Gli Anarchici Contro Il Fascismo

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Gli anarchici contro il fascismo L’8   settembre   1921   il   quotidiano   anarchico   “Umanità   Nova”   pubblica   un   articolo   dell’esponente   più   prestigioso   del   movimento,   Errico   Malatesta,   dal   titolo   significativo:  “Guerra civile”. Nell’articolo,   Malatesta   delinea   lucidamente   i   nuovi   compiti   che   aspettano   gli   anarchici   italiani dopo la storica sconfitta del movimento delle occupazioni delle fabbriche, lanciando   la parola d’ordine della “resistenza organizzata” contro lo squadrismo fascista. Questo lavoro ricostruisce le vicende della lotta degli anarchici contro il fascismo da quel   1921, anno  di  costituzione  della  prima opposizione  organizzata  al  fascismo,  quella  degli   “Arditi del popolo”, al 1945, anno della “Liberazione” e della definitiva caduta del regime  fascista.

Giorgio Sacchetti

Gli anarchici contro il  fascismo “Mussolini è un bucaiolo che manda la gente a letto senza cena”.

Per   questa   affermazione   Cesare   Parenti,   bracciante   amico   di   Brozzi,   subì  l’ammonizione nel gennaio 1942. Questo lavoro è dedicato a tutti quelli che  come Cesare Parenti seppero, fra difficoltà di ogni genere, mantenere vivo  l’ideale anarchico nei bui anni del regime fascista. Presentazione Questo opuscolo, anche nello spirito di intenti delle edizioni “Sempre Avanti”  a cui l’autore pienamente aderisce, vuole coniugare necessità divulgative e  rigore   scientifico   della   ricerca.   L’obiettivo  è   quello   di   fornire,   lungi   da   meri  intenti propagandistici, una traccia di partenza a chi ­ amico o avversario ­  voglia   avvicinarsi   alla   comprensione   di   questo   genere   di   tematiche   troppo 

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spesso relegate alle “conventicole”.  Il presente lavoro riassume ed integra saggi dell’autore, già pubblicati o in via  di pubblicazione, comprendenti singoli aspetti dell’argomento fra i quali: gli  anarchici   sotto  il   fascismo   “visti”   attraverso   le   carte  di   polizia;   il   campo   di  concentramento di Renicci; il contributo libertario alla Resistenza; i punti di  contatto   con   “Giustizia   e   Libertà”.   Fonti   queste   che   si   aggiungono   alle  innumerevoli testate giornalistiche consultate, pubblicate in Italia, all’estero e  clandestine e a quelle lettererarie in parte citate nella bibliografia essenziale  che conclude il lavoro. In epoca di “revisionismi” è bene sottolineare come quello degli anarchici sia  da   considerare   un   contributo,   certo   autonomo   e   originale,   al   grande  movimento di lotta di questo secolo non ancora concluso contro i miti negativi  del nazionalismo e del razzismo, contro tutti i “fascismi”. Nella “guerra civile” “Guerra   civile”   è   il   titolo   di   un   articolo   pubblicato   da   Errico   Malatesta   su 

“Umanità Nova” (8 settembre 1921). E’ una messa a punto lucida sui compiti  storici   degli   anarchici   italiani   sull’onda   delle   sconfitte   appena   patite   dal  movimento operaio, con le squadre fasciste che ormai si trovano nella piena  realizzazione   dell’opera   di   così   detta   ‘profilassi   sociale’   inaugurata   già  all’indomani dell’occupazione delle fabbriche. La parola d’ordine è: attuare la  resistenza organizzata ma senza “mettersi a pari con chi noi consideriamo  fuori del consorzio degli uomini civili”. Su questo aspetto il vecchio militante  della   Prima   Internazionale   è   irremovibile:   “Qualunque   sia   la   barbarie   degli  altri, spetta a noi anarchici, a noi tutti uomini di progresso, il mantenere la  lotta nei limiti dell’umanità, vale a dire non fare mai, in materia di violenza, più  di quello che è strettamente necessario per difendere la nostra libertà e per  assicurare la  vittoria  della causa  nostra,  che  è  la causa del bene di tutti”.  Malatesta, nell’affermare quindi il suo chiaro no ad una guerriglia riservata ai  professionisti   della   violenza,   si   fa   piuttosto   promotore   di   una   vera   guerra  sociale che contrapponga popolo a governo e lavoratori a capitalisti. “Ed il  fascismo scomparirà ­ egli scrive ­ quando vedrà che prepotenze non se ne  vogliono più subire..”.   Una   organizzazione   specifica   nazionale,   l’Unione   comunista   anarchica  italiana (Ucai, poi Uai) fondata a Firenze nel 1919, forte di circa 700 gruppi e  federazioni   in   rappresentanza   di   buona   parte   del   movimento   in   Italia;   la  direzione   del   Sindacato   Ferrovieri   e   dell’Usi   (Unione   Sindacale   Italiana),  mezzo   milione   di   iscritti   nel   1920,   che   si   contrapponeva   per   il   metodo  autogestionario e di azione diretta alla Confederazione generale del lavoro, 

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riformista; 66 testate fra periodici e numeri unici pubblicati complessivamente  nell’arco   di   tempo   1919­’25,   e   un   quotidiano,   “Umanità   Nova”   diretto  dallo  stesso   Malatesta   per   oltre   due   anni:   questo   il   biglietto   da   visita   di   una  componente importante della corrente rivoluzionaria del movimento operaio  nel nostro paese alla vigilia del fascismo. Con questo peso e nel contesto  della rapida affermazione squadrista, in un clima di caccia al sovversivo, si  era verificato un episodio dai risvolti molto gravi: l’attentato al teatro Diana di  Milano,   una   strage   che   avrebbe   dovuto   avere   come   obiettivo   il   questore.  Esecutori   materiali   tre   giovani   anarchici   (strumenti   inconsapevoli   di   una  provocazione?)   che   volevano   protestare   per   la   immotivata   detenzione   di  Malatesta, ridotto in fin di vita per uno sciopero della fame. Quella stessa sera  ­ 23 marzo 1921 ­ quasi in contemporanea alla strage sono devastate dalle  squadre fasciste le sedi milanesi di “Umanità Nova”, dell’ “Avanti!” e dell’Usi,  mentre anche in altre parti d’Italia (specie dove il sovversivismo rosso non  dava cenni di flessione) si completa l’opera di ‘ripulisti’. La prima opposizione organizzata allo squadrismo si realizza nelle formazioni  armate   degli   ‘Arditi   del   Popolo’   alle   quali   gli   anarchici,   caso   unico   nella  sinistra,   danno   appoggio   ufficiale   direttamente   partecipandovi   insieme   a  militanti   di   base   e   quadri   socialisti,   comunisti,   repubblicani,   sindacalisti,  insieme   a   senza­partito,   a   cattolici   ed   ex­combattenti,   con   alcuni   ufficiali  subalterni   che   danno   un   contributo   organizzativo   davvero   notevole.  L’associazione   viene   ufficialmente   costituita   il   27   giugno   1921   ed   i   suoi  postulati   investono,   non   soltanto   i   temi   della   difesa   delle   strutture   del  movimento operaio dall’aggressione fascista, ma anche le grandi questioni  del pane, del lavoro e della libertà. “Umanità Nova” sostiene e si fa portavoce  di   questo   movimento   armato   (che   fra   l’altro   dispone   di   organi   di   stampa  saltuari:   “L’Ardito   del   Popolo”,   “L’Avanguardia   Sociale”),   influenzato   sì  inizialmente da ambienti combattentistici già interventisti, ma che si pone in  sostanza come il continuatore dell’esperienza di base delle guardie rosse dei  tempi dell’occupazione delle fabbriche. “L’unico partito che non sconfessò gli  Arditi   del   Popolo   fu   il   partito  anarchico.   Però   malgrado   le   proibizioni   degli  esecutivi   i   plotoni   più   baldi   inquadrarono   moltissimi   giovani   comunisti,  repubblicani e socialisti. Nel suo inizio l’organizzazione degli AdP, specie nei  suoi capi, lasciò dei dubbi. Ma la zavorra venne eliminata”. E’ la conferma di  Giuseppe Mingrino, uno dei fondatori, socialista sconfessato il cui partito si  trova   già   impegnato   nel   ‘patto  di   pacificazione’   con   i   fascisti.   Anzi   l’Uai   in  forma ufficiale (consiglio generale, 14­15 agosto 1921) esprimerà la propria  posizione di “simpatia e riconoscenza” all’associazione per la sua opera di  difesa   delle   libertà   proletarie,   auspicando   per   essa   l’immunità   da   ogni  infiltrazione borghese e di continuare nelle sue scelte ancora in autonomia dai 

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partiti politici. Quanto al Partito comunista d’Italia e ai suoi organi dirigenti,  dopo   una   prima   moderata   simpatia   per   il   movimento,   esso   passa   ad   una  dichiarazione,   nel   solco   della   impostazione   bordighiana,   di   estraneità   e   di  quasi­ostilità. Ma la matrice anche libertaria di questo genere di ‘arditismo’  antifascista risulta evidente sia dalla collocazione politica di molti aderenti che  di   quella   dei   promotori.   Il   comandante   militare   Argo   Secondari,   seppure  circondato da diffidenza, è considerato anarchico per quanto ‘sui generis’; il  repubblicano   Vincenzo   Baldazzi   è   intimo   amico   ed   unanimemente   ritenuto  ‘figlio politico’ del vecchio Malatesta. Quanto alla diffusione del movimento sul  territorio nazionale possono essere prese senz’altro in considerazione quelle  località   che   risultano   sia   dalle   fonti   di   polizia   che   da   un   elenco   di   gruppi  costituiti   ­   reso   pubblico   in   occasione   di   una   sottoscrizione   per   la   madre  dell’ardito  Nicola Lolli, ucciso  dai  fascisti  a  Monterotondo ­ in  cui figurano:  Roma,   Alessandria,   Ancona,   Brindisi,   Colle   Val   d’Elsa,   Iglesias,   Lecco,  Macerata,   Campobasso,   Isernia.   Queste   località   naturalmente   si  aggiungerebbero ad altre più conosciute per episodi eclatanti di resistenza  armata in tutta l’Italia centrale, in Puglia, Emilia, Liguria e Piemonte, spesso  con   una   sorprendente   coincidenza   con   le   zone   a   consolidata   tradizione  anarchica   e/o   sindacalista   rivoluzionaria.   I   maggiori   successi   militari   sono  ottenuti sul campo a Roma, Bari, Sarzana e soprattutto a Parma nelle mitiche  giornate   dell’agosto   1922.   La   consistenza   del   movimento   ammonterebbe,  secondo dati approssimati per difetto del ministero dell’interno a quasi 5.600  armati all’ottobre 1921. Ma in questo periodo siamo già nella fase calante a  causa della concomitante azione di forze di polizia e camicie nere. Mentre il  comandante Secondari si dimette clamorosamente dall’associazione a causa  dei ripetuti contrasti con Baldazzi e Mingrino, il prefetto di Roma impone lo  scioglimento   immediato   del   direttorio   nazionale   del   movimento   e   dal   quel  momento sopravviveranno solo nuclei clandestini scollegati fra loro, se pure  talvolta attivissimi come nelle giornate parmensi. Al momento della marcia su Roma i locali di “Umanità Nova” sono devastati e  incendiati,   la   rotativa   e   la   linotype   resi   inservibili.   Malatesta   settantenne   si  trova, al Trionfale dove abitava, testimone della benevolenza di carabinieri e  guardie regie nei confronti dei fascisti. Nella sua corrispondenza con Luigi  Fabbri   egli   riferisce   delle   numerose   minacce   di   morte   ricevute,   ma   scrive  anche: “Passo spesso innanzi alla loro sede, traverso i loro gruppi e nessuno  mi dice niente. E’ avvenuto che quando ne ho incontrato qualcuno da solo mi  ha fatto il saluto militare! Non alla romana!”. L’analisi malatestiana sul primo  fascismo parte dall’assunto che non vi può essere riscossa materiale senza  prima   una   rivolta   morale.   Le   violenze   e   i   delitti   fascisti   semplicemente  suscitano   il   desiderio   di   vendetta   degli   offesi   e   non   quella   generale 

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riprovazione   che   sarebbe   necessaria   e   che   spontaneamente   dovrebbe  nascere in ogni animo sensibile. I fascisti evidentemente ­ sostiene Malatesta  ­ sono anche fuori dal partito fascista ed hanno “l’anima fascista, lo stesso  desiderio di sopraffazione”.  Sul   piano   sindacale,   oltre   ai   già   citati   Sindacato   Ferrovieri   (Sfi)   ed   alla  centrale Usi, gli anarchici italiani si trovano nel vivo della lotta antifascista e  antipadronale   particolarmente   numerosi   nella   minoranza   consiliarista   della  Fiom  torinese,   nel   Sindacato  Minatori   del   Valdarno   (il   cui   segretario   Attilio  Sassi viene condannato a 16 anni di carcere). Per iniziativa dei ferrovieri si  tiene a Roma nel febbraio 1922 la riunione costitutiva di una “Alleanza del  lavoro” composta da Cgdl, Usi, Sfi, Federazione lavoratori dei porti, Uil (già  interventista, ora antifascista). La nuova organizzazione unitaria indice, per il  1° agosto successivo, uno sciopero generale antifascista che ha un successo  limitato e che verrà ricordato come lo ‘sciopero legalitario’. Troppo tardi. Dopo  quattro giorni il comitato esecutivo dell’Alleanza inspiegabilmente decreta il  rientro   al   lavoro.   “I   poteri,   nella   provincia   di   Parma   ­   proclamarono  all’indomani i fascisti sul loro giornale ­ sono passati nelle mani dell’autorità  militare;   è   eliminata   così   quell’ambigua   autorità   politica,   che   per   inerzia,  insufficienza e inconcepibile debolezza, ha permesso a un gruppo di rivoltosi  un movimento anarcoide rivolto contro la Nazione e contro i cittadini”. Sono dirigenti sindacali  i primi anarchici trucidati dai fascisti negli anni Venti:  Attilio Fellini segretario della Camera del lavoro di Carrara, Raffaele Virgulti di  Imola, Filippetti e Catarsi di Livorno, Cesare Rossi cassiere della Camera del  lavoro di Sestri Ponente, Pietro Ferrero segretario Fiom a Torino e altri. Nel   corso   turbolento   di   tutti   questi   eventi   i   momenti   da   dedicare   alla  riflessione   non   sono   comprensibilmente   sufficienti.   Tuttavia   un’analisi  originale, spietata e a caldo sul rapporto fascismo­masse­capi viene fatta da  Camillo   Berneri,   uno   dei   più   vivaci   militanti   e   giovane   intellettuale  dell’anarchismo,   in   un   suo   articolo   poco   conosciuto  pubblicato  sulla   rivista  “Studi Politici” di Roma nel 1923. Il fatto che grandi masse proletarie siano  passate dalle bandiere rosse ai gagliardetti neri dimostra, a dire del Berneri,  una   certa   mancanza   di   preparazione   politica   e   di   maturità   nella   classe  operaia;   mancanza   che   però   non   può   essere   tutta   giustificata   dalla  leggerezza e in alcuni casi dalla vile disonestà dei capi. “I capi, molto gentili  nelle anticamere delle questure e negli uffici prefettizi, non tralasciarono di  incitare il popolo contro le guardie regie, in maggioranza disgraziati privi di  lavoro   del   dopoguerra,   incapaci   di   rendersi   conto  della   loro   funzione   [...]   i  primi ad accorrere ad inquadrarsi nei sindacati fascisti furono quei lavoratori  che   erano   sempre   stati   pronti   ad   andare   dove   vedevano   la   scodella   più  grande”.

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La chiusura di “Umanità Nova” ­ I primi attentati contro Mussolini ­ Le  leggi speciali Le fortune del fascismo, una volta costituitosi in partito politico e quindi nella  fase iniziale di consolidamento del regime, sono strettamente correlate alla  soppressione violenta di ogni forma di opposizione attraverso l’uso combinato  e complementare alle azioni squadriste di magistratura e forze di polizia. I  decreti sulla stampa in vigore dal 1924 e la legislazione speciale per la difesa  dello   Stato,   che   fanno   seguito   alla   costituzione   della   Milizia   Volontaria   di  Sicurezza Nazionale, sanciranno poi una situazione di fatto, ormai conseguita  in massima parte con altri mezzi. I giornali anarchici, testate e tirature in quantità non trascurabili, subiscono la  stessa   sorte   che   viene   riservata   a   tutta   la   stampa   che   fa   riferimento   al  movimento   operaio   e   socialista,   ai   popolari   ed   infine   allo   schieramento  democratico in genere. Le aggressioni avvengono in sequenza: prima tocca  agli organi quotidiani di battaglia militante ­ è il caso di “Umanità Nova” e del  socialista   “Avanti!”   ­,  infine   ai  periodici  di  riflessione   culturale   e   di  dibattito  teorico. La consistenza delle testate del movimento anarchico passa così da  28   nel   1921   a   3   nel   1926!   La   definitiva   chiusura   del   giornale   diretto   da  Malatesta, passato da quotidiano a settimanale nell’agosto 1922, si verifica  alla   fine   del   medesimo   anno   attraverso   tappe   precise:   denunzie   penali   a  causa del contenuto di vilipendio degli articoli;  pesanti  contravvenzioni  per  presunte   irregolarità   amministrative;   tipografia   devastata   dall’intervento  fascista. L’atto finale è la denuncia da parte della questura di Roma contro  venti fra ex­redattori, corrispondenti, membri del consiglio di amministrazione  di “Umanità Nova” per correità in reati di tipo associativo, istigazione, ecc.. A  ciò si aggiunge il sequestro di tutto l’archivio di redazione e la confisca della  cassa del  giornale.  Una situazione analoga si  verifica anche a  La  Spezia,  dove   le   camicie   nere  letteralmente  distruggono   la   tipografia   ed   incendiano  l’amministrazione de “Il Libertario”, e a Pisa con “L’Avvenire Anarchico”. Con  Mussolini al governo si passa così quasi immediatamente ad una situazione  di semi­legalità per ogni attività del movimento anarchico con un Comitato di  Difesa Libertaria promosso dalla Uai, per il soccorso alle vittime politiche ed  alle   loro   famiglie,   che   funziona   a   pieno   ritmo.   A   Milano   Carlo   Molaschi  pubblica   l’opuscolo   “Spezzare   le   catene   /   Appello   ai   proletari   d’Italia”,   un  j’accuse contro il sistema carcerario e contro le sentenze di classe emmesse  dai tribunali nei grandi processi contro i sovversivi. Il testo conclude con un  perentorio invito a reagire a questa situazione “che, se ciò non facciamo già il  pane ci manca, presto a tutti ci mancherà la libertà”.  Per il 1923 si può effettuare una stima approssimativa della consistenza o  quanto   meno   della   diffusione   residua   dell’anarchismo   organizzato   in   Italia 

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sulla   base   di   un   indirizzario   di   ‘propagandisti’sequestrato   dalla   polizia   a  Torino. Si tratta di 283 recapiti difformemente distribuiti nella penisola e con  punte   massime   di   densità   nelle   provincie   di   Alessandria,   Aquila,   Bologna,  Forlì, Genova, Novara, Pisa, Reggio Calabria, Torino. Le carte del ministero  dell’interno  documentano  comunque  un  certa  attività  anarchica  a  Roma,  a  Livorno,   in  Sicilia   e  soprattutto  in  Puglia  dove  si  scopre  l’esistenza  di una  Federazione Anarchica regionale formata da 28 gruppi.  Dopo   l’assassinio   di   Matteotti   l’antifascismo   italiano   riesce   ad   esprimere  ancora un qualche sussulto di vitalità, per quanto effimero. Una situazione  che   sembrava   totalmente   sotto   controllo   per   il   governo   torna   a   farsi  preoccupante. Si teme una recrudescenza del ‘Fronte unico sindacale rosso’  che   ricompatti   tutte  le   forze   riformiste  e   rivoluzionarie   contro   Mussolini;   la  diffusione della pubblicistica libertaria residua si intensifica mettendo in seria  difficoltà il servizio controllo della polizia postale; si dà addirittura per ‘quasi  certa’ la resurrezione di “Umanità Nova”. Sono ancora per poco sulla breccia  gli ultimi giornali: “Fede!”, “L’Amico del Popolo”, “Libero Accordo” e “Pensiero  e Volontà”. La repressione però non si farà ulteriormente attendere e ­ mentre  nelle assisi di Firenze, Arezzo e Pisa si celebrano processi spettacolari contro  centinaia di operai e contadini fra cui molti anarchici ­ si effettuano decine e  decine   di   arresti   in   ogni   parte   d’Italia   smantellando,   fra   le   altre   cose,   una  tipografia   clandestina   a   Roma,   una   Unione   Anarchica   ligure   ricostituita  malgrado   lo   scioglimento   prefettizio,   un   pericoloso   Gruppo   giovanile  anarchico   a   Trieste.   Da   Verona   il   prefetto   segnala   alla   direzione   generale  della pubblica sicurezza l’esistenza di 149 anarchici residenti nella provincia e  di   un   gruppo   ancora   attivo   formato   da   circa   trenta   persone,   animato   da  Giovanni Domaschi.  Il   1926   era   stato   annunciato   da   Mussolini   come   “l’anno   napoleonico   della  rivoluzione   fascista”.   Liquidate   ormai   le   opposizioni   si   doveva   iniziare   a  mettere mano ai codici (ma questo avverrà più tardi), alle leggi fondamentali  dello Stato in specie a quelle di polizia. Con l’approvazione della legge n.2008  sui “Provvedimenti per la difesa dello Stato” si compie un altro passo decisivo  verso il consolidamento del regime con l’istituzione, fra l’altro, di un Tribunale  Speciale. Dal 1927 al 1932 questo particolare ‘tribunale’ celebra quasi 4000  processi,   distribuendo   a   22618   imputati   dieci   millenni   di   carcere,   facendo  eseguire   9   condanne   a   morte   (due   a   anarchici).   Questi   provvedimenti  seguono di poco gli attentati Lucetti e Zamboni, anarchico il primo, a matrice  incerta il secondo.  Mentre,   l’11   settembre   1926,   Mussolini   transita   da   Porta   Pia,   una   bomba  viene lanciata contro la sua auto. L’ordigno rimbalza sulla vettura esplodendo  a terra. L’attentatore era Gino Lucetti, giovane anarchico di Carrara, emigrato 

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in Francia. Affannosa la ricerca dei complici da parte del nuovo capo della  polizia,   nominato   per   l’occasione,   Arturo   Bocchini.   Parte   della   storiografia  anarchica ­ Cerrito, Venza ­ ha avanzato, con argomenti convincenti, l’ipotesi  che questo attentato fosse stato in realtà una azione preparata e concordata  fra Milano, Trieste, Carrara e Roma, addirittura con una riunione preparatoria  a Livorno. Vincenzo Baldazzi, leader dei repubblicani romani, fondatore degli  Arditi del Popolo e futuro capo della resistenza nella capitale, viene più tardi  condannato, pur senza prove, per aver aiutato il carrarese (fornendogli anche  una pistola, come confermerà più tardi). Baldazzi abitava fra l’altro al Trionfale  nel medesimo isolato di Malatesta. Le felicitazioni per lo scampato pericolo al  duce da parte di Pio XI e la richiesta perentoria dei fascisti di provvedimenti  legislativi   idonei   a   prevenire   questi   attentati   seguono   l’avvenimento.   Non  esistendo   al   momento   la   pena   di   morte   Lucetti   viene   condannato  all’ergastolo; sarà liberato dagli Alleati nel 1943 e morirà subito dopo a Ischia  sotto   un   bombardamento.   A   quello   di   Lucetti   segue,   dopo   un   mese   a  Bologna, il fallito attentato di Anteo Zamboni, quindicenne figlio di anarchici,  linciato sul posto. Oscuri i contorni di questo episodio. Gaetano Salvemini e  buona parte degli storici, pur senza prove attendibili, propendono per la tesi  del falso attentato messo in opera da estremisti fascisti per accelerare ancora  di più i tempi della svolta dittatoriale. Altro strumento di repressione è il Confino di polizia per gli oppositori politici,  e   quindi   anche   per   gli   anarchici,   segnatamente   nelle   isole   di   Favignana,  Lampedusa,   Lipari,   Ustica,   Tremiti,   Ponza   e   Ventotene.   In   questi   luoghi   in  genere   si   gode   di   un   regime   non   strettamente   carcerario   e   di   una,   molto  relativa, libertà di movimento; tale però da non garantire sempre soggiorni  tranquilli ai confinati che, spesso, incappano o nel regolamento di disciplina  oppure   in   denunzie   all’autorità   giudiziaria.   Dal   momento   del   varo   della  legislazione speciale fino alla caduta del fascismo saranno emessi a carico di  anarchici   667   provvedimenti   dalle   commissioni   provinciali   su   un   totale   di  13361; in realtà il numero è senz’altro maggiore se vi si considerano anche  altri nominativi qualificati invece genericamente come ‘sovversivi’, ‘antifascisti’  o in modo impreciso comunisti. Le punte più alte si registrano in Toscana,  Lazio,   Emilia   Romagna.   A   Lipari,   dove   si   trova   confinato   fra   gli   altri   Luigi  Galleani,   funziona   da   subito   ­   secondo   quanto   riferisce   un   confidente   di  polizia ­ “un gruppo anarchico che ha la sua sede all’hotel Belvedere”.  I   sequestri   di   materiali   propagandistici   e   l’intercettazione   della  corrispondenza, compresa quella diretta ai confinati, denotano la sussistenza  di una fitta rete di contatti interni ed esteri. Temistocle Monticelli continua a  tirare le fila di questa ‘trama’ malgrado la sua condizione di ammonito politico.  Virgilio Mazzoni da Pisa, in perfetta triangolazione, mantiene rapporti con un 

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Comitato   anarchico   pro­vittime   politiche   d’Italia   sorto   in   Argentina   per  iniziativa di Severino Di Giovanni; questi a sua volta corrisponderebbe con  Ugo Fedeli esiliato in Francia. Augusto Consani da Livorno risulta in contatto  con comitati di Milano e Roma. Bruno Misefari mantiene relazioni in tutto il  meridione. Il chiodo fisso degli investigatori resta quello dei contatti mantenuti  da   Malatesta   e   compagni,   in   barba   ­   si   dice   ­   ad   ogni   controllo,   con   gli  ambienti dei fuoriusciti all’estero ed in particolare con Fabbri e Damiani. A  Roma quindi, ed a Milano con Molaschi, si individuerebbero i maggiori centri  del   sovversivismo   anarchico   organizzato.   Si   lamenta   inoltre   l’introduzione  clandestina e la distribuzione in Italia dei periodici “L’Adunata dei Refrattari”,  “La Lotta Umana” e “Il Risveglio”, nonché di manifestini inneggianti a Lucetti  stampati a Marsiglia. Negli   anni   1927­’28   suscita   scalpore   la   scoperta   a   Cecina   di   un   anomalo  gruppo anarchico denominato “Gli Scarponi”, formato da 15 membri (fra cui  alcuni ex arditi del popolo) tutti denunziati al Tribunale Speciale. Nell’affare  intervengono   personalmente   il   capo   della   polizia   Bocchini,   il   segretario  generale del Pnf Augusto Turati, il federale di Livorno. Ciò a motivo del fatto  che il gruppo era mascherato da circolo sportivo ‘fascista’. Sono sequestrate  armi, documenti compromettenti ed un gagliardetto rosso­nero con la scritta  “Gruppo Anarchico di Cecina”. Anche in Sicilia, secondo quanto relaziona il  capo   di   stato   maggiore   della   Milizia,   si   assisterebbe   ad   una   ripresa  antifascista  grazie  proprio  all’attivismo  di  gruppi  anarchici  locali  animati  da  Salvatore Renda, a sua volta in corrispondenza con il noto ‘terrorista’ Paolo  Schicchi,   riparato  all’estero ma   in  procinto  di  rientrare  al  fine  di  fomentare  un’insurrezione popolare nell’isola. Da Parigi e dagli Stati Uniti intanto non  cessa   il   flusso   di   sottoscrizioni   verso   l’Italia,   pro   detenuti,   per   Malatesta   e  Galleani.  Da moltissime prefetture del Regno si riferiscono piccoli episodi, ma in gran  quantità,   di   scritte   murali   inneggianti   all’anarchia,   segno   di   una   resistenza  dura   a   morire.   La   situazione   interna   è   del   resto  ben   descritta   sul   numero  unico di Parigi “Resistere” organo del Comitato anarchico pro­vittime politiche  d’Italia, pubblicato alla fine del 1928. Dalla relazione morale e dal rendiconto  sulla attività dell’organismo emergono dati di un certo interesse. La colonna  dei   sottoscrittori   spazia   fra   Europa,   Russia   e   Americhe.   Si   rileva   un   netto  miglioramento nei servizi di soccorso con un contributo verso l’Italia di circa  8.000 franchi francesi mensili. Il 1929 vede svilupparsi un’agitazione a livello europeo in favore del ferroviere  anarchico svizzero Giuseppe Peretti, detenuto in Italia e condannato a due  anni in quanto accusato di soccorso alle vittime politiche. Insieme a lui sono  deferiti al Tribunale Speciale altre ventisette persone ritenute responsabili di 

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apologia   di   reato   e   ricostituzione   di   associazioni   anarchiche   disciolte   e  contrarie all’ordine nazionale, ‘delitti’ perpetrati a Milano e a Verona. Con   l’inizio   degli   anni   Trenta   la   crisi   economica   dilagante   contribuisce   a  creare   una   situazione   di   malcontento   generalizzato,   favorevole   ad   uno  sviluppo dell’attività rivoluzionaria anarchica e cospirativa. Nasce in Francia  l’Ucapi   (Unione   comunista   anarchica   dei   profughi   italiani)   allo   scopo   di  intensificare l’azione e la propaganda verso l’interno; erede dell’Uai mantiene  contatti epistolari (che non sempre rimangono segreti) con Malatesta. Intanto  l’attentato   (fallito) in Belgio del giovanissimo socialista Ferdinando De Rosa  contro la vita del Principe di Piemonte ­ azione individuale ma nella quale si  dice siano implicati ‘giellisti e anarchici italiani’­ ha una certa eco anche in  Italia   dove   si   sviluppa   un’agitazione   di   solidarietà   a   favore   del   giovane  attentatore con manifestini distribuiti a Parma, Milano, Torino e Bologna.  Mentre all’estero, proprio per una convergenza sulla pratica dell’antifascismo  militante, si instaura una certa collaborazione fra gli anarchici e il movimento  ‘Giustizia   e   Libertà’,   nel   febbraio   1931   e   nel   giugno   1932   rispettivamente,  venivano arrestati e poi fucilati gli anarchici Michele Schirru, proveniente dagli  Stati Uniti, e Angelo Sbardellotto, proveniente dal Belgio, per ‘intenzione’ di  attentare alla vita del duce. Per Schirru si è anche parlato di una possibile  intesa con Emilio Lussu. Negli anni Venti, in Usa e soprattutto in Francia, si  erano susseguiti gli attentati, una decina almeno, messi in opera da anarchici  italiani contro autorità consolari e alti esponenti fascisti in quei paesi. Anche  in   Italia,   agli   inizi   del   decennio   successivo,   si   verificano   episodi   di   questo  genere: a La Spezia; a Livorno (dove anarchici e comunisti assaltano con le  bombe   una   caserma   fascista);   a   Villasanta   (Milano)   ed   altrove.   Almeno  quindici attentati contro sedi e dirigenti locali del Fascio sono effettuati nel  periodo   1930­’33.   Sempre   con   l’accusa   di   “avere   l’intenzione”   di   compiere  attentati   terroristici   vengono   arrestati   gli   anarchici   Vincenzo   Capuana   e  Angelo Vellucci, provenienti dall’America, e Tranquillo Pusterla ad Arezzo. “Preferiamo la sconfitta alla vittoria che ha bisogno della forca”, sosteneva  Errico Malatesta, ma ­ affermerà più tardi Giovanna Berneri ­ quando in un  paese tutte le libertà sono soppresse, quando tutti gli uomini liberi sono in  prigione,   al   confino   o   in   esilio,   l’atto   di   protesta   individuale   diventa   una  necessità e può essere salutare. Con i tentativi falliti di Schirru e Sbardellotto si colma la misura; OVRA (polizia  politica) e prefetture si impegnano in modo ulteriore nella così detta ‘revisione’  sugli  elementi   anarchici  e   nella   stretta  vigilanza   a   seguito  anche   di   nuove  disposizioni appositamente  impartite  dal  ministero  dell’interno.  Si  arrestano  perfino tre persone sorprese a deporre garofani rossi sulla tomba di Schirru.  Ciò   nonostante   le   maglie   del   controllo   si   rivelano   sufficientemente   larghe 

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almeno   per   consentire   la   propaganda.   Macchinisti   in   servizio   sulle   linee  ferroviarie di confine e marittimi si prestano al trasporto clandestino ed alla  distribuzione di manifestini ed opuscoli. Fra le altre cose vengono introdotti e  capillarmente diffusi l’appello “Una parola di anarchici ai lavoratori d’Italia” ed  il numero unico “Lotta anarchica per l’insurrezione armata contro il fascismo”,  stampati   in   Francia.   Un’operazione   di   polizia   a   vasto   raggio   porta   alla  scoperta di ‘covi’ e basi di appoggio per questa propaganda in ogni parte del  paese,   perfino   fra   i   confinati   nelle   isole.   Seguono   arresti,   abbondanti  sequestri   di   manifesti   sovversivi   e   deferimenti   conseguenti   al   Tribunale  Speciale. A Ponza Bruno Misefari ed Alfonso Failla promuovono fra 80 dei  400   confinati   presenti   la   costituzione,   insieme   ad   una   cassa   comune   di  solidarietà, di una ‘Federazione Anarchica Italiana’ con una piccola biblioteca  funzionante   ed   assidue   ‘conversazioni   teoriche’.   A   Torino,   a   Livorno   ed   a  Genova nel corso dell’anno 1931 vengono smascherati altrettanti ‘complotti’  orditi   da   associazioni   anarchiche   ricostituite   nella   clandestinità   con  coordinamento a livello cittadino ed organizzate in gruppi rionali. La morte a Roma di Errico Malatesta, sopraggiunta per broncopolmonite il 22  luglio 1932 e che segue di pochi mesi quella di Luigi Galleani, si ripercuote  senza   dubbio   sulle   strategie   del   movimento   anarchico   italiano   dell’esilio   e  dell’interno che, quantomeno, perdono un loro punto di riferimento non solo  simbolico.   Un’epoca   ed   un   percorso   politico   iniziati   nel   secolo   precedente  ancora   con   il   metodo   cospirativo   sono   interrotti   dall’evento   luttuoso.   Nella  capitale viene distribuito un manifestino di commemorazione stampato alla  macchia (“Errico Malatesta è morto!”). Il governo rivolge ancora un severo  richiamo   alla   divisione   Polizia   politica   al   fine   di   aumentare  ulteriormente   il  controllo   “in   considerazione   dell’intensificata   attività   dei   gruppi   anarchici   e  della loro persistenza nell’ordire attentati contro il Regime”. L’attività   cospirativa   in   Italia e l’esilio antifascista Il ‘Bollettino delle Ricerche’ del ministero dell’interno, 1932­’37, registra per  alcune regioni e per alcuni anni (ad es. Toscana 1933 e ’34) gli anarchici al  primo   posto   per   numero   di   ricercati,   dove   generalmente   erano   secondi  soltanto ai comunisti e sempre prima degli altri raggruppamenti antifascisti.  “Sempre   stando   alle   indicazioni   delle   carte   di   polizia   ­   scrive   Cerrito  ­generalmente   propense   a   classificare   come   comunisti   anche   gli   anarchici  inseriti direttamente nelle organizzazioni comuniste o collegati indirettamente  con le medesime, con elementi comunisti o ritenuti comunque tali per il loro  definirsi   comunisti­anarchici,   nel   1932­’37,   numericamente   gli   anarchici   e   i  comunisti si equivalevano”.  Al confino la ribellione è una costante. A Ponza nel 1933, in 152 protestano 

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contro i soprusi fascisti e numerosi anarchici vengono per questo condannati  (Failla,   Grossuti,   Bidoli,   Dettori   e   molti   altri).   A   Ustica   l’anarchico   Arturo  Messinese prende a schiaffi il direttore della colonia che voleva obbligarlo al  saluto romano. Molto numerosi sono gli anarchici costretti all’esilio, soprattutto in Francia. Fra  gli   esponenti   più   conosciuti:   Luigi   Fabbri,   Ugo   Fedeli,   Armando   Borghi,  Alberto Meschi, Camillo Berneri. E in Francia prosegue lo scontro violento per  difendere   l’ambiente   dell’emigrazione   dalle   infiltrazioni   fasciste,   ma   si  partecipa anche alle lotte operaie. Negli attentati cadono Nicola Bonservizi,  segretario   del   Fascio   di   Parigi,   Carlo   Nardini,   vice   console,   don   Cesare  Cavaradossi,   sacerdote   e   funzionario   del   consolato.   Alcuni   anarchici,  desiderosi   di   rovesciare   il   fascismo   in   Italia   attraverso   un’immediata  insurrezione,   rimarranno   invischiati   nella   provocazione   ordita   da   Ricciotti  Garibaldi.   Questi,   conosciutissimo   per   aver   organizzato   in   guerra   il   corpo  volontari italiani delle Argonne, aveva infatti progettato una spedizione armata  in   Italia   coinvolgendo   molti   fuoriusciti.   L’impresa   però   si  era   subito   rivelata  come una montatura dei servizi segreti di Mussolini. Ma   la storia  dell’anarchismo  italiano  esule  in  Francia  traspare  anche  dalla  consistenza di periodici e numeri unici che esso edita oltralpe a partire dal  1923 fino al 1938, con code anche nel dopoguerra. Sono ben 58 le testate  anarchiche,   stampate   in   Francia   in   lingua   italiana,   reperite   da   Leonardo  Bettini.   La   periodicità   è,   ovviamente,   varia   (raramente   settimanale)   ed  irregolare   in   alcuni   casi.   Tralasciando   i   temi   tradizionali   e   ‘storici’   della  propaganda anarchica e le questioni organizzative del movimento (che sono  comunque presenti), preme segnalare alcuni dei fogli ‘specializzati’ e rivolti  maggiormente   ai   temi   specifici   dell’antifascismo:   “La   Voce   del   Profugo”,  direttore  Meschi,   giornale   antifascista  e  di  propaganda  sindacale  classista;  “Campane a stormo”, edito dopo l’assassinio di Matteotti a cura del Comitato  italiano d’azione e di propaganda antifascista e alla cui redazione partecipano  anche socialisti e repubblicani; il mensile di Marsiglia “Non molliamo”; “Lotta  anarchica”   del   1930­’31   ­   sottotitolo:   Per   l’insurrezione   armata   contro   il  fascismo ­, portavoce dell’Ucapi; la rivista “La Lotta Umana”. L’emigrazione  anarchica italiana è attiva e presente, in misura minore, anche in Belgio (con  stampa   e   iniziative   pubbliche),   in   Inghilterra,   in   Svizzera.   In   quest’ultimo  paese   però,   dalle   colonne   del   ‘Risveglio’   ci   si   esprime   contro   qualsiasi  ventilata ipotesi frontista e di coordinamento unico della lotta: “I gruppi, senza  confondersi  e  seguendo ciascuno  il proprio  cammino,  possono  convergere  tutti contro il fascismo [...] L’azione insurrezionale deve partire dai più diversi  punti della periferia e non da un centro, quasi sempre esitante e ritardatario”.  E’ una posizione questa ripresa nell’emigrazione americana, particolarmente 

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da   Armando   Borghi,   già   segretario   generale   dell’Usi,   e   da   “L’Adunata   dei  Refrattari”,   foglio   settimanale   (poi   quindicinale),   pubblicato   a   New   York  ininterrottamente dal 1922 al 1971. L’emigrazione degli anarchici italiani negli  Stati Uniti, pur costellata di aspre polemiche interne, ritrova l’unità d’azione in  iniziative   come   la   campagna   pro   Sacco   e   Vanzetti,   il   sostegno   alla   lotta  cospirativa contro il fascismo in Italia, il soccorso ai fuoriusciti. Nel 1934 il movimento in esilio in Francia si divide fra ‘anarchici indipendenti’,  organizzati in Federazione, e quelli favorevoli invece o ad un avvicinamento  alla   Concentrazione   antifascista   o   ad   un’adesione   al   Fronte   Unico.   La  questione resterà aperta per lungo tempo. Il Soccorso Anarchico alle vittime  politiche   ed   alle   loro   famiglie   moltiplica   intanto   gli   sforzi.   Il   ministero   della  giustizia   informa   sugli   aiuti   che,   sebbene   talvolta   soggetti   a   sequestro,  puntualmente   giungono   all’indirizzo   dei   detenuti,   perfino   ai   ‘banditi’   come  Santo Pollastro e Giuseppe De Luisi. I “soliti manifestini anarchici” vengono  rinvenuti ancora in treni provenienti d’oltralpe, in Val d’Aosta e a Torino. Si  tratta   questa   volta   di   un   appello   intestato   “Gli   anarchici   ai   lavoratori”.   E’  l’ennesimo   invito   a   lavorare   per   la   rivoluzione   espropriatrice   anticapitalista  contro ogni genere di dittatura, sia pure bolscevica, e contro il politicantismo  socialista, per andare ­ si dice ­ “oltre la democrazia”. Espulso dall’Uruguay rientra nel frattempo in Italia Ugo Fedeli che, scontati  alcuni mesi di carcere,  si stabilisce a Milano dove “riprende la sua attività  politica non appariscente”, confermandosi ancora come militante di prima fila,  nei contatti soprattutto con le strutture operative del Soccorso anarchico in  Sicilia ed in Francia. Da Tunisi, nell’arco di pochi mesi giungono per posta a  decine di recapiti nelle provincie di Palermo, Trapani e in Sardegna altrettanti  plichi   di   manifestini,   in   parte   intercettati   dalla   polizia,   intitolati   “Abbozzo   di  proclama al popolo italiano” e firmati: Gli Anarchici. La sostanza del contenuto  è un richiamo all’insurrezione in quanto si reputa che il fascismo potrà cadere  solo attraverso un atto di forza. Una volta rovesciato il regime ­ si precisa ­ i  contadini dovranno occupare le terre, gli operai le fabbriche, quindi “ridarsi  alla quotidiana fatica, ma col fucile a portata di mano”. L’attivismo sfrenato delle forze di polizia e l’esigenza, che non sempre può  essere   soddisfatta,   dei   risultati   portano   talvolta   a   situazioni   comiche  paradossali,   brutti   scherzi   probabilmente   giocati   dagli   stessi   anarchici  braccati.   Come   quando   viene   diramato   a   tutte   le   prefetture   del   Regno   un  avviso   di   ricerca   per   un   anarchico   abruzzese   “ignorante”   dall’improbabile  nome   di   ‘Mannaggia’,   o   ci   si   accanisce   contro   una   fantomatica   “cellula  toscana   del   Lilli”.   Si   dà   anche   molto   credito   (in   base   alle   nuove   direttive  impartite da Mussolini all’Ovra) agli informatori, specie se ex­anarchici come  nel caso di tale Giuseppe Guelfi da Massa. Questi nell’aprile 1934 promette di 

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far smascherare un comitato nazionale di agitazione anarchica con sede in  Livorno, diretta emanazione della Concentrazione antifascista parigina; due  mesi   dopo   vengono   così   eseguite   in   quella   città   in   contemporanea   23  perquisizioni ad altrettante persone da lui indicate ­ tutti amici di Consani ­ ma  l’esito è negativo. Allo stesso modo fallisce il tentativo dell’Ovra di inserirsi,  usando   il   nome   di   Schicchi,   nella   corrispondenza   del   Soccorso   anarchico  internazionale.  La questione, divenuta annosa, del fronte unico contro il fascismo e, più in  generale, delle alleanze nel periodo di transizione, viene definita a Parigi, nel  1935,   in   un   “Convegno   d’intesa   degli   anarchici   italiani   emigrati   in   Francia,  Belgio e Svizzera” a cui partecipa lo stato maggiore dell’anarchismo italiano  con Camillo Berneri, Enzo Fantozzi, Umberto Marzocchi ed altri. “Distruggere  l’impalcatura dello stato fascista ­ è l’obiettivo contingente ­ ed impedire che  domani,   dietro   le   spalle   di   un   governo   provvisorio   pseudorivoluzionario,   si  affermi   un   governo   di   restaurazione   demo­social­liberale   o   una   dittatura  bolscevica”. Le risoluzioni del convegno prevedono la possibilità di una “libera  intesa” con Giustizia e Libertà, sindacalisti e repubblicani di sinistra nel segno  forse   delle   comuni   matrici   teoriche   ispirate   a   laicismo,   insurrezionalismo,  pluralismo, autonomia del movimento operaio, federalismo. Esse sanciscono  anche la formalizzazione della rottura ormai nei fatti con i comunisti (esclusi i  gruppi dissidenti) e con i socialisti (esclusa la minoranza massimalista). A seguito del convegno parigino sono poste in essere proposte immediate di  azioni  quali:  la  costituzione  di un  comitato libertario  che  procuri  le armi ai  volontari che dovranno rientrare in patria a condurre la lotta armata contro il  fascismo; la presa di contatto diretta e gli accordi definitivi con i compagni  dell’interno; la redazione di manifestini contro la guerra d’Etiopia peraltro già  sollecitati dall’Italia.  Nel medesimo periodo vengono rinvenuti (ma altri arriveranno a destinazione)  ancora in un treno proveniente dalla Francia 14 involti contenenti tre tipi di  manifestini: “Dichiarazione degli anarchici al proletariato italiano”; “Contro la  guerra   ed   il   fascismo”;   “Alle   forze   rivoluzionarie   italiane”.   Il   testo   di  quest’ultimo in particolare ­ firmato: L’Intesa Rivoluzionaria Italiana ­ non privo  di  riferimenti  all’anarchismo   storico,   richiama  comunque   direttamente  per   il  linguaggio usato e per le conclusioni al movimento di ‘G.L.’. Gli altri due tipi di  manifestini   ­   a   firma:   Gli   Anarchici   proscritti   ­   ricalcano   invece   posizioni  politiche già  note e cioè  che  l’abbattimento  del fascismo  sarà inseparabile  dalla fine del regime capitalista e dello Stato, e quindi che la successione, il  passaggio   alle   forme   repubblica,   costituente   e   dittatura   proletaria   sono  nient’altro che un inganno. Le notizie che arrivano dalla Spagna nel corso del 1936 infiammano gli animi. 

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La   rivolta   popolare   contro   i   generali   fascisti   spinge   molti   fra   gli   anarchici  italiani residenti in Francia ad accorrere a Barcellona e ad aggregarsi nelle  colonne della CNT­FAI. Con la parola d’ordine “oggi in Spagna, domani in  Italia”   si  formerà   di  lì  a   poco,  con   il  concorso  di  giellisti e   repubblicani,   la  Colonna   italiana,   sezione   Ascaso   della   CNT­FAI,   sulla   base   di   accordi  sottoscritti da Berneri, Mario Angeloni e Carlo Rosselli, ciascuno per la sua  parte politica. La contraddizione fra guerra antifascista e rivoluzione sociale e,  soprattutto   il   rifiuto   della   militarizzazione   da   parte   degli   anarchici   italiani  porteranno   allo   scioglimento   della   stessa   colonna.   L’epilogo   tragico   si  consuma   nel   contrasto   irreparabile   fra   alcune   delle   forze   antifasciste   in  campo, in particolare con i ‘governativi’ comunisti staliniani che si rendono  responsabili degli assassinii di Berneri e Barbieri. In Italia intanto l’Ovra registra informali ‘riunioni di combriccole anarchiche’ fra  operai delle fabbriche del nord, nelle osterie dei quartieri popolari nelle grandi  città, e incontri di anarchici conosciuti con rappresentanti di ‘G.L.’ e del partito  repubblicano, continua ad annotare gli spostamenti poco chiari degli elementi  sospetti.  Per   il   1938   i   prefetti   di   Mussolini   segnalano   una   perdurante   presenza  organizzativa  del  movimento  specie   in   Sicilia  e   in   Toscana,   ad   esempio   a  Piombino, ed inoltre che “esistono in Italia, e funzionano in collegamento tra  loro gruppi anarchici in specie a Torino, Trieste, Livorno, Roma e Genova; la  fonte principale degli aiuti finanziari parrebbe l’America del Nord”. Gli ultimi terribili anni del regime fascista, i primi della nuova guerra mondiale,  vedono gli anarchici italiani prostrati a causa della gravissima sconfitta subita  in   Spagna.   In   Francia   sono   in   parte   ridimensionate   le   vecchie   strutture  dell’esilio   antifascista   ora   maggiormente   orientate   al   soccorso   del   popolo  iberico. Nell’interno in molte località, in seguito alle recenti ondate di arresti e  invii   al   confino,   le   attività   cospirative   e   di   propaganda   hanno   subìto   un  rallentamento e soprattutto sono tagliati in gran parte i contatti con l’estero ed  a livello nazionale. Il capo della polizia valuta per il 1939 come ancora vigenti  pochissimi canali di comunicazione anarchica con l’estero: dalla provincia di  Belluno con Ginevra; da Firenze e dal Valdarno con Marsiglia; dalla provincia  di Livorno con New York e con la Francia; da Roma con Parigi. Al momento dello scoppio della guerra il Comitato Internazionale di Difesa  Anarchica   con   sede   a   Bruxelles,   composto   da   italiani,   francesi,   spagnoli,  tedeschi e belgi, pubblica uno speciale Bollettino plurilingue destinato anche  alla diffusione in Italia. Il contenuto del foglio, la cui redazione è attribuibile a  Mario   Mantovani,   risulta   di   impostazione   prettamente   pacifista   e   di  ‘equidistanza’tra gli stati belligeranti.Esso si differenzia da ogni posizione di  adesione pura e semplice alla guerra antinazista espressa invece da alcuni 

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settori   dell’anarchismo   internazionale,   specie   nell’AIT.   Su   ciò   pesano  evidentemente valutazioni a caldo sul patto di non aggressione russo­tedesco  appena stipulato. La parola d’ordine è sempre e comunque ancora quella di  opporre l’insurrezione degli sfruttati alla guerra degli sfruttatori. Dalla   clandestinità   alla   lotta partigiana Nel giugno 1942 un convegno clandestino che si tiene a Genova indica al  movimento un percorso di liberazione che esplicitamente prevede una prima  tappa intermedia, e infatti così si esprime la mozione che ne scaturisce: “Essendo   il   fascismo   il   primo   caposaldo   da   demolire   e   ogni   colpo   da  chiunque   tirato   sarebbe   sempre   desiderato,   in   questa   azione   ci  troveremo  gomito a gomito con l’arma in pugno anche con quegli elementi le cui finalità  sono   in   contrasto   con   le   nostre   o   sono   indefinite   [...]   Ma,   caduto   il   primo  caposaldo, cioè il fascismo, ogni corrente rivoluzionaria avanzerà le proprie  rivendicazioni [...] Perciò nostro preciso compito crediamo sia questo: lavorare  contro   il   fascismo   sì,   con   chiunque:   ma   esigere   da   chiunque   il   diritto  all’affermazione dei nostri sacrosanti principi libertari”. Risulta chiaro fin da subito quindi come gli intenti della lotta siano fermamente  rivoluzionari,   ma   anche   come   si   tenga   in   considerazione   e   facilmente   si  profetizzi   che   molti   fra   i   possibili   compagni   di   strada   dell’oggi   potranno  domani   mutarsi   in   avversari.   Per   questo   stesso   periodo   le   fonti   di   polizia  riferiscono   che,   da   parte   di   anarchici   non   meglio   precisati   residenti   in  Piemonte,   in   Lombardia   e   nelle   Marche,   viene   fondato   un   movimento  antimilitarista denominato “PERDERE PER VINCERE” dedito alla diffusione  di stampa clandestina e sovvenzionato dal noto Luigi Bertoni di Ginevra. Ma la spinta decisiva si può dire che giunga dai confinati. E’ un nutrito gruppo  di   anarchici   quello   che   si   trova   ancora   relegato   nelle   isole,   soprattutto   a  Ventotene. Si tratta per lo più di militanti ormai temprati dalle battaglie, in molti  casi   già   estradati   dalla   Francia   (dal   campo   di   concentramento   di   Vernet  d’Ariège), paese nel quale erano a suo tempo rientrati dopo aver partecipato  alla guerra di Spagna. Nelle famose ‘mense’, strutture logistiche del confino  formate secondo criteri di affinità e appartenenza politica, si discute intanto  animatamente   dei   programmi   e   delle   prospettive   unitarie   della   lotta  antifascista. Ad esempio il direttivo comunista di Ventotene, alla vigilia della  caduta di Mussolini, vota un documento che, mentre prefigura e delimita in  modo  preciso il  campo  delle  alleanze, indica  contemporaneamente  gli altri  nemici da battere oltre ai fascisti e lancia la parola d’ordine della “Lotta senza  quartiere contro i nemici dell’unità proletaria: nel Partito socialista, Modigliani  e Tasca, nel massimalismo gli antisovietici e anticomunisti, negli anarchici gli  anticomunisti”.   Invece   fra   i   componenti   della   numerosa   colonia   degli 

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anarchici,   seconda   per   numero   in   quell’isola   popolata   da   circa   ottocento  confinati, in una assemblea plenaria si cerca piuttosto di sanare i contrasti  annosi   fra   compagni   del   movimento,   di   rilanciare   la   lotta   operaia,   di  riallacciarsi   a   quella   pratica   dell’unità   proletaria   già   sperimentata   in   epoca  prefascista.  Intanto nel meridione appare significativo quanto si verifica a Cosenza dove  già nell’ottobre 1942 gli anarchici fondano un ‘Comitato provinciale del Fronte  unico nazionale per la libertà’.  Dopo il convegno clandestino di Genova si infittisce ulteriormente la rete dei  contatti   fra   i   piccoli   gruppi   informali   già   esistenti   un   po’   ovunque   e   le  individualità   in   particolare   nell’Italia   centrale.   L’artefice   principale   di   tutto  questo lavorìo è il vecchio Binazzi di Torre del Lago, già redattore a La Spezia  del   settimanale   “Il   Libertario”;   il   primo   importante   risultato   conseguito   sul  piano organizzativo è la convocazione di una serie di convegni clandestini  interregionali   che   si   tengono   tutti   a   Firenze;   questo   mentre   vivi   sono   gli  entusiasmi per le notizie, fornite dalla stampa clandestina, sui primi scioperi  operai nelle fabbriche del nord. Il 16 maggio 1943, nell’abitazione del fornaio  Augusto   Boccone,   si   tiene   la   prima   di   queste   riunioni   che   formalmente  costituisce   la   Federazione   Comunista   Anarchica   Italiana.   Sono   presenti  delegati   provenienti   da   Bologna,   Faenza,   Genova,   La   Spezia,   Livorno,  Firenze, Torre del Lago, mentre avevano inviato la loro adesione i gruppi di  Carrara e Pistoia. Vengono così stampate a cura del tipografo Lato Latini, e  diffuse nelle varie località, mille copie di un manifestino contenente un appello  ai lavoratori ed il programma minimo della neocostituita federazione.  In   esso   si   ribadiscono   i   punti   cardine   sui   quali   incentrare   la   lotta  rivoluzionaria: rifiuto della guerra in quanto prodotto del sistema capitalistico;  appoggio   ad   ogni   forma   di   opposizione   al   regime   nell’ambito   di   un  antifascismo   intransigente;   per   la   libertà   di   pensiero,   di   stampa,   di  associazione e anche contro ogni forma possibile di dittatura rivoluzionaria  transitoria; contro la monarchia e per la costituzione di “libere federazioni di  comuni, autonomi, composte di liberi produttori”.  Certamente   si   pone   anche   la   questione   dei   rapporti   con   il   Pci,   la   cui  organizzazione   clandestina   dimostra   peraltro   grande   efficienza   e  penetrazione   nelle   masse.   Così,   sempre   a   Firenze,   si   tiene,   poco   dopo  l’uscita pubblica di questo programma minimo, un incontro segreto fra una  delegazione   ristretta   di   esponenti   anarchici   e   una   del   Pci.   Non   si   hanno  notizie precise sugli argomenti all’odg per questo inusuale rendez­vous, se  non che il risultato “fu un fiasco”. La   caduta   del   fascismo,   l’avvento   della   nuova   dittatura   militare   di   Pietro  Badoglio con il 25 luglio, ed il suo noto proclama agli italiani sulla guerra che 

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continua, con l’avvertenza perentoria alla sinistra rivoluzionaria che “chiunque  si   illuda   di   turbare   l’ordine   pubblico,   sarà   inesorabilmente   colpito”,   fanno  ulteriormente surriscaldare il clima di attesa impaziente fra i confinati. La così  detta   ‘storia   dei   45   giorni’,   iniziandosi   con   il   coinvolgimento   in   ambito  governativo  di un comitato  delle opposizioni  antifasciste,  vede  per  forza di  cose   la   parziale   risoluzione   della   questione   confino.   Il   capo   della   polizia  Senise  invia un dispaccio urgente  a tutte le direzioni  delle  colonie: “Prego  disporre subito scarcerazione prevenuti disposizione autorità PS responsabili  attività politiche escluse quelle riferentesi comunismo e anarchia”. I primi a  partire   da   Ventotene   (dove   è   direttore   Marcello   Guida,   futuro   questore   di  Milano   nel   1969)   dopo   la   compilazione   delle   liste   distinte   per   gradi   di  pericolosità politica, sono gli ‘antifascisti democratici’ e quelli di ‘G.L.’, dopo i  socialisti,   infine   i   comunisti.   Restano   alla   fine   nell’isola   circa   200   confinati  politici   fra   anarchici   e   cittadini   italiani   di   origine   slovena   o   croata.   Ma   il  dispaccio ministeriale che dispone la liberazione anche di questi ultimi coatti  giunge   quando   questi   sono   già   stati   ormai   avviati   al   campo   di  concentramento di Renicci d’Anghiari (Arezzo) ­ uno dei peggiori d’Italia sia  per   il   numero   di   internati   (in   genere   prigionieri   di   guerra   slavi)   che   per   i  comportamenti   del   personale   di   sorveglianza   ­   ove   giungono   dopo   varie  peripezie  il  giorno   23   agosto.   A  questo  punto  gli  anarchici  sono  rimasti  in  sessanta   circa.   L’8   settembre   i   prigionieri   chiedono   in   massa   le   armi   per  opporsi all’occupazione tedesca e per tutto il giorno seguente si organizzano  comizi nei vari settori del campo. Nella rivolta rimane ferito Alfonso Failla. La  via della fuga di massa da Renicci, con i tedeschi alle porte, è dunque aperta  da questo episodio di ribellione.  A   Firenze   intanto,   nella   clandestinità,   rivede   la   luce   “Umanità   Nova”   già  soppresso   dal   fascismo,   tiratura   iniziale   1800   copie,   destinata   a  quadruplicarsi   nei   due   anni   successivi.   Il   primo   numero   esordisce   con  l’editoriale: “Salute a Voi, o compagni d’Italia e di tutti i paesi; noi, dopo un  lungo   e   forzato   silenzio,   riprendiamo   con   immutata   fede   il   nostro   posto  di  battaglia per la liberazione di tutti gli oppressi”. Per   tutto  il  1944   gli  anarchici  d’Italia,   pur   nelle   differenti  situazioni  locali   e  talvolta   in   condizioni   di   estrema   debolezza,   impegnati   nel   movimento  partigiano,   caratterizzeranno   la   loro   azione   nel   senso   dell’antifascismo  intransigente   e   della   preparazione   insurrezionale,   della   ricerca   anche   di  programmi da attuare nel concreto per la fase di transizione. Si pubblica così  un   nuovo   ‘programma   minimo’   che   denota,   sull’onda   della   impostazione  berneriana   del   1935,   importanti   punti   di   contiguità   con   il   filone   azionista­ repubblicano e liberalsocialista. Non mancheranno comunque gli appelli “ai  socialisti onesti” ed alla collaborazione fattiva con la base del Pci. 

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La   proposta   anarchica   del   ‘Fronte   Unico   dei   Lavoratori’   si   inserisce   nei  contesti diversificati della lotta armata e della criticata esperienza dei CLN,  della   riorganizzazione   del   movimento   operaio   a   sud   e   nelle   zone   liberate,  innescando però non poche contraddizioni. Ci si oppone comunque, dentro la  Confederazione   Generale   del   Lavoro,   al   nuovo   totalitarismo   sindacale  dominato dai partiti. Si cercano anche effimere alleanze con i settori della  dissidenza comunista come nel caso della fondazione a Milano nel 1944 della  Lega dei Consigli Rivoluzionari. Ma i nemici più convinti di qualsiasi possibile  versione del Fronte Unico rivoluzionario dei lavoratori sono gli Alleati i quali,  tramite   connivenze   ad   ogni   livello,   non   esitano   a   fare   abbondante   uso   di  sistemi   repressivi   giungendo   fino   all’eliminazione   fisica   di   quadri   scomodi  della Resistenza, come nel caso degli anarchici piacentini Canzi e Fornasari. La fine del regime mussoliniano coincide nel meridione con la rinascita e lo  sviluppo di quel filone socialista­libertario popolare e contadino rimasto allo  stato di latenza negli anni del fascismo. Per gli anarchici che si trovano nel  Regno del Sud si tratta di combattere una vera e propria guerra su due fronti  e   non   solo   dunque   contro   i   nazifascisti,   per   la   libertà   di   stampa   e   di  organizzazione   negata   dagli   eserciti   ‘liberatori’   delle   grandi   nazioni  democratiche. Alla   vigilia   dell’insurrezione   di   aprile   i   partigiani   anarchici   lanciano,   dalla  Genova   dei   portuali,   l’ultimo   appello   al   popolo,   mentre   ancora   da   Firenze  “Umanità Nova” ripubblica il ‘programma minimo’.           La   Resistenza   si   sviluppa   come   è   noto   in   quei   territori   dell’Italia   centro  settentrionale   rimasti   in   mano   tedesca   e   costituenti   la   Repubblica   Sociale  Italiana.   Gli   anarchici   partecipano   alla   lotta   armata   in   maniera   cospicua  quanto a tributo di uomini e di sangue, ma subiscono d’altro canto totalmente  l’egemonia   delle   altre   forze   della   sinistra.   Talvolta   militano   in   proprie  specifiche  formazioni  partigiane,  ma   più  spesso  si  trovano  inquadrati nelle  “Garibaldi”, nelle “Matteotti” o in G.L. A Roma gli anarchici sono presenti in particolare nella formazione comandata  dal   repubblicano   Vincenzo   Baldazzi,   personaggio   noto   per   la   sua   antica  amicizia per Malatesta. Fra i caduti: Aldo Eluisi alle Fosse Ardeatine; Rizieri  Fantini, fucilato a Forte Bravetta; Alberto Di Giacomo detto ‘Moro’ e Giovanni  Gallinella deportati a Mathausen senza ritorno; Ettore Dore (di origine sarda,  già combattente della colonna Ascaso in Spagna) rimasto ucciso durante una  missione oltre le linee. Nelle   Marche   gli   anarchici   militano   nelle   differenti   formazioni   partigiane  presenti ad Ancona, Fermo, Sassoferrato e a Macerata dove cade Alfonso  Pettinari, già confinato, commissario politico in una brigata ‘Garibaldi’.

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Piombino operaia, centro siderurgico con una notevole tradizione libertaria e  sindacalista   rivoluzionaria,   è   la   protagonista   di   una   sommossa   popolare  contro   i   nazifascisti   già   il   10   settembre   1943.   Fra   i   protagonisti  dell’insurrezione Egidio Fossi, Renato Ghignoli e Adriano Vanni; quest’ultimo  attivo poi nella resistenza in Maremma. A Livorno gli anarchici sono tra i primi ad impadronirsi delle armi custodite  nelle   caserme   e   nell’Accademia   navale   di   Antignano   al   fine   di   rifornire   le  bande partigiane. Inquadrati nei GAP e nella Divisione Garibaldi partecipano  ad   operazioni   di   guerriglia   nelle   provincie   di   Pisa,   Livorno   e   in   Maremma.  Nell’opera di liberazione dei rastrellati e carcerati si distinguono fra gli altri  Virgilio Antonelli, a sua volta già confinato ed internato dal 1926 al 1941 quasi  ininterrottamente, e Giovanni Biagini. Consistente e determinante l’apporto libertario nella resistenza apuana che  qui assume anche le caratteristiche di vera e propria guerra sociale. Sono  attive   nella   zona   di   Carrara   formazioni   partigiane   libertarie,  complessivamente   composte   da   oltre   un   migliaio   di   uomini,   denominate:  “G.Lucetti”,   “Lucetti   bis”,   “M.Schirru”,   “Garibaldi   Lunense”,   “Elio”,   SAP  “R.Macchiarini”, SAP­FAI. Dopo l’8 settembre un gruppo di anarchici fra cui  Romualdo   Del   Papa   guidano   l’assalto   alla   caserma   Dogali   e   spingono   gli  alpini a  disertare  e ad  aderire alla  lotta partigiana.  Nasce così  la “Lucetti”  comandata   da   Ugo   Mazzucchelli   e   che   agisce   nell’ambito   della   Brigata  Apuana.   Alla   fine   del   1944   lo   stesso   Mazzucchelli,   a   seguito   di   un  rastrellamento  che  costa  la  vita  a  sei dei  suoi  uomini,   ripara  in Lucchesia  salvo poi rientrare prima dell’arrivo degli alleati a liberare Carrara con la sua  formazione “Schirru”. Fra i partigiani anarchici più conosciuti vi sono inoltre il  comandante   Elio   Wochievich,   Venturelli   Perissino,   Renato   Macchiarini,   il  giovanissimo Goliardo Fiaschi, Onofrio Lodovici, Manrico Gemignani, i figli di  Mazzucchelli Carlo e Alvaro, Alcide Lazzarotti, ecc.. A Lucca ed in Garfagnana, sui cui monti agiscono anche militanti pistoiesi e  livornesi, gli anarchici sono soprattutto presenti nella formazione autonoma  comandata da Manrico Ducceschi “Pippo”. Fra i partigiani libertari lucchesi  noti vi sono: Federico Peccianti, nella cui casa si riunisce il CLN; Luigi Velani,  aiutante maggiore nella “Pippo”. A   Pistoia   agisce   la   formazione   anarchica   “Silvano   Fedi”   composta   da   53  partigiani. Il primo gruppo di resistenza si costituisce ad opera di Egisto e  Minos   Gori,   Tito   e   Mario   Eschini,   Tiziano   Palandri   e   Silvano   Fedi.  Leggendaria   la   figura   del   giovane   comandante   da   cui   prende   il   nome   la  banda, vittima di una imboscata dai contorni poco chiari (come testimonierà il  vicecomandante   Enzo   Capecchi)   ­tesagli   dai   tedeschi   su   probabile   “delazione di italiani”. La stessa formazione, con Artese Benesperi alla testa, 

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è la prima ad entrare in Pistoia liberata. A   Firenze   si   costituisce,   alle   dipendenze   del   comando   militare   del   Partito  d’Azione,   una   prima   banda   armata   che   agisce   sul   vicino   monte   Morello  comandata   dall’anarchico   Lanciotto   Ballerini,   caduto   in   combattimento  medaglia d’oro alla memoria. Al poligono di tiro delle Cascine sono fra gli altri  fucilati gli anarchici Oreste Ristori, settantenne già coatto nel 1894, e Gino  Manetti. In provincia di Arezzo gli anarchici sono presenti nella resistenza in  Valdarno, con un’attiva partecipazione anche ai CLN locali, ed in Valtiberina  con   Beppone   Livi   “Unico”   che   assolve   compiti   di   collegamento   fra   la  formazione   ‘Bande  Esterne’,  i  comitati  di  liberazione   aretino  e   toscano,   ad  Arezzo e a Firenze. A Ravenna si ha una folta presenza libertaria nella 28^ Brigata Garibaldi e  rappresentanza adeguata nel CLN provinciale. La prima pattuglia partigiana  che entra in Ravenna liberata è comandata dall’anarchico Pasquale Orselli.  Notevole il tributo di sangue. In   provincia   di   Bologna   e   Modena   gli   anarchici   contribuiscono   alla  costituzione delle prime brigate partigiane a Imola con la “Bianconcini”, ed a  Bologna con la “Fratelli Bandiera” e la “7^ Gappisti”. A Reggio Emilia cade  fucilato Enrico Zambonini; un distaccamento della ‘Garibaldi’ prenderà il suo  nome. A Piacenza si ergono le figure di Savino Fornasari e di Emilio Canzi,  accomunati   dal   singolare   destino   di   morire   in   incidenti   stradali   causati   da  automezzi alleati. Canzi in particolare comanda tre divisioni e 22 brigate, per  un totale di oltre diecimila partigiani! Le formazioni di La Spezia e Sarzana agiscono in stretto contatto con quelle  della vicina Carrara con due gruppi comandati dagli anarchici Contri e Del  Carpio.   Renato   Olivieri,   già   detenuto  politico   per   23   anni,   e   Renato   Perini  cadono durante uno scontro a fuoco con i nazifascisti. A   Genova   la   presenza   libertaria   nella   resistenza   supera   i   400   partigiani  (“Pisacane”,   “Malatesta”,   SAP­FCL,   SAP­FCL   Sestri   Ponente),   di   cui   25  caduti   in   combattimento.   Qui   la   Federazione   Comunista   Libertaria,   fallita  l’ipotesi di Fronte Unico, deve affidarsi per la lotta armata unicamente alle  proprie forze. Nella Torino industriale, particolarmente alla FIAT e durante l’insurrezione alle  ‘Ferriere   Piemontesi’,   agisce   la   formazione   anarchica   denominata   33°  battaglione   SAP   “Pietro   Ferrero”.   Fra   i   caduti:   Dario   Cagno,   fucilato   per  complicità nell’uccisione di un gerarca, e Ilio Baroni, già ardito del popolo a  Piombino.   Nell’astigiano   si   registrano   invece   presenze   libertarie   fra   i  ‘garibaldini’.  A   Milano   la   lotta   clandestina   è   iniziata   da   Pietro   Bruzzi   che   viene   subito  catturato ed ucciso dopo tortura  dai nazifascisti. Gli anarchici  dopo  la sua 

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morte costituiscono le brigate “Malatesta” e “Bruzzi” forti di 1300 partigiani, in  un secondo momento inquadrate nelle formazioni “Matteotti” e che avranno,  sotto il comando di Mario Perelli, un ruolo di primo piano nella liberazione di  Milano.   A   Como   opera   la   “Amilcare   Cipriani”;   in   provincia   di   Pavia   la   2^  Brigata   “Malatesta”;   mentre   nel   bresciano   gli   anarchici   sono   attivi   in   una  formazione mista G.L.­Garibaldi. A   Verona   l’anarchico   Giovanni   Domaschi   (11   anni   di   carcere   e   nove   di  confino, due evasioni) fondatore del locale CLN, viene arrestato dai tedeschi  e deportato a Dachau dove muore. In Friuli Venezia Giulia alcuni anarchici sono inseriti in formazioni comuniste  come   la   Divisione   Garibaldi­Friuli.   A   Trieste  i   collegamenti   con   i   partigiani  sono tenuti da Giovanni Bidoli, poi scomparso nei lager tedeschi insieme a  Carlo Benussi, un altro anarchico friulano. Attivo anche Nicola Turcinovic che  ben presto però si trasferisce da Trieste a Genova dove continua a militare  nelle   formazioni   partigiane   della   FCL.   Nell’alta  Carnia,   dove   Italo   Cristofoli  muore   durante   l’assalto   alla   caserma   tedesca   di   Sappada,   gli   anarchici  contribuiscono alla costituzione di una Zona Libera autoamministrata. “Le   loro   formazioni   di   combattimento   ­   ha   scritto   Cerrito   in   merito   alla  partecipazione   anarchica   alla   Resistenza   ­   rimangono   legate   al   Partito  Comunista,   al   Partito   Socialista,   al   Partito   d’Azione.   Nei   CLN   ai   quali  partecipano con delegati qualificati non riescono mai ad imporre una linea  politica rivoluzionaria, un atteggiamento in qualche modo orientato in senso  libertario.   Anche   se   essi   non   sono   secondi   a   nessuno   nella   lotta   armata  contro   il   nazifascismo,   non   riescono   a   superare   il   gradino   di   inferiorità  psicologica in cui li pone la loro carenza organizzativa e la mancanza di un  programma politico uniforme”. Dopo la liberazione ­ mentre al sud il movimento si trovava già ad un buon  livello   organizzativo   una   volta   costituita   l’Alleanza   Gruppi   Libertari   ­   le  federazioni comuniste libertarie che man mano si erano costituite convocano  a   Milano   il  primo   convegno   interregionale   per   l’alta   Italia  nel  giugno   1945.  All’odg:   l’unità   sindacale   e   il   tema   ostico   della   collaborazione   libertaria   ai  CLN;  la riorganizzazione  del  movimento  giovanile  e  la convocazione di  un  congresso costitutivo della FAI. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE AA.VV., Atti della giornata di studi su L’Antifascismo rivoluzionario. Tra passato e presente,  Pisa 25 aprile 1992, BFS 1993;  AA.VV.,  Giornali   anarchici   della   Resistenza   1943­’45   /   Gli   anarchici   e   la   lotta   contro   il   fascismo in Italia /     Il fuoriuscitismo in Francia e Spagna , Ediz. Zero in Condotta, Milano  1995; A. DADA’, L’anarchismo in Italia: fra movimento e partito. Storia e documenti dell’anarchismo  italiano, Teti editore Milano 1984;

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