Colli - Il Partito Unico

  • Uploaded by: enzo de simone
  • 0
  • 0
  • June 2020
  • PDF

This document was uploaded by user and they confirmed that they have the permission to share it. If you are author or own the copyright of this book, please report to us by using this DMCA report form. Report DMCA


Overview

Download & View Colli - Il Partito Unico as PDF for free.

More details

  • Words: 4,453
  • Pages: 12
associazione culturale Hop Frog - Salerno

Oreste Colli Il partito unico

Ormai da una quindicina di anni nelle società “avanzate” si assiste ad una offensiva con la quale le classi dominanti hanno ribaltato i rapporti di forza prevalenti all’inizio degli anni ‘70. Lo strumento propagandistico usato per questa offensiva è l’ideologia neo-liberale, cioè la traduzione in termini ideologici degli interessi del capitale internazionale. Questa ideologia, presentata come un nuovo vangelo, è stata accettata dalle formazioni politiche che si contendono il potere statale. Si è venuta così a costituire un’area magmatica, una sorta di “partito unico” diviso in correnti (“destra” e “sinistra”) che si scontrano anche ferocemente - come è avvenuto in Italia agli albori della cosiddetta “seconda Repubblica” - ma sempre con programmi economici e sociali assai simili. Ne risulta una cappa ideologica oppressiva e devastante che cerca di farci credere che non esiste alternativa all’esistente. Ma è un inganno. Oreste Colli

“(...) non guardiamo mai indietro, guardiamo sempre avanti, avanti, poiché  

avanti è il nostro sole, avanti la nostra salvezza; e se ci è consentito, se è   anche utile e necessario rivolgerci indietro, per studiare il nostro passato, è   solo per constatare ciò che siamo stati e ciò che non dobbiamo più essere,   ciò che abbiamo creduto e pensato, e ciò che non dobbiamo più né credere  né pensare, ciò che abbiamo fatto e che non dobbiamo fare mai più.” (M.  Bakunin) “In un sistema liberale il mercato finanziario costituisce il luogo nel quale 

si formano le opinioni dei risparmiatori: è un voto che si esprime   quotidianamente e dal quale l’azione di governo non può prescindere”  (Dalle dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio 

associazione culturale Hop Frog - Salerno

Lamberto Dini alla Camera, 23 gennaio 1995). Negli ultimi anni si è sviluppato una sorta di “pensiero unico”. Descritto come  un nuovo vangelo, questo “pensiero unico” non è altro che la traduzione in  termini ideologici degli interessi del grande capitale internazionale. Le sue  parole chiave sono: il mercato (soprattutto quello finanziario), la concorrenza  e la competitività, la mondializzazione (dei flussi finanziari come della  produzione), la moneta forte e i prezzi stabili (fattori di ricchezza), il  contenimento del costo del lavoro, la diminuzione dei deficit pubblici, i tagli  alle spese sociali, la deregolamentazione, la privatizzazione. In una parola:  liberalizzazione! La volgarizzazione di questo pensiero unico è fin troppo semplice: siamo  impegnati in una guerra tecnologica, industriale ed economica senza  quartiere su scala mondiale. L’obiettivo è quello di sopravvivere. La  sopravvivenza passa per la competitività. All’infuori di essa non è possibile  benessere economico e sociale. Il ruolo principale dello Stato, del sistema  educativo, dei sindacati, delle amministrazioni locali è creare l’ambiente più  propizio alle imprese in modo che esse siano (o divengano, o restino)  competitive. In questa gigantesca guerra per la sopravvivenza ogni mezzo è  buono: ricerca e sviluppo, speculazione finanziaria, dumping sui prezzi,  delocalizzazione delle unità produttive, fusioni e acquisizioni, licenziamenti...  La funzione dello Stato è quello di tutelare al meglio l’interesse generale (che  altro non è che l’interesse delle gigantesche società che si contendono il  mercato mondiale), evitando che le pressioni sociali possano intaccare la  capacità competitiva delle imprese.  La ripetizione ossessiva di questi concetti su tutti i media e da parte di tutti gli  uomini politici, finisce con il dare al “pensiero unico” un alone di universalità.  Chi non accetta queste aberranti regole e considerato un inguaribile utopista  o un pericoloso sovversivo.  A leggere i giornali e ad ascoltare i telegiornali parrebbe che la crisi in cui si  avvita la società capitalistica sia solo una specie di incubo frutto di menti  malate. In realtà è proprio l’evidenza quotidiana che dimostra come sia sul  piano regionale che su quello mondiale Stato e mercato siano incapaci di far  funzionare in maniera razionale e nell’interesse dell’intera collettività le  strutture dalle quali dipende il buon funzionamento della società (educazione,  sanità, trasporti, comunicazione, ecc.).  Il “pensiero unico” ci vorrebbe far credere che il capitalismo sta edificando  una società stupenda. Peccato che nessuno se ne accorga! 

associazione culturale Hop Frog - Salerno

“Se guardiamo al voto dei ceti sociali più moderni alle elezioni del 27 

marzo 1994, quel voto si è diviso fra progressisti e destra (...) La proposta   di riforma delle pensioni dei progressisti non è un piccolo passo. Il fatto  che abbiamo deciso di votare il governo Dini non è un piccolo passo.   Sono scelte politiche nette che vanno nel senso di una sinistra che si fa  carico della modernizzazione del paese, delle compatibilità economiche”  (Massimo D’Alema, segretario del PDS, “Il Sole ­ 24 Ore”, 12 febbraio  1995).  La conseguenza logica della universalizzazione del “pensiero unico” è il  progressivo uniformarsi ad esso delle formazioni politiche che si contendono  il potere statale. Si tratta di un fenomeno largamente diffuso nelle democrazie  occidentali: negli Stati Uniti l’unica reale differenza fra “democratici” e  “repubblicani” è che nei primi prevale la destra liberale mentre nei secondi a  prevalere è... l’estrema destra liberale; nel Regno Unito i laburisti si sono  trasformati in un partito filo­padronale, abbandonando i tradizionali legami  con i settori sindacali rimasti su posizioni socialdemocratiche e avvicinandosi  alle idee ­ forza dei conservatori; in Francia le recenti elezioni presidenziali  hanno avuto per protagonisti tre candidati (due di “destra” e uno di “sinistra”)  che presentavano programmi nei quali i punti di convergenza erano assai più  numerosi di quelli di divergenza; in Germania i cristiano­democratici fanno  sempre più fatica a caratterizzarsi dai concorrenti socialdemocratici e verdi,  come ha dimostrato anche la recente storica decisione di inviare soldati nella  ex­Jugoslavia, sostenuta da tutti e tre i partiti. Insomma il sistema del “partito  unico” sembra trionfante in tutte le “democrazie avanzate”. L’Italia,  naturalmente, non fa eccezione: la vera essenza della “seconda Repubblica”  sta proprio nel progressivo uniformarsi della classe politica attorno a contenuti  e programmi simili, derivazione diretta del “pensiero unico”. Diversamente da  quanto comunemente si sostiene la “dura” campagna elettorale del 1994 è  stata caratterizzata da programmi economici simili: la “destra” berlusconiana  e fascista aveva un programma tipicamente liberista al quale la “sinistra”  progressista opponeva un programma solo appena un po’ più tiepidamente  liberale. Non è questa la sede per un approfondito esame dei programmi  elettorali del 1994, basterà ricordare come uno dei cavalli di battaglia dei  progressisti fosse costituito dal sostegno incondizionato al “piano Delors”,  così chiamato dal nome dell’allora presidente della Commissione della  Comunita Europea, il socialista Jaques Delors. I dirigenti pidiessini fecero  passare quel piano come una specie di decalogo di “sinistra”  contro lo  sfrenato liberalismo della “destra”. In realtà il “Piano Delors”, accolto  favorevolmente dal padronato europeo, era stato approvato, sia pure in 

associazione culturale Hop Frog - Salerno

versione ridotta, dalla C.E. fin dal dicembre 1993, con il voto favorevole anche  di governi notoriamente ultraliberali, come quello inglese di Major e quello  francese di Balladour. Perché governi di destra e padronato avevano  sostenuto il piano della Commissione? Perché il piano dava la massima  priorità ad uno dei dogmi del “pensiero unico”, la competitività “passaggio   obbligato verso il ritorno della crescita e verso la creazione di nuovi impieghi”.  Non è inutile sottolineare come attorno al concetto di “competitività” ruotano  tutti i piani di risanamento economico lanciati dai vari governi della C.E.  all’inizio degli anni ‘90, piani tramite i quali il padronato persegue l’obiettivo di  smantellare le conquiste sociali costate decenni di lotta al movimento operaio.  Insomma l’aspro scontro per la spartizione del potere della “seconda  Repubblica” ha visto di fronte una “destra” e una “sinistra” che avevano  programmi economici molto simili, filiazione diretta del “pensiero unico”. La  vera differenza fra i due schieramenti verteva sul modo di gestire la politica  liberale: al modello tedesco, neocorporativo, fondato sulla concertazione fra  Stato, padronato e sindacati, sostenuto dalla “sinistra”, si contrapponeva  quello anglosassone, fondato sulla deregolamentazione generalizzata e sullo  scontro frontale fra interessi padronali e sindacato, sostenuto dalla “destra”.  Nei mesi successivi i due modelli si sono scontrati, anche ferocemente, ma  sempre attorno all’applicazione di piani economici e sociali liberali, arrivando  ad una tregua segnata dalla costituzione del governo Dini, formato da  tecnocrati di “destra” ma sostenuto dalla “sinistra”, che ha caratterizzato la  propria azione con una manovra finanziaria fondata sull’aumento delle  aliquote I.V.A. (un provvedimento che ha colpito soprattutto i ceti popolari sia  direttamente, poiché ha toccato beni di consumo primari, che indirettamente,  per l’inflazione che ne è derivata) e con la riforma del sistema pensionistico.  L’intruglio venutosi a creare fra “destra” e “sinistra” dello schieramento liberale  ha trovato ulteriore conferma nelle vicende di Romano Prodi e Lamberto Dini.  Prodi, ex ministro democristiano, ha avuto il sostegno del PDS alla sua  candidatura di leader del blocco progressista alle prossime elezioni politiche;  Dini, odiato ex Ministro del Tesoro del fallimentare governo Berlusconi, è  divenuto presidente del Consiglio, apprezzato dalla “sinistra” e corteggiato  dalla “destra”. “La cosa curiosa ­ scriveva Alan Friedman su “International  Herald Tribune” del 16 febbraio 1995 ­ è che Dini e Prodi sono d’accordo   quasi su tutto. I due economisti, con vasta esperienza di finanza e di problemi   bancari, nutrono un sano rispetto l’uno dell’altro. Quindi, almeno per i  prossimi mesi, nel destino dell’Italia potrebbero esserci due economisti,   entrambi più tecnocrati che squisitamente politici, che riscuotono la stima   degli ambienti finanziari.” 

associazione culturale Hop Frog - Salerno

L’assimilazione del ceto politico italiano in un unico grande calderone  all’americana è dimostrato anche dalla evoluzione organizzativa dei due  principali partiti: PDS e Forza Italia. Il primo, erede dei grandi partiti  burocratici di massa, ha preso atto della verticale diminuzione degli iscritti e  ha provveduto a tagliare il proprio apparato indirizzandosi verso la forma del  “partito leggero”, fortemente legato all’immagine dei propri leader (D’Alema e  Veltroni). Forza Italia invece segue un percorso inverso: pur mantenendo la  fisionomia del partito­azienda legato alla figura del proprio leader­proprietario  (Berlusconi) esso cerca di darsi una struttura periferica, basata su militanti­ piazzisti della politica, in grado di radicarlo sul territorio. Il risultato è la  progressiva omologazione degli uni agli altri sia sul piano della forma che del  contenuto in nome del “pensiero unico” e della politica­spettacolo. Non è  certamente casuale che lo scontro principale fra “destra” e “sinistra” sia  avvenuto attorno al controllo delle televisioni, importanti centri di potere ma  anche naturale teatro della nuova politica parlata dei “talk show” e dei  telegiornali. “Oggi in fabbrica è come avere due padroni: uno un po’ più buono, il  

sindacato, e uno un po’ più cattivo, la Direzione”, un operaio, TG5,  settembre 1994.

Un discorso a parte meritano il sindacalismo confederale e il padronato.  CGIL, CISL e UIL, usciti indenni ­ e probabilmente non per un caso ­ dalla  bufera di “tangentopoli”, hanno avuto un ruolo centrale nelle vicende di  questo turbolento inizio di “seconda Repubblica”, prima cavalcando la  protesta proletaria contro la finanziaria del governo Berlusconi e contribuendo  in maniera decisiva alla caduta del governo di “destra”, poi gestendo al  meglio per gli interessi della “sinistra” la lunga trattativa con il governo Dini e  la Confindustria sulla riforma del sistema previdenziale. Abituati ad essere il  perno del consociativismo che ha governato l’Italia negli anni ‘80, i confederali  non hanno avuto alcun problema ad adattarsi al nuovo scenario degli anni  ‘90, anzi si può dire che lo hanno anticipato visto che il patto sociale fra Stato,  padronato e sindacalismo confederale definito con gli accordi quadro del  luglio 1992 e del luglio 1993 ha svolto un ruolo centrale all’interno delle lotte  per il potere fra “destra” e “sinistra”.  Parte integrante del blocco di “sinistra”, la burocrazia confederale è spesso  costretta, per far fronte alla continua perdita di credibilità e consenso fra i  lavoratori, ad usare toni populisti e, come avvenuto talvolta nell’autunno 1994,  barricadieri che servono solo a nascondere il carattere compromissorio e  rinunciatario di questo sindacalismo di Stato. “... con le rappresentanze  

associazione culturale Hop Frog - Salerno

sindacali ­ ha osservato con un certa sorpresa il Ministro per la Funzione  Pubblica del governo Berlusconi, Giuliano Urbani ­ ci siamo trovati   straordinariamente meno lontani rispetto a quella che poteva essere la mia   percezione (venendo da altri ambienti non conoscevo queste pratiche di   regole del gioco). Molto meno lontano, tra l’altro, di quella che la percezione   popolare o, a volte, semplicemente la lettura dei media poteva far pensare”.   (“Il Sole ­ 24 Ore” del 7 gennaio 1995)  Collaudati mestieranti della trattativa i burocrati del sindacato confederale  sembrano destreggiarsi a meraviglia nei grovigli delle lotte di potere della  “seconda Repubblica”, come ha dimostrato l’accordo sulla riforma delle  pensioni con il quale i confederali si sono garantiti il diritto di cogestire con la  Confindustria il Tfr (Trattamento di fine rapporto) lasciando che la gestione  della previdenza integrativa fosse determinata da un compromesso  parlamentare fra “destra” e “sinistra”. Naturalmente tutto a danno dei  lavoratori.  Espressione della grande industria gestita da Mediobanca seguendo il  modello “tedesco”, la Confindustria aveva sperato che la ventata di  rinnovamento della politica italiana seguita alla caduta del “muro” avrebbe  finalmente reso possibile l’alternanza fra lo storico partito di governo (DC) e lo  storico partito di opposizione (PCI ­ PDS); questo avrebbe permesso di  sbloccare in maniera indolore alcune rigidità del sistema italiano. La bufera di  “tangentopoli” ha sconvolto questi piani distruggendo i vecchi equilibri e  portando alla ribalta Silvio Berlusconi, notoriamente poco gradito dalla  Confindustria (la Fininvest non ha mai fatto parte di Mediobanca) e fautore  del modello “anglosassone”. Di fronte alla bufera che sembrava aver  sconvolto i suoi piani, il padronato italiano si è limitato a sponsorizzare le  varie correnti del “partito unico” a seconda dei suoi interessi contingenti  continuando però a mantenere un rapporto privilegiato con la “sinistra”. Così  durante la campagna elettorale della primavera 1994 la Confindustria aveva  chiaramente appoggiato i progressisti (evento che era stato sbandierato come  un grande successo dal segretario del PDS Occhetto al comizio di Firenze  del 25 marzo) ma in autunno, superando le polemiche seguite alla vittoria  elettorale della “destra”, il “gotha” della grande industria aveva dato il suo  autorevole sostegno alla finanziaria del governo Berlusconi, sostegno sancito  da un cena a base di pasta e fagioli nella casa romana di Agnelli. Nel gennaio  1995, infine, gli esponenti confindustriali hanno salutato con favore la nascita  del governo dei tecnici sostenuto dalla “sinistra” nella convinzione che questo  governo ­ così simile ai governi Amato e Ciampi ­ fosse il mezzo più adatto  per conseguire gli interessi capitalistici evitando le secche della 

associazione culturale Hop Frog - Salerno

contrapposizioni fra gli schieramenti parlamentari.  Il fatto è che in questa fase al padronato va sempre bene tutto: che governi  Amato o Ciampi, che vinca Occhetto o Berlusconi, “ulivo” o “polo”, “destra” o  “sinistra”, l’importante è che i gli obiettivi rimangano gli stessi: 1) la riduzione  del salario in tutte le sue forme (salario diretto, indiretto e differito) in modo da  spostare risorse verso il profitto e in modo da rendere competitiva l’industria  nazionale; 2) la ristrutturazione del mercato del lavoro in modo da renderlo  flessibile ed adeguato alle esigenze delle imprese; 3) la privatizzazione di  quote significative di attività precedentemente garantite dallo Stato sia  mediante la cessione che grazie all’introduzione nel settore pubblico di criteri  di funzionamento di tipo aziendale.  “La democrazia si ferma dove comincia l’interesse dello Stato” (Charles 

Pasqua, Ministro dell’Interno francese, dicembre 1993).  Il martellamento propagandistico del “pensiero unico” si accompagna alla  mitizzazione della democrazia rappresentativa. Entrambi hanno la funzione di  legittimare il potere, cioè l’organizzazione del dominio sull’intera società di  una piccola quota di privilegiati che controllano o detengono i mezzi di  produzione e di sviluppo.  La volgarizzazione del mito democratico punta sulla feticizzazione della  regola di base della democrazia: il diritto della maggioranza a governare e,  più in generale, a definire l’interesse nazionale (cioè dello Stato), al quale la  minoranza deve comunque piegarsi. In realtà spesso gli adepti del “pensiero  unico” concepiscono il prevalere della maggioranza sulla minoranza in  maniera alquanto... singolare. Scrive ad esempio il generale Carlo Jean, ex  consigliere militare del Presidente della Repubblica Cossiga e attuale  direttore del Centro Alti Studi Difesa (l’Università delle Forze Armate italiane):  “A definire l’interesse generale basta una maggioranza relativa che può   essere addirittura una esigua minoranza sufficientemente coesa e forte da   imporre i propri interessi come interessi nazionali” (“Geopolitica”, Laterza,  1995).  Poiché ai cittadini bisogna offrire un minimo di differenziazione, come quella  che esiste al supermercato fra prodotti diversi, ecco la necessità di una  “destra” e di una “sinistra” in modo che anche sul mercato elettorale sia data  ai cittadini una possibilità di scelta senza la quale il mito democratico rischia  di dissolversi. “Sul mercato politico come su quello commerciale ­ ha scritto  Cristian de Brie su “Le Monde diplomatique” del giugno 1995 ­ l’offerta dei   vari prodotti in concorrenza viene fatta per il tramite di messaggi pubblicitari  

associazione culturale Hop Frog - Salerno

assai simili l’uno all’altro”.  Con l’uso massiccio dei sistemi pubblicitari nella cosiddetta “politica  spettacolo” il cerchio del consenso­controllo sociale si chiude; chi non accetta  questa possibilità di scelta viene escluso. “Il buon funzionamento della democrazia richiede abitualmente una certa  

dose di apatia da parte di certi individui e gruppi” (Samuel P. Hutington,  professore all’Università di Haward, rapporto redatto per la Commissione  Trilaterale, 1976). Il fatto è che questi “esclusi” sono sempre di più.  Facciamo alcuni esempi. Negli Stati Uniti la partecipazione alle ultime elezioni  presidenziali è stata inferiore al 50% e il presidente eletto, Billy Clinton, è  stato votato da meno del 25% degli aventi diritto; nelle elezioni di “mezzo  periodo” la partecipazione è stata ancora inferiore (pari ad appena il 35%  degli aventi diritto) e i “repubblicani” hanno ottenuto la maggioranza  parlamentare con il voto del 15% degli aventi diritto. In Francia alle elezioni  per il rinnovo del parlamento (1993) la “destra” ha ottenuto l’80% dei seggi  con il 25% dei voti degli aventi diritto; alle elezioni presidenziali Chirac ha  ottenuto il successo con il voto del 37% degli aventi diritto, mentre il 30% dei  francesi non ha partecipato alle elezioni o ha annullato la scheda. In Italia alle  elezioni amministrative del maggio 1995 il 26,7% degli aventi diritto si è  astenuto o ha annullato la scheda mentre alle elezioni per il rinnovo del  parlamento del marzo 1994 la “destra” aveva ottenuto la maggioranza con il  voto di meno del 30% degli aventi diritto. Riassumendo: il momento elettorale,  massima espressione della democrazia rappresentativa, viene rifiutato da un  cittadino su due alle presidenziali e da due cittadini su tre alla legislative negli  Stati Uniti, la “patria della democrazia”, e da un cittadino su quattro in Francia  e in Italia.  La verticale diminuzione della partecipazione alle elezioni interessa tutte le  cosiddette “democrazie avanzate”. Secondo recenti studi sono giovani e  anziani, cioè i più colpiti dalla crisi economica e sociale, quelli che si  astengono di più.  Pur riconoscendo la difficoltà di ridurre un fenomeno sociale complesso come  quello della non accettazione del sistema all’arido livello dei numeri, ci pare  significativo che fette consistenti di popolazione rifiutino il rito elettorale.  Naturalmente le motivazioni sono le più varie, spesso non condivisibili da chi  si batte per un mondo migliore, ma rimane il fatto che nonostante il sistema 

associazione culturale Hop Frog - Salerno

impieghi mezzi formidabili il livello di rifiuto tenda a crescere in maniera  esponenziale. Bisogna poi aggiungere che per avere un quadro definitivo  dell’ampiezza del rifiuto del sistema del “partito unico” occorre considerare  tutta quella massa di voti raccolti di volta in volta da liste minoritarie  (comunisti, ecologisti, ecc.). Si tratta di un aspetto significativo anche se a  livello istituzionale il sistema riesce comunque a recuperare una tale protesta  visto che i dirigenti di questi partiti fanno parte ­ salvo rarissime eccezioni ­  del grande calderone del “partito unico” nel quale vengono cooptati con  scadenze cicliche, come dimostrano le storie di tanti dirigenti dei partitini  extraparlamentari italiani degli anni ‘70 e ‘80. “Il successo del modello socialdemocratico nel movimento operaio si  

spiega in primo luogo per la forza el feticismo dello Stato” (Alain Bihr,  “Dall’assalto al cielo all’alternativa”, BFS, 1995). Ormai da una quindicina di anni nelle società “avanzate” si è assistito ad  un’offensiva ­ che alcuni hanno definito “controrivoluzione dolce” ­ con la  quale le classi dominanti hanno ribaltato i rapporti di forza prevalenti all’inizio  degli anni ‘70. Forse non è inutile ricordare che partendo dalle lotte  studentesche e operaie della fine degli anni ‘60 si era sviluppato un po’ in  tutto il mondo occidentale un vasto movimento che contestava il modo  capitalistico di gestire la società.  Per la loro offensiva le classi dominanti hanno usato, come strumento  propagandistico, l’ideologia neo­liberale frutto dell’elaborazione di varie  correnti politiche che si erano sviluppate soprattutto a partire dagli anni ‘70. E’  questa ideologia che costituisce il “nocciolo duro” di quello che abbiamo  definito il “pensiero unico”.  Grazie al carattere che alcuni hanno definito “disciplinare” della crisi  economica culminata nel secondo shock petrolifero (1979), l’offensiva  capitalista ha frantumato il compromesso fra Stato, movimento operaio e  padronato (“Welfare state”) con il quale lo Stato veniva incontro ad alcune  rivendicazioni del proletariato favorendone così l’integrazione nel sistema. Il  compromesso permetteva al padronato di neutralizzare gran parte della  conflittualità sociale facendo della soddisfazione dei bisogni fondamentali del  proletariato il motore della crescita economica, cioè dei suoi profitti.  Non è questa la sede per analizzare i motivi della rottura del compromesso,  quello che ci interessa sottolineare è che assieme al compromesso è crollata  l’ideologia socialdemocratica che proprio grazie ai successi del “Welfare  state” aveva prevalso all’interno del movimento operaio sulla corrente 

associazione culturale Hop Frog - Salerno

rivoluzionaria di ispirazione anarchica. Dopo che per tutti gli anni ‘70 è fallito il  tentativo di superare la crisi con il ricorso a politiche keynesiane (massicci  interventi statali per sostenere i consumi), le correnti socialdemocratiche si  sono trovate a dover scegliere fra “il proporsi come strumento di gestione   subalterno al processo di progressivo smantellamento del sistema di garanzie   sociali venutosi a creare dopo la fine della IIa guerra mondiale, o l’attestarsi   sulla difesa di un mitico Stato sociale. La prima scelta, più moderna e   accattivante, segnala la fine dell’opposizione destra­sinistra dal punto di vista  dei contenuti sociali, la seconda è l’espressione di una debolezza strutturale   e del ripiegare su proposte che non aprono alcuna prospettiva nel medio e   lungo periodo” (Cosimo Scarinzi, Stato sociale? No grazie, “Umanità Nova”  del 26 febbraio 1995).  In effetti di fronte alla transnazionalizzazione a cui è ricorso il capitalismo per  superare la crisi, continuare a sperare in una possibile funzione mediatrice  dello Stato, come fanno le residue truppe della socialdemocrazia sfuggite alle  sirene del “partito unico”, appare illusorio. Lo Stato ha oggi la funzione di  favorire la crescita di oligopoli nazionali capaci di competere sul mercato  mondiale e di favorire il ritiro (rendendolo il più indolore possibile) di quelle  componenti del capitale incapaci di operare un tale salto di qualità. In questa  situazione la lotte per la difesa delle conquiste sociali è sacrosanta ma è  destinata alla sconfitta se non è accompagnata da un grande progetto di  radicale trasformazione sociale. Alla barbarie del modello statale e capitalista  occorre contrapporre una società fondata sulla proprietà collettiva dei mezzi  di produzione, sul federalismo, sull’autogestione; in breve occorre seriamente  pensare e agire per costruire una società comunista anarchica. “Finchè dura la società attuale vi sarà sempre una buona ragione per 

ribellarsi” (Errico Malatesta, anarchico, 1913)

Ma alle soglie del 2000 è realistico proporre il comunismo anarchico?  Domanda che è lecito porsi anche perché l’oscurantismo del “pensiero unico”  cerca di farci credere che non ci sono alternative al sistema esistente. Per  rispondere occorre trarre alcune conclusioni dai ragionamenti che abbiamo  cercato di fare precedentemente.  Oggi i paesi sviluppati sono governati dalle varie correnti del “partito unico”  che godono del sostegno di strati sociali persuasi che le loro aspirazioni  potranno realizzarsi se le cose continueranno ad andare più o meno come  adesso. Questa “maggioranza” composta in gran parte dalle classi medie e  dai settori proletari garantiti (o che si illudono di essere tali) non vuole altro 

associazione culturale Hop Frog - Salerno

che un governo che gli riempia le tasche, che gli permetta di “consumare”. Il  fatto è che questo sostegno è sempre meno vasto, come dimostra la  diminuzione costante della partecipazione al rito elettorale e i movimenti di  lotta che continuano a scoppiare qua e là nei paesi sviluppati. Il motivo di  questa progressiva disaffezione ha solide radici sociali, come ha notato David  Korten: “Sempre più il Nord e il Sud sono definiti dalle classi sociali più che   dalla geografia. Il Nord non rappresenta più un gruppo di paesi ma delle   classi allineate con gli interessi del capitale transnazionale che misurano il   consolidamento del loro potere sulla base dei loro successi economici. Il Sud   è invece composto da coloro che, a New York come in Nigeria, sono sempre  più spinti ai margini di questa evoluzione”. Per ora questo Nord governa il  mondo escludendo questo Sud, anzi negandone addirittura l’esistenza. Il  gioco gli riuscirà fino a quando gli esclusi non sapranno contrapporre  all’ideologia del “pensiero unico” un metodo e un fine che siano  effettivamente alternativi.  Un ruolo determinante in questa presa di coscienza verrà svolto dal  movimento operaio dei paesi sviluppati, oggi spaccato fra il Nord e il Sud così  come li abbiamo definiti prima. Con il crollo dell’ideologia socialdemocratica il  movimento operaio occidentale ha perso il proprio punto di riferimento e si  trova ora sballottato come una nave nella tempesta fra segnali di ripresa e  rischi di deriva verso ideologie razziste e nazionaliste. Anche se la situazione  non è piacevole non bisogna dimenticare che non è la prima volta che il  movimento operaio si trova in una crisi che a prima vista sembra senza  sbocchi, si pensi agli anni che seguirono il trionfo del fascismo. D’altra parte  se il movimento operaio è in crisi non è che il sistema capitalistico scoppi di  salute! Gli oltre 100 milioni di poveri e gli almeno 33 milioni di disoccupati dei  paesi dell’O.C.S.E. (cioè della parte più ricca del mondo), il disastro urbano, il  saccheggio ecologico, la generale precarizzazione, il ritorno dei razzismi, dei  nazionalismi e dei fanatismi religiosi, la marea montante degli esclusi e  l’insicurezza generalizzata dimostrano quanto il sistema, proprio nella fase  storica in cui celebra il suo successo, sia malato. Questo buio fine di secolo parrebbe, a prima vista, chiuso a qualsiasi  cambiamento. L’ideologia dominante, il vangelo del “pensiero unico”, vorrebbe  farci credere che non esiste alternativa all’esistente. “In questo senso ­ ha  scritto Alain Thevenet ­ si potrebbe dire che lo Stato ha assolto il suo ruolo,   chiudendo la storia e il tempo e rendendo impossibile qualsiasi progetto per   l’avvenire. Ma sappiamo che è un inganno.” (Una politica anarchica?,  “Volontà”, n 4/1994). 

associazione culturale Hop Frog - Salerno

L’attuale società non può durare ancora per molto. All’utopia conservatrice e  devastante di chi sostiene che questo mondo può continuare a funzionare  come adesso senza divenire definitivamente invivibile, dobbiamo  contrapporre l’utopia rivoluzionaria e creativa, da costruire giorno dopo  giorno, di un mondo di liberi ed uguali. L’attualità del progetto comunista  anarchico sta tutta qui. Oreste Colli Settembre 1995.

Related Documents


More Documents from "Grazia Butti"