Il Partito Comunista Italiano e l'Unione Sovietica di Franco Ferrari (appunti per il corso di formazione del Circolo PRC "Pablo" di Parma) Il rapporto tra il PCI e l'Unione Sovietica ha svolto un ruolo cruciale nel corso di tutta la storia di quello che è stato il maggiore partito comunista presente nei paesi capitalistici. Non è un caso che esso nasca pochi anni dopo la rivoluzione sovietica e "muoia" nello stesso anno in cui scompare l’Urss, anche se questa conclusione non costituiva un esito scontato. La relazione tra i comunisti italiani e il paese della rivoluzione d'ottobre è stata caratterizzata per alcuni decenni da un fortissimo condizionamento per poi allentarsi a partire dalla metà degli anni '50 e giungere ad un punto di rottura all'inizio degli anni '80. Attorno a questo rapporto si è sviluppato un ricorrente dibattito tra coloro che tendevano ad accentuare il carattere nazionale del partito e a far derivare le sue scelte dalla collocazione all'interno del sistema politico e sociale italiano e chi lo rappresentava invece come una mera emanazione dello Stato sovietico. Questo dibattito, spesso più polemico che fondato sull'analisi delle effettive vicende storiche, si è concentrato soprattutto sul ruolo politico di Palmiro Togliatti presentato da qualcuno come "il fedele servitore di Stalin" e da altri come il coerente promotore di una politica di crescente autonomia dei comunisti italiani dal regime sovietico. L'obbiettivo di queste note non è di dare risposta esaustiva agli interrogativi che emergono dalle diverse analisi ma solo di richiamare i momenti e le vicende storiche più significative che hanno posto il problema della relazione intercorrente tra Partito Comunista Italiano e Unione Sovietica.
La fondazione del PCI. Il PCI nasce a Livorno nel gennaio del 1921 in seguito alla scissione della corrente di sinistra del Partito Socialista Italiano, i cui principali dirigenti politici sono Amadeo Bordiga e Umberto Terracini. Antonio Gramsci, figura intellettuale e politica di punta del gruppo torinese raccolto intorno alla rivista "Ordine nuovo", al momento della fondazione del partito non svolge un ruolo di primissimo
piano, anche se questo ruolo lo acquisirà in breve tempo. Lo stesso avverrà per Palmiro Togliatti, anche lui facente parte del gruppo di comunisti torinesi che aveva elaborato soprattutto il tema dei consigli di fabbrica, a partire dall'esperienza dell'occupazione delle fabbriche torinesi dell'immediato dopoguerra. Nella formazione del PCI l'influenza sovietica, per effetto del successo dei bolscevichi nel guidare la rivoluzione d'ottobre e nel conquistare il potere nel 1917, è inevitabilmente molto forte. I gruppi e i militanti che vi aderiscono non sono però dei meri "imitatori" di una esperienza straniera. La frazione "astensionista" che costituisce la base della formazione del Partito Comunista si forma durante la guerra all'estrema sinistra del Partito Socialista e in essa confluiscono due tendenze dotate già di un proprio profilo culturale e politico in parte autonomo da quello del partito bolscevico. Oltre al gruppo "Ordine nuovo" a cui si è già accennato, l'altra componente, inizialmente più consistente, è quella che si forma attorno alla rivista "Soviet", creata a Napoli ed animata da Amadeo Bordiga, che diventa a tutti gli effetti il primo "capo" del Partito Comunista al momento della scissione di Livorno. Il pensiero di Lenin che guida i bolscevichi nella presa del potere e ne formula in modo più completo e articolato la strategia politica, nel caso dei comunisti italiani, non viene recepito in modo esteriore e superficiale ma si innesta su una base politico-ideologica già dotata di un suo spessore. Occorre tenere presente che l'Italia presenta alcune peculiarità rispetto ad altri Paesi europei. Infatti il Partito Socialista Italiano, a differenza dei grandi partiti socialdemocratici, in primo luogo quello tedesco, non partecipa alla retorica patriottica che porta al sostegno alla guerra mondiale. I Socialisti Italiani, guidati dalla corrente detta dei "massimalisti", il cui
principale esponente è Giacinto Menotti Serrati, assumono una posizione critica nei confronti del conflitto sintetizzata nella parola d'ordine del "né aderire, né sabotare". Si tratta evidentemente di un atteggiamento diverso da quello che Lenin indicherà ai bolscevichi russi e agli altri gruppi rivoluzionari esistenti in Europa della "trasformazione della guerra in rivoluzione". Nonostante il Partito Socialista si dichiari sostenitore delle tesi sovietiche e fedele seguace della prospettiva rivoluzionaria indicata dalla Terza Internazionale a cui dà la propria adesione, resta nella sua maggioranza reticente ad accogliere integralmente le proposte organizzative e politiche che vengono sollecitate da Mosca. In particolare Serrati e i suoi massimalisti non aderiscono al pressante invito di espellere la componente riformista moderata di Turati. E' questo uno de motivi per cui la scissione di Livorno è attuata da una minoranza. Nel movimento comunista internazionale essa è oggetto di una polemica perché vi sono alcuni settori, in particolare nel Partito Comunista Tedesco, che ritengono che essa sia stata affrettata e abbia dato vita quindi ad un partito dalla base più ristretta di quanto sarebbe stato possibile adottando un atteggiamento più accorto. Il PCI che nasce nel 1921 non è un docile esecutore del volere sovietico o della Internazionale Comunista, Internazionale di cui ovviamente i sovietici, per prestigio e dimensione, rappresentano la forza egemone. L'Internazionale Comunista, nata nel 1919, si forma sulla base della convinzione che si possa assistere in Europa ad una fase di espansione rivoluzionaria, che vada ben oltre la Russia zarista per coinvolgere altri paesi tra i quali in particolare la Germania e l'Italia. Per questo in una prima fase si preme perché i partiti comunisti che nascono lo facciano su una piattaforma radicale, liberandosi delle componenti considerate più incerte. Nel corso di pochi anni la spinta rivoluzionaria declina o viene sconfitta (ad esempio in Ungheria) e quindi il Comintern, sotto la forte pressione di Lenin, pone ai partiti comunisti l'obbiettivo di diventare
forze politiche in grado di conquistare un consenso di massa, di diventare il partito maggioritario della classe operaia. Per far questo è necessario lavorare nei sindacati, anche se diretti dai socialdemocratici, partecipare alle elezioni e recuperare un rapporto politico con i partiti socialisti, da cui quasi ovunque i comunisti si sono separati da poco. Questa politica viene detta, nel linguaggio del Comintern, del "Fronte unico". In coincidenza con questa correzione strategica, Lenin polemizza apertamente con le correnti più radicali presenti all'interno dei partiti comunisti. In un celebre testo definisce l'estremismo come la malattia infantile del comunismo. Fra coloro che sono presi di mira dalle frecciate di Lenin vi è anche Bordiga e quindi di fatto il Partito Comunista Italiano. Bordiga è contrario alla partecipazione alle elezioni e contesta l'ipotesi di un riavvicinamento al partito socialista. Le sue convinzioni intransigenti e spesso settarie lo conducono ad una visione del partito isolato e ostile ad ogni altra componente politica. Tra l'altro Bordiga contrasta l'ipotesi di unificazione del PCI con il Partito Socialista, sostenuta invece dall'Internazionale Comunista, ritenendo che questa diluirebbe l'autentico carattere rivoluzionario del partito.
Il cambio di direzione nel PCI. Tra il 1923 e il 1925 la politica del Partito comunista entra in conflitto sempre più aperto con la direzione sovietica. Inizialmente tutto il gruppo dirigente è unito attorno a Bordiga, compresi i principali esponenti degli ordinovisti torinesi, Gramsci e Togliatti. La sola eccezione è costituita da una piccola componente di destra, guidata da Bombacci, che poi diventerà fascista, e Graziadei e dalla figura piuttosto isolata di Angelo Tasca. Quest'ultimo viene anch'egli dall'esperienza dell'Ordine Nuovo. In questi anni i Partiti comunisti sono visti a tutti gli effetti come sezioni di un unico partito mondiale quindi la strategia e la tattica sono decisi dai Congressi dell'Internazionale Comunista e vanno applicate in modo disciplinato dai singoli partiti nazionali. Va anche detto che a
differenza di quanto avverrà negli anni successivi il dibattito è relativamente libero ed aperto ed i sostenitori di posizioni di minoranza non vengono sistematicamente esclusi dagli organismi di direzione nazionali o internazionali. Nel caso dell'Italia, l'Internazionale interviene direttamente per correggere la linea politica del partito nella direzione del Fronte unico e dell'unità con una parte del Partito Socialista. Si cerca in sostanza una direzione di ricambio a quella raggruppata attorno a Bordiga. A questo punto si forma una corrente di centro la quale si propone di evitare che lo scontro tra il PCI, il Comintern e la direzione sovietica arrivi fino agli estremi della rottura perché si ritiene che il Partito non abbia prospettive al di fuori del movimento internazionale. Inoltre i principali esponenti del centro, Gramsci e Togliatti vogliono evitare che la direzione del partito finisca in mano alla destra di Tasca, la quale è certamente allineata con la direzione internazionale ma non ha in Italia una base politica sufficiente per guidare e far crescere il partito. Oltre a queste motivazioni il nuovo gruppo dirigente comincia a riesaminare criticamente la politica bordighiana, considerata sempre più sterile e incapace di radicare il partito tra le masse. La situazione politica italiana è dominata dalla crescita del fascismo, dall'ascesa al potere di Mussolini dopo la marcia su Roma e da una crescente repressione che si rivolge verso i comunisti e tutte le forze democratiche. C'è in generale una sottovalutazione della forza del fascismo e della sua capacità di trasformarsi in regime. Soprattutto per effetto della crisi che fa seguito all'assassinio Matteotti, unico vero momento di difficoltà del fascismo nella sua fase di insediamento al potere, si ipotizzano rapidi mutamenti politici con il riassorbimento del movimento guidato da Mussolini all'interno di un normale gioco parlamentare. Come ben sappiamo l'esito non sarà questo e i tentativi di opposizione politica e sociale dell'antifascismo saranno stroncati con la repressione. Per Bordiga tra fascismo e democrazia non vi è differenza in quanto si tratta semplicemente di forme, solo superficialmente diverse, di sfruttamento e dominio capitalistico
Il cambiamento di direzione politica nel PCI trova all'inizio una notevole opposizione tra i quadri intermedi. Infatti nella conferenza di Como i bordighisti risultano ancora in maggioranza anche se il peso dell'intervento dell'Internazionale fa sì che la guida del partito resti affidata alla nuova direzione. E' solo il Congresso di Lione del 1925 che consente il consolidamento della nuova maggioranza anche per il distacco di molti dirigenti di primo piano come Terracini o Grieco, dalle posizioni di Bordiga. Quest'ultimo interviene nel dibattito del Comintern sollevando un problema che ha un effettivo fondamento, cioè il rischio che il movimento comunista che opera nei paesi capitalistici più avanzati sia negativamente condizionato dal modello russo di rivoluzione e di partito. Sono invece meno convincenti le critiche che rivolge ad una strategia politica, proposta e a volte imposta dall'Internazionale che cerca di far uscire i partiti comunisti dal minoritarismo settario. Bordiga resta nel PCI, da cui verrà espulso nel 1930, anche se abbandonerà progressivamente l'attività politica. E' solo alla fine della seconda guerra mondiale che ritorna a guidare un piccolo gruppo di militanti ossessionati più dalla ricerca della purezza dottrinaria che dalla capacità di intervenire realmente nei conflitti politici e sociali. Per Bordiga il partito deve salvaguardare da ogni forma di degenerazione ideologica il marxismo, in attesa che la classe operaia, sotto la spinta della inevitabile crisi del capitalismo torni a scoprire il comunismo.
Le crisi del Partito sovietico e la posizione del PCI. La strategia politica perseguita dal nuovo gruppo dirigente italiano è ormai allineata a quella sovietica. Gli elementi più importanti di questo periodo consistono soprattutto nello sforzo del PCI di darsi gli strumenti concettuali e di analisi per comprendere le specificità del capitalismo italiano. Sono soprattutto le tesi politiche approvate al congresso di Lione, cercando di cogliere le ragioni dell'arretratezza del capitalismo in Italia che si ritrovano in particolare nella mancata soluzione di quella che viene chiamata la "questione meridionale", ovvero l'incapacità di determinare un processo economico e di industrializzazione omogeneo in tutto il
Paese. L'unità nazionale - si sostiene - è avvenuta sulla base di un compromesso tra la borghesia industriale del nord e i ceti possidenti agrari del sud, impedendo quindi una effettiva industrializzazione delle regioni meridionali. Nella seconda metà degli anni '20 l'evoluzione della situazione interna all'Unione Sovietica, con il processo che vede imporsi il potere di Stalin, produce dei momenti di crisi nel Partito Comunista che restano però circoscritti in gran parte all'interno del gruppo dirigente. Un primo "caso" si determina con la lettera che Gramsci scrive, a nome del PCI, alla direzione sovietica nel 1926. E' il momento dello scontro tra Stalin e Bucharin da una parte e della cosiddetta "nuova opposizione unificata" di Trotsky e Zinoviev dall'altra. Due sono i temi principali dello scontro: la politica economica e la gestione del partito. Sull'economia Stalin, che in questo momento è collocato alla destra del partito bolscevico, sostiene la tutela economica degli strati contadini, anche di quelli medi, come base per produrre una accumulazione primitiva che consenta una graduale industrializzazione del Paese. Trotsky e Zinoviev chiedono invece una accelerazione dell'industrializzazione anche a costo di scontentare lo strato contadino. L'opposizione critica anche la crescente burocratizzazione e la riduzione degli spazi democratici all'interno del partito. Anche se in questo processo non poche responsabilità le ha avute lo stesso Zinoviev nel momento in cui il suo potere era massimo. Il PCI e lo stesso Gramsci tendono a schierarsi con la maggioranza di Stalin e Bucharin soprattutto sulle scelte economiche, ma sono preoccupati della rottura che si sta determinando nel gruppo dirigente bolscevico, che sotto la guida di Lenin aveva diretto la rivoluzione. Gramsci invita la maggioranza e l'opposizione a non condurre fino agli estremi lo scontro al punto da causare la scissione del partito. Questa rappresenterebbe un danno notevole per tutto il movimento comunista internazionale, rispetto al quale i russi non possono dimenticare le loro responsabilità. Un nuovo momento di svolta nel percorso verso la "stalinizzazione"della direzione russa si ha verso la fine degli anni '20,
quando si rompe l'alleanza con Bucharin. La direzione sovietica si divide sul cambiamento radicale della politica economica. Stalin si sposta a sinistra e diventa fautore di una industrializzazione ancora più accelerata di quella che aveva proposto qualche anno prima l’opposizione interna e soprattutto di una repressione generalizzata nei confronti dei contadini medi, i cosiddetti "kulaki". Anche l'Internazionale Comunista si radicalizza tornando ad una politica settaria, sulla base di una previsione di imminente crisi generale del capitalismo e della riapertura di nuove prospettive rivoluzionarie. Togliatti, pur senza schierarsi apertamente, come fa invece Tasca che per questo viene espulso, sembra più favorevole all'impostazione gradualista di Bucharin. Anche all'interno del PCI la direzione togliattiana attraversa un momento di difficoltà perché una parte del gruppo dirigente, soprattutto i giovani (Longo, Secchia) spingono affinché la svolta internazionale abbia una immediata applicazione nella politica comunista con l'invio di militanti clandestini in Italia e il tentativo di ricostruire un centro interno di direzione del partito. Questa politica non ha successo e quasi tutti i militanti inviati in Italia vengono arrestati dalla polizia fascista e finiscono in carcere o al confino. Carcere dove si trova anche Gramsci, il quale esprime un dissenso dalla nuova politica dell'Internazionale e del PCI, che lo porta all'isolamento politico dagli altri militanti comunisti. Soprattutto un tema è al centro del dissenso gramsciano. L'analisi estremista che prevale nel Comintern produce la convinzione che la caduta del fascismo, che si ritiene imminente, porti immediatamente ad una rivoluzione di tipo socialista. A Gramsci sembra molto più probabile un passaggio democraticoborghese attraverso una Assemblea Costituente. L'impostazione del PCI, in linea con la tesi del "socialfascismo" sostenuta dal Comintern, che assimila la socialdemocrazia al fascismo, conduce all'isolamento politico il partito. Per l'Italia, data la condizione di stretta clandestinità, questa politica non produrrà i disastri che invece incombono su altre realtà, come la Germania. Nella discussione storica e politica a posteriori vi è stato chi ha ritenuto (Amendola) che da una impostazione politica sbagliata, sia comunque derivato un
bene per il PCI, perché ha favorito il suo radicamento in Italia.
La svolta dei Fronti popolari. A metà degli anni '30 l'Internazionale Comunista apre una nuova fase politica nella quale abbandona gli elementi caratterizzanti del periodo precedente: scommessa sull'imminenza della crisi rivoluzionaria, ruolo totalmente negativo della socialdemocrazia anche di sinistra ecc. Su questa svolta incidono diversi fattori. Innanzitutto l'esito catastrofico che ha avuto in Germania l'applicazione della strategia cosiddetta del "terzo periodo", con la quale si è favorito l'avvento al potere del nazismo (responsabilità che va condivisa con quella della socialdemocrazia tedesca e internazionale); la spinta popolare all'unità delle forze antifasciste; gli interessi dell'Unione Sovietica che teme il riarmo e l'aggressività della Germania hitleriana. I Fronti popolari sono alleanze che vanno al di là dei partiti della sinistra che hanno una comune radice nel movimento operaio, per comprendere settori democratico-borghesi, incarnati in Francia dal Partito Radicale e in Spagna dalla Sinistra Repubblicana. Sono in parte alleanze difensive, cioè nate per sbarrare la strada alle forze di orientamento fascista, in parte offensive, cioè di conquista di riforme democratiche e sociali. In Francia il governo di Fronte popolare, a cui i comunisti danno solo un appoggio esterno, introduce cambiamenti nella condizione sociale dei lavoratori che segneranno per decenni la memoria dei ceti proletari (settimana di ferie, riduzione dell'orario di lavoro, crescita dell'influenza delle organizzazioni sindacali). Per il PCI, costretto alla clandestinità e all'esilio, l'impatto diretto della politica di Fronte popolare è limitato anche se consente una ripresa di rapporti a sinistra, in particolare con i socialisti diretti da Nenni e in misura minore con il movimento di Giustizia e Libertà. Ma l'influenza indiretta è importante per il ruolo che svolge Togliatti all'interno del comunismo internazionale e per il coinvolgimento di migliaia di militanti comunisti nelle esperienze di Fronte popolare in Francia e in Spagna. Togliatti non è un promotore della nuova politica, anzi rivolge consigli di prudenza
alla dirigenza del Partito Comunista Francese nel momento in cui questo partito compie i primi passi nel delineare un cambio di strategia. Non c'è dubbio, però, che nella sua relazione al VII congresso dell'Internazionale Comunista, che si tiene nel 1935, e nel suo ruolo di consigliere dei comunisti spagnoli durante la guerra civile, è tra coloro che cercano di dare una prospettiva più ampia all'elaborazione di questa politica. Gli elementi nuovi portati dalla politica frontista sono: la ricerca di vaste alleanze e la disponibilità a partecipare a governi riformatori all'interno del quadro capitalistico. Togliatti, nelle sue elaborazioni sulla situazione spagnola, introduce un concetto inedito nell'armamentario ideologico terzinternazionalista, quello della "democrazia progressiva" . In sostanza la possibilità che attraverso la partecipazione del movimento operaio e dei comunisti al governo si possano restringere le basi sociali delle forze che portano al fascismo ma anche dare alla classe operaia e ai suoi partiti la capacità di introdurre riforme radicali che aprano la strada ad un cambiamento in direzione del socialismo. Nel caso spagnolo, dove l'ipotesi strategica di Togliatti dovrebbe trovare possibile applicazione, la conduzione della guerra civile porta a spostare l'azione sull'elemento difensivo: prima vincere la guerra e poi pensare alle riforme politiche e sociali. I comunisti vedono crescere il loro ruolo perché sono la forza più determinata, disciplinata e responsabile nella conduzione della guerra. Vengono però accusati dall'estrema sinistra (anarchici, Partito Operaio Unificato Marxista) e da una corrente del Partito Socialista (guidata da Largo Caballero) di avere vanificato le aspirazioni rivoluzionarie delle masse spagnole e in questo modo di avere in realtà indebolito il fronte repubblicano. Anche il rapporto con l'Unione Sovietica agisce in modo ambivalente. Da un lato, l'URSS è l'unica potenza che appoggia il governo repubblicano nella lotta contro i golpisti appoggiati da Germania e Italia. Dall'altro, anche la realtà spagnola viene toccata dalla "caccia alle streghe" dei processi staliniani contro i dirigenti delle vecchie opposizioni bolsceviche ormai emarginati da anni. In Spagna militanti e dirigenti dell'estrema sinistra, come Andres
Nin, vengono torturati e uccisi. Secondo alcuni anche con la complicità di dirigenti comunisti italiani, in particolare di Vittorio Vidali. Alla guerra civile spagnola non partecipano solo alcuni dirigenti come Togliatti, ma anche migliaia di italiani antifascisti, arruolati nelle Brigate internazionali, che si scontrano militarmente con i loro connazionali "volontari" mandati da Mussolini ad affiancare i franchisti. Gli antifascisti otterranno anche dei successi militari. In questo modo in terra spagnola si apre il conflitto civile che troverà ben altra dimensione in Italia dal 1943 al 1945. In questi anni il centro estero del partito subisce durissime critiche da parte del Comintern (che di fatto ormai coincide con i suoi dirigenti sovietici, tra cui alcuni agenti della polizia politica) al punto che si arriva allo scioglimento del suo Comitato Centrale. Il PCI non subisce la sorte che contemporaneamente si abbatte sul Partito Comunista Polacco che viene sciolto d'ufficio dal Comintern. E se non mancano militanti emigrati in Unione Sovietica che vengono arrestati e uccisi nel corso delle grandi repressioni staliniane, a differenza di altri partiti il suo gruppo dirigente resta intatto, anche perché molti esponenti di primo piano si trovano in prigione in Italia o in Francia. La situazione per i Partiti comunisti, che in generale hanno beneficiato della politica di Fronte popolare con una crescita di militanti, di consensi e di prestigio, torna difficile a seguito della firma del cosiddetto patto Molotov-Ribbentrop, cioè dell'accordo di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania nazista nel 1939. L'Unione Sovietica decise di formare questo patto per il timore di restare isolata sulla scena internazionale e soprattutto di diventare il bersaglio dell'aggressività nazista se la Germania si fosse accordata con la Gran Bretagna e la Francia. Se la sottoscrizione dell'accordo con il governo tedesco abbia realmente beneficiato all'URSS è una valutazione discussa dagli storici. Stalin pensò che questa intesa potesse garantire un lungo periodo di non belligeranza con la Germania e questo causò la mancata preparazione militare
dell'Unione Sovietica che pagò un prezzo enorme nella prima fase della guerra. Al di là degli aspetti diplomatici e militari del patto, la sua conseguenza politica fu molto negativa per i Partiti comunisti, perché questi, allineandosi con l'Unione Sovietica, abbandonarono la tematica antifascista e assunsero una posizione di neutralità tra la Germania nazista e gli altri paesi europei nella prima fase della guerra. Fu soprattutto il PC Francese ad attraversare un gravissima crisi, mentre il PCI, per le condizioni in cui si trovava, subì conseguenze minori e soprattutto non abbandonò la sua posizione di ferma opposizione al fascismo italiano. Tutto questo cambiò radicalmente con l'aggressione tedesca all'Unione Sovietica nel 1941 e la formazione del fronte antifascista internazionale. Nel corso della guerra cresce notevolmente la simpatia popolare nei confronti dell'Unione Sovietica per la sua determinazione nella lotta contro il nazismo, per l'enorme prezzo di distruzione e di vittime pagato ed anche per il vero e proprio mito che nasce attorno ad alcuni momenti della guerra, come la resistenza di Stalingrado, da cui inizia il declino militare della Germania.
La Resistenza e il dopoguerra. Dopo una fase di incertezza, nel 1944 attraverso quella che viene definita come la "svolta di Salerno", il PCI abbandona la pregiudiziale antimonarchica e decide di partecipare alla formazione di un governo antifascista molto ampio. La questione monarchia-repubblica viene rinviata al dopoguerra, rimandando la decisione alla volontà popolare verificata attraverso un referendum e ad una Assemblea Costituente. Il protagonista della "svolta di Salerno" è Togliatti da poco tornato in Italia dall'esilio russo. Attorno a questa decisione politica si è riaccesa negli ultimi anni la discussione e la polemica storiografica anche sulla base di alcuni documenti nuovi emersi dagli archivi russi. La storiografia del PCI, soprattutto negli anni '70 quando i comunisti italiani perseguivano un politica di più marcata autonomia dall'Unione Sovietica, ha sottolineato la valenza nazionale della
svolta operata da Togliatti per rimarcare gli elementi di continuità con la successiva affermazione della "via italiana al socialismo". La documentazione emersa tende invece ad evidenziare invece che la scelta politica annunciata a Salerno era già emersa in precedenza da un colloquio avuto a Mosca da Togliatti con Stalin, immediatamente prima della sua partenza per l'Italia. Gli storici anticomunisti utilizzano questo fatto per rimarcare invece la subordinazione del PCI all'Unione Sovietica o addirittura per dipingere un Togliatti estremista nei confronti di uno Stalin più moderato e ragionevole. Che la scelta politica compiuta dal PCI durante la guerra fosse convergente con la politica sovietica era in realtà noto al di là dei dettagli. In tutti Paesi europei (con la sola eccezione dell'Olanda) i Partiti Comunisti attivi nella Resistenza hanno sostenuto la più larga convergenza di forze antifasciste e hanno partecipato ai primi governi emersi alla fine della guerra. La specificità italiana, perseguita da Togliatti e dalla maggioranza del gruppo dirigente, consiste nell'aver cercato di dar vita ad una partito di massa e non di soli quadri, e in questo modo di radicarlo più profondamente nella realtà italiana, e di evitare di rinchiuderlo in un ghetto propagandistico e settario. In questi anni questa scelta non si scontra con la strategia sovietica, che consente una maggiore autonomia politica anche alle nascenti "democrazie popolari" (i paesi dell'est liberati dal nazismo e occupati dall'Armata Rossa), ma non è scontata. Altri partiti comunisti seguiranno strade diverse.
La guerra fredda, il Cominform e la rottura con la Jugoslavia. Nel 1947 si registra la rottura definitiva dell'alleanza antifascista a livello internazionale e nei singoli paesi europei che si orientano sempre più sulla base di una logica di blocco politico-militare. Nell'Europa centroorientale i Paesi guidati dai Partiti comunisti si adeguano al modello sovietico. Nei paesi occidentali i comunisti vengono esclusi dai governi di coalizione e si determinano politiche di discriminazione. Si avvia la fase della guerra fredda a cui il movimento comunista reagisce con un
irrigidimento dottrinario ma anche con una maggiore iniziativa militante. Alla fine del 1947 in una riunione che si tiene in una cittadina polacca viene decisa la costituzione del Cominform, un Ufficio di informazione tra i Partiti Comunisti. L'Internazionale Comunista era stata sciolta nel 1943, certamente per le pressioni degli Stati occidentali nei confronti dell'Unione Sovietica, ma anche perché considerata ormai una forma superata di organizzazione dei partiti comunisti. L'idea del Partito mondiale centralizzato si era rivelata velleitaria, ma questo non risolse il problema dell'autonomia dei singoli partiti comunisti. L'Internazionale non c'è più, ma il Partito Comunista dell'Unione Sovietica svolge un ruolo di direzione ancora molto forte. Il Cominform non ripropone la struttura del Comintern. Ad esso vengono affiliati solo alcuni partiti. In Europa occidentale sono presenti solo il PCF ed il PCI, comunque i due di gran lunga più importanti per influenza e consenso elettorale e non è inserito nessun partito extraeuropeo. Dalla riunione di fondazione del Cominform emerge una strategia politica che si basa sul timore di un possibile nuovo conflitto internazionale che potrebbe vedere stavolta uniti i paesi capitalistici contro l'URSS e quello che ormai viene definito il "campo socialista". Nella riunione di Szlarska Poreba, vengono rivolte dure critiche al PCI e al PCF perché non avrebbero reagito con la necessaria durezza dopo la loro esclusione dal governo. Il principale dirigente sovietico presente alla creazione del Cominform è Andrej Zdanov che al momento è il numero due di Stalin e il principale ideologo del PCUS. La visione che emerge in questa riunione tende a subordinare l'iniziativa e il radicamento nazionale dei singoli partiti al conflitto tra gruppi di Stati, tra il campo della pace (socialista) e il campo della guerra (capitalista). Il Cominform non riesce in realtà a svolgere un ruolo significativo. Su questo pesa anche la rottura, avvenuta nel 1948, tra l'Unione Sovietica e la Jugoslavia di Tito. Gli jugoslavi erano stati tra i maggiori protagonisti della riunione fondativa dell'organismo ed erano stati particolarmente duri nella polemica contro il
PCI e il PCF anche per il modo con cui questi partiti avevano gestito la loro partecipazione alla Resistenza. In Jugoslavia la Resistenza aveva avuto un carattere diverso da quella italiana. Era mancato un vero terreno di unità tra le componenti antitedesche, in particolare tra i comunisti e i nazionalisti serbi filooccidentali, i cosiddetti cetnici. I comunisti di Tito sono l'unica componente della resistenza ad avere una dimensione nazionale jugoslava, riuscendo a superare le divisioni etniche tra le varie anime del paese. Nel corso della guerra, attraverso un effettivo consenso popolare, il Partito comunista riesce ad acquisire il monopolio del potere, escludendo qualsiasi altra forza, aprendo così la strada ad un processo di trasformazione di tipo socialista. La polemica degli jugoslavi nei confronti dei partiti comunisti italiano e francese si basa sull'aver questi ultimi accettato la formazione di una coalizione unitaria di forze antifasciste diverse e quindi di aver sottovalutato la possibilità della conquista del potere. Un'accusa che non trova molto fondamento nella realtà politica, sociale e militare dell'Italia. Anche se i sovietici hanno avallato o addirittura spinto i partiti comunisti ad assumere una linea unitaria, mentre hanno cercato in diverse occasioni durante la guerra di premere sugli jugoslavi perché assumessero una politica più flessibile, nella conferenza di fondazione del Cominform utilizzano le critiche jugoslave per costringere i principali partiti comunisti dell'Europa occidentale ad un più stretto allineamento al campo sovietico. Nel 1948 scoppia la crisi che porta alla rottura tra Jugoslavia e Unione Sovietica. Non è del tutto chiarito quale sia l'effettivo fondamento della divisione. Sicuramente pesa la volontà di Tito di condurre in modo autonomo la trasformazione politica del paese ed anche di svolger una funzione di guida dei comunisti dei Paesi balcanici (in Albania e in Bulgaria sono al potere, mentre in Grecia sono impegnati in una sanguinosa guerra civile). All'indomani dello scoppio della polemica, dai toni durissimi, tra Tito e Stalin, il Partito Comunista Italiano si schiera con l'URSS, ripetendo pedissequamente i temi della
propaganda moscovita, che nel giro di poche settimane, se non di pochi giorni, trasformano la Jugoslavia, da paese in fase di rapida trasformazione verso il socialismo, a stato fascisteggiante. La rottura all'interno del blocco dei paesi socialisti, suscita perplessità nelle fila del partito, ma gli attestati di simpatia nei confronti di Belgrado sono rari e per lo più provenienti da militanti che durante la guerra antifascista hanno avuto stretti rapporti con la Jugoslavia. Il caso più clamoroso di dissenso originato dalla rottura avvenuta nel movimento comunista internazionale, ma con tematiche specifiche alla politica dei comunisti italiani, è quella del piccolo gruppo che si forma interno a Magnani e Cucchi. Il primo è il principale dirigente della federazione di Reggio Emilia del PCI ed è anche imparentato con Togliatti. La vicenda del Cominform, la cui sede era inizialmente stata stabilita a Belgrado, proprio a riconoscimento del ruolo di primo piano attribuito al Partito Jugoslavo, e poi trasferita a Bucarest, in Romania, incide nella vita del PCI in un'altra occasione. Nel 1950 Stalin propone a Togliatti di assumerne la direzione. Con l'inasprirsi del conflitto est-ovest in Europa, il dirigente sovietico ritiene opportuno cercare dare un maggior peso a questo organismo come strumento di raccordo e di orientamento dei diversi partiti comunisti. Togliatti respinge la richiesta di Stalin, nonostante questa sia stata approvata dalla direzione del PCI. In questo orientamento del massimo organismo politico del partito, Togliatti vede in sostanza un tentativo di allontanarlo dalla guida del PCI, quasi un "complotto" finalizzato ad imprimere un diverso orientamento alla politica dei comunisti italiani. Non tanto perché Togliatti sia in conflitto con la politica sovietica sulle questioni internazionali, quanto perché ritiene che questo allineamento non debba impedire una certa capacità di movimento nella realtà politica nazionale. E' il caso ad esempio della questione del pericolo della bomba atomica. Anche i comunisti italiani partecipano ad una iniziativa imponente di propaganda in favore della pace e contro il pericolo di guerra atomica impostata dal Cominform.
In particolare viene attuata una raccolta di firme, e sono alcuni milioni, in calce al cosiddetto Appello di Stoccolma. Togliatti però su questo tema apre un confronto non retorico, rivolto in particolare a mondo cattolico, sulle implicazioni che assume l'estensione del possesso di armi atomiche da parte dell'Unione Sovietica e degli USA. Non si tratta solo di prendere atto dell'esistenza di armi più pericolose, ma ci si deve confrontare con un cambio di paradigma, che modifica il ruolo della guerra e impone la ricerca di una nuova convivenza. Il XX Congresso, la destalinizzazione e la rivolta ungherese. Il 1956 è un anno chiave nella storia del movimento comunista internazionale. Si aprono nuove possibilità e prospettive, attraverso una revisione critica dell'esperienza compiuta nei decenni precedenti, ma si rivela anche la profondità delle contraddizioni esistenti all'interno dei paesi del campo socialista. Stalin muore nel 1953 e viene celebrato da tutti comunisti (tranne le piccole minoranze critiche che sopravvivono ai margini del movimento, come i trotskisti e i bordighisti) come un dirigente politico assolutamente straordinario. Il peso che aveva avuto nella direzione dell'Unione Sovietica e soprattutto durante la seconda guerra mondiale, ma anche l'agiografia propagandistica che gli era stata costruita intorno, avevano determinato la creazione di un vero e proprio mito. Nel 1956 questo mito viene brutalmente rimesso in discussione. Al XX Congresso del Pcus, Khrusciov, che nel frattempo si è affermato come il principale dirigente, dopo un periodo di incertezza durante il quale non erano mancati i conflitti all'interno della direzione sovietica, presenta un rapporto "segreto" nel quale denuncia una serie di crimini commessi da Stalin o sotto la sua direzione politica. Tra questi lo sterminio di quasi tutta la vecchia guardia bolscevica, ma anche di gran parte dei delegati al Congresso del Partito Comunista Sovietico del 1936, quello definito paradossalmente dei "vincitori" perché aveva segnato il trionfo assoluto nella nuova leva di dirigenti staliniani. Vengono rivelate le dimensioni delle grandi repressioni della seconda metà degli anni '30, e denunciata la progressiva scomparsa di ogni forma di direzione
collegiale nel partito sovietico. Viene utilizzata la formula del cosiddetto "culto della personalità" Il rapporto "segreto", definito in questo modo perché presentato in una seduta del Congresso dalla quale erano escluse la stampa e gli invitati, venne fatto conoscere all'estero e pubblicato negli Stati Uniti. L'impatto fu naturalmente enorme in tutti i partiti comunisti ed anche in quello italiano. La reazione di Togliatti fu molto prudente e tesa a sminuirne le conseguenze pratiche considerando che esso fosse la denuncia di pratiche sbagliate ma che in un qualche modo esse erano già state superate dallo stesso Congresso sovietico. L'atteggiamento nei confronti della destalinizzazione suscitò un grande dibattito nel partito e non solo nel suo gruppo dirigente. Emersero posizioni che prendevano spunto dalla denuncia di Khrusciov per chiedere una revisione complessiva della politica del PCI, con un forte rilancio dell'autonomia nazionale del partito, con una maggiore apertura al pluralismo interno. Fu particolarmente vivace il dibattito tra gli intellettuali che portò anche all'uscita dal Partito di alcuni tra i più prestigiosi. Di fronte all'estendersi del dibattito, Togliatti riprende le questioni sollevate dal rapporto segreto in un intervento pubblicato dalla rivista "Nuovi Argomenti", nella quale pur con grande prudenza si sollecita una riflessione più approfondita sulla situazione dei paesi socialisti. Togliatti respinge in sostanza una critica che venga concentrata tutta sulla figura di Stalin, al quale prima si attribuivano tutti i meriti ed ora tutte le colpe. Togliatti utilizza un termine, quello dell'esistenza di possibili processi di "degenerazione", che i sovietici non apprezzeranno per nulla. L'atteggiamento di Togliatti da una parte attenua l'impatto della rottura dall'altra invita ad un maggiore approfondimento analitico. Ci si può chiedere però se la drammatizzazione operata da Khrusciov, anche se debole nella spiegazione dei problemi emersi nella costruzione del socialismo, a partire dall'assenza di democrazia, non fosse indispensabile per aprire veramente una fase nuova e porre la
questione di un ripensamento radicale della strategia dei partiti comunisti. A complicare la situazione interviene, nella seconda metà dell'anno, prima la rivolta operaia e popolare polacca, riassorbita grazie ad una accorta politica riformista avviata da Gomulka, a poi la ben più drammatica vicenda ungherese. Il processo di destalinizzazione fa emergere una esigenza di rinnovamento che porta alla caduta di Rakosi, e all'insediamento di Imre Nagy, sull'onda di una rivolta popolare che nasce come moto di rinnovamento all'interno del socialismo. La debolezza e la divisione del nuovo gruppo dirigente, e l'esistenza di una forte corrente anticomunista nel paese, porta ad una situazione di instabilità alla quale i sovietici rispondono con un intervento militare. La rivolta si radicalizza ed assume un più netto profilo anticomunista che i sovietici riescono a stroncare con una dura repressione. Per comprendere la rivolta ungherese occorre ricordare che in questo Paese, come in altri del blocco orientale, i comunisti si sono installati al potere con la forza e grazie alla presenza dell'Armata rossa. La trasformazione socialista è stata imposta dall'alto e non è scaturita da un processo rivoluzionario originale e dotato di un seguito di massa. In più, la stretta subordinazione all'Unione Sovietica ha fatto sì che la rivendicazione dell'autonomia nazionale potesse essere utilizzata in funzione ostile al processo di trasformazione sociale. Il Partito Comunista Italiano, ed in questo la determinazione di Togliatti fu decisiva, si schierò a favore dell'invasione sovietica. Non mancarono opposizioni e diversificazioni, in particolare quella di Di Vittorio, alla guida della CGIL, che espresse una posizione critica. Sicuramente la sua linea fu condizionata dalla volontà di non determinare una spaccatura con la componente socialista della CGIL che era in maggioranza contraria all'intervento, ma fu anche l'autonoma espressione di un possibile punto di vista diverso. La polemica si è riaccesa nuovamente su questa vicenda e sulla posizione che assunse allora il PCI, in coincidenza del cinquantesimo anniversario di quegli avvenimenti. Senza considerare le posizioni
pregiudizialmente anticomuniste e quelle meramente propagandistiche, si sono espresse due tesi diverse. Una più critica, che considera la posizione del PCI un errore, e un'altra più giustificazionista, che pensa che le condizioni politiche del momento non permettessero al PCI di assumere una diversa posizione. Penso che alla luce delle vicende storiche successive il PCI avrebbe dovuto quantomeno anticipare al 1956 il processo di autonomizzazione dall'Unione Sovietica che invece iniziò a concretizzarsi solo dopo l'invasione della Cecoslovacchia nel 1968.
La rottura cino-sovietica e il Memoriale di Yalta. I primi anni sessanta vedono il movimento comunista internazionale attraversato dalla rottura tra l'Unione Sovietica e la Cina. Questa divisione assume contenuti ideologici e incide in misura diversa su tutti i partiti. In Europa solo l'Albania si schiera con la Cina e in Occidente nascono piccoli gruppi influenzati dalla polemica maoista contro il cosiddetto "revisionismo". Anche Togliatti viene preso di mira dai cinesi che contestano le idee di fondo della via italiana al socialismo in nome di un leninismo rivoluzionario piuttosto dogmatico ed astratto. Esiste una corrente di simpatia nei confronti della Cina, soprattutto nella sua fase più radicale, quella della rivoluzione culturale, che coinvolge soprattutto giovani ed intellettuali. In Italia il maoismo riesce ad avere un certo seguito all'interno della radicalizzazione giovanile del '68. I principali gruppi dell'estrema sinistra (con la parziale eccezione di Avanguardia Operaia) rielaborano le tesi maoiste ma senza arrivare ad unirsi in una sola organizzazione. Nella polemica cino-sovietica, Togliatti simpatizza con l'Urss, in particolare sulla questione della possibilità della coesistenza pacifica tra mondo socialista e mondo capitalista in una competizione non più regolata dall'ineluttabilità della guerra. Ma anche sulla questione delle vie nazionali al socialismo, in cui prevale la prospettiva della transizione graduale, parlamentare e sostanzialmente pacifica al socialismo, il PCI è più vicino ai sovietici che ai cinesi. A differenza dei sovietici, però, i comunisti italiani non ritengono utile formalizzare una condanna che riaffermerebbe l'esistenza di
un movimento comunista organizzato ed omogeneo. E' questo uno degli elementi che emerge dalla progressiva evoluzione della politica di Togliatti e del resto del gruppo dirigente del PCI. L'idea stessa di un movimento comunista internazionale ideologicamente differenziato da altre forze progressiste e di sinistra è considerato ormai un fatto storicamente superato. Già nel 1956 Togliatti aveva parlato di "policentrismo" a proposito della relazioni tra i partiti comunisti, perché considerava dannoso allo sviluppo dei partiti stessi l'esistenza di un centro che si identificava inevitabilmente con l'Unione Sovietica. Questo non significa che fosse favorevole ad una rottura con il PCUS. La sua biografia oltre che il suo spiccato e qualche volta eccessivo, realismo politico, gli impedivano di vedere come possibile una simile soluzione. Ma coglieva anche una situazione di impasse, di crisi di prospettiva di tutta la strategia dei partiti comunisti, e lo dirà più esplicitamente nel Memoriale di Yalta. Si tratta di un breve documento che Togliatti avrebbe dovuto presentare ai sovietici nel corso degli incontri che doveva avere quando si trovava in vacanza nella cittadina sul Mar Nero. La sua morte improvvisa e la decisione assunta da Luigi Longo, successore di Togliatti alla guida del partito di renderlo pubblico, ha fatto che sì che questo documento assumesse una grande importanza nell'orientare la politica del Partito Comunista negli anni successivi. Tra l'altro in esso viene posto in modo chiaro il problema della democrazia e della libertà, ovvero della loro mancanza, nei paesi socialisti.
L'invasione della Cecoslovacchia. Nell'agosto 1968, le truppe sovietiche, insieme a quelle di altri Paesi del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia mettendo così fine al tentativo di rinnovamento del socialismo operato da Dubcek e dalla direzione del Partito Comunista. La "Primavera di Praga", come era stata chiamata, cercava di ampliare gli spazi di libertà e democrazia senza mettere in discussione l'allineamento internazionale del Paese, né l'economia statalizzata.
L'esperienza compiuta a Praga, viene sostenuta dai principali partiti comunisti occidentali, tra cui anche il Partito Comunista Italiano. La decisione sovietica di intervenire militarmente al fine di "normalizzare" il paese, cioè di fatto imporre il modello di socialismo autoritario e burocratico vigente nel resto del campo socialista apre una frattura tra l'URSS e una parte importante del movimento comunista. Quasi tutti i PC dell'Europa occidentale si schierano, con maggiore o minore determinazione, contro l'invasione. La decisione di intervenire militarmente in Cecoslovacchia apre una profonda contraddizione tra i paesi socialisti e i movimento giovanili radicali protagonisti del 1968. L'URSS viene vista, non a torto, come parte di un vecchio mondo autoritario, piuttosto che come possibile alleata nel processo di trasformazione politica, sociale e culturale del mondo capitalistico. La condanna dell'invasione della Cecoslovacchia, compiuta dal PCI, non rappresenta ancora una rottura con il movimento internazionale egemonizzato dall'Unione Sovietica. L'anno successivo alla fine dell'esperienza di rinnovamento socialista di Praga si tiene una conferenza mondiale di partiti comunisti. La precedente si era svolta nel 1960, e da diversi anni i sovietici cercavano di ottenere l'assenso dei maggiori partiti comunisti al suo svolgimento, trovando però molti ostacoli. Anche il PCI, non vede con favore la convocazione di questa conferenza, perché non vuole che sia utilizzata come la sede per una "scomunica" dei comunisti cinesi. I comunisti italiani non condividono il radicalismo maoista e l'operazione di divisione dei partiti comunisti tradizionali operata dai cinesi con il sostegno a gruppi scissionisti (anche in Italia nasce un Partito Comunista d'Italia marxista-leninista, riconosciuto da Pechino, ma di scarso peso), sono però contrari a condanne ideologiche collettive alla politica di altri partiti comunisti. Una simile scelta indebolirebbe anche la volontà di autonomia espressa dal Partito italiano. Nonostante il lungo travaglio alla fine la conferenza mondiale si tiene a Mosca e ad essa partecipa Enrico Berlinguer. Nel suo intervento conferma la condanna dell'invasione della Cecoslovacchia e la ricerca di una autonoma via di
trasformazione socialista per l'Italia. La delegazione del PCI decide di non sottoscrivere il documento finale ritenendolo troppo ideologico, limitandosi ad approvare invece il capitolo relativo alla lotta per la pace.
La breve stagione dell'eurocomunismo. Il rapporto tra comunisti italiani e sovietici subisce un brusco e peraltro inevitabile deterioramento nella seconda metà degli anni '70 quando nasce l'esperienza definita dell'eurocomunismo. Si tratta di una formulazione che ha avuto molta fortuna, ma che non è mai stata del tutto accettata da PCI e da Berlinguer in particolare. Era infatti stata forgiata da un giornalista italiano estraneo al movimento comunista, Frane Barbieri. Si trattava in sostanza della definizione di alcuni elementi di valore generale su cui si ritrovavano i tre maggiori partiti comunisti dell'Europa occidentale: gli italiani, i francesi e gli spagnoli. Questi non costituirono mai un vero e proprio centro, ma attraverso una serie di incontri e di dichiarazioni comuni formularono un tentativo di rinnovamento del profilo ideologico e della strategia politica dei comunisti. In particolare veniva affermata una comune identità nel sottolineare l'intreccio indispensabile che deve esistere tra democrazia e socialismo, evidenziando quindi in modo sempre più esplicito una critica complessiva ai sistemi socialisti che si erano realizzati prima in Unione Sovietica e poi nell'Europa orientale. Non si era quindi più solo in presenza dell'affermazione di diverse vie nazionali al socialismo, per tener conto di condizioni politiche, sociali, storiche differenti, ma dell'esigenza di cominciare a delineare una idea di socialismo diversa da quella sovietica. Idea a cui restava ancorata ancora buona parte del movimento comunista internazionale (costituito però in buona parte da partiti piccoli o addirittura insignificanti, per i quali il collegamento identitario all'Unione Sovietica diventava la principale se non l'unica ragione di sopravvivenza). La scelta compiuta dal PCI nell'ambito della corrente eurocomunista è anche condizionata dalle vicende politiche interne.
Il partito è in fase di forte espansione elettorale, la possibilità di un avvicinamento al governo diventa più concreta e la presa di distanza dall'URSS e dal blocco orientale diventa anche il mezzo per favorire una diversa collocazione del partito. Il bilancio dell'eurocomunismo, fenomeno rapidamente declinato in pochi anni, è legato necessariamente ad un elemento di ambiguità che esso conteneva. In parte era espressione di un processo di inserimento nel quadro istituzionale dell'Europa occidentale arrivando a sfumare sempre più le differenze con i partiti socialisti e socialdemocratici riformisti. Ma esso conteneva anche il tentativo di formulare una nuova idea di socialismo, meno burocratico e più democratico. Non si tratta solo di riconoscere l'esistenza di vie diverse, nazionali al socialismo, che rappresentava l'acquisizione del 1956 con la destalinizzazione e il primo tentativo di riforma del socialismo attuato da Kruschov. Ora è propria l'idea stessa di socialismo che viene rimessa in discussione sulla base di un bilancio critico dell'esperienza di quello che viene definito come "socialismo realmente esistente".
La crisi polacca e la rottura con il filosovietismo. Un lungo e contraddittorio percorso di autonomizzazione del PCI, prima dalla direzione politica sovietica e poi dal modello di società realizzato in URSS, arriva ad un momento decisivo di svolta all'inizio degli anni '80. La rottura, per la prima volta esplicita, avviene in conseguenza della crisi della Polonia, ma un ruolo lo svolge anche l'invasione dell'Afghanistan. In Polonia emerge un vasto movimento sociale che ha la sua base soprattutto tra i lavoratori, che si organizzano nel sindacato indipendente Solidarnosc, che pone l'esigenza di un radicale rinnovamento della società e del ruolo del potere politico, controllato monopolisticamente dal Partito comunista. Nella prima fase del suo sviluppo, Solidarnosc esprime una aspirazione non ad una restaurazione capitalistica, come avverrà successivamente ma all'introduzione di una forma di
autogestione sociale dell'economia e delle fabbriche. Viene contestato il controllo del partito unico esercitato attraverso la direzione statale di tutte le attività economiche. Il modello di sviluppo perseguito dal partito comunista entra in crisi e determina una forte caduta del consenso nei confronti del sistema politico. La crescita dell'opposizione, che ormai raccoglie consensi anche fra gli iscritti e i quadri intermedi del Partito Operaio Unificato Polacco (questo è il nome del partito comunista), viene contrastata con un colpo di stato che vede l'assunzione del potere da parte dei militari al fine di garantire la repressione di Solidarnosc e la continuità del regime politico esistente. L'iniziativa dei militari è stata giustificata con l'impellenza di evitare un intervento militare sovietico che avrebbe potuto causare un sanguinoso conflitto. Le vicende successive hanno dimostrato che questa prova di forza non ha invertito la crisi del regime, al contrario ne ha ulteriormente indebolito la legittimità. Il Patito Comunista Italiano, che aveva seguito con qualche perplessità l'esperienza di Solidarnosc, a causa del legame forte che esso aveva con la Chiesa cattolica e dell'influenza di orientamenti culturali esterni alla tradizione del movimento operaio socialista o comunista, esprime una decisa condanna nei confronti del colpo di stato. In questa occasione Berlinguer arriva a formulare un giudizio che ha una implicazione molto più vasta di quello di un semplice dissenso su un singolo avvenimento. Con una frase che è diventata la chiave della svolta, Berlinguer parla di fine della spinta propulsiva delle società emerse dalla Rivoluzione d'Ottobre. Siamo quindi di fronte ad un giudizio organico e drastico nei confronti di queste esperienze. Si prende atto dei limiti strutturali che il "socialismo reale" presenta, sul terreno della democrazia, del riconoscimento delle esigenze espresse dai nuovi movimenti sociali (femminismo, ecologismo, pacifismo), della stessa capacità di sviluppo economico (la stagnazione del periodo brezhneviano). Si deve inoltre riconoscere che non sembrano in grado di esprimere una effettiva capacità di rinnovamento.
La posizione assunta dal PCI tiene conto anche degli effetti dell'intervento militare sovietico in Afghanistan effettuato alla fine del 1979. Con questa scelta l'URSS si è tagliata la strada nella capacità di rappresentare un punto di riferimento per larga parte del Terzo Mondo, ed è in questo momento che si determina una delle cause del declino delle correnti di sinistra nel mondo arabo e musulmano e dello sviluppo dell'islamismo. La posizione assunta del PCI sull'Afghanistan e sulla Polonia porta alla formazione di una corrente interna filosovietica che trova il proprio leader in Armando Cossutta, il quale denuncia lo "strappo" effettuato in questo modo nei confronti dell'Unione Sovietica ma anche nei confronti di quella che si ritiene essere una componente fondamentale dell'identità del PCI. La crisi congiunta del PCI e dell'URSS. Quando in Unione Sovietica si apre la fase della perestrojka durante la quale, sotto la direzione di Mikhail Gorbaciov, viene tentato il rilancio del meccanismo produttivo e contemporaneamente si consente una maggiore circolazione di informazioni e libertà di discussione, il PCI ha già orientato la propria attenzione verso i maggiori partiti della socialdemocrazia europea. Dopo la morte di Berlinguer, con la segreteria di Alessandro Natta, il partito si colloca nell'ambito della sinistra europea. In un primo tempo si intende in questo modo indicare uno spazio politico dentro il quale possano collocarsi partiti con una storia ed un identità diverse, quindi il partito comunista può affiancarsi alla socialdemocrazia. Il nodo verrà sciolto con la proposta di Occhetto di mutamento del nome e con la richiesta di affiliazione all'Internazionale Socialista. In questo modo si determina la rottura con la ragione politica originaria del partito, far parte di una nuova corrente che rilancia il progetto di trasformazione della società e di superamento del capitalismo. Questa era la ragione fondante del PCI, al di là della specifica identificazione con il modello emerso dalla rivoluzione d'Ottobre e dalla generalizzazione dell'esperienza bolscevica. Nei confronti dell'Unione Sovietica, all'interno del PCI, nella fase conclusiva
della sua storia emergono vari orientamenti. Alcuni assumono l’approccio proprio delle correnti socialdemocratiche più anticomuniste che individuano nell'Unione Sovietica un esperimento totalitario, sbagliato fin dall'origine. Altri tendono a collocare l'esperienza del PCI e dell'Unione Sovietica in una prospettiva storica, valorizzando la specificità dell'esperienza storica del comunismo italiano, ma considerandola ormai superata. Fra le componenti interne ostili al superamento del PCI e alla sua trasformazione in partito socialdemocratico (più classico nell'interpretazione di Giorgio Napoletano, più legato ai nuovi movimenti sociali in quella di Occhetto) si ritrovano orientamenti molto diversi. Le due componenti principali sono quella critica dell'esperienza sovietica e che si ricollega alle intuizioni dell'eurocomunismo e quella filosovietica che continua a ritenere essenziale l'identificazione con l'URSS. Queste due tendenze esprimono una diversa valutazione della perestrojka. La componente "eurocomunista di sinistra" ritiene di poter collegare la sua proposta di strategia di rilancio e rinnovamento del PCI (la rifondazione comunista) al successo del tentativo gorbacioviano. La corrente "filosovietica" oscilla fra la speranza di beneficiare della simpatia di cui gode il nuovo segretario generale del PCUS e le perplessità nei confronti di posizioni politiche e ideologiche che sembrano più vicine a quelle di Berlinguer, che non alla tradizione "marxista-leninista". La sconfitta dell'esperimento riformista all'interno del PCUS e il crollo dell'Unione Sovietica rappresentano nell'immediato una sconfitta per entrambe. Gli "eurocomunismi di sinistra" hanno sopravvalutato la possibilità di rinnovamento del sistema, che invece arriva ormai troppo tardi a rimettere in discussione i propri fondamenti e lo fa in una situazione internazionale dominata dal rilancio dell'egemonia capitalistica attraverso il neoliberismo. I "filosovietici" devono dimostrare che il crollo dell'Unione Sovietica rappresenta solo un incidente di percorso superabile rilanciando la stessa prospettiva ideologica che ha prodotto il fallimento.
In conclusione il rapporto tra Partito Comunista Italiano e Unione Sovietica ha funzionato spesso in modo ambivalente. Ha costituito una grande risorsa materiale ma soprattutto simbolica, ma anche posto vincoli alla possibilità di esprimere in modo originale una strategia di trasformazione della società. C'è stato un ritardo nell'aprire una riflessione critica sulla realtà del tipo di socialismo esistente e nel trarre delle conclusioni univoche sulle vicende del blocco sovietico almeno a partire dal 1956, quando la destalinizzazione aveva aperto nuovi spazi di iniziativa. Franco Ferrari Parma, 12 dicembre 2006