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Gli anarchici contro il fascismo L’8 settembre 1921 il quotidiano anarchico “Umanità Nova” pubblica un articolo dell’esponente più prestigioso del movimento, Errico Malatesta, dal titolo significativo: “Guerra civile”. Nell’articolo, Malatesta delinea lucidamente i nuovi compiti che aspettano gli anarchici italiani dopo la storica sconfitta del movimento delle occupazioni delle fabbriche, lanciando la parola d’ordine della “resistenza organizzata” contro lo squadrismo fascista. Questo lavoro ricostruisce le vicende della lotta degli anarchici contro il fascismo da quel 1921, anno di costituzione della prima opposizione organizzata al fascismo, quella degli “Arditi del popolo”, al 1945, anno della “Liberazione” e della definitiva caduta del regime fascista.
Giorgio Sacchetti
Gli anarchici contro il fascismo “Mussolini è un bucaiolo che manda la gente a letto senza cena”.
Per questa affermazione Cesare Parenti, bracciante amico di Brozzi, subì l’ammonizione nel gennaio 1942. Questo lavoro è dedicato a tutti quelli che come Cesare Parenti seppero, fra difficoltà di ogni genere, mantenere vivo l’ideale anarchico nei bui anni del regime fascista. Presentazione Questo opuscolo, anche nello spirito di intenti delle edizioni “Sempre Avanti” a cui l’autore pienamente aderisce, vuole coniugare necessità divulgative e rigore scientifico della ricerca. L’obiettivo è quello di fornire, lungi da meri intenti propagandistici, una traccia di partenza a chi amico o avversario voglia avvicinarsi alla comprensione di questo genere di tematiche troppo
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spesso relegate alle “conventicole”. Il presente lavoro riassume ed integra saggi dell’autore, già pubblicati o in via di pubblicazione, comprendenti singoli aspetti dell’argomento fra i quali: gli anarchici sotto il fascismo “visti” attraverso le carte di polizia; il campo di concentramento di Renicci; il contributo libertario alla Resistenza; i punti di contatto con “Giustizia e Libertà”. Fonti queste che si aggiungono alle innumerevoli testate giornalistiche consultate, pubblicate in Italia, all’estero e clandestine e a quelle lettererarie in parte citate nella bibliografia essenziale che conclude il lavoro. In epoca di “revisionismi” è bene sottolineare come quello degli anarchici sia da considerare un contributo, certo autonomo e originale, al grande movimento di lotta di questo secolo non ancora concluso contro i miti negativi del nazionalismo e del razzismo, contro tutti i “fascismi”. Nella “guerra civile” “Guerra civile” è il titolo di un articolo pubblicato da Errico Malatesta su
“Umanità Nova” (8 settembre 1921). E’ una messa a punto lucida sui compiti storici degli anarchici italiani sull’onda delle sconfitte appena patite dal movimento operaio, con le squadre fasciste che ormai si trovano nella piena realizzazione dell’opera di così detta ‘profilassi sociale’ inaugurata già all’indomani dell’occupazione delle fabbriche. La parola d’ordine è: attuare la resistenza organizzata ma senza “mettersi a pari con chi noi consideriamo fuori del consorzio degli uomini civili”. Su questo aspetto il vecchio militante della Prima Internazionale è irremovibile: “Qualunque sia la barbarie degli altri, spetta a noi anarchici, a noi tutti uomini di progresso, il mantenere la lotta nei limiti dell’umanità, vale a dire non fare mai, in materia di violenza, più di quello che è strettamente necessario per difendere la nostra libertà e per assicurare la vittoria della causa nostra, che è la causa del bene di tutti”. Malatesta, nell’affermare quindi il suo chiaro no ad una guerriglia riservata ai professionisti della violenza, si fa piuttosto promotore di una vera guerra sociale che contrapponga popolo a governo e lavoratori a capitalisti. “Ed il fascismo scomparirà egli scrive quando vedrà che prepotenze non se ne vogliono più subire..”. Una organizzazione specifica nazionale, l’Unione comunista anarchica italiana (Ucai, poi Uai) fondata a Firenze nel 1919, forte di circa 700 gruppi e federazioni in rappresentanza di buona parte del movimento in Italia; la direzione del Sindacato Ferrovieri e dell’Usi (Unione Sindacale Italiana), mezzo milione di iscritti nel 1920, che si contrapponeva per il metodo autogestionario e di azione diretta alla Confederazione generale del lavoro,
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riformista; 66 testate fra periodici e numeri unici pubblicati complessivamente nell’arco di tempo 1919’25, e un quotidiano, “Umanità Nova” diretto dallo stesso Malatesta per oltre due anni: questo il biglietto da visita di una componente importante della corrente rivoluzionaria del movimento operaio nel nostro paese alla vigilia del fascismo. Con questo peso e nel contesto della rapida affermazione squadrista, in un clima di caccia al sovversivo, si era verificato un episodio dai risvolti molto gravi: l’attentato al teatro Diana di Milano, una strage che avrebbe dovuto avere come obiettivo il questore. Esecutori materiali tre giovani anarchici (strumenti inconsapevoli di una provocazione?) che volevano protestare per la immotivata detenzione di Malatesta, ridotto in fin di vita per uno sciopero della fame. Quella stessa sera 23 marzo 1921 quasi in contemporanea alla strage sono devastate dalle squadre fasciste le sedi milanesi di “Umanità Nova”, dell’ “Avanti!” e dell’Usi, mentre anche in altre parti d’Italia (specie dove il sovversivismo rosso non dava cenni di flessione) si completa l’opera di ‘ripulisti’. La prima opposizione organizzata allo squadrismo si realizza nelle formazioni armate degli ‘Arditi del Popolo’ alle quali gli anarchici, caso unico nella sinistra, danno appoggio ufficiale direttamente partecipandovi insieme a militanti di base e quadri socialisti, comunisti, repubblicani, sindacalisti, insieme a senzapartito, a cattolici ed excombattenti, con alcuni ufficiali subalterni che danno un contributo organizzativo davvero notevole. L’associazione viene ufficialmente costituita il 27 giugno 1921 ed i suoi postulati investono, non soltanto i temi della difesa delle strutture del movimento operaio dall’aggressione fascista, ma anche le grandi questioni del pane, del lavoro e della libertà. “Umanità Nova” sostiene e si fa portavoce di questo movimento armato (che fra l’altro dispone di organi di stampa saltuari: “L’Ardito del Popolo”, “L’Avanguardia Sociale”), influenzato sì inizialmente da ambienti combattentistici già interventisti, ma che si pone in sostanza come il continuatore dell’esperienza di base delle guardie rosse dei tempi dell’occupazione delle fabbriche. “L’unico partito che non sconfessò gli Arditi del Popolo fu il partito anarchico. Però malgrado le proibizioni degli esecutivi i plotoni più baldi inquadrarono moltissimi giovani comunisti, repubblicani e socialisti. Nel suo inizio l’organizzazione degli AdP, specie nei suoi capi, lasciò dei dubbi. Ma la zavorra venne eliminata”. E’ la conferma di Giuseppe Mingrino, uno dei fondatori, socialista sconfessato il cui partito si trova già impegnato nel ‘patto di pacificazione’ con i fascisti. Anzi l’Uai in forma ufficiale (consiglio generale, 1415 agosto 1921) esprimerà la propria posizione di “simpatia e riconoscenza” all’associazione per la sua opera di difesa delle libertà proletarie, auspicando per essa l’immunità da ogni infiltrazione borghese e di continuare nelle sue scelte ancora in autonomia dai
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partiti politici. Quanto al Partito comunista d’Italia e ai suoi organi dirigenti, dopo una prima moderata simpatia per il movimento, esso passa ad una dichiarazione, nel solco della impostazione bordighiana, di estraneità e di quasiostilità. Ma la matrice anche libertaria di questo genere di ‘arditismo’ antifascista risulta evidente sia dalla collocazione politica di molti aderenti che di quella dei promotori. Il comandante militare Argo Secondari, seppure circondato da diffidenza, è considerato anarchico per quanto ‘sui generis’; il repubblicano Vincenzo Baldazzi è intimo amico ed unanimemente ritenuto ‘figlio politico’ del vecchio Malatesta. Quanto alla diffusione del movimento sul territorio nazionale possono essere prese senz’altro in considerazione quelle località che risultano sia dalle fonti di polizia che da un elenco di gruppi costituiti reso pubblico in occasione di una sottoscrizione per la madre dell’ardito Nicola Lolli, ucciso dai fascisti a Monterotondo in cui figurano: Roma, Alessandria, Ancona, Brindisi, Colle Val d’Elsa, Iglesias, Lecco, Macerata, Campobasso, Isernia. Queste località naturalmente si aggiungerebbero ad altre più conosciute per episodi eclatanti di resistenza armata in tutta l’Italia centrale, in Puglia, Emilia, Liguria e Piemonte, spesso con una sorprendente coincidenza con le zone a consolidata tradizione anarchica e/o sindacalista rivoluzionaria. I maggiori successi militari sono ottenuti sul campo a Roma, Bari, Sarzana e soprattutto a Parma nelle mitiche giornate dell’agosto 1922. La consistenza del movimento ammonterebbe, secondo dati approssimati per difetto del ministero dell’interno a quasi 5.600 armati all’ottobre 1921. Ma in questo periodo siamo già nella fase calante a causa della concomitante azione di forze di polizia e camicie nere. Mentre il comandante Secondari si dimette clamorosamente dall’associazione a causa dei ripetuti contrasti con Baldazzi e Mingrino, il prefetto di Roma impone lo scioglimento immediato del direttorio nazionale del movimento e dal quel momento sopravviveranno solo nuclei clandestini scollegati fra loro, se pure talvolta attivissimi come nelle giornate parmensi. Al momento della marcia su Roma i locali di “Umanità Nova” sono devastati e incendiati, la rotativa e la linotype resi inservibili. Malatesta settantenne si trova, al Trionfale dove abitava, testimone della benevolenza di carabinieri e guardie regie nei confronti dei fascisti. Nella sua corrispondenza con Luigi Fabbri egli riferisce delle numerose minacce di morte ricevute, ma scrive anche: “Passo spesso innanzi alla loro sede, traverso i loro gruppi e nessuno mi dice niente. E’ avvenuto che quando ne ho incontrato qualcuno da solo mi ha fatto il saluto militare! Non alla romana!”. L’analisi malatestiana sul primo fascismo parte dall’assunto che non vi può essere riscossa materiale senza prima una rivolta morale. Le violenze e i delitti fascisti semplicemente suscitano il desiderio di vendetta degli offesi e non quella generale
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riprovazione che sarebbe necessaria e che spontaneamente dovrebbe nascere in ogni animo sensibile. I fascisti evidentemente sostiene Malatesta sono anche fuori dal partito fascista ed hanno “l’anima fascista, lo stesso desiderio di sopraffazione”. Sul piano sindacale, oltre ai già citati Sindacato Ferrovieri (Sfi) ed alla centrale Usi, gli anarchici italiani si trovano nel vivo della lotta antifascista e antipadronale particolarmente numerosi nella minoranza consiliarista della Fiom torinese, nel Sindacato Minatori del Valdarno (il cui segretario Attilio Sassi viene condannato a 16 anni di carcere). Per iniziativa dei ferrovieri si tiene a Roma nel febbraio 1922 la riunione costitutiva di una “Alleanza del lavoro” composta da Cgdl, Usi, Sfi, Federazione lavoratori dei porti, Uil (già interventista, ora antifascista). La nuova organizzazione unitaria indice, per il 1° agosto successivo, uno sciopero generale antifascista che ha un successo limitato e che verrà ricordato come lo ‘sciopero legalitario’. Troppo tardi. Dopo quattro giorni il comitato esecutivo dell’Alleanza inspiegabilmente decreta il rientro al lavoro. “I poteri, nella provincia di Parma proclamarono all’indomani i fascisti sul loro giornale sono passati nelle mani dell’autorità militare; è eliminata così quell’ambigua autorità politica, che per inerzia, insufficienza e inconcepibile debolezza, ha permesso a un gruppo di rivoltosi un movimento anarcoide rivolto contro la Nazione e contro i cittadini”. Sono dirigenti sindacali i primi anarchici trucidati dai fascisti negli anni Venti: Attilio Fellini segretario della Camera del lavoro di Carrara, Raffaele Virgulti di Imola, Filippetti e Catarsi di Livorno, Cesare Rossi cassiere della Camera del lavoro di Sestri Ponente, Pietro Ferrero segretario Fiom a Torino e altri. Nel corso turbolento di tutti questi eventi i momenti da dedicare alla riflessione non sono comprensibilmente sufficienti. Tuttavia un’analisi originale, spietata e a caldo sul rapporto fascismomassecapi viene fatta da Camillo Berneri, uno dei più vivaci militanti e giovane intellettuale dell’anarchismo, in un suo articolo poco conosciuto pubblicato sulla rivista “Studi Politici” di Roma nel 1923. Il fatto che grandi masse proletarie siano passate dalle bandiere rosse ai gagliardetti neri dimostra, a dire del Berneri, una certa mancanza di preparazione politica e di maturità nella classe operaia; mancanza che però non può essere tutta giustificata dalla leggerezza e in alcuni casi dalla vile disonestà dei capi. “I capi, molto gentili nelle anticamere delle questure e negli uffici prefettizi, non tralasciarono di incitare il popolo contro le guardie regie, in maggioranza disgraziati privi di lavoro del dopoguerra, incapaci di rendersi conto della loro funzione [...] i primi ad accorrere ad inquadrarsi nei sindacati fascisti furono quei lavoratori che erano sempre stati pronti ad andare dove vedevano la scodella più grande”.
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La chiusura di “Umanità Nova” I primi attentati contro Mussolini Le leggi speciali Le fortune del fascismo, una volta costituitosi in partito politico e quindi nella fase iniziale di consolidamento del regime, sono strettamente correlate alla soppressione violenta di ogni forma di opposizione attraverso l’uso combinato e complementare alle azioni squadriste di magistratura e forze di polizia. I decreti sulla stampa in vigore dal 1924 e la legislazione speciale per la difesa dello Stato, che fanno seguito alla costituzione della Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale, sanciranno poi una situazione di fatto, ormai conseguita in massima parte con altri mezzi. I giornali anarchici, testate e tirature in quantità non trascurabili, subiscono la stessa sorte che viene riservata a tutta la stampa che fa riferimento al movimento operaio e socialista, ai popolari ed infine allo schieramento democratico in genere. Le aggressioni avvengono in sequenza: prima tocca agli organi quotidiani di battaglia militante è il caso di “Umanità Nova” e del socialista “Avanti!” , infine ai periodici di riflessione culturale e di dibattito teorico. La consistenza delle testate del movimento anarchico passa così da 28 nel 1921 a 3 nel 1926! La definitiva chiusura del giornale diretto da Malatesta, passato da quotidiano a settimanale nell’agosto 1922, si verifica alla fine del medesimo anno attraverso tappe precise: denunzie penali a causa del contenuto di vilipendio degli articoli; pesanti contravvenzioni per presunte irregolarità amministrative; tipografia devastata dall’intervento fascista. L’atto finale è la denuncia da parte della questura di Roma contro venti fra exredattori, corrispondenti, membri del consiglio di amministrazione di “Umanità Nova” per correità in reati di tipo associativo, istigazione, ecc.. A ciò si aggiunge il sequestro di tutto l’archivio di redazione e la confisca della cassa del giornale. Una situazione analoga si verifica anche a La Spezia, dove le camicie nere letteralmente distruggono la tipografia ed incendiano l’amministrazione de “Il Libertario”, e a Pisa con “L’Avvenire Anarchico”. Con Mussolini al governo si passa così quasi immediatamente ad una situazione di semilegalità per ogni attività del movimento anarchico con un Comitato di Difesa Libertaria promosso dalla Uai, per il soccorso alle vittime politiche ed alle loro famiglie, che funziona a pieno ritmo. A Milano Carlo Molaschi pubblica l’opuscolo “Spezzare le catene / Appello ai proletari d’Italia”, un j’accuse contro il sistema carcerario e contro le sentenze di classe emmesse dai tribunali nei grandi processi contro i sovversivi. Il testo conclude con un perentorio invito a reagire a questa situazione “che, se ciò non facciamo già il pane ci manca, presto a tutti ci mancherà la libertà”. Per il 1923 si può effettuare una stima approssimativa della consistenza o quanto meno della diffusione residua dell’anarchismo organizzato in Italia
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sulla base di un indirizzario di ‘propagandisti’sequestrato dalla polizia a Torino. Si tratta di 283 recapiti difformemente distribuiti nella penisola e con punte massime di densità nelle provincie di Alessandria, Aquila, Bologna, Forlì, Genova, Novara, Pisa, Reggio Calabria, Torino. Le carte del ministero dell’interno documentano comunque un certa attività anarchica a Roma, a Livorno, in Sicilia e soprattutto in Puglia dove si scopre l’esistenza di una Federazione Anarchica regionale formata da 28 gruppi. Dopo l’assassinio di Matteotti l’antifascismo italiano riesce ad esprimere ancora un qualche sussulto di vitalità, per quanto effimero. Una situazione che sembrava totalmente sotto controllo per il governo torna a farsi preoccupante. Si teme una recrudescenza del ‘Fronte unico sindacale rosso’ che ricompatti tutte le forze riformiste e rivoluzionarie contro Mussolini; la diffusione della pubblicistica libertaria residua si intensifica mettendo in seria difficoltà il servizio controllo della polizia postale; si dà addirittura per ‘quasi certa’ la resurrezione di “Umanità Nova”. Sono ancora per poco sulla breccia gli ultimi giornali: “Fede!”, “L’Amico del Popolo”, “Libero Accordo” e “Pensiero e Volontà”. La repressione però non si farà ulteriormente attendere e mentre nelle assisi di Firenze, Arezzo e Pisa si celebrano processi spettacolari contro centinaia di operai e contadini fra cui molti anarchici si effettuano decine e decine di arresti in ogni parte d’Italia smantellando, fra le altre cose, una tipografia clandestina a Roma, una Unione Anarchica ligure ricostituita malgrado lo scioglimento prefettizio, un pericoloso Gruppo giovanile anarchico a Trieste. Da Verona il prefetto segnala alla direzione generale della pubblica sicurezza l’esistenza di 149 anarchici residenti nella provincia e di un gruppo ancora attivo formato da circa trenta persone, animato da Giovanni Domaschi. Il 1926 era stato annunciato da Mussolini come “l’anno napoleonico della rivoluzione fascista”. Liquidate ormai le opposizioni si doveva iniziare a mettere mano ai codici (ma questo avverrà più tardi), alle leggi fondamentali dello Stato in specie a quelle di polizia. Con l’approvazione della legge n.2008 sui “Provvedimenti per la difesa dello Stato” si compie un altro passo decisivo verso il consolidamento del regime con l’istituzione, fra l’altro, di un Tribunale Speciale. Dal 1927 al 1932 questo particolare ‘tribunale’ celebra quasi 4000 processi, distribuendo a 22618 imputati dieci millenni di carcere, facendo eseguire 9 condanne a morte (due a anarchici). Questi provvedimenti seguono di poco gli attentati Lucetti e Zamboni, anarchico il primo, a matrice incerta il secondo. Mentre, l’11 settembre 1926, Mussolini transita da Porta Pia, una bomba viene lanciata contro la sua auto. L’ordigno rimbalza sulla vettura esplodendo a terra. L’attentatore era Gino Lucetti, giovane anarchico di Carrara, emigrato
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in Francia. Affannosa la ricerca dei complici da parte del nuovo capo della polizia, nominato per l’occasione, Arturo Bocchini. Parte della storiografia anarchica Cerrito, Venza ha avanzato, con argomenti convincenti, l’ipotesi che questo attentato fosse stato in realtà una azione preparata e concordata fra Milano, Trieste, Carrara e Roma, addirittura con una riunione preparatoria a Livorno. Vincenzo Baldazzi, leader dei repubblicani romani, fondatore degli Arditi del Popolo e futuro capo della resistenza nella capitale, viene più tardi condannato, pur senza prove, per aver aiutato il carrarese (fornendogli anche una pistola, come confermerà più tardi). Baldazzi abitava fra l’altro al Trionfale nel medesimo isolato di Malatesta. Le felicitazioni per lo scampato pericolo al duce da parte di Pio XI e la richiesta perentoria dei fascisti di provvedimenti legislativi idonei a prevenire questi attentati seguono l’avvenimento. Non esistendo al momento la pena di morte Lucetti viene condannato all’ergastolo; sarà liberato dagli Alleati nel 1943 e morirà subito dopo a Ischia sotto un bombardamento. A quello di Lucetti segue, dopo un mese a Bologna, il fallito attentato di Anteo Zamboni, quindicenne figlio di anarchici, linciato sul posto. Oscuri i contorni di questo episodio. Gaetano Salvemini e buona parte degli storici, pur senza prove attendibili, propendono per la tesi del falso attentato messo in opera da estremisti fascisti per accelerare ancora di più i tempi della svolta dittatoriale. Altro strumento di repressione è il Confino di polizia per gli oppositori politici, e quindi anche per gli anarchici, segnatamente nelle isole di Favignana, Lampedusa, Lipari, Ustica, Tremiti, Ponza e Ventotene. In questi luoghi in genere si gode di un regime non strettamente carcerario e di una, molto relativa, libertà di movimento; tale però da non garantire sempre soggiorni tranquilli ai confinati che, spesso, incappano o nel regolamento di disciplina oppure in denunzie all’autorità giudiziaria. Dal momento del varo della legislazione speciale fino alla caduta del fascismo saranno emessi a carico di anarchici 667 provvedimenti dalle commissioni provinciali su un totale di 13361; in realtà il numero è senz’altro maggiore se vi si considerano anche altri nominativi qualificati invece genericamente come ‘sovversivi’, ‘antifascisti’ o in modo impreciso comunisti. Le punte più alte si registrano in Toscana, Lazio, Emilia Romagna. A Lipari, dove si trova confinato fra gli altri Luigi Galleani, funziona da subito secondo quanto riferisce un confidente di polizia “un gruppo anarchico che ha la sua sede all’hotel Belvedere”. I sequestri di materiali propagandistici e l’intercettazione della corrispondenza, compresa quella diretta ai confinati, denotano la sussistenza di una fitta rete di contatti interni ed esteri. Temistocle Monticelli continua a tirare le fila di questa ‘trama’ malgrado la sua condizione di ammonito politico. Virgilio Mazzoni da Pisa, in perfetta triangolazione, mantiene rapporti con un
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Comitato anarchico provittime politiche d’Italia sorto in Argentina per iniziativa di Severino Di Giovanni; questi a sua volta corrisponderebbe con Ugo Fedeli esiliato in Francia. Augusto Consani da Livorno risulta in contatto con comitati di Milano e Roma. Bruno Misefari mantiene relazioni in tutto il meridione. Il chiodo fisso degli investigatori resta quello dei contatti mantenuti da Malatesta e compagni, in barba si dice ad ogni controllo, con gli ambienti dei fuoriusciti all’estero ed in particolare con Fabbri e Damiani. A Roma quindi, ed a Milano con Molaschi, si individuerebbero i maggiori centri del sovversivismo anarchico organizzato. Si lamenta inoltre l’introduzione clandestina e la distribuzione in Italia dei periodici “L’Adunata dei Refrattari”, “La Lotta Umana” e “Il Risveglio”, nonché di manifestini inneggianti a Lucetti stampati a Marsiglia. Negli anni 1927’28 suscita scalpore la scoperta a Cecina di un anomalo gruppo anarchico denominato “Gli Scarponi”, formato da 15 membri (fra cui alcuni ex arditi del popolo) tutti denunziati al Tribunale Speciale. Nell’affare intervengono personalmente il capo della polizia Bocchini, il segretario generale del Pnf Augusto Turati, il federale di Livorno. Ciò a motivo del fatto che il gruppo era mascherato da circolo sportivo ‘fascista’. Sono sequestrate armi, documenti compromettenti ed un gagliardetto rossonero con la scritta “Gruppo Anarchico di Cecina”. Anche in Sicilia, secondo quanto relaziona il capo di stato maggiore della Milizia, si assisterebbe ad una ripresa antifascista grazie proprio all’attivismo di gruppi anarchici locali animati da Salvatore Renda, a sua volta in corrispondenza con il noto ‘terrorista’ Paolo Schicchi, riparato all’estero ma in procinto di rientrare al fine di fomentare un’insurrezione popolare nell’isola. Da Parigi e dagli Stati Uniti intanto non cessa il flusso di sottoscrizioni verso l’Italia, pro detenuti, per Malatesta e Galleani. Da moltissime prefetture del Regno si riferiscono piccoli episodi, ma in gran quantità, di scritte murali inneggianti all’anarchia, segno di una resistenza dura a morire. La situazione interna è del resto ben descritta sul numero unico di Parigi “Resistere” organo del Comitato anarchico provittime politiche d’Italia, pubblicato alla fine del 1928. Dalla relazione morale e dal rendiconto sulla attività dell’organismo emergono dati di un certo interesse. La colonna dei sottoscrittori spazia fra Europa, Russia e Americhe. Si rileva un netto miglioramento nei servizi di soccorso con un contributo verso l’Italia di circa 8.000 franchi francesi mensili. Il 1929 vede svilupparsi un’agitazione a livello europeo in favore del ferroviere anarchico svizzero Giuseppe Peretti, detenuto in Italia e condannato a due anni in quanto accusato di soccorso alle vittime politiche. Insieme a lui sono deferiti al Tribunale Speciale altre ventisette persone ritenute responsabili di
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apologia di reato e ricostituzione di associazioni anarchiche disciolte e contrarie all’ordine nazionale, ‘delitti’ perpetrati a Milano e a Verona. Con l’inizio degli anni Trenta la crisi economica dilagante contribuisce a creare una situazione di malcontento generalizzato, favorevole ad uno sviluppo dell’attività rivoluzionaria anarchica e cospirativa. Nasce in Francia l’Ucapi (Unione comunista anarchica dei profughi italiani) allo scopo di intensificare l’azione e la propaganda verso l’interno; erede dell’Uai mantiene contatti epistolari (che non sempre rimangono segreti) con Malatesta. Intanto l’attentato (fallito) in Belgio del giovanissimo socialista Ferdinando De Rosa contro la vita del Principe di Piemonte azione individuale ma nella quale si dice siano implicati ‘giellisti e anarchici italiani’ ha una certa eco anche in Italia dove si sviluppa un’agitazione di solidarietà a favore del giovane attentatore con manifestini distribuiti a Parma, Milano, Torino e Bologna. Mentre all’estero, proprio per una convergenza sulla pratica dell’antifascismo militante, si instaura una certa collaborazione fra gli anarchici e il movimento ‘Giustizia e Libertà’, nel febbraio 1931 e nel giugno 1932 rispettivamente, venivano arrestati e poi fucilati gli anarchici Michele Schirru, proveniente dagli Stati Uniti, e Angelo Sbardellotto, proveniente dal Belgio, per ‘intenzione’ di attentare alla vita del duce. Per Schirru si è anche parlato di una possibile intesa con Emilio Lussu. Negli anni Venti, in Usa e soprattutto in Francia, si erano susseguiti gli attentati, una decina almeno, messi in opera da anarchici italiani contro autorità consolari e alti esponenti fascisti in quei paesi. Anche in Italia, agli inizi del decennio successivo, si verificano episodi di questo genere: a La Spezia; a Livorno (dove anarchici e comunisti assaltano con le bombe una caserma fascista); a Villasanta (Milano) ed altrove. Almeno quindici attentati contro sedi e dirigenti locali del Fascio sono effettuati nel periodo 1930’33. Sempre con l’accusa di “avere l’intenzione” di compiere attentati terroristici vengono arrestati gli anarchici Vincenzo Capuana e Angelo Vellucci, provenienti dall’America, e Tranquillo Pusterla ad Arezzo. “Preferiamo la sconfitta alla vittoria che ha bisogno della forca”, sosteneva Errico Malatesta, ma affermerà più tardi Giovanna Berneri quando in un paese tutte le libertà sono soppresse, quando tutti gli uomini liberi sono in prigione, al confino o in esilio, l’atto di protesta individuale diventa una necessità e può essere salutare. Con i tentativi falliti di Schirru e Sbardellotto si colma la misura; OVRA (polizia politica) e prefetture si impegnano in modo ulteriore nella così detta ‘revisione’ sugli elementi anarchici e nella stretta vigilanza a seguito anche di nuove disposizioni appositamente impartite dal ministero dell’interno. Si arrestano perfino tre persone sorprese a deporre garofani rossi sulla tomba di Schirru. Ciò nonostante le maglie del controllo si rivelano sufficientemente larghe
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almeno per consentire la propaganda. Macchinisti in servizio sulle linee ferroviarie di confine e marittimi si prestano al trasporto clandestino ed alla distribuzione di manifestini ed opuscoli. Fra le altre cose vengono introdotti e capillarmente diffusi l’appello “Una parola di anarchici ai lavoratori d’Italia” ed il numero unico “Lotta anarchica per l’insurrezione armata contro il fascismo”, stampati in Francia. Un’operazione di polizia a vasto raggio porta alla scoperta di ‘covi’ e basi di appoggio per questa propaganda in ogni parte del paese, perfino fra i confinati nelle isole. Seguono arresti, abbondanti sequestri di manifesti sovversivi e deferimenti conseguenti al Tribunale Speciale. A Ponza Bruno Misefari ed Alfonso Failla promuovono fra 80 dei 400 confinati presenti la costituzione, insieme ad una cassa comune di solidarietà, di una ‘Federazione Anarchica Italiana’ con una piccola biblioteca funzionante ed assidue ‘conversazioni teoriche’. A Torino, a Livorno ed a Genova nel corso dell’anno 1931 vengono smascherati altrettanti ‘complotti’ orditi da associazioni anarchiche ricostituite nella clandestinità con coordinamento a livello cittadino ed organizzate in gruppi rionali. La morte a Roma di Errico Malatesta, sopraggiunta per broncopolmonite il 22 luglio 1932 e che segue di pochi mesi quella di Luigi Galleani, si ripercuote senza dubbio sulle strategie del movimento anarchico italiano dell’esilio e dell’interno che, quantomeno, perdono un loro punto di riferimento non solo simbolico. Un’epoca ed un percorso politico iniziati nel secolo precedente ancora con il metodo cospirativo sono interrotti dall’evento luttuoso. Nella capitale viene distribuito un manifestino di commemorazione stampato alla macchia (“Errico Malatesta è morto!”). Il governo rivolge ancora un severo richiamo alla divisione Polizia politica al fine di aumentare ulteriormente il controllo “in considerazione dell’intensificata attività dei gruppi anarchici e della loro persistenza nell’ordire attentati contro il Regime”. L’attività cospirativa in Italia e l’esilio antifascista Il ‘Bollettino delle Ricerche’ del ministero dell’interno, 1932’37, registra per alcune regioni e per alcuni anni (ad es. Toscana 1933 e ’34) gli anarchici al primo posto per numero di ricercati, dove generalmente erano secondi soltanto ai comunisti e sempre prima degli altri raggruppamenti antifascisti. “Sempre stando alle indicazioni delle carte di polizia scrive Cerrito generalmente propense a classificare come comunisti anche gli anarchici inseriti direttamente nelle organizzazioni comuniste o collegati indirettamente con le medesime, con elementi comunisti o ritenuti comunque tali per il loro definirsi comunistianarchici, nel 1932’37, numericamente gli anarchici e i comunisti si equivalevano”. Al confino la ribellione è una costante. A Ponza nel 1933, in 152 protestano
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contro i soprusi fascisti e numerosi anarchici vengono per questo condannati (Failla, Grossuti, Bidoli, Dettori e molti altri). A Ustica l’anarchico Arturo Messinese prende a schiaffi il direttore della colonia che voleva obbligarlo al saluto romano. Molto numerosi sono gli anarchici costretti all’esilio, soprattutto in Francia. Fra gli esponenti più conosciuti: Luigi Fabbri, Ugo Fedeli, Armando Borghi, Alberto Meschi, Camillo Berneri. E in Francia prosegue lo scontro violento per difendere l’ambiente dell’emigrazione dalle infiltrazioni fasciste, ma si partecipa anche alle lotte operaie. Negli attentati cadono Nicola Bonservizi, segretario del Fascio di Parigi, Carlo Nardini, vice console, don Cesare Cavaradossi, sacerdote e funzionario del consolato. Alcuni anarchici, desiderosi di rovesciare il fascismo in Italia attraverso un’immediata insurrezione, rimarranno invischiati nella provocazione ordita da Ricciotti Garibaldi. Questi, conosciutissimo per aver organizzato in guerra il corpo volontari italiani delle Argonne, aveva infatti progettato una spedizione armata in Italia coinvolgendo molti fuoriusciti. L’impresa però si era subito rivelata come una montatura dei servizi segreti di Mussolini. Ma la storia dell’anarchismo italiano esule in Francia traspare anche dalla consistenza di periodici e numeri unici che esso edita oltralpe a partire dal 1923 fino al 1938, con code anche nel dopoguerra. Sono ben 58 le testate anarchiche, stampate in Francia in lingua italiana, reperite da Leonardo Bettini. La periodicità è, ovviamente, varia (raramente settimanale) ed irregolare in alcuni casi. Tralasciando i temi tradizionali e ‘storici’ della propaganda anarchica e le questioni organizzative del movimento (che sono comunque presenti), preme segnalare alcuni dei fogli ‘specializzati’ e rivolti maggiormente ai temi specifici dell’antifascismo: “La Voce del Profugo”, direttore Meschi, giornale antifascista e di propaganda sindacale classista; “Campane a stormo”, edito dopo l’assassinio di Matteotti a cura del Comitato italiano d’azione e di propaganda antifascista e alla cui redazione partecipano anche socialisti e repubblicani; il mensile di Marsiglia “Non molliamo”; “Lotta anarchica” del 1930’31 sottotitolo: Per l’insurrezione armata contro il fascismo , portavoce dell’Ucapi; la rivista “La Lotta Umana”. L’emigrazione anarchica italiana è attiva e presente, in misura minore, anche in Belgio (con stampa e iniziative pubbliche), in Inghilterra, in Svizzera. In quest’ultimo paese però, dalle colonne del ‘Risveglio’ ci si esprime contro qualsiasi ventilata ipotesi frontista e di coordinamento unico della lotta: “I gruppi, senza confondersi e seguendo ciascuno il proprio cammino, possono convergere tutti contro il fascismo [...] L’azione insurrezionale deve partire dai più diversi punti della periferia e non da un centro, quasi sempre esitante e ritardatario”. E’ una posizione questa ripresa nell’emigrazione americana, particolarmente
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da Armando Borghi, già segretario generale dell’Usi, e da “L’Adunata dei Refrattari”, foglio settimanale (poi quindicinale), pubblicato a New York ininterrottamente dal 1922 al 1971. L’emigrazione degli anarchici italiani negli Stati Uniti, pur costellata di aspre polemiche interne, ritrova l’unità d’azione in iniziative come la campagna pro Sacco e Vanzetti, il sostegno alla lotta cospirativa contro il fascismo in Italia, il soccorso ai fuoriusciti. Nel 1934 il movimento in esilio in Francia si divide fra ‘anarchici indipendenti’, organizzati in Federazione, e quelli favorevoli invece o ad un avvicinamento alla Concentrazione antifascista o ad un’adesione al Fronte Unico. La questione resterà aperta per lungo tempo. Il Soccorso Anarchico alle vittime politiche ed alle loro famiglie moltiplica intanto gli sforzi. Il ministero della giustizia informa sugli aiuti che, sebbene talvolta soggetti a sequestro, puntualmente giungono all’indirizzo dei detenuti, perfino ai ‘banditi’ come Santo Pollastro e Giuseppe De Luisi. I “soliti manifestini anarchici” vengono rinvenuti ancora in treni provenienti d’oltralpe, in Val d’Aosta e a Torino. Si tratta questa volta di un appello intestato “Gli anarchici ai lavoratori”. E’ l’ennesimo invito a lavorare per la rivoluzione espropriatrice anticapitalista contro ogni genere di dittatura, sia pure bolscevica, e contro il politicantismo socialista, per andare si dice “oltre la democrazia”. Espulso dall’Uruguay rientra nel frattempo in Italia Ugo Fedeli che, scontati alcuni mesi di carcere, si stabilisce a Milano dove “riprende la sua attività politica non appariscente”, confermandosi ancora come militante di prima fila, nei contatti soprattutto con le strutture operative del Soccorso anarchico in Sicilia ed in Francia. Da Tunisi, nell’arco di pochi mesi giungono per posta a decine di recapiti nelle provincie di Palermo, Trapani e in Sardegna altrettanti plichi di manifestini, in parte intercettati dalla polizia, intitolati “Abbozzo di proclama al popolo italiano” e firmati: Gli Anarchici. La sostanza del contenuto è un richiamo all’insurrezione in quanto si reputa che il fascismo potrà cadere solo attraverso un atto di forza. Una volta rovesciato il regime si precisa i contadini dovranno occupare le terre, gli operai le fabbriche, quindi “ridarsi alla quotidiana fatica, ma col fucile a portata di mano”. L’attivismo sfrenato delle forze di polizia e l’esigenza, che non sempre può essere soddisfatta, dei risultati portano talvolta a situazioni comiche paradossali, brutti scherzi probabilmente giocati dagli stessi anarchici braccati. Come quando viene diramato a tutte le prefetture del Regno un avviso di ricerca per un anarchico abruzzese “ignorante” dall’improbabile nome di ‘Mannaggia’, o ci si accanisce contro una fantomatica “cellula toscana del Lilli”. Si dà anche molto credito (in base alle nuove direttive impartite da Mussolini all’Ovra) agli informatori, specie se exanarchici come nel caso di tale Giuseppe Guelfi da Massa. Questi nell’aprile 1934 promette di
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far smascherare un comitato nazionale di agitazione anarchica con sede in Livorno, diretta emanazione della Concentrazione antifascista parigina; due mesi dopo vengono così eseguite in quella città in contemporanea 23 perquisizioni ad altrettante persone da lui indicate tutti amici di Consani ma l’esito è negativo. Allo stesso modo fallisce il tentativo dell’Ovra di inserirsi, usando il nome di Schicchi, nella corrispondenza del Soccorso anarchico internazionale. La questione, divenuta annosa, del fronte unico contro il fascismo e, più in generale, delle alleanze nel periodo di transizione, viene definita a Parigi, nel 1935, in un “Convegno d’intesa degli anarchici italiani emigrati in Francia, Belgio e Svizzera” a cui partecipa lo stato maggiore dell’anarchismo italiano con Camillo Berneri, Enzo Fantozzi, Umberto Marzocchi ed altri. “Distruggere l’impalcatura dello stato fascista è l’obiettivo contingente ed impedire che domani, dietro le spalle di un governo provvisorio pseudorivoluzionario, si affermi un governo di restaurazione demosocialliberale o una dittatura bolscevica”. Le risoluzioni del convegno prevedono la possibilità di una “libera intesa” con Giustizia e Libertà, sindacalisti e repubblicani di sinistra nel segno forse delle comuni matrici teoriche ispirate a laicismo, insurrezionalismo, pluralismo, autonomia del movimento operaio, federalismo. Esse sanciscono anche la formalizzazione della rottura ormai nei fatti con i comunisti (esclusi i gruppi dissidenti) e con i socialisti (esclusa la minoranza massimalista). A seguito del convegno parigino sono poste in essere proposte immediate di azioni quali: la costituzione di un comitato libertario che procuri le armi ai volontari che dovranno rientrare in patria a condurre la lotta armata contro il fascismo; la presa di contatto diretta e gli accordi definitivi con i compagni dell’interno; la redazione di manifestini contro la guerra d’Etiopia peraltro già sollecitati dall’Italia. Nel medesimo periodo vengono rinvenuti (ma altri arriveranno a destinazione) ancora in un treno proveniente dalla Francia 14 involti contenenti tre tipi di manifestini: “Dichiarazione degli anarchici al proletariato italiano”; “Contro la guerra ed il fascismo”; “Alle forze rivoluzionarie italiane”. Il testo di quest’ultimo in particolare firmato: L’Intesa Rivoluzionaria Italiana non privo di riferimenti all’anarchismo storico, richiama comunque direttamente per il linguaggio usato e per le conclusioni al movimento di ‘G.L.’. Gli altri due tipi di manifestini a firma: Gli Anarchici proscritti ricalcano invece posizioni politiche già note e cioè che l’abbattimento del fascismo sarà inseparabile dalla fine del regime capitalista e dello Stato, e quindi che la successione, il passaggio alle forme repubblica, costituente e dittatura proletaria sono nient’altro che un inganno. Le notizie che arrivano dalla Spagna nel corso del 1936 infiammano gli animi.
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La rivolta popolare contro i generali fascisti spinge molti fra gli anarchici italiani residenti in Francia ad accorrere a Barcellona e ad aggregarsi nelle colonne della CNTFAI. Con la parola d’ordine “oggi in Spagna, domani in Italia” si formerà di lì a poco, con il concorso di giellisti e repubblicani, la Colonna italiana, sezione Ascaso della CNTFAI, sulla base di accordi sottoscritti da Berneri, Mario Angeloni e Carlo Rosselli, ciascuno per la sua parte politica. La contraddizione fra guerra antifascista e rivoluzione sociale e, soprattutto il rifiuto della militarizzazione da parte degli anarchici italiani porteranno allo scioglimento della stessa colonna. L’epilogo tragico si consuma nel contrasto irreparabile fra alcune delle forze antifasciste in campo, in particolare con i ‘governativi’ comunisti staliniani che si rendono responsabili degli assassinii di Berneri e Barbieri. In Italia intanto l’Ovra registra informali ‘riunioni di combriccole anarchiche’ fra operai delle fabbriche del nord, nelle osterie dei quartieri popolari nelle grandi città, e incontri di anarchici conosciuti con rappresentanti di ‘G.L.’ e del partito repubblicano, continua ad annotare gli spostamenti poco chiari degli elementi sospetti. Per il 1938 i prefetti di Mussolini segnalano una perdurante presenza organizzativa del movimento specie in Sicilia e in Toscana, ad esempio a Piombino, ed inoltre che “esistono in Italia, e funzionano in collegamento tra loro gruppi anarchici in specie a Torino, Trieste, Livorno, Roma e Genova; la fonte principale degli aiuti finanziari parrebbe l’America del Nord”. Gli ultimi terribili anni del regime fascista, i primi della nuova guerra mondiale, vedono gli anarchici italiani prostrati a causa della gravissima sconfitta subita in Spagna. In Francia sono in parte ridimensionate le vecchie strutture dell’esilio antifascista ora maggiormente orientate al soccorso del popolo iberico. Nell’interno in molte località, in seguito alle recenti ondate di arresti e invii al confino, le attività cospirative e di propaganda hanno subìto un rallentamento e soprattutto sono tagliati in gran parte i contatti con l’estero ed a livello nazionale. Il capo della polizia valuta per il 1939 come ancora vigenti pochissimi canali di comunicazione anarchica con l’estero: dalla provincia di Belluno con Ginevra; da Firenze e dal Valdarno con Marsiglia; dalla provincia di Livorno con New York e con la Francia; da Roma con Parigi. Al momento dello scoppio della guerra il Comitato Internazionale di Difesa Anarchica con sede a Bruxelles, composto da italiani, francesi, spagnoli, tedeschi e belgi, pubblica uno speciale Bollettino plurilingue destinato anche alla diffusione in Italia. Il contenuto del foglio, la cui redazione è attribuibile a Mario Mantovani, risulta di impostazione prettamente pacifista e di ‘equidistanza’tra gli stati belligeranti.Esso si differenzia da ogni posizione di adesione pura e semplice alla guerra antinazista espressa invece da alcuni
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settori dell’anarchismo internazionale, specie nell’AIT. Su ciò pesano evidentemente valutazioni a caldo sul patto di non aggressione russotedesco appena stipulato. La parola d’ordine è sempre e comunque ancora quella di opporre l’insurrezione degli sfruttati alla guerra degli sfruttatori. Dalla clandestinità alla lotta partigiana Nel giugno 1942 un convegno clandestino che si tiene a Genova indica al movimento un percorso di liberazione che esplicitamente prevede una prima tappa intermedia, e infatti così si esprime la mozione che ne scaturisce: “Essendo il fascismo il primo caposaldo da demolire e ogni colpo da chiunque tirato sarebbe sempre desiderato, in questa azione ci troveremo gomito a gomito con l’arma in pugno anche con quegli elementi le cui finalità sono in contrasto con le nostre o sono indefinite [...] Ma, caduto il primo caposaldo, cioè il fascismo, ogni corrente rivoluzionaria avanzerà le proprie rivendicazioni [...] Perciò nostro preciso compito crediamo sia questo: lavorare contro il fascismo sì, con chiunque: ma esigere da chiunque il diritto all’affermazione dei nostri sacrosanti principi libertari”. Risulta chiaro fin da subito quindi come gli intenti della lotta siano fermamente rivoluzionari, ma anche come si tenga in considerazione e facilmente si profetizzi che molti fra i possibili compagni di strada dell’oggi potranno domani mutarsi in avversari. Per questo stesso periodo le fonti di polizia riferiscono che, da parte di anarchici non meglio precisati residenti in Piemonte, in Lombardia e nelle Marche, viene fondato un movimento antimilitarista denominato “PERDERE PER VINCERE” dedito alla diffusione di stampa clandestina e sovvenzionato dal noto Luigi Bertoni di Ginevra. Ma la spinta decisiva si può dire che giunga dai confinati. E’ un nutrito gruppo di anarchici quello che si trova ancora relegato nelle isole, soprattutto a Ventotene. Si tratta per lo più di militanti ormai temprati dalle battaglie, in molti casi già estradati dalla Francia (dal campo di concentramento di Vernet d’Ariège), paese nel quale erano a suo tempo rientrati dopo aver partecipato alla guerra di Spagna. Nelle famose ‘mense’, strutture logistiche del confino formate secondo criteri di affinità e appartenenza politica, si discute intanto animatamente dei programmi e delle prospettive unitarie della lotta antifascista. Ad esempio il direttivo comunista di Ventotene, alla vigilia della caduta di Mussolini, vota un documento che, mentre prefigura e delimita in modo preciso il campo delle alleanze, indica contemporaneamente gli altri nemici da battere oltre ai fascisti e lancia la parola d’ordine della “Lotta senza quartiere contro i nemici dell’unità proletaria: nel Partito socialista, Modigliani e Tasca, nel massimalismo gli antisovietici e anticomunisti, negli anarchici gli anticomunisti”. Invece fra i componenti della numerosa colonia degli
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anarchici, seconda per numero in quell’isola popolata da circa ottocento confinati, in una assemblea plenaria si cerca piuttosto di sanare i contrasti annosi fra compagni del movimento, di rilanciare la lotta operaia, di riallacciarsi a quella pratica dell’unità proletaria già sperimentata in epoca prefascista. Intanto nel meridione appare significativo quanto si verifica a Cosenza dove già nell’ottobre 1942 gli anarchici fondano un ‘Comitato provinciale del Fronte unico nazionale per la libertà’. Dopo il convegno clandestino di Genova si infittisce ulteriormente la rete dei contatti fra i piccoli gruppi informali già esistenti un po’ ovunque e le individualità in particolare nell’Italia centrale. L’artefice principale di tutto questo lavorìo è il vecchio Binazzi di Torre del Lago, già redattore a La Spezia del settimanale “Il Libertario”; il primo importante risultato conseguito sul piano organizzativo è la convocazione di una serie di convegni clandestini interregionali che si tengono tutti a Firenze; questo mentre vivi sono gli entusiasmi per le notizie, fornite dalla stampa clandestina, sui primi scioperi operai nelle fabbriche del nord. Il 16 maggio 1943, nell’abitazione del fornaio Augusto Boccone, si tiene la prima di queste riunioni che formalmente costituisce la Federazione Comunista Anarchica Italiana. Sono presenti delegati provenienti da Bologna, Faenza, Genova, La Spezia, Livorno, Firenze, Torre del Lago, mentre avevano inviato la loro adesione i gruppi di Carrara e Pistoia. Vengono così stampate a cura del tipografo Lato Latini, e diffuse nelle varie località, mille copie di un manifestino contenente un appello ai lavoratori ed il programma minimo della neocostituita federazione. In esso si ribadiscono i punti cardine sui quali incentrare la lotta rivoluzionaria: rifiuto della guerra in quanto prodotto del sistema capitalistico; appoggio ad ogni forma di opposizione al regime nell’ambito di un antifascismo intransigente; per la libertà di pensiero, di stampa, di associazione e anche contro ogni forma possibile di dittatura rivoluzionaria transitoria; contro la monarchia e per la costituzione di “libere federazioni di comuni, autonomi, composte di liberi produttori”. Certamente si pone anche la questione dei rapporti con il Pci, la cui organizzazione clandestina dimostra peraltro grande efficienza e penetrazione nelle masse. Così, sempre a Firenze, si tiene, poco dopo l’uscita pubblica di questo programma minimo, un incontro segreto fra una delegazione ristretta di esponenti anarchici e una del Pci. Non si hanno notizie precise sugli argomenti all’odg per questo inusuale rendezvous, se non che il risultato “fu un fiasco”. La caduta del fascismo, l’avvento della nuova dittatura militare di Pietro Badoglio con il 25 luglio, ed il suo noto proclama agli italiani sulla guerra che
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continua, con l’avvertenza perentoria alla sinistra rivoluzionaria che “chiunque si illuda di turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito”, fanno ulteriormente surriscaldare il clima di attesa impaziente fra i confinati. La così detta ‘storia dei 45 giorni’, iniziandosi con il coinvolgimento in ambito governativo di un comitato delle opposizioni antifasciste, vede per forza di cose la parziale risoluzione della questione confino. Il capo della polizia Senise invia un dispaccio urgente a tutte le direzioni delle colonie: “Prego disporre subito scarcerazione prevenuti disposizione autorità PS responsabili attività politiche escluse quelle riferentesi comunismo e anarchia”. I primi a partire da Ventotene (dove è direttore Marcello Guida, futuro questore di Milano nel 1969) dopo la compilazione delle liste distinte per gradi di pericolosità politica, sono gli ‘antifascisti democratici’ e quelli di ‘G.L.’, dopo i socialisti, infine i comunisti. Restano alla fine nell’isola circa 200 confinati politici fra anarchici e cittadini italiani di origine slovena o croata. Ma il dispaccio ministeriale che dispone la liberazione anche di questi ultimi coatti giunge quando questi sono già stati ormai avviati al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari (Arezzo) uno dei peggiori d’Italia sia per il numero di internati (in genere prigionieri di guerra slavi) che per i comportamenti del personale di sorveglianza ove giungono dopo varie peripezie il giorno 23 agosto. A questo punto gli anarchici sono rimasti in sessanta circa. L’8 settembre i prigionieri chiedono in massa le armi per opporsi all’occupazione tedesca e per tutto il giorno seguente si organizzano comizi nei vari settori del campo. Nella rivolta rimane ferito Alfonso Failla. La via della fuga di massa da Renicci, con i tedeschi alle porte, è dunque aperta da questo episodio di ribellione. A Firenze intanto, nella clandestinità, rivede la luce “Umanità Nova” già soppresso dal fascismo, tiratura iniziale 1800 copie, destinata a quadruplicarsi nei due anni successivi. Il primo numero esordisce con l’editoriale: “Salute a Voi, o compagni d’Italia e di tutti i paesi; noi, dopo un lungo e forzato silenzio, riprendiamo con immutata fede il nostro posto di battaglia per la liberazione di tutti gli oppressi”. Per tutto il 1944 gli anarchici d’Italia, pur nelle differenti situazioni locali e talvolta in condizioni di estrema debolezza, impegnati nel movimento partigiano, caratterizzeranno la loro azione nel senso dell’antifascismo intransigente e della preparazione insurrezionale, della ricerca anche di programmi da attuare nel concreto per la fase di transizione. Si pubblica così un nuovo ‘programma minimo’ che denota, sull’onda della impostazione berneriana del 1935, importanti punti di contiguità con il filone azionista repubblicano e liberalsocialista. Non mancheranno comunque gli appelli “ai socialisti onesti” ed alla collaborazione fattiva con la base del Pci.
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La proposta anarchica del ‘Fronte Unico dei Lavoratori’ si inserisce nei contesti diversificati della lotta armata e della criticata esperienza dei CLN, della riorganizzazione del movimento operaio a sud e nelle zone liberate, innescando però non poche contraddizioni. Ci si oppone comunque, dentro la Confederazione Generale del Lavoro, al nuovo totalitarismo sindacale dominato dai partiti. Si cercano anche effimere alleanze con i settori della dissidenza comunista come nel caso della fondazione a Milano nel 1944 della Lega dei Consigli Rivoluzionari. Ma i nemici più convinti di qualsiasi possibile versione del Fronte Unico rivoluzionario dei lavoratori sono gli Alleati i quali, tramite connivenze ad ogni livello, non esitano a fare abbondante uso di sistemi repressivi giungendo fino all’eliminazione fisica di quadri scomodi della Resistenza, come nel caso degli anarchici piacentini Canzi e Fornasari. La fine del regime mussoliniano coincide nel meridione con la rinascita e lo sviluppo di quel filone socialistalibertario popolare e contadino rimasto allo stato di latenza negli anni del fascismo. Per gli anarchici che si trovano nel Regno del Sud si tratta di combattere una vera e propria guerra su due fronti e non solo dunque contro i nazifascisti, per la libertà di stampa e di organizzazione negata dagli eserciti ‘liberatori’ delle grandi nazioni democratiche. Alla vigilia dell’insurrezione di aprile i partigiani anarchici lanciano, dalla Genova dei portuali, l’ultimo appello al popolo, mentre ancora da Firenze “Umanità Nova” ripubblica il ‘programma minimo’. La Resistenza si sviluppa come è noto in quei territori dell’Italia centro settentrionale rimasti in mano tedesca e costituenti la Repubblica Sociale Italiana. Gli anarchici partecipano alla lotta armata in maniera cospicua quanto a tributo di uomini e di sangue, ma subiscono d’altro canto totalmente l’egemonia delle altre forze della sinistra. Talvolta militano in proprie specifiche formazioni partigiane, ma più spesso si trovano inquadrati nelle “Garibaldi”, nelle “Matteotti” o in G.L. A Roma gli anarchici sono presenti in particolare nella formazione comandata dal repubblicano Vincenzo Baldazzi, personaggio noto per la sua antica amicizia per Malatesta. Fra i caduti: Aldo Eluisi alle Fosse Ardeatine; Rizieri Fantini, fucilato a Forte Bravetta; Alberto Di Giacomo detto ‘Moro’ e Giovanni Gallinella deportati a Mathausen senza ritorno; Ettore Dore (di origine sarda, già combattente della colonna Ascaso in Spagna) rimasto ucciso durante una missione oltre le linee. Nelle Marche gli anarchici militano nelle differenti formazioni partigiane presenti ad Ancona, Fermo, Sassoferrato e a Macerata dove cade Alfonso Pettinari, già confinato, commissario politico in una brigata ‘Garibaldi’.
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Piombino operaia, centro siderurgico con una notevole tradizione libertaria e sindacalista rivoluzionaria, è la protagonista di una sommossa popolare contro i nazifascisti già il 10 settembre 1943. Fra i protagonisti dell’insurrezione Egidio Fossi, Renato Ghignoli e Adriano Vanni; quest’ultimo attivo poi nella resistenza in Maremma. A Livorno gli anarchici sono tra i primi ad impadronirsi delle armi custodite nelle caserme e nell’Accademia navale di Antignano al fine di rifornire le bande partigiane. Inquadrati nei GAP e nella Divisione Garibaldi partecipano ad operazioni di guerriglia nelle provincie di Pisa, Livorno e in Maremma. Nell’opera di liberazione dei rastrellati e carcerati si distinguono fra gli altri Virgilio Antonelli, a sua volta già confinato ed internato dal 1926 al 1941 quasi ininterrottamente, e Giovanni Biagini. Consistente e determinante l’apporto libertario nella resistenza apuana che qui assume anche le caratteristiche di vera e propria guerra sociale. Sono attive nella zona di Carrara formazioni partigiane libertarie, complessivamente composte da oltre un migliaio di uomini, denominate: “G.Lucetti”, “Lucetti bis”, “M.Schirru”, “Garibaldi Lunense”, “Elio”, SAP “R.Macchiarini”, SAPFAI. Dopo l’8 settembre un gruppo di anarchici fra cui Romualdo Del Papa guidano l’assalto alla caserma Dogali e spingono gli alpini a disertare e ad aderire alla lotta partigiana. Nasce così la “Lucetti” comandata da Ugo Mazzucchelli e che agisce nell’ambito della Brigata Apuana. Alla fine del 1944 lo stesso Mazzucchelli, a seguito di un rastrellamento che costa la vita a sei dei suoi uomini, ripara in Lucchesia salvo poi rientrare prima dell’arrivo degli alleati a liberare Carrara con la sua formazione “Schirru”. Fra i partigiani anarchici più conosciuti vi sono inoltre il comandante Elio Wochievich, Venturelli Perissino, Renato Macchiarini, il giovanissimo Goliardo Fiaschi, Onofrio Lodovici, Manrico Gemignani, i figli di Mazzucchelli Carlo e Alvaro, Alcide Lazzarotti, ecc.. A Lucca ed in Garfagnana, sui cui monti agiscono anche militanti pistoiesi e livornesi, gli anarchici sono soprattutto presenti nella formazione autonoma comandata da Manrico Ducceschi “Pippo”. Fra i partigiani libertari lucchesi noti vi sono: Federico Peccianti, nella cui casa si riunisce il CLN; Luigi Velani, aiutante maggiore nella “Pippo”. A Pistoia agisce la formazione anarchica “Silvano Fedi” composta da 53 partigiani. Il primo gruppo di resistenza si costituisce ad opera di Egisto e Minos Gori, Tito e Mario Eschini, Tiziano Palandri e Silvano Fedi. Leggendaria la figura del giovane comandante da cui prende il nome la banda, vittima di una imboscata dai contorni poco chiari (come testimonierà il vicecomandante Enzo Capecchi) tesagli dai tedeschi su probabile “delazione di italiani”. La stessa formazione, con Artese Benesperi alla testa,
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è la prima ad entrare in Pistoia liberata. A Firenze si costituisce, alle dipendenze del comando militare del Partito d’Azione, una prima banda armata che agisce sul vicino monte Morello comandata dall’anarchico Lanciotto Ballerini, caduto in combattimento medaglia d’oro alla memoria. Al poligono di tiro delle Cascine sono fra gli altri fucilati gli anarchici Oreste Ristori, settantenne già coatto nel 1894, e Gino Manetti. In provincia di Arezzo gli anarchici sono presenti nella resistenza in Valdarno, con un’attiva partecipazione anche ai CLN locali, ed in Valtiberina con Beppone Livi “Unico” che assolve compiti di collegamento fra la formazione ‘Bande Esterne’, i comitati di liberazione aretino e toscano, ad Arezzo e a Firenze. A Ravenna si ha una folta presenza libertaria nella 28^ Brigata Garibaldi e rappresentanza adeguata nel CLN provinciale. La prima pattuglia partigiana che entra in Ravenna liberata è comandata dall’anarchico Pasquale Orselli. Notevole il tributo di sangue. In provincia di Bologna e Modena gli anarchici contribuiscono alla costituzione delle prime brigate partigiane a Imola con la “Bianconcini”, ed a Bologna con la “Fratelli Bandiera” e la “7^ Gappisti”. A Reggio Emilia cade fucilato Enrico Zambonini; un distaccamento della ‘Garibaldi’ prenderà il suo nome. A Piacenza si ergono le figure di Savino Fornasari e di Emilio Canzi, accomunati dal singolare destino di morire in incidenti stradali causati da automezzi alleati. Canzi in particolare comanda tre divisioni e 22 brigate, per un totale di oltre diecimila partigiani! Le formazioni di La Spezia e Sarzana agiscono in stretto contatto con quelle della vicina Carrara con due gruppi comandati dagli anarchici Contri e Del Carpio. Renato Olivieri, già detenuto politico per 23 anni, e Renato Perini cadono durante uno scontro a fuoco con i nazifascisti. A Genova la presenza libertaria nella resistenza supera i 400 partigiani (“Pisacane”, “Malatesta”, SAPFCL, SAPFCL Sestri Ponente), di cui 25 caduti in combattimento. Qui la Federazione Comunista Libertaria, fallita l’ipotesi di Fronte Unico, deve affidarsi per la lotta armata unicamente alle proprie forze. Nella Torino industriale, particolarmente alla FIAT e durante l’insurrezione alle ‘Ferriere Piemontesi’, agisce la formazione anarchica denominata 33° battaglione SAP “Pietro Ferrero”. Fra i caduti: Dario Cagno, fucilato per complicità nell’uccisione di un gerarca, e Ilio Baroni, già ardito del popolo a Piombino. Nell’astigiano si registrano invece presenze libertarie fra i ‘garibaldini’. A Milano la lotta clandestina è iniziata da Pietro Bruzzi che viene subito catturato ed ucciso dopo tortura dai nazifascisti. Gli anarchici dopo la sua
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morte costituiscono le brigate “Malatesta” e “Bruzzi” forti di 1300 partigiani, in un secondo momento inquadrate nelle formazioni “Matteotti” e che avranno, sotto il comando di Mario Perelli, un ruolo di primo piano nella liberazione di Milano. A Como opera la “Amilcare Cipriani”; in provincia di Pavia la 2^ Brigata “Malatesta”; mentre nel bresciano gli anarchici sono attivi in una formazione mista G.L.Garibaldi. A Verona l’anarchico Giovanni Domaschi (11 anni di carcere e nove di confino, due evasioni) fondatore del locale CLN, viene arrestato dai tedeschi e deportato a Dachau dove muore. In Friuli Venezia Giulia alcuni anarchici sono inseriti in formazioni comuniste come la Divisione GaribaldiFriuli. A Trieste i collegamenti con i partigiani sono tenuti da Giovanni Bidoli, poi scomparso nei lager tedeschi insieme a Carlo Benussi, un altro anarchico friulano. Attivo anche Nicola Turcinovic che ben presto però si trasferisce da Trieste a Genova dove continua a militare nelle formazioni partigiane della FCL. Nell’alta Carnia, dove Italo Cristofoli muore durante l’assalto alla caserma tedesca di Sappada, gli anarchici contribuiscono alla costituzione di una Zona Libera autoamministrata. “Le loro formazioni di combattimento ha scritto Cerrito in merito alla partecipazione anarchica alla Resistenza rimangono legate al Partito Comunista, al Partito Socialista, al Partito d’Azione. Nei CLN ai quali partecipano con delegati qualificati non riescono mai ad imporre una linea politica rivoluzionaria, un atteggiamento in qualche modo orientato in senso libertario. Anche se essi non sono secondi a nessuno nella lotta armata contro il nazifascismo, non riescono a superare il gradino di inferiorità psicologica in cui li pone la loro carenza organizzativa e la mancanza di un programma politico uniforme”. Dopo la liberazione mentre al sud il movimento si trovava già ad un buon livello organizzativo una volta costituita l’Alleanza Gruppi Libertari le federazioni comuniste libertarie che man mano si erano costituite convocano a Milano il primo convegno interregionale per l’alta Italia nel giugno 1945. All’odg: l’unità sindacale e il tema ostico della collaborazione libertaria ai CLN; la riorganizzazione del movimento giovanile e la convocazione di un congresso costitutivo della FAI. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE AA.VV., Atti della giornata di studi su L’Antifascismo rivoluzionario. Tra passato e presente, Pisa 25 aprile 1992, BFS 1993; AA.VV., Giornali anarchici della Resistenza 1943’45 / Gli anarchici e la lotta contro il fascismo in Italia / Il fuoriuscitismo in Francia e Spagna , Ediz. Zero in Condotta, Milano 1995; A. DADA’, L’anarchismo in Italia: fra movimento e partito. Storia e documenti dell’anarchismo italiano, Teti editore Milano 1984;
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