Feste popolari e feste religiose in Sicilia: tra sacro e profano
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Introduzione In questo elaborato vengono riportate le feste tradizionali in Sicilia, distinguendo le manifestazioni prettamente religiose da quelle profane e come queste si connettono tra loro in una terra dove gli usi e costumi sono rimasti indissolubilmente radicati. E’ opportuno prima di analizzare queste manifestazioni, comprendere il concetto di festa. La festa è un microcosmo variegato con un certo grado di complessità per le varianti culturali, antropologiche e tradizionali, in essa comprese. Risulta un momento della vita sociale di durata variabile, che interrompe la sequenza delle normali attività quotidiane, opponendovisi come periodo di particolare effervescenza. La festa si caratterizza, rispetto al resto del tempo, per l’interruzione del lavoro produttivo, manifestando l’opposizione al sistema costituito e vigente attraverso i momenti dell’eccesso, della trasgressione e infrazione di norme e divieti precostituiti, dell’inversione, dello spreco, della distruzione. La festa è allegria, spensieratezza, libertà; la festa è comunità, è potere, è cura ed è specchio della società, della storia, del mondo che cambia. La festa, in quanto momento collettivo e/o individuale, racconta i cambiamenti epocali, economici, culturali. Per secoli l'aspetto collettivo è stato elemento centrale nelle
celebrazioni festive, e lo spreco glorioso che le caratterizzava era improntato proprio all'intera comunità: il senso stesso della ricchezza e delle spese era da leggersi in rapporto all'altro, al popolo. Il valore delle spese festive è mutato e con la rivoluzione industriale si è chiuso sempre più nella dimensione privata, in nome di un lusso puramente imitativo ed individuale1. Durante
la
festa
vengono
infranti
i
limiti
del quotidiano,
si invertono i ruoli, sono leciti offese e scherzi e spesso anche il sacro diventa elemento di critica e derisione2. L'ordine viene infranto e il disordine viene accettato in quanto momento necessario al rinsaldamento dei valori sociali nonché dei rapporti di dipendenza e di potere. Ma la festa non è solo spreco o allegria: essa risponde ad una lunga serie di bisogni; bisogni che variano da un contesto sociale ad un altro, che variano con il censo e con il ceto, con l'istruzione e con l'età; che variano nello spazio e nel tempo. È impossibile stabilire l'elenco di tutti i bisogni che trovano risposta nelle celebrazioni festive, ma benché si possa parlare di bisogni individuali, è nella collettività che si affermano, è dalla collettività che vengono plasmati ed è a livello collettivo (nella collettività unita nel momento di festa) che vengono soddisfatti. La festa assume innanzi tutto valore temporale. Collegata al volgere delle stagioni, al movimento degli astri e del sole, le feste fungono da strumento regolatore di ogni attività sociale. Dotate spesso di carica propiziatoria, accompagnavano, anticipavano o concludevano le principali attività umane. Con l'avvento del cristianesimo questa carica non si è persa, ma ha assunto nomi diversi, e si è legata alle varie figure religiose. Le feste diventano inoltre il luogo privilegiato per 1 2
Bataille Georges, Il limite dell'utile, Adelphi, Milano 2000 Michail Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 2001
creare o rinsaldare i legami sociali. Fino a qualche anno fa era proprio attraverso la partecipazione collettiva a questi momenti eccezionali che la comunità assumeva consistenza e identità: ci si trovava nello stesso luogo, nello stesso tempo, con problemi e bisogni comuni, magari coalizzati contro la stessa forma di potere, contro gli stessi despoti. Oggi sono cambiati i bisogni e le abitudini della gente ma l'importanza della socializzazione e dei momenti collettivi non si è estinta: fioriscono concerti, raduni, meeting; sopravvivono satire e parodie politiche. In risposta poi ad un bisogno di socialità fortissimo, difficile da realizzare nella vita di tutti i giorni, si assiste al recupero di vecchie tradizioni, di vecchi riti, di feste e sagre popolari. L'andare a recuperare antiche feste dal passato, quando il loro potere socializzante era reale, diventa un po' un modo per sopperire al bisogno di comunità irrealizzato: si prende un vecchio farmaco per sanare nuove ferite, sperando che il valore curativo sia rimasto intatto nel tempo. In risposta a bisogni totalmente nuovi e ad una società sempre più multietnica, negli ultimi anni si sta assistendo a fenomeni che capovolgono il normale svolgersi delle celebrazioni festive. Dopo secoli di 'privatizzazione', riemerge il bisogno dell'altro; e per far ciò si ritorna ai grandi raduni, ai capodanni in piazza, alle grandi feste di famiglia (dove ci si ritrova con parenti lontani e talvolta sconosciuti). Emerge il desiderio di vedersi riconfermati dalla comunità, e accettati; ma ancora più importante, nelle grandi città emerge il bisogno di dover accettare la società stessa, nella quale non
ci si riconosce più . Successivamente verranno prese in esame alcune tra le manifestazioni più importanti del contesto siciliano ed inoltre si accennera’ brevemente la nascita dello studio del folklore.
1.1. Un modulo interpretativo del fenomeno festivo. La festa popolare risulta interpretabile come sopraccennato
un
microcosmo complesso in cui è stabilita la riaffermazione dell'ordine sociale esistente e, al contempo la sua negazione, riproducendo, al fine di un miglioramento, il mondo della vita quotidiana. Può risultare utile ripercorrere due livelli interpretativi della festa per iniziare a comprendere lo stato del problema. In Totem e tabù3, Freud pone in rilievo gli aspetti trasgressivi del momento festivo, luogo di abolizione legittimata delle regole e delle norme del vivere quotidiano. L'idea di trasgressione, coniugata variamente al concetto di sacro, come proibizione, ritorna in Georges Bataille che vedeva nel fenomeno festivo la soddisfazione di un bisogno smisurato di distruzione, di ostentazione e di spreco1. I1 Carnevale è stato regolarmente eletto a modello esemplare del valore trasgressivo della festa, violando ogni regola di comportamento abituale per mettere in discussione le norme della comune decenza e le 3
cfr. Freud S., Totem e Tabù, Torino 1975, p.144.
regole sociali. "II carnevale in opposizione alla festa ufficiale era il trionfo di una sorta di liberazione temporanea dalla verità dominante e dal regime esistente, I'abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù. Era l'autentica festa del tempo, del divenire, degli avvicendamenti e del rinnovamento". Per Caillois la festa rappresenta un "intermezzo di confusione universale4", "I'istante in cui I'ordine cosmico è soppresso...nell'epoca mitica il corso del tempo è invertito...cosi vengono violate sistematicamente tutte le norme che proteggono il giusto ordine naturale e sociale". In Durkheim e Mauss risulta possibile individuare gli elementi di una diversa interpretazione del fenomeno festivo, come occasione di recupero periodico delle origini e radici del gruppo, dove la comunità rifonda se stessa e recupera la propria identità. Caillois ne evidenzia invece il valore simbolico, sottolineando come gli eccessi festivi contribuiscano a ricreare lo stato originario di intermediatezza e caos da cui si è generato I'ordine, recuperando le origini fondanti e ripetendo il processo attraverso cui si è costituito I'ordine sociale. Il recupero del momento primigenio non si esaurisce in sè, ma pare rifluire in modi e tempi diversi nella realtà economica e sociale da cui esso sembra astrarsi. "0gni anno, alla fine dell'inverno, quando I'anello del tempo si chiude, c'è il rischio che il cerchio del tempo si concluda. Come ricaricare l'energia, l'organismo spento della natura? Come passare dalla morte alla vita? L'esperienza magico-religiosa nei vari tempi e presso i popoli più disparati ha risposto in diversi modi a questo interrogativo. Alcuni tratti comuni a tutti questi modi sono: la rigenerazione periodica del tempo mediante la ripetizione simbolica della cosmogonia, la rigenerazione della natura accompagnata dalla purificazione dei peccati, la rigenerazione attraverso la morte...". 4
Caillois R., Théorie de la fete, in “Nouvelle Revue Francaise” 1940 p.49; Eliade M., Il
mito dell’eterno ritorno, Torino 1968
Risulta possibile ipotizzare che il rito celebrato tenda a proiettare la vicenda quotidiana del gruppo in una prospettiva storica, in una dimensione originaria rivissuta attraverso la narrazione mitica. Tale funzione non deve tendere alla pura astrazione, ma essa consiste nel reintegrare il gruppo nella propria realtà, nella propria storia. 6"Così come ogni anno, all'approssimarsi dell'inverno, la natura muore, anche il tempo può morire. Tutto ciò però non accade al di fuori della volontà degli dei e degli uomini. Se essi lo vogliono la natura rinasce, il tempo consumato si rigenera e ricostruisce... E' qui che bisogna cercare il significato originario, pur sempre persistente, della festa in quanto tale". La festa evidenzia il suo senso più pieno non quando viene letta nelle sue valenze mitiche, ma quando la sua dimensione sacrale viene intesa come complementare al profano, con cui la comunità spartisce il quotidiano in un'intesa solidale5. La dialettica tra le due forme del tempo, sacro e profano, assume senso e funzione solo in relazione a concrete esperienze della comunità intorno al mondo, alla natura e al lavoro. La dimostrazione del fenomeno festivo come momento sociale e pedagogico, nei suoi aspetti antropologici di natura aggregativa e comunicativa, analizza le dinamiche di gruppo che costituiscono il presupposto di una ritualizzazione catartica e rigenerativa della condivisione comunitaria e della ricreazione della temporalità primigenia, nella ripetizione cosmogonica con cui la comunità rivive e sancisce la propria identità storica, in base ad un recupero rituale delle origini. Secondo il Lanternari, da qualsiasi presupposto metodologico e da qualunque prospettiva teorica si intenda partire nell'avvicinarsi al fenomeno "festa", non si può prescindere da due componenti comuni. La prima componente è d'ordine psicologico, riassumibile nel 5
Lanternari V., La grande festa. Vita, rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali, Bari 1976
"sentimento di festa", per cui la celebrazione esprime un'atmosfera intensamente partecipativa, si arricchisce di dense connotazioni simboliche, mitiche e perfino millenaristiche, svolgendo una funzione collettivamente istituzionale,
catartica.
per
cui
La
ogni
seconda festa
componente
comporta
è
quella
un'organizzazione
comunitaria ed una regolamentazione da parte del gruppo: dalla famiglia al villaggio, dal gruppo di mestiere, sindacato o partito politico, all'intero paese o nazione fuori da settorializzazioni di età, sesso, classe sociale, a seconda dell'occasione e della natura religiosa, sociale, civile della festa. Nella componente istituzionale rientra come fattore costitutivo, accanto all'elemento organizzativo-comunitario, il quadro di riferimento ideologico preposto alla festa che si richiama ad un mito delle origini simbolicamente ritualizzato, alla leggenda di fondazione di un culto, alla immagine di un santo cristiano, ad un momento critico dell'esistenza o ad un evento storico, sociale o politico, che viene commemorato e celebrativamente rievocato: in vista di un rinnovato impulso che dall'esperienza festiva verrà nell'affrontare con riconsolidata coesione, l'altalena di bene e di male che contraddistingue l'esperienza della quotidianità. Della componente istituzionale fa parte integrante anche la periodizzazione iterativa del momento festivo, secondo una ciclicità che varia in rapporto a un ordine calendariale o a un ordine naturalmente determinato secondo il ciclo della vita individuale. Da un lato si pensi alle feste stagionali e annuali legate immediatamente al ciclo di produzione ( Capodanno, Natale, Pasqua...).E' noto che il calendario ecclesiastico delle feste in Occidente si è metodicamente adeguato, nei secoli, ad antichi calendari precristiani fondati sul ciclo agrario e pastorale: e ciò secondo i principi della politica di adattamento e di sincretismo trasformatore, perseguita dalla Chiesa fin dai primi secoli. In tutti i casi, o per la sollecitazione di eventi occasionali pertinenti alla vita
individuale, o seguendo certe regolarità culturalmente precostituite in base ad un calendario festivo ufficiale, il gruppo o la comunità procede ad interrompere la sequenza del tempo ordinario per immergersi collettivamente nella dimensione di un tempo carico d'implicazioni culturali e di connotazioni psichiche proprie, altre dal tempo ordinario. I1 tempo festivo si pone, rispetto al tempo ordinario, come suo completamento dialettico, come l'essere rispetto al fare, e nelle feste religiose, come il sacro rispetto al profano. Fare festa consiste nel ricercare se stessi e la propria identità, ritrovare le garanzie storico-culturali atte a riconfermarla con forza in ambito comunicativo e comunitario che è conditio sine qua non, e strumento precipuo del ritrovare se stessi e del recuperare un equilibrio già sentito come precario. La festa, sia di carattere religioso, sociale, civile, sia che assommi più di uno di tali caratteri, contiene costitutivamente sempre richiami indiretti o diretti, simbolici o espliciti, a quanto di negativo, nefasto, rischioso, calamitoso l'esperienza ordinaria realmente nei vari contesti comporta e si vorrebbe stornare. Esprime attraverso richiami, formule, gesti, comportamenti simbolici, l'insieme delle realtà collettivamente auspicate, ambite, invocate per annullare quel negativo e realizzare il suo "totalmente opposto". La festa instaura un processo di socializzazione, da cui promana la sua efficacia catartica. Nella prospettiva seguita dai fenomenologi la dimensione sociale comunitaria viene obliterata a favore di un'interpretazione induttivamente psicologica, che isola l’individuo dal mondo sociale nel quale vive la propria esperienza. Eliade considera la festa in una prospettiva fenomenologico-religiosa orientata in senso spiritualista. Nel sottolineare la contrapposizione del tempo sacro (festivo) e del tempo profano (ordinario), assolutizza il valore del tempo sacro come occasione suprema di liberazione, da
parte dell'uomo, dai limiti della condizione esistenziale, per fare un salto di livello ontologico verso l’assoluto. Dunque anche Eliade astrae il fenomeno festa dal contesto storico globale entro cui si manifesta e a cui si lega funzionalmente. La sua è una visuale dinamica, idealistica, spiritualista che pur muovendo da un'importante scoperta, il rapporto ascendente del profano verso il sacro, finisce col perdere di vista il momento discendente che porta dal sacro al profano e la variabilità dinamica dei significati e delle funzioni del "festivo", in rapporto ai processi di trasformazione della società nel suo sviluppo storico. Quanto alla dinamica storica delle feste e delle società che le producono, vi sono fasi in cui la festa più direttamente rispecchia lo spirito popolare fatto di satira dissacratrice, di critica diretta 9"contro tutto ciò che è superiore" (come dice Bachtin delle feste carnevalesche medievali) e fasi in cui la festa si snatura perdendo l'afflato espressivo più spontaneo, sotto la direzione di organismi, per esempio la Chiesa, secondo Bachtin, con le sue feste ufficiali, che nella festa "convalidano la stabilità, l’immutabilità e l’eternità dell'ordine esistente". Secondo Lanternari dove esiste partecipazione di massa, la festa non è mai scevra di quella componente spontanea e popolare che Bachtin chiama carnevalesca, oltre e contro ogni finale significato gerarchico e riconfermatore dell'ordine esistente. In realtà, fuori dai casi più moderni di routinizzazione del "tempo festivo" e di borghesizzazione individualista dell'esperienza festiva, non esiste festa 9
Bachtin M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979, pp. 12-13
IX
popolare e tradizionale che non rappresenti un "mondo alla rovescia", una uguaglianza temporanea contrapposta all'ineguaglianza ufficiale. In questo senso la dicotomia ideologico- sociologica di festa carnevalesca e ufficiale sostenuta da Bachtin, sembra procedere da un'assolutizzazione idealistica del carnevalesco, oltre la dialettica che investe tutte le feste popolari e tradizionali in quanto tali. Esse, nel negare il presente e le forme varie del potere, rendono il presente vivibile attribuendo nuovo valore al potere. Tutte le feste di massa hanno un potenziale “nello stesso tempo abbassante e rigeneratore". Esse rivelano sempre un "mondo bicorporeo che morendo da la vita".
X
PARTE I ASPETTI ANTROPOLOGICI, PEDAGOGICI E STORICI DELL’ISTITUTO FESTIVO 3 IL CALENDARIO RITUALE IN COORDINATE SPAZIOTEMPORALI Le feste nel ciclo della vita dell’uomo: i riti di passaggio. Il corso della vita si svolge, per il popolo, secondo una continua e fitta trama di forme tradizionali che ispirano, determinano e interpretano via via le azioni e situazioni di cui è intessuta l'esistenza dell'uomo1. Alla base di tutte queste forme stanno i Cosiddetti riti di passaggio. Con questo termine s'intende il complesso di cerimonie che si compiono per indicare le successive fasi per cui l'individuo entra a far parte di una comunità, secondo i diversi gruppi sociali (famiglia, tribù, corporazione, ambiente paesano ecc.) e secondo le successive età della sua vita. Ogni cerimonia di passaggio si compie a tappe, secondo una determinata sequenza, in cui è facile distinguere le azioni che ne indicano l'inizio, quelle intermedie e quelle che ne sanciscono la fine. Queste tappe sono molto più appariscenti nella vita sociale delle popolazioni primitive dove i riti di iniziazione dei giovani per il loro ingresso come uomini adulti nella tribù hanno una complessità e un'importanza straordinarie; ma anche alcune manifestazioni della vita tradizionale nei nostri paesi conservano tuttavia assai bene le proprie caratteristiche. Basti ricordare le usanze relative al matrimonio, dalla dichiarazione d'amore del giovane all'accettazione da parte della ragazza, attraverso numerose e precise fasi e forme rituali, fino all'ingresso della sposa nella casa dello sposo e alla "prima notte". Le usanze e credenze relative alla vita umana si ispirano anche a principi magici con un chiaro scopo propiziatorio o profilattico. Ci sono delle regole da seguire, e dei tabù da rispettare, per far convergere a proprio vantaggio le forze del bene e allontanare e distruggere quelle del male. 1
Toschi P., Il folklore, Studium, Roma 1969.
1
Tutte queste forme rituali, connesse con la vita dell'uomo o svolgentisi lungo il corso dell'anno, rivelano un fondo antichissimo e, se si vuole, pagano; ma il Cristianesimo in quasi venti secoli e per gran parte del mondo ha stampato la sua impronta su tutti gli aspetti della vita individuale e sociale, dando alle forme più importanti una precisa regola e un nuovo e più alto significato, e strenuamente combattendo le manifestazioni superstiziose e contrarie alla religione e alla morale. Il folklore contemporaneo presenta quindi nella realtà quotidiana questo antico fondo e questa nuova forma in cui esso vive e si attua, anche se non sempre in perfetta aderenza. Ci spiegheremo forse meglio quel senso di accettazione serena e di operosità lieta con cui le classi popolari, vivono la loro pur non comoda vita, osservando come essa si svolga lungo il succedersi dei mesi e delle stagioni, secondo uno schema tradizionale di feste e di usanze che mirabilmente s'accordano col ritmo della natura e delle opere agresti. (Il calendario del folklore viene così a costituirsi in una serie di cicli che distinguono i principali momenti ed episodi di questo eterno ritorno di stagioni e di opere, secondo il corso dell'anno. Per comprenderlo appieno, occorre tener presenti due cose: la prima è che il folklore, quale vive oggi, ha un substrato di credenze e usanze antichissime in cui si rispecchiano forme di cultura e concezioni magiche e religiose, consone a una vita trascorrente a più immediato contatto con la natura e, quindi, regolata secondo le sue grandi leggi e secondo la primitiva interpretazione dei suoi fenomeni; la seconda è che questo fondo, già in sé differenziato nei secoli e secondo diversi cicli culturali (intesi non in forma rigida), si è poi modificato attraverso il tempo per l'influsso dell'evolversi della civiltà, e soprattutto per l'azione regolatrice e moralizzatrice, esercitata dal Cristianesimo. Il senso religioso della vita è stato totalmente cambiato e, possiamo ben dire, portato sopra un piano più alto; ma le usanze, legate al corso immutabile delle stagioni, sono rimaste, cambiando significato, è vero, senza però perdere del tutto alcuni dei caratteri ed aspetti che ne avevano determinato il sorgere e il tramandarsi. Il calendario ha subito variazioni, specie per la festa di maggiore importanza, quella d'inizio d'anno, sì che le stesse usanze si sono trasferite da una data all'altra, ripetendosi o venendo a confluire in un sol giorno festivo. E di ciò non sempre ci rendiamo conto. Per es., il Carnevale, per secoli e secoli, ha rappresentato il capo d'anno, e tutte
2
le sue manifestazioni sono improntate a questo suo carattere fondamentale; ma chi lo rileva oggi? In realtà, Natale, Capodanno, Epifania, Carnevale, sono tutte feste che solennizzano la chiusura di un ciclo annuale e l'apertura d'uno nuovo2; così Calendimarzo, S. Giorgio, Pasqua, Calendimaggio, l'Ascensione, S. Giovanni, Ferragosto, S. Martino, S. Michele, S Caterina, sono ugualmente feste di inizio di una stagione, intendendo questo termine in senso generico, e quindi molti riti e usi di ciascuna di esse sono uguali o si rassomigliano: e noi li ripetiamo senza accorgercene, mentre, a fil di logica, basterebbe ricorrervi una sola volta. S'intende che poi ciascuna di tali feste ha anche le sue manifestazioni particolari in rapporto alla diversità delle stagioni e al preciso significato che è venuta assumendo, specialmente nel suo adeguarsi al clima cristiano e alla liturgia ufficiale. Né dobbiamo dimenticarci la diversità del clima fisico e delle condizioni generali dei vari ambienti in cui le stesse usanze si svolgono. Molte cose ci appaiono già chiare, se consideriamo gli aspetti essenziali delle usanze e feste di inizio d'anno (o di stagione). Esse si riconducono tutte a due principi fondamentali, mirano a due scopi precisi: eliminare, cancellare, distruggere tutti i mali, i guai, i peccati dell'anno che muore; prevedere, predeterminare e, vorremmo dire, preassicurare l'abbondanza, il benessere, la prosperità per l'anno che nasce. Per quel principio magico per cui il simile produce il simile, le varie tradizioni delle feste d'inizio di un ciclo annuale esaudiscono il desiderio (che una volta era certezza assoluta) di raggiungere i due scopi sopraccennati. Distruggere il male passato, male fisico e male morale, infermità e peccato, tristizia e tristezza, perché soltanto essendo sani e puri si può affrontare il nuovo corso delle stagioni nel suo perenne ricominciamento; se si entrasse nel nuovo anno gravati dalle malattie, dai vecchiumi, dalle malvagità accumulatesi durante dodici mesi, le forze vitali di fecondità; di produttività, di bene, che come riserva aurea il nuovo anno ci reca, sarebbero infettate, ammorbate, definitivamente compromesse.
2
Cocchiara G., Storia del Folklore in Europa, Torino 1952; Popolo e letteratura in Italia, Torino 1959.
3
1.1 Le feste religiose Il bisogno di protezione e di sostegno per superare le difficoltà ed i pericoli dell’esistenza è stato sempre vivo negli uomini fin dai tempi remoti. Prima del cristianesimo, le divinità pagane erano oggetto di culto. In Sicilia, durante le persecuzioni di Decio, Diocleziano e massimo Galerio, furono molti i martiri che vennero proclamati santi. Durante la dominazione araba vi furono dei divieti e successivamente, con i Normanni, gli Spagnoli e gli Aragonesi, vi fu libertà di culto. Ma fu soprattutto durante il periodo normanno che il culto cristiano crebbe notevolmente perché, oltre ad essere soldati, essi furono costruttori di chiese e cattedrali. Col tempo, la libertà di culto favorì l’incontrollata proclamazione di santi e patroni ed il papa Urbano VII, nel 1630, emise un decreto per limitare tale fenomeno. Oggi, la devozione verso i santi patroni rappresenta la forma di culto più diffusa. Al santo ci si rivolge per qualsiasi richiesta: per far cessare la siccità, per evitare i pericoli di terremoti, per scongiurare carestie, per guarire dalle malattie. I santi vengono raffigurati in immaginette, i cosiddetti “santini”: queste immaginette vengono distribuite ai fedeli per essere affisse
dietro la porta di casa o si portano nei portafogli o addosso, come amuleto. In Sicilia non esiste paese che non festeggi il proprio patrono o non coltivi propria festa patronale con manifestazioni rituali ed atti penitenziali, quali le processioni, le novene ed i pellegrinaggi. Inoltre ogni festa diventa un evento in cui la riproposizione di simboli manifesta il sentimento di religiosità popolare. Essi sono: le spighe di grano, i rami di alloro e di ulivo, le palme, il pane, i ceri ed altri. In Sicilia ogni festa attraverso
una
diventa occasione di recupero del passato
serie di rituali
che, grazie alla profonda religiosità
popolare, sono stati tramandati da un secolo all’altro. Ancora oggi le tradizioni sono rimaste intatte, legate spesso alle ricorrenze religiose, come la festa del patrono, i riti della Settimana Santa, la Pasqua e il Natale. In questo lavoro mi limiterò a trattare alcune feste ritenute tra le più importanti e significative.
1.2 Sant’Agata, patrona di Catania Secondo la “Passio sanctae Agathae”, risalente alla seconda metà del V sec., Agata, vissuta nella prima metà del III sec.d.C., apparteneva ad una nobile famiglia catanese. La vergine subì il martirio durante le persecuzioni di Decio. Secondo gli “Atti degli Apostoli”, il proconsole Quinziano si invaghì di Agata e la chiese in sposa.Ma la fanciulla rifiutò. Arrestata così con una scusa, per ordine del proconsole, subì il supplizio dei carboni ardenti, le furono amputati i seni ed infine morì. Gli agiografi fissano questa data il 5 febbraio del 253 e le sue spoglie furono conservate a Catania, fino al 1040.
Si narra che nel momento in cui la Santa moriva, Catania subiva un terremoto e che l’anno seguente, nel giorno dell’anniversario della sua morte, l’Etna aveva ripreso la sua attività. Il culto per Sant’Agata si diffuse soprattutto durante la dominazione normanna, quando due monaci, Goselmo e Gisliberto, riuscirono ad individuare a Costantinopoli il luogo in cui era stata sepolta, dopo che il suo corpo vi era stato portato dal generale bizantino Maniace, nel 1040. Si dice che quando le reliquie della Santa giunsero a Catania, tutte le campane delle chiese si siano messe a suonare da sole. Catania festeggia S.Agata il 3, il 4 e il 5 febbraio e in questi giorni la città si veste di magnifici colori e addobbi. Attualmente le celebrazioni religiose
hanno
inizio
la prima
domenica
di
gennaio,
con
l’esposizione del velo appartenuto alla Santa; il velo è una striscia di seta rossa lunga quattro metri e larga cinquanta centimetri. Secondo una delle tante leggende, era bianco e sarebbe diventato rosso dopo essere stato dispiegato per la prima volta per fermare la lava che incombeva sulla città. Il 3 febbraio hanno inizio i solenni festeggiamenti con la processione della luminaria, alla quale partecipano le autorità,a bordo di una carrozza. Giorno 4 la processione delle reliquie inizia la mattina con il giro esterno: il pesante carro della patrona viene trascinato dai fedeli i quali, vestiti con il tradizionale sacco bianco e il berretto di velluto nero,
disposti in due file,tirano
le grosse funi al grido di “Viva
Sant’Aita”.La processione si ripete giorno 5 : questa volta si compie il giro interno che si protrae fino a tarda serata. Sino ad alcuni anni fa, la
caratteristica
della
festa
di Sant’Agata
era
costituita
dalla
processione delle “candelore”, enormi ceri alti parecchi metri: nel 1514
si contavano 22 candelore, attualmente se ne contano 11. Durante la processione, gli uomini che sfilano con le candelore eseguono dei movimenti con il corpo: è la cosiddetta “annacata”, che al buio della sera diventa uno spettacolo suggestivo per le scie luminose lasciate dai ceri accesi. Il busto d’argento della Santa, in cui sono riposte le reliquie, durante l’anno sono custodite nel Duomo di Catania, nella cappella di sant’Agata, chiusa da una cancellata di ferro. Questo busto fu realizzato,
nelle
officine
papali
di
Avignone,
dal senese
Giovanni Di Bartolo e giunse a Catania l’11 dicembre 1376. È alto circa sessanta
centimetri ed è
impreziosito
da
una medaglia
d’argento coperta di gioielli e tempestata di pietre preziose; sulla testa della Santa poggia una pesante corona regalatele, secondo la tradizione,
dal
re
Riccardo Cuor
di Leone. La
ricchezza delle gioie e dei monili è inestimabile perché, oltre alla famosa corona, dobbiamo ricordare l’anello di Gregorio Magno, la croce pettorale di Leone XIII e un anello della Regina d’Italia. Una tradizione oggi scomparsa, di cui parla il Pitrè, consisteva nella partecipazione delle donne alla processione; esse venivano chiamate “’ntuppate ddi”. Il termine indicava le donne avvolte da uno scialle che lasciava scoperti solo gli occhi: le devote godevano della libertà di uscire da sole e di mascherarsi, rendendosi irriconoscibili e giocando tiri birboni ai loro amici e persino ai loro mariti . Per la festa di Sant’Agata è tradizione preparare dei dolcetti di pasta di mandorle, fatti a forma di olive.
Secondo una leggenda, mentre Agata veniva condotta da Quinziano per essere processata,si chinò per allacciarsi un calzare: appena pose il piede su una roccia, essa divenne, per sommo prodigio divino, morbidissima fino a segnare la sua orma. La giovane, presa dalla paura, si rivolse a Dio perché le desse un segno tangibile della sua presenza. Le sue suppliche furono ascoltate e sul quel luogo nacque un ulivo selvatico i cui frutti furono raccolti e conservati dai devoti come reliquie . La festa di Sant’Agata è importante oltre che dal punto di vista religioso anche quello storico, perché vi si notano i segni del culto della dea egiziana Iside: l’abito bianco dei fedeli, il velo miracoloso, il culto della mammella ( a Catania si vendono dei dolci chiamati “la mammella di Sant’Agata”, costituiti da una semisfera di marzapane ricoperta da una gla ssa di zucchero sormontata da una grossa ciliegia); da notare che il fercolo , fino al secolo scorso, aveva la forma di una barca,
esattamente come quello di Iside, personificazione della
regione del Nilo.
1.3 Santa Rosalia, patrona di Palermo e ‘u fistinu
In base ad informazioni di agiografi locali, Rosalia, di origine normanna per parte di madre, era figlia di Sinibaldo, duca di Quisquina e delle Rose, ed era vissuta alla corte palermitana. La tradizione vuole che la ragazza fosse damigella d’onore della regina Margherita, figlia del re di Navarra e sposa di Guglielmo I. La permanenza della giovinetta alla regia dei Normanni coincide con il regno di Guglielmo I “il Malo”: Rosalia ebbe notizie delle crudeltà usate dal re per sopprimere le rivolte scoppiate e anche degli intrighi e dei delitti della reggia. Perciò considerò la vita di corte frivola ed offensiva, avendo ricevuto una solida educazione cristian a . Alla morte del re, Rosalia chiese e ottenne il permesso di vivere da eremita in una grotta sul monte Quisquina, dove trascorse dodici anni della sua vita. Poi si trasferì sul monte Pellegrino, a Palermo, dove visse fino alla morte avvenuta, secondo la tradizione, il 4 settembre del 1160. L’iconografia popolare illustra la Santa molto giovane, con una corona di rose sul capo, in estasi ai piedi del Crocifisso, nel quale essa vide rispecchiata la figura del Cristo. La Santa divenne padrona di Palermo dopo un evento che si sarebbe verificato durante la pestilenza del 1624.
La leggenda narra che un giorno, sul monte Pellegrino, Rosalia apparve ad un cacciatore,Vincenzo Bonello, smarritosi a causa di un forte temporale. La Santa gli avrebbe detto di avvertire il Vescovo di Palermo che nella caverna dove era vissuta da eremita, giacevano le sue ossa. Ecco le sue parole: «Non spaventarti, figlio, ché io ti proteggo e con te proteggo e difendo questa città che muore e più non alza la cresta». Il cacciatore, terrorizzato, parlò al Vescovo. Questi allora si recò subito nel luogo indicato della Santa e ritrovò le ossa, che furono trasportate in città con processione
solenne
tra
fiori,
candele
accese
e
canti.
Miracolosamente la peste che aveva colpito Palermo cessò. Il Pitré descrive così la processione delle reliquie della Santa ritrovate il 15 luglio del 1624: «…al loro passaggio il male si alleggeriva,
diventava meno intenso,
perdeva
la
sua gravità.
Palermo in breve fu libera ed in attestato di riconoscenza a tanto beneficio, si votò a Lei e prese a celebrare in suo onore feste annuali che ricordassero i giorni della liberazione e fossero come il trionfo della Santa protettrice. La grotta del Pellegrino divenne santuario, ove la pietà d’ogni buon devoto si ridusse a venerare la squisita immagine della Patrona».
Allora questa malattia non
aveva nome e la realtà del morbo era intesa dalla gente come una punizione del cielo, la sua fine una grazia divina.
Dal 1624, ogni anno, dal 9 al 15 luglio, in maniera ogni volta diversa e rinnovata, Palermo racconta la storia della “Santuzza”, come viene chiamata affettuosamente Rosalia, festeggiando la patrona con un festino che dura sette giorni, mentre il 4 settembre ha luogo il pellegrinaggio alla grotta del monte, ove è edificato il santuario, e alla cappella della Cattedrale di Palermo, in cui sono cust odite le reliquiedella Santa. Un tempo i festeggiamenti erano molto più ricchi di manifestazioni rispetto aquelli che si svolgono oggi. Comprendevano, oltre alla sfilata del carro tirato daquaranta muli e sostituiti dopo da buoi, spettacoli
pirotecnici
che si
tenevano allamarina della
città e la
processione finale dell’urna con le reliquie. In oltre si svolgevano “la beneficiata”(una lotteria), la tradizionale novena cantata dai cantastorie e la corsa dei cavalli berberi per le vie della città. I premi consistevano in drappi e pitture sul legno, su cui venivano incollate delle monete d’argento da 5 e 10 lire e in tavole su cui venivano raffigurate la città di Palermo e Santa Rosalia, arricchite anch’esse con molti pezzi d’argento. La vincita suscitava una gioia incontenibile tra i devoti e i premi vinti venivano portati in trionfo da due uomini per le vie della città, al suono dei tamburi o alla luce delle fiaccole. Nei
vicoli
popolari i
cantastorie
narravano, accompagnandosi
col
violino, la storia della Santa, in versi siciliani, oppure la novena per la “Santuzza”, eseguita su richiesta dei devoti, sempre alla stessa ora e davanti alle stesse case (per nove giorni di seguito). Dal secondo al quarto giorno dei festeggiamenti aveva luogo “la corsa dei cavalli” berberi; anticamente i
cavalli erano cavalcati da fantini scelti
tra i trovatelli; solo più tardi si decise di eliminare questa crudele usanza e di far correre gli animali senza cavalieri. Si stabilì anche di
collocare sulla criniera e sulla coda dei cavalli delle palline e dei pungoli che li eccitassero a correre più velocemente. Allo stalliere, al quale era stato affidato il cavallo vincitore della corsa, veniva data in premio un’aquila in legno dorato, su cui erano
incollate delle grosse
monete d’argento. Ma l’attrattiva principale del festino era “il carro trionfale”, costruito con enormi travi molte settimane prima dell’inizio dei festeggiamenti. La forma del carro era quella di una nave, decorata con pitture che rappresentavano gli episodi più significativi della vita della Santa. In cima al carro troneggiava la sacra immagine della patrona. Il carro veniva trainato da 40 buoi tenuti da fedeli vestiti di bianco, colore che rappresenta la fede. Per la pesante mole, il carro avanzava lentamente e ai lati del carro venivano disposti degli uomini che provvedevano a bagnarne le ruote durante il percorso, per evitare che le scintille provocate dall’attrito della ruote con il selciato provocassero un incendio. Dopo il 1858 a Palermo, sia per i lavori di livellamento che interessarono la strada del Cassaro, sia per la politica del governo di allora, volta a cancellare forme e usi che potessero in qualche modo ricordare l’antico regime, si interruppe la tradizione del carro, ripresa poi nel 1896. I festeggiamenti erano stati interrotti in due altre occasioni: nel 1837, a causa
di un’epidemia di colera, e successivamente nel 1848 e nel
1849, gli anni della rivoluzione antiborbonica. La processione del carro riprese nel 1924 in occasione del terzo centenario del ritrovamento delle reliquie, ma, dopo tale data, la tradizione di far girare il carro per le vie delle città fu sospesa per molti anni.
Oggi il carro si mantiene invariato salvo alcune modifiche e aggiunte secondarie e viene fatto nuovamente girare per la città dal 1974. Attualmente esso è lungo circa nove metri e largo sei, con una altezza di circi dieci metri. Su di esso trovano posto circa sessanta persone, tra orchestranti e coro, e in cima al carro è collocata la statua della “Santuzza” attorniata da nuvole, angeli e putti. Nelle processioni
che
si
svolgevano il secolo scorso,il carro era
preceduto da carri minori, detti “macchinette”, che rappresentavano scene e opere della vita della Santa. Questi carri, per la loro piccola mole, potevano sfilare inoltrandosi nelle vie interne della città. Con il trascorrere del tempo la profonda devozione della cittadinanza nei confronti della patrona è notevolmente aumentata.
2.2 La nascita del folklore La parola folklore deriva da due termini che designano “le credenze (lore) del popolo (folk), cioè di quei gruppi sociali che, esclusi dal potere e dalla cultura cosiddetta “alta” imperniata sulla trasmissione scritta, occupano nella gerarchia della società i più bassi “gradini”. Il termine è stato usato per la prima volta dall’archeologo inglese William Thoms nei suoi studi chiamati popular antiquities ("antichità popolari") in Inghilterra o, diffusamente in Europa, antiquitates vulgares, che a partire dal XVIII secolo si erano sviluppati intorno alla cultura degli strati sociali più bassi. Per molti secoli la scrittura e la lettura restarono un privilegio dei pochi che ebbero la possibilità di farsi una cultura, la stragrande maggioranza delle persone continuava a trasmettere esperienze e conoscenze attraverso la tradizione verbale. L’unica occasione per diffonder storia, saggezza, educazione e insegnamenti presso i coetanei, figli e nipoti, rimaneva quindi il racconto. Esso poteva diversificarsi in favole dove veniva affidata al comportamento degli animali una morale che è lezione di vita per gli uomini, in fiabe aventi come protagonisti gli essere umani, in storie nelle quali la narrazione si attiene a fatti realmente accaduti nel passato ed infine in leggende. Le leggende partono da circostanze e opere concrete, attribuendo i motivi della loro esistenza a realtà storiche che quasi sempre si fondono con una fantasia popolare e infaticabilmente alla ricerca di un segno mandato dalla buona sorte, di un maleficio, di un giudizio sul contegno tenuto dal singolo o dalla comunità
Gli studiosi di tale credenze e perciò dei prodotti “spirituali” derivati dalla tradizione orale, nel romanticismo e in larga parte del positivismo, si concentrano sui materiali formalizzati di tipo letterario espressi dalle classi popolari, come canti, fiabe, proverbi, oppure sui riti e sui comportamenti legati alla religiosità. Il folclore non è, come si potrebbe credere, limitato alle comunità rurali: la tradizione popolare si è infatti diffusa e sviluppata, con funzioni e modalità diverse, anche nei centri urbani. Grazie alla ricerca degli storici delle tradizioni popolari, antropologi, etnologi, sociologi, psicologi, linguisti ecc. oggi la letteratura e le tradizioni popolari non sono più considerate elementi pittoreschi o romantici di una società, oppure una forma "inferiore" di cultura: il folclore è invece visto come parte dell'evoluzione della cultura e importante fonte d'informazioni sulla storia del genere umano. La materia folcloristica può essere classificata in cinque grandi categorie: idee e credenze, tradizioni, narrazioni, detti popolari e arte popolare. Le credenze rispecchiano l'intento umano di dare una risposta a fenomeni che suscitano l'inquietudine e le speranze dell'umanità: dalle malattie e ai modi di curarle, alle speculazioni sulla vita ultraterrena; questa categoria comprende inoltre superstizioni, magia, divinazione, stregoneria. Il secondo gruppo, quello delle tradizioni, riguarda feste, giochi, balli; per estensione
vi
si
potrebbero
includere
anche
la
gastronomia
e
l'abbigliamento. Nella terza categoria, le narrazioni, si trovano le ballate e i vari generi di racconti, il teatro, le musiche popolari, che possono essere in parte ispirati a personaggi o fatti realmente accaduti. I detti popolari comprendono indovinelli, formule magiche, proverbi, filastrocche (come ad esempio le nursery rhymes, molto diffuse nei paesi di lingua inglese). Infine l'arte popolare, la sola categoria non verbale, riguarda qualsiasi forma d'arte che esprima il carattere della vita della comunità. Gli studi scientifici sul folclore cominciarono circa tre secoli fa. Uno dei libri più
antichi sull'argomento fu il Traité des superstitions (1679, Trattato sulle superstizioni) dello scrittore satirico francese Jean-Baptiste Thiers. Un'altra opera dello stesso
periodo, le Miscellanies (1696, Miscellanee)
dell'archeologo inglese John Aubrey, si occupa di credenze e usanze popolari come presagi, sogni, chiaroveggenza e fantasmi. L'opera più importante sul folclore in generale è Antiquitates Vulgares (1725, Antichità popolari) dell'ecclesiastico e archeologo britannico Henry Bourne, resoconto dei costumi popolari connessi a feste religiose. Reliques of Ancient English Poetry (1765, Reperti di antica poesia inglese), a cura del poeta e vescovo inglese Thomas Percy, è una raccolta di ballate inglesi e scozzesi. Nel 1777 l'ecclesiastico e archeologo britannico John Brand catalogò e descrisse le origini di diverse usanze in Observations on the Popular Antiquities of Great Britain (Osservazioni sulle antichità popolari della Gran Bretagna), divenuto il modello per le successive opere inglesi sull'argomento. In Germania, le prime opere sul folclore sono dovute al filosofo Johann Herder e ai filologi Jacob e Wilhelm Grimm: Herder pubblicò nel 1778 una raccolta di canzoni popolari tedesche, mentre i fratelli Grimm riunirono una serie di racconti popolari in Fiabe per bambini e famiglie (1812-22). Nell'Ottocento e nel primo Novecento, in Europa aumentò l'interesse per la raccolta e l'analisi del materiale folclorico. Nacquero numerosi giornali e società che si occupavano della registrazione e della conservazione delle espressioni della tradizione popolare. La ricerca del tedesco Theodor Benfey, filologo e studioso di sanscrito, gettò le basi per tutti i successivi studi comparati in questo campo. Le sue teorie furono seguite da studiosi come il classicista e folclorista scozzese Andrew Lang, che scrisse Custom and Myth (1884, Costume e mito) e Myth, Literature and Religion (1887, Mito, letteratura e religione), e l'antropologo britannico James George Frazer, autore del celebre Ramo d'oro (1890; ampliato poi
nel 1915 in 12 volumi). Le loro opere furono pietre miliari della cosiddetta scuola antropologica negli studi sul folclore. In Italia, il primo studioso di rilievo fu Giuseppe Pitré. La sua opera principale, ancora oggi fondamentale, è la Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane (1871-1913, in 25 volumi), che illustra i più vari fenomeni folclorici dell'isola; del 1894 è la sua vasta Bibliografia delle tradizioni popolari italiane. Notevoli contributi hanno dato Giuseppe Cocchiara, autore, tra altre opere, di Popolo e letteratura in Italia (1959), ed Ernesto De Martino, acuto interprete delle manifestazioni religiose popolari, autore, tra l'altro, degli importanti saggi Morte e pianto rituale (1958), Sud e magia (1959) e La terra del rimorso (1961). Già nel 1905, l'Archivio folclorico danese utilizzò il fonografo di Thomas Alva Edison per registrare canzoni danesi, groenlandesi e delle isole Fær Øer. Fra i tanti studiosi scandinavi, il più importante fu il finlandese Antti Aarne, che diede impulso alla ricerca per accertare gli elementi, il luogo d'origine e la data approssimativa delle narrazioni popolari: nel 1910 creò un importante sistema di catalogazione di racconti popolari, in seguito tradotto e ampliato dall'americano Stith Thompson in The Types of the Folk Tale (1928, I tipi del racconto popolare). Le società folcloriche in Europa e negli Stati Uniti hanno favorito la raccolta (con incisioni su nastro e fotografie) e la classificazione di estesi archivi di materiale folclorico. Queste società di studiosi, che hanno contribuito a fare dello studio del folclore uno strumento prezioso nella ricerca antropologica, etnologica e psicologica, comprendono l'inglese Folklore Society, fondata nel 1878; la francese Société des traditions populaires, che nel 1886 cominciò la pubblicazione della "Revue des traditions populaires"; l'americana Folklore Society, fondata nel 1888. Importante è anche la Folklore Fellows (organizzazione internazionale fondata nel 1907, con sede centrale a Helsinki, in Finlandia): attraverso la rivista "Folklore Fellows
Communications",
l'organizzazione
ha
prodotto
più
di
duecento
pubblicazioni, tra cui quasi quaranta cataloghi. Anche la Società internazionale per la ricerca sulla narrativa popolare, fondata nel 1959, con sede centrale a Turku (Finlandia), ha dato impulso allo studio del folclore comparato. In Italia si deve a Pitré, che fu presidente della Società siciliana di storia patria, la fondazione del Museo etnografico di Palermo. A Roma ha invece sede il Museo nazionale preistorico ed etnografico Luigi Pigorini. L’elaborazione del concetto di cultura, più complesso ed organico, verificatosi con l’opera dell’antropologo E.B. Tylor, determinò con il tempo un arricchimento anche dell’oggetto degli studi folkloristici. Nella sua opera “Primitive culture”, alle prime pagine, Tylor affermava infatti che “la cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società”. Si capisce, perciò, che sono espressioni culturali anche i modi di fabbricare un muro di recinzione o la tecnica per costruire una gerla, in quanto abilità che si apprendono mediante un insegnamento orale derivato dalla tradizione e grazie all’imitazione, così come lo sono i comportamenti legati a certe credenze magiche o, per fare un altro esempio, la concezione che del carnevale ha un certo gruppo. Il concetto di cultura viene elaborato da Tylor nel corso dei suoi studi applicati ai popoli “selvaggi”, delle società “primitive” e senza scrittura, mentre i popoli folkloristici si occupavano e si occupano, delle società complesse come la nostra. Ci sono però almeno due livelli a cui si può collocare la ricerca sulla cultura, tylorianamente intesa: il livello etnografico e quello etnologico. Tylor in Primitive Culture stabilisce l’esistenza di una cultura popolare, l’autore mette in luce le due caratteristiche predominanti nel movimento della cultura popolare: la
sopravvivenza, aspetto passivo del processo e la ripresa di componenti ereditate, lato attivo o creativo degli strati della società. Visti nel contesto dell’ambiente economico e asociale i due aspetti insieme mostrano il meccanismo psichico operante nella tradizione; lo sviluppo prende generalmente forma di ascesa sebbene Tylor vede anche la possibilità opposta di degenerazione. Come scrive Lévi-Strauss, l’etnografia consiste in “osservazione e descrizione, lavoro sul terreno” su un oggetto o un gruppo umano relativamente
ristretto.
L’etnologia,
invece,
pur
senza
escludere
l’osservazione diretta, richiede un’estensione del campo di osservazione, o in senso geografico o in senso storico o in senso sistematico (cioè su un particolare aspetto della cultura), che consenta l’elaborazione di una interpretazione “sintetica”. Lévi-Strauss, nelle stesse pagine, ci parla poi di un terzo livello di indagine: quello dell’antropologia sociale o culturale come ulteriore e più alta tappa di sintesi, che “mira a una conoscenza globale dell’uomo […]; a conclusioni, positive o negative, ma valide per tutte le società umane, dalla grande città moderna fino alla più piccola melanesiana”. Tornando agli studi sul folklore possiamo concludere che essi possono compiersi almeno ai due primi livelli, corrispondenti a quelli dell’etnografia e dell’etnologia. In entrambi i casi, comunque, il ricercatore deve disporre di un metodo rigoroso, se intende conseguire risultati utili da un punto di vista scientifico e degni di qualche interesse (anche sociale). Nel chiarire il concetto di “antropologia sociale” Frazer afferma che è compito di questa disciplina studiare le credenze e i costumi dei selvaggi insieme alle reliquie che quelle credenze e quei costumi conservano nel folklore. Così scrive in “The Devil’s advocate”:
[…]Per esempio gli Dei dell’Egitto e di Babilonia, della Grecia e di Roma sono stati dimenticati da secoli (dalla gente colta) e sopravvivono solo nei libri degli studiosi, eppure i contadini che non hanno mai sentito parlare di Apollo e di Artemide, di Giove e di Giunone, credono fermamente fino ad oggi in streghe e fate, fantasmi e folletti, creature minori della fantasia mitologica. […] (J.G. Frazer “Devil’s advocate”, 1927) Frazer in The golden Bough presenta le successive manifestazioni di un culto o di una credenza tra i primitivi, poi tra gli antichi popoli mediterranei e infine nelle tradizioni popolari delle civiltà europee. Ne segue lo sviluppo e vede le drammatiche esperienze vissute dalla razza umana nel tentativo di conoscere io proprio destino. Secondo Frazer la prima molla di questo processo evolutivo, iniziato nella preistoria fu la magia con le sue due componenti – imitazione e contatto- spesso mescolato, mentre il loro lato negativo si esprimeva nei tabù. Le credenze del popolo in creature sovrannaturali lo porta a celebrare dei riti in loro onore. Questi momenti hanno un’importanza fondamentale nella vita sociale dei gruppi umani, in quanto rispondono all’esigenza di esprimere e di ricreare manifestazioni culturali tradizionali che andrebbero, altrimenti, perse. In The Interpretation of Survivals di Marett si sottolinea la profonda attrazione che hanno oggi le usanze sopravvissute: le credenze non sopravvivono per un processo puramente meccanico di trasmissione, ma perché sono adatte alla mentalità di trasmissione, e, quindi, necessarie al mondo contemporaneo,idea già presente allo stato embrionale in Tylor.
Oggi chi si occupa di folclore rivolge la sua attenzione a tutte quelle manifestazioni di carattere tradizionale e popolare come le danze in costume, le feste, le sagre di paesi, i festeggiamenti, le occasioni di ricorrenze
speciali,
gli
spettacoli
e
le
degustazioni di specialità
gastronomiche. Il folclore di ogni paese racchiude in sé pezzi di storie tradizionali, testimonianze dell’intimo e profondo legame della
popolazione
con
l’ambiente, il clima ed il paesaggio. Ed è dall’analisi di queste manifestazioni, nelle quali sopravvivono ancora aspetti del patrimonio culturale di un popolo, che si possono ricavare informazioni e rendere più approfondite le conoscenze di una popolazione o di una nazione. Anche se la moderna civiltà tende a cancellare le antiche tradizioni, i paesi siciliani conservano caratterizzato
da
ancora
un
ricco
patrimonio
folcloristico,
manifestazioni popolari legati a riti profani e feste
religiose. Nonostante l’integrazione del modo di vivere, e quindi del costume, con il resto dell’Italia, il
folclore siciliano è
molto tipico e rimane
determinante per la conoscenza dell’isola e dei suoi abitanti. Credenze popolari, riti, modi di essere, canti spontanei tramandati oralmente sono un patrimonio che testimonia la genuina espressione popolare . I simboli folcloristici siciliani universalmente conosciuti sono: il “carretto siciliano” e i “pupi”. Ad essi è dedicata dedichiamo la prima parte di questo elaborato, a cui farà seguito la trattazione di alcune
tra
le
feste
più
rappresentative
delle
tradizioni popolari
siciliane, distinte in feste religiose e feste popolari solamente per comodità e non per una sostanziale differenza tra loro, poiché, per
quasi tutte, riti e simboli hanno comuni radici che affondano nel passato più lontano della Sicilia.
E’ importante analizzare quale è il valore di queste feste che si propongono di mantenere vive