già dall'inizio degli anni sessanta avevano cominciato a declinare (fatto il 1953 ugUale a 100, la quota dei profitti sul reddito lordo dell'industria manufatturiera era arrivata a 114,3 nel 1960 per cadere progressivamente sino a 91,2 nel 1964, limite più basso raggiunto prima del 1970, anno in cui cadevano sino a 82,9). per la loro ovvia incidenza Ma ancora più significative le tendenze dell'occupazione. Infatti, su questo sociale piano, la flessione ha cominciato già a delinearsi nella seconda fase 0958-64): infatti, se nella prima fase si era registrato un saggio di aumento dello 0,5% annuo, nella seconda si registrava un saggio negativo (- 0,5%) e così pure nella terza ( 0,3 %). C'è appena bisogno di ricordare che questo avveniva nonostante che una massa imponente di lavoratOri fossero costretti a trovare una via di scampo nell'emigrazione. Un dato merita di essere segnalato; dopo la caduta del 1964, il livello dell'occupazione ìndustriale non veniva recuperato .che cinque anni dopo (6.667.000 nel '63, 6.750.000 nel 1969,6.920.000 nel '70). D'altro canto le forze di lavoro in cerca di occupazione, dopo essere scese al 2,5% nel '63, si fissavano attorno al 3,5 % anche nei periodi di congiuntura ascendente. Il cosiddetto Progetto80, pubblicato nel 1969, cioè in un anno in cui, dal punto di vista dell'occupazione, la situazione non era affatto negativa, delineava prospettive a lungo termine tutt'altro che esaltanti. Pur partendo dal presupposto relativamente ottimistico di un aumento globale del reddito nazionale del 5% annuo, due ipotesi di sviluppo basate su due diverse ipotesi di incremento della produttività prospettavano per il periodo sino al 1980 un aumento dell'occupazione complessiva rispettivamente di 100 e 350 mila
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2, P. SYLOSLABINI,Sindacati, inflazione eproduttività, Bari, laterza, 1972, pp. 118-24.
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unità. L'aumento dell'occupazione extraagricola sarebbe rispettivamente di l, l e 1,4 milioni di unità, cioè insufficiente a compensare l'aumento dell'offerta di lavoro proveniente dalle nuove leve e dalla continuazione dell'esodo rurale (p. 131). In altri termini: !'ipotesi '80 comporta la previsione di un ulteriore ribasso della popolazione occupata rispetto alla popolazione complessiva. Questa percentuale ha già subito una riduzione sensibile nei periodi precedenti: tra il 1959 e il 1968 è scesa dal 43,8 al 37,4% e nel 1972-73 addirittura al 35,4% 3. Qualche indicazione, ora, sulla recessione che ha preceduto quella' attualmente in corso. Se ne può datare !'inizio alla fine del '70, anche se qualcunò ha parlato addirittura della fine del '69 (<<24ore», gennaio '74). Il '70, definito dalla Confindustria a suo tempo anno di transizione, era stato un anno di crescita ma non di rilancio, e l'incremento era stato dovuto, soprattutto nella prima metà dell'anno, al recupero rispetto al '69 caratterizzato da grandi scioperi con conseguenti arresti della
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3. Alcuni apologeti hanno voluto vedere in questa caduta come un indice della modernizzaperaltro nell'ampliamento del terziario zione del paese. Infatti, la riduzione stessa sarebbe dovuta alla maggiore scolarizzazione, all'anticipazione dei limiti di pensione, al prolungamento della vita media, al fatto che le famiglie che si trasferiscono dalle campagne alle città ricorrono molto meno al lavoro della donna ecc. Ma questa tesi risponde a verità solo parzialmente. Basterebbe a dimostrarlo il fatto che il saggio di attività è sensibilmente più alto nel Nord (38%) che nel Sud (31%), e nessuno può seriamente pretendere che sia il Sud la parte più moderna del paese (dati' regionali sarebbero ancora più indicativi: per esempio, nel'68 il saggio era del 42,7% nel Piemonte e del41 % in Lombardia contro il 33,7% della Campania e il 31 % de!la Sicilia), La condizione della Campania, regione meridionale che tuttavia comprende zone di notevole sviluppo industriale e zone di agricoltura intensiva, meriterebbe particolare attenzione. Tra il 1961 e il 1971 il totale degli occupati è diminuito nella regione da 1.698.000 a 1.552.000. Gli addetti all'industria sono passati nello stesso periodo da 565.000 a 538.000, all'agricoltura, da 581.000 a 419.000, mentre il terziario ha registratO un aumento da 552.000 a 595.000. Va segnalatO,peraltro, che l'ampliamentO del terziario, specie nelle regioni meridionali, in non pochi casi maschera un estendersi di forme di sottoccupazione più che non indicare uno spostamento effettivo ad altri settori di attività (cfr. «Rinascita»,1974, n.42).
produzione 4. Comunque, senza dubbio, il '71 è stato un anno di recessione. Il reddito nazionale lordo aumenta solo dell'l,4% (il valore aggiunto dell'attività industriale segna addirittura una diminuzione, pari all'I,3% con un 0,4% per le industrie propriamente dette, mentre il settore primario è pressoché stazionario ( + 0,8%). L'occupazione complessiva scende di 63 mila unità (- 47.000 nell'industria) e la disoccupazione, secondo i dati ufficiali, raggiunge il3,1 %. Aumentano anche i sottoccupati ( + 62.000 per un totale di 312,000). Gli investimenti lordi complessivi registrano una caduta del 10,3% (gli investimenti industriali restano stazionari). Nel '72 la situazione migliora leggermente rispetto all'anno precedente: reddito nazionale lordo + 3,2%, investimenti + 2%, produzione industriale + 4,3%. Va tuttavia ricordato che, fissando !'indice 100 per il '70, la produzione industriale, passata al 95,6% nel '71, nel '72 non va oltre il 99,89é (<<24 ore", gennaio 1974), Quanto all'utilizzazione degli impianti, caduta daU'82,7% al 78,9%, registra un'ulteriore flessione sino al 76%. Secondo dati del CENSIS, nella prima metà del '72 l'occupazione complessiva registra una flessione di ben 500.000 unità (da 18,9 a 18,4 milioni). La ripresa avviene solo 'nella prima metà del 1973 estendendosi sino alla prima metà del '74. Il reddito nazionale del '73 registrava un aumento del 5,9%, gli investimenti aumentavano dal 9,9% e l'occupazione si accresceva di 140.000 unità (calava ancora l'agricoltra, ma il calo era compensato dall'aumento dell'industria e del terziario. In particolare tra il luglio '72 e il luglio '73, le variazioni per i tre settori erano le
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- 130.000; + 88.000; + 384.000). L'indice industriale giungevaa 107 0970 = 100),mentre l'utilizza-
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zione degli impianti risaliva al 79%. Ultimo elemento - del quale a nessuno sfuggirà il significato anche dal punto di vista delle prospettive: il '73 segnava un'ulteriore accentuazione del grado di integrazione dell'economia italiana nell'economia mondiale: il rapporto tra
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4. E' stato osservato- con ragione che senza gli avvenimenti del '69 la recessione sarebbe stata anticipata. Una prova di più della pretestuosità della tesi secondo cui le difficoltà economiche sarebbero dovute all'eccessiva conflittualità sociale.
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interscambio e prodotto nazionale lordo, che era già del 52%, giungeva al 54%.
L'intreccio delle contraddizioni
Da tutti gli elementi che abbiamo sistematicamente richiamato emerge sempre più esplicitamente e acutamente !'intreccio delle contraddizioni strutturali e congiunturali. Per limitarsi, ancora una volta, all'essenziale, sottolineiamo quanto segue: a) le potenzialità dell'apparato produttivo, segnatamente nei settori più dinamici, sono aumentate più rapidamente delle possibilità di allargamento del mercato interno. Contemporaneamente, la congiuntura economica internazionale ha reso più aspra la concorrenza, riducendo le possibilità che le difficoltà siano superate con una accresciUta presenza sul mercato europeo e mondiale (sia detto tra parentesi, unitamente alle sospensioni, ai licenziamenti, alla incensificazione del tasso di sfruttamento e al contenimento della dinamica salariale, lo stimolo delle esportazioni era stato un fattore decisivo per il superamento della crisi del '64). b) Contrariamente alle affermazioni dei teorici del neocapitalismo, la presenza di una cospicua area arretrata e parassitaria non era stata necessariamence in contraddiziç>ne con lo sviluppo economico del periodo del boom. Infatti, da un lato le occupazioni cosiddette parassitarie (gli enci 'inutili' ecc.) hanno fornito occupazione a contingenci non trascurabili della popolazione attiva; dall'altro, proprio un certo sviluppo distorto rispetto a una ipotesi di sviluppo capitalistico 'ideale' aveva favorito l'estendersi di certi strati sociali incermedi che contemporaneamente avevano costituito un mercato per certi beni (beni di consumo durevoli, case ecc.) e avevano fornito un cemento politico necessario alla conservazione del regime. Tuttavia, l'area 'parassitaria' o improduttiva ha finito Con il provocare squilibri sempre più gravi, generatori di tensioni drammatiche (basti richiamare il caos urbanistico e la esplosiva situazione nel settore sanitario); ha contribuito ad accrescere la disfunzionalità dell'apparato politico e ammi-
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nistrativo, mettendo a repentaglio lo stesso funzionamento minimo necessario alla sopravvivenza del sistema: ha cominciato a rappresentare un peso sempre meno sopportabile via via che, con l'esaurirsi del boom, si sono ristretti i margini di manovra economici. . Oggi più che mai il capitalismo italiano subisce sia le contraddizioni del capitalismo giunto ai suoi livelli più alti (vedi la crisi dell'industria automobilistica), sia le contraddizioni derivanti dal suo sviluppo specifico degli ultimi venti anni (di cui i fenomeni cosiddetti di arretratezza sono parte essenziale e non escrescenza accessoria, retaggio del passato). D'altra parte il peso delle contraddizioni strutturali si fa sentire sempre più direttamente e immediatamente, mencre si aggravano le contraddizioni di origine congiunturale, soprattutto nella misura in cui le fasi ascendenti tendono ad avere minore dinamismo e durata più breve e i cicli recessivi tendono di più a coincidere nei vari paesi. Il superamento della crisi appare estremamente problematico se si considerano le contraddizioni esistenti da altri punti di vista. L'inflazione ha senza dubbio assicurato alla borghesia certi margini di manovra nel corso degli ultimi anni e ha costituito lo strumento principale del relativo rilancio dei profitti (nel '73 e agli inizi del '74). Ma la conseguenza è stata che il tasso inflazionistico ha superato largamence i limiti di guardia con effetti di grave disorganizzazione del sistema. Non si dimentichi che il vantaggio che da un'inflazione deriva all'esportazione può essere largamente o anche interamente annullato dal rincaro delle importazioni, nonché dal restringimento del mercato interno: che ['inflazione rafforza le tendenze speculative, la ricerca dei cosiddetti beni-rifugio che rappresentano immobilizzi di capitali ecc.; che il sistema del credito viene profondamente scosso e, infine, che diventa più difficile il ricorso regolare ai prestiti esteri ecc. In secondo luogo, il superamento della crisi richiede vaste operazioni di ristrutturazione, per la maggior parte dei casi subordinate a investimenti massicci. Ma, data la caduta dell' autofinanziamento, il reperimento del credito diventa sempre più difficile, provocando una concorrenza di cui non possono non fare le spese tutta una serie di piccole e medie
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130 imprese. La sitUaZioneeconomica e politica rende, d'altra parte, molto ardua la raccolta di fondi tramite il. mercato azionario e', come si è già accennato, spinge verso operazioni speculative o verso la ricerca dei beni-rifugio. In queste condizioni, quelli che rischiano di mancare di più, sono proprio gli investimenti più necessari e cioè quelli a lungo termine. Infine, da un lato la borghesia italiana ha bisogno di trovare nuovi spazi su mercati esteri e di ricevere aiuti in varie forme (prestiti ecc.); dall'altro, è spinta ad adottare misure di sapore protezionistico (vedi la legge sui depositi obbligatori). Si tratta di una contraddizioC\e supplementare che in questo periodo non.è specificamente italiana, ma investe l'Italia con acutezza
e immediatez2;aparticolari.
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Due soluzioni alternative
La borghesia italiana può, in astratto, prospettarsi due vie di uscita a medio termine. La prima sarebbe la scelta di una riconversione economica a largo respiro che si fondi: a) sulla individuazione di nuovi settori portanti (per es. alcuni settori della chimica); b) sull'esaltazione della produzione mirante a soddisfare i cosiddetti consumi sociali (abitazioni, trasporti, ospedali ecc.); c) su una rivalorizzazione dell'agricoltura che, rilanciando la produzione in specie di determinati settori, potrebbe ridurre l'incidenza delle importazioni con conseguente ben~ficio per la bilancia dei pagamenti e bloccare, se non invertire, un esodo rurale che è venuto assumendo forme sempre più irrazionali (anche dal punto di vista strettamente economico). Un tale progetto si urterebbe indubbiamente a gravi difficoltà. Il reperimento di nuovi settori trainanti resta un problema aperto, soprattutto dal punto di vista degli effetti moltiplicatori e dell'incidenza sull'occupazione (per esempio uno sviluppo anche impetuoso di certe branche della chimica difficilmente potrebbe avere la funzione che ha avuto negli anni cinquanta e sessanta lo sviluppo dell'industria automobi-
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listica). Le riconversioni- sianell'industria,sianell'agricolturarichiederebbero
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oltre che risorse
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e per tutto un periodo di non tanto facilmente reperibjJi transizione le tensioni, lungi dal diminuire, rischierebbero di accrescersi ulteriormente. Ma la difficoltà maggiore risiederebbe nel fatto che una riconversione come, quella prospettata richiederebbe una pianificazione a largo respiro e quindi la presenza di strumenti atti a tradurla in pratica. Come credere che questa condizione possa essere soddisfatta quando il consenso è ormai unanime sul totale fallimento dei pur' modestissimi progetti di programmazione delineati dieci anni fa e le recenti dimissioni di Ruffolo, nel mezzo della crisi economica e politica d'autunno, hanno assunto quasi un carattere simbolico? 5 Tuttavia, qualora riuscisse a realizzare un serie di condizioni sociali e politiche, un tale progetto potrebbe, in ultima analisi, ridare fiato all'economia italiana, attenuando la portata di certe contraddizioni strutturali e ritardando la scadenza di nuove esplosioni delle contraddizioni stesse. La seconda via sarebbe quella di una riconversione in direzione, per cosl dire, diametralmente opposta, la cui logica è in un certo senso anticipata in embrione dalle tendenze, che abbiamo segnalato, di declino dello sviluppo e di contraZione 5. Il fallimento della programmazioneè stato ammesso ormai da
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tempo, in particolare dagli economisti dal già citato Ruffolo al Sylos Labini -.che più si erano adoperati perché la programmazione fosse realizzata. Va nptato che questi economisti hanno cercato di individuare la causa del fallimento nell' 'arretratezza' economica, politica, culturale dell'Italia, considerata tendenzialmente come atipica rispettO al resto dell'Europa capitalistica e, più in particolare, nelle debolezze soggettive degli stessi gruppi imprenditoriali più moderni, oltre che nella macroscopica disfunzionalità dell'apparato . statale. Nel suo Rapporto su/la programmazioneRuffolo indica che "le condizioni necessarie al successo della programmazione sono essenzialmente di natura sociale e politica» (p. 92). Ma in primo luogo non trae la conclusione che pure è in parte implicita nella sua denuncia (cioè la condizione sociale e politica è la rottura del sistema in quanto tale), in secondo luogo le proposte che avanza non vanno al di là dell'ambito tecnico-istitUZionale. Appare poi strano, sia detto di passata, che Ruffolo consideri «non prevedibili.. nel 1956-66 mutamenti di fondo (come quelli intervenuti nell'integrazione internazionale, nel mercato del lavoro e nella strUttura del sistema industriale) che invece erano prevedibili abbastanza agevolmente e di fatto erano stati previsti da studiosi marxisti.
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dei livelli di occupazione. Si tratterebbe di perseguire un rilando dell' economia su una base più ristretta, privilegiando certi tipi di produzione e puntando su beni accessibili soltanto a determinati strati della popolazione (per esempio l'industria automobilistica potrebbe ricercare un nuovo equilibrio con una produzione basata su vetture destinate a ceti in grado di assicurare una domanda più stabile). Una simile ipotesi implicherebbe da un lato un ulteriore restringimento della popolazione occupata (con ulteriore caduta dei saggi di attività); dall'altro certe tendenze di tipo autarchico. Le difficoltà e i rischi anche dal punto di vista strettamente economico non hanno bisogno di essere segnalati, tanto sono ovvi. Tuttavia, almeno per un certo periodo; una soluzione del genere non sarebbe impossibile. In tutti e due i casi, però, gli ostacoli maggiori appaiono di natura politica: nel primo sarebbe necessario infrangere vaste e solide costellazioni di interessi la cui forza è stata già sperimentata sin dagli inizi del centro-sinistra; nel secondo la classe dominante dovrebbe essere in grado di spezzare preliminarmente la resistenza della classe operaia. Proprio per questo le due soluzioni restano largamente astratte, al di là delle contraddizioni che racchiudono. Come appaiono difficilmente realizzabili, nel contesto dato, le due formule politiche che dovrebbero garantirle e cioè, rispettivamente, un 'compromesso storico' (o una formula equivalente) e un. regime conservatore autoritario, se non addiritrora una dittatura
fascistao militare 6.
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(da La crisi etonomka e la rispostadei rivoluziona,i, Roma, Bandiera r055a,.1975, pp. 3-16).
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6. E' chiaro a cruW1queche a prospettare più conseguencemente e insistentemente la prima ipotesi sono stati i dirigenti e gli economisti del PCI, il che è largamente riconosciuto da vari economisti impegnati a suo tempo nel disegno economico del cencro-siniscra e della programmazione.
BILANCIACOMMERCIALELa.bilancia commerciale è la differenza tra le esportaZioni e le importazioni di un determinato paese. Se le esportazioni superano le importazioni la bilancia commerciale è in attivo, in caso contrario la bilancia commerciale è passiva o in deficit. La.bilancia commerciale è una componente importante della bilancia dei pagamenti (vedi). Data l'importanza di quest'ultima ai fini della stabilità e della convertibilità di una. moneta, i governi borghesi si preoccupano di stimolare le esportazioni e di limitare le importazioni, il che coincide con l'obiettivo di un allargamento del mercato interno ed estero per i prodotti dei propri capitalisti. Le esportazioni vengono generalmente stimolate con crediti all' esportazione a taSsi inferiori a quelli di mercato e con rimborsi fiscali. Per limitare le importaZioni vengono utilizzate soprattUtto le tariffe doganali, ma in certi casi anche limitazioni delle quantità fisiche (contingentamenti). Si cerca però di evitare lo scoppio di vere e proprie guerredelle tariffe (vedi) che sarebbero controproducenti per tutte le parti in causa. BILANCIA DEI PAGAMENTI E' costituita dai saldi tra le somme' dovute all'estero e le somme che l'estero deve al paese in questione. La bilancia dei pagamenti si compone della bilancia commerciale, del movimento dei capitali cioè della differenza tra l'uscita dei capitali'e la loro entrata del movimento dei
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noli marittimi, del movimentoturisticoe del movimentodi emigrazione e immigrazione.
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135 di questi profitti vada reinvestito e quanto distribuitO agli azionisti. In effetti il dividendo dipende piuttosto dal livello del tasso di interesse, cioè da quantO il possessore di un certo capitale potrebbe ritrarre da esso se lo depositasse in banca. Il dividendo oscilla attorno al tasso di interesse a seconda dell' andamento della società: se la società va bene è un po' superiore, se va male è inferiore. Le azioni hanno un valore nominale, che è quello al quale sono state emesse, e un valore effettivo, che dipende dalla quotazione in borsa,cioè da quanto sono valutate dai compratori di quelle azioni in borsa quel determinato giorno. Tale valutazione dovrebbe dipendere dall'andamento dell'azienda, dal quale a sua volta dipende, come abbiamo detto, il dividendo. La valutazione di una azione, il suo prezzo in borsa, dipendono quindi dall'utile (dividendo) che ci si aspetta di avere acquistandola. Anzi, più precisamente, il prezzo di una azione è la capitalizzazione del dividendo annuo al tasso medio dell'interesse. Cioè se il tasso medio di interesse è 5% e il dividendo per azione di 10.000 lire, il prezzo dell'azione sarà di 200.000 lire. Ma in ancicipo (prima dell'assemblea degli azionisti che avviene una volta all'anno) non si sa quale sarà il dividendo. Il prezzo dell' azione sarà qUindi il ris!.l.ltatodelle previsioni sull'ammontare del dividendo. E' chiaro a questo punto che le notizie sull'andamento di questa o quella società possono fare variare moltissimo il prezzo delle rispettive azioni. E' altrettanto chiato che il prezzo delle azioni verrà determinato non solo da notizie reali, ma da ogni sorta di false voci che riguardino sia r andamento di una singola società che quello dell'economia nel suo complesso, in quantO dalla situazione economica generale dipende sia la situazione di ogni singola azienda, sia il livello del tasso di interesse che, come abbiamo . detto, è strettamente legato al dividendo delle azioni. La borsa in questo modo diventa il luogo privilegiato di speculazioni di ogni tipo. Caratteristica della borsa diventa quindi la possibilità di variazioni molto forti e rapide sia del prezzo delle singole azioni,sia detloro corsomedio(cioè della media dei prezzi). Quindi partecipa alle compravendite delle azioni in borsa non tanto chi vuole ottenere i dividendi o chi è interessato ad asswnere il controllo di questa o quella azien-
Come è noto il movimento di capitali è fortemente passivo per l'Italia, a causa della fuga di capitali che serve a non fare pagare le tasse, ma anche come arma di ricatto politico, poiché a ogni avvenimento politicamente sgradito la fuga di capitali si accentua. A ciò si unisce la ricerca di un tasso di profitto più elevato in altri paesi. Il movimento turistico e il movimento degli emigrati danno invece dei saldi positivi per ntaiia. Se la bilancia dei pagamenti è in forte deficit per dei lunghi periodi ciò che in genere è il risultato di tendenze infIazionistiche all'interno - il paese in questione sarà costretto a svalutare la propria moneta, cioè a modificarne in peggi~\ il rapporto con le altre monete (ovviamente una forte eccedenza è invece una spinta alla rivalutazione). A questo punto entra in gioco la consistenza delle riserve, costituite, presso la Banca centrale, da disponibilità in oro e in valute di riserva, cioè dal dollaro e, fino a qualche tempo fa, dalla sterlina. Le riserve danno la possibilità di saldare il proprio debito con l'estero (il deficit della bilancia dei pagamentI), ma soprattutto permettono di ottenere, senza intaccarle, i crediti esteri necessari a saldarlo. Questo è ciò che è avvenuto in Italia nel 1974-75, in forme particolarmente brutali con il prestito della Germania occidentale dato contro il pegno di parte delle riserve auree italiane.
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BORSA La borsa, come le banche, è uno strumento tipico del capitalismo sviluppato. Con lo sviluppo del capitalismo viene effettuato il passaggio dal capitalista individuale alle società per azioni, in cui la proprietà del capitale e quindi la partecipazione agli utili, dipende dal numero di azioni che ciascuno degli azionisti possiede.. .. Il mercato delle azioni si chiama appunto borsa. Vengono chiamate borse anche i mercati di certe merci (grano, rame, caffè, ecc.) - le cui caratteristiche sono tali che è possibile comprarle e venderle senza che siano fisicamente presenti ma la borsa per eccellenza è quella delle azioni (e delle obbligazioni, in genere dei titoli). Le azioni danno degli utili che vengono chiamati dividendo: non si tratta però di tutto il profitto della società a cui si riferiscono le azioni. Sono i grossi azionisti a decidere quanto
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da, quanto chi intende guadagnare sulla differenza tra il prezzo delle azioni oggi e il loro prezzo presunto in futuro. Quindi le operazioni più diffuse in borsa non sono tanto quelle per contanti ('a pronti'), ma quelle a termine: operazioni cioè che riguardano acquisti futuri di azioni (in genere a distanza di un mese) a un prezzo fissato il giorno
gli speculatori che acquistando o vendendo una determinata valuta col sistema precedente ne provocavano spesso la svalutazione o la rivalurazione. Il sistema dei cambi fluttuanti ha però il grosso svantaggio per gli esportatori e gli importatori di privarli di qualsiasi sicurezza, nel momento in cui firmano il contratto, sul valore del denaro che riceverannò o che dovranno pagare dopo la consegna della merce. Ciò rischia di essere (e in parte già è) un freno al commercio mondiale. Le cause di fondo che hanno portato all'adozione del sistema dei cambi fluttuanti sono l'inflazione sempre più forte in tutti i paesi capitalistici, ma che si sviluppa con ritmi diversi nei diversi paesi, e l'acutizzarsi della concorrenza internazionale che portava al suo estendersi anche al settore monetario.
dell'acquisto. . . . Se dopo un mese le azionisono salite,vengono immediatamente rivendute e chi ha effettuato l'operazione intasca la differenza. A questo tipo di oper~ioni, che permettono innumerevoli variazioni e che, per la loro somiglianza con il gioco di azzardo, vengono chiamate 'gioco in borsa', partecipano àttivamente le banche sia come intermediari che come fina~ziatori di chi 'gioca in borsa'. Naturalmente chi soprattutto gioca in borsa non sono i pesci piccoli, ma i grandi capitalisti che oltre a servirsene come fonte per r allargamentQ dei capitali ne ritraggono utili supplementari attraverso la speculazione. La borsa italiana ha delle caratteristiche accentuatamente speculative, mentre, soprattutto negli ultimi anni, svolge un ruolo limitato come fonte di capitali per l'industria.
CLEARING Forma di scambio commerciale fra due paesi che prevede una perfetta parità tra importazione ed esportazione, per cui non vi debba essere tra i rispettivi paesi nessun esborso in valuta convertibile oppure in oro. Si tratta di un sistema che limita r espansione degli scambi commerciali e che viene adottato da paesi scarsamente legati al mercato mondiale o in periodi di grave crisi di questo (per esempio nell'immediato dopoguerra, tra paesi a valuta non convertibile privi di"riserve valutarie). Le limitazioni sono dovute alla necessità di macchinosi controlli e di trovare sempre una contropartita a qualsiasi aumen-
CAMBIFISSI, CAMBIFLUTrUANTI Cambio (o quotazione, o parità) di una moneta è il suo rapporto con le altre monete e anche il suo rapporto con l"equivalente universale'; con
l'oro. . .. Sulla base degli accordi di Bretton Woods conclusi fra le maggiori potenze capitalistiche nel '74, il sistema monetario internazionale si reggeva su un sistema di cambi fissi, cioè un rapporto fra le monete definito ufficialmente, sostenuto sul mercato libero dalle rispettive banche centrali, e che, per essere modificato, richiedeva una decisione ufficiale della banca centrale interessata. Con la crisi del sistema monetario internazionale aggravatasi negli ultimi anni, la inconvertibilità del dollaro in oro, le ondate speculative che si abbattono periodicamente sulle più importanti valute, i paesi capitalistici non hanno più ritenuto possibile mantenere un sistema di cambi fissi. Si è deciso quindi di lasciare oscillare liberamente le varie monete sui mercati dei cambi. In questo modo si intende scoraggiare
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to del commercio in uno dei due sensi,e anche al fatto che in questo modo i rapporti commerciali possono essere solo bilaterali.
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COMPOSIZIONE ORGANICA DEL CAPITALE Il capitalista che apre un'impresa industriale deve dividere il proprio capitale in due parti diverse: una parte per l'acquisto delle macchine, degli edifici, delle materie prime, dei prodotti ausiliari ecc. Questa parte del capitale vede il proprio valore conservato nel corso del processo produttivo tramite il suo incorporamento nel valore dei prodotti finiti. Per questa ragione verrà chiamato caPitalecostante.la. seconda parte del capitale deve essere usata per l'acquisto di forza-lavoro. E' questo capitale che si accresce del plusvalore prodotto dagli
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operai. Verrà dunque chiamato caPitalevariabile. Il rapporto tra capitale costante e capitale variabile è la composizione organica del capitale.Più una impresa, un settore industriale o un paese sono avanzati, più elevata è la composizione organica del capitale, cioè più grande è la frazione del capitale complessivo che viene spesa per l'acquisto delle macchine e delle materie prime. Tuttavia l'aumento della composizione organica del capitale è l'elemento decisivo che agisce in favore della caduta tendenziale del saggio di profitto (vedi) e, in questo senso, è una delle cause di fondo dell'insorgere delle crisi. CONTROLLODEI CAMBI Controllo esercitato dalle au~ torità statali o da1la banCIi centrale sulla conversione della moneta di un determinato paese in altre monete o viceversa. La premessa affinché in certe situazioni venga adottato il controllo dei cambi è, ovviamente, che la moneta it;lquestione sia convertibile. Il controllo dei cambi viene esercitato nel caso sia in corso una speculazione al ribasso contro di essa, nel caso cioè che forti vendite all'estero ne facciano cadere il prezzo, provocando una svalutazione. . Poiché nessuna valuta è totalmente convertibile (neppure il dollaro americano, che pure è la più convertibile di tutte), una certa misura di controllo dei cambi viene esercitata praticamente in tutti i paesi. In Italia l'organismo responsabile di tale controllo è l'Ufficio italiano cambi (mc), dipendente dalla Banca d'Italia. La sua efficacia (peraltro funzionale alle aspirazioni della borghesia italiana) è dimostrata dall'entità delle fughe di capitale. CRISI La crisi economica è !'interruzione del processo normale di riproduzione. In regime capitalistico le crisi si ripetono periodicamente con caratteristiche definite. In questo senso si parla di crisi ciclichee di loro fasi. Nella crisi si manifesta la contraddizione fondamentale del capitalismo, quella tra la socializzazione crescente delle forze produttive e la loro appropriazione privata. Quest'ultima spinge i capitalisti a investire quando il saggio di profitto è sufficientemente elevato, ma impedisce di prevedere se le merci prodotte potranno trovare sbocchi. Gli sbocchi a loro volta sono
limitati dal livello di consumo relativamente basso dei lavoratori. La forza acquistata da questi ultimi nella fase di boom(vedi) fa aumentarei
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salarie perciò fa diminuireil saggio
di profitto. Quindi diminuisce per i capitalisti lo stimolo a investire. E' chiaro adesso che l'elemento fondamentale che determina le crisi è l'oscillazione del saggio di profitto. Si potrà vedere attraverso un rapido esame delle diverse fasi del ciclo come questo avvenga e quali altri elementi entrino in gioco. a) ripresa economica:durante la depressione economica (vedi) la produzione industriale si mantiene a un livello anormalmente basso poiché il saggio di profitto è molto basso. In questa situazione nessuna diminuzione del tasso di interesse sui crediti bancari può provocare una ripresa degli investimenti. La logica stessa di questa stagnazione crea gli elementi di una ripresa. I settori dei beni di consumo, le cui vendite hanno subito limitate contrazioni perché anche i disoccupati mangiano (sia pur poco), possono aumentare leggermente la loro attività via via che le scorte a magazzino vengono smaltite. I prezzi non diminuiscono più come nella fase di crisi senza però alzarsi immediatamente. E' sufficiente una stabilizzazione dei prezzi perché le aziende del settore dei beni di consumo pensino a rinnovare le attrezzature e quindi a investire. Il momento è estremamente vantaggioso: i prezzi delle materie prime e dei mezzi di produzione sono anormalmente bassi, bassi sono anche i tassi di interesse. I salari continuano a scendere sotto la pressione della disoccupazione anche dopo che i prezzi si sono stabilizzati: anche questo stimola r estensione della produzione in quanto promette profitti più alti. Il saggio di profitto è tuttavia ancora basso e ciò incita i capitalisti a ricercare e introdurre nuove tecnologie che si sono accumulate dopo la fine del boom senza essere applicate durante la crisi appunto perché gli investimenti erano cessati. L'introduzione di nuove tecnologie fa diminuire i costi di pro-
duzione, cosa che - a prezzi stabilizzati- fa aumentare il saggio di profitto. te ordinazioni di macchinaridel settore dei beni di consumo che ha ricominciatoa investire permette, una ripresa della produzione dei settori che producono mezzi di
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produzione. Poiché questi settori non hanno sufficienti dispo-
nibilità per soddisfaretutta la domanda e occorre del tempo
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per produrre le attrezzature e i macchinari necessari, si scatena la concorrenza per ottenere subito i mezzi di produzione disponibili. Ciò fa salire immediatamente i loro prezzi più dei prezzi dei beni di consumo e permette nel settore dei mezzi di produzione un saggio di profitto più elevato. D'altra parte il tasso di profitto aumenta in generale. Mentre i prezzi cominciano a salire dopo la liquidazione delle scorte, i salari non aumentano affatto o aumentano di poco perché continua a esistere una forte disoccupazione. Si riduce il tempo. di circolazione delle merci perché con la ripresa dell~ domanda non si hànno più lunghe fermate nei magazzini. Le merci inoltre vengono pagate immediatamente perché vi è ancora abbondante liquidità. Nello stesso tempo numerose fabbriche ricominciano ad assumere operai, sep.za rinnovare immediatamente i loro macchinari. La composizione organica del capitale di queste fabbriche si abbassa quindi 'momentaneamente (cioè fino al momento in cui riprendono a investire anche loro) facendo aumentare quindi il tasso di profitto. Poiché la liquidità è ancora elevata (cioè ci sono molti soldi in circolazione e in particolare nelle banche) il tasso di interesse rimane ancora basso mentre il tasso di profitto è elevato. Ciò significa che nella distribuzione del profitto tra i vari settori della borghesia è il capitale induStriale a ottenere una quota maggiore rispetto al capitale finanziario. Ciò costituisce per i capitalisti industriali un ulteriore incitamento a investire.
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b) boom,prosperità: tutti i capitali disponibili affluiscono verso la produzione e verso il commercio per poter approfittare dell'aumento del tasso medio di profitto. Gli investimenti aumentano rapidamente. Per tutto un periodo la creazione di nuove aziende e l'arnrnodernamento di aziende esistenti sono la fonte essenziale dell'espansione economica. Si sviluppano quindi più rapidamente i settori che producono mezzi di produzione rispetto a quelli produttori di beni di consumo. Finché la domanda supera l'offerta i prezzi continuano a salire e il tasso medio di profitto si mantiene a un livello elevato. I salari cominciano ad aumentare ma' meno rapidamente dei prezzi; quindi il tasso di plusvalore continua ad alzarsi. Le
aziende più moderne realizzano sovrapprofitti considerevoli, il che stimola i nuovi investimenti e sviluppa il credito e la speculazione. Con l'estendersi della produzione viene a poco a poco raggiunta la piena occupazione e quindi i salari operai cominciano a crescere. Di fronte al rischio' di una riduzione del tasso di plusvalore e del tasso di profitto i capitalisti reagiscono con la razionalizzazione, con l'intensificazione dello sforzo dei lavoratori, il che comporta un ulteriore aumento della produzione. A un certo punto viene raggiunto, nel settore dei beni di consumo, il limite della domanda solvibile, cioè della domanda di beni di consumo delle persone che hanno abbastanza ,soldi per comprare questi beni. Naturalmente la domanda solvibile è ben diversa e può essere molto lontana dalla soddisfazione dei bisogni reali della società e dei lavoratori in particolare. Questa differenza è alla base del fenomeno per cui in regime capitalistico vi sono crisi di sovrapproduzione e contemporaneamente vi è gente che muore di fame. A questo punto, mentre sarebbe più 'ragionevole' che i capitalisti non allargassero più la produzione, vi sono una serie di forze che li spingono a estenderla. Ogni azienda ritiene che anche in una situazione df stagnazione della domanda potrà aumentare la propria quota di mercato a spese della concorrenza. Inoltre le aziende hanno appena rinnovato il macchinario e una limitazione della. produzione farebbe abbassare il tasso di profitto. Infine il progressivo aumento dei tassi di interesse dovuto all'aumento della domanda di cre'diti fa diminuire la quota di profitti destinata al capitale industriale rispetto a quella che va al capitale finanziario. Occorre quindi aumentare la massa del profitto e, per questo, aumentare la prod uzione. Infine anche quando la domanda finale di beni di consumo comincia a diminuire, i commercianti all'ingrosso e al minuto stanno ancora accumulando scorte e quindi continuano ad acquistare dagli industriali i quali sono spinti a incrementare la produzione. c) sOllrapproduzionee crac:via via che i nuovi investimenti aumentano sempre più la capacità produttiva complessiva della società e dunque la massa di merci gettata sul mercato, i
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rapporti tra domanda e offerta si modificano prima impercettibilmente, poi in senso sempre più netto, nel senso che l'offerta tende a superare la domanda. Le scorte cominciano ad aumentare prima allo stadio finale (commercio al minuto), poi agli stadi intermedi, infine nelle stesse aziende industriali. Per non abbassare i prezzi commercianti e industriali si rivolgono alle banche per ottenere crediti che permettano loro di mantenere un alto livello di scorte. Le banche lo concedono per evitare il fallimento di clienti già fortemente indebitati. Nel frattempo i capitalisti che producono beni di consumo rinviano il più possibile i loro programmi di inve~timento, disdjcono gli ordini di macchinario. Il settore dei beni di produzione vede diminuire la domanda proprio nel momento in cui aveva potenziato le proprie capacità produttive per rinnovare i propri impianti e quelli del settore dei beni di consumo. Anche loro si rivolgono alle banche per avere dei crediti che permettano loro di continuare a produrre per il magazzino. La domanda di credito aumenta da tutte le parti proprio nel momento in cui le aziende, alla ricerca disperata di liquidità, riducono i loro depositi in banca.
in seguito alla caduta dei prezzi il macchinario che rimane in funzione vale meno, viene svalutato. Quindi il valore complessivo del capitale sociale si riduce e la massa più limitata di capitale che resta sarà più facilmente valorizzata, cioè potrà produrre più facilmente plusvalore. In questo modo si creano le premesse necessarie a consentire, al momento della ripresa, un nuovo aumento del tasso medio di profitto. N el frattempo la produzione è ridotta al minimo e la domanda ancora esistente serve solo ad assorbire le scorte, dò che richiede tempo in quanto si sono accumulate per tUtto un periodo. Il più colpito dei vari settori produttivi è quello dei mezzi di produzione poiché in tutti i settori le capacità produttive, largamente inutilizzate, non solo non vengono ampliate, ma non si rinnovano neppure le attrezzature e i macchinari logori e obsoleti. Per lo stesso motivo le scoperte scientifiche e tecniche che vengono fatte in questo periodo non si diffondono nell'industria. La riduzione della produzione fa s1 che diminuisca la domanda di credito e che quindi il credito ritorni abbondante, provocando un abbassamento del tasso di interesse. Cosi è proprio durante la depressione che si creano le premesse necessarie alla ripresa.
Aumenta il tasso di interesse (e quindi i costi per i capitalisti industriali), ma in qualche caso le banche cominciano a rifiutare il credito alle aziende più deboli e meno concorrenziali, che falliscono. I fallimenti si verificano in numero crescente: quelli dei debitori provocano quelli dei creditori. Alla ricerca di denaro liquido le aziende cercano di liquidare le scorte a qualsiasi prezzo. I prezzi crollano, i profitti scompaiono o raggiungono livelli minimi. Prezzi, profitti, produzione, redditi e occupazione cadono a un livello anormalmente basso.
DEFICIT DI BILANCIO Il passivo di un bilancio (di una azienda, di un comune, dello Stato), cioè l'eccedenza delle spese sulle entrate, viene normalmente finanziato contraen.do dei prestiti a medio o lungo termine sul mercato finanziario interno o internazionale, cioè emettendo buoni del tesoro oppure prestiti obbligazionari. Questi prestiti tuttavia vanno restituiti con gli interessi, quindi a un certo puntO le entrate dovranno superare le uscite. Quindi nella dottrina economica borghese classica, si poneva come ideale da raggiungere se non l'attivo, almeno il pareggio di bilancio. Nella storia economica dei paesi capitalistici degli ultimi decenni questo però non avviene mai. Ciò è dovuto al crescente intervento dello Stato nell'economia ed è stato teorizzato da Keynes (vedi Tecniche keynesiane),che riteneva il deficit di bilancio un necessario punto di partenza per rilanciare l'economia. In effetti in un regime di inflazione provocata appunto dal deficit di bilancio è vantaggioso per lo Stato (come per le aziende
d) crisi e. depressione:la caduta dei prezzi fa sì che - la produzione continui a essere redditizia solo per le aziende che lavorano nelle condizioni di produttività più favorevoli. Queste, che prima realizzavano sovrapprofitti, si accontentano ora di realizzare il profitto medio. Di fatto si stabilisce così un nuovo livello del profitto medio, corrispondente alla nuova composizione organica del capitale. Ma nello stesso tempo la crisi, con il fallimento e la chiusura di molte fabbriche, significa la distruzione di macchine e attrezzature. D'altra parte
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che praticano anch'esse questimetodi) indebitarsia lungo termine, tenendo conto che rimborserà questi debiti con moneta svalutata. Il rischio è che, continuando a questo modo, !'inflazione rischi di diventare galoppante(vedi), con i pericoli che questo comporta per la possibilità di normale funzionamento di un'economia capitalistica. DEFLAZIONE Come dice la parola, è !'inverso di inflazione: la quantità di moneta in circolazione (in effetti di tutti i mezzi di pagamento) diminuisce, mentre rimane eguale la massa di merci. Questo risultato viene ottenuto generalmente attraverso una restrizione del credito o con un aumento delle tasse non compensato da un aumento di spesa pubblica. In Italia viene applicato soprattutto il primo metodo perché il sistema fiscale è talmente inefficiente nel colpire i redditi non da lavoro (cioè quelli della grande e media borghesia soprattUtto) che la cosiddetta 'manovra fiscale' (appunto l'uso delle tasse in funzione deflazionistica, o viceversa) è praticamente impossibile. Tuttavia il prelievo diretto delle tasse dai redditi da lavoro, dai salari e dagli stipendi all'inizio del '74 ha avuto l'effetto di una misura deflazionistica. N elI' epoca imperialistica la deflazione segue l'inflazione come la pioggia il bel tempo. lo Stato borghese ricorre alla deflazione 'per raffreddare la congiuntura', cioè quando il processo inflazionistico rischia di sfuggire al controllo e di trasformarsi da moderato in galoppante e/o, ancora prima, quando un deficit crescente della bilancia dei pagamenti impone di diminuire le imPOrtazioni. La deflazione diminuisce i consumi, ma anche gli investimenti. Una politica deflazionistica porta quindi a una generale diminuzione della produzione industriale e alla crisi economica con i fallimenti, la chiusura di fabbriche, la disoccupazione etc. Quindi anche !a deflazione, come !'inflazione, viene pagata soprattutto dai lavoratori. DISCOUNTINGDELLACRISI Chi in ultima istanza possa farsi carico delle difficoltà finanziarie o altre provocate dalla cris i.
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ECONOMIAMISTA Questo termine viene spesso usato nel
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gergo degli economisti borghesi per definire un sistema economico nel quale coesistono. un settore privato e un settore 'pubblico', cioè in questa o quella forma appartenente allo Stato. Tale definizione viene in particolare usata con riferimento all'economia italiana del secondo dopoguerra. In realtà in regime capitalistico non è praticamente quasi mai esistita un'economia totalmente privata, neppure nell'Inghilterra del XIX secolo, che pure si avvicinava più di ogni altro paese a questo schema ideale dei teodci dellaissez faire. In particolare in Italia l'intervento dello Stato accompagna fin dall'inizio lo sviluppo capitalistico per garantire alla borghesia imprenditoriale quei margini di profitto che da sola non sarebbe stata capace di assicurarsi. E' tuttavia innegabile che in Italia come negli altri paesi capitalistici !'intervento statale diventi veramente massiccio nell'epoca imperialistica, soprattutto a partire dalla crisi del 1929, e si allarghi a nuovi settori (industria manifatturiera, credito). Il termine 'economia mista', tuttavia, tende ad accreditare un carattere qualitativamente diverso dell'impresa statale rispetto a quella privata; Questa tesi, che tende a definire il settore statale come settore tendenzialmente socialista, è condivisa da una parte degli economisti borghesi e dai riformisti. In realtà non vi è nessuna differenza qualitativa tra capitalismo privato e capitalismo di Stato, essendo entrambi alla ricerca del massimo profitto. L'unica differenza è che spesso il capitalismo di Stato agisce per procurare il rnassimoprofitto al capitale privato. GOLD STANDARD Sistema monetario basato sull'oro come misura di tutte le merci, come standard di tutto. E' il ~istema che si instaurò dopo che a metà del XIXsecolo l'argento perse importanza come mezzo di pagamento. Per il gold standard non è essenziale che la circolazione interna di un paese sia effettuata con monete d'oro. E' sufficiente che l'oro sia impiegato come valuta per il commercio internazionale, cioè che i saldi paSsivi delle bilance dei pagamenti siano pagati in oro. Le riserve di ogni paese sono quindi logicamente costituite dal solo oro. Il gold standard prevede anche la copertura aurea dèUacir~
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colazione interna e la possibilità di esigere presso la Banca centrale il corrispettivo in oro delle banconote possedute. La prima guerra mondiale con i violenti processi inflazionistici che provocò, portÒ all'abbandono del gold standard da parte della maggior parte dei paesi ad eccezione degli Stati Uniti. Negli anni venti si tOrnò faticosamente al gold standard, che fu di nuovo abbandonato in seguito alla crisi del '29. Con gli accordi di Bretton Woods (1944) il gold standard fu definitivamente abbandonatO per passare al gold exchange standard, cioè a un sistema monetario internazionale basato, oltre che sull' oro, anche sul dollaro e sulla sterlina come monete di riserva internazionali. .
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GUERRA DELLETARIFFE Per limitare le importazioni e quindi migliorare la bilancia commerciale i paesi capitalistici ricorrono alle tariffe doganali, cioè all'imposizione di una determinata tassa da pagarsi al passaggio della frontiera per un certo tipo di merce. L'obiettivo ideale di ogni paese càpitalistico sarebbe di poter mantenere delle tariffe doganali elevatissime e costringere gli altri paesi ad abolire completamente le loro. Anche in presenza di rapporti di forza favorevoli (USA-Europa nel dopoguerra) questo obiettivo è difficilmente raggiungibile: vengono quindi adottate delle soluzioni di compromesso (la diminuzione di certe tariffe in cambio della diminuzione di altre in altri paesi). In periodi di rapido sviluppo economico (per esempio in questo dopoguerra) le tariffe hanno la tendenza a diminuire poiché delle industrie e dei mercati in espansione non vengono particolarmente disturbati dalla concorrenZa di altri paesi. Insomma in certi limiti 'c'è posto per tutti'. Nei periodi di crisi, al contrario, le tariffe doganali tendono a salire. Negli ultimi tempi abbiamo visto una serie di esempi che vanno in questa direzione. Ma l'aumento di certe tariffe in un paese danneggia il paese esportatore di quei prodotti, il quale sarà tentato di rispondere aumentando a sua volta le tariffe dei prodotti esportati dal primo paese. Attraverso una reazione a catena queste rappresaglie possono rapidamente trasformarsi in una :vera e propria guerra delle tariffe.
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i Questo è quanto è avvenuto negli anni trenta, questo è ;quanto il capitalismo internazionale è riuscito (finora) faticoIsamente a evitare nella crisi attuale.
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INFLAZIONE La moneta, sia che si tratti di oro o argentO, sia che. si tratti di biglietti di banca, è un equivalente, cioè non ha in ultima analisi vita autonoma, ma esiste solo in funzione di tutte le merci che vengono prodotte e messe in circolazione. Tra questa massa di merci e la massa di moneta circolante c'è un rapporto determinato: è come se in ogni biglietto di banca fosse incorporata una determinata quantità di tutte le merci. Se questo rapporto varia, varia anche la quota di merci contenuta in ogni biglietto di banca: quando la quantità di moneta in circolazione aumenta rispetto alle merci, allora la quota diminuisce, cioè i prezzi delle merci aumentano; in altre parole si dice che la moneta perde il suo valore, ed è quindi logico che ci vuole più mòneta per comprare una data merce; quando la quantità di moneta diminuisce, succede !'inverso, cioè diminuiscono anche i prezzi (deflazione). Storicamente si è avuta inflazione quando i governi avevano bisogno di denaro per far fronte a spese eccezionali (l?er esempio in caso di guerra) cui non potevano far fronte né le entrate ordinarie, né quelle straordinarie. Nell'epoca imperialistica l'inflazione è divenuto un fenomeno quasi universale, poiché !'intervento dello Stato, sempre maggiormente necessario per sostenere i profitti dei capitalisti; è generatore di inflazione. Infatti lo Stato interviene o con opere pubbliche o con spese militari. In entrambi i casi vengono pagati dei salari a fronte dei quali non vi è produzione di merci. L'inflazione è quindi necessaria per mantenere alti i profitti dei capitalisti. L'inflazione è anche uno strumento per annullare o comunque ridurre gli aumenti salariali che la classe operaia organizzata riesce a ottenere dai capitalisti. L'inflazione, con lo sviluppo e la facilità di ottenere credito che le sono connaturate, permette infatti di scaricare sui prezzi gli aumenti salariali. TuttO questo è valido in caso di inflazione moderata, cioè non giunta al punto da sfuggire al controllo dello Stato borghese e alle previsioni dei capitalisti. Ma in situazioni di emergenza (guerre perdute, riparazioni da pagare ecc.) l'inflazione può sfuggire dalle mani della borghesia e diventare galoppante. In questo caso il deprezzamento monetario si accentua di giorno in giorno se non di ora in ora. I biglietti di banca sono emessi per cifre enormi e si deprezzano più'
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148 rapidamente di quanto non vengano stampati. Gli scambi allora si restringono: si ritorna al baratto. L'industria rischia di non poter più ricostituire il suo capitale e di non realizzare più plusvalore se scambia le sue merci con denaro cos1 deprezzato. Le sue merci vengono quindi ritirate dal mercato e accumulate, il che provoca l'arresto dell'economia e il crollo completo della moneta. L'esempio classico (ma non l'unico) è
quello della Germanianel 1923. INVESTMENT TRUST
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Associazione di più capitali per
effettuare degli investimenti, in genere in borsa. Cos1 come i fondi di. investimento, che sono un tipo particolare di invest~ ment fund, permettono anche ~ piccoli risparmiatori che dispongono di somme molto limitate di giocare in borsa. Na.., turalmente la diffusione degli investment trustI permette di allargare i capitali che partecipano alla speculazione borsistica e di accentuarne il carattere speculativo, -in quanto il piccolo risparmiatore che parteciPa a un investment trust non è certo attirato dall'entità dei dividendi, ma dalla possibilità di realizzare in breve tempo forti guadagni in base alle oscillazioni del corso delle azioni. POUTICA DEI REDDITI Politica tendente a regolamentare
sia i salari che i prezzi. lo scopo .dichiarato è quello di
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impedire la cosiddetta 'spirale dei prezzi e dei salari', cioè una specie di rincorsa senza fine tra gli uni e gli altri che porta allo scatenarsi dell'inflazione. In realtà, in regime capitalistico non esiste, se non per brevi periodi, e in circostanze eccezionali (guerre, e poi neppure allora perché si forma il mercato nero) la possibilità di controllare i prezzi. Quindi la politica dei redditi è, nei fatti, un tentativo di imporre il controllo dei salari. In genere si tenta di coinvolgere i sindacati nella politica dei redditi. . . La politica dei redditi è strettamente legata alla programmazione, indicativa come metodo di razionalizzazione capitalisti. ca, e viene a ragione presentata come una sua premessa. In Italia si tentò di imporre una politica dei redditi all'inizio degli anni sessanta, in concomiranza con la. formazione del çentro-sinistra e. con il lancio della programmazione. Partito comunista e sindacati rifiutarono formalmente la politica dei
redditi, ma di fatto si inchinarono ai suoi iIIipèrativi autolimi-. tando gli obiettivi delle lotte contrattuali del 1965-66 e motivando la loro posizione con la difficile sitUaZione creata
dalla crisi economica.
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Tuttavia la politica dei redditi fu fatta saltare dalla combattività e dalla spinta alla lotta provenienti dalla classe operaia, specialmente con l'autunno caldo del '69. Nello stesso periodo le borghesie europee con l'appoggio delle socialdemocrazie e delle burocrazie sindacali tentarono di introdurre la politica dei redditi in una serie di paesi europei, ma è interessante notare che essa falll anche in questi
casi sotto la spintadelle masse.
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PRODOTTO NAZIONALELORDO,PRODOTTONAZIONALE NETTO, REDDITONAZIONALE Il valore dell'insieme delle merci finite prodotte da un Paese in un periodo determinato (un anno per esempio) costituisce il valore del prodotto nazionale lordo. Il prodotto nazionale netto è invece uguale al valore di tutte le merci prodotte sottO forma di prodotti finiti menole spese di ammortamento per usura fisica e morale (obsolescenza) del capitale fisso. Il reddito nazionale è uguale al prodotto nazionale netto ai prezzi di mercato meno leimposte indirette. Per maggiore chiarezza riportiamo una tabella ripresa dal I volume dal Trattato marxista di economiadi Ernest Mandel (R.oma, Savell~ 1975 1, p. 464): PRODOTTO NAZIONALE LORDO DEGLI STATI UNITI (1947) 13.289
Capitale costante fisso IOlorato
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Salari e stipendi Contributi alle assicurazioni social
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STAGFLAZIONE,SLUMPFLAZIONEOrribili neologismi di origine inglese, formati dalle parole stagnazione-inflazione e slump (crisi) - inflazione. la loro creazione è stata ritenuta necessaria per caratterizzare un fenomeno che contraddice l'andamento 'classico' delle crisi. Secondo questa teoria se all'espansione si accompagnano fenomeni inflazionistici, alla crisi e alla depressione si dovrebbero invece accompagnare
porto tra plusvalore e salari, cioè tra plusvalore e capirai. variabile, è il tassodelplusvalore,che indica il grado di sfruttamento della classe operaia. I padroni tentano di aumentarlo da un lato introducendo il progresso tecnico, dall'altro intensificando il lavoro, allungando la giornata lavorativa, riducendo i tempi morti. .
fenomeni deflazionistici.Sullabase di questa constatazionei
Il tilSSO di profitto è il rapporto, espresso in percentUale, tra il plusvalore e l'insieme del capitale. Per il capitalista il tasso di profitto esprime il grado di redditività deU'impresa. Ad esempio se abbiamo un capitale di 200 milioni di lire e un profitto annuo di 40 milioni il tasso di profitto sarà di 40/200 x 100 20%. Il tasso di profitto dipende in primo luogo dal tasso di plusvalore. Più il tasso di plusvalore sarà alto, maggiore sarà il tasso di profitto, a parità delle altre condizioni. Tutti i fattori che aumentano il tasso di plusvalore, cioè il grado di sfruttamento della classe operaia, aumentano anche il tasso di profitto. . Il tasso di profitto dipende dalla composizione organica del capitale. Più la composizione organica del capitale è bassa, cioè maggiore è la quota della sua parte variabile, più è elevato il tasso di profitto, a parità di tasso del plusvalore. Inversamente, più la composizione organica è elevata, minore è il tasso di profitto. Quindi l'economia di capitale costante è uno dei fattori che influenza il tassO di profitto. Infine più rapida è la rotazione annua del capitale, maggiore sarà il tasso ann uo di profitto e viceversa. TASSO
governi borghesi hanno ritenuto che con delle iniezioni di inflazione si sarebbe potUto combattere l'insorgere delle crisi. Sfortunatamente nell'economia capitalistica degli ultimi decenni .l'inflazione, da fenomeno legato al ciclo economico~ si è trasformata in fenomeno strutturale e quindi si sono rese necessarie sempre maggiori dosi di inflazione che facevano sempre meno effetto. Il risultato è stato che dalla fine degli anni sessanta periodi di stagnazione e di crisi in una serie di paesi si sono accompagnati al prolungarsi di forti tensioni inflazionistiche. Un bell'esempio di slumpflazione è l'Italia nel 1975: -10% la produzione industriale, + 18% !'inflazione. Ciò rende molto difficoltoso se non impossibile l'utilizzo delle tecniche keynesiane per uscire dalla crisi, in quanto queste tecniche implicano tutte delle spinte inflazionistiche.
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SURPLUS Termine economico per definire un' eccedenza (per esempio una eccedenza delle esportazioni sulle impOrtazioni e quindi un surplus della bilancia dei pagamenti). In questo senso è l'opposto di deficit. Più in generale il termine surplus viene usato per definire il sovrapprodotto sociale, cioè quella parte del prodotto sociale che, in qualsiasi società, non viene consumato immediatamente ed è la base di qualsiasi sviluppo. In regime capitalistico il surplus si identifica con il plusvalore.
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TASSODI PLUSVALOREIl prodotto nuovo creato dalla for~ za-lavoro nel processo di procl.uzione è diviso tra padrone e operai: agli operai va il salario, cioè il valore delle merci necessario alla loro sopravvivenza (e niente di più; anzi, se il padrone ha la forza, qualcosa in meno), ai padroni va quello che resta, che è sempre molto e si chiama plusvalore. Il rap-
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(O SAGGIO) DI PROFITTO
TASSO DI SCONTO E' il tasso al quale la banca centrale anticipa denaro alle banche ordinarie. In molti paesi capitalistici il tasso di sconto è un tasso-base,un tasso cioè che serve da base per calcolare i tassi di interesse praticati dalle banche ordinarie ai loro clienti. Ciò dà in mano alla banca centrale un potente strumento per controllare l'economia del paese. In Italia invece il tasso di sconto ha scarso significato pratico, poiché la Banca d'Italia concede raramente anticipazioni e si serve di altri strumenti (peraltro non meno potenti) per controllare l'economia.
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TECNICHE KEYNESIANE Tecniche ispirate aUe teorie di 1.M. Keynes (Inghilterra, 1883-1946), probabilmente il più grande economista borghese del nostro secolo. Keynes, sulla base di una riflessione sulle modifiche dell'economia capitalistica mondiale del primo dopoguerra e in particolare dell'esperienza della crisi del '29, elaborò una teoria dell'intervento statale neU'economia in funzione anticiclica, cioè al fine di attenuare le conseguenze negative delle crisi e. conomiche e di permettere una più rapida ripresa economica. Tecniche keynesiane sono quindi quelle che permettono di realizzare le teorie di Keynes e che riguardano i modi di far. riprendere gli investimenti durante la crisi. Si tratta in sostanza dell'intervento dello Stato per ottenere il rilancio dei consumi privati (per esempio attraverso una diminuzione delle tasse sul reddito in quei paesi in cui le evasioni fiscali non sono' generalizzate come in Italia) che creano la domanda sufficiente a rendere convenienti nuovi investimenti. Ma si tratta anche dell'intervento diretto dello Stato nell'economia con massicci programmi di lavori pubblici, sempre allo scopo di creare le premesse per un rilancio degli investimenti. In ultima analisi Keynes e i suoi seguaci sono alla ricerca degli strumenti che permettano un aumentO del tasso di profittO che, in regime capitalistico, è l'unico mezzo per
produrre investimenti.
Indicazioni
Per i riferimenti
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Le tecniche keynesiane non solo sono state largamente applicate, ma hanno costituito la base della politica economica dei maggiori paesi capitalistici in questo dopoguerra, L'attuale crisi segna quindi anche il fallimento teorico e pratico delle teorie di Keynes, cui nel frattempo si sono largamente ispirati i riformisti. UNDERWRITER di titoli.
Il garante
(letteralmente
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'SOttoscrittore')
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(a cura di E. F.)
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teorici:
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Per i riferimenti storici:
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bibliografiche
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Anche qui rinviamo al testo e alle note. Comunque, ci siamo serviti. delle pubblicazioni periodiche dell'oCSE, della stampa economica specializzata, delle rubriche di certi giornali, di supplementi a periodici come il fascicolo1975:la criseedito da ..LeMonde..ecc.Segnaliamo in particolare, per un'analisi da un punto di vista marxista, i tre numèri doppi del quindicinale edito in quattro lingue dalla Quarta Internazionale, «Inprecor», n. 16-17 del 15.1.75, n. 27-28 del 5.VI.75, n. 40-41 del 18.XII.15.