Limes: Chi Sono I Pirati Della Somalia

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IL BUIO OLTRE GAZA

CHI SONO I PIRATI DELLA SOMALIA

di

Nicolò CARNIMEO e Matteo GUGLIELMO

Le flotte di mezzo mondo danno la caccia ai corsari che imperversano lungo le coste del Corno d’Africa. Spesso sono pastori o nomadi assoldati dai signori della guerra. Il caso di al-Sˇabåb. Le ambiguità saudite e quelle americane.

G

UERRA AI PIRATI! NEL GOLFO DI ADEN

è oggi schierata la più imponente flotta da guerra che la storia ricordi, non tanto per il numero e la tipologia delle unità navali, quanto per la variegata schiera di appartenenza. Vi operano le unità statunitensi della Task Force 150 nell’ambito di Enduring Freedom, la flotta Nato impegnata nell’operazione Allied Provider, che nel mese di dicembre del 2008 ha lasciato il posto alla prima flotta europea, chiamata a combattere nel nome di Atalanta, la mitologica dea della caccia. Ma nel teatro geomarittimo del Corno d’Africa incrociano anche navi da guerra russe e indiane, mentre si annuncia l’arrivo di unità cinesi e turche. Non mancano i paesi arabi i cui interessi sono stati minacciati dagli abbordaggi dei pirati somali. In prima linea ci sono i sauditi, vittime del sequestro della superpetroliera Sirius Star, e gli egiziani, che hanno visto drammaticamente diminuire gli introiti dei passaggi a Suez: nel dicembre 2008 gli incassi sono stati pari a 419,8 milioni di dollari (il livello più basso dall’aprile scorso), con un calo del traffico di circa il 7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, essendo transitate 46 navi al giorno contro una media di 62 nel 2007. Durante l’ultimo meeting del Gulf Cooperation Council (Gcc), il segretario generale ‘Abd al-Raõmån bin al-‘A¿iyya, in pieno accordo con il ministro degli Esteri dell’Oman Yûsuf bin ‘Ilwø bin ‘Abd Allåh, ha auspicato un’azione decisa in coordinamento con forze Nato e Usa contro la pirateria. Stessa linea adottata dalla Lega Araba, che nella sessione del 24 novembre scorso, attraverso il suo segretario generale, l’egiziano Amr Moussa [Mûså], ha sottolineato la gravità del problema – soprattutto per le ricadute negative sulle economie arabe – e ha richiamato i paesi membri a partecipare a una pronta risposta sul campo, in pieno coordinamento con le Marine occidentali già presenti nel Golfo di Aden 1. 1. I paesi della regione del Mar Rosso, del Golfo di Aden e del Corno d’Africa (Gibuti, Egitto, Eritrea, Etiopia, Giordania, Oman, Arabia Saudita, Somalia, Sudan e Yemen) hanno convenuto con la Dichira-

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La flotta antipirati è così destinata a crescere, sebbene alcuni esperti di strategia siano convinti che per pattugliare con efficacia le 600 mila miglia quadrate del solo Golfo di Aden sarebbero necessarie più di cinquecento navi. E forse neppure questo numero sarebbe sufficiente a fermare gli anarchici assalti di piccoli scafi veloci – armati di kalashnikov e Rpg (Rocket Propelled Grenade) – o delle «navi madre», pescherecci o mercantili di appoggio (dhow) capaci di tenere in scacco l’imponente forza navale internazionale, così come un tempo i memorabili pirati uscocchi nel «Golfo di Venezia» contro le potenti galee della Serenissima Repubblica 2. Come è possibile, vista la sproporzione delle forze in campo, che «i nostri» non abbiano ancora debellato i pirati? Non si tratta solo dell’inadeguatezza delle norme internazionali in materia 3 o delle complesse regole d’ingaggio che determinano l’operatività e le possibilità di reazione delle unità da guerra. La ragione principale è l’incapacità di inquadrare la pirateria nelle dinamiche interne di un paese come la Somalia che da diciassette anni è in perenne stato di guerra. Un tale dispiegamento di forze ad Aden non è, però, solo «merito» dei jin somali, ma rappresenta uno scenario destinato a diffondersi in altre aree del mondo. Il contrasto alle minacce considerate «globali» richiede nuove e più significative si-

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zione di Sana’a del 2005 di sviluppare una politica marittima volta a salvaguardare i traffici marittimi dalla minaccia di atti illeciti stabilendo un’organizzazione che adotti regolamentazioni e procedure dedicate alla sicurezza. 2. La Serenissima Repubblica dovette vedersela con diverse flotte di pirati, ma i suoi nemici giurati erano gli uscocchi, parola slava che significa fuggiaschi, i quali con il favore dell’Austria si erano stabiliti lungo il litorale dalmata nella Tortuga di Signa. Gli uscocchi non erano marinai, bensì uomini dell’entroterra bosniaco, ma riuscivano a tenere in scacco Venezia usando veloci imbarcazioni sottili a remi con le quali fuggivano nei covi sul litorale dalmata: le vittime erano soprattutto i vascelli ottomani che avrebbero dovuto godere in Adriatico di libertà di navigazione secondo le intese stabilite tra Venezia e la Sublime Porta. Di qui le continue proteste dei turchi che addebitavano a Venezia colpe in realtà risalenti ad altri mandanti, non solo l’Austria ma anche la Spagna. Venezia era costretta a tenere in mare una formazione di due galere e tre fuste al comando di un capitano contro gli uscocchi e la questione sfociò persino in una guerra contro l’Austria. 3. Costituiscono pirateria, secondo una nozione consuetudinaria recepita nella Convenzione del diritto del mare del 1982, gli atti di depredazione o di violenza compiuti in «alto mare» o in zone non soggette alla giurisdizione di alcuno Stato (per esempio le coste dell’Antartico) per fini privati dall’equipaggio di una nave o aereo privato ai danni di altra nave o aereo privato (Unclos, artt. 101 e 102). La nozione di pirateria marittima si ritrova nell’articolo 105 della Convenzione del diritto del mare secondo il quale: «Nell’alto mare o in qualunque altro luogo fuori della giurisdizione di qualunque Stato, ogni Stato può sequestrare una nave o aeromobile pirata o una nave o aeromobile catturati con atti di pirateria e tenuti sotto il controllo dei pirati; può arrestare le persone a bordo e requisirne i beni. Gli organi giurisdizionali dello Stato che ha disposto il sequestro hanno il potere di decidere la pena da infliggere nonché le misure da adottare nei confronti delle navi, aeromobili o beni, nel rispetto dei diritti dei terzi in buona fede». A fronte di tale norma internazionale ci sono le leggi dei singoli Stati. L’ordinamento italiano prevede espressamente il reato di pirateria nell’articolo 1135 del codice della navigazione. Essendo esso punito con pena edittale superiore nel minimo a cinque anni, è applicabile sia l’arresto obbligatorio in flagranza di reato sia il fermo dell’indiziato di delitto. La punibilità è prevista oltre che per i cittadini italiani anche per gli stranieri implicati in atti di pirateria o «sospetta» pirateria. Non è stabilito alcun requisito territoriale relativamente al locus commissi delicti, sicché è punibile anche il fatto commesso in alto mare. Da questo punto di vista l’azione penale può essere esercitata sulla base dell’articolo 7, n. 5 del codice penale relativo ai reati commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero «per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana» (nel caso di specie sempre la Convenzione del diritto del mare).

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nergie tra le Marine delle principali potenze e i paesi oggetto degli attacchi e, in ultima analisi, una nuova considerazione degli spazi marittimi.

La scintilla di Venezia

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Venezia, 14 ottobre 2008. Nell’Arsenale si tiene il settimo Simposio internazionale delle Marine del Mediterraneo e del Mar Nero. Ci sono tutte e vengono anche da più lontano, come la Marina brasiliana e quella di Singapore. Cambiano i colori e le sfumature delle divise dal nero al blu, con i galloni scintillanti come la polena d’oro dell’Amerigo Vespucci (ormeggiata a Riva degli Schiavoni) a far da contrasto alle bigie acque di calle Malvasia, le Fondamenta dell’Arsenal che portano all’ingresso della più grande industria navale dell’antichità, il cuore pulsante della Serenissima che le permise di dominare il Mediterraneo, l’unico mare allora conosciuto. Oggi la posta è più alta, in pericolo sono tutti gli oceani del globo. Pirati, terroristi, catastrofi ambientali, flussi migratori impongono una nuova politica dei mari. C’è bisogno di regole, di controllare anche le zone marittime che erano lasciate alla libertà di navigazione. I singoli Stati, Stati Uniti inclusi, da soli non possono farcela. Poi ci sono le Marine dei paesi emergenti che vogliono giocare un ruolo, come l’India. Non è un caso che sia stata proprio un’unità di Delhi, il Tarabai, ad annunciare di aver affondato la prima nave pirata ad Aden. Tranne poi scoprire che si trattava di un peschereccio thailandese appena sequestrato dai banditi del mare. Gli spazi marittimi sono immensi e i costi enormi per avviare una prima timida policy degli oceani. L’unico strumento è la cooperazione, la creazione di flotte congiunte capaci di rispecchiare non solo alleanze già esistenti come in ambito Nato, ma più allargate, superando i conflitti tra gli Stati in nome della sicurezza globale. È proprio la parola «globale» la più ripetuta nel Simposio di Venezia. Nelle varie relazioni di ammiragli e capi di Stato maggiore di Francia, Germania, Ucraina, Stati Uniti – che partecipano con il comandante della flotta Gary Roughead – viene riconosciuto all’Italia un ruolo diplomatico di primo piano. È stata la Marina italiana ad avere compreso per prima l’importanza delle sinergie e a inventare una piattaforma comune. Si chiama Virtual Regional Maritime Traffic Centre (V-rmtc), una «rete virtuale» che collega le centrali operative delle varie Marine per scambiare dati e informazioni. Una rete nella quale sarà più difficile per i nuovi bucanieri sfuggire alle maglie dei controlli. Sull’Amerigo Vespucci quattro nuovi paesi aderiscono alla V-rmtc, firmando il protocollo predisposto dal capo di Stato maggiore italiano, Paolo La Rosa. E chissà se gli storici un giorno potranno attestare che proprio nel mare di Venezia è nata la prima scintilla di un governo «globale» degli oceani, considerato che sono 28 gli Stati già aderenti all’iniziativa italiana lanciata a Venezia nel 2002. Ma se la Serenissima poteva colare a picco i vascelli corsari, arrestare e processare i pirati, oggi non è così facile. L’impianto di regole del diritto internazionale del mare, le regole civili con le quali ci siamo affrancati dall’essere noi stessi pirati

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o corsari, rendono più complesso l’intervento delle Marine, specialmente le coalizioni Nato o europee, sottoposte a rigide regole di ingaggio e a dettagliate risoluzioni dell’Onu che statuiscono ciò che si può e non si può fare. L’ammiraglio Fabio Caffio, che incontriamo durante il Simposio di Venezia, è comunque ottimista e in un serrato botta e risposta riesce a delineare con precisione le strategie di contrasto: «Tutti gli Stati possono intervenire contro i pirati. La pirateria è un crimine di carattere internazionale, definito in latino come crimen iuris gentium, sicché ogni paese può contrastarlo. I pirati sono fuori ogni legge e, non potendo godere della protezione di alcuno Stato, ogni paese può perseguirli secondo le proprie norme. Si può sequestrare sia la nave pirata che quella sotto il controllo dei pirati. E se non li si coglie in flagranza, ma vi sono solo fondati sospetti che un mercantile sia implicato in atti di pirateria, la nave da guerra può esercitare il diritto di visita, cioè abbordarli e controllare. Per interrompere un’azione di pirateria in corso potrebbe essere necessario anche l’uso della forza». Come e quando può avvenire? «Il diritto internazionale non consente ipso iure di sparare a imbarcazioni di pirati affondandole. La Convenzione sul diritto del mare prevede solo l’esecuzione di abbordaggi, arresti e sequestri. È chiaro che se i pirati si oppongono a tali provvedimenti, possono essere adottate misure proporzionate di uso della forza». In che senso proporzionate? «Il concetto di proporzionalità implica che l’affondamento è una misura estrema qualora siano risultati infruttuosi altri provvedimenti, per esempio usare il disabling fire per fermare i motori o rendere inservibile il timone. Ma ogni episodio di pirateria è un caso a sé. E quindi bisogna valutare le circostanze in cui avviene l’uso della forza. Se ne sceglie il livello partendo dalla minimum force». Si possono attaccare le Tortuga somale a terra? «È necessaria una risoluzione ad hoc del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, come la recente 1851, oppure potrebbe trattarsi di un’iniziativa unilaterale di un singolo Stato quando ci sia da difendere un suo interesse nazionale, come degli ostaggi presi dai pirati, penso al caso del Ponant. Ciò di cui parlo deve avvenire sempre in acque internazionali perché entrare nelle acque territoriali di uno Stato sovrano non è possibile. Per farlo in Somalia c’è voluta una risoluzione Onu e l’assenso del governo di transizione somalo. Una soluzione radicale contro la pirateria del Corno d’Africa potrebbe essere l’autorizzazione delle Nazioni Unite acché le Forze navali stabiliscano una sorta di blocco delle coste somale non permettendo alcun transito di imbarcazioni in entrata o in uscita, salvo quelle scortate. Il problema è che ciò richiederebbe un ingente dispositivo navale in considerazione della lunghezza delle coste da controllare». Quando i pirati vengono arrestati chi può e deve processarli? «La legge italiana consente di processare autori di fatti di pirateria anche quando l’illecito è stato commesso da stranieri in acque internazionali. Lo stesso è sicuramente previsto dalle leggi di altri paesi. La Francia, nel caso del Ponant, è riuscita a trasferire sul proprio territorio gli autori del fatto, forse con l’assistenza del Tfg, il governo di transizione somalo, o del governo di Gibuti. La Danimarca al contrario, dopo aver tenuto per sei giorni a bordo della propria unità Absalon un gruppo di 10 uomini

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sospetti di pirateria, catturati il 17 settembre 2008 al largo del Golfo di Aden, li ha sbarcati sulla costa somala di Puntland lasciandoli di fatto liberi. La decisione sembra essere stata determinata dall’impossibilità giuridica secondo l’ordinamento danese di perseguirli o di consegnarli ad altro Stato o ad altre unità presenti in loco. La Gran Bretagna, invece, dopo aver tenuto in custodia per alcuni giorni, su una propria nave logistica, gli autori del conflitto a fuoco in cui è stato coinvolto il Cumberland, li ha consegnati alle autorità keniote, che hanno accettato di esercitare giurisdizione. Qui la prassi è la cooperazione tra gli Stati, e vi è un ventaglio di soluzioni, anche se rimane lo Stato costiero, cioè quello nelle cui acque è commesso il fatto, a dover intervenire». Caffio piega il capo, sospira: «Sinora, però, non si ha evidenza della stipula di accordi che definiscano tali forme di cooperazione. Per il futuro è lecito sperare che, sotto gli auspici delle Nazioni Unite o a iniziativa dell’Unione Europea vengano avviate le necessarie intese giudiziarie tra i paesi della regione e gli Stati delle navi da guerra impegnate nel contrasto alla pirateria. Di recente si è parlato di una risoluzione Onu che sottoponga i pirati alla giurisdizione di un tribunale internazionale. È evidente che si tratterebbe, come nel caso della Corte penale internazionale, di una giurisdizione complementare: in via generale potrebbe essere esercitata nel caso che nessun altro paese intenda avvalersi di tale diritto».

Anatomia dei pirati somali

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I banditi del mare, in arabo «jin» («diavoli»), «burcad baded» in somalo, sono riusciti nel 2008 a rubare la scena alla rete internazionale del terrore. Li chiamano pirati, ma con il mare hanno poco a che fare. L’arte della navigazione l’hanno imparata per necessità. Essi sono in realtà un variegato manipolo di pastori o mercenari al soldo dei locali signori della guerra. Abitano case di paglia e fango, bevono latte di cammella, ma i loro capi sanno adoperare Internet e i sistemi satellitari di rilevamento, sono in grado di compiere transazioni bancarie e hanno contatti internazionali da Nairobi a Dubai che consentono loro di riciclare il denaro degli abbordaggi – 50 milioni di dollari nel solo 2008 secondo stime del New York Times – ma anche di essere il terminale di traffici illeciti di ogni genere. Vivere ai margini di un «buco nero» in perenne conflitto da diciassette anni, aguzza l’ingegno, e nel tempo si trovano le strade più facili e redditizie per sopravvivere. La pirateria ad Aden non è nata oggi. I primi attacchi si registrano già nella seconda metà degli anni Novanta, ma oggi si rischia la paralisi di una delle vie d’acqua fondamentali per i traffici marittimi, tanto da spingere alcuni degli armatori più importanti, come la danese Maersk, a modificare il percorso dei mercantili che collegano l’Europa con l’Oriente e circumnavigare l’Africa passando per il Capo di Buona Speranza. I costi assicurativi per un passaggio ad Aden, classificato «zona di guerra», si decuplicano, passando in poco tempo da una media di 900 dollari a 9 mila dollari al giorno. Ma il rischio è concreto. Nel 2008 gli attacchi sono

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stati 110, con 350 membri di equipaggio sequestrati. Nel mese di dicembre erano ancora nelle mani dei pirati 19 navi, tra cui la superpetroliera Sirius Star e il Faina, un cargo ucraino che trasporta 33 carri armati T-72 di fabbricazione sovietica, 150 lanciagranate Rpg-7, batterie antiaeree, cannoni e circa 14 mila proiettili. In base alla ricostruzione di Andrew Mwangura, fondatore dell’Associazione dei marittimi dell’Africa orientale con sede a Mombasa, in Kenya, i banditi del mare avrebbero quattro organizzazioni principali: «Due le bande più attive in passato, che operavano al largo del Sud somalo. Una era la Guardia costiera volontaria, comandata dal signore della guerra Garaad Mohamed, che si muoveva intorno a Chisimayo. L’altra aveva il quartier generale a Merka, ed era guidata da Yusuf Indha’adde, un warlord poi convertito a ministro della Difesa delle Corti islamiche» 4. Mwangura conferma che oggi il centro della pirateria è la regione semiautonoma del Puntland, dove sarebbero operative due gang, la prima di pescatori, responsabile di piccoli raid e l’altra più organizzata e potente chiamata Somali Marines, con sede lungo le coste di Eyl, dove vengono portate la maggior parte delle navi sequestrate. Il comando, secondo Mwangura, sarebbe verticistico con un ammiraglio, un viceammiraglio e un tesoriere e a capo un signore della guerra, il famigerato Abdi Mohamed Afweyne. Altre fonti parlano di otto gang, tra cui appunto Somali Marines, Coast Guard (che hanno ramificazioni in Yemen e Mar Rosso e sono responsabili dell’abbordaggio al veliero francese Ponant 5), Marka Group e Puntland Group. Ma le gang si moltiplicano: la società di sicurezza Ake che si è occupata di gestire i sequestri per alcuni armatori ne ha stimate una quindicina. Le Tortuga più pericolose sono lungo le coste del Puntland: in particolare il villaggio di Eyl, ma anche Xarardheere e Garacad, sebbene i vertici dei pirati vivano nella capitale Garowe o nella città portuale di Bosaso. Il Puntland ha dichiarato la propria autonomia già nel 1998, autoproclamandosi Stato federale con tanto di governo ed esercito. Ma qui la pirateria marittima è la punta dell’iceberg di proventi illeciti che vanno dalla tratta di esseri umani allo smaltimento di rifiuti tossici e radioattivi 6. L’altro affare è il commercio delle armi. Il Puntland, come tutta la Somalia, ne è pieno. Gli esperti dell’Onu hanno più volte denunciato la sistematica violazione dell’embargo e il fatto che molti paesi e aziende occidentali continuino a rifornire i signori della guerra 7. Questa regione del Corno d’Africa è una zona gri4. E. MANFREDI, «I pirati del terzo millennio», L’espresso, 11/9/2008, p. 32 5. Il veliero da crociera francese è stato sequestrato nelle acque di Aden il 4 aprile 2008. 6. Il Puntland è anche una delle più grandi discariche africane di rifiuti tossici. Anche in Internet, sebbene non si possa verificare la fonte, è disponibile una mappa dei siti contaminati. La maggior parte sarebbero localizzati proprio nella regione del Corno d’Africa, una zona splendida dal punto di vista paesaggistico, Capo Hafun durante l’occupazione italiana della Somalia si chiamava Dante e vi sorgevano, a partire dagli anni Venti, gli impianti di carico del sale della Società saline e industrie della Somalia settentrionale «Migiurtinia» di Milano che aveva la concessione per lo sfruttamento di quella che era allora una delle maggiori saline al mondo. Cfr. B. CARAZZOLO, A. CHIARA, L. SCALETTARI, Ilaria Alpi: un omicidio al crocevia dei traffici, Milano 2002, Baldini Castoldi Dalai. 7. Secondo fonti delle Nazioni Unite tutte le fazioni sono coinvolte nei traffici, i soldati etiopi presenti in Somalia che importano attrezzature militari per armare i clan amici contro i guerriglieri islamici, ma anche alcuni elementi delle forze di pace dell’Unione africana e del governo di transizione che adoperano navi provenienti dallo Yemen.

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gia nella quale, pur essendoci un governo fantoccio, l’equilibrio è assicurato dalle connivenze tra i vari signori della guerra responsabili degli atti di pirateria e le autorità locali. L’interesse comune è mantenere lo status quo e, se possibile, incrementare il giro d’affari delle varie attività illecite. La pirateria è l’unico volano economico per una regione che vive una profonda catastrofe umanitaria. Tra le emergenze vi è quella delle migliaia di profughi che dal porto di Bosaso cercano di raggiungere le coste yemenite 8. I pirati sono nati come un movimento spontaneo e con una forte connotazione «autoimprenditoriale» tipica di alcune tribù della costa per reagire – a quanto riferiscono i pirati – allo sfruttamento delle acque somale da parte dei pescherecci occidentali e alla discarica di rifiuti tossici lungo il litorale. Nel tempo il fenomeno si è radicalizzato divenendo una delle più redditizie fonti di sussistenza di warlords del calibro di Abdi Mohamed Afweyne, referente dei Somali Marines di Eyl. L’aumento degli attacchi pirateschi nel 2008, così come l’escalation dei rapimenti a terra che hanno la stessa matrice si deve, infatti, al deteriorarsi della crisi somala in uno scontro più serrato tra le fazioni in lotta e al peso più incisivo della componente islamica più radicale: al-Sˇabåb 9. I signori della guerra per finanziarsi hanno diversificato le loro attività. Non si limitano al traffico d’armi e alla gestione e protezione dei convogli umanitari, ma si dedicano sempre più alla pirateria. Ciò vale sia per le milizie vicine alle Corti islamiche che per quelle alleate al governo federale di transizione in un intreccio difficile da dipanare, ma che ha come denominatore comune l’acquisizione di denaro, armi e cibo del Programma alimentare mondiale, che in una disastrata economia di guerra vale come oro per il controllo del territorio. In questo senso appare troppo radicale l’allarme lanciato da alcuni analisti, in particolare dal think tank londinese Chatham House, che individuano nella pirateria uno degli strumenti di finanziamento delle organizzazioni terroristiche, tramite al-Sˇabåb. È necessario evitare generalizzazioni. I contatti tra alcuni signori della guerra e i fondamentalisti non sono da escludere, ma vanno inquadrati nel gioco dei ruoli della crisi somala. Non bisogna dimenticare che nei sei mesi di governo delle Corti islamiche nel 2006, grazie anche a specifici accordi, la pirateria è stata debellata. Più volte poi, nel corso degli ultimi mesi, proprio al-Sˇabåb ha attaccato covi dei jin come Bandarbeyla, dichiarando di voler combattere la pirateria, anche se più concretamente poteva averne preso di mira i ricchi proventi.

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8. Dal porto di Bosaso migliaia di esuli fuggono dalla guerra e dalle carestie per raggiungere le coste dello Yemen, che distano 180 miglia, circa venti ore di navigazione. Una catastrofe umanitaria dimenticata: dal 1° gennaio al 20 aprile 2008, secondo dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, 15.300 tra uomini, donne e bambini su 324 imbarcazioni sono riusciti a raggiungere le coste yemenite, più del doppio rispetto al 2007, quando se ne erano contati 7.166. 9. Al-Sˇabåb (in arabo «gioventù») comincia a far parlare di sé già nel 2005, trovando una certa istituzionalizzazione all’interno della formazione delle Corti islamiche sotto il nome di Õarakat al-Sˇabåb (partito dei giovani). Il gruppo ha sempre rappresentato l’avanguardia delle Corti, soprattutto da un punto di vista militare. Inoltre, la propria struttura orizzontale la rende tutt’oggi agile e dinamica. Molti dei suoi leader possono vantare un passato nell’esercito nazionale somalo e, a una prima mappatura, sembrerebbero provenire da diverse regioni, compreso quelle scissioniste settentrionali.

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Un esempio dei rapporti tra l’ala radicale islamica e i pirati può essere quanto accaduto di recente nelle regioni meridionali della Somalia. L’espansione della pirateria in queste aree – mentre in passato era concentrata al largo delle coste di Merka e Brava – sembra aver toccato i picchi più alti nella zona del Mudug (Centro-Nord), con il significativo coinvolgimento di alcune personalità una volta al soldo delle Corti islamiche, ma di fatto da sempre vicine ai clan militarizzati HawiyeHabar Gidir (Ayr), come Hussein Weheliye Hirfo e Abdi Ahmed Dhuxulow. Essi hanno sempre operato tra Brava e Merka, ma oggi sono costretti a ripiegare con i loro uomini a Xarardheere (regione del Galguduud) e nel porto di Hobyo (regione del Mudug), a causa dell’avanzata di al-Sˇabåb. Le attività di pirateria si spostano altrove con l’avanzata del fronte radicale islamico nelle città costiere a sud di Mogadiscio e in particolare dopo la conquista da parte di al-Sˇabåb di città portuali come Merka, prima governata dal clan Habar Gidir (Ayr), e dove lo stesso Yusuf Mohamed Siad «Indha’adde», uomo vicino a Sheikh Hassan Dahir Aweys 10 ed ex responsabile della Difesa delle Corti islamiche, giocava un ruolo fondamentale.

I nuovi interessi dei pirati Nella notte tra l’11 e il 12 novembre scorso le milizie di al-Sˇabåb occupano l’importante porto di Merka. La conquista della città è effettuata in modo quasi pacifico. L’entrata di al-Sˇabåb nelle regioni agricole, e successivamente nella cittadina costiera, costringe le milizie Habar Gidir (Ayr) di «Indha’adde» e quelle legate a Hussein Hirfo e ad Abdi Ahmed Dhuxulow a una ritirata strategica verso il Centro-Nord, nelle regioni del Mudug e del Galguduud. Le fazioni Habar Gidir (Ayr) controllavano gran parte del Benadir dall’inizio degli anni Novanta, e la loro presenza in quelle zone ha da sempre coinciso anche con un’intensa attività di pirateria. Con l’arrivo di al-Sˇabåb a Merka e con lo spostamento delle milizie Ayr nel Mudug, nel porto di Hobyo, anche tale fenomeno sembra essersi spostato nella medesima direzione e così la crescita di rapimenti a scopo estorsivo. I principali protagonisti dei sequestri sembrano essere le stesse milizie claniche Ayr. L’attività di al-Sˇabåb non è solo in grado di determinare la geografia della pirateria. I suoi attacchi sempre più frequenti alle Ong e al personale della sfera umanitaria, che ha costretto gran parte delle agenzie internazionali a sospendere le proprie attività nel paese, sarebbero alla base di un pericoloso effetto domino. La riduzione dei flussi di aiuti diretti alla Somalia, utili non solo alla popolazione loca10. Durante il periodo di governo delle Corti islamiche su Mogadiscio (giugno-dicembre 2006), la pirateria nelle regioni costiere meridionali fu aspramente combattuta. Le Corti però non rappresentarono mai un blocco monolitico, ma risultarono da sempre spaccate lungo due correnti, le quali facevano capo rispettivamente a Sheikh Hassan Dahir Aweys, ex colonnello dell’esercito e presidente della sˇûr, e Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, considerato dalla comunità internazionale – Stati Uniti in testa – come l’anima moderata del movimento, ma con un background religioso decisamente più marcato.

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le per sopravvivere ma anche a molti warlords per arricchirsi e finanziare le loro milizie, avrebbe portato all’intensificarsi della pirateria. Secondo fonti somale legate alle Corti islamiche, il radicalizzarsi dell’azione di ˇ al-Sabåb avrebbe due cause fondamentali. Primo, la scelta del Dipartimento di Stato Usa, nel marzo del 2008, di inserire il gruppo tra le organizzazioni terroristiche. Secondo, l’uccisione di un loro esponente di primo piano, Sheikh Adan Hashi Ayro 11, durante un bombardamento americano il 1° maggio 2008. Ma la reazione Usa all’imporsi di al-Sˇabåb non sarebbe l’unica motivazione alla base della recrudescenza dell’azione del movimento islamista. La decisione della comunità internazionale di fornire, attraverso l’Undp (struttura Onu per lo sviluppo), supporto tecnico ed economico al governo federale di transizione, per mezzo del Somali Reconstruction and Development Programme (approvato nel gennaio 2008), è stata percepita dal fronte islamico come una mancanza di imparzialità dell’Occidente nei confronti degli attori armati somali. L’assenza di legittimità e di inclusività delle istituzioni transitorie, infatti, ha finito col relegarle alla semplice posizione di «fazione» in un quadro ben più largo e intricato 12. Pertanto, sempre secondo fonti somale, la scelta della comunità internazionale di sostenere un solo attore in campo, senza apparentemente curarsi della sostanza politica del partner, ha contribuito ad accentuare in molti gruppi armati, al-Sˇabåb in testa, la forte avversione verso gli attori internazionali occidentali, così inasprendo il conflitto. Nella crisi somala in passato vi sarebbero state anche operazioni sotto copertura per combattere il fronte islamico, ma che avrebbero portato ad armare alcuni signori della guerra. Nell’ambito delle trattative sulla liberazione di alcune navi attualmente sequestrate vi sarebbe il coinvolgimento di una figura poco conosciuta sulla scena globale, ma certamente più nota nell’ambito delle attività di intelligence Usa nel Mar Rosso e nel Corno d’Africa. Il suo nome è Michele Lynn Ballarin, presidente della Select Armor Inc., un’agenzia di sicurezza privata con sede in Virginia che opera anche negli Emirati Arabi Uniti e in Iraq. Il coinvolgimento della Ballarin nelle ultime vicende in Somalia non sembra casuale. I «servizi» della sua azienda erano stati offerti già nel 2006 all’organizzazione conosciuta allora come Alliance for the Restoration of Peace and Counter-Terrorism (Arpct), una coalizio-

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11. Adan Hashi Ayro aveva assunto col tempo una posizione di rilievo all’interno dell’intero progetto islamista. Il suo imporsi come leader militare della Corte di Ifka Halane (Mogadiscio ovest), nel marzo del 2006, fu sostanzialmente il frutto del legame di origine che lo univa allo stesso Dahir Aweys. Al di là dei timori statunitensi riguardo a un suo presunto, quanto inverosimile, passato nei campi di addestramento di al-Qå‘ida in Afghanistan, la sua morte per mano degli americani sembra aver alterato sia il rapporto tra gli al-Sˇabåb e le Corti, sia lo stesso atteggiamento del movimento nei confronti della comunità internazionale. 12. Il governo federale di transizione (Gft) è nato nel settembre del 2004 come risultato della tredicesima conferenza di pace per la Somalia, ospitata dal governo di Nairobi sotto gli auspici dell’Igad (Inter-Governmental Authority on Development). La carta transitoria allora approvata dava vita a un parlamento composto da 275 membri designati su base clanica, il quale riservava ai gruppi ritenuti numericamente predominanti (Darod, Hawiye, Dir e Digil Mirifle) una quota maggioritaria di seggi. Nella vita delle istituzioni transitorie defezioni e passaggi di cariche hanno sempre costituito una costante, e le dimissioni dell’ex colonnello Abdullahi Yusuf dalla carica di presidente, nello scorso dicembre, hanno contribuito drammaticamente ad assottigliare la legittimità politica del Gft.

IL BUIO OLTRE GAZA

ne finanziata dalla Cia attraverso l’ambasciata Usa a Nairobi, che racchiudeva alcuni tra i più pericolosi warlords della Somalia meridionale 13. La successiva disfatta dell’alleanza, per mano delle milizie delle Corti islamiche, aveva determinato anche un repentino passo indietro dell’amministrazione Bush sull’uso della Cia in Somalia, dando di fatto più importanza al Dipartimento di Stato che, nella persona del vicesegretario Jandaya Frazer, dopo l’invasione etiopica e la deposizione del governo delle Corti a Mogadiscio sperava in una ripresa del dialogo politico e in una soluzione diplomatica alla crisi, da trovare prima del termine del mandato delle istituzioni transitorie, fissato nel 2009. La partita somala non si gioca solo all’interno del paese. Da tempo si è allargata all’intero scenario regionale. L’Etiopia e l’Eritrea, in particolare, oltre che diversi paesi arabi come l’Arabia Saudita e il Kuwait, hanno finito col ritagliarsi un ruolo determinante nella crisi, e possibili soluzioni non possono non tener conto anche delle loro ambizioni geopolitiche. Ufficialmente, al pari dei partner occidentali, i paesi arabi del Golfo sembrano pronti a dare risposte militari più che politiche alla pirateria. Nonostante ciò, la posizione di alcuni attori, come Arabia Saudita, Kuwait e Yemen, appare piuttosto sfuggente. Questi paesi infatti, vittime degli attacchi al pari dell’Occidente, sono certamente meno restii a trattare con attori radicali come al-Sˇabåb, proprio perché di fatto restano fuori dalle condizionalità imposte dalla black list statunitense. Anche se stringono i loro rapporti preferenziali ancora oggi con i businessmen somali, come Abukar Omar Addani e Abdulkadir Mohamed «Eno», non si può escludere un futuro cambio di rotta. Infatti, nonostante al-Sˇabåb sembri ricevere sostegno più dalla diaspora somala che da attori statali, la sua determinazione a combattere la pirateria potrebbe costringere alcune reti filantropiche a un cambio di strategia. E ciò potrebbe cambiare radicalmente lo scenario. La complessità del problema e la recrudescenza della pirateria hanno spinto l’amministrazione Usa a proporre al Consiglio di Sicurezza una risoluzione che potesse estendere al suolo somalo il mandato delle Marine impegnate nella lotta alla pirateria. L’approvazione della risoluzione 1851 del 16 dicembre scorso si muove pertanto in tal senso. Si potrà agire anche in territorio somalo, ma l’eventuale risposta dovrà ricevere il pieno consenso del governo transitorio – e soprattutto, dovrà svilupparsi con un appropriato livello di intensità. La decisione è di una certa rilevanza, se non altro per la presa di coscienza che il fenomeno non si riduce solo alle acque somale, ma è in realtà il drammatico riflesso di ciò che accade in alcune regioni del paese. I dubbi però rimangono. Se vi sono tuttora molte obiezioni all’eventualità di massicce campagne militari Usa sul terreno somalo, 13. Le attività dell’alleanza erano finanziate in gran parte dalla Cia nell’ambito del programma delle «extraordinary renditions» e in accordo ai nuovi canoni della guerra al terrore del dopo-11 settembre. Tra i signori della guerra presenti nell’organizzazione vi erano Mohamed Dheere, Mohamed Qanyare, Musa Sudi Yalahow, Nuur Daqle, Abdi Hasan Awale Qeybdiid, Omar Muhamoud Finnish. Alcuni di essi, come ad esempio Mohamed Dheere, ricoprivano anche cariche di prestigio all’interno delle stesse istituzioni transitorie. Cfr. Can the Somali Crisis Be Contained?, Africa Report n. 116, Nairobi, August 2006, International Crisis Group; M. GUGLIELMO, «Rebus Somalia: tra politica e terrorismo», Limes online, 15/5/2008.

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CHI SONO I PIRATI DELLA SOMALIA

anche perché brucia ancora il fallimento della missione Restore Hope, siamo ancora lontani dalla tanto auspicata risoluzione Onu per l’eventuale dispiegamento di una missione di pace. Lo stesso segretario generale Ban Ki-moon ha dichiarato recentemente: «Non sussistono le condizioni necessarie, anche perché manca di fatto una pace da mantenere». Il pattugliamento marittimo ad Aden, pur indispensabile per garantire la libertà dei traffici commerciali, e le sporadiche azioni di intervento a terra – già da tempo svolte nell’ambito di Enduring Freedom – possono considerarsi operazioni tampone rispetto alla pirateria somala. La si potrà ridimensionare, ma la soluzione del problema passa comunque per il riaffermarsi della sovranità territoriale e statuale nel Corno d’Africa. Ci vorranno ancora molti anni.

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