educazioneNews Periodico a cura del Centro Culturale di Lugano.
Editoriale
“…una società che non insegna è una società che non si ama; che non si stima”, con queste illuminanti parole di Charles Péguy, si apre il volantino “Viva la scuola”, che in questi giorni ha cominciato a circolare, senza rumore, di mano in mano, ma con una parola così forte, così in sintonia con l’“Appello per l’educazione”, che ci sentiamo di farlo nostro fino in fondo e di rilanciarlo. Con esso pubblichiamo alcune reazioni a caldo che ci sono arrivate quando abbiamo iniziato a parlarne con persone che con noi condividono la passione per l’educazione. La forza del testo sta nell’attaccare la questione della scuola non rimanendo fermi al disagio (“stiamo diventando, o continuando ad essere?, – nota un commento – un Cantone dal ‘fazzoletto facile’ dove, invece di positivamente e costruttivamente reagire, ci si crogiola in piagnistei, spesso purtroppo di mero principio”) ma mettendo al centro, attorno ad alcune parole chiave, la sfida affascinante dell’insegnare. E’ impressionante sentire chi, dopo anni di insegnamento, ti dice “per vincere bisogna essere ben preparati, ben formati, avere una grande passione per il proprio lavoro, essere entusiasti del compito che affrontiamo ogni giorno”. Insegnare vuol dire lasciare un segno, ci ricorda il volantino. Basterebbero queste parole per intuire la portata dell’avventura. Tra una miriade di segni effimeri, (segue sul retro)
Anno II / numero 3 / aprile 2009
VIVA LA SCUOLA
“Per ogni umanità, insegnare, in fondo, è insegnarsi; una società che non insegna è una società che non si ama; che non si stima.” (C. Péguy, Pour la rentrée) “Col signor Bernard, le lezioni erano sempre interessanti, per la semplice ragione che lui amava appassionatamente il proprio mestiere … appagava una sete ancor più essenziale per il ragazzo che per l’ adulto, la sete della scoperta. Certo, anche nelle altre classi insegnavano molte cose, ma un po’ come s’ ingozzano le oche. Si presentava un cibo preconfezionato e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del signor Bernard, per la prima volta in vita loro, sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione, li si giudicava degni di scoprire il mondo.” (A. Camus, Il primo uomo) Ragazzo con il gilet rosso, Paul Cezanne Parliamo di scuola. Potremmo fare analisi dettagliate sulla condizione salariale, sociale e psicologica dei docenti; potremmo tentare un identikit dello studente-tipo per ordine di scuola. Di analisi in analisi potremmo passare al setaccio famiglie e istituzioni. Non è che le analisi non servano. E già ce ne sono. Ma l’ insoddisfazione che avvertiamo dentro la scuola resta. Un’ insoddisfazione diffusa che ne tocca tutte le componenti. Ci sembra urgente individuare un punto da cui ripartire dentro la scuola, che dovrebbe essere un luogo dove si insegna e si impara, dove insegnando si educa, e dove imparando si diventa capaci di critica e di dialogo. Siamo insegnanti. E allora occorre innanzitutto riappropriarci dello specifico del nostro lavoro. L’insegnamento appunto. Cosa vuol dire insegnare? Vuol dire lasciare un segno. Per lasciare un segno occorre essere certi della positività di quel che si comunica. Nello stesso tempo bisogna credere nella dignità di chi si ha davanti, di coloro ai quali si vuole lasciare un segno. La positività di quel che si insegna ha a che fare con la tradizione: non veniamo dal niente e non costruiamo sull’aria. Siamo nani sulle spalle di giganti. Lo dicevano i medievali e lo ripetevano gli umanisti. Comunicare la nostra tradizione significa comunicare tutta la ricchezza culturale che abbiamo ricevuto e che costituisce un’ ipotesi di spiegazione della vita, per noi e per i nostri allievi. E come ogni proposta, chiama in causa la ragione – è vero, è adeguato, è ragionevole o no? è per me oppure no? – aprendo la strada ad una conoscenza che non sia nozionismo ma esperienza di una possibile scoperta di sé e della realtà che ci sta attorno. Sappiamo infatti quanto ci sia bisogno di imparare ad usare la ragione secondo tutto il suo respiro, senza ridurla ad alcune sue pur importanti movenze (analitiche, dialettiche, tecniche …). Una ragione intesa come apertura e capacità di entrare dentro le cose nella ricerca del loro significato: per poter incontrare quanto è diverso da sé come per avere un rapporto critico e libero con quanto appare più familiare e consono. Insegnare così vuol dire accettare il rischio della libertà di chi è chiamato ad apprendere, che può starci oppure no (sappiamo tutti bene che cosa vuol dire: quanto più crediamo in quel che insegniamo, tanto più percepiamo il dramma della rispondenza o meno dei nostri allievi). Vorremmo ripartire da qui, da alcune parole fondamentali – insegnamento, tradizione, ragione, conoscenza – perché la scuola possa essere sempre più quel che deve essere: un luogo di incontro tra adulti e giovani dove si lavora, si fa fatica anche, ma dove ci si appassiona, senza paura del confronto di idee, interessati a mettere in gioco ognuno le cose più preziose che ha. Consapevoli che nella scuola si gioca una partita che è meglio non perdere. Per il bene di tutti.
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Ritratto di maestro Mi piacciono i personaggi di Alexander McCall Smith, soprattutto Precious Ramotswe, fondatrice e direttrice della prima agenzia investigativa femminile del Botswana. In Il tè è sempre una soluzione, la signora Ramotswe incontra il signor Bobologo, spocchioso personaggio, maestro ed animatore di un’opera di carità, che pare fatta apposta per mettere in rilevo il suo tedioso moralismo. E’ accaduto che la signora Holonga, parrucchiera ed imprenditrice di successo, alle soglie dei 40, si sia chiesta: dov’è mio marito? Dove sono i miei figli? Di conseguenza ha lasciato correre la voce che desiderava sposarsi. Della valanga di pretendenti solo quattro sembrano meritevoli di attenzione. Ma chi di loro sarà veramente
disinteressato? E’ il quesito per la signora Ramotswe, la quale appurerà che uno di questi – il maestro Bobologo – punta inequivocabilmente ai soldi, anche se per finanziare la sua opera. Per finire, la signora Holonga deciderà di prendersi il maestro, così come è, e di affiancarlo nella sua impresa (offrendo quindi al matrimonio, che non è certo d’amore, una base ben più realistica di un improbabile disinteresse). Ma non è per la morale matrimoniale che desidero parlare di questo libro, è per il ritratto del maestro, meglio della funzione del maestro. Una delle tante lezioncine che questi gustosi racconti offrono al nostro stanco scetticismo, contrabbandate nello scenario esotico di un paese ancora giovane ed orgoglioso di sé.
“Lei [la signora Ramotswe] si fece da parte e lo invitò a precederla, come si usava di fronte ad un maestro, e la signora Ramotswe era convinta che i maestri andassero trattati con rispetto, come si usava prima che l’antica morale del Botswana cominciasse a vacillare. Adesso la gente trattava i maestri come persone comuni, ed era un grave errore. Non c’era da meravigliarsi che i bambini fossero così maleducati e insolenti. Una società che aveva poca considerazione dei propri maestri e della loro autorità non faceva altro che indebolirsi alle fondamenta. Alla signora Ramotswe pareva ovvio. La cosa incredibile era che molti non lo capivano. In effetti, però, c’erano tante cose che la gente non comprendeva e che imparava
Reazioni al volantino “Viva la scuola” Certo, nella scuola si gioca una partita che non si può perdere. Per vincere bisogna essere ben preparati, ben formati, avere una grande passione per il proprio lavoro, essere entusiasti del compito che affrontiamo ogni giorno. Non dobbiamo poi disquisire sulla dualità educazione-insegnamento, se si vuole lasciare il segno bisogna educare insegnando. Nessun messaggio educativo passa se unicamente espresso verbalmente. L’educazione si sviluppa attraverso l’interesse, il lavoro, lo sforzo per migliorare ogni giorno le proprie conoscenze e le proprie capacità. E’ proponendo attività interessanti, sensate, impegnative, che mettono veramente in gioco le conoscenze, le capacità, le abilità dell’allievo, che inneschiamo il piacere di apprendere e nel contempo educhiamo. Non è bello percepire negli occhi dell’allievo il piacere che prova al termine di un lavoro riuscito? Esprime la sua piena soddisfazione e la gioia di avere imparato. Per ritornare alla metafora della partita, sembra molto il giocatore che ha segnato un gol! Giancarlo Bernasconi, ispettore scolastico delle scuole elementari Da trentacinque anni, ma con lo stesso entusiasmo del primo giorno del settembre ’74, mi reco a scuola per mettere soprattutto in atto le ultime quattro righe, stupende, del presente appello. Per questo e pur in mezzo a innumerevoli difficoltà, ma ad altrettante soddisfazioni continuo e continuerò a crederci e a battermi per la nostra Scuola declinando parimenti un’altra importantissima parola chiave contenuta nel testo: positività! Stiamo diventando (o continuando ad essere?) un Cantone dal “fazzoletto facile” dove, invece di positivamente e costruttivamente reagire di fronte a decisioni e indirizzi che non ci confanno, ci si crogiola in piagnistei a volte patetico-puerili e/o spesso, purtroppo, di mero principio. Occorre invece ASSIEME continuare a crederci e a lottare poiché il capitale che ci è affidato non permette improvvisazioni e abbassamenti di passione e di guardia. Ed allora, non per pura cosmesi, cambiamo per una volta la piccola vocale in calce all’appello e diciamoci, altrettanto convinti e convincenti: “VIVI la scuola”! Lo facessimo TUTTI e ASSIEME……… Franco Lazzarotto, direttore SMe Biasca
soltanto dopo averle provate sulla propria pelle”. Non è certo questione di costruire piedestalli e nemmeno di ripristinare le antiche predelle, ma c’è del vero nelle tendenze suicidali di una società che non ha stima della sua scuola, dell’insegnamento e dei maestri. (A.M.)
(segue dalla prima) contradditori, lasciare un segno – un segno veramente positivo – significa mettere in gioco tutta la propria persona, “essere certi della positività di quel che si comunica” e “credere nella dignità di chi si ha davanti”. Questa certezza allarga la ragione e mobilita la libertà. La ragione si dilata a capire la tradizione, la ricchezza da cui siamo nati (“siamo nani sulle spalle di giganti”), ciò che di essa si conserva vitale e urge a vivere il presente e ad aprirsi al futuro con la forza di una fondata speranza. Non vaghi sogni, evasive utopie, ma solida speranza. Mobilita la libertà, che sempre si desta in un incontro. Nell’incontro tra insegnante ed allievo. Un incontro che mette in moto due libertà e apre prospettive mai prevedibili. Altro che noiosa ripetitività! Viva la scuola dunque, “Vivi la scuola!” poiché “il capitale che ci è affidato non permette improvvisazioni e abbassamenti di passione e di guardia”. Bisogna tornare ad “educare insegnando” e cogliere negli occhi dell’allievo “la piena soddisfazione e la gioia di aver imparato”. Contro le “tendenze suicidali di una società che non ha stima della sua scuola, dell’insegnamento e dei maestri.”
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