CENTRO SOCIALE ANZIANI
Presso Biblioteca “G. Siani” – Via Arco SANT’ANASTASIA (NA)
COMUNE DI SANT’ANASTASIA
I EDIZIONE 2008
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Sant’Anastasia, Biblioteca “G. Siani”, 18 dicembre 2008
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La Quercia Appariva improvvisamente da un angolo di strada un carico enorme di fascine da forno: un volume di frasche secche o di “pennicilli”1 che quasi annullava la figura umana che lo reggeva. Nessuno aguzzava gli occhi per riconoscere l’uomo semisommerso da tanto gravame. Era Ciuaggiusèppe, Giovan Giuseppe, e basta. Senza possibilità d’errore. Chi altro avrebbe avuto l’ardire di sobbarcarsi a siffatto fardello? Avanzava lento, barcollando: non per il peso, ma per passo naturale. Tagliava di sbieco la piazza, dove bambini magri e laceri interrompevano per un attimo il gioco e alzavano la testa per guardarlo: perché lui era il re, il loro re, buono e forte; perché lui stava su, rompeva l’azzurro con le sue fascine -il pugno serrato all’aggancio dell’enorme fastello-, barca ondeggiante nell’immobile mare rovesciato ch’era il cielo. Davanti al forno scaricava, con tonfo secco. Pronto ad altro impegno. Amava molto i bambini, ricambiato. Talvolta tirava loro affettuosamente un orecchio, minacciando: “M’aggia mangià ‘na recchie”.2 Giaceva ampio nel letto, ch’era pieno di lui. Da tempo, ormai. I muscoli distesi, dopo tanta fatica. Quieto. “Sto bbuone”3 sempre rispondeva a chi chiedeva come si sentisse. Soffriva? e quanto? Era un mistero. Il corpo, certo, decadeva visibilmente. Normale, a novant’anni, con ottanta trascorsi a sgobbare. “ S’hadda fatecà”4 era la sua consueta, soddisfatta e quasi gioiosa constatazione. Così, dopo aver svolta la sua attività giornaliera a servizio del forno, si trovava qualche altro impegno, come, ad esempio, attingere acqua ad una fonte lontana e trasportarla, per un modesto compenso, a casa di chi ne faceva richiesta; o svolgere funzioni di crocifero durante i funerali e le feste religiose. Raccontava spesso di quando, avendo svolta la solita mansione di crocifero a un funerale e dopo aver accompagnato il feretro al cimitero, il figlio del morto si era rifiutato di riconoscergli il consueto, modesto obolo. “Mòllete”5, gli aveva detto Giovan Giuseppe, mostrando la destra e sfiorando tra loro il pollice e l’indice: ma quello non se ne dava per inteso. Dopo aver rinnovato due o tre volte l’invito, ricevuti altrettanti irridenti dinieghi, il nostro crocifero mulinò i suoi pugni pesanti come mazze e per Puorche jènche6 -così era soprannominato lo sventurato insolvente- il cielo si fece improvvisamente buio e stellato. Per sua fortuna si trovavano da quelle parti un paio di carabinieri che, aiutati da altre persone, a stento riuscirono a frenare l’esplosione di tanta vitalità e a salvare il malcapitato. “Tenìtele quatte ca cinche nce pòtene”7 urlavano i carabinieri, cercando di immobilizzare Giovan Giuseppe. Il quale, con questa citazione chiudeva il racconto. Più volte la morte era passata, inesorabile, nella casa di via Ritola, cogliendo a piene mani: Gioacchino, il cognato, Agnese e Orsola, le sorelle. Restava lui. Resisteva, sordo a ogni malattia, ferocemente attaccato alla vita: una quercia con radici tenaci. Per male che stesse, a chi gli chiedeva come si sentisse, continuava a rispondere immancabilmente “Sto bbuone”, quasi che la somma dei suoi malanni fosse un affare altrui. Aveva perso il colore della salute e della fatica, ingentilita ormai la pelle, candida come le lenzuola. Ed erano poi giunte le apnee.
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Piccoli fasci di tralci di vite. Devo mangiarmi un orecchio 3 Sto bene. 4 Si deve lavorare. 5 Deciditi; sbrigati. 6 Porco bianco. E’ il soprannome del tizio. 7 Tenetelo fermo in quattro, che cinque non ce la fanno. L’espressione è paradossale, ma va intesa, forse, nel senso che in quattro si poteva, per mancanza di spazio, operare meglio che in cinque; oppure si devono invertire i numeri. 2
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Talvolta asseriva di essere morto durante la sua fanciullezza. E a chi sgranava gli occhi, raccontava placidamente che, dopo le esequie in chiesa, egli sulla Valle di Barano si era risvegliato nella bara, portata a spalla dai compaesani, come una volta s’usava. Qualcuno, sempre, gli chiedeva cosa allora avesse fatto: lui, serio, batteva due volte al suolo quella pala di remo ch’era la pianta del suo piede. Così fu deposta a terra la bara, e aperta, con paura e speranza. E lui, alzatosi, se ne tornò a casa. Ormai non parlava più. Il corpo, piagato, lasciava intuire un’ inespressa sofferenza. Ma cosa mai poteva rappresentare il dolore per chi aveva sofferto e lavorato pesantemente per tutta la vita? Normalità, niente di più. Maria, dal ballatoio, parlava di Giovan Giuseppe con la vicina Rosa : ”Questa notte zizìo8 ci ha fatto spaventare: non ha respirato per qualche minuto. Un tempo interminabile. Siamo stati lì lì per venire a chiedervi aiuto.” Erano venuti i nipoti, tutti, a rivedere il gran vecchio, a salutarlo, ad aiutarlo. A turno, secondo le ferree norme della vita moderna. Poi si sarebbero trovati tutti insieme. Alla fine. A mano a mano che avanzavano gli anni, era stato liberato da ogni sorta di lavoro. Così egli riempiva la giornata mettendosi a completa disposizione degli altri e accorrendo dovunque venisse chiamato. Non trascurava mai di visitare, quotidianamente, i malati del paese. “ N’amma vulé bbène quanne simme vive”9 ripeteva spesso, soprattutto quando qualcuno lo ringraziava per un aiuto ricevuto. E, talvolta, autocompiacendosi: “Quante more i’, me chiàgnene ‘e pprète ‘a vie”10. Le apnee diventavano sempre più lunghe e frequenti. Ne riemergeva con un rantolo sempre più profondo e spossato. Gli occhi erano fissi da qualche parte, verso l’alto. Immobili, ma vivi. Ancora nelle vene gli danzava la vita, ma lenta e sommessa. I giorni - albe, mattini, mezzogiorni, pomeriggi, sere - e le notti trascorrevano lentamente, si avvicendavano con dolcezza. Poi arrivò un’altra apnea. La più lunga. Interminata. Così se n’andò Ciuaggiusèppe, il saggio, il re dei fanciulli. Ciuaggiusèppe, la quercia. Ancora oggi quei bimbi dai capelli ormai bianchi, talvolta, cercano nella piazza, alzando la testa, la sua sagoma d’Atlante, acquartierata in un lembo d’azzurro, e il suo volto, con il consueto pacifico sorriso.
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Nell’immaginario collettivo la figura dell’anziano, del nonno o del vecchio zio, è stata sempre arricchita da attributi fortemente positivi e da valori umani e affettivi intensi. Ma in questo bel racconto, tale immagine si ingigantisce ancor di più, acquistando peraltro una freschezza e una immediatezza di esposizione, resa ancora meglio nella doppia narrazione, quella del ricordo e quella attuale, in corsivo, che interseca e integra tutto l’impianto narrativo. Il vecchio Giovan Giuseppe, Ciuaggiuèppe nella parlata tipica ischitana, è una quercia, un albero possente abituato da una vita al duro lavoro quotidiano, e che adesso, sull’”ampio letto che è pieno di lui”, ancora combatte con la morte, ancora si sente forte affermando a tutti, ma soprattutto a sé stesso: “Sto bbuone”, sto bene. Il vecchio Giovan Giuseppe rappresentato così metaforicamente da una quercia che non potrà mai abbattersi né essere sradicata dal tessuto quotidiano della vita e dai ricordi, è l’emblema e il simbolo di una esistenza semplice ma genuina, povera ma nello stesso tempo ricca e intensa di affettività e di sentimento umano. Ottimo lo schema narrativo, ricco di termini ed espressioni tipiche del luogo. 8
Forma affettuosa per “zio”. Dobbiamo volerci bene quando siamo vivi. 10 Quando morirò io, mi piangeranno anche i sassi della strada. 9
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“E’ solo il me bambino, / testardo fiore di settembre che / non vuole, / non vuol proprio saperne della resa”. E’ in questa profonda e accorata conclusione di una poesia dai toni veramente lirici, che emerge da lontano un autunno di sapori e di colori mai dimenticati, fino a far ammettere all’autore, immedesimandosi in un “io bambino”, che quei valori, quelle immagini (“sento il sospiro affranto di mia madre, / forti le mani attorte di mio padre”), proprio non vogliono lasciarlo. Il poeta apre metaforiche finestre per raccogliere ed abbracciare ancora i vividi ed immediati gridi dei suoi cari, ma il tempo ora è un altro, e la loro assenza è dolorosa. In un crescendo lirico di grande effetto, l’autore ha saputo costruire un quadro rievocativo e riflessivo emozionante, dimostrando altresì una padronanza del verso ineccepibile.
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Da “Il servizio da caffè” (brano) Dicembre 1942 Anche oggi non abbiamo mangiato. Da quando non facciamo un vero pranzo? Due anni? Sì, due anni. Da quando Armando è venuto in licenza dalla Iugoslavia. Quello fu un vero pranzo! Pasta…agnello…eh...patate…dolce. Pasta condita con denso ragù dal color rosso rubino . Cosciotto ben rosolato ma burroso. Patate fragranti e brunite al punto giusto E il dolce, la pastiera. Ammasso morbido di ricotta, uova, zucchero, canditi…E poi il caffè! Una fragranza! Un aroma celestiale! Come nettare degli dei a completare quell’ultimo pranzo. Lo abbiamo bevuto seduti in silenzio, nelle tazzine di porcellana, per assaporarne tutte le benefiche virtù. Seduti in silenzio, uniti davanti quella tazza di caffè per l’ultima volta… Dio che dolore allo stomaco. Credevo di essermi abituata. Invece no, ogni tanto questo crampo allo stomaco. Non devo pensare al cibo, mi fa star male. Ma come si fa a non pensare al cibo. Mangiare è un bisogno primordiale. Non mangiare significa morire. E la morte è lenta e crudele. Il bisogno di cibo ti getta senza pietà nella animalità abbattendo il fragile paravento della razionalità . Non sei più l’essere superiore. il dominatore dell’universo, l’essere che sa pensare, creare, comunicare, amare…Sei un essere vivente qualsiasi che deve soddisfare un bisogno primordiale, feroce, umiliante, che non dà tregua…la fame. Io forse posso resistere… ma forse ancora un po’. Mia madre resiste. Da quando il figlio è partito per il fronte russo, sembra non aver più bisogno di mangiare. La paura di non rivederlo è divenuto il suo nutrimento. Il suo ricordo è come riserva di energia. Un ricordo che alleva con cura idolatrando la sua foto o spazzolando con cura il suo abito o ancora rileggendo i suoi quaderni di bambino… E poi siamo donne e le donne non hanno mai mangiato. Ma il piccolo… Ha tre anni e avrebbe bisogno di proteine, vitamine, carboidrati…Un po’ di riso, qualche patata lessa, non posso dargli altro. La guerra ha ingoiato tutto. Ha triturato tutto con le sue avide ganasce di distruzione e morte. Non ha lasciato nulla per i suoi figli… ….. Ancora dicembre, ma del 1990 I miei figli e miei nipoti hanno fatto le cose in grande per i nostri cinquanta anni di matrimonio. Le nozze d’oro. Bella festa. Tanta gente. Il nostro salotto era lustro anche se sono evidenti i segni del tempo. Le fodere un po’ logore. I mobili tarlati. Sembra sospeso in un tempo indefinito con la sua antichità contaminata da qualche oggetto moderno e tecnologico. Il buffet era ricchissimo come piace a me. E per l’occasione, non poteva mancare l’argenteria, i piatti con il bordo di oro zecchino, i calici di Boemia e il …regale servizio da caffè. Dopo la guerra la Mena se n’era disfatta volentieri e ha accettato la mia proposta di comprarlo. Forse lo considerava troppo impegnativo per una casa senza salotto e per una donna di modesta conversazione. Ma io non vedevo l’ora di riaverlo. Appena nelle mie mani, non ha fatto altro che invitare amici, parenti e vicini a bere caffè! Anche quando Armando è tornato, la prima cosa che ha fatto è stata quella di preparare una tazzina da caffè. Certo era un po’ annacquato. Fatto con soli dieci chicchi! Oggi siamo stati tutti insieme…Tutti insieme. Manca qualcuno, morto per vecchiaia o ingoiato dalla macchina della guerra come il mio povero fratello. Il mio primo figlio non è più pallido e macilento. Anzi è un uomo florido e con un po’ di pancetta. Dovrebbe mettersi a dieta. A me ed Armando già da tempo hanno proibito di mangiar questo e quello. Ma oggi! Quella tavola! Quelle delizie per la nostra festa. Ho avuto voglia di soddisfare fino all’estremo questo bisogno primordiale che ci tiene in vita. Ho assaggiato tutto, insieme a lui . Con lui mi sono persa in un paradiso di sapori… Alla fine del pranzo mi sono avvicinata al divano con due tazze da caffè per sedermi con lui. Con due tazze di porcellana preziosa, con piccolo decoro di roselline amaranto, orlo dorato e manici finemente decorati. Mi aspettava. Aspettava che mi sedessi vicino a lui a prendere il caffè come abbiamo fatto sempre da quando la guerra è finita. Lo prendiamo sempre in silenzio. Le parole non servono. Assaporiamo insieme la scura bevanda che scende lenta a ristorare non solo il nostro stomaco ma anche il nostro spirito perdendoci nei nostri stessi ricordi. Mentre sorseggiavamo il caffè, ci siamo guardati negli occhi e abbiamo, forse, pensato la stessa cosa…Speriamo che il medico non ci proibisca di berne ancora…
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Un servizio da caffè fragile e prezioso, accogliente porcellana per una bevanda “nettare degli dei”, è il pretesto, fragile come la natura umana e prezioso come la vita, a cui ricorre la scrittrice per raccontare la guerra. La scelta dello stile diaristico permette di scandire il ricordo in momenti rappresentativi con l’effetto dell’impatto immediato particolarmente coinvolgente. La guerra, vissuta dagli inermi, si stringe in un pugno allo stomaco e si allarga in crateri di disperazione dinanzi alla fame che defrauda patrimoni e dignità. Il periodare è breve e incisivo; le pause marcano le riflessioni, serrano i pensieri e quantificano le emozioni definendo lo spessore della narrazione.
Del tempo che mi spetta Se mai potessi avere ancora un’ora del tempo che mi spetta, resterei a contemplare gli occhi del silenzio. Non più, non più trasalirebbe il cuore all’improvviso irrompere del vento, non tremerebbe la mia mano, il ventre al volo di libellule. Avrei il suono d’un salice sospeso in mezzo al cielo, un grido di farfalle sulle labbra, avrei da percepire ansie e stupori d’ogni mistero che sovrasta, immane, il piccolo respiro di quest’anima. Lasciate che la notte mi sorprenda oltre il confine e i fuochi delle stelle, andrei per cieli di galassie e cosmi come un viandante avvolto di gerani, vorace di conoscer l’assoluto, e i fiumi senza foci, e gli infiniti profumi dell’eterno.
Motivazione: E’ assodato che il poeta è tale in quanto il suo sguardo si posa sovente sull’”oltre”, mirando al di là del confine spaziotemporale della propria e dell’altrui esistenza. Ma mai come in questa lirica, compatta ed intensa, emerge l’afflato e la prorompenza di un canto accorato, nel quale l’autore, che si dimostra poeta di grande levatura, chiede di avere ancora un’ora del tempo che gli spetta, per accentuare e approfondire tutte le bellezze, le meraviglie, i colori e i sapori del creato. E lo fa con un lirismo quasi perfetto, con versi di elevata resa icastica.
Altro non chiedo, se mai potessi avere ancora un’ora del tempo che mi spetta. Non smeraldi, non fuochi di rubini, acquemarine, vorrei soltanto un soffio di parole e un fil di luce che le tenga insieme. Giovanni Caso, Siano (Sa) Componimento segnalato Pag. 8
Da “La festa” (brano) Nel sogno è la salvezza. Nel sogno della memoria… Il ricordo di una sera qualunque d’estate. Una sera qualunque nella piazza del paese natio, con il palco per l’orchestra e i cantanti per la festa paesana. La gente assembrata attorno al palco. Alcuni seduti sulle sempre poche sedie; altri in piedi con i bimbi a cavalluccio sulle spalle. Intorno alla piazza, dai balconi e dalle terrazze delle case circostanti, i paesani fortunati si affacciano. Dalle inferriate dei balconi e dai davanzali delle finestre pendono le coperte di seta ricamate per onorare la santa. Alle ringhiere di parecchi balconi sono fissati candelotti fumogeni che bruciano colorando la sera. Ci sono le stelle inchiodate al cielo… E’ una qualunque meravigliosa sera di luglio! Quanto tempo è passato!… E a me sembra impossibile, come impossibile mi pare questo concreto esilio nel presente che non voglio accettare, ma che pure subisco passivamente, “rassegnato come uno specchio”, come diceva il povero Corazzini… E allora via col ricordo, via con la follia, una follia dolce, buona, che si identifica con l’amore. La follia che in certi momenti è la sola alternativa alla disperazione. L’unica che non ti ricatti, che non ti chiede nulla per ricondurti dove vuoi. Perché la follia è sincera, disinteressata, onesta! La follia è la tua estate lontana e irripetibile, i tuoi amori che tornano, la tua giovinezza ignara e trionfante, le tue canzoni che non vuoi dimenticare, il tuo sempre che si fa cerchio per condurti a intervalli regolari nell’innocanza… A volte la follia è tutto questo… Ma se solo ti soffermi a pensare, se solo ti riconosci nel limbo che è il te stesso sorridente dalla foto color seppia, se ti sorprendi a barattare il tuo tempo con la memoria, allora sei già morto senza saperlo. Adolfo Silveto, Boscotrecase (Na) Componimento segnalato Motivazione: Nel sogno è la salvezza, afferma l’autore di questa breve ma emozionante storia di ricordi che vorticano, girano intorno alla mente come la giostra che vi è descritta. E’ il giorno della ricorrenza di S. Maria di Salomé, la festa del paese natìo, con le bancarelle, i giocattoli, le leccornie, i cantanti. L’autore si ritrova a percorrere i medesimi quadri e situazioni, per cui i ricordi si sovrappongono, le scene si ripetono, uguali a quelle di tanti anni prima. Il ritmo del racconto è incalzante ma nello stesso tempo dolce e melanconico, e le descrizioni sono particolarmente ricche ed affettuosamente curate.
Pag. 9
Da “Speranza” (brano) Rosa bussò a lungo più volte il campanello; un po’ preoccupata, rovistò nella sua borsa e ne trasse la chiave; aprì la porta ed entrò con un senso di angoscia; gli scuri alle finestre erano ancora chiusi e la casa era in penombra, solo una debole luce filtrava dal finestrino in alto sulla cucina; per qualche attimo Rosa restò ferma annusando l’aria: c’era uno strano odore: sapeva di polvere da sparo, di vecchio, come quando si apre una cassa di biancheria chiusa da molto tempo, e non sapeva spiegarsene il motivo; aprì le finestre e chiamò: “Mamma! Mamma, dove sei?” Quando si girò, lo sguardo si posò sulla poltrona; per un attimo lungo perse il controllo sulla realtà, poi gridò con quanto fiato aveva in gola: “Mamma! Mamma! Oh Dio, mamma, Che è successo?” Fece per scuoterla, ma si fermò quando si accorse che la mamma aveva gli occhi aperti e lo sguardo rivolto alla porta d’ingresso, occhi non spenti ma vivi, ed un sorriso che le dava un’espressione propria di chi sogna o guarda qualcuno con occhi innamorati; un braccio di Speranza era ancora appoggiato al bracciolo, ma teneva chiuso nel pugno un vecchio foulard rosa; dolcemente le aprì la mano e glielo tolse; lo guardò e quasi le gambe la tradivano; al centro del foulard spiccava il nome SPERANZA, ed una grande macchia rossa; annusò la macchia e le salì alle narici un forte odore di sangue, come fosse ancora fresco; per qualche istante il mondo girò vorticosamente e ricordò le parole della mamma: “Quando tuo padre partì soldato gli lasciai il mio foulard rosa, quello che lui mi aveva regalato quando eravamo fidanzati e lui mi giurò che me l’avrebbe riportato, e non mi avrebbe lasciato più”. “Mamma… papà” mormorò Rosa. Accarezzò il foulard e scoppiò a piangere. Vincenzo Cerasuolo, Marigliano (Na) Componimento segnalato Motivazione: Un nome usuale, ma che cela anche una sottile metafora: la “speranza” di ritrovare e di riunirsi al proprio amore. Speranza è un’anziana vedova che in questo bel racconto dal contenuto e finale surreale, entra nel mondo dei propri ricordi in un modo così appassionato e convincente (per sé stessa), da immedesimarsi pienamente nella situazione di tanti anni prima, fino al punto di “vedere” il caro marito riportarle quel foulard rosa che ella stessa gli aveva consegnato prima che partisse militare. Dicevamo un finale originale, in cui realtà e fantasia si mischiano, ma che rappresenta in fondo il giusto epilogo di una triste vicenda umana, scritta con mano intelligente, audace, e con forti venature di suspence.
Pag. 10
… E la vita conduce Tu aspettavi il ritorno dall’Africa di quell’uomo montato a cavallo con l’intento di darti una gioia se così tu l’avessi veduto. Ne conservo geloso la foto che ti dava tre numeri al lotto da giocare per tutte le ruote …E approdò una tarda stagione quel tuo sogno!.. Ne volesti seguire le orme imparando con lena il mestiere e del legno che lui lavorava ne facesti un breviario prezioso. Lo seguisti a montare i mulini e un’infanzia incantata affidasti nelle spire del lucido scivolo che mandava fin giù la farina. Io venivo a pigliare la quota che spettava ogni settimana. Poi la crisi… Ma la perdita di quel lavoro non scalfì quella tempra che avevi. Ci metteste ancora più lena impiantandovi al nostro rione dove anch’io,al finir della scuola, ci venivo a garzone; bilancino alla vostra carretta nei trasporti alla segheria. Poi…quel brutto dicembre che lasciò un enigma irrisolto! Ma…la vita va avanti,conduce… …E conduce,conduce,conduce… Tu portasti a saperne del legno tutti i pregi,in prosieguo,ai tuoi figli fino a quando mollasti le briglie per lasciarli andare da soli. Giusto il tempo?.. Lo avevi deciso; calcolato a centimetri cubi?!.. A dicembre,in un nodo di luna, anche tu te ne andasti fratello!
Motivazione:
Il poeta ripercorre, con rassegnata partecipazione e nostalgia, un tratto di strada che gli ha segnato la vita, a capo chino dinanzi all’ineluttabilità degli eventi. Scivolando tra i versi, sembra di imbattersi in un cantastorie che, con voce cadenzata, additando scene allestite all’uopo, racconta… Atmosfera a tratti da fiaba con il cavaliere, i mulini, l’infanzia incantata e l’operoso falegname, ma un mistero si delinea e annuncia la tragedia. Il linguaggio offre tracce d’antico sentore con impatto fortemente suggestivo.
…E la vita conduce…conduce. Nino Vicidomini, Trecase (Na) Premio Speciale “Napoli Cultural Classic” Pag. 11
Nessuna cosa Nessuna cosa… niente s’adeguò all’animo mio, alla mia diversità dal mondo, dagli animi… dall’amore. Tutto ebbi e tutto donai, mai l’assimilai a me. Oh, mia diversità, mio Io, che mi porti alla ricerca del sapere, dei colori del mondo, del fiore bianco! Quanto t’amo! Grato sono a Chi mi fece, o mie angosce, mie gioie, mie lacrime, miei amori che allertaste l’animo mio. E vigile fui ad ogni soffio di vita, ad ogni palpito d’amore. Vissi notti sublimi, giorni di spine, amari… L’animo mio visse mille volte ma non bastò a conoscere quel fiore bianco. Amai l’uomo, le sue attitudini; lo guardavo, perplesso, quando rammendava le reti. Mi sedusse la fede. Dalle stelle attinsi forze nuove per andare alla ricerca di regni sconosciuti. Tutto tentai e molto ebbi. E ciò che sognai lo rese vivo il pensier mio.
Motivazione: In questo componimento di forte tensione introspettiva, l’autore rivolge un canto religioso a Dio ringraziandoLo per i doni che ha ricevuto e per tutte le buone qualità che lo fanno uomo, uomo che ama e che soffre, che è consapevole di ogni soffio di vita e del creato che lo circonda. Bella e intensa, dolce e soave, la poesia si svolge in versi di alto lirismo.
Natale Porritiello, Sant’Anastasia (Na) Premio Speciale “Lions Club International” V Circ. Cittadinanza Umanitaria, Arch. Giacomo Vitale Pag. 12
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Il presente opuscolo è stato realizzato con mezzi propri da:
CIRCOLO LETTERARIO ANASTASIANO
di Giuseppe Vetromile c/o Circolo “IncontrArci”, Piazza Cattaneo 9, Sant’Anastasia (Na) Tel. 081.5301490; Sito web: http://circololetterarioanastasiano.blogspot.com E-mail:
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