Focus Consumatori, Antitrust e Risarcimento del Danno. Le prospettive del Libro Bianco CE Antonio Nicita Un sistema private enforcement come quello proposto dal Libro Bianco della Commissione europea incrementerà la repressione degli illeciti antitrust e rafforzerà il legame tra tutela della concorrenza e tutela dei consumatori. L’esito di questo nuovo approccio sarà tuttavia efficace solo se ci sarà complementarietà tra rimedi, misure cautelari, sanzioni e risarcimento del danno.
Le ragioni economiche dell’iniziativa comunitaria antitrust sul Private Enforcement Facendo seguito al processo di decentralizzazione dell’attuazione della politica per la concorrenza, avviato con il Regolamento 1/2003, la Commissione Europea ha dato vita nel 2005 al Libro Verde denominato “Damage Actions for breach of EC antitrust rules” al quale ha fatto seguito nell’aprile del 2008 un Libro Bianco1 volto a tradurre in percorso di riforma i principi enunciati in precedenza e il cui processo di consultazione si conclude nel luglio 2008. Si tratta, in sostanza, del tentativo di estendere l’azione antitrust - oggi demandata per l’applicazione degli artt. 81 e 82 del Trattato, sia alla Commissione Europea che all’azione decentralizzata dei Tribunali, nonché all’iniziativa delle Autorità antitrust nazionali - rendendo disponibili nuovi strumenti giuridici che agiscano dal lato delle vittime, tipicamente attraverso l’azione di risarcimento del danno da violazione delle norme antitrust. La circostanza che ci si riferisca ad azioni private (private enforcement) di tutela attivate dalle “vittime”, siano essi consumatori o imprese, denota questa tipologia di strumenti. Si tratta, è bene dirlo subito, di strumenti integrativi e non sostituivi dell’azione pubblica (public enforcement) di repressione degli illeciti antitrust, comunque svolta dalle Autorità preposte, il cui principale fine è quello da un lato, di rafforzare le tutele e dall’altro di meglio allineare gli incentivi al rispetto della normativa antitrust da parte delle imprese dominanti o delle imprese potenzialmente White Paper on Damages Actions for Breach of the EC antitrust rules COM (2008) 165, 2.4.2008. 1
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Antonio Nicita Dipartimento di Economia Politica Università di Siena
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interessate a realizzare intese restrittive della concorrenza. La recente accelerazione comunitaria deriva peraltro dalla necessità di armonizzare a livello comunitario un aspetto rilevante dell’azione antitrust, al fine di evitare inefficienti forum shopping e trattamenti discriminatori tra imprese a livello europeo. Questo mutamento di prospettiva segna un ulteriore momento di convergenza - dopo il processo che ha portato alla cosiddetta “modernizzazione” degli articoli 81 e 82 del trattato CE - dell’approccio comunitario in materia di concorrenza verso la tradizione antitrust statunitense. Negli Stati Uniti infatti, secondo alcune stime recenti (Wils, 2003), ben il 90% delle azioni antitrust sono avviate da azioni private di consumatori e imprese, nell’ambito della richiesta di risarcimento del danno. In Europa, il risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust registra percentuali di gran lunga più ridotte e, in ogni caso, l’azione di risarcimento tende ad essere successiva ad un primo pronunciamento delle autorità antitrust. In altri termini, l’attuale tendenza europea vede il private enforcement come momento successivo all’accertamento dell’infrazione antitrust da parte del soggetto preposto al public enforcement. Ciò comporta in talune circostanze una inutile duplicazione di costi amministrativi, almeno nei casi in cui l’azione privata è in grado di presentare evidenze sufficienti a costi ridotti. Una recentissima survey delle azioni di risarcimento da danno antitrust svolte nei 27 paesi CE , negli ultimi tre anni, ha individuato 96 azioni di risarcimento del danno, delle quali circa 61 riguarderebbero intese verticali, 13 intese orizzontali e 22 abusi di posizione dominante. Naturalmente, un effetto nascosto del private enforcement riguarda anche la possibilità di interruzione del processo a seguito di accordo extra-giudiziale tra le parti, un fenomeno in crescita, per esempio, nel Regno Unito (Rodger, 2003). Alcune recenti simulazioni (Renda, Pardolesi et al., 2007), prendendo a riferimento diversi scenari basati sull’esperienza statunitense, mostrano come l’attuazione di un sistema efficace di private enforcement - per esempio nel caso di intese - possa aumentare sensibilmente sia il tasso di scoperta dei cartelli che la probabilità di accordo extra-giudiziale, incrementando tanto la deterrenza ex-ante quanto la compensazione dei danni ex-post. La ragione economica di fondo che aveva indotto storicamente la Commissione Europea a preferire l’azione pubblica di enforcement a quella privata, corredata dalla possibilità di intraprendere accertamenti d’ufficio, risiede nella finalità di centralizzare i costi di accertamento dell’infrazione. Mentre nel caso in cui le vittime siano esse stesse delle imprese è ipotizzabile che i privati possano agevolmente sostenere tali costi, nel caso di singoli consumatori questa prospettiva può inibire la possibilità di accertamento e dunque l’iniziativa pubblica si pone come strumento “facilitatore” della fase istruttoria, anche in ragione di specifici poteri di indagine riconosciuti all’Autorità antitrust. Secondo la Commissione Europea, tuttavia, la tendenza a individuare il private enforcement come strumento di tutela complementare e successivo al public enforcement, comporta da un lato un indebolimento della complessiva azione antitrust, in quanto “riduce” l’applicazione della normativa antitrust ai soli casi
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che finiscono ad essere esaminati dalle Autorità e dall’altro un allentamento degli incentivi al rispetto della legge (compliance) da parte delle imprese, almeno nei casi in cui la sanzione attesa è inferiore ai danni generati su consumatori e imprese. Inoltre, le sanzioni antitrust, non essendo reindirizzate direttamente ai consumatori e alle imprese che hanno subito gli effetti negativi di abuso di posizione dominante o di intese restrittive della concorrenza, non hanno natura compensativa ma solo punitiva. Ne consegue che una politica della concorrenza che punti solo sull’attuazione del public enforcement può generare problemi di efficienza allocativa nella misura in cui i benefici privati della violazione antitrust, al netto della sanzione attesa, siano inferiori ai danni sociali generati che non vengano al contempo internalizzati attraverso un’azione di risarcimento del danno. Sono dunque quattro le ragioni economiche di fondo che spingono oggi la Commissione Europea ad arricchire la scatola degli strumenti giuridici attraverso la promozione dell’azione di risarcimento del danno: –
armonizzazione di un aspetto cruciale di repressione dell’illecito antitrust a livello comunitario, al fine di evitare trattamenti discriminatori a imprese e consumatori e strategie legali di forum shopping opportunistici; – miglioramento della probabilità di individuazione dell’illecito antitrust (la possibilità di intraprendere azioni private incentiva le vittime a raccogliere e a rivelare l’informazione privata di cui dispongono, minimizzando peraltro i costi transattivi e di monitoraggio incorsi dalle Autorità antitrust); – incremento dell’effetto di deterrenza (i soggetti potenzialmente interessati a violare la normativa antitrust sono indotti a confrontare i benefici attesi con il costo atteso della sanzione e del risarcimento del danno); – incremento dell’efficienza allocativa complessiva (il risarcimento del danno alle vittime ripristina le condizioni iniziali e destina le risorse complessive ad usi più efficienti). Questi obbiettivi permettono anche di individuare, per così dire, un’ipotetica ottima divisione dei compiti nell’applicazione della normativa antitrust tra azione privata (da parte delle vittime) ed azione pubblica (da parte dell’Autorità). A tal fine la “regola aurea” dovrebbe essere la seguente: quando i costi privati e sociali di un accertamento antitrust sono tali da rendere preferibile l’azione dell’Autorità antitrust occorrerebbe delegare per intero ad essa il compito di reprimere gli illeciti, mentre nel caso opposto occorrerebbe dare ampio spazio alle azioni private. In questa logica, andrebbe certo ribaltata l’attuale tendenza e individuare il public enforcement come attività residuale di intervento, nei casi in cui l’intervento privato non abbia raccolto autonomamente le necessarie risorse per avviare un’azione. Sebbene questa virtuosa “divisione del lavoro” tra azione pubblica e azione privata sia facilmente prescrivibile in teoria, la sua pratica attuazione è molto problematica.
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Se questi sono gli obiettivi di fondo, la concreta declinazione di questi principi in strumenti giuridici è tuttavia tutt’altro che semplice e agevole sia con riferimento alla individuazione delle vittime che alla determinazione del danno. È possibile che nuovi strumenti incoraggino un eccesso di azioni, con un incremento dei costi sociali e un aumento della probabilità che si pervenga a decisioni errate che finiscono per distorcere allocazioni efficienti del mercato, facendo pagare ai trasgressori sanzioni eccessivamente onerose (over deterrence). Occorre quindi individuare un percorso giuridico che effettivamente spinga il sistema verso la deterrenza ottima, intesa come capacità di minimizzare i costi sociali complessivi che derivano sia dalla violazione della normativa antitrust che dall’azione di repressione degli stessi.
Qualificazione dell’illecito antitrust e azione privata Il risarcimento del danno presuppone che “le vittime” di un comportamento illegittimo sotto il profilo antitrust siano in grado innanzitutto di individuare tale comportamento, in seguito di fornirne evidenza e infine di attivare un’azione “coordinata” davanti al giudice. Queste facoltà non sono in generale indipendenti dal tipo di violazione antitrust che si prospetta. Cerchiamo di capire il perché, distinguendo innanzitutto le due possibili infrazioni riconducibili all’art.81 e all’art. 82 del Trattato e la tipologia di danno ad esse associata. Il caso più semplice di accertamento dell’illecito, e conseguentemente del danno antitrust, che si tratti di un’intesa restrittiva della concorrenza o di un abuso di posizione dominante, è riconducibile all’ipotesi in cui i consumatori osservino un comportamento discontinuo (before/after) da parte di un gruppo di imprese o dell’impresa dominante. Se i consumatori di un dato mercato rilevante sono molteplici è sufficiente che anche uno solo di essi osservi questo comportamento per avviare un’azione. Assumiamo che tale discontinuità riguardi banalmente l’incremento di prezzo di un dato bene e che tale incremento sia giudicato dalla vittima come “ingiustificatamente gravoso”. È sufficiente ad individuare un illecito antitrust? La risposta è negativa: nel caso in cui tale prezzo sia praticato da un gruppo di imprese occorre capire se si tratti di mero parallelismo oligopolistico dei prezzi o di una vera e propria intesa; nel caso in cui tale prezzo sia praticato da una impresa dominante occorre stabilire se tale prezzo costituisca un abuso o non sia il risultato di mutamenti nella struttura produttiva o ancora l’adattamento efficiente della struttura di prezzo a mutamenti intercorsi nella domanda. E ancora: nel caso in cui si osservi che una data struttura di prezzo posta in essere da una impresa dominante avvantaggi alcuni consumatori (per esempio quelli ad alto consumo) e ne svantaggi altri, questo trattamento discriminatorio che costituisce certamente un danno per una parte di consumatori - identifica un abuso o configura una struttura di prezzo “a due parti” volta a massimizzare l’efficienza allocativa? Come si può notare da questi semplici esempi, non basta uti-
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lizzare il metodo before/after per individuare un illecito e, conseguentemente un danno. Non solo: vi sono casi in cui pur ravvisando una chiara perdita economica, l’azione dalla quale tale perdita scaturisce non configura una violazione della normativa antitrust. Ne consegue che, in molte circostanze, il soggetto privato che dopo aver osservato una data discontinuità sul mercato - per esempio un incremento di prezzo - ritenga di aver subito un danno e per questo si attivi in un procedimento di risarcimento di danni, pur avendo la migliore informazione privata in merito al proprio danno, può non disporre delle necessarie informazioni e conoscenze aggregate per verificare l’effettiva qualificazione abusiva dell’effetto dannoso subito. In altri termini, vi sono molte circostanze nelle quali legittimi mutamenti di strategia commerciale possono ben produrre danni a taluni consumatori senza tuttavia configurare alcuna violazione della normativa antitrust. I consumatori, singoli o in gruppo, possono non disporre delle necessarie competenze per qualificare le condotte restrittive della concorrenza e ciò implica che l’azione decentralizzata possa in taluni casi produrre un eccesso di litigation, generando inefficienti complessivi costi transattivi. In questi casi un qualche filtro è necessario e, come riconosce la stessa commissione, tale filtro può essere risolto o attraverso un pre-requisito di ammissibilità della causa oppure relegando in tali casi al public enforcement il ruolo di soggetto selezionatore dei casi antitrust. Nei prossimi paragrafi richiamiamo brevemente alcuni possibili equivoci cui si può incorrere nella qualificazioni delle intese restrittive e degli abusi di posizione dominante.
Danno e intese restrittive L’art. 81, analogamente all’articolo 2 della Legge 287/90, vieta le intese restrittive della libertà di concorrenza, ovvero tutte le possibili forme di coordinamento volontario tra le imprese, il cui oggetto o il cui effetto consiste nell’impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza. In questa accezione si ricomprendono tanto i cartelli veri e propri, ovvero accordi espliciti su elementi strategici della concorrenza, come per esempio i prezzi, quanto le pratiche concordate, ovvero forme di parallelismo conscio di comportamenti che non arrivano tuttavia a strutturarsi in cartelli. Le vittime di questo comportamento possono essere sia altre imprese direttamente concorrenti che non rientrano nel cartello (e quindi il cartello avrebbe un’azione escludente), sia imprese che si trovino a monte o a valle del processo produttivo. In quest’ultimo caso, le vittime designate sarebbero in ogni caso i consumatori finali, qualora a essi venga riversato e ribaltato dalla catena del valore, il costo dell’intesa restrittiva in termini di restrizioni delle quantità offerte e/o di incrementi di prezzo. Il primo problema che si pone rispetto all’intesa restrittiva è quello della sua individuazione, specie ove manchi la prova provata del cartello, come nel caso della pratica concordata. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE , una pratica concordata «corrisponde ad una forma di coordinamento fra imprese
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che, senza essere stata spinta fino all’attuazione di un vero e proprio accordo, sostituisce consapevolmente una pratica collaborazione fra le stesse ai rischi della concorrenza». In particolare, «i criteri del coordinamento e della collaborazione» devono «essere intesi alla luce della concezione inerente alle norme del Trattato in materia di concorrenza, secondo la quale ogni operatore economico deve autonomamente determinare la condotta ch’egli intende seguire sul mercato comune».2 La prassi comunitaria in materia ha stabilito che quando «fra gli operatori stessi abbiano luogo contatti diretti o indiretti che possano influenzare il comportamento sul mercato di un concorrente attuale o potenziale, o rivelare a tale concorrente la condotta che essi hanno deciso o intendono seguire sul mercato quando tali contatti abbiano lo scopo o l’effetto di creare condizioni di concorrenza non corrispondenti alle condizioni normali del mercato di cui trattasi»,3 allora tali effetti possono essere considerati sufficienti ad individuare un’intesa restrittiva. In contesti oligopolistici, non è tuttavia sufficiente osservare comportamenti convergenti o paralleli (quali per esempio l’adozione dei medesimi livelli di prezzo) per decretare l’esistenza di una pratica restrittiva. Occorre, in aggiunta, che «la concertazione ne costituisca l’unica spiegazione plausibile», ciò che rende necessario accertare se il parallelismo di comportamento osservato tra imprese concorrenti «non possa, tenuto conto della natura dei prodotti, dell’entità e del numero delle imprese e del volume del mercato, spiegarsi altrimenti che con la concertazione».4 Si tratta, in questi casi, non solo di raccogliere evidenze in merito agli effetti osservati sul mercato, ma altresì di inquadrare tali effetti in un contesto giuridico-economico molto preciso. Ne consegue che sia l’individuazione della violazione antitrust che la sua qualificazione giuridica possano essere difficilmente risolte nell’ambito dell’azione decentralizzata da parte dei privati.
Danno e Abuso Analoga difficoltà si riscontra anche nel caso di abuso di posizione dominante. Com’è noto gli abusi possono essere di due tipi (Amendola, Parcu, 2003; Motta, Polo, 2005; Fattori, Todino, 2004; Frignani, Pardolesi, 2006): abuso da sfruttamento, nel caso in cui l’impresa dominante utilizzi il proprio potere di mercato per incrementare la rendita monopolistica a danno dei consumatori finali; abuso da impedimento, nel caso in cui l’impresa dominante utilizzi il proprio potere di mercato per escludere i concorrenti dal mercato (erigendo barriere all’entrata o inducendone l’uscita dal mercato). Nel primo caso, la correlazione tra abuso e danno ai consumatori finali è alquanto evidente e si rifletterà in una riduzione Cfr. Corte di Giustizia CE, cause riunite 40-48, 50, 54-56, 111,113-114/73 (Suiker Unie), sent. 16 dicembre 1975, in Racc. 1975, p. 1663; nonché Corte di Giustizia CE, causa 172/80 (Züchner), sent. del 14 luglio 1981, in Racc. 1981, p. 2021. In questo senso si veda anche Tribunale di Primo Grado, causa T-35/92 (John Deere), sent. del 27
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ottobre 1994, in Racc. 1994, p. 957. 3 Decisione della Commissione CE del 27 luglio 1994 (PVC), in GUCE L239, 14 settembre 1994, al punto 33. 4 Cfr. per tutti Corte di Giustizia CE, cause riunite C-89/85 (Ahlstrom Osakeyhtio e altri / Commissione), sent. del 31 marzo 1993, in Racc. 1993, p. 1307.
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della quantità, della qualità o in un incremento dei prezzi per date quantità e qualità. Nel secondo caso, la correlazione è più opaca, in quanto il danno è in realtà subito dai concorrenti (ed eventualmente dai clienti dei concorrenti) e in molte circostanze il danno inferto ai concorrenti non solo non produce un danno “attuale” ai consumatori diretti dell’impresa dominante, ma addirittura può comportare un beneficio per gli stessi (si pensi all’effetto escludente di sconti fedeltà). Dal momento che gran parte degli abusi di posizione dominante ha natura escludente, perlomeno in Europa dove in molti settori liberalizzati permangono in posizioni di rilievo ex-monopolisti legali, si pone il problema di stabilire da un lato se il danno al concorrente è un abuso (in teoria solo i danni ai concorrenti efficienti costituiscono un abuso) e dall’altro occorre comprendere se il concorrente abbia in seguito trasferito in tutto o in parte questo danno ai propri consumatori (passing on). Nel caso in cui il maggior costo sopportato dal concorrente non sia stato trasferito, si pensi per esempio al caso di prezzo di accesso a una risorsa essenziale controllata dal soggetto dominante (Castaldo, Nicita, 2007), l’impresa concorrente che ha subito l’abuso non avrà alcun problema a dimostrare di aver sopportato per intero il danno. Nel caso invece in cui il concorrente abbia potuto traslare un tutto o in parte il maggior costo sui propri clienti, potrebbe essere che il consumatore direttamente esposto al danno e dunque titolato a richiedere il risarcimento del danno - sia il consumatore finale. Nel caso poi in cui la filiera sia particolarmente lunga e complessa si porrebbe il problema di stabilire come il danno si distribuisce su ciascun pezzo della catena. Nel caso di abuso di posizione dominante da impedimento, tuttavia, questo dibattito in merito alla “trasferibilità” del danno può risultare superfluo, in quanto anche nel caso in cui il concorrente di una impresa dominante ribalti interamente il maggior aggravio subito sui consumatori finali, il danno permane in termini di mancata espansione della domanda servita dal concorrente vis à vis l’operatore dominante in ragione del maggior costo trasferito ai consumatori finali. Anche la mancata espansione della propria quota di mercato a seguito di incrementi di prezzo imposti dal soggetto dominante costituisce un danno diretto per l’impresa concorrente. Come si vede dunque anche nel caso di impresa dominante la qualificazione dell’abuso e del conseguente danno non è di immediata applicazione o di facile determinazione da parte dell’azione privata.
La determinazione del danno antitrust e la natura compensatoria dei rimedi La determinazione del danno antitrust deve dunque essere successiva all’avvenuta qualificazione giuridica della violazione di legge. La quantificazione del danno si compone di due parti: l’identificazione del danno emergente, che individua sia lo stock dei costi addizionali che la vitti-
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ma ha dovuto sostenere per contrastare l’azione anti-concorrenziale al fine di ridurne i danni attuali che il costo-opportunità di tutte le iniziative economiche associate ad usi alternativi cui la stessa vittima ha dovuto rinunciare a seguito dell’emersione dei suddetti costi addizionali; la quantificazione del lucro cessante che identifica l’ammontare del flusso di guadagni cui la vittima ha dovuto rinunciare per effetto dei comportamenti anticoncorrenziali e che è rappresentata, secondo i consueti principi economico-aziendali, dal valore attuale dei margini di profitto persi in conseguenza dei comportamenti illeciti. I mancati guadagni futuri sono da riferirsi alla situazione nella quale la vittima verrebbe a trovarsi se avesse potuto operare in un contesto di mercato non viziato dai comportamenti illegittimi. Nel caso in cui la vittima di comportamenti anti-concorrenziali sia un’impresa il danno annuo subito è quantificabile in termini di differenziale percentuale fra la quota di mercato (in termini di ricavi o clienti effettivi) che l’impresa avrebbe verosimilmente ottenuto in assenza dei comportamenti anticoncorrenziali e la quota di mercato che l’impresa ha effettivamente conseguito. Ai fini di ricostruire lo scenario ipotetico per il calcolo del lucro cessante è utile ricorrere a ipotesi controfattuali, ovvero a benchmark nazionali o internazionali. Un tema interessante, tipicamente rilevato nei casi di accordi extragiudiziali, riguarda il calcolo del lucro cessante nel caso in cui l’impresa o le imprese oggetto di sanzione antitrust pongano in essere rimedi che incidono sul flusso di profitti futuri delle vittime. In questo caso la credibilità dei rimedi e la loro verificabilità possono contestualmente ridurre la quota di danno liquidabile. Quest’ultima circostanza mostra un interessante intreccio tra public e private enforcement. Infatti molte decisioni di autorità antitrust si concludono con impegni da parte delle imprese sanzionate volte a incidere sul flusso di lucro cessante delle vittime. Ne consegue che anche il public enforcement può in talune circostanze avere natura compensatoria diretta sulle vittime.
Le prospettive aperte dal Libro Bianco Il Libro Bianco CE in materia di azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie, uscito nell’aprile 2008, afferma il principio secondo cui «tutti i cittadini e tutte le imprese che subiscono un danno a seguito di un’infrazione delle norme antitrust comunitarie (articoli 81 e 82 del Trattato CE ) devono poter richiedere un risarcimento alla parte che ha causato il danno», una facoltà garantita dal diritto comunitario e riaffermata dalla Corte di giustizia.5 In particolare, la legittimazione ad agire viene riconosciuta a “chiunque” abbia subito un danno causato da una violazione di norme antitrust, ivi inclusi Causa C-453/99, Courage e Crehan, Racc. 2001, pag. I-6297, e Cause Riunite C-295_298/04, Manfredi, Racc. 2006, pag. I-6619.
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i cosiddetti consumatori indiretti, ovvero quei soggetti (consumatori o imprese) che pur non avendo stretto alcun rapporto commerciale diretto con l’autore dell’infrazione, possono in ogni caso aver subito un considerevole danno dal momento che su di essi è stato via via trasferito, lungo la catena di distribuzione, un onere ingiustificato. Nell’identificare i soggetti legittimati il Libro Bianco evidenzia il ruolo di meccanismo facilitatore che può svolgere in tale contesto l’azione collettiva. In particolare, l’esigenza di prevedere meccanismi che consentono l’aggregazione delle singole istanze da parte delle vittime delle violazioni delle norme antitrust risponde a due esigenze. Da un lato si riducono drasticamente i costi che devono essere sostenuti in termini di evidenze, produzione di prove, spese legali e procedurali; dall’altro, si evitano fenomeni di free-riding tra vittime che possono inibire l’avvio della causa. In particolare secondo la Commissione «coloro che hanno subito un danno diffuso e di valore relativamente basso, sono spesso scoraggiati dall’intentare un’azione individuale per danni a causa dei costi, ritardi, incertezze, rischi ed oneri che ne possono derivare. Di conseguenza, molte di queste vittime rimangono attualmente prive di risarcimento». La Commissione in particolare avanza l’ipotesi di combinare due meccanismi complementari di azione collettiva: (a) le azioni rappresentative, da un lato, che dovrebbero essere intentate da soggetti qualificati, quali associazioni dei consumatori, organismi statali o associazioni commerciali, a nome di vittime identificate o, in casi piuttosto limitati, identificabili. Tali soggetti dovrebbero in particolare essere designati in via ufficialmente in anticipo, oppure potrebbero essere autorizzati ad hoc ad agire da parte di uno Stato membro, in relazione ad una particolare violazione delle norme antitrust, per intentare un’azione a nome di alcuni o di tutti i propri membri; (b) le azioni collettive con modalità opt-in, nelle quali le vittime decidono espressamente e autonomamente di aggregare in una sola azione le proprie richieste individuali di risarcimento del danno. Naturalmente, uno dei problemi che l’azione collettiva configura nel contesto del diritto antitrust è che in taluni casi le vittime attuali possono identificarsi con l’intera domanda che insiste su un dato mercato rilevante e ciò potrebbe comportare un eccesso di domanda di risarcimento, rispetto alla quale misure rimediali provenienti dal public enforcement potrebbero forse meglio supplire. In merito poi alla identificazione delle vittime dirette e indirette, il Libro Bianco, pur ammettendo in linea di principio, la facoltà di passing-on defence da parte del soggetto chiamato a pagare i danni (per la quale il danno da liquidare dipenderebbe in via inversamente proporzionale dall’effettiva capacità della vittima di riversare gli oneri illegittimamente sostenuti a soggetti terzi), stabilisce il principio di presunzione del danno pieno in capo alla vittima. La parte più controversa e ancora in fieri del Libro Bianco riguarda invece il tema dell’onere della prova e in generale del trattamento dell’asimmetria informativa tra vittima e coloro che violano la normativa. La Commissione infatti pur riconoscendo che le vittime possono non disporre a costi ragionevoli di tutte le informazioni necessarie per dimostrare il danno si pone il problema
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di limitare il peso degli oneri informativi e di disclosure cui sarebbero tenuti i soggetti chiamati a pagare i danni. Si tratta di un tema molto delicato e tuttavia decisivo per l’efficacia dello strumento dell’azione privata, sul quale in particolare la procedura di consultazione è chiamata ad esprimersi. Infine il Libro Bianco segnala la necessità che i nuovi strumenti resi disponibili con l’azione privata non contrastino con altri strumenti quali i programmi di clemenza, rispetto ai quali andrebbe tutelata la riservatezza delle imprese che collaborano a tali programmi nel caso di intese restrittive. Un altro tema che andrebbe valutato in tale contesto è quello della complementarietà intercorrente tra misure cautelari, sanzioni, rimedi e risarcimento di danni. Per evitare che l’effetto cumulato di tali strumenti comporti un esito di sotto o di sovra deterrenza occorre individuare meccanismi di consultazione e di collaborazione tra le diverse autorità chiamate ad applicare azioni pubbliche e private di antitrust enforcement. In conclusione, l’approccio seguito dalla Commissione, con il Libro Verde prima ed il Libro Bianco poi, individua un percorso cruciale per la futura evoluzione dell’applicazione decentralizzata del diritto antitrust comunitario che rafforzerà certamente i legami esistenti tra tutela della concorrenza e tutela dei consumatori.
Riferimenti bibliografici Wils, W. P. J., “Should Private Enforcement be encouraged in Europe?”, in 26 (3) World Competition, 473, 2003. Rodger, B. J., “Private Enforcement and the Enterprice Act”, in 24 (3) European competition Law review, 103, 2003. Renda, A., Pardolesi R., et Al., “Making antitrust damages actions more effective in the EU: welfare impact and potential scenarios”, final report submitted to the Commission, 2007. Amendola V., Parcu P.L., L’Antitrust Italiano, Utet, 2003. Motta M., Polo M., Antitrust, Il Mulino, 2005. Fattori P., Todino M., La Disciplina della concorrenza in Italia, Il Mulino, 2004. Frignani A., Pardolesi R., La Concorrenza, Giappichelli, 2006. Castaldo A., Nicita A., “Essential facility Access and Antitrust in Europe”, Review of Law and Economics, 2007 Vol. 3, Iss. 1, Article 6 Berkeley Press.
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