Intervento Psicologico Clinico In Ospedale

  • May 2020
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MODELLI E INTERVENTI DI PSICOLOGIA CLINICA IN OSPEDALE Come aiutare un paziente di fronte alla sofferenza emotiva legata ad una condizione di malattia fisica ? Quali modelli di intervento psicologico sono possibili in ospedale ? Come può essere organizzata un'attività di supporto psicologico clinico in un contesto medico ? Nonostante le dichiarazioni d'intenti, l'enunciazione del modello bio-psico-sociale, e l'affermarsi delle teorie della medicina centrata sul paziente, una reale integrazione fra cura della malattia nei suoi aspetti biologici e cura dell'angoscia e della sofferenza del paziente non sono affatto realizzate. Gli ospedali ove esistono servizi di psicologia clinica in cui operano i diversi specialisti - sia medici, che psicologi, che assistenti sociali - sono ancora scarsissimi ed ha ancora poco spazio l'insegnamento a medici e psicologi sul come possano svolgere un lavoro comune e integrato per meglio giovare ai pazienti. I modelli teorici e indicazioni pratiche per l'intervento clinico sono fornite in questo articolo inedito di Carlo Alfredo Clerici, che successivamente è stato sviluppato ed è confluito nel capitolo "L'intervento multidisciplinare in ospedale" pubblicato a pag. 137 - 182 del volume di Chiara Ripamonti e Carlo Alfredo Clerici, Psicologia e salute: introduzione alla psicologia clinica in ambito sanitario. Editore Il Mulino, Bologna 2008. Per approfondimenti e la bibliografia si rimanda al volume. Ripamonti C., Clerici CA: Psicologia e salute. Introduzione alla psicologia clinica in ambito sanitario. Il Mulino, Bologna 2008. Modelli teorici, intervento psicologico, supporto psicologico, psicologia clinica, psicoterapia, psicologia medica, psicologia della salute, psicoanalisi, Chiara Ripamonti, Carlo Alfredo Clerici, referral, psychology, clinical psychology, psychotherapy, psychological support, psychoanalisis, referral, consultation, health psychology

MODELLI E INTERVENTI DI PSICOLOGIA CLINICA IN OSPEDALE 1. Il ruolo dello specialista della salute mentale 2. Tecniche d’intervento con pazienti adulti 3. Tecniche d’intervento in età evolutiva 4. Prospettive multimodali d’intervento 5. Modelli organizzativi dell’intervento per la salute mentale nei reparti ospedalieri 6. I problemi dell’integrazione nel contesto ospedaliero 7. Le terapie farmacologiche 8. L’intervento riabilitativo e il ruolo degli operatori 9. L’intervento dell’assistente sociale 1. IL RUOLO DELLO SPECIALISTA DELLA SALUTE MENTALE 1.1 La situazione attuale Negli ultimi anni un numero progressivamente crescente di operatori della salute mentale, con diverse formazioni, svolge attività clinica nei reparti ospedalieri. In queste pagine parleremo di “specialista della salute mentale” anziché di psichiatra, di specialista in psicologia clinica, di psicoterapeuta e di psicologo, al di là di ancora attuali diatribe. 1

La realtà clinica mostra, infatti, come gli operatori che abbiano come orientamento una prospettiva dinamica della mente, si trovino in realtà ad operare in un terreno condiviso, dove la demarcazione fra una prassi professionale e l’altra può essere assolutamente indefinibile. È raro il caso in cui lo psichiatra che svolge funzioni di consulenza aderisca soltanto ad un modello biologico e viceversa che lo psicologo consideri esclusivamente il mondo interno del paziente, senza considerare la realtà della malattia. Si tratta di prospettive inapplicabili nell’ambito che stiamo trattando e che per fortuna sono sempre più sostituite da prospettive teoriche che tengono conto della molteplicità dei livelli di sofferenza dei pazienti. Recentemente in ambito sanitario varie istanze, come la scarsità di risorse finanziarie e la necessità di modelli d'intervento evidence based, hanno reso comunque necessaria una riflessione sull’efficacia dei modelli, delle teorie e delle tecniche di intervento sul disagio psichico dei pazienti affetti da malattie organiche. In questo campo, tuttavia, la ricerca non solo sull’efficacia delle tecniche, ma anche sul processo terapeutico, è più arretrata rispetto ad altri settori della salute mentale. In particolare manca ancora una risposta condivisa ad alcune domande come: -

Quali pazienti hanno un disagio emotivo legato ad una malattia ?

-

Quali pazienti necessitano di un intervento da parte di uno specialista della salute mentale ?

-

Con quale tecnica devono essere condotti gli interventi ?

-

Come deve essere organizzata un’attività di assistenza clinicamente efficace ? Nella maggior parte delle realtà ospedaliere il gran numero di pazienti e la scarsità di risorse

non permettono una valutazione sistematica di tutti i pazienti, e i criteri di invio a consulenza rischiano di essere basati sul caso o su valutazioni esclusivamente sintomatiche. Di fatto nella pratica clinica esistono due paradigmi di riferimento fondamentali che più avanti saranno approfonditi. Quello “sintomatico” considera oggetto d’interesse la sofferenza visibile, più o meno organizzata in quadri psicopatologici. Quello “dinamico” individua invece un continuum fra psicopatologia e sofferenza non sintomatica, variamente organizzata e diversamente osservabile. Dai due modelli teorici derivano i due principali modelli organizzativi dell’assistenza per la salute mentale nei reparti ospedalieri, ossia, quelli della consulenza e del collegamento. Nella consulenza, un operatore esterno al reparto visita il paziente su chiamata, per fornire un parere in merito alle sue condizioni e consigliare un trattamento. Nel collegamento (liason) l’operatore fa parte dello staff, o comunque lavora continuativamente in reparto, e partecipa ad un progetto multidisciplinare, che ha come obiettivo il benessere, anche psichico, del paziente.

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Nella concezione medica più diffusa il disagio psichico corrisponde per lo più alla patologia psichica; è ritenuta generalmente tale ogni manifestazione sintomatica che comporti ansia o depressione. La tradizione clinica psicoanalitica riferisce invece l’esistenza di una sofferenza mentale non soltanto asintomatica, ma persino inconscia, che può precedere la manifestazione sintomatica [Imbasciati 1993]. Il percorso di una malattia grave è caratterizzato in particolare da una molteplicità di risorse, vissuti, relazioni e manifestazioni psichiche che non costituiscono di per sé entità da trattare ed eliminare; il “compenso patologico”, infatti, ha molto spesso necessità di essere rispettato e tenuto in considerzione [Sala 1997]. Viceversa, se nella pratica clinica è utilizzato un paradigma esclusivamente sintomatico, nei casi in cui non si presentano sintomi, si corre il rischio di non rilevare alcun disagio. Gli stessi costrutti di coping e di meccanismi di difesa, benché utili clinicamente, non sono sufficienti per orientare il riconoscimento dei livelli più profondi della sofferenza. Indirizzando gli interventi soltanto sulle condizioni già sintomatiche o psicopatologiche si corre il rischio di non poter svolgere un’azione preventiva su condizioni, anche gravi, che hanno un periodo prodromico asintomatico, se l’adattamento è apparentemente buono e non vi è nessun problema di compliance ai trattamenti medici. La compliance ai trattamenti, infatti, non è di per sé indicativa rispetto alla gravità della sofferenza dei pazienti e questa può sfuggire ai metodi di diagnosi e prognosi psicologica e psichiatrica. CASI CLINICI Qualche esempio clinico illustra meglio come la compliance alle terapie possa non fornire di per sé alcuna informazione utile sullo stato emotivo del paziente: Alcuni anni fa. Un paziente è stato sottoposto ad un intervento di pneumonectomia in seguito al riscontro casuale, durante una schermografia di controllo, di una massa polmonare di sospetta natura neoplastica. All’esame istologico post-operatorio la lesione non si rivela di natura maligna. Il paziente, pur avendo capito che l’intervento è stato sproporzionato rispetto alla natura del problema, non si lamenta. E’ sempre gentile e collaborante con i medici e gli infermieri. Il responsabile del reparto di medicina dove il paziente è degente, preoccupato comunque per il possibile disagio del paziente e per la possibilità di future richieste di un risarcimento, chiede la consulenza dello specialista psichiatra. Il tono dell’umore non appare significativamente depresso. Non si evidenziano disturbi di forma né di contenuto del pensiero. E’ prescritta una benzodiazepina per una certa insonnia del paziente riferita dal personale. Il paziente viene dimesso dopo alcuni giorni di degenza. Non si presenterà al previsto controllo ambulatoriale perché una settimana dopo la dimissione, durante la notte, presa una corda in garage, si impicca ad una trave. In un messaggio alla moglie, scusandosi per il gesto, dice di aver preferito morire piuttosto che essere di peso a tutti come invalido. Un altro caso clinico ha avuto invece un’evoluzione opposta:

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Un giovane paziente di vent’anni è sottoposto alle cure in un reparto di un centro oncologico per una neoplasia maligna dell’osso. In occasione di ogni terapia protesta vivacemente, chiede di poter terminare le cure prima di quanto previsto dal piano di cura, continua a cercare un colloquio con i medici fuori dall’orario di visita. In svariate occasioni i medici gli hanno prescritto degli ansiolitici durante la degenza. A volte è intrattabile e inveisce contro le infermiere. Terminate le cure, è estremamente riconoscente verso i medici che lo “hanno sopportato” e si dedica con impegno a raccogliere fondi per il reparto dove è stato curato.

Vi sono diverse tipologie di clinici che svolgono, nell’ambito delle malattie gravi, un’attività di consultazione su aspetti della salute mentale: pediatri, neuropsicologi, neuropsichiatri infantili, medici e psicologi specializzati in psicologia clinica, psicoanalisti e psicoterapeuti. L’intervento psicologico fa riferimento a molteplici tradizioni culturali che abbiamo riscontrato utile organizzare in quattro categorie: - la prospettiva della psicologia medica che ha prevalentemente l’obiettivo dell’adattamento del paziente e della sua compliance alle terapie - l’approccio degli interventi di area psichiatrica, che hanno lo scopo di diagnosticare eventuali manifestazioni psichiatriche concomitanti con il quadro clinico organico - l’approccio della psicoterapia ad orientamento psicodinamico, rivolto ai vissuti dei pazienti - la prospettiva della riabilitazione con tecniche cognitivo-comportamentali, volte a migliorare la performance e l’autonomia del paziente. Nella pratica clinica gli interventi per la salute mentale nei reparti ospedalieri si caratterizzano per una varietà di obiettivi che comprendono, tra l’altro, la prevenzione del disagio psichico in condizioni di difficile adattamento, il supporto a situazioni acute di crisi per fattori organici ed emotivi, la valutazione funzionale, la diagnosi differenziale fra condizioni organiche e psicopatologiche, la collaborazione con il personale sanitario nella comunicazione della diagnosi e nelle diverse fasi dell’evoluzione delle cure e infine il supporto nella fase terminale. Nelle situazioni di intervento nel campo della malattia organica, possono anche essere forniti algoritmi da seguire, ma l’elemento cruciale è che ciascun clinico perfezioni un approccio in grado di avvicinarlo alla storia ed alla dimensione soggettiva del paziente [Tatarelli 2002]. Il processo diagnostico e il trattamento seguono la consueta prassi clinica utilizzata in altri contesti, ma con gli opportuni adattamenti che saranno illustrati. 1.2 La diagnosi differenziale Paola è un’insegnante elementare di 45 anni, sposata da 23 anni con Fabio, un coetaneo, funzionario di banca. Ha due figli maschi di 22 e 18 anni. Da anni lamenta una cefalea che si manifesta con attacchi della durata di alcune ore. La signora riferisce di essere poca soddisfatta dal matrimonio. Ha pensato più volte di separarsi dal marito e racconta di avere con lui rapporti sessuali solo un paio di volte l'anno. Descrive il lavoro come una routine ormai monotona che non le offre più stimoli. Da qualche settimana la paziente lamenta astenia, deflessione del tono dell'umore e sensazione "che le gambe cedano all'improvviso". Per questi motivi la paziente è inviata dal medico di famiglia ad uno 4

psicoterapeuta per una consultazione, ipotizzando una sintomatologia “di tipo isterico”. Dal punto di vista organico la paziente presenta un’infezione da virus dell'epatite C, peraltro senza marcate alterazioni degli enzimi epatici. Dopo alcuni colloqui lo psicoterapeuta rinvia la paziente al proprio medico per nuova valutazione del quadro clinico per escludere un concomitante quadro di patologia organica, visto l’esordio improvviso dei nuovi sintomi. La paziente è così sottoposta ad un ricovero in clinica neurologica e ad accertamenti strumentali. L'elettromiografia evidenzia segni di neuropatia e miopatia agli arti inferiori, legati all'infezione da virus dell'epatite C. Solo la terapia con interferone, prescritta dal centro ospedaliero specializzato, pur gravata di pesanti effetti collaterali, permetterà di risolvere la causa organica dei sintomi.

Un motivo frequente di richiesta di consulenza allo specialista della salute mentale è l’aiuto all’èquipe per formulare una diagnosi differenziale fra manifestazioni fisiche di un disagio psichico e malattie organiche con sintomi psichici. La diagnosi differenziale è in ogni caso la prima fase essenziale nel trattamento di un paziente con una patologia organica. Molte malattie sono accompagnate da sintomi ansiosi e depressivi che traggono origine da meccanismi biologici. In alcune situazioni la mancanza di una corretta diagnosi differenziale è all’origine di gravi errori diagnostici. Non sono rari ad esempio i pazienti trattati a lungo in psicoterapia o con ripetuti ricoveri in reparti di psichiatria, ma in realtà affetti da neoplasie cerebrali non diagnosticate [Blackman 1987]. E' possibile che i sintomi psichici inducano il paziente o i suoi familiari a rivolgersi direttamente ad una consultazione con uno specialista della salute mentale, senza che si sia presa in considerazione la loro possibile origine organica. Il ruolo di fattori biologici è importante nel determinare sintomi psichici che possono essere corretti non da un intervento di psicoterapia, ma con un’azione diretta sul substrato biologico (un esempio è l’ipotiroidismo, i cui sintomi possono essere molto ben compensati con il trattamento con l’ormone tiroideo). I sintomi psichici legati ad una malattia organica (tranne le demenze) sono codificati dal DSM-IV come “disturbo dell’umore dovuto ad una condizione medica generale oppure come disturbo d’ansia dovuto ad una condizione medica generale, oppure come disturbi mentali dovuti a una condizione medica generale non classificati altrove”. Si tratta di alterazioni rilevanti e persistenti, dovute agli effetti fisiologici diretti di una patologia organica. Le manifestazioni possono consistere in umore depresso, con una rilevante riduzione degli interessi o della capacità di provare piacere, oppure un umore eccessivamente elevato o irritabilità. Nella diagnosi con il manuale Diagnostico e Statistico DSM IV TR [American Psychiatric Association 1999] le condizioni mediche sono codificate nell’asse III. Nella diagnosi di disturbo dell’umore dovuto a una condizione medica generale, non esistono criteri per stabilire con certezza un nesso di causa-effetto, ma l’ipotesi può essere sostenuta 5

da vari elementi quali un’associazione temporale tra l’esordio della malattia e l’alterazione dell’umore e la presenza di manifestazioni non tipiche per i Disturbi dell’Umore primari (età di esordio, decorso, o assenza di storia familiare). Nella tabella 4.1 elenchiamo le principali patologie accompagnate da sintomi ansiosi e depressivi. Tab. 4.1 Patologie accompagnate da sintomi ansiosi e depressivi Disturbi cardiovascolari -

Aritmie cardiache: si sviluppano frequentemente sintomi ansiosi favoriti dai bassi livelli di ossigeno nel sangue e dalla percezione che il cuore "perda colpi".

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Insufficienza cardiaca congestizia: possono insorgere sintomi ansiosi legati alle difficoltà respiratorie. Nell’insufficienza grave possono svilupparsi disturbi cognitivi, confusione e sonnolenza.

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Prolasso della mitrale: può essere accompagnato, nei casi più gravi, da dolori al petto, palpitazioni, tachicardia, dispnea, vertigini e lipotimia. Possono instaurarsi sintomi ansiosi fobici e attacchi di panico.

Disturbi endocrini -

Diabete mellito: l’ipoglicemia si accompagna a sintomi ansiosi accompagnati da tachicardia ansia, vertigini, sudorazione e sensazione di stordimento.

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Ipotiroidismo: può essere accompagnato da umore depresso, irritabilità, astenia e diminuzione della libido.

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Ipertiroidismo: un’eccessiva produzione di ormone tiroideo provoca irritabilità, insonnia, astenia e sintomi depressivi.

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Iperparatiroidismo: un'elevata calcemia può accompagnarsi a irritabilità, apatia e depressione.

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Ipoparatiroidismo: una ridotta calcemia può accompagnarsi a molteplici sintomi quali labilità emotiva e depressione.

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Morbo di Cushing: alti livelli di cortisolo ematico si accompagnano ad una sintomatologia caratterizzata da ansia, irritabilità, deflessione del tono dell’umore, astenia, disturbi del sonno e difficoltà di concentrazione.

suicidaria. -

Sindrome di Klinefelter: le alterazioni della produzione di testosterone e ormone tiroideo possono accompagnarsi a sintomi depressivi.

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Sindrome premestruale: possono presentarsi in fase premestruale astenia, ansia, irritabilità e depressione.

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Menopausa: le modificazioni ormonali possono causare disturbi del sonno, ansia e depressione.

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Insufficienza surrenalica: il deficit di cortisolo può causare ansia, astenia, apatia, sintomi depressivi e ideazione suicidaria.

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Ipersecrezione di ormone antidiuretico: può causare disturbi cognitivi e irritabilità.

Stati carenziali -

Malnutrizione e deficit vitaminici per malassorbimento possono produrre sintomi ansiosi o dell’umore con astenia, insonnia e irritabilità. I pazienti possono essere scambiati per depressi perché sono letargici e apatici. 6

Disturbi metabolici -

Disturbi dell'equilibrio acido – base: confusione, letargia, modificazioni della personalità.

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Insufficienza renale o disturbi elettrolitici: possono accompagnarsi a sintomi simili a quelli di un episodio depressivo maggiore con anoressia, insonnia e letargia.

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Insufficienza epatica: una deflessione del tono dell'umore e l’astenia possono far diagnosticare un disturbo dell'umore.

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Porfiria: si sviluppano precocemente sintomi d'ansia e di depressione.

Disturbi neurologici e malattie infiammatorie del sistema nervoso centrale -

Corea di Huntington: è una malattia genetica degenerativa ereditaria che colpisce il sistema nervoso centrale caratterizzata da movimenti involontari, alterazioni della personalità e una progressiva demenza. Spesso i sintomi psichici precedono quelli motori e la malattia può iniziare con sintomi depressivi, difficoltà a concentrarsi e astenia.

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Demenza : all’esordio possono manifestarsi sintomi ansiosi o depressivi.

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Emicrania: durante una crisi possono presentarsi disforia e, più raramente, illusioni visive.

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Epilessia: i disturbi depressivi sono frequenti.

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Ictus cerebrale: possono svilupparsi sintomi depressivi post-stroke con difficoltà di concentrazione e perdita di interessi, alterazione dell'appetito, del sonno. In caso di danni al lobo frontale può manifestarsi apatia, euforia, disinibizione e impulsività.

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Idrocefalo normoteso: possono manifestarsi disturbi cognitivi e del tono dell’umore.

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Malattia di Creutzfeld Jacob: sono sintomi precoci ansia, astenia, scarsa concentrazione e rallentamento del pensiero.

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Malattia di Huntington: lo stato depressivo, che può anche precedere i sintomi fisici, si stabilizza nel corso della malattia. Si possono sviluppare episodi di depressione maggiore con melanconia e deliri.

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Miastenia gravis: possono manifestarsi sintomi ansiosi.

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Morbo di Parkinson: si manifesta frequentemente associato a sintomi ansiosi o depressivi.

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Morbo di Wilson: consiste in un accumulo di rame nel cervello e provoca sintomi neurologici spesso preceduti da sintomi depressivi.

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Neurofibromatosi: molti pazienti soffrono di sintomi ansiosi e depressivi.

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Sclerosi multipla: si possono presentare alterazioni del tono dell’umore, labilità emotiva e deficit cognitivi.

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Sifilide: localizzazioni al sistema nervoso centrale possono accompagnarsi a manifestazioni depressive.

Malattie reumatiche e dell’apparato muscolo scheletrico -

Fibromialgia: è frequentemente associata a disturbo depressivo maggiore e distimia o a sintomi ansiosi.

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Lupus eritematoso sistemico: si accompagna a sintomi depressivi (che possono essere anche iatrogeni, indotti cioè dalle terapie cortisoniche).

Neoplasie -

Carcinoma del pancreas: si presenta spesso con sintomi depressivi.

-

Neoplasie cerebrali: possono esordire con alterazioni comportamentali e sintomi depressivi. 7

Anche l’impiego (o l’abuso) di farmaci può produrre sintomi psichici. I più comuni trattamenti che possono associarsi a sintomi depressivi sono elencati nella tabella 4.2. Tabella 4.2 Farmaci a cui possono essere associati sintomi depressivi Antiipertensivi: - reserpina - metildopa - beta-bloccanti Contraccettivi orali Benzodiazepine Antiulcera: - cimetidina - ranitidina Chemioterapici antitumorali: - vincristina - vinblastina - procarbazina - L-asparaginasi - amfotericina B - interferon Sostanze psicoattive: - alcool - oppiacei - anfetamine e cocaina (nella fase astinenziale)

Nella tabella 4.3 sono elencati i trattamenti a cui possono essere associati effetti collaterali di tipo ansioso. Tab. 4.3 Farmaci a cui possono essere associati sintomi ansiosi 8

Anestetici Anticolinergici Antidepressivi Antiinfiammatori non steroidei Antiistaminici Antiipertensivi Antibiotici Broncodilatatori Caffeina Calcio-antagonisti Digitale Estrogeni Etosuccimide Insulina Levodopa Miorilassanti Neurolettici Procaina Procarbazina Steroidi Simpaticomimetici Teofillina Ormone tiroideo

E’ appena il caso di ricordare che tutte le sostanze d’abuso (come cannabinoidi, oppiacei, allucinogeni, anfetamine e cocaina) sono ovviamente in grado di provocare sintomi psichici prevalentemente di tipo ansioso, depressivo, allucinatorio e delirante, rispetto ai quali è particolarmente necessaria una corretta diagnosi differenziale. In particolare deve essere ricordato il delirium. Questa condizione è caratterizzata da una crisi acuta che si manifesta con confusione, agitazione psicomotoria, movimenti convulsi, tremori ed allucinazioni. Si riscontra per lo più negli alcolisti cronici, in seguito ad una brusca sospensione dell’ingestione di alcool. La crisi è preceduta ad insonnia, ansia e irrequietezza. Il quadro clinico è caratterizzato da disorientamento spazio temporale, presenza di allucinazioni prevalentemente visive (frequenti quelle zooptiche, cioè visione di animali in continuo movimento), delirio (spesso a carattere 9

professionale, in cui il paziente è convinto di essere nel suo ambiente di lavoro), agitazione psicomotoria,

tremore

grossolano

ad

ampie

scosse,

sudorazione

profusa

e

collasso

cardiocircolatorio. Questa condizione deve essere particolarmente conosciuta per il rischio elevato di morte in assenza di un tempestivo trattamento medico. In conseguenza di una condizione medica generale possono verificarsi modificazioni della personalità. Queste consistono in accentuazioni dei precedenti tratti di personalità, labilità emozionale e riduzione del controllo degli impulsi che si manifestano come conseguenze fisiologiche dirette della condizione medica generale. Nel DSM-IV-TR sono distinti, a seconda dei sintomi predominanti, i sottotipi labile, disinibito, aggressivo, apatico e paranoide. Le modificazioni della personalità possono rappresentare anche sintomi prodromici di demenza. Da quanto illustrato in queste pagine emerge la necessità che l’intervento sulla salute mentale debba essere sempre integrato ad una corretta, approfondita ed esauriente valutazione medica del paziente, per escludere eventuali malattie organiche responsabili di sintomi psichici o trattare disturbi organici i cui sintomi sono in grado d'influenzare lo stato emotivo del paziente. 1.3 Aspetti stressanti e traumatici delle malattie organiche gravi

Nel lavoro clinico con i pazienti si verificano frequentemente situazioni come questa: Mancano tre giorni a ferragosto. Giorgio è un bambino di 8 anni che ha sempre goduto di buona salute. Da circa un mese e mezzo lamenta un dolore alla caviglia destra, insorto dopo una partita di calcetto. Il pediatra che lo ha visitato ha diagnosticato una contusione ed ha prescritto degli antinfiammatori. Dopo alcuni giorni di terapia senza beneficio, Giorgio è stato portato al pronto soccorso dell’ospedale della città dove vive per una visita; lì, dopo una radiografia, è stata eseguita una T.A.C. e dopo poche ore i genitori sono stati informati della sospetta presenza di una neoplasia. I genitori, consultatisi con i propri familiari e con il medico curante, hanno deciso di rivolgersi ad un centro oncologico di un’altra regione. Al momento del ricovero nel nuovo ospedale il bambino è molto spaventato e rimane a letto anche se potrebbe andare nella sala giochi del reparto. I genitori appaiono molto preoccupati. Rraccontano ai medici di non aver mai avuto gravi problemi di salute in famiglia e che questa malattia sembra aver avuto sulla loro vita l’effetto di “una bomba che scoppia”; quello che sta succedendo sembra impossibile ed è “come un brutto sogno dal quale si aspetta solo di svegliarsi”. Gli oncologi del reparto descrivono il paziente come un bambino silenzioso, che pare adattarsi facilmente, “senza dir nulla”, alle manovre diagnostiche. I genitori dicono di non riconoscere più il proprio figlio perché in questo momento di sofferenza non esprime apparentemente alcun disagio. La preoccupazione dei genitori è che il bambino stia vivendo un momento di grande angoscia, ma che non riesca a manifestarla. I medici propongono un consultazione con lo psicologo clinico, che è accolta volentieri dai genitori.

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E’ nozione comune che un’esperienza di malattia, simile a quella del caso descritto, sia considerata traumatica. Ma quali aspetti della vicenda della malattia hanno un carattere traumatico, in grado di indurre problemi psicologici a lungo termine, e quali tecniche specifiche di supporto possano essere utilizzate per prevenirli? Una della chiavi di lettura più importanti per l’intervento psicologico nelle situazioni di malattia fisica riguarda il trauma. Questo concetto è stato di grande importanza nella storia della psicopatologia; numerose teorie, formulate nel corso del tempo, hanno attribuito ad eventi potenzialmente pericolosi per la vita o l’integrità psicofisica, soprattutto se occorsi in epoca infantile, la genesi di condizioni psicopatologiche successive. Nelle prime ipotesi formulate da Freud anteriormente al 1897, il trauma è stato considerato come il derivato psichico di un'esperienza reale di seduzione subita dal bambino da parte di un adulto per lui significativo, che ne ha ostacolato il suo sviluppo. Più tardi la teoria della “seduzione infantile” fu abbandonata da Freud e tali esperienze furono interpretate come fantasie generate dalla conflittualità presente nella base pulsionale della vita psichica. In ambito psicoanalitico, soprattutto seguendo Ferenczi, Winnicott e collocandosi nelle prospettive relazionali in psicoanalisi, autori successivi hanno avuto un approccio attento ai contesti evolutivi e alle relazioni interpersonali. Secondo questi autori, l'ambiente psicologico traumatico è determinante per l’instaurarsi di un disturbo psicopatologico perché non offre le risorse necessarie allo sviluppo della capacità di attribuire significato agli eventi importanti della sua vita [Borgogno 1999; Albasi 2004a]. Il concetto di trauma è stato quindi affiancato da quello di ambiente traumatico. Il trauma rimanda quindi alla relazione interpersonale tra l’individuo e il suo contesto ambientale. Un ambiente può essere traumatico “per eccesso” (come nel caso di abuso sessuale o violenze fisiche) o “per difetto” (come nel caso di gravi trascuratezze che non riconoscono la specificità dei bisogni evolutivi del bambino). Traumatico può essere un evento puntuale ed oggettivo, se questo non è integrato nel contesto ambientale attraverso una ricerca di significati comprensibili e accettabili (che non neghino la realtà). In sintesi, nell’orientamento psicoanalitico contemporaneo il trauma (inteso come ragione di psicopatologia) può o meno comportare un singolo evento materiale puntuale, ma comporta sempre uno stravolgimento del significato della realtà (che sta per essere) percepita. L’esito inevitabile di traumi gravi è la dissociazione: la costituzione di molteplici versioni della realtà, alcune delle quali non elaborate a livello cosciente, povere di significato, ma ricche di intensi e violenti affetti, e non in connessione con le altre [Albasi 2006a].

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Gli studi sul trauma si sono sviluppati, oltre che in area psicoanalitica, anche in quella psichiatrica, con studi empirici su eventi traumatici reali. Nel DSM-III [American Psychiatric Association 1980] è stata introdotta la diagnosi di Disturbo Post-traumatico da Stress (PTSD), caratterizzata da paura intensa, riattualizzazione dell'evento traumatico, evitamento degli stimoli associati al trauma e aumento dell'arousal. L’utilizzo di questa diagnosi ha avviato un nuovo filone di ricerche empiriche con l’obiettivo di valutare la correlazione fra condizioni psicopatologiche ed eventi traumatici. Nel DSM-III il PTSD era ricondotto alla presenza di traumi estremi o disastrosi in grado di suscitare una sintomatologia significativa nella maggior parte delle persone. Erano riportati elenchi di eventi traumatici in grado di indurre tale disturbo ed altri elenchi di situazioni "normali" o prevedibili, non ritenuti causa di PTSD. Questa definizione sottolineava l'intensità del trauma, senza considerare il ruolo del significato attribuito soggettivamente all’evento. Nel DSM-III-R [American Psychiatric Association 1987] si è aggiunto che il trauma ha la caratteristica di non rientrare fra le esperienze umane normali, considerando quindi fra gli eventi traumatici le gravi minacce all'integrità fisica. Nel DSM-IV [American Psychiatric Association 1994] e nel successivo DSM-IV-TR [American Psychiatric Association 1999] è stato attribuito un ruolo rilevante alla percezione soggettiva dell’evento traumatico. Fra i criteri richiesti per la diagnosi vi è che il paziente abbia vissuto, assistito, o si sia confrontato con un evento che puó comportare morte, gravi lesioni o altre minacce alla propria o altrui integrità fisica e che a questo evento abbia risposto con paura intensa, sentimenti di impotenza o provando orrore. In seguito a questa nuova classificazione, un numero crescente di eventi traumatici è stato accettato come causa di PTSD, ponendo sullo stesso piano esperienze diverse. Anche le malattie organiche sono state incluse fra i potenziali eventi legati al PTSD. In particolare, gli aspetti traumatici della malattie organiche gravi riguardano l’esordio improvviso dei sintomi, la necessità di trattamenti dolorosi e invasivi, le frequenti ospedalizzazioni e le separazioni dal proprio contesto socio-familiare, spesso imposte dall’iter delle cure. La categoria del PTSD non ha avuto un’accoglienza unanime nella comunità scientifica e questo, probabilmente, non ha favorito l’evolversi di una metodologia di ricerca condivisa. Secondo alcuni autori [Boehnlein 1992] il PTSD, infatti, non sarebbe nient’altro che la nuova definizione di una sindrome prima descritta con altre diagnosi, e non una nuova entità nosologica. Il PTSD trova collocazione all’interno della categoria diagnostica dei Disturbi d’Ansia e costituisce un’eccezione rispetto agli altri disturbi, perché fra i pochi classificati in base all'eziologia. 12

L’introduzione del PTSD nel DSM ha avuto comunque l’effetto positivo di aumentare l’interesse della ricerca per gli aspetti psicologici del trauma. La definizione di criteri specifici ha favorito lo sviluppo di strumenti per la misurazione degli effetti degli eventi traumatici e la definizione del PTSD ha legittimato lo svolgimento di indagini specifiche. Gli ambiti della ricerca si sono estesi, poi, verso tutte le situazioni traumatiche indicate dal DSM, comprese le malattie organiche gravi, mentre in precedenza gli studi erano principalmente dedicati ai traumi di origine bellica. Nel tempo le ricerche sul PTSD hanno così avuto come oggetto varie situazioni, come le malattie gravi e malattie croniche [Green 1997; Baum 2001; Gurevich 2002]. Aspetti traumatici sono stati descritti in ambiti specifici; fra questi quello oncologico, ortopedico, nefrologico, delle patologie epatiche che necessitano di trapianto e delle ustioni. Sintomi correlabili al PTSD sono stati descritti clinicamente in pazienti pediatrici affetti da neoplasie a partire dalla metà degli anni Ottanta [Nir 1985; Albasi 2004a]. Numerose ricerche sono state anche dedicate alla valutazione del PTSD in pazienti sottoposti a trapianto di midollo per leucemia [Stuber 1991; 1996a; 1996b; Widows 2000] e trapianti di organi [Stuber 1993; Stukas 1999]. Un’altra tradizione di ricerca è di tipo epidemiologico ed ha l’obiettivo di valutare l’incidenza di sintomi psicopatologici in pazienti affetti da patologie organiche. L’indagine sulla sofferenza psichica di pazienti affetti da malattie organiche è ricondotta alle aree dei disturbi d’ansia e dei disturbi affettivi. Tuttavia gli strumenti di valutazione più utilizzati in queste ricerche, come le scale per la valutazione di ansia e depressione di provenienza psichiatrica, non sembrano in realtà i più adeguati per comprendere, in termini che superino il semplice piano descrittivo, i processi di adattamento alle difficoltà della vita di questi pazienti [Kazak 1994]. 1.4 Considerazioni cliniche La ricerca empirica illustra come a volte, ma non sempre, l’esperienza stressante di una malattia organica grave possa provocare un trauma psichico. La psicologia dinamica interpreta queste situazioni indicando come dinamica traumatica quando la malattia costituisce nell’esperienza e nella memoria del paziente un evento senza coerenza, continuità ed organizzazione. Influenzano l’outcome psicologico dei pazienti affetti da malattie organiche aspetti intrinseci alla malattia quali la sua gravità, le caratteristiche delle terapie ed il dolore. Hanno una rilevante influenza anche il livello di comprensione della malattia e delle cure ed il supporto socio – familiare. 13

Oltre a questi elementi è coinvolto il ruolo dei differenti stili personali di risposta alle vicissitudini della vita. La condizione di malato implica la messa in atto di meccanismi di difesa allo scopo di attenuare l’angoscia. Questi meccanismi modificano la relazione con se stessi e con gli altri e possono comprendere una certa regressione a ruoli di dipendenza dall’altro. È possibile stimare adeguato l’adattamento quando un paziente mantiene un sufficiente grado di autonomia personale ed individuale che gli consente di riprendere una vita attiva una volta guarito [Costa 1996].

1.5 Il trauma nelle malattie organiche dell’età evolutiva Nell’età evolutiva il problema della regressione si pone in maniera differente. Soprattutto nella prima infanzia gli adulti che quotidianamente sono in contatto con bambini (genitori, pediatri, educatori e specialisti della salute mentale) possono osservare come nel corso dello sviluppo vi siano dei momenti di naturale regressione di fronte alle usuali malattie tipiche di questa età. La patologia grave però, con il suo carico di angoscia di morte e la particolarità delle cure, può condizionare una regressione drammaticamente maggiore. Questa esperienza è sicuramente differente a seconda delle diverse fasi dello sviluppo. In particolare, le tappe più importanti del lento processo di separazione-individuazione dalla figura materna (seconda infanzia e passaggio dalla pre-adoloscenza all’adolescenza vera e propria) possono rappresentare momenti più difficili nel gestire le complesse dinamiche tra esigenze d’autonomia e bisogni di accudimento. Un’eccessiva regressione durante tali fasi dello sviluppo può effettivamente rappresentare un blocco nella ripresa del cammino successivo. L’esperienza clinica mostra ad esempio casi di bambini che, una volta guariti da una malattia grave, sviluppano una fobia verso la scuola, vivendo una serie di abbandoni scolastici ripetuti, interpretabile secondo la tradizione psicodinamica come espressione dell’impossibilità di uscire dalla “regressione salvifica” dei periodi precedenti, dove l’avere un adulto vicino che cura (nella maggioranza dei casi la madre) rappresentava la salvezza di fronte ad ogni possibile male. L’utilizzo esclusivo di alcuni meccanismi di difesa, quali ad esempio la razionalizzazione e l’intellettualizzazione, durante le varie fasi della malattia, possono essere indicatori predittivi di possibili problemi psichici in un momento successivo. Le eccessive difese organizzate intorno all’essere un “buon paziente”, sempre bravo e disponibile alle cure, di fatto tranquillizzano tutti gli adulti sulla tenuta emotiva dei bambini. Il

14

rischio è quello che le paure più profonde vengano sistematicamente negate per riapparire in momenti successivi come sintomi psicopatologici [Gelli 2004]. 2. TECNICHE D’INTERVENTO CON PAZIENTI ADULTI 2.1. Aspetti generali Aiutare con le parole una persona che soffre per un problema concreto, legato ad una malattia fisica, è un’attività da includere nell'elenco dei mestieri impossibili. Non a caso il numero di lavori scientifici pubblicati sulla psicoterapia con i pazienti affetti da malattie organiche è estremamente esiguo, rispetto al gran numero dedicato alla psicoterapia di pazienti con disturbi psicopatologici. Esercitare un’influenza mentale positiva sui pazienti è comunque sempre stato un obiettivo rilevante nella pratica medica. Freud ricordava che i medici esercitano costantemente la psicoterapia e che deve essere esercitata un'influenza mentale quando le condizioni dei pazienti lo giustificano [Freud 1905]. Benché molti professionisti sanitari, medici, ma anche infermieri e assistenti sociali, realizzino con la loro opera un clima favorevole a prendere in carico i bisogni complessi dei pazienti ed è di giovamento per i pazienti poter parlare di un problema personale in un clima di ascolto attento e partecipe, in questo capitolo definiamo come “psicoterapia” soltanto gli interventi condotti dagli specialisti della salute mentale, medici e psicologi abilitati alla psicoterapia. Non è disponibile una teoria sistematizzata dell'intervento psicoterapeutico in ospedale e la pratica si basa in genere su un’integrazione di tecniche diverse [Greenhill 1981]. Nella realtà clinica hanno impiego tecniche a indirizzo psicodinamico, cognitivo e comportamentale. Obiettivo di queste pagine è definire le caratteristiche peculiari delle tecniche psicoterapiche attuabili nell'ambito dell'ospedale generale e la differenza rispetto agli interventi psicoterapici tradizionali; per gli aspetti tecnici delle singole metodologie si rimanda ai riferimenti classici dei singoli orientamenti clinici [Bara 2001, Gabbard 1990, Gurman 1995]. Innanzitutto è da segnalare che anche se le sedute di psicoterapia possono tenersi in un ambulatorio, spesso la psicoterapia con pazienti ricoverati nei reparti ospedalieri si svolge al letto del paziente. Questa collocazione pone intuibili limiti rispetto a quella svolta in contesti appositamente deputati alla psicoterapia. Non è possibile svolgere sedute riservatamente, se il paziente è costretto a letto ed è in compagnia di altri ricoverati nella stessa camera, e non sempre sono disponibili soluzioni 15

alternative. Inoltre l'imprevedibilità della durata e della frequenza dei ricoveri non consente poi la regolare successione delle sedute e il tempo a disposizione per il colloquio può essere più ristretto rispetto a quello disponibile in un ambulatorio di psicoterapia, considerando anche il fatto che le priorità delle psicoterapie sono subordinate a quelle delle cure mediche. La necessità, da parte dell'èquipe curante, di compiere visite mediche o manovre infermieristiche può portare a frequenti interruzioni durante i colloqui. E’ da aggiungere che la presenza di sintomi che possono disturbare le capacità espressive o cognitive dei soggetti può rendere non applicabili le tecniche basate esclusivamente sullo scambio verbale fra terapeuta e paziente. Più in generale i rapporti di potere sono diversi rispetto a quelli che vigono nelle forme canoniche di psicoterapia. E’ fondamentale infine ricordare un’altra peculiarità dell’intervento dello specialista della salute mentale all’interno del processo assistenziale. Se generalmente in psicoterapia è il soggetto stesso a richiedere un intervento perché è consapevole del suo disagio, ha una certa capacità introspettiva e pensa che un intervento psicologico potrebbe essergli di qualche giovamento, nell’assistenza alle malattie gravi questo accade solo raramente perché il soggetto, generalmente mentalmente sano, si trova a dover fronteggiare una situazione ignota ed angosciosa e sono le sue modalità difensive o le condizioni materiali, se non adeguate, a richiedere un’attenzione. Sono quindi raramente i pazienti a richiedere un aiuto emotivo, ma la richiesta di valutazione e di terapia è formulata nella maggior parte dei casi dall'equipe curante. 2.2 Le tecniche di psicoterapia In ambito psicoterapico esistono alcune centinaia di metodi terapeutici diversi; alcune stime ne riportano addirittura oltre quattrocento [Karasu 1986; Waldinger 1990]. La stessa definizione di psicoterapia non è unanime e possono essere considerate tali persino rituali di tipo religioso e pratiche magiche di tipo tradizionale, utilizzate da varie popolazioni da centinaia di anni. Da alcuni decenni sono stati compiuti sforzi consistenti di ricerca per lo studio dell'efficacia e del processo della psicoterapia [Roth 1997]. In particolare è stato devoluto grande impegno per comprendere se, al di là delle tecniche specifiche, esistano fattori comuni, responsabili dell'efficacia o dell'azione positiva di metodi diversi. Sono stati descritti diversi fattori terapeutici attivi nel processo di psicoterapia [Balestrieri 16

1989]: -

fattori aspecifici

-

empatia

-

effetto placebo

-

persuasione

-

transfert tra terapeuta e paziente. Esistono diversi meccanismi specifici di funzionamento presenti in vario grado nelle diverse

psicoterapie, in particolare la suggestione, l’abreazione (possibilità di far defluire le emozioni), la correzione, la chiarificazione e l’interpretazione [Bibring 1954]. Il tradizionale trattamento psicoanalitico è stato caratterizzato dall'uso dell'interpretazione come strumento fondamentale, mentre nelle psicoterapie di altro indirizzo sono presenti in maggior grado altri fattori. La psicoanalisi classica è stata poco utilizzata all'interno del contesto ospedaliero per l'impossibilità di rispettare alcune regole fondamentali (frequenze più volte alla settimana, uso del lettino ed altre caratteristiche del setting). Alcuni concetti però, quali l'esistenza dell'inconscio, il transfert, le resistenze, i meccanismi di difesa sono stati poi utilizzati largamente all'interno di altre tecniche psicoterapeutiche di derivazione psicanalitica. Anche la concezione della depressione come rabbia autodiretta si dimostra una feconda chiave di lettura di manifestazioni frequenti in pazienti affetti da una malattia organica. La portata culturale fondamentale della psicoanalisi è stata poi quella della necessità di considerare sempre l'unicità del soggetto, approfondendo il significato individuale di pensieri, emozioni, fantasie e sogni, al di là di ogni tentativo di classificazione generale. Viceversa lo strumento tradizionale dell'interpretazione non si dimostra utilizzabile rispetto a pazienti sofferenti per una malattia organica perchè, al di là di miti molto radicati [Sontag 2002], una condizione di malattia grave spesso non ha misteriose radici inconsce da svelare né purtroppo ha un significato da interpretare. Le finalità di ristrutturazione profonda della personalità del paziente, peculiari della psicoanalisi, possono essere del tutto controindicate durante la fase acuta di una malattia dove tutte le difese, purché funzionali alla sopravvivenza e alla cura, devono essere mantenute e rispettate. Anche il tentativo di incoraggiare la regressione del paziente, condizione caratteristica della terapia psicoanalitica, al fine di agevolare il processo immaginativo, durante una fase così critica può essere disfunzionale rispetto al suo equilibrio psichico e al suo adattamento alla terapia. Se la psicoanalisi è inapplicabile nella sua forma classica all’interno del contesto di un ricovero ospedaliero, più di recente esistono applicazioni della consultazione psicoanalitica anche a 17

situazioni diverse dal setting tradizionale e le psicoterapie di orientamento psicoanalitico sono più adattabili al setting ospedaliero. L'obiettivo di stabilizzare le difese è perseguibile e auspicabile anche durante il corso di una malattia. Le tecniche utilizzate sono molteplici e consistono in psicoterapie a seduta singola, brevi, o di lunga durata. Il fattore temporale rimane comunque molto limitativo ed è condizionato particolarmente dalle risorse economiche e di personale (generalmente molto scarse) investite dalle istituzioni per il sostegno emotivo dei pazienti. La psicoterapia utilizzata in ospedale non può avere però le caratteristiche delle più note psicoterapie brevi, quali ad esempio quelle di Sifneos [1984] o di Davanloo [1978]. Le tecniche impiegate nel corso di una psicoterapia possono essere distinte a seconda degli obiettivi. Le tecniche direttive hanno l’obiettivo di ristrutturare pensieri, emozioni e comportamenti attraverso indicazioni dirette e tecniche di persuasione. Le tecniche di sostegno (supportive) hanno la funzione di fornire rassicurazioni e sostenere le difese adattive. E’ utilizzata la chiarificazione, ma può essere usata anche la suggestione per rinforzare la tenuta delle difese. Le tecniche esplorative hanno la funzione di incoraggiare la consapevolezza rispetto al proprio comportamento e alle proprie emozioni attraverso il rendere conscio l’inconscio e riconsiderare le fasi precoci della vita. Alcuni fattori rilevanti nella scelta delle tecniche psicoterapeutiche con un dato paziente in contesto ospedaliero sono riassunti nella Tabella 4.4. Tab. 4.4 Fattori che condizionano la scelta dell’approccio psicoterapeutico nel contesto ospedaliero

Aspetti supportivi

Tecniche esplorative

Tempo disponibile

Breve

Lungo

Livello delle funzioni cognitive

Basso

Alto

18

Capacità di relazione interpersonale

Scarsa

Adeguata

Autonomia

Bassa

Alta

Capacità di tollerare le emozioni

Bassa

Alta

Livello di motivazione

Bassa

Alta

Capacità di insight

Bassa

Alta

Capacità di fidarsi

Scarsa

Adeguata

Rete di supporto sociale

Scarsa

Adeguata

Comportamenti autolesivi

Si

No

[Modificata da Lipsitt 1999].

2.3 L’intervento in gruppo L’intervento individuale non è sempre utilizzabile per limiti di risorse e in alcuni contesti l’intervento di gruppo ha indicazioni utili. L’utilizzo dei gruppi per la gestione di patologie organiche risale ai primi del Novecento. Fra gli esempi storici è possibile citare gli interventi di Pratt, medico di Boston, su gruppi di pazienti affetti da tubercolosi; questi interventi, che oggi definiremmo psicopedagogici, univano a spiegazioni sulla patologia, consigli su stili di vita salubri, regole dietetiche e la lettura delle Sacre Scritture [Pratt 1908]. Il trattamento in gruppo è applicato da anni con pazienti sofferenti di molte diverse malattie fisiche e fra queste l'infezione da HIV, il morbo di Parkinson, la sclerosi multipla, l’asma, le 19

malattie intestinali croniche e l'artrite reumatoide. Sono trattati in gruppo anche pazienti in riabilitazione dopo un infarto del miocardio, quelli sottoposti a trapianti di organi, i pazienti in terapia per neoplasie o che hanno sequele fisiche permanenti per interventi chirurgici quali mastectomie, colostomie e amputazioni di arti. In base alla tipologia di partecipanti i gruppi possono essere omogenei, formati cioè da pazienti con uno stesso problema, oppure eterogenei, comprendendo pazienti affetti da diversi tipi di malattie. I gruppi possono essere chiusi o aperti (se accettano nuovi membri con l'andar del tempo) e possono essere composti esclusivamente da pazienti ricoverati oppure possono accettare pazienti esterni. I gruppi possono essere classificati in base al modello d'intervento in psicoeducazionali, di supporto ed espressivi. I gruppi di tipo supportivo utilizzano il gruppo per fornire un contenimento emotivo ai partecipanti ed hanno come tema centrale la discussione e la condivisione delle esperienze [Edelman 2000]. I gruppi espressivi (scrittura, art therapy, danza-terapia, musicoterapia) utilizzano canali di comunicazione non verbali ed hanno la funzione di facilitare l’espressione e la valorizzazione di sé del paziente. Gli interventi di gruppo hanno la funzione di facilitare la comunicazione fra persone e consentono di condividere, oltre alla situazione di malattia e alla sua conoscenza pratica, esperienze e risorse. Un effetto positivo delle tecniche di gruppo è di limitare la dipendenza dal terapeuta, facilitare modelli diversificati di riferimento attraverso il confronto con gli altri partecipanti. Alcuni gruppi possono essere diretti dal personale sanitario, mentre altri gruppi, nati soprattutto all’interno di associazioni di pazienti e di familiari, sono organizzati secondo il modello dell’auto aiuto senza l’intervento di figure professionali. Una tecnica d’intervento utile nei reparti ospedalieri ove si svolgono cure prolungate prevede l’uso di riunioni settimanali di gruppo, di tipo psicoeducazionale, dirette da medici e psicologi, aperti ai caregiver dei pazienti (ad esempio i genitori di pazienti con malattie croniche). Obiettivo di questi gruppi è la trasmissione di informazioni e di istruzioni pratiche utili per la gestione della malattia, degli effetti collaterali dei trattamenti e della vita in reparto. A livello psicologico le riunioni hanno l'obiettivo di evidenziare i diversi vissuti individuali, contenere le angosce e svolgere un primo screening delle condizioni di disagio. L'utilizzo di pubblicazioni informative per pazienti e familiari è una modalità d'intervento ormai molto diffusa nella clinica dell'adulto ed in pediatria, perchè consente di fornire suggerimenti e consigli pratici ed un certo supporto emotivo, attraverso il confronto con le testimonianze pubblicate [Van Dongen Melman 1997]. 20

Un ostacolo all'intervento di gruppo è la “paura della contaminazione da dolore” [Scarponi 2000] che può impedire ad alcuni la partecipazione. La condivisione di esperienze dolorose può infatti alimentare il timore che parlandone la sofferenza possa accrescersi.

2.4 Tecniche corporee Dato che nelle malattie organiche la sofferenza ha origine in una disfunzione del corpo, sono impiegate tecniche che agendo su questo mirano a portare effetti benefici sulle funzioni psichiche. Queste terapie sono basate su tecniche comportamentali quali rilassamento, biofeedback e desensibilizzazione sistematica.

2.5 Considerazioni cliniche Una caratteristica dell'intervento psicoterapeutico in ospedale è che spesso l'alleanza terapeutica si instaura rapidamente con il malato e gli interventi possono essere condotti in una singola seduta [Lipsitt 1999]. Questa apparente facilità di interazione deve essere oggetto di valutazione per verificare se sia legata alla regressione indotta dalla malattia e l’ospedalizzazione, oppure da sensazioni di solitudine che predispongono genericamente a dialogare con chiunque appaia disponibile ad ascoltare [Marmor 1979]. In ogni caso lo specialista della salute mentale che operi in un reparto ospedaliero può trovarsi a fronteggiare disturbi diversissimi per forma e gravità fra i quali manifestazioni ansiose, disturbi depressivi, sintomi deliranti, manifestazioni di conversione, e altro ancora. Oltre a far fronte a queste condizioni, l'intervento mira a comprendere i problemi inespressi dei pazienti, le relazioni del paziente e della sua famiglia con lo staff e la struttura ospedaliera. L’intervento richiede quindi tecniche diversificate con finalità ora espressive ora supportive a seconda dei sintomi, dello stile di personalità del paziente e delle sue difese. La scelta se sia necessario attuare un intervento psicoterapeutico limitato alla situazione contingente oppure è necessario un intervento più esteso e prolungato costituisce uno degli obiettivi della valutazione da parte dello specialista della salute mentale. 2.6 Interventi sui bisogni Alla luce di queste considerazioni è chiaro che l’assistenza nelle malattie organiche gravi è necessariamente un lavoro integrato nell’equipe multidisciplinare ed è un pericoloso scarico di responsabilità pensare che ai bisogni psicologici del paziente debbano provvedere esclusivamente lo 21

psicologo o lo psichiatra. Se la tradizione psicoterapeutica ha valorizzato il mondo interno rispetto alla soggettività, nella cura delle malattie organiche i bisogni pratici non devono mai essere sottovalutati e richiedono l’intervento di molti operatori e tecnici diversi. Più la patologia organica del paziente è grave, più è ampia la quantità dei suoi bisogni che richiedono un’assistenza. Soltanto un’equipe composta da operatori medici, infermieri, insegnanti, assistenti sociali e specialisti in psicologia clinica è in grado di soddisfare la varietà di bisogni di un paziente gravemente malato. Questa situazione è rappresentabile graficamente dall’avvicinamento al vertice della piramide di Maslow (vedi figura 4.1). Più è limitata l’autonomia del paziente, maggiore è la sua regressione e più è ampia l’area dei bisogni fondamentali [Maslow 1970]. Fig. 4.1 Rappresentazione dei bisogni di un paziente nella piramide di Maslow

BISOGNO DI REALIZZAZIONE DI SE ’ (Creativit à)

BISOGNO DI STIMA (Immagine di s é e degli altri, riconoscimento)

BISOGNO DI APPARTENENZA (Affetto, amore)

BISOGNO DI SICUREZZA (Ordine, struttura, benessere materiale, stabilit

à)

BISOGNI FONDAMENTALI (Aria, acqua, cibo, alimentazione, sonno, sesso, assenza di dolo

re)

[Ma slow 1970]

Un intervento terapeutico ospedaliero attento alla dimensione psicologica dovrebbe comprendere, accanto alla cura della malattia, anche : -

trattamento del dolore

-

comprensione dei bisogni manifesti ed inespressi

22

-

mantenimento di un’adeguata comunicazione secondo il livello di sviluppo e culturale del paziente.

-

contenimento emotivo dell’angoscia

-

identificazione delle eventuali condizioni psicopatologiche

-

supporto alle esigenze materiali delle famiglie. Il lavoro svolto con pazienti deve quindi essere articolato a seconda delle esigenze e delle

fasi della malattia, e con continuità durante tutto il periodo di trattamento. Eventuali linee guida possono offrire criteri generali di riferimento, ma ogni intervento richiede di essere “ritagliato su misura” sulle esigenze degli utenti [Lauria 1996]. Accanto ai bisogni dei pazienti devono essere considerati quelli dell’equipe e deve essere prestata particolare attenzione a tradurre e restituire le valutazioni fatte sul paziente ai curanti. A questo scopo possono essere utili schematizzazioni anche semplici come quelle riportate nella tabella 4.5. Tab. 4.5 Comportamenti e personalità nel corso di una malattia organica

Comportamento

Fa richieste sempre urgenti al personale

Tratto di personalità

Dipendente

Ipercontrollato

Ossessivo

Irritabile, incostante

Istrionico

Trattamento

Mostrare segnali di presa in carico, ma dare limiti, definiti con chiarezza

Condividere le informazioni; usare un approccio “scientifico”

Tranquillizzare con un atteggiamento “professionale”

Evitare eccessive rassicurazioni; Rifiuta ogni aiuto

Masochista

riconoscere la sofferenza sperimentata dal paziente

Sospettoso, diffidente

Paranoide

Non discutere o negare informazioni.

23

Riconoscere quanto percepito dal paziente.

Ha esagerati bisogni

Narcistico

Rispettare il ruolo di “esperto” del paziente

Accettare la poca socievolezza, ma Isolamento

Schizoide

impedire un ritiro completo

[Modificata da Lipsitt 1999]

2.7 Quale formazione? Rimane aperto il problema della formazione alla psicoterapia in ambito ospedaliero. Il consulente per la salute mentale dovrebbe saper svolgere interventi che vanno dalla psicoterapia a seduta singola, a interventi sulla crisi, alla psicoterapia a lungo termine nel caso di prese in carico post-dimissione in contesti ambulatoriali. Il clinico deve conoscere a fondo gli elementi essenziali e avere dimestichezza nell'applicazione clinica delle tecniche fondamentali dei diversi orientamenti sia psicodinamici sia cognitivi sia comportamentali. Oltre a questo, anche se lo specialista può essere di formazione non medica, deve essere formato a lavorare in collaborazione con l’equipe medica ed essere in grado di comprendere le problematiche organiche del paziente, la natura delle cure in atto e gli eventuali sintomi psichici legati ad aspetti biologici della malattia. Qualsiasi sia la provenienza degli operatori (medici e psicologi) dovrebbero essere identici gli obiettivi della consultazione svolta nei reparti (vedi Tabella 4.6). Tab. 4.6 Obiettivi della consultazione dello specialista della salute mentale con pazienti ricoverati per una malattia organica

-

Identificare i problemi più rilevanti segnalati dai curanti nella richiesta di consultazione

-

Stabilire un’alleanza di lavoro con il paziente

-

Raccogliere l’anamnesi

-

Formulare una diagnosi differenziale

-

Valutare personalità, difese e coping

-

Comprendere, chiarificare, informare, comunicare ed educare.

24

-

Comprendere in termini dinamici la situazione del paziente

-

Rinforzare l’autostima del paziente

-

Gratificare selettivamente i desideri transferali del paziente

-

Attenuare l’intensità delle emozioni dolorose

-

Rassicurare circa la “normalità” delle emozioni provate

-

Rinforzare la speranza di guarigione

-

Aiutare il paziente ad adattarsi al ruolo di malato e a modificare la rappresentazione di sé

-

Sostenere la capacità di sopportare la dipendenza, l’isolamento, la demoralizzazione, i pensieri intrusivi, i disturbi del sonno e le altre difficoltà legate alla malattia e all’ospedalizzazione

-

Valutare le risorse della famiglia e chiarire ai caregiver le problematiche del paziente

-

Fornire aiuto ai familiari

-

Proporre un piano di gestione pratica

-

Valutare la necessità di una terapia psicofarmacologica

-

Restituire un quadro della situazione all’equipe curante

-

Riportare nella cartella clinica una valutazione della situazione del paziente

-

Aiutare l’equipe a riconoscere e considerare gli aspetti psicologici del paziente e del nucleo familiare nel progetto di cura del paziente

[Modificata da Lipsitt 1999]

Come abbiamo ricordato, l’orientamento in area medica e psicologica degli ultimi anni verso modelli d’intervento basati sull’evidenza e la richiesta, da parte delle istituzioni sanitarie, di prestazioni inseribili in protocolli sistematici, hanno portato alla necessità di ridefinire i modelli, teorie e tecniche anche dell’intervento psicologico nell’ambito delle malattie organiche. Il problema in termini culturali più approfonditi non riguarda il decidere se sia idonea all’impiego in ospedale questa o quella tecnica psicoterapeutica, ma deve mirare a comprendere, in un lavoro integrato, quali sono le indicazioni e le controindicazioni di ogni singola tecnica e in che momento, con un certo paziente, sia opportuno utilizzarla. Alcune scuole pubbliche, come quella di psicologia clinica, sono per tradizione orientate alla formazione di specialisti con questa capacità. Per come è oggi la situazione della formazione alla psicoterapia, le scuola private propongono modelli fortemente orientati alla pratica privata o in contesti di salute mentale diversi dalla pratica di liaison nel contesto ospedaliero. 3. TECNICHE D’INTERVENTO CON PAZIENTI IN ETA’ EVOLUTIVA

Una storia come tante… 25

L. è una bambina di 6 anni al suo secondo ricovero in un reparto di oncologia pediatrica. Un mese e mezzo prima le è stato diagnosticata una neoplasia maligna ed è stato avviato un programma di chemioterapia. I genitori, dopo aver manifestato la preoccupazione per lo “strano comportamento” della figlia durante il periodo di permanenza a casa dopo il primo ciclo di chemioterapia, sono stati invitati da uno dei medici del reparto a prendere contatti con lo specialista in psicologia clinica Durante il colloquio la paziente è descritta dai suoi genitori come “una figlia sempre giudiziosa e assennata”; è primogenita e frequenta la prima elementare. La famiglia, composta dal padre operaio e dalla madre insegnante elementare, vive in un piccolo centro del Sud Italia; a casa, accuditi dai nonni, restano i due fratellini di 4 anni e di un anno e mezzo. La malattia è esordita all’improvviso, diagnosticata prima dal pediatra come una faringotonsillite e trattata con un antibiotico. Dopo una settimana senza miglioramento dei sintomi la piccola è stata prima ricoverata in un reparto di pediatria vicino a casa e poi inviata presso il reparto di oncologia pediatrica di un’altra regione per avviare un programma di chemioterapia. Dal momento del ricovero la bambina inizia a manifestare grande irrequietezza, diventando molto esigente nei confronti della madre e chiedendo continuamente giocattoli nuovi per passare il tempo; una volta ottenuto quello che ha chiesto, nel giro di pochi minuti si annoia, abbandona i giochi che ormai non le interessano e ne chiede altri. Prima di rientrare in ospedale per il secondo ricovero la bambina manifesta nausea e un episodio di vomito, non giustificato dagli effetti della precedente chemioterapia e diagnosticato dagli oncologi come emesi anticipatoria. La preoccupazione, soprattutto della madre è che la bambina stia vivendo un grave disagio psicologico, “sembra depressa: non pare più la mia bambina”. Consultati dallo specialista, gli oncologi del reparto descrivono la paziente come una bambina molto bella, piuttosto chiusa e taciturna, ma che si adatta piuttosto facilmente, “senza dir nulla” alle manovre mediche e infermieristiche necessarie alle terapie. Durante il colloquio lo psicologo clinico chiede ai genitori se ci siano stati altri momenti difficili nel passato e se mai abbiano avuto a che fare con malattie gravi. Il padre racconta che il proprio padre e altri suoi parenti sono morti per tumore (il padre, dopo un anno di cure nello stesso istituto oncologico dove ora è curata la bambina, per una neoplasia polmonare a 55 anni). Anche la madre ha perso entrambi i genitori per una neoplasia; il padre per un microcitoma polmonare, quando era bambina, la madre invece pochi anni fa per un carcinoma della mammella. L’intera storia familiare pare costellata di lutti ed è caratterizzata dall’idea che “di fronte a queste cose si può provare a curare ma in realtà non c’è nulla da fare”. I genitori appaiono molto preoccupati per la bambina e si chiedono se c’è un modo perché possa soffrire il meno possibile. La madre da vari giorni riesce a dormire soltanto due o tre ore per notte e chiede di essere aiutata con “qualcosa che aiuti a staccare un po’ da questo incubo”. La consultazione prosegue il giorno dopo con un colloquio con la bambina. E’ piuttosto alta per la sua età, ha lunghi capelli neri, grandi occhi scuri ed è molto magra. Rimane a letto tutto il tempo e si rifiuta di uscire dalla camera anche per andare a giocare nella grande sala - giochi del reparto. Dal colloquio risulta che non ha portato in ospedale i libri di scuola e che fino ad ora nessun contatto è stato preso dai genitori con gli insegnanti per informarli della situazione e chiedere indicazioni per far continuare gli studi anche durante il ricovero. Durante il dialogo la bambina gradualmente s’interessa ai pennarelli che il suo interlocutore ha portato con sé ed accetta di disegnare prima un albero, poi una casa e infine la sua famiglia. Dal colloquio non si rilevano condizioni psicopatologiche, ma il clinico evidenzia il quadro di una profonda solitudine nonostante la vicinanza fisica dei suoi genitori, costantemente presenti in reparto, per la mancanza di spazi e momenti in cui esprimere i pensieri su quanto le sta capitando. Nel colloquio con i genitori lo psicologo clinico sottolinea le reali possibilità della terapia di portare alla guarigione (i medici curanti si dicono ottimisti) e l’opportunità di mantenere il più possibile le consuete regole e le stesse abitudini di sempre come dire di no “quando fa i capricci e vuole tutto subito”. Di fronte alla spiegazione che è possibile continuare a dare dei limiti alla bambina anche se malata, i genitori si guardano sorridendo e dicono “in questi ultimi tempi la sentivamo fragilissima, come di vetro, e volevamo evitarle ogni problema, ma così ci accorgiamo che è soltanto più in ansia”. Dicono di aver pensato che anche la scuola non deve perdere valore, altrimenti il rischio è di lasciare alla bambina troppo tempo libero in cui annoiarsi e angosciarsi. Durante il ricovero successivo la bambina chiede spiegazioni ai medici ed alle infermiere su quello che devono farle ogni volta che è visitata o medicata. Ha acquistato più confidenza anche con le maestre e le animatrici ed ha con sé il materiale per i compiti. Pare meno angosciata ed inizia a incuriosirsi alle attività della sala - giochi anche durante la somministrazione della chemioterapia; la nausea anticipatoria questa volta non si è presentata. Un intervento simile è realizzato in diversi ambiti ospedalieri. Ma sono utili questi interventi? E se lo sono, quali sono i meccanismi che li rendono efficaci?

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3.1 Il disagio nella malattia e le possibilità d’intervento Un campo che ha avuto tradizionalmente un’evoluzione autonoma, un proprio contesto operativo ed un animato dibattito culturale riguarda l’età evolutiva. La considerazione verso la sofferenza del bambino in caso di una malattia organica è stata crescente nel corso del tempo e numerose malattie organiche gravi dell’infanzia negli ultimi anni sono divenute oggetto di trattamenti integrati multidisciplinari che ne hanno modificato la storia naturale, migliorando la prognosi o rallentando la rapidità dell’evoluzione. Fra queste condizioni patologiche ricordiamo le cardiopatie, il diabete, le distrofie muscolari, l’epilessia, le malformazioni urogenitali, le malattie ematologiche, le nefropatie, le neoplasie, le patologie traumatiche spinali, la sindrome da immunodeficienza acquisita, la ustioni gravi ed altre ancora. I successi delle cure pongono il problema della qualità della vita e del benessere psicologico in questo maggior tempo lasciato dalla malattia. Da circa trent’anni è avvenuta un’evoluzione della pediatria ospedaliera, che si è trasformata in una clinica sempre più specialistica, con la costituzione di centri di riferimento specifici per patologia. L’attenzione rivolta agli aspetti psicologici del bambino malato ha consentito gradualmente di realizzare le cure all’interno di ambiti ospedalieri sensibilizzati alle esigenze specifiche del bambino e dotati di risorse adeguate come spazi di gioco, servizi scolastici, letti per la permanenza notturna dei genitori ed altro ancora. Gradualmente si sono diffusi negli ospedali pediatrici interventi psicologici di consultazione con i pazienti e con i loro familiari, che sono stati svolti da operatori con molteplici formazioni, provenienze e modelli teorici.

3.2 L’oggetto della consultazione La consultazione è richiesta direttamente dai genitori o consigliata dai curanti, in seguito a problemi evidenziati durante la malattia. Indipendentemente dai modelli teorici di riferimento, nel lavoro clinico si osserva come l’impatto con la malattia porti ad un cambiamento del comportamento del bambino e della famiglia. Nella famiglia le risposte alla malattia possono comprendere un’iniziale fase di stupore e incredulità, una transitoria negazione della malattia e una iperprotezione ansiosa. Risposte diverse possono essere messe in atto nel tempo durante le varie fasi dell’adattamento alla malattia. Le reazioni alla malattia grave da parte del bambino dipendono, prima di tutto, dalla sua età e dalla comprensione che ha della propria condizione.

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In generale, secondo l’esperienza clinica, la malattia é percepita raramente come tale prima dei tre anni. Il bambino può presentare manifestazioni correlate all’intrusività ed al dolore per le manovre mediche e ad eventuali separazioni dalla figura materna. E’ stata descritta la “sindrome del bambino vulnerabile" [Green 1964] nei bambini che durante il primo anno di vita hanno attraversato un periodo critico per la sopravvivenza. Questa sindrome é caratterizzata da una intensa e persistente fissazione alla madre, con marcati tratti di passività. Dai 3 - 4 anni, invece, la prima reazione è caratterizzata da una regressione più o meno profonda [Marcelli 1996], ossia un ritorno del soggetto a fasi superate del suo sviluppo (stati libidici, relazioni oggettuali, identificazioni, ecc..). Il bambino, infatti, chiede di essere accudito come fosse più piccolo della sua età: vuole essere tenuto in braccio, non può essere lasciato solo e, in alcuni casi, può perdere l’uso di abilità da poco conquistate come la parola, il movimento la capacità di mangiare da solo o di occuparsi dell’igiene personale. Questa fase è, nella maggioranza dei casi, transitoria ed appare quindi una tappa obbligata per il successivo sviluppo di modalità di comportamento più mature. In alcuni casi però, i comportamenti regressivi possono diventare più persistenti e, di conseguenza, si può creare una situazione francamente patologica [Hersh 1997]. Marcelli [1996] individua tre modalità di reazione tipiche alla malattia cronica nei bambini di questa età: l’opposizione, che si presenta con un rifiuto delle limitazioni imposte dalla malattia e dalle cure, e attraverso crisi di agitazione, collera ed aggressività; la sottomissione, che è caratterizzata dalla passività e dall’accettazione della dipendenza; la collaborazione, infine, che rappresenta la modalità di reazione più favorevole allo svolgimento delle cure ed è sostenuta dalla concessione di autonomia al bambino. In età scolare, l’impatto della malattia può far emergere paure simili a quelle mostrate dai bambini più piccoli: paura della separazione, timore per la presenza di estranei, paura di abbandono e sentimenti di colpa. Inoltre a quest’età i bambini cominciano a porsi il problema della propria morte. A queste situazioni reagiscono in diversi modi: con acuta ansia o panico, con un’iniziale negazione della situazione, con disturbi psicosomatici, incubi, regressione oppure con un comportamento d’accettazione [Hersh 1997]. La malattia può diventare inoltre una chiave di spiegazione chiamata in causa da genitori e clinici per giustificare qualsiasi condotta del bambino e che rischia di essere utilizzata come una modalità di razionalizzazione che ostacola ogni altra modalità di approccio [Marcelli 1996]. Per far fronte a questi disagi ci si interroga se sia più opportuno lavorare soprattutto con i genitori, con il personale medico e paramedico, oppure centrare l’intervento sul piccolo paziente, e considerare in secondo ordine anche i genitori ed il personale sanitario.

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Nella pratica clinica, una tecnica frequentemente utilizzata per l’assistenza ai bambini con malattie organiche è la consultazione con i genitori [Clerici 2003a]. 3.3 Le teorie del processo di consultazione Nel tempo numerosi autori si sono dedicati al problema della consultazione con giovani pazienti malati ed i loro genitori. Già alla fine dell’Ottocento, Lightner Witmer, presso l’università di Pennsylvania, si era occupato di bambini con problemi di adattamento, anche su base organica [Reisman 1999]. Selma Freiberg [1999] negli anni Sessanta sviluppò, a partire dalla sua esperienza di lavoro con bambini ciechi dalla nascita e le loro madri, un’originale metodologia di consultazione basata sull’incontro diretto con il bambino. L’esperienza di pediatra di Winnicott ha evidenziato il ruolo della relazione con i genitori nel processo di cura dei giovani pazienti e gli studi di Daniel Stern [1971] hanno aperto la strada per considerare l’interazione madre - bambino come oggetto specifico dell’osservazione clinica e della ricerca. Progressivamente la tecnica della consultazione è stata formalizzata da vari autori, fra i quali Palacio Espasa e Manzano, che definiscono come “intervento breve genitore – bambino” una procedura che non supera la durata di dieci sedute e che ha come oggetto le interazioni fra genitori e bambini [Palacio Espasa 1982; Manzano 2001]. Dalla rassegna della letteratura ed alla luce dell’esperienza clinica emerge che l’intervento di consultazione è oggi estremamente variegato per numero di sedute, profondità di lavoro e durata. Indipendentemente dagli autori, la consultazione prevede generalmente, in vario ordine, una fase di raccolta anamnestica, una di colloquio con i genitori, una di valutazione del bambino, con o senza la partecipazione dei genitori, ed una fase di restituzione. La consultazione si applica prevalentemente alla prima e seconda infanzia (da 0 a 6 anni), anche se con opportuni adattamenti è applicabile fino alla preadolescenza. Elemento comune a tutte le metodiche di consultazione è che l’intervento riguarda la triade genitori – bambino – malattia e non soltanto il bambino. Ciò si basa da un lato sulla considerazione del fatto che nei primi anni di vita il bambino non può essere considerato isolatamente rispetto ai suoi genitori, che costituiscono gli elementi essenziali delle sue relazioni, e dall’altro sull’evidenza della difficoltà del bambino di esprimere il proprio disagio emotivo con modalità verbali comprensibili dall’adulto. Riguardo a quest’ultimo aspetto è possibile qui solo ricordare come esista in ambito psicoanalitico una lunga tradizione di tecniche di approccio narrativo al bambino malato [Trombini 1999; Vallino 1999]. 29

Secondo la letteratura proveniente da questa tradizione, la consultazione agirebbe su elementi della psiche del bambino esistenti nell’interazione reciproca fra lui ed i genitori e nella sua rappresentazione nella mente dei genitori. Questa azione sarebbe fondata sull’ipotesi di “un’area di mutualità psichica” fra genitore e bambino [Kreisler 1981], costituita attraverso meccanismi d’identificazione e proiezione. L’intervento agirebbe in un’area preconscia, che ha affinità con l’area intermedia descritta da Winnicott [1975], ove può verificarsi un’esperienza che favorisce il cambiamento rispetto alla tendenza ripetitiva del problema [Colucci 1992]. Fra le teorie di psicoanalisi applicata, in ambito istituzionale ha avuto particolare rilievo il modello di contenimento di Bion [1972]. La malattia grave viene considerata un evento reale e catastrofico che induce nella coppia dei genitori e nei piccoli pazienti una crisi che provoca l’irrompere di potenti angosce primitive, favorita dalla difficoltà delle relazioni [Di Cagno 1992]. Il venir meno della possibilità di condividere le esperienze e di poterle pensare ed utilizzare a fini evolutivi provoca un’angoscia paralizzante, confusione (“elementi beta”) e messa in atto di meccanismi di difesa primari, quali la scissione, la proiezione e la negazione. Gli interventi ispirati a questo modello mirano a ridurre l’isolamento dei pazienti, facendo loro prendere coscienza e sperimentare che l’angoscia e l’aggressività possono essere accettate e contenute in una relazione e che queste emozioni sono rese meno pericolose dalla comprensione e dall’empatia. Anche i concetti di holding di Winnicott [1965] e quello di empatia di Kouth [1971] sono rilevanti nella consultazione, dato che, se è vero che è il terapeuta (“contenitore”) che pensa, è vero anche che il genitore – paziente è portato in modo condiviso a stabilire un pensiero che dia rappresentazioni ai propri affetti. Recentemente su questo tema sono stati proposti anche i concetti di mentalizzazione [Fonagy 2001] e di metacognizione [Bara, 2001]. E’ un fattore comune a tutti gli interventi di consultazione il sensibilizzare i genitori a porsi come osservatori e come parte attiva nel processo di cambiamento; lo psicologo clinico opera quindi non come tecnico che ripara un problema, ma come consulente che aiuta i genitori a svolgere la loro funzione. Se un intervento di psicoterapia sul paziente sospende, almeno in quel momento, l’intervento attivo dei genitori sul problema, la consultazione rinforza invece il loro ruolo, agendo sugli aspetti problematici che ostacolavano il loro intervento [Winnicott 1975].

3.4 Fattori comuni nel processo della consultazione Nella consultazione sono generalmente svolti alcuni colloqui con la presenza contemporanea dei genitori e del paziente ed altri con i genitori e il paziente separatamente. Non viene formulato 30

spesso un contratto terapeutico con la definizione di precise regole di setting proprio perché ci si trova in una situazione di consultazione. Il momento diagnostico può quindi non essere nettamente distinto da quello terapeutico. Primo obiettivo dell’intervento diretto sul paziente è di stabilire una possibilità di comunicazione; gli interventi del clinico sono rivolti quindi ad offrire una situazione ed un’atmosfera adatta a favorire l’espressione dei propri vissuti e delle proprie fantasie da parte del bambino. E’ noto come prima dei 5-6 anni le domande poste direttamente al bambino possano avere l’effetto d’inibire anziché facilitare il dialogo. Possono quindi essere utilizzate modalità di comunicazione che integrano o sostituiscono il colloquio. Fra queste ricordiamo il gioco, il dialogo immaginario e il disegno. A seconda delle diverse tipologie di consultazione possono essere utilizzati anche strumenti testali prevalentemente per la valutazione di condizioni psicopatologiche, degli stili di coping e della qualità della vita. La consultazione in una situazione di malattia organica non è un evento puntiforme, ma un processo che si articola nelle varie fasi dell’evoluzione della malattia e delle cure che vanno dall’esordio dei primi sintomi alla guarigione e al follow up o alla morte del paziente. La consultazione corrisponde ai requisiti di ciò che è realisticamente attuabile in ospedale, dove interventi estesi come le psicoterapie psicoanalitiche hanno difficoltà di applicazione per motivi economici e di disponibilità di risorse. Uno dei fattori limitativi principali consiste nel fatto che il contatto è limitato generalmente al periodo di degenza, oppure, se è possibile una prosecuzione dell’intervento psicologico ambulatoriale, questa è condizionata dalla distanza del luogo di residenza del paziente. Molti interventi devono essere quindi condotti considerando dei limiti temporali ristretti e a volte debbono essere contenuti in un singolo incontro e quindi pensati con modalità assolutamente peculiari, tentando di definire le priorità degli obiettivi che si perseguono. Occorre poi ricordare che compito del terapeuta che opera in ospedale è l’intervento su obiettivi a breve termine, centrati sulle reazioni del bambino alla malattia ed alle sue cure. Ogni intervento che ha come scopo di ripristinare il normale sviluppo emotivo non necessariamente può essere attuato, o è opportuno che sia attuato, nell’ospedale dove si è curata la malattia nella sua fase acuta [Judd 1994]. L’obiettivo della consultazione rispetto ai genitori riguarda l’aiuto a mantenere efficacemente il proprio ruolo e la capacità di pensare, preservandoli dai “disturbi” provocati

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dall’ospedalizzazione e dall’impatto con la malattia, piuttosto che la cura di franche condizioni psicopatologiche.

3.5 L’esperienza clinica Numerose ricerche hanno descritto l’incidenza di condizioni di sofferenza emotiva e di psicopatologia nei pazienti affetti da diverse patologie gravi dell’età pediatrica. Appare tuttavia evidente che il paradigma psicopatologico non è in grado di spiegare le modalità e la complessità dell’adattamento psicologico alla malattia. I bambini malati generalmente sono psichicamente sani e quindi il lavoro clinico richiede modalità di consultazione e di lavoro con la famiglia che tengano conto di ciò. In queste situazioni è la realtà ad essere “anomala” e possono essere invece problematiche le modalità che i pazienti e le famiglie tentano di mettere in atto per fronteggiare la difficoltà. Sono frequenti infatti esperienze di dolore e di angoscia di morte che portano ad attivarsi processi difensivi molto intensi e primitivi. I genitori del paziente sono di fondamentale importanza affinché questi processi difensivi primitivi non portino ad una frammentazione traumatica del funzionamento mentale, come già descritto settant’anni fa da Ferenczi [1932]. L’intervento di consultazione è richiesto spesso in situazioni di crisi durante le quali sono messi alla prova i meccanismi difensivi preesistenti e ciò pone la necessità (ed anche la possibilità) di un cambiamento degli assetti esistenti [Colucci 1992]. Sul piano clinico ciò si manifesta prevalentemente sotto forma di segni comportamentali che possono allarmare i genitori o i curanti. I possibili comportamenti variano dai più semplici, quali ad esempio la difficoltà di stare da soli in determinati momenti del giorno (soprattutto durante il sonno), fino ad atteggiamenti che si possono strutturare come veri e propri sintomi patologici, di carattere fobico o depressivo. Altri bambini possono mostrare delle reazioni di confusione e disorganizzazione del loro comportamento, che potrebbero anche segnalare un disturbo psicopatologico pregresso [Albasi 2003]. L’osservazione diretta dei bambini, sia in ambito clinico che in ambito naturalistico, indipendentemente dal modello teorico adottato, mostra come il mondo infantile ruoti attorno ai genitori. I bambini piccoli possono essere portati (dal loro sistema cognitivo e affettivo e dal loro rapporto filiale di dipendenza) a considerare responsabili i loro genitori degli eventi significativi e importanti della loro esistenza, in particolar modo quando le esperienze sono cariche di dolore e confusione. 32

Il confronto delle diverse metodologie di consultazione con i genitori di pazienti affetti da malattie organiche gravi in età pediatrica evidenzia come questa procedura faccia coincidere in un solo intervento (o in pochi interventi brevi) aspetti diagnostici ed aspetti terapeutici. L’esperienza clinica definisce come obiettivi dell’intervento di consultazione: -

la comprensione dei bisogni manifesti ed inespressi

-

l’identificazione in fase precoce di eventuali condizioni psicopatologiche

-

il supporto alle situazioni di disagio emotivo

-

il sostegno alla continuità della comunicazione fra genitori e pazienti e con l’équipe. Alcuni aspetti della consultazione psicologica in pediatria devono essere oggetto di ulteriori

studi; in particolare recenti revisioni della letteratura empirica evidenziano la scarsità di studi sull’efficacia di questi interventi psicologici [Fonagy 2003]. Occorrono quindi ulteriori sforzi d’indagine per produrre ricerche basate sull’evidenza che spieghino in che misura sia efficace la consultazione e attraverso quali fattori specifici. In particolare è possibile formulare l’ipotesi che siano elementi attivi nella consultazione con i genitori di bambini affetti da malattie organiche gravi i seguenti aspetti: -

contenimento delle ansie

-

espressione e contenimento degli aspetti emotivi ambivalenti evocati dalla malattia organica di un figlio

-

comprensione dei meccanismi d’induzione reciproca dei comportamenti e di casualità circolare nelle relazioni fra genitori e figli [Mastella 1999]

-

accoglienza e conferimento di un senso ai comportamenti del bambino, come parte del processo della malattia e della cura

-

trasformazione da prospettiva statica a dinamica della lettura della situazione da parte dei genitori

-

rimessa in funzione della progettualità nel futuro, paralizzata dalla malattia. Attraverso questi passaggi, l’esperienza di malattia può quindi diventare per il paziente ed i

suoi genitori parte della propria storia, attenuando il suo potenziale scompensante ed evolvendo in momento di organizzazione del senso della propria vita. Resta infine da considerare che durante le cure per una malattia organica gli obiettivi principali dell’intervento psicologico sono il supporto emotivo rispetto alla situazione angosciosa e l’adattamento delle difese per consentire il mantenimento della compliance. L’area dei bisogni successivi alla fine delle cure resta spesso al di fuori dell’area dell’intervento clinico ordinario [Clerici 2003b].

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L’esperienza clinica suggerisce come i problemi di adattamento psicologico non si verifichino soltanto nella fase acuta della malattia, ma spesso alla fine delle cure, quando avviene un riadattamento dei meccanismi difensivi. E’ quindi necessario che la valutazione psicologica non consideri soltanto le condizioni psicopatologiche o la compliance (per l’irrinunciabile esigenza che il paziente si adatti alle cure), ma le strategie e gli assetti difensivi messi in atto nella fase acuta che consentano di formulare previsioni sull’adattamento a lungo termine. 3.6 La consultazione diretta con il bambino malato Una modalità di lavoro che non deve essere alternativa, ma complementare, prevede che l’assistenza psicologica riguardi direttamente i bambini malati, come modalità prevalente dell’intervento. L’esperienza di una sofferenza del corpo e il rischio di poter morire, in una fase evolutiva in cui, secondo le teorie dinamiche, il registro infantile del vissuto di una propria onnipotenza (con l’idea della propria invincibilità sui mali del mondo) è ancora così determinante, rappresenta un’esperienza che può essere travolgente [Ciccone 1991]. Le possibilità di manifestare l’angoscia possono però essere profondamente diverse da paziente a paziente. Alcune osservazioni della teoria dell’attaccamento [Bowlby 1969; 1973; 1980] ci suggeriscono che i bambini possono anche mostrare delle differenze tipiche legate a diversi livelli di sicurezza affettiva nel rispondere a situazioni di grande incertezza e pericolo. Alcuni bambini tendono a minimizzare la loro paura e la loro sofferenza riguardo la situazione e quindi a sembrare “più grandi” agli occhi dei loro genitori, più autonomi e meno bisognosi del loro sostegno che anzi possono anche rifiutare. Alla luce dei riferimenti della teoria dell’attaccamento si starebbero comportando in modo evitante e starebbero dissociando il loro bisogno di contatto e la loro paura di non potersi fidare per trovare aiuto nel dare un significato a quel che succede. L’esperienza clinica mostra come altri bambini possono, all’opposto, allarmarsi molto e non riuscire a staccarsi mai dai loro genitori, perdendo l’autonomia già conquistata, ma non sembrano disponibili a farsi calmare nemmeno dalla presenza dei loro genitori. Si comporterebbero quindi in modo resistente e ambivalente per cercare di attirare l’attenzione dei genitori, nella cui disponibilità non riescono a riporre la loro fiducia; si troverebbero quindi a dissociare i sentimenti rabbiosi nutriti nei loro confronti.

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Ogni individuo di ogni età utilizza quindi differenti stili personali e temperamenti di base nel far fronte alle vicissitudini della vita [Odero, 2005; Lingardi 2002]. La valutazione dei meccanismi di difesa che i bambini o gli adolescenti utilizzano per far fronte alle vicende della malattia ed all’angoscia di morte riguarda una parte del lavoro di assistenza psicologica svolto in ambito pediatrico. Nell’esperienza clinica si può notare come l’utilizzazione massiccia di alcuni meccanismi di difesa durante le cure di una malattia grave risulta in alcuni casi predittiva di possibili problemi psichici al termine della malattia [Clerici 2004c]. I bambini, specie se in fase di latenza, devono poter mantenere una sorta di doppio binario nella comprensione della propria malattia [Gelli 2004]. Da una parte è necessario, per non essere travolti dall’angoscia, che organizzino le loro difese allontanando intenzionalmente dal campo della coscienza le preoccupazioni, le paure ed il dolore. D’altra parte hanno però la necessità di non essere soli emotivamente a far fronte alle angosce, e di sentire che l’altro (i genitori e il personale curante) può comprendere i loro stati d’animo senza essere travolto a sua volta dalla paura. Le difese organizzate intorno all’essere sempre un “buon paziente” bravo e disponibile alle cure, che di fatto tranquillizzano tutti gli adulti, possono essere interpretate in questa chiave secondo una prospettiva dinamica. Se l’angoscia è sistematicamente negata, esiste la possibilità che riappaia nuovamente in periodi successivi come tale oppure sotto forma di un sintomo psicopatologico [Raimbault, 1978]. Un altro elemento di difficoltà deve essere considerato. In ospedale il bambino si trova ad affrontare un dolore fisico, concreto, reale ed è in una dimensione complessa dove gli usuali riferimenti sono cambiati. Spesso sono soltanto le parole degli adulti e dei medici, che possono essere difficili da comprendere, a fornire al bambino una spiegazione di quello che sta succedendo. Già da lungo tempo la psicologia dinamica ha descritto il rischio che il bambino elabori un’interpretazione della propria malattia in termini di mancanza, colpevolezza o punizione [Massaglia 2002; Buckman 2003]. L’incontro con un terapeuta dell’età evolutiva può essere necessaria per attribuire un senso a ciò che sta succedendo. Il lavoro del terapeuta dell’età evolutiva in ospedale è agevolato dal fatto che, nella maggioranza dei casi, si trova di fronte a bambini con funzionamento premorboso adeguato, che presentano patologie psicologiche di tipo reattivo; sono perciò bambini che si avvalgono di un io

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sufficientemente integrato e che utilizzano meccanismi difensivi di tipo normale o nevrotico [Kernberg 2001]. Nel modello d’intervento condotto direttamente con il bambino, il paziente è considerato l’interlocutore privilegiato e l’attenzione e la comunicazione dell’operatore sono rivolte specificamente a lui [Massaglia 1998]. Questo modo di procedere inverte lo schema generale proposto dal paradigma medico nel quale ci si rivolge primariamente agli adulti, ai genitori, spesso non prestando attenzione al fatto che il bambino sia presente. Dal punto di vista concreto, per rendere possibile una comunicazione con i bambini più piccoli, è possibile ricorrere a tecniche che possano integrare o sostituire il colloquio. Nella Tabella 4.7 sono riassunte le tecniche indicate nelle diverse fasce di età.

Tabella 4.7 Tecniche di comunicazione con il bambino

Giochi

Dialoghi immaginari

Disegno

Dialoghi di tipo adulto

Fino a 3 anni

Da 3 a 7 anni

Da 7 a 11 anni

Da 11 a 13 anni

Oltre i 13 anni

+++

++

+

_

_

++

+++

+

_

_

+

++

+++

_

_

_

_

+

++

+++

[Modificata da Marcelli 1996]

Il gioco è in generale il mezzo elettivo per comunicare con il bambino fino a quando non sono possibili dialoghi di tipo adulto. Per un bambino malato, in particolare, giocare e disegnare sono attività che rivestono un’importanza fondamentale poiché rappresentano modalità di 36

attraversare l’esperienza della malattia senza soccombere e senza essere immersi in una situazione di angosciosa incomunicabilità. Secondo le interpretazioni di tradizione psicoanalitica la capacità di giocare e disegnare diventa, dunque, un fondamentale indicatore del grado di sofferenza psichica del bambino [Gamba 1998]. 4. PROSPETTIVE MULTIMODALI D’INTERVENTO 4.1 Tecniche mutuate dagli interventi sul trauma La pratica dell’intervento psicologico in ospedale è di fatto un compromesso fra l’applicazione di modelli ideali, in cui ogni paziente dovrebbe ricevere assistenza quando è necessario e nel modo più efficace, e il confronto con i limiti strutturali ed economici che limitano le possibilità d’intervento. Come è stato detto, le tecniche psicoterapeutiche tradizionali, che nel medio e lungo periodo potrebbero garantire un approfondito sostegno al paziente, non sono spesso applicabili nella loro forma canonica, oltre che per il costo eccessivo, anche per l’impossibilità pratica di applicare un’ulteriore impegnativa terapia a pazienti che già si trovano sottoposti a cure mediche intensive. Anche se un unico modello d’intervento psicologico manca ancora (e forse non sarà mai realizzabile), il filone delle ricerche sul trauma offre una chiave di lettura per comprendere come coordinare le diverse tecniche d’intervento disponibili a favore dei pazienti con una patologia organica ricoverati in ospedale. Il modello proposto in queste pagine è mutuato nelle linee generali da quello proposto per il trattamento delle sindromi di risposta allo stress [Horowitz 2004] e propone un’integrazione degli interventi. Il tentativo di inquadrare in un’unica cornice di riferimento anche interventi e tecniche che coinvolgono operatori professionali diversi, non esclusivamente dell’area della salute mentale, trae origine anche dalle proposte formulate in anni recenti per l’intervento nei disturbi mentali dell’area evolutiva e che vedono coinvolti in un progetto di terapia coerente aspetti un tempo ritenuti distinti quali

l’aiuto

pratico,

l’informazione,

il

consiglio,

il

sostegno

emotivo,

l’intervento

psicofarmacologico, le tecniche cognitivo comportamentali, l’interpretazione e l’esperienza correttiva dell’attaccamento a lungo termine [Maldonado 2005]. Fig. 4.2 Continuum degli Interventi L’approccio multimodale propone un’integrazione di diversi tipi di interventi dall’aiuto pratico a interventi di tipo psicodinamico in un progetto di trattamento coerente.

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[Modificata da Maldonado 2005]

La sofferenza psichica e il disagio emotivo dei pazienti affetti da malattie organiche gravi sono in parte analoghe a quelle che si verificano in risposta a condizioni di stress traumatico, anche se non sempre nel caso di malattie organiche è possibile o opportuno formulare una diagnosi di PTSD. Uno sforzo centrale per i clinici che operano in ospedale deve essere quello d’integrare le diagnosi descrittive con una comprensione in termini dinamici della sofferenza del paziente. E’ utile quindi riconoscere e ricondurre i sintomi che questi pazienti possono presentare a due categorie: sintomi intrusivi e sintomi di evitamento. I sintomi intrusivi includono ipervigilanza, accentuata percezione del dolore, incubi, sensazione di invasione da parte di sentimenti desiderati, rimuginazioni, immagini intrusive e pensieri intrusivi e ripetitivi. I sintomi di evitamento includono ritiro, intorpidimento emotivo ed eccessive inibizioni cognitive fino all’ottundimento. E’ esperienza comune che un paziente possa apparire poco intelligente non riuscendo a comprendere quello che gli viene spiegato in termini semplici dal medico o dal personale. Questi sintomi dipendono dal coinvolgimenti di tre aree psichiche principali [Horowitz 2004]: -

processi emozionali

-

risposte cognitive

-

rappresentazione di sé. Le risposte emozionali sono legate sia ai meccanismi psicodinamici sia all’attivazione delle

sottostanti strutture anatomo fisiologiche. Le risposte emotive più frequenti in corso di malattie organiche consistono in sensazione di torpore e ottundimento emotivo, con la percezione di essere distante dalla realtà e che le percezioni siano attutite. Possono esservi emozioni dolorose con ideazione intrusiva. Cognitivamente la gamma dei pensieri può essere ristretta, ad esempio un paziente può restringere i suoi pensieri alle questioni esclusivamente riguardanti la malattia. I pazienti possono riferire la percezione di sentirsi degli automi e possono sperimentare l’assoluta assenza di gioia, sentendosi sopravvivere. Dal punto di vista della rappresentazione di sé, se il corpo è sofferente e mal funzionante, per la patologia organica o per aspetti legati alle cure, il paziente può sperimentare un conflitto fra i 38

propri schemi interni e la nuova realtà, avvertendo sensazioni caotiche, di depersonalizzazione, di derealizzazione, sentendo l’ambiente intorno a sé e il proprio corpo come irriconoscibili. Sono frequenti sensazioni d’isolamento. 4.2 Obiettivi del trattamento Obiettivo del trattamento è di aiutare il paziente ad ottenere un equilibrio emotivo sufficiente a mantenere un’adeguata rappresentazione di sé e delle proprie relazioni. L’intervento mira anche a ridurre la confusione per consentire al paziente di relazionarsi efficacemente con i curanti e partecipare validamente alla gestione delle proprie cure. Oltre a ciò il trattamento ha il fine di proteggere il paziente dall’isolamento sociale, e dai danni derivanti da decisioni inappropriate (come l’abbandono delle terapie). Un trattamento ideale è articolato in fasi successive anche se nella pratica può essere difficile pianificare una struttura di trattamento estesa durante tutte le cure ospedaliere se queste sono molto prolungate. Alla comprensione dinamica degli stati emotivi si affianca l’uso di metodi di controllo delle emozioni con tecniche cognitive e, ove necessario, il supporto farmacologico [Horowitz 2004]. 4.3 Valutazione Questa fase non differisce significativamente da quanto comunemente praticato dagli specialisti della salute mentale nella loro pratica clinica, anche se in quest’ambito occorre particolare considerazione nella raccolta di dati circa gli aspetti della malattia organica e sulle risorse emotive e il supporto sociale in grado di fronteggiare i problemi indotti da questa e dalle terapie. Come già detto le diagnosi descrittive del DSM non sono sufficienti a valutare le articolazioni della sofferenza o a comprendere il comportamento del paziente, anche se una diagnosi categoriale è utile nella compilazione di una relazione clinica e per motivi assicurativi e previdenziali [American Psychiatric Association 1994]. Le diagnosi più comuni sono il PTSD, il disturbo acuto da stress, il disturbo dell’adattamento, il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo da attacchi di panico e il disturbo fobico precipitato da eventi stressanti. Ad esse si può accompagnare la diagnosi in comorbidità di altri disturbi sul primo asse eventualmente già presenti in anamnesi. E’ utile una valutazione delle personalità del paziente, dato che in alcune situazioni cliniche è possibile osservare un’acutizzazione di problemi legati a disturbi di personalità.

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Utilizzando il DSM è quindi necessario assegnare le diagnosi sull’asse I (sintomi di disturbo clinico) e poi, se indicato, assegnare una diagnosi di disturbo di personalità (asse II). Più che formulare una diagnosi di disturbo di personalità può essere utile comprendere i tratti di personalità del paziente e le difese e gli stili di coping utilizzati. Questi fattori hanno l’importante valore pratico di offrire suggerimenti circa le strategie relazionali utili da adottare con il paziente e strumenti per comprendere aspetti apparentemente irrazionali del comportamento del paziente rispetto all’equipe medica. Alcuni stili di personalità (ad esempio l’istrionico, il narcisistico, il borderline e lo schizoide) possono ad esempio influenzare la capacità di instaurare e mantenere un’alleanza terapeutica con i curanti. Occorre in ogni caso cautela nel riportare in cartella diagnosi di personalità, per il potenziale rischio di una stigmatizzazione del paziente. Nelle condizioni di malattia cronica occorre prestare particolare attenzione a situazioni di comorbilità e ai disturbi della personalità dipendenti dalla condizione di cronicità. I problemi fisici devono essere rilevati e annotati nell’asse III (condizioni mediche generali) Possono essere rilevati i problemi psico-sociali nell’Asse IV e dovrebbe essere considerata un valutazione globale del funzionamento (Asse V). 4.4 Supporto In generale, se la maggior parte dei pazienti ha maggior bisogno di sostegno nelle fasi precoci del trattamento, vi sono casi in cui un paziente all’inizio necessita di interventi limitati e che si intensificano successivamente per il peggiorare delle situazioni cliniche o il venir meno della rete di supporto sociale. Gli interventi di supporto comprendono le diverse tecniche per fronteggiare la fase acuta dello stress. Occorre fornire assistenza al paziente in modo da aiutarlo a ridurre la sensazione di essere sopraffatto dalla confusione, di non poter prendere decisioni e di non poter fare progetti per il futuro. E’ evidente il ruolo svolto dalla buona comunicazione con l’équipe curante, tanto che un progetto di assistenza psicologica può avere efficacia, lo ricordiamo, soltanto se fa parte di una filosofia di presa in carico dei bisogni emotivi condivisa da tutti gli operatori e dall’istituzione. L’intervento dello specialista della salute mentale mira a ristabilire un concetto di Sé realistico e stabile e favorire un senso di competenza rispetto al funzionamento personale e le relazioni affettive, sociali e lavorative.

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Devono essere anche attuate misure utili a proteggere il paziente dagli effetti della demoralizzazione. E’ necessario considerare in particolare la possibilità che il paziente compia atti autolesivi e occorre attuare ogni misura di cautela per ridurne la possibilità. Il supporto si articola in tre aree fondamentali: il supporto sociale, il supporto biologico e il supporto psicologico. 4.4.1 Supporto sociale Gli operatori della salute mentale insieme all’equipe curante, possono fornire un aiuto rispetto ai bisogni materiali del paziente. Parte dell’aiuto al paziente deriva dal sostegno del proprio contesto familiare e sociale; un aiuto può quindi essere dato dagli assistenti sociali per sostenere gli aspetti materiali di questa rete, fornendo ad esempio orientamento nelle procedure burocratiche, aiuti economici e un alloggio nel caso di cure svolte in ospedali lontani da casa. 4.4.2 Supporto biologico Si tratta di una risorsa fondamentale che non deve essere dissociata dagli interventi psicoterapeutici. Ogni intervento sulla sofferenza psicologica in situazioni di malattia organica non può essere disgiunto da un’approfondita valutazione degli aspetti biologici e l’intervento in situazioni di crisi emotiva richiede spesso risorse di pronto effetto come i farmaci per poter attuare un lavoro psicologico con la collaborazione del paziente. Vista la situazione di malattia organica occorre comprendere, ove possibile, l’effetto diretto di fattori somatici nella produzione di sintomi psichici. Gli interventi che comprendano esclusivamente tecniche psicologiche, siano esse psicodinamiche oppure cognitivo – comportamentali, rischiano di trascurare la specificità degli aspetti psico-organici e neuroscientifici della sofferenza, siano essi dovuti alla malattia o indotti dai trattamenti. In una condizione di malattia organica la situazione di ipervigilanza e di arousal possono favorire la comparsa di pensieri intrusivi attivando substrati cerebrali che sostengono queste funzioni. Un trattamento che riequilibri il funzionamento delle diverse aree cerebrali connesse alla risposta allo stress può portare beneficio a tutti gli elementi collegati. Per modulare l’emotività e prevenire eccessi di agitazione disperata, flusso incontenibile delle emozioni, accelerazione e disorganizzazione del pensiero, possono essere impiegati farmaci

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ansiolitici ed altre terapie farmacologiche. L’uso occasionale di farmaci per brevi periodi è efficace per ridurre il rischio di esplosioni improvvise di stati mentali incontrollabili. Farmaci ansiolitici sono impiegati di routine per ridurre lo stato di coscienza nel corso di procedure mediche invasive e dolorose e questi farmaci hanno anche l’effetto di ridurre il ricordo dell’evento. Ciò può avere un utile impiego per ridurre lo stress legato alle procedure. E’ opportuno comunque che lo specialista della salute mentale sia a conoscenza anche di questi trattamenti per comprendere l’intera gamma di eventi in grado di influire sulle condizioni mentali del paziente. In alcuni pazienti affetti da gravi patologie, la diagnosi differenziale fra condizioni depressive e demoralizzazione reattiva alla malattia è complessa [Slavney 1999], spesso basata esclusivamente su criteri clinici, e ciò può contribuire a ostacolare un’attendibile raccolta di dati in merito al problema. In alcune condizioni i disturbi osservati possono essere conseguenti ai trattamenti come quelli chemioterapici o cortisonici, a encefalopatie metaboliche, tossiche, infettive, o per localizzazione intracranica della malattia. Anche se non sono sempre ben conosciute le possibili interferenze di alcuni trattamenti medici, come quelli oncologici con i neurotrasmettitori, può rendersi necessario un trattamento, talvolta con farmaci antidepressivi. 4.4.3 Supporto emotivo La fase di valutazione che abbiamo descritto deve permettere di comprendere l’opportunità di includere o di escludere dal lavoro terapeutico quei temi che generano stati affettivi intensi e negativi. Accanto alle terapie di orientamento dinamico, è possibile utilizzare, ogni tipo di tecnica in grado di migliorare il coping del paziente. Un aspetto importante del trattamento riguarda il sostegno all’elaborazione. In un contesto ospedaliero, gestito secondo criteri di efficienza economica, questa fase che può giungere verso la fine dei trattamenti medici, o quando questi sono conclusi (ad esempio alla fine dei cicli del trattamento chemioterapico per una neoplasia) può trovare scarsa possibilità di essere svolto da parte degli operatori. E’ necessario che gli specialisti della salute mentale possano pianificare l’intero percorso dei trattamenti, comprendendo anche la presa in carico ambulatoriale dei pazienti dimessi. Rispetto alla conclusione del trattamento, che di solito per le caratteristiche del contesto ospedaliero ha caratteristiche di brevità, occorre avere un chiaro contratto centrato sulle possibilità realistiche di assistenza. 42

E’ necessario aiutare il paziente a elaborare le emozioni relative alla separazione. Ove possibile può essere indicato proseguire il trattamento in regime ambulatoriale o assicurare un efficace invio ai servizi del territorio.

4.5 I limiti del modello Il modello dell’intervento psicoterapico nelle situazioni di malattia organica è mutuato, come è stato sottolineato, da quello proposto per il trattamento delle sindromi di risposta allo stress [Horowitz 2004]. Esistono, tuttavia, importanti peculiarità dell’intervento su pazienti ricoverati per malattie organiche nell’ospedale generale. Non tutta la sofferenza nei pazienti con malattie organiche è infatti spiegabile e riconducibile alla dinamica dello stress traumatico. Nelle patologie croniche inoltre l’adattamento allo stress porta a problemi diversi rispetto a quelli acuti come: -

limiti intrinseci dell’intervento praticabile in ospedale per limiti di setting e strutturali

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caratteristiche della malattia, che può indurre con i suoi meccanismi biologici alterazioni psichiche. E’ indubbio comunque che i contributi provenienti da quest’area di ricerca meritino di essere

sviluppati per consentire di integrare le diverse tecniche e le diverse teorie d’intervento in una cornice coerente che preveda più chiare indicazioni e controindicazioni. 5. MODELLI ORGANIZZATIVI DELL’INTERVENTO PER LA SALUTE MENTALE NEI REPARTI OSPEDALIERI

E’ il 20 luglio e sono per fortuna in vacanza. Maria, un’amica di mia moglie, mi chiama sul cellulare. Suo marito, mi racconta, è ricoverato in un ospedale per un linfoma. In breve mi descrive la storia classica di sintomi vaghi, della diagnosi fatta in ospedale e dell’inizio delle terapie, due settimane fa. Pochi giorni dopo il ricovero ha iniziato a manifestare crisi ansiose molto intense. Dopo alcuni giorni e solo su sollecitazione della moglie è stato chiamato in consulenza lo psichiatra del pronto soccorso che gli ha prescritto “delle gocce”. La moglie non è rimasta soddisfatta della visita, durata sette minuti, in cui dice che, per quanto bravo, lo psichiatra non può aver capito quasi nulla della storia del marito. Maria mi chiede se in quell’ospedale, che conosco, esista un servizio di psicologia, dato che è anche sede universitaria. A quanto so non esiste. Non sono mai stati fatti investimenti per l’assistenza psicologica dei pazienti e la consulenza psicofarmacologica, per quanto accurata, non è in grado di soddisfare tutti i problemi. Il quadro del paziente migliora con la riduzione dei farmaci cortisonici e soltanto allora il medico spiega al paziente e alla moglie che questi sono forse stati una concausa delle acute manifestazioni d’angoscia.

5.1 Premessa 43

La tradizione degli interventi sulla salute mentale per i pazienti affetti da patologie organiche è stata nel tempo rivendicata, come abbiamo visto, da diverse tradizioni cliniche quali la psichiatria di consulenza–collegamento, la psicologia clinica, la neuropsichiatria infantile e diversi orientamenti della psicoterapia. Questa dialettica non ha però favorito del tutto un’integrazione della clinica e della ricerca che in quest’ambito hanno sofferto di numerose limitazioni. La consultazione per la salute mentale pare, di fatto, generalmente condotta ed orientata in base alle prassi e tradizioni vigenti nei singoli reparti e l’intervento di consultazione è oggi estremamente variegato per formazione degli operatori, teorie di riferimento, numero di sedute e tecnica utilizzata. E’ già stato ricordato che, in generale però gli interventi sono riconducibili a due tipi fondamentali di organizzazione. Nella consulenza un operatore, esterno al reparto, visita il paziente su chiamata per fornire un parere in merito alle condizioni e agli interventi clinici necessari. Nel collegamento lo specialista della salute mentale fa parte dello staff del reparto e partecipa ad un progetto multidisciplinare che ha come obiettivo il benessere, anche psichico, del paziente. Esaminiamo più in dettaglio le due modalità organizzative. 5.2 La consulenza La consulenza in generale può avere, a seconda del suo oggetto, vari modelli di riferimento, descritti già da alcuni decenni ed ormai classici. In particolare negli anni Sessanta furono dedicati numerosi studi alle procedure operative della consultazione in ambiente medico. La consultazione iniziò ad essere considerata, infatti, come una vera e propria metodica d’intervento a sé stante. Questo fatto determinò un allargamento della letteratura sulla questione del ruolo dei consulenti e su una più chiara definizione della natura dei servizi da questi offerti. Alcuni autori hanno proposto una consulenza orientata sul paziente, che comprende un colloquio, una valutazione diagnostica ed anche una valutazione psicodinamica della personalità del paziente e della sua reazione alla malattia [Lipowski 1967]. Nella consulenza orientata sulla crisi, l’intervento è circoscritto alle situazioni acute e comprende un esame dei problemi del paziente e del suo stile nel farvi fronte [Weisman 1960]. La metodologia di consulenza orientata sul consultante è focalizzata sul problema del medico che richiede una consultazione per un determinato paziente [Schiff, Pilot 1959]. E’ stata descritta una consulenza orientata sulla relazione, che ha come oggetto l’interazione fra il paziente e il personale dell’equipe [Greenberg 1960] ed una consulenza “allargata” che coinvolge il paziente come figura centrale in una rete di relazioni che comprendono l’equipe, gli altri pazienti e la famiglia [Meyer 1961]. 44

I modelli descritti non devono essere considerati come reciprocamente esclusivi, ma il consulente può passare dall’uno all’altro approccio a seconda delle situazioni di cui si trova ad occuparsi. La scelta dell’approccio più idoneo dipende anche dalla possibilità d’azione del consulente nell’ambiente ospedaliero in cui opera, dal suo specifico ruolo e dal tipo di formazione che ha conseguito. Le priorità delle consulenze variano da un reparto all’altro; di massima le richieste più frequenti formulate dall’èquipe medica riguardano l’intervento in caso di scarsa compliance dei pazienti alle terapie, sintomi ansiosi e depressivi, casi a prognosi infausta, problemi di diagnosi differenziale organico / psichico e condizioni di disagio sociale [Clerici 2003a]. 5.3 Il collegamento (liaison) La situazione in cui l’operatore della salute mentale è parte integrante dello staff è differente: tale modalità di lavoro è definita “collegamento” ed un suo aspetto peculiare è l’identificazione dei bisogni dei pazienti, grazie alle competenze ed alle possibilità d’osservazione offerte dall’intera équipe multidisciplinare. L’intervento di collegamento ha i medesimi obiettivi della consulenza ed in più quelli di stabilire relazioni con i soggetti a rischio di evoluzione psicopatologica, e favorire e rafforzare la rete di relazioni di supporto al malato ed alla sua famiglia. La pratica del collegamento comprende, oltre ad aspetti clinici, anche altri, quali quelli istituzionali - organizzativi (ad esempio la modalità organizzativa di coinvolgimento dell’equipe), o quelli legati alla ricerca di un linguaggio comune tra figure che non condividono un’epistemologia lavorativa [Matteini 1991]. Problemi centrali nell’integrazione fra discipline mediche e psicologiche (e quindi potenziale ostacolo al processo d’invio) sono infatti l’utilizzo di un linguaggio differente e una diversa concezione della diagnosi [Gislon 1988]. Un’attività di équipe ben coordinata dovrebbe poter attenuare queste difficoltà. 5.4 L’invio Le motivazioni all’invio di un paziente allo specialista della salute mentale da parte delle diverse figure professionali dipendono dalle peculiarità professionali, dall’organizzazione del lavoro, dalle motivazioni e dalla formazione individuale. Le difficoltà di adattamento alla diagnosi e alle cure costituiscono motivazione di invio frequente nell’esperienza clinica, soprattutto da parte del personale sanitario.

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Il personale medico ha anche un ruolo significativo nell’individuare nei pazienti in follow up disagi emotivi che sono spesso segnalati dai pazienti stessi, ma che non motiverebbero a rivolgersi alle strutture psichiatriche o psicologiche del territorio [Clerici 2004d]. La richiesta di consultazione è un processo assai complesso che mette in relazione, sulla base di problematiche reali o presunte, un sistema complesso composto dal paziente con il suo gruppo di appartenenza (la famiglia) e la relativa cultura, un consulente (con l’organizzazione a cui appartiene) e uno o più richiedenti (con le proprie regole ospedaliere e di reparto). Scopo prevalente della consultazione per la salute mentale non è quindi soltanto quello di diagnosticare una malattia, ma soprattutto di comprendere come il paziente è malato, come lo è diventato e la sua interpretazione soggettiva della sofferenza. La consultazione deve quindi portare a mettere in atto un intervento che possa modificare lo stato di disagio nella dimensione personale e relazionale. Occorre ricordare che la concezione di malattia come processo che porta alla rottura di una condizione di equilibrio sia un concetto fondamentale della diagnosi medica insieme all’idea che per formulare una diagnosi occorre riconoscere segni e sintomi del processo patologico. Anche la psichiatria ha tradizionalmente utilizzato questa metodologia, definendo e classificando i disturbi. I limiti della diagnosi psichiatrica risiedono nel fatto che le cause della malattia non sono conosciute, ma solo ragionevolmente ipotizzate, con profonde influenze da parte di fattori soggettivi e culturali dell’osservatore [Galimberti 1999]. Nel contesto delle reazioni di adattamento emotivo a difficoltà reali (come ad esempio la difficoltà di adattamento di un bambino alla diagnosi di tumore o alle cure proposte), formulare una diagnosi psichiatrica significa cristallizzare un momento dell’evoluzione psichica del soggetto, per cui tale diagnosi non solo non è certa, ma con sicurezza si può invece dire che non sia definitiva. Nella concezione medica del disagio psichico è patologia tutto ciò che è sintomatico. Utilizzando soltanto questo criterio in molte condizioni si rischia che il disagio non sia rilevato in mancanza di sintomi. Se l’intervento psicologico è condotto sulla base di una concezione della sofferenza meramente descrittiva ed epifenomenica, si corre il rischio di perdere l’occasione di fare un lavoro preventivo su condizioni, anche gravi, che hanno un periodo prodromico asintomatico. La struttura organizzativa di un reparto dovrebbe mirare a costituire un modello operativo di individuazione/trattamento delle problematiche psico-sociali nei pazienti, volto a superare le difficoltà reali presenti nel processo di invio. A questo proposito, occorre riconoscere ad alcune discipline di area pediatrica, come l’oncologia pediatrica, e all’ambito della riabilitazione, il merito di essere state fra le prime a dimostrarsi sensibili a queste problematiche e offrire modelli di intervento. Le diverse figure coinvolte nell’attività clinica quotidiana (medici, infermieri, assistenti 46

sociali, insegnanti) hanno tutte un ruolo importante nell’attività multidisciplinare di invio del paziente allo specialista della salute mentale. È importante sottolineare come alcune situazioni che possono ovviamente sfuggire ad una di queste figure [Canning 1994], abbiano probabilità di essere riconosciute da un’altra; in altre parole, l’equipe multidisciplinare fornisce, con i suoi diversi componenti (se sono sensibilizzati ai problemi psico-sociali), una rete a maglie strette che porta all’identificazione del possibile problema. Spetta poi allo specialista a cui il paziente o la famiglia vengono inviate, verificare tale problema e attuare l’eventuale terapia. Un’altra quota di bisogni dei pazienti può poi essere segnalata attraverso lo svolgimento di attività psicologiche di gruppo, organizzate direttamente dallo specialista. In sintesi quindi un modello d’intervento integrato si propone di superare i limiti della consulenza su chiamata, nell’intento di favorire la rete di supporto al paziente, offrendo molteplici occasioni di riconoscimento dei suoi bisogni, favorite dalle diverse occasioni relazionali esistenti in un reparto ospedaliero. Il processo di consultazione è utile se i curanti hanno potuto condividere con il paziente il senso della necessità di questa consultazione. Parte del lavoro dello specialista della salute mentale riguarda infatti un lavoro di reciproca conoscenza e lo sviluppo di obiettivi condivisi con l’equipe. 5.5 Le controindicazioni degli interventi psicologici e i rischi della psicologizzazione “Dodici anni fa, quando scoprii di essere affetta da cancro, ciò che mi irritò particolarmente – e mi distrasse dal terrore e dalla disperazione che provai di fronte alla triste prognosi dei medici – fu il constatare quanto la reputazione di questa malattia aumentasse la sofferenza di quelli che ne sono colpiti. Molti pazienti con i quali parlavo durante la mia iniziale degenza in ospedale, come altri che avrei incontrato durante i successivi due anni e mezzo nei quali non vivevo in ospedale ma mi sottoponevo alla chemioterapia negli Stati Uniti e in Francia, manifestavano un senso di ripugnanza e una sorta di vergogna… Avevo anche tristemente constatato più di una volta che le bardature metaforiche che deformano l’esperienza dell’essere malati di cancro hanno conseguenze reali: impediscono ai malati di cercare la terapia con sufficiente tempestività o di fare uno sforzo maggiore per sottoporsi a una terapia adeguata. Le metafore e i miti, ne ero convinta, uccidono (per esempio rendono i pazienti timorosi senza ragione nei confronti di misure efficaci come la chemioterapia e incoraggiano fiducia infondata verso cure del tutto inutili come le diete e la psicoterapia)”. Così scriveva Susan Sontag [2002] nel suo volume Malattia come metafora; cancro e AIDS.

E’ chiaro che nell’esperienza di questa scrittrice si fa riferimento ad un uso distorto della psicoterapia, addirittura proposta come tecnica per ottenere un effetto biologico diretto sullo sviluppo tumorale. Ma anche la ricerca di un significato, di un’interpretazione ad ogni costo di una malattia come frutto di aspetti conflittuali inconsci rischia di essere un virtuosismo di presunzione, in grado soltanto di danneggiare il paziente.

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Anche se è probabilmente superfluo, vale la pena di sottolineare a beneficio di chi si occupa di teorie neuro-psico-immunologiche del cancro, che le ipotesi in questo senso vanno maneggiate con estrema cautela in ambito clinico, perché ogni congettura di correlazione fra fattori psicologici e malattia può risuonare in modo gravemente colpevolizzante per i pazienti. E’ superfluo speriamo anche sottolineare che mai la psicoterapia deve costituire, così come le terapie alternative, un alternativa alla cura scientifica di una patologia né offrire mai alcuna illusione in tal senso. Come le terapie mediche, così anche ogni intervento psicologico clinico o psichiatrico non è esente da controindicazioni e rischi iatrogeni. E’ da ricordare la necessità di contenere il numero d’interventi psicologici non strettamente necessari, soprattutto nelle fasi dell’impatto con la diagnosi e la prima ospedalizzazione. Per alcuni soggetti un intervento psicologico non desiderato o proposto in modo inappropriato può rivelarsi addirittura controproducente e svantaggioso nei confronti nell’alleanza terapeutica, come testimoniano alcune battute: “Mi hanno mandato lo strizzacervelli... ma io non sono matto...” “Mollami! Io con lo psicologo non ci parlo”. L’intervento psicologico che non si collochi in maniera integrata in un progetto di presa in carico del paziente è destinato a fallire. La richiesta di ogni intervento psicologico richiesto dai medici deve quindi essere sempre preventivamente discusso per comprenderne indicazioni e controindicazioni e il clinico deve essere in grado di effettuare un’analisi della domanda [Carli 1987]. E’ bene ricordare che mai la funzione psicologica può sostituire la relazione medico paziente (e mai deve interferire con essa), ma deve affiancarla con la sua specificità. 6. I PROBLEMI DELL’INTEGRAZIONE DEGLI INTERVENTI

NEL CONTESTO

OSPEDALIERO 6.1 Antefatti storici Lungo il corso della storia della medicina vi sono stati numerosi tentativi di unire la pratica medica ad un intervento sulla psiche del paziente. I primi tentativi sistematici d’integrare l’attenzione alla dimensione mentale ed emotiva del paziente nell’attività di cura medica hanno avuto luogo con la psichiatria di consultazione. Questa disciplina è nata negli USA sul finire degli anni Venti e l’istituzione sempre negli U.S.A. del primo servizio di Psichiatria di Liaison nel 1939 [Rundell 1998]. 48

In Italia la storia dell’integrazione degli interventi psicologici in medicina è invece in parte legata alle vicende della psichiatria nel nostro Paese, la cui “età moderna” ha avuto inizio con la legge n°180 del 13 maggio 1978, dedicata agli accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori. La psichiatria poté uscire così dalle istituzioni manicomiali e rivolgersi ad una più vasta gamma di forme di sofferenza psichica attraverso servizi di consultazione o di psicologia medica negli ospedali generali e nelle strutture specializzate. Un’altra esperienza fondamentale è legata alla tormentata storia del riconoscimento professionale degli psicologi in Italia e al loro progressivo inserimento nei reparti ospedalieri. Le principali sedi di lavoro per gli operatori della salute mentale nei reparti ospedalieri sono riassunte nella tabella 4.8. Tab. 4.8 I più frequenti ambiti di lavoro clinico di consulenza – collegamento per la salute mentale nei reparti ospedalieri

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AIDS

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Ustioni

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Cardiologia

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Dermatologia

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Dialisi

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Ematologia

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Neuropsichiatria

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Ostetricia e ginecologia

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Oncologia

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Oncologia pediatrica

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Terapia del dolore

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Pediatria

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Pneumologia

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Riabilitazione

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Trapianti di organi

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Traumatizzati cranici

Nonostante la grande esigenza, solo pochi operatori hanno una stabile collocazione presso un reparto ospedaliero e sono strutturati nella pianta organica; più di frequente operano con contratti a termine su progetti e in molti casi sono sostenuti economicamente da associazioni di volontariato.

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6.2 Il mito dell’integrazione bio-psico-sociale Il problema dell’integrazione degli interventi è legato in parte ad aspetti culturali, che trovano origine nello storico problema delle relazioni fra corpo e mente. Il problema è noto e senza pretesa di completezza ne riassumiamo qui alcuni passaggi. Già il filosofo greco Anassagora (500 – 426 a.C.) aveva ipotizzato un principio chiamato mente, capace di fornire alla materia il suo ordine peculiare. Secondo la sua interpretazione tutta la realtà era dualistica, costituita da mente e materia. La formulazione del problema più nota risale però all’inizio del XVII secolo. Con le intuizioni sul metodo sperimentale di Galileo, il sapere scientifico avviò la crisi dei dogmi teologici sulla natura. Cartesio nel suo libro “Il Mondo”, pubblicato postumo, cercò di trovare una conciliazione degli aspetti materiali e spirituali della realtà. Sulla scorta della repressione subita da Galileo, Cartesio rinunciò alla pubblicazione e propose invece una netta separazione di campi di competenza. Propose che la Chiesa avesse come campo di pertinenza la Res Cogitans (sostanza cosciente) ossia l’anima e lo spirito, che è immateriale, mentre la scienza avrebbe avuto come campo la Res Extensa (sostanza materiale). Questa proposta di separazione permise la libera circolazione alle idee di Cartesio che così potè pronunciarsi anche sulla natura dell’uomo; il corpo umano era concepito come una macchina, guidata dall'anima attraverso un piccolo punto: la ghiandola pineale. Questo artificio consentiva di non mettere in discussione l’autorità della Chiesa, permettendo però alla scienza il proprio sviluppo. Nel Settecento, dall'Illuminismo e, nella prima metà dell’Ottocento in Francia, dalla radice illuminista, nacque il Positivismo, in parallelo con lo sviluppo della tecnologia e dell’industria in Europa. Il Positivismo, secondo Comte, intendeva raggiungere un livello "scientifico" del sapere umano, contrapponendosi ai precedenti stadi "teologici" e "metafisici". Un contributo fondamentale allo studio delle patologie organiche si ebbe quando Rudolf Virchow avviò lo studio della patologia cellulare, cioè lo studio della malattia come alterazione morfologica e funzionale della cellula, sede elementare della vita [Virchow 1865]. Anche con la nascita della psicologia come disciplina sperimentale, legata alla fisiologia, i suoi studi restarono materia non integrata nel campo delle cure mediche. Fra Ottocento e Novecento vi furono però alcuni cambiamenti nel modo di considerare i soggetti malati. Con l’approccio di Freud all'isteria [1895], la soggettività del paziente iniziò ad essere 50

considerata un oggetto di studio scientifico dalla psicoanalisi e gradualmente anche da certi settori della psicologia e della psichiatria. Per anni mancarono però teorizzazioni applicative del sapere psicoanalitico alla prassi medica. Il primo tentativo in tal senso risale al 1957 con la pubblicazione da parte dello psichiatra e psicoanalista Micael Balint del libro "Medico, paziente e malattia" in cui, l’autore oltre a sottolineare gli aspetti psicologici del paziente, poneva in primo piano la necessità di considerare gli aspetti psicologici del medico stesso nel suo rapporto con il paziente. In quel periodo si era verificata un’evoluzione della stessa psicoanalisi, ad esempio con le teorie interpersonali che sottolineavano come il soggetto possa essere compreso soltanto in un contesto di relazione con l’altro [Sullivan 1953; Stern 1985]. Gradualmente si pose alla medicina la necessità di considerare maggiormente la soggettività dei pazienti dapprima sotto la sollecitazione di isolate voci di studiosi, poi su crescenti pressioni della società ed anche del mercato. Il concetto di multidimensionalità della malattia, articolata su piani biologici, psicologici e sociali divenne nozione comune grazie ad un famoso articolo dello psichiatra statunitense George L. Engel pubblicato a metà degli anni Settanta [Engel 1977]. Le idee di Engel (1913 – 1999), docente per circa 50 anni all’Università di Rochester, nella loro novità si collocavano tuttavia all’interno di certe linee evolutive sul pensiero medico sviluppate nel XX secolo [Clerici 2006a, 2006b]. Il modello bio-psico-sociale proposto da Engel riprende, infatti, la definizione di salute formulata nel 1948 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità" . La definizione di “bio-psico-sociale” sembra diventato oggi uno slogan molto popolare; il concetto ha avuto tale fortuna da mantenersi suggestivo anche se si sostituisce uno dei termini, ottenendo, ad esempio l’ancor più aleatorio concetto di modello “bio-psico- spirituale”, caro ad alcuni…. Una riflessione sull’integrazione operativa delle discipline biologiche psicologiche e sociali e sull’invio da una competenza all’altra è ormai indispensabile, dato che il paradigma bio - psico sociale non è soddisfatto soltanto ponendo sotto lo stesso tetto medici, psicologi ed assistenti sociali, ma soltanto se è realizzata una reale integrazione del processo di cura con la soggettività del paziente. In particolare si corre il rischio che la psicologia sia un oggetto decorativo e idealizzato (nella migliore delle ipotesi), ma scarsamente utilizzato a reale beneficio dei pazienti. 51

6.3 Le differenze fra discipline medico biologiche e quelle psicologiche Sulle difficoltà d’integrazione delle scienze della mente nei contesti ospedalieri sono stati pubblicati innumerevoli contributi ed il tema della specificità del ruolo dei vari operatori è molto dibattuto. Senza entrare nel merito di diatribe che hanno notevoli implicazioni corporative, ricorderemo che vari fattori rendono strutturalmente complessa l’integrazione della cura della mente nell’ambito delle cure mediche. Ripercorrendo lo sviluppo della psicologia in ambito sanitario alcuni autori sottolineano la necessità di una progressiva autonomizzazione della disciplina rispetto al modello medico, quasi questo costituisca una sorta di peccato originale. Il rischio è però di distanziare la disciplina proprio dal contatto con la clinica che è la sua dimensione più qualificante e il campo dove, oltre a esserci maggiori possibilità lavorative, si avverte culturalmente la maggiore necessità di contribuiti culturali e di ricerca. Se le esperienze d’integrazione sono problematiche, non lo si deve, forse, soltanto a fattori culturali, ma anche a fattori intrinsecamente problematici che alimentano la distanza fra le discipline [Kubie, 1970], riassunti schematicamente nella tabella 5.9 Esaminiamoli. La cura medica ha come oggetto la diagnosi ed il trattamento di una patologia; l’intervento sulla salute mentale riguarda invece l’adattamento e le risposte emotive e comportamentali alla malattia. L’attività è centrata, nel caso della medicina, sull’azione, mentre nel caso della psicologia sull’ascolto e sull’aiuto a pensare. Esiste una forma di medicina biologica largamente condivisa, insegnata in tutte le università nel mondo occidentale, mentre esistono molte teorie psicologiche e moltissime tecniche psicoterapiche, anche all’interno di uno stesso contesto accademico. La conoscenza, che in medicina ha come obiettivi l’oggettività, in campo psicologico è possibile esclusivamente in prospettiva intersoggettiva. I principi regolatori degli interventi sono del resto diversi: la ragione nel caso della medicina, la soggettività, l’inconscio e la “déraison” (per dirla con Foucault) in campo psicologico [Focault 1963b]. L’anamnesi in campo medico ha la finalità di comprendere mediante schemi diagnostici, mentre in quello psichiatrico e psicologico ha il fine di ascoltare e comprendere la storia interiore. La distinzione fra normalità e patologia è ben definita in campo biologico, anche se con criteri statistici, mentre è poco o nulla definita poco definita in campo psicologico.

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La stessa denominazione delle condizioni patologiche è diverso; la medicina distingue malattie organiche e malattie psichiatriche, mentre la psicologia distingue malattie somatiche e disturbi psichici (variamente denominati). La prognosi si può spesso formulare in modo molto probabile in medicina, mentre è assai incerta quando riguarda il disagio psichico. La cura medica opera nella pratica ospedaliera con tempi ritualmente scanditi, per esempio, dai prelievi, dagli esami, dal giro delle viste e dalla compilazione delle cartelle cliniche, l’equipe medica lavora in modo sincrono ed il paziente attende di sottoporsi a quanto è necessario. La consulenza psicologica e psichiatrica per i malati organici opera invece con tempi propri, spesso asincroni rispetto al resto delle cure e i pazienti sono frequentemente attesi quando liberi dalle procedure mediche. Anche i tempi sono diversi, come è evidente confrontando l’affanno di un medico ospedaliero, con decine di pazienti da visitare in un giorno, ed i tempi lenti di uno psicoanalista che svolge la sua pratica in uno studio privato. L’alleanza terapeutica fra pazienti affetti da malattie organiche ed i medici curanti può essere spesso già forte, mentre è più spesso del tutto da costruire con gli specialisti della salute mentale. La modalità dell’intervento in medicina si basa per lo più su un’aderenza ai fatti, mentre in campo psicologico è necessaria una lettura della domanda formulata dai pazienti e dagli stessi operatori dell’équipe curante. Altri aspetti rilevanti riguardano gli operatori. La collocazione lavorativa (e quindi il tipo di motivazione) può essere diversa nelle diverse professioni; i medici sono per lo più strutturati con posti di ruolo o incarichi, mentre in campo psicologico sono frequenti collocazioni a termine con contratti a progetto che possono non favorire la costruzione di tradizioni di ricerca e clinica in contesti così particolari. Tab 4.9 Differenze fra discipline mediche e psicologiche ASPETTI DI BASE

CURA DEL CORPO

CURA DELLA MENTE

Tempo

organizzato - ritualizzato

libero - vuoto – confuso

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Obiettivi

diagnosi

adattamento

Attività

fare – dire

stare - pensare – ascoltare

Consegne

vedere tutti

vedere solo chi ti è inviato

Linguaggio

descrittivo, obiettivante

Ideologia

forte (parlare)

debole (ascoltare)

Anamnesi

comprendere per schemi diagnostici

ascoltare la storia interiore

Rapporto con la realtà

“oggettività”

soggettività

oggettiva

intersoggettiva

Prognosi

molto probabile

molto incerta

Differenza normalità \ patologia

ben definita

poco definita

Nomi malattie

organiche / psichiatriche

somatiche / psichiche

Teorie

una prevalente

molte teorie della mente

Conoscenza

allusivo, fiabesco, simbolico, metaforico

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Unità della disciplina

Metodo

una medicina scientifica

esigenza di contare

tante psicologie e forse troppe psicoterapie

non tutto ciò che conta può essere contato e non tutto ciò che si può contare conta

Priorità

faccio aspettare i pazienti

aspetto i pazienti

Tempo degli operatori

sincronia dell’equipe

asincronia del consulente

Committenza

ospedale

varia

Motivazione degli operatori

posti di ruolo / incarichi

contratti / università

lettura della domanda (non tutto ciò Modalità d’azione

aderenza ai fatti

che è evidente è importante e non tutto ciò che è importante è evidente)

Dialogo

tecnica formulare

discorso libero

Principi regolatori

ragione

inconscio

Alleanza terapeutica

spesso già forte

da costruire

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6.4 Il diverso linguaggio Un aspetto di particolare distanza fra le scienze psicologiche e quelle mediche riguarda la forma del linguaggio. Il linguaggio, descrittivo e obiettivante quando usato dalla medicina, è più spesso allusivo e perfino fiabesco quando riguarda il racconto dell’esperienza interiore [Vallino 1999]. Giova forse qualche esempio di come équipe mediche animate da un genuino interesse per la cura dei pazienti possono descrivere aspetti d’interesse psicologico nel richiedere una consulenza: -

sembrava una famiglia tranquilla

-

non è un paziente adeguato

-

è incontenibile

-

è maleducato con le infermiere

-

non tolleriamo più la signora

-

in famiglia sono tutti dei soggetti un po’ strani

-

è una brava donna

-

è una persona molto efficiente

-

è un tipo strano

-

è una persona sensibile

-

è ansioso

-

è un depresso

-

ha avuto molti traumi

-

deve avere dei problemi di personalità

-

ha avuto una vita difficile Ciascuna di queste descrizioni è indicativa del modo con cui il medico inviante percepisce la

propria difficoltà di gestire il rapporto con il paziente, con gli aspetti enigmatici della sua soggettività o con l’inquietudine per la sofferenza del paziente. Anche le descrizioni provenienti dal personale infermieristico possono risentire del particolare punto di osservazione. Descrizioni spesso ricorrenti in clinica sono di questo tenore: -

sono gente sospettosa

-

i genitori sono molto aggressivi

-

la moglie vuole gestire la terapia

-

non ci lascia in pace, continua a chiamarci notte e giorno

-

eppure è un signore gentile

-

è una signora fragile

-

è depresso 56

-

è ansioso Ciascuna descrizione può indicare tanto una condizione psicopatologica, quanto una

fisiologica fase di adattamento ad una situazione di malattia, e spesso non è possibile capire cosa accade fino a quando non si incontra direttamente il paziente. Naturalmente anche il linguaggio psicologico può suscitare quantomeno delle perplessità, se utilizzato per descrivere o spiegare un problema clinico ad operatori di formazione diversa. Ciascun lettore possiede, o potrebbe compilare, una personale collezione degli orrori del linguaggio, raccolti in occasione di congressi o di gruppi di studio interdisciplinari, composta da affermazioni di questo tenore: -

è tipico della fase orale / anale / genitale

-

è effetto della posizione schizoparanoide

-

è un classico paziente alessitimico

-

“questi bambini” hanno un tropismo per disegnare corpi fatti a pezzi…

-

oggetto dei nostri interventi è la diade caregiver - bambino

-

seno - gabinetto

-

al termine caregivers abbiamo preferito quello di proxy

-

importante è far verbalizzare Queste singolarità o vaghezze del linguaggio rischiano di occultare un “peccato originale”

della psicologia in medicina, costituito da una grande abbondanza di teorie e dal difetto di un approccio clinico senza pregiudizi [Sala 1997]. Da quanto è stato descritto appare chiaro il rischio che il linguaggio possa diventare uno strumento di confusione anziché di comprensione. Si pensi ad esempio al concetto di “comorbilità della depressione nei disturbi organici”, che indica molto spesso la fisiologica demoralizzazione che accompagna una malattia grave. Ancor più comune è il concetto di “burn-out degli operatori” che, se maneggiato senza cautela, può mascherare dietro ad una diagnosi che ha spesso per chi la “subisce” un retrogusto colpevolizzante, l’inadeguata formazione, l’inadeguata organizzazione del lavoro o, molto più concretamente, la scarsa retribuzione e l’eccessivo carico di lavoro. Ha senso ad esempio valutare, come è stato fatto da alcuni, il burn-out nel personale infermieristico in contesti dove un terzo degli operatori era di provenienza extracomunitaria e lavorava con contratti trimestrali? Ma tornando al tema principale di queste pagine è evidente che ogni linguaggio tecnico, se è applicato in modo inappropriato, rischia di non essere comunicativo, ma stigmatizzante; si pensi solo a quanto è lapidaria e poco esplicativa la descrizione di un paziente come “ansioso” per descrivere una persona preoccupata di fronte ad una situazione di malattia potenzialmente mortale. 57

6. 5 I limiti dei modelli e i problemi della prassi Ansia e depressione “viste da lontano” appaiono categorie generalizzabili e uniformi, come ricordava un lavoro di qualche anno fa [Rossi Monti 1997]. Ma l’attività clinica di collegamento richiede una diagnosi, un ascolto e un trattamento che si articolano in modo assai più complesso rispetto a quelli attuati nel modello di consulenza su chiamata. Non è incoraggiante neppure il ricorso a diagnosi descrittive psichiatriche formalmente più precise, formulate secondo i sistemi classificativi codificati come il DSM-IV TR [American Psychiatric Association 1999], quando sono usate per descrivere la sofferenza psichica in situazioni di malattia organica grave. In generale si tratta di diagnosi che rischiano di ricondurre sotto un’etichetta diagnostica o addirittura ad un processo patologico i problemi dell’evoluzione e dell’adattamento dei pazienti. Questa prassi però è ritenuta da varie tradizioni cliniche a rischio di svilire la complessità e l’esistenza stessa del mondo interno dei malati. E se le malattie sono classificabili in modo tassonomico, anche le recenti avanguardie della didattica in medicina ricordano che ciascuno ha la propria malattia, soprattutto in termini di risposta soggettiva [Moja 2000]. Anche la risposta dell’operatore alla sofferenza del paziente è soggettiva e non standardizzabile o protocollabile. Questo lavoro di cura è particolarmente gravoso emotivamente anche perché, secondo la teoria psicoanalitica della mente, l’inconscio del paziente produce risonanze simmetriche nel clinico che se ne prende cura e quest’ultimo si trova a farsi carico di una quota di angoscia, confusione mentale e sfiducia in sé che spesso devono trovare un aiuto nel lavoro di gruppo o in una supervisione per restituire al paziente una decente proposta di vita mentale [Vallino 2005]. Siamo quindi ben lontani dal descrivere un metodo in grado di funzionare positivamente in ogni situazione, ma l’aiuto alle situazioni di grave malattia organica percorre sentieri lunghi e incerti, dove la formazione psicoanalitica personale del clinico è un elemento essenziale, anche se ciò è ben difficilmente dimostrabile da dati empirici. Ma il problema enunciato all’inizio rimane ancora aperto. Come è stato sopra ricordato, se in alcuni contesti l’intervento degli specialisti della salute mentale è esteso a tutti i pazienti affetti da malattie gravi, più spesso nella realtà clinica ospedaliera la valutazione e l’intervento sono limitati soltanto ad un numero ristretto di situazioni, anche per il particolare carico emotivo di queste situazioni. Quali sono dunque i criteri per un corretto operare?

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In generale, come evidenziava un lavoro condotto con alcuni colleghi oncologi pediatri [Clerici 2004c], sembra vero che “più si cerca il disagio emotivo, più se ne trova”. In letteratura, come già ricordato, si evidenzia una carenza di studi sul tema specifico dell’invio alla consultazione psicologica ed uno scarso consenso sulle modalità per organizzare un efficace supporto alle condizioni di disagio emotivo, garantendo un precoce riconoscimento ed intervento nelle condizioni di sofferenza psichica nelle malattie organiche. Il problema di definire su quali pazienti ed in quali situazioni si debba intervenire prioritariamente non può considerarsi affatto risolto in termini né teorici né clinici. Gli ambiti di riferimento teorico e clinico per gli operatori impegnati in questo campo sono caratterizzati spesso da tradizioni peculiari, autonomi settori disciplinari, proprie società scientifiche e relativi congressi di settore. Nessuna di queste aree è però in grado di offrire, da sola, una risposta alle esigenze di studio e formazione per operare sul disagio psicologico nelle condizioni di malattia organica grave. La riflessione teorica sulle definizioni di patologia e di sofferenza necessita di ulteriori occasioni di approfondimento. Il tema è cruciale perché riguarda la demarcazione problematica delle competenze mediche e psicologiche nelle cura della psiche e le probabili, ampie sovrapposizioni di tali competenze, e la necessità di stimolare la crescita e la ricerca interdisciplinare. L’ambito della pratica clinica che è stato descritto, pur caratterizzato da frequenti condizioni di sofferenza psicologica è, come ricordato, solo di rado inquadrabile in diagnosi psicopatologiche nosografiche, ed è uno dei terreni privilegiati per l’intervento psicologico clinico. Questo tipo di intervento costituisce un’area interdisciplinare intermedia fra medicina, psichiatria e psicologia, in cui se è preminente l’intervento sul paziente e sulla sua rete familiare, non è escluso però il ruolo della realtà biologica e la necessità di interventi psicofarmacologici. E’ ancora problematico prendere coscienza che nei malati organici gravi non esiste probabilmente una demarcazione netta fra patologia psichica e sofferenza emotiva, ma questi pazienti possono oscillare nelle diverse fasi della malattia fra gli estremi di questo continuum. La cura non può pertanto mai essere esclusivamente medico psichiatrica né solo psicologica, ma è necessario un costante sforzo d’integrazione. E’ sicuramente tempo di affrontare scientificamente i problemi di integrazione fra discipline, come la medicina e la psicologia della salute, la psichiatria e la psicologia clinica, che spesso attuano pratiche mal assortite che non si fondano su modelli chiari e facilmente integrabili, come invece la cura e l’assistenza alla psicopatologia ed alla sofferenza mentale necessitano assolutamente [Albasi 2006b].

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6.6 Aspetti critici della situazione attuale Per concludere la disamina dei problemi dell’integrazione degli interventi in ospedale sono utili ancora alcune considerazioni. Nel servizio pubblico sono state investite soltanto limitate risorse per la psicologia clinica e la situazione in vari contesti resta affidata ai singoli primari che, spesso con fondi provenienti dal volontariato, hanno attivato consulenze per la salute mentale. Ciò si accompagna al fatto che questi incarichi sono spesso poco tutelati sul piano professionale e contrattuale e ciò non permette la costruzione di esperienze durature che possano dare un contributo fecondo alla ricerca. Lo scarso numero di ricerche italiane indicizzate su Medline in questo campo ne è la testimonianza. Lo specialista che svolge il proprio lavoro presso un reparto si trova poi in una situazione di ambiguità per la molteplice committenza dei suoi interventi [Del Corno 1979]. Nella situazione tipica può verificarsi la situazione di dipendenza da un primario che ha desiderato e organizzato l'attività, pur dipendendo dalla direzione sanitaria e di fatto dipendendo da un'associazione per i finanziamenti. Questa triplice dipendenza può comportare una delega con varie contraddizioni circa le priorità di cui occuparsi. L’equipe medica può richiedere prestazioni di valutazione e consulenza breve, mentre i pazienti possono richiedere interventi estesi di tipo psicoterapico, con la difficoltà di conciliare queste esigenze che contrastano con un'ottica di efficienza e rendimento delle prestazioni. Un ulteriore rischio è che allo specialista della salute mentale siano anche attribuite deleghe imprecise e fuori dalle proprie competenze, quali ad esempio il controllo delle scomode reazioni dei pazienti alla cura o alla relazione con l'equipe [Del Corno 1979]. Di fatto il principale utente della consulenza è generalmente l’equipe ed una consulenza per la salute mentale deve corrispondere alle esigenze di rendere possibili ed efficaci le cure, come già lavori storici in questo senso segnalavano [Zecca Mansueto 1979]. Un problema di rilievo riguarda l’identificare a quale struttura deve appartenere lo specialista della salute mentale che opera nei reparti di un ospedale. Esistono vantaggi e limiti rispetto ad ogni collocazione. Appartenere ad un reparto medico o chirurgico, con una cultura quindi diversa da quella della cura psichica, può rendere difficile per l'operatore mantenere costanti rapporti con l'ambiente psicologico e psichiatrico che è indispensabile per l'aggiornamento e il confronto con l'operare dei colleghi. Esiste il rischio che nell'isolamento l’attività si riduca alle sole esigenze mediche, o alle condizioni più sintomatiche, trascurando altri aspetti dell'intervento. Esistono al contrario feconde occasioni dove l'appartenenza 60

ad una struttura medica o chirurgica offre allo specialista della salute mentale il confronto con una mentalità operativa ed un confronto scientifico di alto livello. Si è ancora lontani da una soluzione del problema e anche le ricerche empiriche sull’efficacia dei diversi modelli organizzativi sono ancora purtroppo molto carenti.

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7. LE TERAPIE FARMACOLOGICHE Così scrivono Benasayag e Schmit [2004]: “Esistono ben pochi punti in comune tra un terapeuta che ritiene che, poiché i comportamenti psicologici hanno sempre una base biologica, si debba mettere a punto una “terapia delle molecole”; e quello che, all’opposto, cerca di accompagnare il suo paziente nella ricerca del senso che si nasconde nel cuore del sintomi. Tali approcci rinviano a concezioni filosofiche, a visioni dell’essere umano, della società e della cultura del tutto differenti, dando luogo di conseguenza a pratiche terapeutiche radicalmente diverse e talvolta opposte”.

7.1 Problemi generali Il problema dell’integrazione degli aspetti psicologici dell’intervento farmacologico deve essere conosciuto dalle sue origini remote. La doppia valenza del termine greco pharmacon, veleno e rimedio, è troppo nota per dedicarvi qui ampio spazio. E’ utile solo ricordare che il termine greco farmacon indicava il rimedio, buono o cattivo a seconda dell'aggettivo che lo accompagnava e di questa doppia valenza si trovano esempi in Omero e in Tucidide [Del Corno 1985]. Il farmaco, come è noto, non è un oggetto neutro. Fra i diversi modi in cui può essere considerato vi è la sua natura di bene di consumo. Il farmaco è infatti oggetto di grandi interessi economici per ampi settori industriali, commerciali e della ricerca dei paesi industrializzati. Anche per questo (ma non solo) le medicine possono essere vissute come oggetti pericolosi e animare atteggiamenti di radicale avversione (farmacofobia); possono al contrario essere idealizzate come strumento per risolvere quasi magicamente ogni disagio e animare una vivace propensione al loro utilizzo (farmacofilia). Questa ambivalenza è riscontrabile sia livello individuale sia collettivo [Del Corno 1985]. La prescrizione del farmaco è una peculiarità dell’intervento del professionista medico e ne sottolinea le prerogative di potere. Anche questo fatto ha contribuito da un lato alla sua idealizzazione, dall’altro alla sua svalutazione in nome di rischi veri o presunti e di alternative “naturali”. Sono numerosissimi gli studi sugli aspetti chimico - farmacologici delle medicine ed anche sugli aspetti economici e produttivi, mentre sono più rari studi sugli aspetti soggettivi del loro utilizzo sia sul fronte dei pazienti sia dei curanti [Del Corno 1985]. Nelle facoltà di medicina viene ancora poco approfondito questo aspetto e manca un consolidato modello integrato di gestione delle problematiche emotive del paziente che tenga conto delle diverse possibilità (farmacologiche e non) in grado di offrire sollievo e contenimento.

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Ancora di più nelle facoltà di psicologia spesso mancano strumenti ed occasioni per formare psicologi all’intervento di consultazione e psicoterapia all’interno di contesti dove vi è l’obiettivo prioritario della cura di malattie organiche, quali l’ospedale. Lo specialista della salute mentale che opera nel campo delle malattie organiche si trova frequentemente a contatto con pazienti sottoposti a terapie farmacologiche. Allo psicologo non è certamente richiesta la conoscenza dei dettagli della terapia con i farmaci, dato che queste nozoni fanno parte del bagaglio culturale di chi ha una formazione medica. Occorre però che tutti i professionisti abbiano una certa familiarità con alcune nozioni di base, fra le quali il fatto che, per raggiungere un effetto utile, un farmaco deve essere impiegato a dosi congrue e per un tempo sufficiente. E’ necessario poi che lo psicologo assuma confidenza con l’esperienza del vissuto soggettivo dei pazienti in terapia farmacologica e sugli effetti collaterali, in particolare sul tono dell’umore e sulla coscienza. Un esempio fra tutti è dato dall’azione deprimente sull’umore di alcuni chemioterapici antineoplastici o la disforia indotta dagli steroidi. I fattori psicologici hanno un’influenza di diverso grado sulle terapie farmacologiche. In certi ambiti, come ad esempio negli interventi preventivi vaccinali, l’azione psicologica è assai ridotta, anche se valenze magiche o credenze di nocività possono molto influenzare i pazienti. Per altri farmaci (citiamo soltanto i ricostituenti e gli integratori alimentari) nonostante la loro attività biologica sia ben conosciuta, l’azione esplicata sembra prevalentemente psicologica, dato che vengono spesso assunti a dosi insufficienti o con frequenza troppo discontinua per svolgere un’azione attiva dal punto di vista farmacodinamico e farmacocinetico. Le aspettative sulla terapia possono però influire sulla regolarità con cui è assunta e quindi sull’efficacia della cura.

7.2 Il placebo e l’effetto placebo La dimensione scientifica ed industriale del farmaco non deve far dimenticare che esiste nell'efficacia di questi trattamenti una componente soggettiva, che un tempo veniva attribuita alla magia. Essere preparati al fatto che nella prescrizione dei farmaci agisca anche l'irrazionale significa poter curare più efficacemente. Un fenomeno che non è spiegabile soltanto in chiave biologica, è l’effetto placebo, che vede la remissione dei sintomi in seguito all’assunzione di una sostanza farmacologicamente priva di attività specifica. Il termine placebo deriva dal latino “io piacerò”, incipit del nono verso del Salmo 116 che compare nella liturgia del vespro dei morti “Piacerò al Signore nel regno dei vivi” [Schneider 1969]. 63

Il termine di placebo è stato introdotto nel gergo medico per indicare una sostanza inerte prescritta per accondiscendere le richieste del paziente, senza avere effetti clinici [Moja 1986]. Il termine placebo designa oggi: “una terapia o una componente di una terapia deliberatamente somministrata per il suo effetto aspecifico, psicologico e psicofisiologico, oppure somministrata per il suo presunto effetto specifico, senza che però essa abbia un’attività specifica nei confronti della condizione trattata. Usato come controllo nelle ricerche sperimentali, un placebo è definito come una sostanza o un trattamento privo di attività specifica nei confronti della condizione che viene esaminata. L’effetto placebo è l’effetto psicologico e psicofisiologico prodotto dal placebo” [Shapiro 1978; Balestrieri 1989].

Nel corso della storia la medicina ha utilizzato molto spesso l’effetto placebo prima dello sviluppo di prodotti di sintesi efficaci dal punto di vista farmacodinamico. Il placebo non è soltanto un fenomeno curioso, ma costituisce oggi una delle basi teoriche fondamentali per comprendere cosa funziona e cosa è terapeutico nell’ambito di una relazione di cura. Da vari anni il fenomeno è stato indagato scientificamente. A partire dal secondo dopoguerra il termine è stato utilizzato nell'ambito del problema sempre più importante della valutazione dell'efficacia dei farmaci. Il placebo è entrato a questo scopo nei programmi di sperimentazione clinica controllata e randomizzata. Sono state studiate le curve di risposta al placebo, diverse a seconda della condizione patologica [Balestrieri 1989]. Sono state distinte nella popolazione diverse categorie di risposte al placebo; i soggetti possono essere sensibili al placebo con una reazione positiva ad esso, sensibili al placebo con reazione negativa ad esso, e non sensibili al placebo. E’ descritto come l’effetto placebo dipenda da vari fattori quali il sintomo e la malattia, il paziente e la sua personalità, le caratteristiche del placebo e le caratteristiche del medico. Gli studi hanno indagato diverse chiavi interpretative e fra i fattori che agiscono nell’effetto placebo è stata invocata la tendenza alla guarigione spontanea (vis medicatrix naturae), ma sono risultati coinvolti anche processi biochimici quali l’analgesia mediata da endorfine, la stimolazione corticosurrenale e l’attività dopaminergica [Balestrieri 1989]. Dal punto di vista psicologico sono fattori attivi nel placebo la suggestione, la riduzione dell’ansia, la rassicurazione, l’aspettativa di guarigione, la fiducia nel trattamento, l’idealizzazione, il condizionamento classico e il condizionamento operante [Balestrieri 1989]. Le ricerche sull’effetto placebo sono state svolte in ogni campo della clinica medica per studiare malattie come le allergie, la cefalea, la sclerosi multipla, il diabete, l’ulcera peptica, il morbo di Parkinson, il vomito e la nausea, il cancro e l’artrite. Vari studi hanno indicato che circa il 33% dei pazienti avevano benefici dal placebo [Beecher 1955; 1959; Evans 1974]. 64

Risulta maggiore l’efficacia del placebo come antidolorifico, mantenendo la percentuale di efficacia costante, circa 55%, se lo si paragona sia ad un antidolorifico oppiaceo (morfina) sia ad un anti-infiammatorio non steroideo [Evans 1985]. Ricerche più recenti comunque alla cautela nell'uso del placebo al di fuori di trials clinici. In una metanalisi [Hrobjartsson 2003] sono stati confrontati 114 studi randomizzati controllati che hanno messo a confronto pazienti sottoposti a placebo con pazienti non riceventi il trattamento. I risultati indicano una bassa evidenza dell'effetto clinico positivo del placebo, che può comportare leggeri benefici in studi che si basano sulla rilevazione di misure di tipo soggettivo e in particolare nel trattamento del dolore, ma che non ha effetti significativi su indici numerici e oggettivi. Inoltre si è rilevato che l'effetto del placebo diminuisce con l'aumentare del campione, mettendo in evidenza un possibile errore sistematico nella sua valutazione. Ricordiamo come il placebo abbia comunque alcune utili indicazioni in campo clinico, ad esempio nell’insonnia degli anziani [Bayer 1985] e nello scalaggio di psicofarmacoterapie [Pecknold 1982; 1988]. E’ appena il caso di ricordare come il placebo abbia avuto un impiego (anche se comprensibilmente in un numero di casi assai ristretto) anche in campo chirurgico, ad esempio con l’impiego di interventi non specifici come la cura dell’angina pectoris attraverso un’incisione toracica bilaterale [Dimond 1958] e come molti interventi di appendicectomia non portino ad un reperto di appendicopatia, ma ottengano comunque una remissione dei sintomi [Styrud 2000].

7.3 Il ruolo dei fattori terapeutici aspecifici Proprio le ricerche sulla quota di successi terapeutici, nient’affatto irrilevanti, attribuiti all’effetto placebo in molteplici condizioni patologiche hanno dato l’avvio ad un filone di studi molto importante. I fattori terapeutici possono essere distinti in specifici ed aspecifici e il discorso vale sia all’interno dell’ambito della psicoterapia sia rispetto a ciò che funziona del rapporto medico paziente. Punto cardine di questa discussione è il concetto di specificità del trattamento. Per specificità possiamo intendere l’influenza nella terapia derivata soltanto da quei fattori che la compongono e che sono stati identificati come elementi essenziali della terapia [Grünbaum 1985]. I fattori aspecifici che intervengono in un processo di cura sono vari. Fra i fattori ambientali vi sono la temperatura, la luce e il buio, la stagione e il clima. Fra i fattori sociali hanno un ruolo la famiglia, il lavoro, il sistema sanitario e la rete d’aiuto. Sono invece fattori che riguardano direttamente il paziente l’età, il sesso, lo stato generale, la costituzione fisica, lo stato di nutrizione, i

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fattori genetici e l’assetto metabolico. Ancora, la qualità della relazione medico – paziente è descritta come di grande importanza. La risposta alla terapia è influenzata da aspetti psicologici e cognitivi quali le aspettative e i desideri del paziente, le sue esperienze pregresse, la sua personalità e i suoi meccanismi di difesa. Appaiono di rilievo anche gli aspetti psicologici e cognitivi del curante, con le proprie aspettative e i desideri, le esperienze pregresse, la personalità e i meccanismi di difesa. Da ultimo occorre ricordare una serie di aspetti legati ai fattori psicologici della terapia farmacologica che sono ben noti empiricamente ai medici e devono essere conosciuti da chi si occupa di salute mentale in ambito ospedaliero. Sono considerati infatti fattori che contribuiscono aspecificamente all’efficacia di un trattamento alcune caratteristiche intrinseche del farmaco, quali le dimensioni, la forma, il colore, il sapore e la via di somministrazione. Varie ricerche sono state dedicate all’influenza dell’aspetto esteriore dei farmaci rispetto all’efficacia attesa dai pazienti [Buckalew 1982]. In generale è stato riscontrato che il placebo ha un’efficacia maggiore se iniettato. L’uso delle supposte ha un’efficacia attesa che varia con i diversi paesi. Un placebo in forma di capsule colorate ha un effetto maggiore di uno in capsule bianche e le capsule sono percepite come più efficaci delle compresse. Un placebo di sapore amaro ha un effetto maggiore di uno dolce. Le ricerche effettuate dalle industrie mostrano poi come la forma della preparazione delle compresse (a forma di rombo, di cuore, colorate, ecc…) può indurre un miglioramento della compliance. Il colore sembrerebbe risentire di influssi culturali ed etnici; in generale il colore rosso o giallo sono collegati ad un effetto stimolante, il blu ad uno tranquillante e il bianco richiama la neutralità [Jacobs 1979]. Altre ricerche hanno mostrato come dai bambini sono ritenute più efficaci le compresse grandi mentre dagli adulti quelle più piccole [Joyce 1989]. Non si devono considerare i fattori aspecifici come inganni nei confronti del paziente (a meno che il medico non ricorra sistematicamente al placebo privando il paziente di trattamenti più efficaci). E’ invece necessario considerare i fattori aspecifici come fattori che favoriscono la terapia e che devono essere assolutamente utilizzati assieme ai trattamenti specifici per concorrere alla guarigione. Da alcuni decenni è stato avviato anche nel campo delle psicoterapie un filone di ricerche inteso ad individuare i fattori efficaci all’interno del processo terapeutico. I primi tentativi di valutazione dell’efficacia risalgono agli anni Cinquanta [Roth 1997]. Vari studi hanno mostrato che la maggior parte delle psicoterapie otterrebbe risultati paragonabili, agendo attraverso meccanismi per lo più aspecifici. 66

Vari fattori aspecifici che sono risultati correlati positivamente alla riuscita di un trattamento psicologico (che sia di sostegno o una psicoterapia) sono riassunti nella tabella 4.10. E’ evidente il ruolo di questi fattori anche nel campo della medicina. Lo psicoanalista Micael Balint affermava [Balint, 1957] che con la prescrizione di un farmaco il medico “prescrive se stesso”. Questa famosa osservazione sottolineava come l’azione del prescrivere abbia di per sé un effetto sul paziente, grazie anche all’atteggiamento, le parole e l’intenzione che accompagnano tale prescrizione. Queste considerazioni sul ruolo dei fattori aspecifici sul successo della cura e della relazione terapeutica offrono l’occasione di riflettere sul fatto che, se la medicina tecnica abdica dal ruolo di prendersi cura umanamente, l’efficacia delle sue terapie si gioverà sì dei meccanismi farmacologici, ma perderà l’aiuto molto consistente che deriva dai fattori terapeutici generali, che abbiamo indicato come aspecifici. Tab. 4.10 Fattori aspecifici positivi in una terapia Ambiente -

incoraggiamento alla terapia

-

partecipazione diretta o indiretta

Aspetti culturali -

credibilità del modello teorico

-

affinità culturale fra terapeuta e paziente

Caratteristiche del paziente -

aspettative nella terapia

-

capacità introspettive

-

gravità dei sintomi

-

integrità delle funzioni cognitive

-

caratteristiche della personalità

-

ridotta gravità della psicopatologia

-

Autostima

Caratteristiche del terapeuta -

esperienza

-

personalità

-

atteggiamento positivo

Fattori di cambiamento -

attivazione emozionale

-

smantellamento di modelli disfunzionali

-

apprendimento di nuovi modelli e concetti

-

nuovo angolo di osservazione dei problemi

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Impatto della terapia -

capacità di superare le resistenze del paziente

-

capacità di impedire un atteggiamento abitudinario in terapia

-

capacità di richiedere uno sforzo continuo verso il cambiamento

Relazione fra terapeuta e paziente -

atmosfera accogliente

-

identificazione con il terapeuta

-

rapporto di potere a vantaggio del terapeuta

[Da Balestrieri 1993, modificata]

7.4 La prescrizione del farmaco Al di là delle considerazioni generali fatte, è esperienza comune che durante il corso di studi nelle facoltà di medicina sia raramente spiegato quando ricorrere alla psicologia clinica. Analogamente, spesso capita a molti psicologi di laurearsi senza avere ben chiaro il panorama degli strumenti farmacologici di gestione delle malattie organiche e persino di quelle psichiche. Sul piano della pratica clinica è necessario che sia favorito lo scambio di informazioni sui problemi dei pazienti fra i diversi professionisti. Le riunioni di equipe, frequenti nelle realtà mediche avanzate, dove operano equipe multidisciplinari facilitano lo circolazione di queste notizie. In particolare è necessario che l’operatore della salute mentale conosca a fondo la situazione organica del paziente e i trattamenti farmacologici che sta assumendo, soprattutto nei loro effetti potenzialmente in grado di influire sullo stato psichico. Non giova, ad esempio, al paziente che lo psicologo sia ignaro di un trattamento con ansiolitici prescritti dall’equipe medica. Analogamente la sedazione terminale di un paziente potrà essere condotta con efficacia soltanto se si è stabilita una buona alleanza con i familiari del paziente e per quanto possibile con il paziente stesso. Perché un intervento farmacologico sia realmente integrato occorre che siano date risposte ad alcune domande essenziali. La prima riguarda a chi serve il farmaco. Una terapia può servire al paziente (per un bisogno organico, ma anche emotivo), al medico per tranquillizzarsi, ai parenti del paziente, o al contesto sociale. Occorre poi verificare il vissuto soggettivo del paziente, rispetto alla prescrizione di un farmaco. 68

Questo può essere di dipendenza, di gratificazione o può costituire uno strumento per instaurare un contatto umano. E’ necessario approfondire poi il significato della prescrizione di un farmaco per il medico. Accanto al razionale scientifico, la terapia farmacologica può assumere il carattere di un regalo al paziente, di una minaccia per la sua vita, di un mezzo magico onnipotente, anche di uno strumento per concludere rapidamente la visita. Da quanto detto finora occorre sottolineare come esista un doppio livello dei trattamenti farmacologico: un livello specificamente farmacologico ed emotivo, ma anche un livello clinico che permette di comprendere quando esiste una specificità per ogni singolo trattamento e come. 8. L’INTERVENTO RIABILITATIVO E IL RUOLO DEGLI OPERATORI 8.1 Una premessa La riabilitazione non è un intervento socio-sanitario collaterale ai trattamenti, ma è un ambito disciplinare scientifico che costituisce una parte essenziale dell’intervento terapeutico [Tatarelli 2002]. Al trattamento riabilitativo partecipano sia i membri dell’equipe che ha in carico la cura della malattia del paziente, sia gli operatori delle unità di terapia fisica e di riabilitazione, formate da fisiatri, fisioterapisti e infermieri, oltre che operatori con diverse qualifiche professionali, quali dietisti, nutrizionisti ed altri ancora. Come è stato più volte ricordato, non esiste una concordanza tra l’essere affetto da una malattia cronica e l’essere psicologicamente un malato cronico. Nel caso delle patologie croniche è quindi essenziale considerare sia il danno oggettivo sia la disabilità soggettiva. Per definire gli aspetti soggettivi è stato introdotto a metà degli anni Settanta il concetto di illness behaviour [Mechanic 1977] e sono stati standardizzati strumenti testali per valutare la percezione soggettiva della propria condizione da parte del paziente [Pilowsky 1983;1993]. I metodi di valutazione della qualità di vita dei pazienti che evidenziano soltanto il dato biologico non offrono infatti un'adeguata conoscenza del problema. Le classificazioni centrate sulla descrizione delle malattie dell’individuo a lungo in uso, come l'ICD [OMS 1992], sono state criticate e sono stati sviluppati nuovi strumenti di valutazione. Di recente l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha proposto uno strumento di classificazione della disabilità, intesa come esperienza umana che tutti possono sperimentare (OMS 2001).

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Questo strumento è denominato ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) ed è un tentativo di descrivere lo stato di salute delle persone non soltanto in presenza di una determinata patologia, ma anche e soprattutto in relazione all'ambito sociale, familiare e lavorativo, evidenziando le difficoltà che nel contesto di vita del soggetto possono causare disabilità. La malattia può indurre anche risposte di evoluzione e maturazione personale, soprattutto quando è possibile integrare i sentimenti di frustrazione e di aggressione alla propria identità in una nuova definizione del senso di sé e in nuove modalità di adattamento alla realtà. Queste possibilità sono legate alle risorse dell’Io ed alla struttura di personalità del soggetto, oltre che al supporto affettivo e sociale. Non è possibile né utile tracciare un profilo psicologico del paziente cronico, dato che ogni persona è in grado di far fronte alla propria malattia, ed inventarsi la vita nonostante questa, in modi pressoché infiniti. Queste infinite possibilità dipendono da numerosi fattori, primi fra tutti la personalità, il livello culturale, la rete sociale, ma anche oggetti molto difficili da quantificare quali la creatività e la spiritualità. L’origine della percezione soggettiva di cronicità può in ogni caso essere favorita proprio dalle cure ospedaliere. Spesso i pazienti imparano durante la degenza che per essere dei buoni malati, quindi per essere ascoltati e ben trattati, occorre abbandonarsi passivamente alle norme della vita ospedaliera ed alle iniziative dell’équipe curante [Comazzi 1988]. Questa condizione può essere caratterizzata da dipendenza, regressione e passività ed è così tipica da essere stata definita “triade del malato cronico” [Schneider 1969; Schneider 1978], come illustrato nella Figura 4.3. Questa situazione favorisce il rischio d’intraprendere la “carriera del malato cronico” che può portare al fallimento dei tentativi di riabilitazione Fig. 4.3 Triade psicodinamica del malato cronico

Dipendenza

Benefici primari

Regressione Passività

Benefici secondari Benefici Beneficiprimari secondari

Carriera del paziente cronico

[Da Comazzi 1988] 70

Ciò avviene perché la malattia cronica può essere trasformata da alcuni pazienti in una condizione che garantisce benefici primari concreti e anche benefici secondari psicologici, come ad esempio quello di recuperare un certo ruolo all’interno della famiglia, ed una serie di attenzioni che a torto ritengono di poter ottenere solo attraverso la condizione di malattia. La grande sensibilità alle frustrazioni è tipica di questa condizione e contribuisce a complicare il ritorno alla possibile normalità. Il lavoro con i pazienti cronici richiede fondamentalmente di confrontarsi con le difese da questi messe in atto. Alcuni pazienti cronici possono ad esempio mostrare manifestazioni di aggressività. Possono per questo essere considerati pazienti difficili, ostili o diffidenti. In presenza di manifestazioni verbali o comportamentali di oppositività o rabbia, è necessario che il personale sia preparato a considerarle come manifestazioni di disagio e non come attacchi personali. I pazienti affetti da malattie prolungate possono presentare un comportamento definibile come egoista e manifestare la tendenza all’isolamento dalle relazioni. Lavorare tenendo conto dei meccanismi di difesa significa valutare che tale reazione può avere un importante valore protettivo per il paziente (ritirarsi in se stessi nel momento dell'angoscia e della sofferenza può essere il comportamento più sano possibile) e che quindi non deve essere contestato direttamente. Occorre però favorire l'instaurarsi di una relazione di fiducia con il personale e favorire ove possibile il supporto offerto dalla rete sociale e familiare. Un'altra reazione frequente è data dalla regressione. Questa costituisce una risposta fisiologica all'angoscia. Nei bambini ospedalizzati può manifestarsi un temporanea perdita di alcuni obiettivi evolutivi che erano stati raggiunti (ad esempio alcuni bambini ritornano ad aver bisogno del pannolino anche se avevano già raggiunto il controllo degli sfinteri). La reazione di regressione non è però esclusiva soltanto dell'infanzia, ma si può riscontrare in tutti i pazienti. 8.2 Come cambia il comportamento Nei pazienti affetti da malattie croniche come ad esempio l’asma, il diabete, l’enfisema, le patologie renali, i postumi di infarti del miocardio e di ictus, l’osservanza scrupolosa del piano terapeutico, non soltanto farmacologico, è di estrema importanza. Le cure possono essere molto complesse e comportare l’assunzione di farmaci più volte al giorno. Possono essere necessari anche cambiamenti della vita quotidiana e degli stili di comportamento. Ad esempio, la cura di un paziente diabetico può comportare importanti cambiamenti dietetici. 71

Oppure lo stile di vita di un paziente che ha subito un infarto deve essere ristrutturato per ridurre lo stress e l’affaticamento fisico eccessivo. Il cambiamento del comportamento può avvenire in vari modi. Un tempo era in voga in medicina, come è stato più volte ricordato, un approccio autoritario. L’obbedienza ad un ordine può portare in effetti ad un cambiamento del comportamento, ma senza efficienti meccanismi di controllo questo può ripresentarsi immodificato poco dopo. Anche il cambiamento indotto da suggestione può avere una durata altrettanto effimera. Chiunque abbia esperienza del mondo conosce che il cambiamento non percorre vie lineari né si attua, salvo poche eccezioni, istantaneamente. Alcuni autori hanno studiato la dinamica del cambiamento [Di Clemente 1982] individuando sei stadi (vedi Figura 4.4). Nella fase definita di precontemplazione i soggetti non manifestano alcun proposito di modificare il proprio comportamento inadeguato, perché non sono consapevoli della sua inappropriatezza o non sono interessati agli effetti negativi. Durante la fase di contemplazione i soggetti non manifestano ancora un impegno verso il cambiamento, ma valutano aspetti vantaggiosi e negativi della situazione. L’intenzione di cambiare è caratteristica della fase di determinazione, durante la quale si attuano tentativi di modificare il comportamento inadeguato. Durante la fase dell’azione il soggetto è impegnato in processi che modificano l’immagine di sé e si accompagnano alla fiducia nel cambiamento e all’impegno, protratto nel tempo, di cambiare. Durante il mantenimento il cambiamento si mantiene nel tempo. Il cambiamento del comportamento può realizzarsi come abbiamo detto in modo non lineare, con episodi di ricaduta, seguiti eventualmente da nuove fasi di contemplazione, determinazione e azione. Per ottenere la modificazione di un comportamento, occorre realizzare un’alleanza con il paziente e, ove possibile, frazionare gli obiettivi in una serie di piccoli cambiamenti realizzabili progressivamente.

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Fig. 4.4 Fasi del cambiamento secondo il modello di Di Clemente e Prochaska

Uscita permanente?

Mantenimento

Ricaduta

Azione

Contemplazione

Precontemplazione

Determinazione

Questo modello ha importanti applicazioni pratiche in ambiti sanitari diversi, quali il trattamento della dipendenza da sostanze, i disturbi alimentari, la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili ed il ricorso ad esami preventivi. 8.3 Situazioni speciali La riabilitazione si trova a dare un contributo fondamentale nelle situazioni cliniche dove esiste un danno fisico permanente e dove la qualità di vita dipende dalla capacità dei pazienti di convivere con questo danno. Fra le situazioni più comuni vi sono quelle dei pazienti sottoposti ad operazioni mutilanti quali enterostomie, mastectomie ed amputazioni di arti. Quando un paziente subisce un’operazione che comporta un danno corporeo si avvia un processo di riadattamento, non solo fisico, ma anche psichico, provocato dall’alterazione dello schema somatico che mette alla prova le capacità integrativa del sé. Le conseguenze fisiche richiedono di essere compensate, per quanto possibile, da misure cosmetiche e riabilitative. Questi pazienti in particolare possono richiedere un aiuto psicologico perché vi è una condizione di stress quotidiano che ricorda loro ogni giorno di essere malati di una

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malattia grave la cui prognosi è incerta: queste condizioni d’incertezza e di precarietà quotidiana possono influenzare negativamente la qualità della vita e il successo di ogni tipo di riabilitazione. Una possibilità fondamentale di chi si occupa della riabilitazione è aiutare i pazienti a ripristinare un rapporto di confidenza con il proprio corpo. Nelle prime fasi dopo un intervento vi può essere ad esempio difficoltà a guardare la parte lesa, come ad esempio al momento delle medicazioni. Molti pazienti raccontano di essere stati aiutati nel prendere contatto con i mutamenti del corpo dopo un intervento mutilante dalla presenza di medici ed infermieri che dimostrano partecipazione, senza manifestazioni di sgomento o di disgusto. Questo processo può facilitare l’adattamento alla nuova condizione, permettendo una più rapida integrazione nella nuova immagine corporea. Chi si occupa della riabilitazione può poi fornire un aiuto pratico, come ad esempio consigli pratici sulla gestione della ferita, ed anche sulle possibili misure cosmetiche. Rispetto a queste condizioni esistono già da anni associazioni fra pazienti affetti da diverse patologie che hanno anche la funzione di facilitare lo scambio di esperienze. Un esempio è l’apprendimento delle tecniche di linfodrenaggio all’arto superiore in caso di mastectomia, o la gestione dei presidi nel caso di un’operazione mutilante del retto e la creazione di un neostoma. Il lavoro in gruppo, a cui può prendere parte un operatore della riabilitazione, ha anche la funzione di far fronte alle modificazioni dello stile di vita legate alla menomazione, sostenere le relazioni sociali, e fornire conforto rispetto ai dubbi sulla capacità di mantenere i propri legami affettivi e sessuali.

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9. L’INTERVENTO DELL’ASSISTENTE SOCIALE 9.1 Considerazioni storiche Da quando in campo clinico la sopravvivenza non è più l’unico risultato da perseguire con le cure, diversi operatori hanno iniziato a lavorare nei reparti ospedalieri per contribuire a garantire una sufficiente qualità di vita dei pazienti e dei loro familiari. Nel 1946, quando in Italia era appena terminato il secondo conflitto mondiale, si tenne a Tramezzo un convegno di studi sull’assistenza sociale. Il problema era attualissimo, visti i danni che la guerra aveva inflitto, il gran numero di morti che aveva lasciato vedove ed orfani senza mezzi di sostentamento, oltre a quello di reduci e civili mutilati e di abitazioni e di luoghi di lavoro distrutti. In questo clima si tenne una relazione sull’assistenza sociale ospedaliera che meriterebbe di essere letta anche oggi [Pulcher 1946]. Nell’intervento era sottolineata la necessità di un’attività di assistenza sociale all’interno degli ospedali perché “l’assistenza del malato continui anche dopo le dimissioni dall’ospedale affinché l’opera sanitaria svolta in suo favore non sia infruttuosa”. Tale mansione “proiettata verso l’esterno e che si esplica nell’ambiente dove il malato vive” era definita assistenza sociale ospedaliera. Questo intervento non doveva essere “un’opera di carità, ma un complemento dell’azione svolta dall’ospedale in favore del malato, uno strumento semplice e pratico per valorizzare il lavoro ospedaliero e rendere più produttive le spese che la collettività deve sopportare per il funzionamento degli ospedali”. All’estero la storia dell’assistenza sociale ospedaliera risaliva ai primi anni del Ventesimo Secolo, e in qualche caso ancora a prima. A Londra la prima “Lady Almoner” (dama elemosiniera) fu assunta nel Royal Free Hospital nel 1895. Fra le sue mansioni vi era quella di contribuire alle cure dei pazienti poveri con l’assistenza di enti al di fuori dell’ospedale. Negli Stati Uniti il primo servizio di assistenza sociale fu istituito al Massachusetts General Hospital di Boston nel 1905; all’inizio degli anni Trenta quasi il venti per cento degli ospedali statunitensi disponeva di servizi di assistenza sociale. In Italia prima del secondo conflitto mondiale esisteva un solo ospedale provvisto di un servizio sociale (quello di Santa Maria Nuova a Firenze).

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Gli obiettivi dell’attività di assistenza sociale ospedaliera descritti nel testo del 1946 erano chiari e programmatici:

“Vincere anzitutto gli ostacoli che le prescrizioni del medico incontrano; educare il malato e la famiglia allo scopo di prevenire una recidiva del male riorganizzando se necessario la sua vita e impostandola su nuove basi. Infatti in molti casi i malati non avranno alcun beneficio durevole dal soggiorno ospedaliero o dalle cure ambulatorie se non si modificheranno l’igiene dell’ambiente familiare, le condizioni di lavoro, l’alimentazione, il sonno, l’attività mentale ed emotiva dell’assistito. L’assistenza dovrà infine tendere ad attenuare le preoccupazioni che talora affliggono i malati e che spesso ritardano la guarigione”.

Erano definite anche le caratteristiche del personale da destinare a questo ruolo che, al di là del tono antiquato, rispecchiano gli aspetti attitudinali ancor oggi essenziali:

“Per svolgere in modo proficuo il suo compito l’assistente sociale dovrà quindi possedere doti di mente e di cuore che non sempre si trovano in persone anche istruite e di animo gentile; spirito di iniziativa e fermezza; senso di solidarietà umana e attitudine a spersonalizzarsi ed a comprendere la mentalità altrui. Dovrà essa cercare con tatto e con cordialità di cattivarsi la simpatia degli assistiti e diventare la loro confidente. E’ perciò necessario che sia di carattere gioviale e comunicativo, che non sia scettica ma ottimista e profondamente convinta dell’utilità del compito che sta svolgendo”.

Oggi tendenzialmente all’interno dell’ospedale il bisogno del paziente è stato scatenato da necessità mediche, tuttavia le ricadute sociali e le risposte non sono più definite esclusivamente dal medico ma da una lettura della domanda sociale la cui risposta contempla l’aspetto anche sanitario. 9.2 La situazione odierna Uscendo dalla prospettiva storica, consideriamo la situazione odierna. Purtroppo dopo sessant’anni l’integrazione in ambito sanitario fra i vari aspetti biologici, psicologici e sociali è in larga parte un obiettivo ancora da raggiungere. La stessa area definita “psico-sociale”, sempre più spesso citata nei lavori scientifici e nei congressi medici, comprende interventi condotti da operatori diversi con cultura, formazione e modelli teorici spesso assai eterogenei, raggruppati sotto un’etichetta unificante, ma con il rischio che una reale integrazione non sia davvero realizzata.

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Da un lato è stato solo con la legge 132 del 1968 (Enti ospedalieri e assistenza sanitaria) e il successivo DPR 128 del 1969 (Ordinamento interno dei Servizi Ospedalieri) che si è definito che l’Assistente sociale ha compiti “…in collaborazione con il personale sanitario […] per i problemi psico-sociali degli assistiti”. Non esiste una normativa specifica che renda obbligatoria la presenza di un’assistente sociale, né un requisito per l’accreditamento della struttura sanitaria. La situazione italiana non è poi neppure ben conosciuta, tanto che alcune sezioni regionali dell’ordine degli assistenti sociali (peraltro di recente istituzione) hanno avviato una raccolta di dati sui servizi sociali delle aziende ospedaliere. E’ possibile osservare che, se da un lato gli interventi in ambito psicologico si sono notevolmente evoluti, con la produzione di una vasta letteratura scientifica, quelli in ambito sociale sono ancora poco documentati nella letteratura internazionale ed ancor meno esiste letteratura sulle possibilità di lavoro comune fra medici, operatori sociali e specialisti della salute mentale nell’ambito dell’ospedale generale. In questa varietà di situazioni è oggi ancora possibile laurearsi in medicina o in psicologia senza aver mai studiato né conosciuto obiettivi e modalità del lavoro di assistenza sociale e la possibilità di collaborazione all’interno del processo di cura ospedaliera dei pazienti. 9.3 Il lavoro dell’assistente sociale L’attività dell’assistenza sociale in ambito ospedaliero comprende di fatto il supporto alle esigenze materiali centrate sulla malattia del paziente e della sua famiglia, fornire informazioni sui diritti e contribuire all’assistenza alle dimissioni. Strumenti pratici attraverso cui l’assistente sociale opera sono: -

la conoscenza delle risorse in ottica di rete

-

la conoscenza delle normative

-

la codifica dei problemi

-

l’offerta di un supporto ai problemi dell’utente

-

il lavoro in equipe. Sul piano teorico esiste una tradizione e a tutt’oggi un costante dibattito sulle diverse

tecniche del Servizio sociale [Dal Prà Ponticelli 1987]. Dal punto di vista psicologico, facendo anche riferimento ad esperienze cliniche [Casiraghi, 2003], è possibile identificare i seguenti aspetti centrali dell’intervento: -

fornire un supporto e un contenimento dell’angoscia nei momenti critici

-

favorire, ove necessario, la capacità di pensare rispetto all’impulso ad agire

77

-

fornire informazioni e aiutare l’utente a procurarsele, rispetto agli aspetti pratici della gestione della malattia e le relative incombenze burocratiche

-

sostenere una riorganizzazione della vita del paziente e del nucleo familiare

-

sostenere l’autonomia del paziente. Nel campo dell’assistenza sociale la differenza fra mondo ideale e mondo reale è molto

marcata. Considerando la crescente domanda di assistenza verso condizioni di malattia cronica, un servizio sociale dovrebbe essere proponibile a tutti i nuclei famigliari che accedono ai reparti per le necessità di cura di una malattia grave, a partire dal primo ricovero. L’impatto con una malattia potenzialmente fatale e le emozioni angosciose conseguenti, possono infatti minare quelle risorse esterne ed interne che le persone possiedono. La malattia e le necessità di trattamento inducono bisogni sociali che richiedono sia risposte individualizzate (ogni persona ed ogni famiglia è portatrice di una propria storia fatta anche di scelte e priorità) sia servizi che aiutino a gestire i problemi che accomunano le differenti situazioni che vivono condizioni simili. L’intervento sociale, grazie anche alla dimensione relazionale instaurata, dovrebbe avere il carattere di continuità durante tutto il periodo di trattamento. Proprio una prospettiva d’intervento articolata in fasi ed organizzata lungo tutto l’iter delle cure è stata proposta come protocollo in campo oncologico e questo modello meriterebbe un’adeguata considerazione, pur con le necessarie modifiche, anche rispetto ad altre malattie gravi. Ne proponiamo ai lettori un adattamento (v. tab. 4.11 e tab. 4.12). Tab. 4.11 Appunti per un protocollo di assistenza psico-sociale alle famiglie

1. Fase della diagnosi e dell’inizio del trattamento Esigenze: -

avere informazioni sulla diagnosi, il trattamento e altri aspetti medici e psico-sociali legati alla malattia

-

fornire supporto emotivo al paziente

-

aiutare il paziente a fronteggiare i problemi fisici della malattia

-

necessità per i genitori e i fratelli di esprimere e controllare le risposte emotive alla diagnosi ed alle terapie

-

necessità di partecipare alle cure

-

mantenere le relazioni all’interno della famiglia ed all’esterno di essa

-

fronteggiare l’incertezza e la perdita di controllo

-

ricerca di una spiegazione

2. Fase del trattamento con remissione 78

Esigenze: -

fronteggiare il trattamento prolungato e gli effetti collaterali

-

avere aggiornamenti sulle condizioni cliniche ed i programmi di terapia

-

controllare il fuzionamento familiare

-

assicurare il supporto sociale ed emotivo

3. Fase della recidiva di malattia Esigenze: -

manifestare le risposte emotive legate alla recidiva di malattia

-

ricevere informazioni sul nuovo programma di cure

-

comprendere le nuove necessità di cura e collaborare con le terapie

4. Malattia progressiva e morte Esigenze: -

fronteggiare le risposte emotive legate alla progressione della malattia

-

fornire supporto emotivo al paziente

-

aiutare il paziente a fronteggiare i sintomi della malattia in progressione

-

mantenere il paziente “vivo fino a quando non sopraggiunge la morte”

-

aiuto nella prima elaborazione del lutto

-

congedo dall’equipe curante

5. Fine del trattamento e guarigione Esigenze: -

assicurare un buon reinserimento nella famiglia e nell’ambiente sociale

-

mantenere un adeguato programma di controlli sanitari

[Modificato da Lauria M.M 1996]

Tab. 4.12 Appunti per un protocollo di assistenza psico-sociale ai pazienti

1. Fase della diagnosi e dell’inizio del trattamento Esigenze: -

ricevere informazioni sulla diagnosi ed il trattamento adeguate per l’età ed il livello di maturità

-

ricevere un supporto emotivo

-

aiuto a fronteggiare i problemi fisici della malattia

-

esprimere le risposte emotive alla malattia ed alle terapie

-

mantenere le relazioni all’interno della famiglia ed all’esterno di essa

-

fronteggiare l’incertezza e la perdita di controllo

79

-

mantenere una continuità delle attività quotidiane dentro e fuori dall’ospedale

2. Fase del trattamento con remissione Esigenze: -

fronteggiare il trattamento prolungato e gli effetti collaterali

-

avere aggiornamenti sulle condizioni cliniche ed i programmi di terapia

-

mantenere una continuità delle attività quotidiane dentro e fuori dall’ospedale

3. Fase della recidiva di malattia -

Esigenze:

-

manifestare le risposte emotive legate alla recidiva di malattia

-

ricevere informazioni sul nuovo programma di cure

-

comprendere le nuove necessità di cura e collaborare con le terapie

4. Malattia progressiva e morte Esigenze: -

fronteggiare le risposte emotive legate alla progressione della malattia

-

aiuto a fronteggiare i sintomi della malattia in progressione

-

possibilità di “essere vivo fino a quando non sopraggiunge la morte”

-

aiuto ai fratelli circa la morte

5. Fine del trattamento e guarigione -

assicurare un buon reinserimento nella famiglia e nell’ambiente sociale

-

mantenere un adeguato programma di controlli sanitari

-

adattamento agli effetti collaterali a lungo termine delle terapie

[Modificato da Lauria M.M. 1996]

Le linee guida offrono criteri generali di riferimento, ma ogni intervento sociale richiede di essere “ritagliato su misura” sulle esigenze degli utenti [Lauria 1999]. Nella realtà clinica degli ospedali italiani la realizzazione di un percorso di assistenza, lungo tutto il percorso della cura di un paziente, è ovviamente possibile solo dove il rapporto numerico fra assistenti sociali e pazienti lo consente e dove è radicata la tradizione di un lavoro multidisciplinare. Uno degli esempi sono le Residenze Sanitarie Assistenziali (R.S.A.), dove in occasione dell’ingresso del paziente è stilato generalmente un Piano di Assistenziale Individuale (P.A.I.) anche con l’incontro delle diverse figure professionali incaricate dell’assistenza del paziente quali medici, fisioterapisti, psicologo ed assistente sociale.

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9.4 Gli strumenti dell’assistente sociale Esaminiamo ora alcune altre caratteristiche tecniche del lavoro dell’assistente sociale. Varie professioni hanno l’obiettivo di portare aiuto a persone in condizioni di bisogno. Medici, infermieri, psicologi e assistenti sociali utilizzano tutti, anche se in misura diversa e in contesti diversi, la relazione come strumento di aiuto. Gli assistenti sociali tipicamente si trovano ad utilizzare la relazione d’aiuto come principale strumento di lavoro. Questa è definibile come “un processo nel quale un soggetto, attraverso l’offerta di tempo, attenzione e rispetto, e talvolta con il sostegno di determinate metodologie, aiuta una persona in difficoltà ritrovare le risorse e i modi per risolvere specifiche problematiche” [Sommaruga 2005]. Uno dei metodi della relazione d’aiuto è il counselling che si definisce come “Un processo che, attraverso il dialogo e l’interazione, aiuta le persone a risolvere e gestire problemi e a prendere decisioni. Esso coinvolge un “cliente” e un “counsellor”. Il primo è un soggetto che sente il bisogno di essere aiutato, il secondo è una persona esperta, imparziale, non legata al cliente, addestrata all’ascolto, al supporto e alla guida” [Sommaruga 2005]. Obiettivo del counseling è di aiutare una persona a indirizzarsi con le proprie risorse verso la possibile soluzione di un problema o di una difficoltà relazionale. Obiettivo del lavoro è di considerare ed accogliere ogni persona portatrice di una domanda, di un bisogno, di un problema come unica e distinta da altre in analoghe situazioni e collocarla entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente, inteso sia in senso antropologico-culturale che fisico (vedi art. 7 del Codice Deontologico degli Assistenti Sociali). Esistono fattori comuni agli interventi sulla salute mentale e quelli sociali che suggeriscono come queste due professionalità differenziate si trovino ad operare all’interno di una matrice comune, seppur con strumenti differenti. Caratteristica comune è l’ascolto che, nell’ambito clinico, ha finalità diagnostiche ed è una componente del processo terapeutico, mentre nell’ambito dell’intervento sociale è inserito nel processo di aiuto specifico di questa disciplina. Tecnica fondamentale dell’assistenza sociale in ambito sanitario non è dire cosa fare alle persone in difficoltà (risorsa peraltro fondamentale in alcune situazioni), ma aiutare ad orientarsi di fronte alla nuova situazione della malattia e delle cure e riorganizzare le proprie risorse, emotive, materiali e relazionali, per far fronte alla situazione. Alcuni autori hanno evidenziato che l’ascolto come intervento trovi un fondamento teorico nel concetto del contenimento postulato da Bion [Di Cagno 1992]. Questo consiste nella possibilità

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di modulare le emozioni dei pazienti e si realizza quando l’operatore è in grado di ascoltare ed accogliere la comunicazione, comprenderla sul piano emotivo e restituire infine una riflessione. Se la condizione di malattia e di precarietà non è modificabile, lo sono invece almeno in parte le sue conseguenze emotive, se condivise. Elemento fondamentale dell’intervento sociale è l’aiuto fornito a riavviare una progettualità anche per obiettivi minimi, gestibile nella realtà ospedaliera dove il “qui e ora” sono spesso le uniche dimensioni pensabili. Nel lavoro sociale gli operatori vengono in contatto in ogni situazione con l’oscillare tra l’angoscia di morte e la speranza di uscire da ciò che spesso i pazienti e i familiari chiamano “buco nero, brutto sogno, incubo…”. Davanti ad aspetti così dolorosi il “fare” degli utenti rischia di tradursi in un tentativo di contenere l’angoscia che può pervaderli, perché messi a contatto con la propria impotenza, oppure il “non fare” può essere la risposta impotente all’ineluttabilità degli eventi. Azioni come lasciare improvvisamente il lavoro o cercare soluzioni in cure alternative rappresentano tutti tentativi, a volte non privi di effetti controproducenti, di mantenere il controllo di una situazione che invece sarà risolta soltanto dall’evoluzione, più o meno lenta nel tempo, della situazione (Casiraghi 2003). Poter far coesistere pensiero e azione, restituendo spazio e chiarezza a ciascuna di queste componenti, caratterizza l’integrazione degli interventi in area psico-sociale e rende possibile realizzare un progetto realistico d’intervento.

SCHEDA E COMMENTO DEL VOLUME Psicologia e salute. Introduzione alla psicologia clinica in ambito sanitario Nella realtà sanitaria interagiscono dimensioni organizzativo-gestionali, clinico-mediche e psicologiche che la rendono estremamente complessa. La psicologia clinica offre, al riguardo, una prospettiva privilegiata di analisi, in quanto permette di cogliere gli aspetti emotivi e affettivi che regolano i comportamenti, le dinamiche relazionali, le aspettative e gli obiettivi di chi si trova ad affrontare le problematiche inerenti la salute, che si tratti di un operatore sanitario (per esempio medico o infermiere), di un paziente o di un suo famigliare. Questo volume offre al lettore le conoscenze fondamentali e gli strumenti di base per comprendere limportanza e i meccanismi di azione dei fattori psicologici nella determinazione dello stato di malattia e di quello di benessere... Curare la malattia "more scientifico", comprendere il paziente "more umano", lenire le sofferenze. Questi erano gli obiettivi della cura medica enunciati dal grande metodologo clinico Enrico Poli, nel suo trattato Metodologia medica. Principi di logica e pratica clinica, pubblicato da Rizzoli nel 1966. Dalla stesura di quel testo è trascorso molto tempo e, con l'avvento di nuovi strumenti diagnostici e terapeutici, ora a disposizione, sono avvenute grandi trasformazioni, all'interno del nuovo contesto di cura che, dalla fine degli anni Settanta, è stato il Sistema Sanitario nazionale. 82

Nonostante le grandi dichiarazioni d'intenti, l'enunciazione del modello bio-psico-sociale, e l'affermarsi delle teorie della medicina centrata sul paziente, una reale integrazione fra cura della malattia nei suoi aspetti biologici e cura dell'angoscia e della sofferenza del paziente non sono affatto realizzate. Gli ospedali ove esistono servizi di psicologia clinica in cui operano i diversi specialisti - sia medici, che psicologi, che assistenti sociali - sono ancora scarsissimi ed ha ancora poco spazio l'insegnamento a medici e psicologi sul come possano svolgere un lavoro comune e integrato per meglio giovare ai pazienti. Nel libro si dedica una cura particolare al vissuto dell’operatore e al ruolo della formazione, fino a pochi anni fa molto lacunosa, rispetto alle dinamiche di cura con pazienti gravi e con quelli capaci di poca compliance. L’operatore deve spesso scontrarsi, specialmente con pazienti gravi, con l’ineluttabilità della morte che mette a dura prova l’onnipotenza che sottende ad alcune scelte di professione con forti spinte altruistiche. Si analizzano in dettaglio il ruolo dell’individualità dell’operatore, sia esso medico o infermiere, e quello dell’ambiente lavorativo. In un’ottica di intervento, ma anche di prevenzione. Le recenti vicende legali, che hanno visto preclusa ai medici la possibilità di conseguire la specializzazione in psicologia clinica, hanno reso quest'integrazione fra psicologia e medicina ancora più problematica. Proprio la mancanza di teorie che guidino un efficace lavoro clinico integrato, ha causato un ritardo nell'evoluzione di studi e assegnazione di risorse in questo settore. Il volume dei ricercatori Chiara A. Ripamonti e Carlo Alfredo Clerici si propone come testo didattico per studenti di medicina, di psicologia e delle discipline infermieristiche, ma la schematizzazione mai banalizzante della complessità del rapporto medico - paziente e dei suoi strumenti di gestione costituisce un’utile lettura anche per professionisti esperti. Fra i temi trattati nel testo, oltre a chiarire esemplificazioni dei meccanismi di difesa e coping durante la malattia ed esempi di situazioni cliniche, sono da segnalare ampie parti dedicate alle tecniche d'intervento clinico, al problema del rifiuto delle terapie, nonché agli aspetti psicologici implicati nel contenzioso legale. Un dettagliato e ben pensato indice permette la consultazione celere degli argomenti di interesse; un’accurata e ricca bibliografia fornisce utili spunti riflessivi e di lettura. La completezza ricercata e la chiarezza di stesura, rendono questo manuale di agile lettura prezioso per gli addetti ai lavori, ma anche per i giovani studenti, che si affacciano a una professione di aiuto. Indice: Prefazione, di M.D. Poli. Introduzione. I. Il rapporto del paziente con la malattia: aspetti storico-sociali e individuali. II. I problemi di gestione clinica dell’equipe medico infermieristica. III. L’intervento multidisciplinare in ospedale. IV. Variabili culturali. V. L’equipe sanitaria. Riferimenti bibliografici. Indice analitico. Chiara A. Ripamonti, psicoanalista, ricercatrice in Psicologia clinica, insegna Psicologia della salute nella Facoltà di Psicologia dell’Università Milano Bicocca; insegna inoltre alla Scuola di specializzazione in Psicologia del ciclo di vita della stessa Università alla Scuola di specializzazione in Psicologia clinica dell’Università degli Studi di Milano. Carlo Alfredo Clerici, medico specialista in Psicologia clinica, ricercatore in Psicologia generale nell’Istituto di Psicologia della Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Milano. Ripamonti Chiara A., Clerici Carlo Alfredo. Psicologia e salute. Introduzione alla psicologia clinica in ambito sanitario. Il Mulino - collana Itinerari. Bologna 2008. Pag. 240, 18,00€. ISBN 978-88-15-11396-2.

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