Le Origini Dei Latini

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Le origini dei Latini 1 gennaio 2000 (19:35) | Autore: Adriano Romualdi

Fin dal secolo scorso la linguistica comparata è giunta al concetto della unità indoeuropea, ossia alla scoperta che le lingue germaniche, italiche, elleniche, celtiche appartengono ad un unico gruppo linguistico di cui fan parte anche l’antico indiano e l’antico persiano. Un esame più attento delle lingue indoeuropee permette di rinvenire termini comuni che designano l’orso, il lupo, il castoro, la quercia, la betulla, il gelo, l’inverno, la neve, – ci rimanda cioè ad originarie sedi settentrionali. La presenza del nome del faggio – albero che non cresce ad Est della linea Konigsberg-Odessa – e del salmone, pesce che vive nel Baltico e nel Mare del Nord, ma non nel Mar Caspio o nel Mar Nero, ci permettono di collocare l’antica patria indoeuropea in un territorio compreso tra il Weser e la Vistola, esteso a Nord fino alla Svezia meridionale e a Sud fino alla Selva Boema e ai Carpazi. Effettivamente, da questo territorio si irradiano, a partire dal 2500 a.C., una serie di culture preistoriche che dilagano dapprima nelle valli del Danubio e del Dnjeper, e di qui raggiungono l’Italia, la Grecia, la Persia, l’India. Di qui l’origine nordica delle civiltà indiana, persiana, greca, ma anche quella di quei prischi Latini che si stanziarono sui Monti Albani e fondarono Roma. Poiché gli Italici – e tra essi i Latini – in Italia ci sono venuti, presumibilmente, in diverse ondate, mentre l’antica popolazione mediterranea veniva lentamente sommersa da queste invasioni finché ne emergevano, come isole staccate, Liguri, Etruschi, Piceni, Sicani. Le affinità europee della lingua latina La parentela delle lingue indoeuropee è un fatto acquisito. Più complesso è il problema del legame dei singoli linguaggi tra loro. Esistono dei criteri generali di raggruppamento sui quali più nessuno discute: ad esempio una distinzione tra un gruppo occidentale kentum (del quale fanno parte il greco, il latino e il germanico ma anche l’ittita) ed un gruppo orientale satem, o anche l’unità originaria del sanscrito e del persiano in una comunità “aria” che si può ricercare archeologicamente fino a Nord del Caucaso. Spesso tuttavia i contatti tra le varie lingue sono così diversi e molteplici da rendere impossibile un preciso raggruppamento per gradi di parentela. Tutto ciò rispecchia uno stadio originario in cui i territori dei vari popoli erano incerti e i loro rapporti intrecciati da flussi e riflussi di ondate migratorie. Il latino è stato dapprima collocato in una supposta unità italo-celtico-germanica, ossia si è immaginato che gli antenati dei Celti, dei Germani e dei Latini abbiano formato una unità particolare in seno alla grande famiglia indoeuropea. E’ dubbio però se una tale unità sia esistita o se non si debba cercare una unità ancora più larga comprendente anche il veneto e l’illirico, con caratteristiche affinità col baltico. Questo ci introdurrebbe al problema della vera natura del “veneto”, e dell’”illirico”, e a quello della lingua dei popoli dei campi d’urne. In effetti, tutte queste lingue possiedono dei termini sicuramente indoeuropei – ma che non si ritrovano in sanscrito o in greco. Esempi di questo “indoeuropeo occidentale” sono il gallico mori, latino mare, antico tedesco meri, lituano mares, antico slavo morje; l’antico irlandese tuath “popolo”, osco touto, antico tedesco diota e antico nordico thiod (”deutsch“), lituano tautà e illirico teutana (”regina”). Comuni a questi popoli sono poi una serie di nomi per i corsi d’acqua che nell’Europa Centrale rappresentano il più antico strato toponomastico analizzabile, mentre in Spagna e in Italia furono importati. Valga come esempio Ala in Norvegia, Aller in Germania, Alento in Italia, Alantà in Lituania – spiegabili col lettone aluots = fonte; Aube in Francia, Alba in Spagna, Elba in Germania, Albula nell’antico Lazio, illuminabili con l’antico nordico elfr fiume e l’antico tedesco elve “letto fluviale”. Questa

unità linguistica – per la quale il Krahe ha creato la definizione di alteuropaisch, “europeo antico” – sarebbe quella dello indogermanisches Restvolk, ossia di quegli Indoeuropei rimasti più a lungo nelle antiche sedi. In genere, si deve pensare che mentre alcune stirpi indoeuropee, spintesi precocemente nell’area della civiltà egea e medio-orientale, già nel secondo millennio possedevano una lingua ben definita, le altre stirpi, rimaste nella patria originaria, parlavano dialetti appena differenziati l’uno dall’altro. Dai documenti di Pilo e di Hattusas noi sappiamo che intorno al 1400 a.C. nel Peloponneso si parlava già una lingua greca e che nell’alta Mesopotamia lo stato di Mitanni scriveva i suoi documenti in una specie di sanscrito. Ma è presumibile che nella stessa epoca gli antenati dei Latini e dei Germani storici parlassero dei dialetti allo stato fluido e, per così dire, sfumanti l’uno nell’altro. Il vocabolario settentrionale del latino Molte forme latine si lasciano agevolmente confrontare con forme celtiche, altre con forme celtiche e germaniche. Al latino piscis corrisponde il gotico fisks (tedesco moderno Fisch) e l’irlandese iask. Il latino salix trova riscontro nell’antico alto tedesco salaha e nell’antico irlandese sailech. Oltre alla parentela genealogica c’è un tipo di affinità linguistica che potremmo definire ambientale. Il latino, oltre ad essere stretto parente del germanico e del celtico ha tutto un vocabolario di termini che hanno riscontro non solo in queste lingue ma anche nel baltico e nello slavo. E’ il nome del vento del Nord: in latino carus, in gotico skura, in lituano sziaurè, “Nord” e “vento del Nord”, nell’antico slavo severu, “Nord”. Ecco una serie di parole che designano il freddo: antico alto tedesco kalt e kuoli; lituano galmenis freddo intenso; antico slavo goloti, ghiaccio e zledica; latino gelu e glacies. Questo vocabolario ci parla di un’epoca in cui gli antenati dei Latini e dei Germani e degli Slavi vivevano in un ambiente gelido e settentrionale. Ancora più interessante è un altro termine geografico. Il gotico marei, il lituano mares, l’antico slavo morje, il gallico mori, il latino mare designano di volta in volta il mare, ma anche lagune e bacini chiusi e paludosi. Il tedesco moderno Moor, come il latino muria non indicano il mare, ma la palude. Anche qui si postula una condizione ambientale presente nell’Europa settentrionale preistorica: un paesaggio di acquitrini, di stagni e di lagune disteso intorno ad un mare semichiuso qual’è il Baltico. Se si vuol collocare nel tempo questa stretta comunità celtico-germanica-italica-illirica-baltica, bisogna risalire alla età del bronzo – ossia al secondo millennio a.C. – epoca nella quale i Celti non avevano ancora passato il Reno, né gli Italici le Alpi, né gli Illiro-Veneti il Danubio mentre i Germani vivevano nelle loro sedi scandinave e tedesco-settentrionali. In quanto ai popoli baltici, essi occupavano ancora la Prussia Orientale e confinavano coi Veneti alla foce della Vistola (sinus Veneticum). La partecipazione dello slavo a questa comunità linguistica è forse solo apparente, e sorge dal fatto che lo slavo dovette assimilare in Polonia gran parte del vocabolario venetico. E’ solo all’alba dell’età del ferro che i Celti invadono la Gallia, gli Italici l’Italia, e gli Illiri la penisola balcanica. Ciò porterà ad una graduale espansione dei Germani in tutto il territorio tra il Reno e la Vistola. Latino e germanico In questa unità indoeuropea nord-occidentale, si lasciano isolare numerosi vocaboli comuni soltanto al latino e al germanico. Si pensi a termini designanti parti del corpo come collus (poi collum) e Hals; lingua (antico dingua) e inglese tongue, tedesco Zunge; caput e Haupt. Vi sono poi termini indicanti oggetti della natura come latino limus e tedesco Lehm; gramen (da grasmen) e Gras; acer e Ahorn; saxum e antico alto tedesco sahs “coltello”; far e antico nordico barr “grano”. Ancora di più pesano particolarità grammaticali che solo latino e germanico hanno in comune. Entrambi creano avverbi numerali e distributivi con un

suffisso no: latino bini (da *duisno) e nordico tvennr (germanico *twizna), “doppio”. Entrambi rispondono alla domanda “dove”? con avverbi di luogo terminanti in ne: gotico utana (”da fuori”, “von aussen“) e latino superne, (”da sopra”). Entrambi formano sostantivi astratti con un suffisso tu: latino iuventus, “gioventù”, e tedesco Altertum, “antichità“. Queste particolarità, e altre che sarebbe lungo citare, han fatto affermare al Krahe che latino e germanico sono stati parlati un tempo da due popoli strettamente confinanti: “In quella fase arcaica che si rispecchia nelle affinità linguistiche qui elencate, gli antenati degli “Italici” han vissuto tra i Celti e i Germani in modo da tener separati questi due popoli. Perciò la comunità linguistica italogermanica è più antica di quella celtico-germanica. La prima risale all’età del bronzo, poiché la parola per bronzo (latino aes-aeris, gotico aiz, antico nordico eir, antico alto tedesco er, da cui il nostro ehern “bronzeo”) è comune solo al germanico e all’italico. Solo dopo che gli “Italici” migrarono al Sud, i Celti giunsero a diretto contatto con i Germani e condividono appunto con loro la parola per “ferro”: gallico isarno, irlandese iarnn e gotico eisarn” (Hans Krahe, Germanische Sprachwissenschaft, Berlin 1969). Ma, ancora più interessante, il latino presenta una serie di parole che han riscontro solo nello scandinavo, cioè nell’antico nordico. Al latino os corrisponde il nordico oss “bocca di fiume”; al latino sanctus il nordico sattr; al latino longaevus il nordico longaer; e altri esempi si potrebbero addurre. Rudolf Much, che ha sottolineato questo fatto, ha messo in rilievo come il latino auster e il norvegese austr indichino entrambi il Sud, e non l’Est, come nelle altre lingue indoeuropee, il che in Norvegia si spiega col particolare orientamento delle valli. Egli ha ricordato come tra gli Eruli di Odoacre fossero anche dei Rugii originari della Norvegia – e si è chiesto se nella preistoria non si sia verificato alcunché dì simile. D’altronde, gli stessi Goti erano originari della Svezia. La cultura dei campi d’urne e lo indogermanisches Restvolk Le affinità europee della lingua latina e il suo vocabolario settentrionale si lasciano spiegare col cosiddetto “indoeuropeo nord-occidentale” del Devoto, ossia con quella caratteristica affinità che si rinviene tra italico, celtico,

germanico,

illirico

ma

anche

baltico

e

slavo.

Questa

affinità,

secondo

il

Krahe

è

quella

dell’indogermanisches Restvolk, ossia di quegli Indoeuropei rimasti nelle antiche sedi centro e nordeuropee. Non è qui il caso di ripercorrere tutte le complesse vicende della formazione dell’ethnos indoeuropeo e della sua progressiva dispersione. Mi limito a rimandare alla mia Introduzione a Religiosità indoeuropea di Hans F. K. Guenther, dove, chi lo volesse, potrà trovare un’ampia discussione del problema indoeuropeo. Basterà accennare che l’espansione indoeuropea è legata a due grandi movimenti migratorii. Il primo è quello della ceramica cordata e delle asce di combattimento strettamente intrecciato con quello delle anfore globulari che raggiunge sia la Grecia che l’Anatolia, sia il Volga che il Caucaso. A questo primo movimento, databile tra il 2300 e il 2000 a.C., si deve il distacco dal ceppo comune di Greci e Ittiti, Traci e Arii. Il secondo, più recente, si colloca intorno al 1250-850 a.C.. E’ quello dei cosiddetti campi d’urne (Urnenfelder). Il focolare della Urnenfelderkultur è la Lusazia, e, in genere, il paese tra l’Elba e l’Oder. Verso il 1400 a.C. la cultura lusaziana si trasforma nella cultura dei campi d’urne, che prende il nome dai sepolcreti a fior di terra dove le urne si allineano le une accanto alle altre. L’usanza di bruciare i morti ha antiche radici nell’Europa centrale, ma solo ora assume un carattere organico e totalitario. E’ una nuova espressione di quel culto del cielo e del fuoco che sta all’origine della religiosità indoeuropea. Il simbolismo della Urnenfelderkultur si tocca con quello delle incisioni rupestri scandinave. Verso il 1250 la cultura dei campi d’urne – estesa ormai a tutto il territorio tra Reno, Vistola e Alpi – esplode violentemente. Tutta una serie di armi di foggia centroeuropea, i sepolcreti d’urne, monili, fogge, utensili di fabbricazione austriaca, tedesca, boema, ungherese, si diffondono rapidamente verso il Sud. Ma anche all’Ovest è lo stesso. I campi d’urne dilagano nella regione francese, nelle isole britanniche, fino in Catalogna. La migrazione dei campi d’urne porta alla dispersione dell’indogermanisches Restvolk: Celti ad Ovest, Italici verso Sud, Illiri verso SudEst. In Grecia, le città micenee crollano sotto l’urto della Emigrazione dorica”. I campi d’urne in Italia

In Italia, l’incinerazione fa la sua comparsa poco prima del 1300 a.C. nel comasco, nel milanese e sul Garda. I bronzi connessi con queste tombe sono spiccatamente mitteleuropei. Che l’incinerazione fosse presente già in questa epoca nelle terramare – le stazioni su pali dell’Emilia – è probabile. Certo, i modelli ceramici richiamano da vicino esemplari lusaziani. Ma è dopo il 1250 che il fiotto dei campi d’urne trabocca nella penisola appenninica. Dapprima, abbiamo caratteristiche manifestazioni nella pianura Padana e solo avanguardie nell’Italia Centrale (Forlì-Poggio Berni, Lamoncello in val di Fiora). Poi i sepolcreti di Pianello del Genga (Fabriano), delle acciaierie di Terni, di Palombara Sabina, Tolfa e Allumiere forniscono l’evidenza d’una penetrazione delle genti incineratrici lungo la valle del Tevere. Queste manifestazioni vengono comunemente attribuite ad un’epoca intorno al 1050-1000 a.C.. Di poco posteriori sono i sepolcreti ad incinerazione che popolano fittamente i Colli Albani. Nel Veneto, sui Colli Berici, compare la cultura atestina. Tra il Veneto e il Lazio, nel bolognese, a Tarquinia, Vetulonia, e in tutta l’Etruria, fiorisce la cultura detta – dal nome d’una località presso Bologna – “villanoviana”. Ma gli incineratori non si sono fermati nel Lazio. Noto da quasi un secolo è il sepolcreto di Timmari, presso Matera. E tuttavia solo dopo l’ultima guerra si son messi in luce nuovi sepolcreti a incinerazione a Torre Castelluccia (Taranto), a Pontecagnano (Salerno), a Torre dei Galli (Pizzo Calabro), a Milazzo. Essi sono destinati a mutare molte delle idee correnti sulle origini dei popoli italici. Gli incineratori trovano l’Italia Centrale occupata dalla cosiddetta “cultura appenninica”, le cui origini si lasciano ricercare fin verso il 1800 a.C. Substrato mediterraneo e superstrato mitteleuropeo si mescolano e si condizionano l’un l’altro. Sui Colli Albani, dove l’appenninico non esiste, possiamo attenderci di cogliere con maggiore purezza il superstrato nordico. Altrove, dove il substrato è ricco e tenace, l’elemento protoitalico è assorbito. Questo è appunto il caso dell’Etruria. La moderna archeologia ha fatto giustizia della favola erodotèa d’una provenienza del popolo etrusco dalla Lidia. V’è, sì, in epoca già tarda, una “moda orientalizzante”, ma non dei precisi ritrovamenti che possano provare un’origine dall’Asia Minore. Il popolo etrusco, e la lingua etrusca, sono indigeni. Ciò significa però che la cultura appenninica dell’età del bronzo non può essere indoeuropea. Quegli elementi della cultura delle asce di combattimento penetrati fino in Toscana (Rinaldone), fino in Campania (Gaudo), non possono essere stati niente dì più che avvisaglie d’indoeuropeismo. Poiché – se la cultura appenninica fosse già italica – donde sortirebbero l’etrusco, il piceno di Novillara, e tutti gli altri tenaci residui mediterranei testimoniati fin in epoca recente? L’origine dell’”italico”, o almeno del latino, non può non essere ricollegata ai campi d’urne. La nascita dell’ethnos latino dalla cultura incineratrice dei Colli Albani è lì a dimostrarcelo. I Colli Albani e Roma Quattro sono le principalì culture incineratrici nella prima età del ferro (1000-650 a.C.). La prima è quella atestina, sui Colli Euganei, matrice della nazionalità veneta. La seconda è quella di Golasecca, nella Lombardia Occidentale e nel Canton Ticino. La sua identificazione etnica è incerta. Sulla base di alcune iscrizioni, si può parlare d’una parziale indoeuropeizzazione dei Liguri. Ancora più complesso è il caso della cultura villanoviana, estesa dal bolognese alla Maremma attraverso l’Umbria, e sul cui impianto si sviluppa la fiorente civiltà etrusca. Per la zona toscana si può pensare ad un assorbimento delle correnti italiche da parte del ricco substrato appenninico. L’etrusco ne conserva tracce nel vocabolario: etrusco usil, “sole”, si riconnette ad un indoeuropeo *sauwel, italico auselo, (nel nome della gens Aurelia “a sole dicta”). Etrusco aisar si riconnette al veneto aisus e ai germanici Asen. Per la zona umbra bisognerà credere che correnti transadriatiche – attraverso le Marche meridionali – abbiano sommerso un’area protovillanoviana affine a quella veneta e a quella latina. Le differenze e le affinità tra umbro e latino verrebbero spiegate da questa ipotesi. Nel Lazio a Sud del Tevere, gli incineratori trovano un paese pressoché deserto. I Colli Albani – coperti di foreste -, le bassure del Tevere, le paludi Pontine non sembrano avere attratto coloni dell’età del bronzo. Gli insediamenti degli incineratori si depositano particolarmente fitti sui Monti Albani: intorno, è la bassura

paludosa. I sepolcreti di Marino, Albano, Grottaferrata, Frascati, Rocca di Papa, Castel Gandolfo, Lanuvio, Velletri, Ardea, Anzio ci forniscono un quadro esauriente della più antica cultura latina. Il rito è quello mitteleuropeo dell’incinerazione. Fibule, rasoi, armi, rimandano agli esemplari austriaci e tedeschi. L’urna a capanna è stata spesso spiegata con influenze indigene. Ma le urne a capanna dello Harz e della bassa Vìstola, il nome stesso del Lat-ium, identico a quello della Lettonia (Lat-via), e lo stesso nome Roma, così frequente nella Prussia Orientale per designare un “luogo sacro” (Rom-uva, Rom-inten), ci rimandano ad un area “venetica” non troppo lontana dal golfo di Danzica (”sinus Veneticum“). Niente meno che Giacomo Devoto ha calcato l’accento sulla menzione di Venetulani nell’elenco pliniano degli antichi popoli del Lazio, e ha spiegato il nome Rutuli come “i biondi”. *** Passi tratti dal libro Gli Indoeuropei.

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