1
Giulio Stocchi
L’altezza del gioco
2
3
Giulio Stocchi
L’altezza del gioco
4
5
Indice
L’altezza del gioco
p. 9 Agli estremi confini 15 Nel cerchio 31 La parola giusta 39 Il rovescio del discorso 61 Le variazioni tedesche 71 Con speranza di preda 77 Essere come rinati 87 Morgana 103 Afferrati ai gorghi 111 Palestina 123 Un frutto d’appartenenza 141 Il ragno e il poeta: caso, libertà, necessità 149 Lezione di anatomia 163 Il segreto del vento 169 Il corpo della poesia 175 La gloria di dio 187 Il sogno di Nino 195 L’allodola pazza
6
7
L’altezza del gioco
8
A Deborah Strozier perché fu nel tuo deserto l’acqua
9 A mo' di introduzione Conversazione di Massimo A. Bonfantini con Giulio Stocchi MAB: Ma come ti è venuto in mente di fare il poeta? Quando? E perché? E quali sono stati i tuoi primi maestri? E i primi temi e motivi? Giulio: Più che venirmi in mente, la poesia mi è entrata in corpo. Ricordo benissimo: La sala di Via Sapeto, dalle parti di corso Genova, con i mobili che mio padre aveva comprato d'occasione da una famiglia di sfollati quando ancora Milano bruciava nella guerra, il tavolo enorme, la credenza col soldatino di Capodimonte con cui, malgrado tutti i divieti, ero solito giocare, e lo specchio che rifletteva l'immagine di un bimbo, chino sul suo diario rilegato in cuoio, molto anni '50, col ritratto della Fornarina in copertina. Su una pagina il bimbo aveva incollato la foto dei suoi genitori, più giovani allora di quanto non sia io adesso. E sotto quella foto scriveva, preso da una strana agitazione, una sensazione quasi fisica, di rapimento, di batticuore, di esaltazione. Qualcosa che avrei riconosciuto alcuni decenni dopo nella parole di Valéry: "Mi sono trovato un giorno ossessionato da un ritmo, che divenne improvvisamente assai sensibile alla mia mente...". Un ritmo che cercava delle parole. Fuori dalla finestra, Milano era ancora una distesa di macerie, su cui qua e là si levavano le impalcature della ricostruzione. E il bimbo riempiva quel ritmo con le parole che erano sue: "Un giorno nella spazzatura/trovai un mazzo di carte/sporche stracciate fra la segatura...". E la sua vertigine cresceva: per la prima volta l'universo si era messo in rotazione seguendo il gioco ingenuo di quelle prime rime: "Mi fecero pena le povere carte/le raccolsi con cura dalla sozza segatura/le pulii e le posi fra un portacenere e un fermacarte.." E obbedendo a quella voce che "mi dittava dentro", seguivo l'avventura del povero mazzo che cercava un'improbabile ascesa sociale che si concludeva con la condanna del suo ritorno alla spazzatura, sancita da questa sentenza: "Se sei di bassa condizione/non tentar di andare in alto/che il fermacarte oggi mi dié gran lezione". Una massima, questa, che tutta la mia vita futura si sarebbe incaricata di confutare. Ma allora era quello che mi avevano insegnato, e nello stesso tempo mi invitavano a trasgredire, gli abiti decorosi e gli occhi tristi di quell'uomo e quella donna che mi fissavano dalla foto in Piazza Duomo. E allora, com'é naturale nella primissima adolescenza, e ormai conquistato dalla magia di quella voce che mi aveva toccato nell'infanzia e seguire la quale significava "fare il poeta" cercavo altri modelli che mi aiutassero a sciogliere quel "doppio legame", l'imposizione di una regola e, nello stesso tempo, l'invito alla disobbedienza. A stare a quel curioso libro che è L'angoscia dell'influenza di Harold Bloom, in cui lo studioso considera la storia della poesia come una lotta che ogni poeta ingaggia (come fa ogni figlio col suo genitore naturale) con il padre poetico che si è scelto, il mio romanzo famigliare è davvero complicato. Verlaine, Rimbaud e soprattutto Baudelaire il ritratto del quale campeggiava sul mio letto di quindicenne sono stati i miei primi modelli. Padri severi, pur nella loro dissolutezza, e che anzi, proprio col disordine della loro vita mi indicavano la via della ribellione. MAB: La poesia è fatta di suoni, concetti, immagini, che si rimandano in segrete correspondances, per ricordare Baudelaire.
10 Ma a me sembra che, prima del gioco dei simboli, nella tua storia di poeta, di poeta recitante, sia importante il tuo gioco con il canto, con la tua e le altre voci. Giulio: In verità le poesie che scrivevo al ginnasio, quelle dedicate ai primi, timidi, amori erano, ti assicuro, piene di "corrispondenze", come pure di tutto quell'armamentario di nebbie, violini, luna, funerali, mendicanti, prostitute, assenzio che i miei primi maestri mi avevano lasciato in eredità. Le figure del mio ideale mazzo di carte cominciavano a moltiplicarsi... E tuttavia la tua domanda coglie un tratto, e un tratto essenziale, della mia fisionomia: se debbo ripensare alla mia esperienza di poeta, di cui del resto L'altezza del gioco è il resoconto che copre l'arco della mia vita, debbo dire che uno dei cardini, delle fondamenta, se non il cardine e le fondamenta, del mio modo di fare e di intendere la poesia, sia la mia profonda convinzione circa la primazia, la priorità della voce sulla scrittura, che della voce è una pallida e, per certi versi, mutilante trascrizione. Perché solo nella viva voce del poeta che può essere naturalmente anche semplicemente voce interiore, che risuona per così dire nel suo cervello si articola quel gioco di suono e di senso, o, se vuoi, di immaginazione e di ragione, che è il gioco stesso della poesia. Sempre Valery dice una profonda verità quando afferma che la poesia è lo sviluppo di un'interiezione. Lo sviluppo, appunto: l'edificio della poesia poggia sulla materialità del suono. Il poeta gioca coi suoni, come facevamo tutti da bambini e come, fra gli adulti, fanno i "matti". E' questo l'aspetto propriamente regressivo, "patologico", materiale, della poesia, che fa del poeta quell'entusiasta, quell'en zeòs, quel pieno di dio, quel folle di cui parlava Platone nello Ione. La mia vita e la mia esperienza hanno, da questo punto di vista, una strana e per certi versi straordinaria coerenza: essere fedele a quel brivido, a quella vertigine, a quel brusio, a quel suono in una parola alla "ispirazione" che s'erano imposti al bambino che ero con tanta imperativa evidenza e fare di essi lo strumento per sciogliere quel nodo che ti dicevo. MAB: Il gioco coi suoni ha in te, con piena spinta spontanea e con attento esercizio di pensiero, due relazioni molto importanti: una con la musica, l'altra con l'impegno eticopolitico... Giulio: Tutto il resto è venuto, per così dire, da sé: l'incontro con la musica che può dare frutti solo là dove la voce sviluppi tutte le sue potenzialità per fondersi o dialogare con gli altri strumenti; la costruzione dei miei libri come vere e proprie partiture in attesa di un'eventuale esecuzione; la partecipazione entusiasta ai lavori e agli studi del Club Psomega che tu hai fondato e di cui si tratta ampiamente nel libro proprio perché credo che la poesia sia una delle forme più alte e originali di pensiero inventivo e basi le sue invenzioni su quel gioco di suono e senso cui ho accennato. Per quanto riguarda la musica, i percorsi dell'invenzione mi hanno riservato non poche sorprese. L'orchestrazione percussiva di molte mie poesie consigliava, per così dire, un matrimonio fra le mie parole e le note di molti dei protagonisti del jazz italiano contemporaneo, fra cui Gaetano Liguori e Arrigo Cappelletti. Due pianisti dal temperamento molto diverso: esuberante il primo quanto più introverso e riflessivo il secondo, definito non a caso il "filosofo" del jazz. Ebbene una mia poesia, particolarmente frivola e libertina, ha deciso di accompagnarsi prima all'uno e poi all'altro, facendomi scoprire qualcosa che intuivo, ma che in quelle frequentazioni un po' malandrine mi si imponeva con l'evidenza che solo la pratica ha. Come nella vita, quando ci si innamora di uomini o di donne diverse, ognuno, entrando in risonanza con l'altro, mette in
11 evidenza aspetti diversi del suo carattere, così la mia poesia rivelava certi tratti di vivacità spaccona col primo e una sobrietà più contenuta con l'altro. Questo per dire che la mia creatura reagiva in modo vivo e non stereotipato: un corpo fatto di suoni e di sensi che si stringeva a un altro corpo fatto di suoni e di sensi. O, fuor di metafora, due sistemi significanti ed espressivi che interagivano, condizionandosi a vicenda. Mi chiedi infine del mio impegno: a ben vedere, anche la mia vocazione "rivoluzionaria" ha qualcosa a che fare con la poesia, così come io la intendo. Se è vero che la poesia affonda le sue radici nel felice e gratuito gioco dei suoni della nostra infanzia, se è vero che l'infanzia è lo scrigno di tutte quelle promesse che un'organizzazione livida e feroce della società si incaricherà di smentire, allora la poesia e il poeta non potevano non essere al fianco di chi lotta perché i colori dell'infanzia e la sua luce trionfino. Forse per questo un altro poeta a me caro, Juan Gelman, dice che la poesia è sempre anticapitalista. MAB: Ma tornando alla tua storia, alla tua vita. Dunque, come hai detto, scrivevi poesie già al ginnasio e al liceo... E poi che cos'hai fatto? Quale facoltà? E quale scelta di attività, di lavoro, di professione? Giulio: Innamorato del suono, della voce, l'unico diploma che mi sia guadagnato è stato quello di attore, proprio per sviluppare, indagare e sfruttare le capacità della voce, per restituire attraverso di essa quella materialità del suono di cui parlavo e che mi ha sempre abitato. Fallito il tentativo di guadagnarmi un'altra laurea in filosofia per il rifiuto di Spinazzola, il mio professore di italiano di allora, di accettare il mio poema come tesi, e stanco di recitare parole altrui, in un'esperienza di attore che del resto mi è stata utilissima, mi sono presentato, vincendo tutte le mie possibili timidezze, introversioni e via dicendo, e armato della mia sola voce, di fronte a uno dei "pubblici" più difficili e tradizionalmente esclusi dalla poesia: gli operai, gli sfruttati, gli ultimi, gli indifesi. Un'esperienza unica e indimenticabile che mi rende francamente incomprensibile l'eterna lagna dei poeti circa la scarsità o la sordità del pubblico. Il pubblico, gli ascoltatori sono lì. Basta avere la volontà, la capacità e l'umiltà di presentarsi e avere anche magari la forza di sollevare gli occhi dal proprio ombelico e guardare il mondo, le sue contraddizioni, i suoi drammi, la sua ricchezza e la sua speranza. Con questo non voglio assolutamente dire che la poesia debba essere "civile", "sociale", "rivoluzionaria" e via tromboneggiando. Quello che voglio dire è che la poesia può trattare di qualsiasi argomento e chi la vuole rinchiudere nella gabbia esclusiva del proprio "intimo", della propria "anima", della propria "individualità", e via misticheggiando, compie né più né meno che una violenza, come quando si mette un uomo in prigione. MAB: Del tuo poema fai cenno anche nell'introduzione del tuo libro Compagno poeta, pubblicato da Einaudi nel 1980. In questo tuo libro di ora, L'altezza del gioco, che cosa c'è di quel tuo antico progetto? Giulio: Il poema è per così dire l'opera della mia vita, nel senso che mi impegna ancora adesso.
12 Scritto fra il '69 e il '73, in quegli anni di assemblee, ragionamenti, manifestazioni, solidarietà, amore che sono il dato indimenticabile della mia giovinezza, è stato continuamente rimaneggiato, rivisto, sistemato: dei centoventi e più canti di allora, ne sono rimasti novanta, alcuni dei quali ho utilizzato, senza il numero d'ordine, ne L'altezza del gioco. La stesura di questo libro mi ha occupato per circa sei mesi, dall'estate del '99 al gennaio del 2OOO. Si tratta, come Compagno poeta, di un prosimero un alternarsi cioè di versi e prose che trova nella Vita nova di Dante il più illustre esempio nella nostra storia letteraria e di quel mio primo libro è l'ideale continuazione. Se la stesura dell'opera mi ha impegnato sei mesi, i materiali, gli scritti di cui è composta coprono più di trent'anni: dai canti del poema, alle poesie di agitazione, a quelle di riflessione o di amore, ai racconti, alcuni dei quali, come ad esempio Essere come rinati, ho scritto appositamente. MAB: Insomma nell'estate del '99, alla fine del millennio, hai ripreso il discorso e i materiali maturati dopo Compagno poeta. Il nuovo libro è come un Vent'anni dopo dumassiano. Con fedeltà e continuità, con approfondimenti e innovazioni. O no? Giulio: Mi trovavo, quell'estate, di fronte a una massa sterminata di materiale: si trattava di dare ordine, unità, organicità al tutto. E qui è divenuto protagonista del mio lavoro quello strumento del montaggio inteso proprio in senso cinematografico. Come dice Pudovkin ne La settima arte: "Con una serie di tentativi e di prove, e con la cosciente composizione artistica, il regista crea le 'frasi di montaggio', dalle quali, passo passo, risulterà la definitiva opera d'arte". Su quell'ideale moviola che era il tavolo di cucina della mia casa di Chiavari prima, e sulla scrivania di Milano poi, si trattava insomma di cucire insieme epoche, frammenti, maturità, generi e stili diversi. Il principio cui mi sono ispirato, e del successo del quale non sta a me giudicare, è stato quello di costruire, attraverso le "frasi di montaggio" che sono gli accostamenti di cui mi sono avvalso, un discorso che restituisse la mia immagine e la mia storia, la storia degli anni del nostro immediato passato e presente, proiettata sullo sfondo di una vicenda mitica, quella degli ulissiadi e del viaggio per mare che popolano il mio libro, viaggio per mare magistralmente illustrato nel volume dalle fotografie di Fulvio Magurno, un artista ligure di cui la sensibilità di Grazia Neri mi ha proposto e fatto conoscere l'opera che desse in un certo qual modo spessore e prospettiva al tutto. E per sottolineare questa faticata unità, le citazioni in esergo ad ogni "capitolo" sono, per così dire, il filo ideale che cuce insieme il tutto: la prima citazione in esergo a Agli estremi confini è tratta dall'ultima lassa del libro, L'allodola pazza, e via via tutte le altre prese dai brani che immediatamente precedono. E che fosse infine il libro anche, e forse soprattutto, il resoconto di un certo modo di fare e di intendere la poesia. Quel gioco cioè, la cui altezza ho voluto ricordare nel titolo e che costituisce, ove riesca, quella che io, non credente, chiamo "la gloria di dio", e cioè la voce dell'uomo che supera la sfida del tempo e della morte.
13 MAB: Quanto contano nel tuo lavoro, come ispiratori e voci con te dialoganti, Neruda e Majakovskij? Giulio: Neruda ha posato sulle mie labbra le parole con cui per la prima volta mi avventuravo alla scoperta di quel continente che è il corpo di una donna e mi ha lasciato per sempre in dono lo sguardo lirico con cui mi volgo al mondo. Majakovskij mi apparve come un gigante, non solo per la statura che ebbe in vita, ma per quel suo impegnare tutto se stesso, il suo corpo e sopratutto la sua voce, per dare forza e vigore alle sue parole, quelle parole con cui si presentava alle assemblee operaie, ai soldati, ai contadini, ai proletari del suo tempo. Una lezione indimenticabile, che ho cercato di mettere a frutto nelle mie poesie di piazza, nel contatto che per tanti anni ho avuto con le masse di questo paese e per cui Nico Orengo, non senza ironia, aveva intitolato, su "Stampa libri", un articolo che mi riguardava, Majakovskij alla Bovisa. Aver portato la poesia in quei grigi quartieri è il mio orgoglio e il mio onore. MAB: La didascalicità di Brecht, e talora anche di Dario Fo, l'invettiva beat e il cantare delle immagini di Breton e forse di Queneau mi sono spesso sembrati tuoi nutrimenti, seppure sempre ripresi secondo una tua cifra inconfondibile, liricoepicopopolare, con un sapore esistenziale ed espressionista alla Tessa... Giulio: Brecht mi ha fatto capire come fosse la poesia anche ragionamento di estrema ed efficacissima acribia mentre, all'altro capo del filo, i surrealisti mi svelavano la ricchezza dell'abbandono al gioco della lingua con la loro scrittura automatica foriera di imprevedibili scoperte con i suoi bizzarri accostamenti. Un altro dei territori, le sterminate lande della metafora, i regni dell'analogia, che ho continuato instancabilmente a percorrere. Mentre l'urlo di Ginsberg e dei suoi sodali, oltre a rivelarmi il volto di un'America diversa da quella degli psicopatici che oggi risiedono alla Casa Bianca, mi ha indicato, nelle sue cadenze e nelle sue dissonanze, la strada di un accostamento alla musica, al jazz in particolare, come ti dicevo. Ma, a proposito di Dario Fo voglio raccontarti un aneddoto gustoso. In quel periodo tormentato in cui praticamente vivevo sulla soglia di casa mia, senza ancora risolvermi a varcarla e iniziare quell'esperienza di poesia di piazza che per tanti anni mi ha visto percorrere questo paese, un giorno ho telefonato a Dario per chiedergli un consiglio, un parere. Dopo estenuanti trattative, rinvii, ripensamenti, finalmente Dario acconsente a ricevermi all'una di notte, dopo lo spettacolo, a casa sua, che allora era in Piazza Baracca vicino a dove abito io. L'attore mi riceve in cucina, dove insieme a Franca Rame sta sgranocchiando un panino. Guarda un po' perplesso la valigia il cui peso mi faceva sbilenco; un'ombra di panico gli corre negli occhi quando vede la massa sterminata di fogli del mio poema che tiro fuori da quella specie di bauletto; obietta infastidito che essendo lui un attore non c'è bisogno che il poema glielo legga io; si rassegna alla mia determinazione e dopo circa un minuto, proprio quando la mia voce con le sue armoniche più flautate e persuasive si avventurava "in un delirio di stelle e di alberi", mi interrompe, dice che un proletario non avrebbe mai usato la parola "delirio" e mi congeda con una pacca sulle spalle e qualche frase di cortesia. Salvo poi, alcuni mesi dopo quando, fatto il gran passo fuori
14 da casa mia, mi aveva ritrovato sul palco di un comizio, presentarmi con un: "Ascoltatelo bene: questo è un ragazzo che vale molto", che ricompensava l'incomprensione di quella sera e riconosceva la mia cifra inconfondibile, alla Tessa, come dici tu... MAB: Ma parliamo un poco dei nostri classici. Io penso che come giustamente diceva Carrà per la pittura, che bisognava ripartire da Giotto, così penso che ogni poeta italiano debba ripartire da Dante. E radicare il suo moderno impegno nella linea PariniLeopardi. E poi? Giulio: Dei nostri grandi, Dante è stato per così dire il "miglior fabbro", il mastro architetto che mi ha fatto capire come ogni libro, ogni poema, ogni poesia, sia un edificio da costruire con l'esattezza e la pazienza dei vecchi artigiani; debbo ricordare che, accanto a Dante, Petrarca, mi ha confermato come la poesia ma del resto anche l'arte e la cultura sia in ultima analisi la sola sfida alla morte che uomo possa con successo lanciare; di Parini mi ha sempre affascinato lo spirito corrosivo, la sapienza con cui, con pochi tratti, restituisce personaggi a tutto tondo, come la dama, il cicisbeo, il debosciato della sua straordinaria descrizione della festa di una società estenuata e corrotta, per tanti versi simile alla nostra; e infine Leopardi, l'empirista e l'unico vero materialista della nostra storia letteraria, come dice Brioschi, m'ha mostrato, al pari di Brecht, come il pensiero possa distendersi nelle cadenze dei versi in una forma altrettanto precisa della filosofia che ti è cara e di cui mi sei maestro. Ma, si parva licet, c'è una grande affinità fra i Canti di Leopardi ed il libro che vi apprestate a leggere. Una affinità formale che riguarda la coralità delle voci che nelle due opere si affacciano: Giacomo, Bruto, Saffo, il pastore errante, Simonide... nei Canti. Io, Calcante, Monsieur Aghion, Margherita, Ulisse... ne L'altezza del gioco. E un'affinità sostanziale perché entrambi i libri hanno come protagonista il tempo, e il tempo inteso non come aivn, il tempo trascendente dell'essere, ma proprio come cronos, il tempo che ci va dissipando e sfuggire al quale, come dicevo poc'anzi, costituisce per un poeta, per un artista la posta più alta del gioco. MAB: Io so bene che gli artisti e gli scrittori veri non riconoscono maestri nei loro contemporanei. Mio zio Sergio Bonfantini, il pittore, aveva però considerazione per qualche connazionale più anziano: per certi temi o 'trucchi', beninteso, più che per la poetica o la visione del mondo in generale. Così, stimava Sironi rilevante, e persona da cui aveva imparato più che dal suo maestro 'di bottega' Casorati. E tu? Da chi hai imparato? Da Montale non direi. E fra gli stranieri? Hai un debito forse un po' strano con Ezra Pound? E, magari più riconoscibile con certo Enzesberger? Giulio: E invece da Montale ho imparato molto, il senso della misura, della decenza in un'epoca di tromboni e cartapesta come quella in cui scriveva durante il fascismo. E proprio in questo mattino presto di giovedì 20 marzo 2003, mentre da poche ore è scoppiata una guerra dagli esiti imprevedibili, e comunque catastrofici, la sua lezione mi torna in mente ancora più forte di fronte alla galleria di piazzisti, pagliacci, delinquenti che la televisione ci mostra ogni giorno e che sarebbe la classe dirigente di questo sventurato paese. Senza contare il mio tema preferito, il
15 rapporto suonosenso: "Buffalo", dice da qualche parte "Eusebio", "e il nome agì..." Fortini, che ho avuto la ventura di incontrare per la prima volta a 18 anni in certi garage frequentati dai Quaderni rossi, dove la mia ribellione cominciava ad assumere sfumature rivoluzionarie, è stato invece l'esempio dell'impegno, di quell'engagement che Sartre ci aveva insegnato e di cui Franco è stato il campione più coerente fino all'ultimo in Italia. Con "Zio Ez" il debito c'è, e come! Mi ha insegnato che la poesia è un edificio che può essere costruito coi materiali più disparati, nessuno dei quali è, a priori, "antipoetico", come vorrebbero i piccoli orfei nostrani. E poi, come non avere simpatia per un poeta il quale a Mussolini che gli chiedeva "Pound, cosa posso fare per voi?", durante un incontro che l'americano aveva a lungo mendicato, rispondeva: "Non fate la guerra Duce: lasciatemi il tempo per finire il mio poema"? Enzesberger è stato per me il conservatore che ha consegnato la storia del novecento in quel vero e proprio museo delle cere che è il suo Mausoleum. E serbare la memoria non è forse uno dei compiti della poesia che, non a caso, gli antichi consideravano figlia di Mnemosine? E infine Nanni Balestrini: è stato un incontro tardivo, attorno agli anni 80, quando ormai pregi e difetti mi si erano consolidati nel volto e nella fisionomia che mi sono costruito. Ma non meno significativo quell'incontro perché, da una parte mi confermava l'importanza di quello strumento del "montaggio" di cui ti parlavo e dall'altra mi rivelava la possibilità e la capacità della cosiddetta "avanguardia" di uscire dal recinto degli spettrali ed esangui cruciverba cui spesso si condannava, e sciogliersi in un canto civile ed appassionato, come avviene in Blackout. Tutta quella folla che, nel poemetto di Nanni, si riversa per le strade, nella New York del black out del '78, e sfascia, e rompe, e ride e canta è una delle immagini più potenti di ciò che succede quando quelli di "bassa condizione", come dicevo nei miei lontani versi infantili, acquistano coscienza della loro forza. Così come il canto della mia Allodola, che conclude il libro che state per aprire, rovescia le certezze che mi erano state insegnate da bambino, paga la promessa che ho fatto alla rassegnazione dei miei genitori e attesta che la rivoluzione è avvenuta. Almeno in poesia. Ma non dice Kunert che dietro la poesia avanza il futuro?
16 Giulio Stocchi è nato nel 1944. Ha studiato filosofia all'università statale di Milano e recitazione all'Accademia dei Filodrammatici. La sua attività poetica pubblica è iniziata nel 1975. Da allora, e per molti anni, i suoi palcoscenici sono stati le piazze, le fabbriche occupate, le manifestazioni popolari; oggi i teatri, le sale di conferenza, le università: ma sempre caratterizzando la sua poesia per un originalissimo contatto con il pubblico. Particolarmente attento alle valenze sonore della poesia, Stocchi ha pubblicato diversi dischi: Il dovere di cantare (Premio nazionale della critica discografica), Punto e a capo, La cantata rossa per Tall el Zaatar (con la collaborazione del musicista Gaetano Liguori), recentemente ripubblicato in CD da Sensible Records di Radiopopolare, Da sogni e da città sempre con Liguori. Ha pubblicato presso Einaudi il volume di versi e prosa Compagno poeta. NonSoloParole.com ha pubblicato in forma cartacea nocopyright In tempo di guerra che l’autore aveva precedentemente distribuito in rete nelle versioni italiana, inglese e spagnola Per i tipi della CUEC di Cagliari è stato stampato nel 2003 L’altezza del gioco. Le Edizioni Lavoro Liberato hanno pubblicato nel 2007 Ciò di cui si parla con disegni di Paolo Dorigo. Fa parte del Club Psòmega che unisce artisti, filosofi, scienziati nello studio del pensiero inventivo. Ha partecipato con suoi saggi e poesie ai volumi collettivi Il pensiero inventivo, Milano, Unicopli, 1992 , La vita inventiva, Napoli, ESI, 1998, L’inventiva:Psomega vent’anni dopo, Milano, Moretti, 2007 di cui è cocuratore.
17
L’altezza del gioco
18
Agli estremi confini
la polvere cadendo ricorderà sospiri di deserti percorsi
19
20
Ed arrivati agli estremi confini si fece avanti Calcante con occhi di lustro vento ghiacciati dal sonno notturno imprecato nella forma dei cavalli alati intravisti nei sogni per dire il volo di uccelli a sinistra e l’onda di viole appassite mischiate a giacinti dove le agavi invadevano profumi di spezie intonando canti sulla cetra oscura un pianto e un gorgoglìo spezzava la voce vedendo nel dono concesso lutti e rovine dei compagni di viaggi marini ritto al cielo levando le braccia all’amore invocava il nome gridato di infrante bottiglie di vetro impallidendo e piangendo nel covo senza sapere neppure allora fermare la gola dei venti e i sospiri del nostos uomini mi sentite ascoltate compagni dove oggi sappiamo avventure per sfuggire infamie di roghi notturni e grida di donne il terrore seminerà con passi di vento e sorrisi di stella profonde alghe di pianto ahimè inascoltate e disprezzate parole vedo libri di sconfitta e maestri di lacrime predicare rassegnazione dove prima saggezza gesti inutili e sospiri di mani calanti nuove stelle dagli occhi d’oro accumulate il maltolto e il guadagno di case innalzate con grida di corpi e stive di pianto dai pesci guizzanti
21 calpesteranno i calzari filari di mondi inutili i canti dalle gole di ferro o danze di scarpe chiodate il cielo pieno di annunci e di segni precipiterà dentro scintille di fiamma e mondi perduti senza potere potere potere scotendo i capelli e battendo i piedi in cadenza busseranno alle sponde di porte inconsulte chiuse da spaventi di soli
22 L’altezza del gioco e catene di passi delle fanciulle maleaccoppiate per stenti figlioli dal cibo di rospo accartocciati nelle borse i messaggi genereranno vermi in morta terra con ferite di solchi e sguardi di vuoto la pazzia bandita diverrà regola di ruote rotolanti alla sconfitta uomini mi sentite ascoltate compagni l’ultima voce e la parola della notte non ridirla sarebbe condanna per quelli votati al nulla del contratto della terra e della desolazione dei campi e delle città non costa più fatica l’addio sapendo il futuro e i chiodi le spine i ferri le carte e tutti i cocci del pianto spezzare i soli delle mani in acute grida di unghie quando uccelli dalle ali di fiamma crolleranno con sospiri filanti e sorrisi case di rotolanti anni e accumulate menzogne i nuovi miti e le clessidre rivoltate anzitempo insonni per vegliare madri piangenti di figli mediocri e socchiuse cosce di spose eserciti mossi dal vento intorbidito da aliti maledicenti di bocche bruciate suoni suoni suoni in mezzo a colori di urla e urla e urla non si vedono che strisciare di rovi dalla testa di serpe e parossismi di gesti richiamanti le porte rinchiuse in faccia per fare paura scongiuri di cartelli e di insegne i mirti fioriranno nei canti di stridori lancinati menzogne e menzogne uomini mi sentite
Agli estremi confini 23
ascoltate compagni non ci resta davanti altro io vedo non si conoscono altrimenti i semi predetti o il fondo dei mari i nostri viaggi e i ritorni come le cinture dei corpi o le braccia d’amore vento vento vento odo disprezzare in colpi di accetta e cadere di gesti la vicenda di stagioni ostili ai rami del corpo e all’orma dei passi dell’avvenire fare stracci di bandiere e grida di bocche asservite per scongiurare le tovaglie e le tavole niente più cibo di mondi o libri pane pane miseria che avanza sulle spighe del grano scaveranno dalla terra per fare nuovi insulti di fuoco e materia di canti né raccogliere le urla per poi ridirle sarà mestiere di voci spezzate diversamente agitate dalle mani dei cieli con scrosci di pioggia e temporali uomini mi sentite ascoltate compagni l’ultima voce e la parola della notte nella stella dei sogni filanti imploranti di sconfitte e poltrone non si vedranno le torce quando farà l’alba né grida o canzoni ma solo rimbombi lontani e conti ributtati dal vento sulle carezze dei mari e volti scavati dalle buone lacrime
24 L’altezza del gioco di perle e viole sotto gli occhi nuovi arriveranno con fiaccole e uccelli vendetta gridando vendetta di unghie nel sacco rinfusa dei sogni e sentina di fogne si confonde con la parola il pianto la cenere e la sabbia sulle ultime ondate per ricadere in spruzzi di spume uomini mi sentite ascoltate compagni quando si nasconderanno i padri per non udire i rimproveri o le mani di sangue invano invano lavate invano a richiamare azzurri di cielo e purezza senza potere comperare il gomitolo per tessere di nuovo i giorni del troppo tardi i giorni dell’altrimenti e del peccato i girasoli che seguono gli steli di rugiada e fuggire di cani lungo le strade le strade della discesa verso la notte non si sente altro e difficile è vedere dagli occhi dei giganti di terra e di vetro idoli e feticci di stracci fumi di arcobaleni impiccati e violenza di cieli si confondono in nebbie di soli ed aspro sapore di sale anche se consumata nella luce del giorno la nostra speranza di saggi sulle terre rivoltate da zolle e desolazioni di pianti concimate dai passi cattivi di stoppie bruciate e discordie tra ostriche di perle e molluschi di grida con urla intrecciate nella stella dei sogni filanti
Agli estremi confini 25
uomini mi sentite ascoltate compagni l’ultima voce e la parola della notte solo nell’ora infinita dell’alba riprenderà il viaggio
Nel cerchio
si confonde con la parola il pianto la cenere e la sabbia
Vanno talvolta gli uomini con calendari e con fogli fino agli inchiostri ultimi della notte inseguendo la stella solitaria di un sorriso o forse il silenzio dei ricordi E altro non vedono che strade interminabili fuggire verso il deserto improvviso di una piazza e pietre abbandonate e carte e le foglie scricchiolare fra i numeri del vento Allora il freddo li assale come sull’alba dei moli chi ascolta le infinite domande del mare
Nel cerchio 29
Il riflesso dell’acqua mi rimanda confusa un’eco di stagioni e l’albero non conosce la distanza o cifra racchiusa nella foglia che segue la corrente fino al mare la voce e i volti nel ricordo compongono l’ordito della trama di questa identità che fugge tra sponde rade e ciminiere e coste all’ultimo silenzio che s’appaga
30 L’altezza del gioco
Amore fu di vento che mi spinse all’unica ricerca verso il largo di una terra che l’immagine confonde e ancora trema nel naufragio questa parola rotta che all’incanto flebile di una musica consegno che sappia contro il tempo ritornare voce pura nube orizzonte cielo stella d’equinozio al navigante dove affascina il vuoto e alfabeto di rovina nuotano in cerchio i pesci
Nel cerchio 31
Il mare che ti circonda e tutte le parole che non so più dire perché risuonino come conchiglie i giorni quando un sorriso è l’ultima linea all’orizzonte e si confondono il vento e i naufragi la rotta delle navi verso le isole del sonno perché un giorno partimmo con occhi e con speranze inseguiti da presagi che altri leggevano nel fumo o nella parallela inconsistenza di città strangolate dai fili e dagli autobus sussurrando impossibile e trovando consolazioni di libri in stanze sghembe di libri chiusi con definitivo tonfo al cuore
32 L’altezza del gioco
Ma tu che ogni sera mi torni immagine franta dalle stagioni e dagli anni così che più non conosca né il seme né il gesto e in un gorgo lento affondi fino ad incontrare la sabbia che si rivolta nella interminabile vicenda delle correnti dove si disegnano e dissolvono i volti
Nel cerchio 33
Di lì si diramavano le strade da quel teatrino di carta la dama e il cavaliere perduti sullo sfondo di una sala di festa illuminata sorpresi in atto di muta domanda o nell’attesa forse dei cavalli fatati che bevvero alla fonte di cristallo dei fiumi del sogno e che ancora galoppano lontano da un azzardo cardinale di venti verso il centro dove la rosa avvampa
34 L’altezza del gioco
E io gli chiedevo: “Padre perché tanta tristezza?” “E non voglio” gridavo “non voglio essere uguale a te” “E vattene” dicevo “non tornare non verrò all’appuntamento” Lui mi guardò quasi con un sorriso prima di allontanarsi sui campi grigi dove cade un’interminabile pioggia e s’ode come un’eco di corno tra la cenere e il vento
Nel cerchio 35
La cattedrale gli addii e nell’aria trema la parola d’ombra l’indicibile la trama dei passi e l’onda contro i muri si frange una possibilità d’amore l’età non conta dice il sorriso adolescente m’incanta a una scommessa col suo silenzio mi chiama vorrei io stesso riprecipitare bambino correre nel tempo dove Lina s’allontana non conoscere il nome le carte il tavolo gli anni essere statua conclusa nella notte pietra di questa facciata che vede la figlia che non ebbi rabbrividirmi al braccio mentre il cielo su entrambi scolora
36 L’altezza del gioco
Gioventù la bella quando passano i tram i messaggeri dell’alba e al collo un filo di perle come paesaggio di luna dice di non portare altro che una scintilla tra le mani e il cuore canta e ride e dentro le acque profonde di un sospiro tralucono favole e leggende e tutta la meraviglia delle strade innalza una lode al dio che siede sulla soglia dei bar attraverso una fiumana di sorrisi e la sciarada delle lacrime che saranno
Nel cerchio 37
Gli orologi delle cucine dove l’uomo solo distrattamente mangia fra un muro di piastrelle e una notizia fissando gli occhi lungo le infinite parallele di un rancore senza ricordi e poi scuotendo la testa mormorando come ubriaco le stesse parole per tenersi compagnia o sentirsi disperatamente vivo e quindi alzandosi fra i piatti sporchi testimonianza o maceria di una ripetuta quotidiana sconfitta s’avvicina alla finestra accende una sigaretta di cui stringendosi nelle spalle non tiene più il conto guarda un angolo di cortile fuori dai vetri
38 L’altezza del gioco scaccia il fastidio dell’infanzia che all’improvviso lo prende alla gola nell’eco di un girotondo dabbasso e nel silenzio si abbandona a quel tic tac tic tac tic tac su cui gli fuggono i pensieri mentre fra le dita la brace consumandosi lentamente si fa cenere
Nel cerchio 39
Che parole e che favole sui nostri tavoli ardenti e come brillavano gli occhi Il tempo non era mai abbastanza fra un discorso e l’altro e la bottiglia sul bicchiere aveva quel suono misterioso che faceva passare di fronte ai nostri sguardi perduti tutte le figure delle carte che ancora non erano state distribuite
40 L’altezza del gioco
Il mare… Mi piaceva il mare: contare le conchiglie sulla sabbia. Raccogliere i capelli e abbandonarmi a quella luce che ti abbaglia. Che ti chiama Ci sono smagliature, percorsi oscuri, gallerie: ho la sensazione di avere perduto qualcosa di essenziale. Forse un bottone colorato, una volta Non ricordo più bene. Sarà il lume fioco e il baluginìo della lampada sul foglio. Comunque la vita è strana. Mi hanno presa per mano, o forse legata in qualche modo. Con un bacio. O un addio. C’è il vento che cigola alla persiana Limatura, ecco, ma di un ferro morto, usurato dal tempo. A questo si riduce? Che sia quello il resto, il guadagno, la risposta? Ma l’onda e la risacca nelle conchiglie dell’estate, una volta Dovrò andare, lo so, partire. Come tutti. Affondare… Sì, mi piaceva il mare: nuotare, precipitare lentamente, volare in quello zodiaco d’ombra, senza peso, sospesa, innocente, alla stella che trema sul fondo, all’inizio, alla sorgente
Nel cerchio 41
Ecco signora che si confondono i tempi le stelle i volti dove corsi bambino per incontrarci ancora tu piccolina ed io sorridente nella clessidra che gira nel cerchio signora in cui da te io nacqui per inseguire il sogno che ci promise aurora
La parola giusta
per inseguire il sogno che ci promise aurora
Mi è stato fatto non so quando un male. Una ingiustizia strana e indecifrabile... Franco Fortini
“[...] Poi uscivo e scoprivo un altro mondo. In via Madonnina, nel cuore del vecchio quartiere di Brera, c’era un bar. Oggi ha lasciato il posto a uno di quei palazzotti pretenziosi con videocitofono e tutto. Più che un bar, quello di via Madonnina era una crota, un’osteria. Ci si mangiavano uova sode, aringhe, salame cotto. Si beveva molto vino. E si parlava. Io ci andavo con Piero Scaramucci. L’avevo conosciuto tramite una mia compagna di Università. Già, perché nel frattempo avevo tagliato il nodo delle mie indecisioni e mi ero iscritto a filosofia. Per desiderio di capire, dico oggi. Ma allora, probabilmente, per sfuggire a un qualche destino di uffici e tenere aperta, per vie traverse, la strada della poesia. Piero aveva venticinque anni. Si sentiva il mio fratello maggiore. Voleva che imparassi. Mi raccontava, in quelle mezzanotti di bicchieri, del luglio ‘60, del governo Tambroni e dei moti di Genova. Mi spiegava che alla Fiat stavano per firmare certi accordi. Anzi, un ‘accordo quadro’, diceva. E questo non mi entrava assolutamente nella testa. Di operai non sapevo nulla. Sì, che esistevano da qualche parte, e poco più. Poi mi parlava del XX Congresso, dell’Ungheria, della svolta di Togliatti. Piero era dei Quaderni rossi. E mi portava spesso con sé in un garage dalle parti di Città Studi. A leggere e discutere Rosa Luxemburg. C’erano Vittorio Rieser, Edoarda Masi, Goffredo Fofi. E tanti altri. Avevo persino conosciuto un poeta a quelle riunioni. Il primo che vedessi in carne ed ossa. E mi sorprendeva che invece di starsene a scrutare gli abissi della sua anima si infervorasse a parlare di centro sinistra e ristrutturazione. E al freddo, per giunta. Era Franco Fortini. Io me ne stavo zitto e non capivo molto. Ma incominciavo a intuire, in modo ancora confuso, certi collegamenti fra la cucina di casa mia e tutto il resto. [...]” Mi piace iniziare con queste parole che rievocano il ragazzo che ero a dicott’anni, nel 1962, al tempo del mio primo incontro con Fortini, perché oltre che a restituire il clima di quel periodo in cui tutta una generazione si metteva per così dire al lavoro nella prospettiva di una radicale trasformazione della nostra società, iniziando un viaggio di cui non conoscevamo ancora gli approdi e in cui molti si sarebbero perduti riflettono una caratteristica costante della figura di Franco, allora e fino alla sua morte: l’essere stato cioè sempre, con le poesie, i saggi, gli interventi parlati e scritti, al centro di un dibattito corale della sinistra di cui ha costituito uno dei punti di riferimento più saldi. E anche più scomodi, in un certo senso, perché Fortini non era certo di quelli che si tiravano indietro quando si trattava di enunciare verità che sulle prime apparivano sconcertanti o controcorrente per poi rivelarsi inevitabilmente esatte.
E me lo rivedo, con la testa già bianca, fra i capelli arruffati e le giacche variopinte del ‘67, in una di quelle assemblee fitte di giovani che si tenevano all’Università, quando il lavoro quasi cenobitico di cinque anni prima era sfociato in un movimento ribelle e festoso. “Sul Vietnam ci si divide”, mi pare quasi di udirlo con quella sua voce chiara, pacata e tuttavia tagliente, al termine di un memorabile intervento in versi: intendendo, con quelle parole, che occorresse passare dalla solidarietà generica dei sentimenti a una adesione guidata dal rigore di un’analisi razionale. Convinto com’era che la lucida consapevolezza è una conquista in grado di dare terra duratura alla pianta del sentimento. Perché, come gli aveva insegnato Brecht che Fortini in quegli anni traduceva, un morto ci commuove, a dieci ci si abitua e a mille non si fa più caso: diventano parte del paesaggio. Come dovevamo imparare anche noi in questi ultimi anni di
46 L’altezza del gioco universale macello, in cui i corpi straziati delle guerre del pianeta convivono senza alcuno scandalo sui nostri schermi televisivi con gli ancheggiamenti dell’ultima sciocchina di turno all’ora di cena. A quel tempo però la sua affermazione mi aveva molto colpito, lasciandomi più di un dubbio: io che pochi mesi prima mi ero guadagnato tante botte, qualche titolo sui giornali e una condanna dall’allora giovanissimo sostituto procuratore Vigna per avere tirato a Firenze un uovo contro il vicepresidente degli Stati Uniti Humphrey. Spinto più da uno sdegno emotivo che da un ragionamento ponderato. La ribellione continuava, ma la festa sarebbe di lì a poco finita. L’autunno caldo si dissipava nel gelo del suo lungo inverno. Una decisione feroce, fino incomprensibile nella sua determinazione, gettava una lunga teoria di morti sul cammino delle nostre speranze. E furono Piazza Fontana, e Pinelli, e Saltarelli, e Tavecchio, e Serantini, e Franceschi, e... [...] “Non ricordi quel ragazzo sfregiato la sera dell’undici marzo 1971 che correva gridando ‘Cercate di capire questa sera ci ammazzano cercate di capire!’ La gente alle finestre applaudiva la polizia e urlava ‘Ammazzateli tutti!’ Non ti ricordi?” Sì, mi ricordo La sensazione era proprio quella espressa dai versi di Fortini: che volessero semplicemente farci fuori tutti. Fu così che molti tornavano a riunirsi nei garage, ma questa volta per studiare il modo di rispondere colpo su colpo o imparavano nelle cantine come il polso può resistere allo scatto dello sparo come scrive sempre Fortini nella medesima poesia. La poesia... Io la poesia la coltivavo fin da bambino, come mio fiore e mia libertà, ma ora cominciava ad apparirmi come un dono avaro se non avessi saputo farne partecipi coloro ai quali avevo legato i miei passi e il mio destino. Ci vollero anni perché mi decidessi ancora una volta a varcare la soglia di casa, finché, nell’aprile del ‘75, l’aprile dei visi chiari di Zibecchi e Varalli che ti fissavano listati a lutto dai muri della città perché polizia e fascisti ne avevano fatto scempio, salivo per la prima volta su un palco a urlare le parole rabbiose che l’indignazione mi aveva dettato. Quell’indignazione che è forse uno dei miei limiti, perché rende roca la voce, anche quando è necessario sia fredda e incisiva come un diamante.
La parola giusta 47
Comunque sia, quei palchi erano in verità un osservatorio molto interessante per cogliere le trasformazioni che stavano mutando il volto del paese. Dalle grandiose manifestazioni del ‘75‘76, quando la sinistra pareva a un passo dal successo elettorale, alle gonne a fiori, i nastri spavaldi e gli slogan dissacranti del ‘77, fino alle manifestazioni sempre più livide e incattivite degli anni successivi quando in piazza cominciavano ad apparire pistole e fucili e i comunicati delle BR erano un quotidiano bollettino di guerra insieme alle notizie dei primi morti per droga. E intanto salivo e scendevo i gradini dei comizi, entravo nelle fabbriche, partecipavo agli scioperi generali, correvo con tutti gli altri nel fumo dei lacrimogeni e degli spari. Le mie poesie erano affisse ai muri come manifesti, distribuite con i volantini nei cortei, stampate nei libretti della sottoscrizione operaia, messe in musica nei dischi e illustrate dagli artisti democratici. Ero diventato per così dire un personaggio: si parlava di me sui giornali, venivo intervistato alla radio, mi riprendeva la televisione. “Chissà cosa ne penserà Fortini...”, mi accadeva di tanto in tanto di domandarmi. A ricordarmi Fortini ci pensava un uomo buono, paziente e affettuoso: Corrado Stajano, che mi aveva chiesto per la collana che dirigeva all’Einaudi un libro che raccogliesse il resoconto di quelle esperienze. Durante i due anni e più di laborioso parto che Corrado ha assistito con straordinaria perizia, di fronte a certe mie titubanze o incertezze soleva minacciarmi scherzosamente: “Guarda che se non ti sbrighi, mando tutto a Fortini”, col sottinteso “e in Fortini”, da sempre uno dei cervelli dell’Einaudi, “troverai un critico ben più severo di me, per il tuo libro”. Il quale libro vedeva finalmente la luce in un paese che sembrava essere stato assalito da una nuova febbre: una smania di scrivere e recitare poesie che trasformava città, paesini, borghi in sede di festival, riunioni, cenacoli, letture o, meglio, di readings, come si cominciava a dire. L’enorme amarezza di una vita che appariva sempre più stretta in una morsa che la schiacciava senza riuscire a trovare via d’uscita pareva travasarsi in quella marea di versi che finivano col diventare uno smisurato regesto di fuga o di rassegnazione. E così il titolo orgoglioso che avevo voluto per il libro, Compagno poeta, cominciava ad apparire già allora irrimediabilmente fuori moda. A quei festival, sempre più stonato nel coro di universale lamento, partecipavo anch’io. Fortini non c’era verso di incontrarlo in quelle occasioni e anzi non mancava dal suo altero isolamento di mandare segnali di profondo dissenso nei confronti della vecchia broda misticheggiante spacciata come ultimo specifico nelle farmacie di quei piccoli orfei tutto languore e brividini. In verità di gente che non aveva perduto il ben dell’intelletto ce n’era ancora tanta. Saranno i suoi campi, sarà il Ticino che li attraversa, fatto sta che Nino Jomini, il Ninone delle nostre epiche bevute, ha sempre mantenuto una sua concretezza terrestre che è stata per me fonte di più di una consolazione durante i vent’anni che ci conosciamo. Nino è di Castano Primo ed è uno studioso finissimo dei dialetti pietrosi di quei posti e soprattutto è un infaticabile custode di memorie. Come dimostrava il manifesto che mi aveva fatto pervenire: “...ecco, dal lontano 1962, ogni anno il 27 ottobre, nell’anniversario della morte di Gianni Ardizzone, lo studente castanese caduto a Milano nel corso di una manifestazione internazionalista per l’indipendenza di Cuba, ecco prepotente questa voglia di non dimenticare...”. E in efffetti Nino è una sorta di archivio
48 L’altezza del gioco vivente di tutte le storie piccole e grandi che si sono svolte in quelle contrade e che contribuisce a non far dimenticare con articoli, spettacoli, canzoni. O iniziative, come quella che mi proponeva col suo manifesto, che concludeva: “...quest’anno, ecco, sabato 27 ottobre 1984, a Castano Primo, con noi a ricordare saranno due Poeti, Franco Fortini, testimone di quei tragici avvenimenti, Giulio Stocchi, di Gianni coetaneo, come lui allora studente”. E che, come lui, quel 27 ottobre 1962, era sceso in piazza. In quella che era la prima manifestazione cui avessi partecipato in vita mia. L’emozione di vedere il mio nome accanto a quello di Fortini, come poeta e con la P maiuscola per giunta, era grande. E non vedevo l’ora di incontrarlo. “Anzi”, mi aveva detto il Ninone per telefono, “passa tu con l’Ornella a prenderlo in macchina Fortini, così fate il viaggio insieme”. Era dai tempi del garage che non ci vedevamo di persona. Durante i convenevoli d’uso Fortini non diede segno di ricordarsi di me. Né io me l’aspettavo: un quarantenne cambia molto di più rispetto al ragazzo che era 22 anni prima di quanto non mi apparisse quell’uomo diritto, dallo sguardo severo ma temperato da una vena d’ironia, che ci attendeva sul marciapiedi in via Legnano e che mi sembrava identico al personaggio che avevo avuto la ventura di sfiorare durante la mia adolescenza. La macchina si lasciava alle spalle la città, inoltrandosi per vie secondarie nel fitto dei paesini che la circondano verso una promessa di campagna che i filari lunghi dei pioppi in lontananza lasciano intravedere. “COME?!!???!”. “Sì”, mi andava ripetendo Fortini, “non sai chi è quest’altro poeta, questo che interviene stasera, questo, questo...” concludeva con una vaga assonanza che storpiava il mio nome. Non riuscivo quasi a crederci: “mi avrà scambiato con qualche compagno dell’organizzazione”, fu la prima insensata speranza cui mi aggrappai. Ma no: dovevo arrendermi all’evidenza. Fortini non solo non sapeva che IO fossi Giulio Stocchi ma non aveva la più pallida idea di CHI diavolo fosse Giulio Stocchi. I pioppi ormai mi parevano i plotoni di un qualche esercito cupo che mi correva incontro agitando gli stendardi del mio stesso sconforto. E così, mentre l’Ornella, che allora mi amava molto e aveva intuito il mio dramma, continuava a guidare sfiorandomi di tanto in tanto il ginocchio, io mi abbandonavo a tutta una recriminazione silenziosa ...ma come, una vita all’Einaudi, proverbialmente al corrente di tutto, e proprio io dovevo sfuggirgli... sprofondando sempre più nel sedile, schiacciato dal peso di quella fatale rivelazione. Mi parve di cogliere un certo lampo di imbarazzo negli occhi di Fortini quando raggiunsi al tavolo della conferenza il posto che attestava la mia identità. Alla Villa Comunale la cittadinanza tutta era stata invitata “per vivere un avvenimento eccezionale che vede cultura e sociale, come sempre dovrebbesi”, aveva scritto non senza una punta di civetteria il Ninone, “e invece raramente avviene, incontrare e coniugare”. “Ecco, già”, rimuginavo di pessimo umore fra me e me guardandomi intorno, “e questa non è davvero una di quelle rare occasioni”. La sala conteneva sì e no una quarantina di persone, poche in confronto alle centinaia di qualche anno prima. Anche questo era un segno dei tempi che si andavano preparando e apparivano già immerse in una nebbia di nostalgia le parole che avevo cominciato a leggere di Tradizioni, il
La parola giusta 49
racconto del mio libro in cui rievocavo quella mia prima manifestazione e da cui è tratto il passaggio con cui ho aperto queste note. Francamente non ricordo cosa dicesse Fortini nel suo intervento, cui non prestavo molta attenzione ancora prigioniero com’ero del mio rovello interiore, ma ricordo che a poco a poco da quell’intrico venne a liberarmi il ritmo stesso di quel suo ragionare cristallino che doveva concludersi e ormai ero tutto orecchi, con una di quelle accensioni liriche che sono tipiche e che costituiscono il fascino della sua poesia, nei quattro versi de La madre con cui terminava il suo dire: Glielo ammazzò il governo e ora parla ai comizi per riaverlo intatto. Somiglia mia madre com’era nel Venti. Non sa che in un vecchio grida un attimo il figlio. Al Pozzo, il ristorante della cooperativa dov’è buona tradizione che la sinistra si riunisca dopo simili manifestazioni, l’amarezza di qualche ora prima era solo ormai un leggerissimo tarlo che le risate dei compagni, i bicchieri di vino provvedevano via via ad ammutolire, mentre mi incantavo sempre più a sentirlo parlare con quella gente, Fortini, sempre con quel suo rigore che non concedeva nulla alla semplificazione, alla condiscendenza o al paternalismo con cui tanti intellettuali si rivolgono a quelli che considerano “gli umili”. Erano le ultime ore di una nottata limpidissima quando ci congedammo a Milano, davanti all’Arena. Tornando a casa attraverso il profumo d’ottobre di tutti quegli alberi del Parco che l’autunno non aveva ancora sfiorato, i versi di Franco che quel fogliame mi sussurrava: Diremo più tardi quello che deve essere detto. Per ora guardate la bella curva dell’oleandro, i lampi della magnolia erano il segno più chiaro che ormai mi ero riconciliato con me stesso, con la poesia, con Fortini, e con l’universo mondo. Io posseggo un arnese che è la dannazione dei miei amici, ma che di tanto in tanto mi dà qualche soddisfazione. La mattina dopo la serata di Castano me la sarei sposata la mia segreteria telefonica. “Sono Franco Fortini”, diceva quella voce esatta che il miracolo tecnologico dell’apparecchio mi ha consentito di riudire ancora oggi e che trascrivo. “Solo adesso mi sono reso conto che Giulio Stocchi è Giulio Stocchi. Cioè me ne sono reso conto ieri sera con estrema vergogna. Questa mattina ho ripreso il libro, che mi era nell’ ‘80 completamente sparito, dati momenti per me gravissimi d’allora, e ti ringrazio di averlo fatto, di averlo scritto, questo libro, e mi devi scusare di non averti riconosciuto”. Fatterelli, si potrebbe dire, insignificanti se non per me. E invece sono, a mio parere, l’indizio più sicuro di una delicatezza, di una gentilezza d’animo, di un’attenzione verso gli altri e, insomma, di uno stile, che hanno reso caro Fortini a chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo. Da allora abbiamo avuto modo di sentirci spesso e di vederci qualche volta. Come quella sera a cena, a casa mia, insieme a Stajano, a Giovanna Borgese, a Donatella Zazzi, all’Ornella, a Roberto Cerati, a Claudio e Paola Bazzi, e Franco, seduto vicino alla sua Ruth, col bicchiere in
50 L’altezza del gioco mano, e quella bella voce che declamava e declamava Pascoli, Carducci, Aleardi e giù giù fino ai minori dei minori dell’ ‘800 in una sfida giocosa con Claudio a chi ne ricordasse di più di quei versi. Il ‘falso vecchio’, come amava definirsi, era tornato quella sera ragazzo. Non so se Fortini approvasse fino in fondo il mio modo di fare poesia. Quello che so è che il suo comportamento nei miei confronti era animato da grande rispetto. E questo voleva dire molto per uno nelle orecchie del quale ronzavano frasi ed è una delle più gentili nel catalogo di varia meschinità che mi sono annotato nel corso della mia ormai non più breve carriera come quella colta al volo dalle labbra di Majorino: “in questo paese in cui si scambiano gli Stocchi per Zanzotto”. Figuriamoci: io avevo il problema che in questo paese il mio nome venisse almeno pronunciato al singolare. Ma, si sa, ognuno ha lo stile che può, e che merita. Il rispetto e lo stile del resto stavano diventando una merce rara. La città intorno a noi cambiava. Gli anni di Brera e del garage di via Aselli sfumavano nel ricordo, assumendo i colori di una leggenda che ci pareva quasi impossibile avere vissuto, paragonati alle miserie piccole e grandi, ai tradimenti, alla volgarità, alla caduta di speranze, alla cartapesta della Milano da bere. Fortini era sempre lì. Sempre diritto, fra i tanti che per viltà o per convenienza chinavano la schiena di fronte ai nuovi potenti, giocando a rinnegare, insieme alle idee della giovinezza, la loro stessa decenza. Sciacquandosi naturalmente la bocca con un progresso e una modernità che non riuscivano tuttavia a rendere meno fetido il loro alito. E fra i più onesti, molti ammutolirono di fronte al precipitare di eventi che trasformavano l’assetto geopolitico del mondo intero. Io stesso, sfiancato da tanto girare sotto i palchi sempre chiedendo di recitare, esasperato da tutti quei burocratici sorrisini che accompagnavano, e non m’importava più, l’assenso o il diniego, e valutando infine che quell’esperienza di poesia in pubblico, già di per sé rischiosa, potesse davvero trasformarsi in ciò che io assolutamente non volevo, pura declamazione e consolazione, segno di impotenza e non di signoria, e che occorresse affrontare i chiodi della solitudine per ritrovare un accento di verità, tornavo a rinchiudermi nella cucina di casa mia da cui ero uscito con tanta fatica una trentina d’anni prima. Fuori, gli edifici del sopruso si levavano intatti. E anzi, si moltiplicavano. Di quella livida geografia Fortini continuava tenace la ricognizione, la sua instancabile verifica dei poteri, con una voce certo più isolata, ma forse per questo ancora più netta, confrontandosi, ragionando, discutendo, mettendo in guardia. Insistendo: per usare una locuzione a lui cara. “E’ stato gravemente malato per molti mesi”, mi scriveva Ruth, “ma ha sempre cercato di lavorare non apppena sentiva un lieve miglioramento”. Questa costanza vigile è la lezione di Fortini. Il suo esempio. E il suo onore. E chissà perché, a questo punto che sto per congedarmi da questi ricordi e da queste riflessioni, mi viene in mente una mia poesia, nata da una delle ultime occasioni che ho avuto di entrare in una fabbrica sul finire degli anni ‘80. L’orologio ha compiuto il suo giro. Le grandi manifestazioni sono l’eco lontana di un mare che batte contro la costa ripetendo ostinato le sue domande.
La parola giusta 51
“Proteggete le nostre verità”, ci intima Fortini come estrema consegna in Composita solvantur, apparso a pochi mesi dalla morte. E quegli otto al tavolo mi ricordano i pochi che eravamo all’inizio del nostro viaggio e paiono riaffermare con la loro stessa presenza una verità che Fortini non si è stancato di ribadire, l’ingiustizia che nel corso della sua esistenza si è sforzato di decifrare in tutte le sue manifestazioni: la realtà di uno sfruttamento, che non solo non è scomparso ma, mascherandosi da falsa libertà per citare il titolo di Lu Hsun a Franco tanto caro si è insinuato in ogni piega del nostro tempo e della nostra vita. Una verità che tanta parte della sinistra, dimentica delle proprie radici e delle proprie ragioni, oggi tende a rimuovere e a negare in nome delle magnifiche sorti e progressive di un mercato dove in realtà tutto si riduce a numero, macinando e frantumando sogni, aspirazioni, speranze, identità: in una parola, la nostra stessa umanità, avvilita in un processo in cui servo e padrone si rispecchiano nella medesima miseria antropologica. E se è vero che la parola giusta, quella in grado cioè di raddrizzare la storpiatura che deforma la nostra società e la nostra vita, per essere efficace può essere pronunciata solo da un universo di voci solidali, è altrettanto vero che ci sono uomini che con la loro intelligenza e la loro generosità hanno saputo tracciarne e mostrarcene, vorrei dire quasi con testardaggine, le lettere. Uomini così meritano di essere grandemente lodati. Franco Fortini è stato uno di loro. Inequo dice con voce lenta il provvedimento è inequo e noi non lo possiamo accettare in otto attorno al tavolo in rappresentanza di più di tremilaseicento operai un cartellone pubblicitario che vedo dalla finesra afferma che la vita è meravigliosa e inequo torna a ripetere e più della parola o della situazione la storpiatura della parola pone un problema denuncia che con la parola molti si storpiano la vita la quale per altri è meravigliosa perché questi appunto vivono così e che lo sfruttamento non è una parola la storpiatura della parola dunque lo testimonia e rivela altresì che la parola giusta deve essere ancora detta perché tutto ciò com’è giusto finalmente
52 L’altezza del gioco scompaia
Il rovescio del discorso
perché tutto ciò com’è giusto finalmente scompaia
Monsieur Aghion che pure ancora si faceva intendere in qualche modo sbavando cieco con sorrisi di pietra tra mani di preghiere e sospiri di suore “quanto tempo ancora separa” diceva “dalla morte non è dato sapere” mute le preghiere incollato tutto il giorno alla radio per consolarsi di notizie e inghiottendo cioccolatini con ansimi lunghi accarezzandosi la faccia là proprio dove batteva il sole che non poteva vedere ma sentire come un fastidio oscuro immobile come statua di gesso meridiana con lo scacciamosche tra le mani e silenzi gorgoglianti un tempo orgoglio e scandalo per le sue idee democratiche della colonia europea “Perché gli uomini sono diversi quanto ad intelligenza” diceva monsieur Sharakian (che si dilettava di radioestesia) facendo ruotare il pendolino ma monsieur Philippidis non era molto d’accordo e monsieur Aghion cavandosi monete dagli occhi rimpiangeva il sole biascicando ad Alessandria “e se sono perduti i privilegi
che cosa resta ai poveri vecchi?” trascinandosi da un bar all’altro in un precipitare di bicchieri “vedi che solo gli anni portano saggezza tremante?”
Il rovescio del discorso 57
e nelle strade si perde un tumulto di umanità “noi non diremmo mai che si debbano eliminare ma bisogna considerare il vantaggio della società” mentre ai porti giungono le navi e nelle acque si specchia una nuova generazione di scalzi sapienti e tornava dai suoi viaggi sempre un poco più stanco “ gli anni passano mio caro per te come per tutti” e un giorno risvegliandosi si chiese il perché di tutto il suo andare il suo faticare sotto il sole scoprendo nelle mani incerte un fiato di clessidra “e purtroppo è tardi e ho tanto da fare ancora” “senza stare al passo coi tempi?” si chiedevano alcuni nascosti dentro coperte o non fosse per il sole che ogni tanto spunta non si capirebbe la differenza tra il giorno e la notte “e il comunismo è una malattia si deve trovare un antidoto” “ma con tutti questi arabi che sono peggio dei neri non si sa dove si va a finire” borbottava il console italiano al Cairo io del resto quando vomitava mi tappavo le orecchie e tutta questa sporcizia non si sa più dove nasconderla “noi non diciamo che bisogna eliminarli ma certo pensare al problema non si può continuare a mantenerli non siamo filantropi
58 L’altezza del gioco e gli affari...” mentre la luna oscillante accarezza il cieco Grigori col suo sacco di monete da un tavolino al’altro “kirie parakalò” ed è inutile scavare o intrecciare corone “che cominci a invecchiare? ” si domandava e monsieur Aghion che era cieco sbatteva come una mosca contro gli armadi “e gli uomini sono diversi è un fatto scientifico” continuava monsieur Sharakian intento col suo pendolino certamente col sottinteso “e io sono il migliore di tutti” mentre c’erano bambini chini a pulirgli le scarpe ma fuggendo dalle strade si ritrovavano nelle loro stanze a celebrare riti per lo meno strani “e questa è la privacy non siamo alla fine dei numeri” sfogliando grandi libri e consolandosi con barzellette cosmopolite “no non si tratta di privilegio mio caro si tratta di civiltà” “e poi sono pronto a vendere tutto e ad andarmene” “ma arriverà qualcuno capace di dare una lezione una volta per tutte” “la politica è una cosa sporca siete tutti idealisti” si nascondeva il viso fra le mani e pensava alla sua vita
Il rovescio del discorso 59
e i treni fuggono dall’alba delle stazioni e gli addii si inseguono “bisogna vivere la vita è irripetibile è unica” del resto la giovinezza è un soffio un battito d’ali “ma bisogna pensare al futuro altrimenti quando sarai vecchio e ti chiederanno che cosa hai concluso...” e monsieur Philippidis rideva con pochi denti e diceva “je m’en fous” un poco più stanco forse ma più consapevole certo gli anni passano per tutti anche se si resta disperatamente bambini E il cielo era così chiaro uscendo dalla taverna che ci inchiodò tutti quanti sulla soglia né ci ricordammo di ridere come di consueto “perché gli uomini sono diversi” si ostinava monsieur Sharakian “e allora il comunismo è contro natura una malattia” e i bambini ti vendevano per una sigaretta i loro tesori nascosti inseguendoti a piedi e gridando mister
60 L’altezza del gioco
E chissà perché proprio oggi Livia il ricordo m’assale della tua febbre mentre montano il palco gli operai con le bandiere a tanto vento stinte e sui cartelli intorno leggo un racconto di speranze e di sconfitte e caparbia la volontà di costruire un mondo dove non sia bestemmia l’uomo all’uomo la terra che sognasti dei tuoi avi e la rabbia di vederla fatta sconcia che in vita t’arrochì la voce contro le radici profonde del tuo sangue tu stessa dunque in te divisa come talvolta io a me stesso appaio che sul retro d’un volantino scrivo queste parole d’elegia dolente e mi preparo intanto a urlare i versi che certo per un poco mi fan salvo dalla disperazione e mentre salgo i gradini del comizio verso un mare di volti che m’accoglie e in cui mi specchio il tuo sguardo di nuovo mi sorprende quando negli occhi altrui cercavi scampo al fuoco di giustizia che bruciava lentamente la tua vita e penso che a un delitto è propriamente uguale la lettera di sfratto che ti perse silenziosa dopo aver contemplato l’ultima patria l’ultimo esilio nel turbine allontanandoti intatta
Livia Rokah era una scrittrice e giornalista, appartenente a una famiglia ebraica che viveva in Palestina da più di duecento anni. Alcuni anni dopo la fondazione dello Stato di Israele, Livia abbandonò la sua terra in segno di protesta per la politica israeliana e iniziò una lunga
Il rovescio del discorso 61
attività di sostegno alla lotta del popolo palestinese. Si uccise a Roma nel 1984, dopo aver ricevuto una lettera di sfratto dal padrone di casa. Le ultime parole che lasciò scritte furono: “sfratto uguale assassinio”.
62 L’altezza del gioco
E da sempre considerati fiato e sudore considerati quelli che ci si ingrassa al tempo dell’abbondanza e che in tempi di crisi si scaccia noi uomini tuttavia e non numeri da allineare in colonna o bestie trascinate dove la vita l’appendono per affittarla ad ore della ricchezza comune fondamento pur essendone noi esclusi qui giunti dagli anni e senza nulla dimenticare di quanto
Il rovescio del discorso 63
negli anni ci pesa ben conoscendo del lavoro il costo per averne nel sangue e nella carne sempre pagato il prezzo polvere roca della rassegnazione trasformata in canto oggi e con i sogni nostri tutti interi fino a quando chiediamo all’arroganza dovremo chinare la fronte? è giusto chiediamo sian pochi a decidere e molti subire? e al banchetto chiediamo i posti son stati davvero in eterno fissati? è forse il destino chiediamo
64 L’altezza del gioco che sulla terra a passare di sbieco ci danna?
Il rovescio del discorso 65
Barcolla la città e per le strade cammina una nuova generazione di scalzi inseguendo il sorriso intravisto sullo scoglio di favole incessantemente battendo coi piedi l’asfalto quando passano i tram come uno scongiuro in fondo alle gallerie in cerca di un’ombra di benedizioni inchiodati ai fianchi di un benessere lontano come un esercito sconfitto e tutto era scritto tutto era scritto lo sapevamo dai bicchieri dai capelli per natura divenuti lentamente bianchi una notte senza neppure accorgersene e tutto era scritto si ripete con ostinazione senza comprendere più l’ansia combattuta della pioggia le fiaccole di sentieri muti una notte come un’altra solo gli anni sono passati ma sei qui tu come altrove o in altri tempi eguale? si chiedevano spiando a tutti occhi la ragione del lento declino perché si sappia che l’unica possibilità concessa era la pioggia in digradante teoria di città già detto e ridetto come altre volte riprendendo la maledizione dei bicchieri acqua dei giorni per ritrovarti
66 L’altezza del gioco crocefisso agli angoli mentre i cani si rincorrono in giardini che non conosci e tutto era scritto inutile illudersi i quaranta dicevano mentre ti accarezzi la fronte con gesto come sempre stanco e abituato alla ferita ormai si cercava dentro le tasche un poco di sole senza trovare altro che briciole di avventure trascorse la vecchiaia ti impone di essere saggio di essere buono di essere immobile di essere perché così si decise tu che pensavi di potere altrimenti qui oggi ti vogliamo vedere piangere ti vogliamo sentire urlare ti vogliamo inseguire fino all’ultimo gomitolo all’ultima sigaretta all’ultima scommessa per ridere per ridere per ridere tu che credevi di infrangere le regole e quindi ti diciamo che avendoti seguito studiato osservato catalogato per lacrime sospiri tentativi masturbazioni velleità pugni gesti ferite
Il rovescio del discorso 67
amori e ancor oggi come un insetto assistendo all’urlo lancinante che ti contorce con tutta tranquillità e serenità e giustizia e senso di perfetta realtà noi in disparte i sani i giudici i tranquilli i vestiti che disprezzasti i passi che non volesti i seduti che rifiutasti i giunti alla fine del mese mentre il giovedì ti inghiotte noi oggi ti diciamo che da qualche parte in qualche ufficio sotto qualche neon in qualche schedario si chiude chiude chiude la pratica che ti riguarda con esatta convinzione avendo valutato l’attivo e il passivo il sogno e la realtà i passi e la pioggia le lenzuola e l’amore per ributtarti semplicemente in faccia quel che da sempre si sapeva nel tuo lungo sbattere di mosca impazzita sotto il bicchiere
68 L’altezza del gioco
Dicono che avendo votato come avete votato ed essendovi per di più abbandonati ad urla scomposte d’entusiasmo vi siete da voi stessi posti fuori dal Sindacato “il nullismo non paga” dicono “chi rifiuta il Tetto non avrà una casa” e sulle manifestazioni dicono animalesche della gioia che vi ha pervaso al momento dell’esito del voto scandalizzati si vanno interrogando e che è tutta colpa della Radio dicono o della Televisione per quella indubbia mancanza di informazione che vi ha consigliato di non consegnarvi mani e piedi legati ad un Padrone e che probabilmente dicono siete stati raggirati da mestatori di professione e poiché comunque sono in gioco i superiori interessi
Il rovescio del discorso 69
della Nazione di cui peraltro dopo il vostro gesto sconsiderato non è neppure certo facciate ancora parte stanno esaminando dicono l’eventualità di dimettervi in blocco e almeno per tre anni dalla Classe Operaia in modo che sia garantita nella Classe un’effettiva dicono rotazione onde evitare in futuro il ripetersi di simili incresciosi episodi e scongiurare al contempo il pericolo di qualsivoglia degenerazione dicono bu ro cra ti ca
70 L’altezza del gioco
Al largo del cuore e come in un urlo questa città si stende stravolto alfabeto di inganni nella pace pomeridiana dei fianchi catrami assorti e tra le folle camminando un chiodo per sanguinare a lungo sulla via promessa verso casa stringendosi al petto una domanda e per le scale sospirando ciò che non cambia territorio immenso di croci dove un vecchio parla invocando ombra e si scavano intanto i quotidiani motivi del sonno dove si raccolgono ogni giorno i cani e non dice altro la notte che una discesa lenta di lenzuola azzurre e viola per dimenticare e ricominciare l’indomani da piccolo mi cantavano tante canzoni che neppure più le ricordo una però sì parlava di un porto e sembra ieri che t'abbracciavo perché s’apra il mondo in un lampo dalle stelle raccogliendo questa manciata di sapere e di parole e non vedere la sentenza piccola delle pareti delle panchine delle quotidiane passeggiate verso angoli di nulla dove s’aspettano solo risposte senza importanza
Il rovescio del discorso 71
dove i telefoni non ti parlano altro che per dire addio nato da uomo e da uomo morto una sera lungo le strade senza neppure conoscere ciò per cui era destinato si comprimeva il petto e questa è la storia quel sangue che scorre o in un retrobar abbracciando con gli occhi immobile lo specchio indifferente lo specchio pallido lo specchio verde lo specchio e quell’ultima smorfia mentre fuori continuano nel calcolo che non s’arresta e lo possiamo testimoniare noi venuti d’altrove e per altro quaggiù gettati non per assistere allo strazio ma per cambiare non per morire quattro volte ma per conoscere non per aggrapparsi alla prua della speranza ma sicuri verso quel porto navigare forse menzogna di labbra o di affetti non si può dire e nelle città sperduti discendere fino alle metropolitane ultime della notte fino alle sigarette ultime di un sonno malconcesso verso gli armadi barcollando per non riconoscere il destino e ancora cercando dai bottoni la salvezza
72 L’altezza del gioco
Al letto dunque verranno legati e perché non possano troncarla coi denti dalle narici una cannula di gomma verrà introdotta fino allo stomaco e una soluzione altamente nutritiva immessa nel corpo e attraverso le vene anche; notte e giorno sorveglieremo che non soffochino; distoglieremo gli occhi dai loro occhi; se grideranno procureremo di chiudere porte e finestre in modo che nessuno sia disturbato; quando i nostri strumenti confermeranno che è regolare il battito cardiaco e nei limiti della norma il peso saranno caricati su un cellulare e sotto scorta armata ricondotti in carcere; qui da cittadini detenuti attenderanno il giudizio sia pure per dodici anni se necessario; e non si dolgano qualora riconosciuti innocenti
Il rovescio del discorso 73
poi: è il prezzo perché lo Stato sussista; non si mescolino a disordini e nulla di grave potrà accadergli; accettino le regole della loro condizione; esse sono: tacere; dimentichino la mattina le urla della notte: i pavimenti del resto verranno lavati; se dovessero ricominciare avremo pazienza: torneremo con aghi accanto a loro e con siringhe perché il nostro è un paese civile nella cui Costituzione si scrive che la vita è un diritto garantito per tutti
74 L’altezza del gioco
Nell’inclinata favola del tempo e ai fianchi con domande battendo verso gli approdi delle navi carboni usuali ricercati con ogni cura di sospiro e solo in un interrogativo trafiggendo la futilità piccola delle strade e tutta questa suprema menzogna che ci circonda alcuni pensavano sarà la morte e non capivano che invece l’invocazione dai quattro angoli risuonava del cuore e sorpresi increduli senz’altra misericordia che un saluto distratto ogni tanto lo abbandonavano parlando talvolta di destino costituzionalmente iscritto nelle vene del sangue o nei cieli della nascita tranquilli discendendo verso le compere quotidiane e dicendo impossibile soffrire in quel modo certo recita per sorprendere ancora del resto lo sappiamo da sempre un grande istrione in ogni gesto della sua vita nella profetica capacità di dire negli angoli a malapena connessi per quadrare quella sfida in un bicchiere in un giornale in tutta la mitologia appassita di quest’età e noi non vogliamo sapere
Il rovescio del discorso 75
quel che si nasconde dietro le palpebre non vogliamo neppure sospettare la discesa lenta nelle paludi del pianto e non ha tutto? d’altronde un nome un destino un uditorio soprattutto cosa a noi negata e nelle drogherie dunque qualche volta si perdevano indifferenti ma con una strana inquietudine a tratti come un rimorso mentre abbandonato da un muro ad una stanza da un ricordo ad un progetto lo vedevano invecchiare il profeta il retore il beccamorto come dicevano alcuni sui giornali passerà con la stagione anche se tarda la primavera giunti alla porta senza neppure consolazioni di inganni e solo con uno sguardo liquidando quel che non si comprendeva spiando talvolta senza confessarlo il punto della fragilità l’addio dei fazzoletti le piroette di fumo le pagliacciate sublimi le favole che di tempo in tempo ancora dalle labbra colavano una statua? tornavano a domandarsi e il sangue delle sillabe correva forse ubriaco quando parla tanto stranamente per imbrattare dei fogli solo per passare il tempo
76 L’altezza del gioco per non vivere sussurravano i maligni tra le strade trascinandosi il loro sacco di solitudini di fallimenti di normalità di tranquilla delusione dove dietro allo sguardo l’invidia intrecciava il suo piccolo nodo l’entomologico spillo per trafiggerlo di giudizi la poesia del resto non è quella discesa? e di che si va straziando allora amici travestiti dagli angoli dai sospiri dai mezzogiorni dall’assenza di braccia e di telefoni per consolarsi stringendosi in un patto che solo la morte era il rovescio chiuso ad ascoltare a sognare e nonostante tutto in qualche modo donarsi cambieranno i tempi dicevano lo vogliamo rivedere ad egual misura ridotto barcollante come un tempo tra di noi sconfitto nei quattro legni dello sconforto dire barzellette piccole sulla soglia notturna delle poltrone contare la miseria delle monete trascinarsi da un negozio all’altro percorrere altrimenti le città lasciare un pezzo di sé come noi facciamo ad ogni cantonata dimenticare l’infanzia vestirsi di un abito perdutamente grigio abbandonare il fuoco delle stelle
Il rovescio del discorso 77
intrecciare come un canestro i giorni dove precipitano foglie secche speranze secche sogni secchi per poi giungere all’arco delle mezzanotti e come noi orgogliosamente mostrare le spazzature quotidianamente raccolte con dio in pace finalmente e con gli uomini
78 L’altezza del gioco
Gridano ordine e intendono silenzio La democrazia è salva dicono e rosicchiano intanto Biascicando incensi difendono dal pulpito la vita e ancora va implorando pietà il cadavere Quando dai microfoni assicurano che il dissenso loro certo lo rispetteranno meglio abbassare la voce allora e guardarsi intorno Libertà hanno scritto sui giornali E già risuona di lamenti la notte
Le variazioni tedesche
gridano ordine e intendono silenzio
...E resta lontana del dubbio la buia domanda Friedrich Hölderlin I E’ il silenzio la cifra non il grido e neppure il lamento No! Io lo testimonio per la verità smisurata di questa morte di questa pietra di queste virgole senza pietà di questa menzogna che mi duole come una solitudine zoppa senza porte e senza finestre non il grido e neppure il lamento ma solo silenzio con una scheggia dura sull’angolo del cuore e lungo le strade è il silenzio la cifra Non il grido e neppure il lamento
82 L’altezza del gioco
II Paese di cristalli solitari sul mezzogiorno delle vetrine trasparente di solo cuore in mezzo alle folle oscillanti quando il greco il turco l’italiano si accarezzano a lungo sognando un’onda di sospiri un gelsomino di terra ardente uno straccio attorno ai fianchi e d’altro non s’accorgono che di orologi lunghi nelle sere di bar barcollanti di pietose occhilucenti di denaro richiesto con cortesie piccole e tranquillamente omicide quando affilano i coltelli nei retrobottega giudicando dal peso dalla domanda dall’offerta dalle ragioni del mercato e fra le maioliche sono morti per sempre anche semplicemente i buongiorno per dire la rete oscura dei gradini l’inferno delle birrerie la contabilità delle camere d’affitto e si ritrovano con sicure certezze accanto a bandiere trafitte per dire eserciti ai confini nemici dalle gambe d’argento dimenticando l’esatta traiettoria del tramonto l'espressione del sole unica cifra possibile come si diceva il silenzio tra lenzuola ricercando un sollievo di solo prezzo con gli occhi colanti di trucco
Le variazioni tedesche 83
in digradante memoria di stadi e bracieri stordendosi coi canti di feste d’ottobre di piccole valchirie colorate di cronache di giornali “Bild Zeitung” unico vangelo nella tasca arrotolato per dire: vedete? abbiamo ragione e sentirsi vivi a buon mercato entrando tra vicoli dentro case con televisioni immobili nella penombra mangiando distrattamente amando senza trasporto addormentandosi fra i vagoni di treni che rotolano altrimenti ma con il ricordo sempre di numeri brucianti sul braccio di fumo verso il cielo dentro le cantine ritrovando l’impronta di diffidenze antiche di occhi bruni di capelli bruni di canti ogni sabato di fiamme notturne negozi incendiati vetrine in frantumi Reichstag che continuano a bruciare ed il marco al posto del cuore ripercorrendo sanguinanti le urla di chi mostrava le vesti di chi mordeva la terra di chi implorava pietà di chi saliva lungo i camini con un fiato di stelle nei giardini con pistole sepolte per puntarle una notte alla nuca in un dramma di suicidio in una risata grassa in un boccale di birra
84 L’altezza del gioco e così deve essere e così sarà nelle mattine che scavano nebbie ma solo in fondo al cuore con numeri con borse con il posto delle banche a indicare la circonferenza e il meridiano per sapere la posizione geografia di disgrazia intima soddisfazione di morte anche al gabinetto con stampa a buon mercato leggendo curiosamente di come agonizzavano fra la sabbia fra gli sterpi fra l’indifferenza di soli uomini club esclusivi comperando e vendendo per il piacere di Europa padroni riconosciuti lungo i confini cancellando il rimorso ritrovando l’antico sogno potenza di analisi ovvie: noi forti essi deboli anche senza fucili questa volta e con metodi più umani socialdemocratizzando l’anima pur d’avere interessi ad ore in fabbriche d’automobili gavette d’operai inchiodate ai quattro angoli del benessere noi siamo i padroni noi siamo i padroni ed erigendo in eterno monumenti dove si definiscono affari dove si contratta dove si guadagna a nord dove si guadagna a sud dove si guadagna dove il nord attende perché il sud taccia
Le variazioni tedesche 85
dove l’occhio del Mediterraneo tremi di paura paura di perdere lo straccio di sicurezza la camera in quattro sì Signora Muller senza baccano Signora Muller rientrando alle otto Signora Muller cercando di imparare la lingua Signora Muller e pane imburrato tutte le mattine e Bitte tutte le mattine e Danke tutte le mattine ed impegnando a credito tutte le mattine per ritrovarsi la sera senza nulla da dire senza nulla da fare senza nulla da desiderare senza nulla e la mattina dopo ricominciare perché questo esige il progresso perché questo ti dicono ad ogni strada perché questo devi fare ogni mattina e ogni sera altrimenti sono sotterranei altrimenti sono lampadine altrimenti sono urla altrimenti sono sportelli altrimenti sono celle altrimenti sono giornali altrimenti sono lobotomie altrimenti sono giorni altrimenti sono mesi altrimenti sono anni altrimenti sono pallottole una notte nella nuca la Ragione di Stato che trionfa e nessuno dice niente Signora Muller
86 L’altezza del gioco nessuno lo scrive sui giornali Signora Muller nessuno turberà il suo pane Signora Muller e la sua marmellata Signora Muller né tantomeno frugherà dentro i suoi armadi Signora Muller con la scopa pesante di un dubbio di una domanda di un sospiro neppure con la piuma della pietà Signora Muller perché i tram continuino sulle loro rotaie perché le insegne dei supermercati fino all’ora stabilita Signora Muller continuino ad accendersi e spegnersi così che io questa notte vi chiedo che mi lasciate dormire dormire fino all’ultima scheggia del vetro fino all’ultimo scorpione del sonno fino all’ultimo gemito dell’acqua segreta perché non debba mai svegliarmi mai dico mai svegliarmi in un paese dove i vecchi coltivano in sogno una pallida rosa silenziosa per trafiggerla ogni mattina con la punta esatta di uno spillo
Le variazioni tedesche 87
III 1 Si specchiano nel fiume i grattacieli Milioni cemento tonnellate Dove a mani nude nella spazzatura scavammo 2 Il quarantasei fu certo l’inverno più duro Tanta neve Il bambino mi morì 3 All’angolo ancora degli occhi appena appassito il ricordo Stivali fiaccole bandiere Il tempo della parola
88 L’altezza del gioco dall’alto Con sicurezze previste 4 I migliori d’Europa Guerrieri dallo sguardo lungamente azzurro Scrutando l’orizzonte Tutto tranquillo rispettati 5 Il fronte interno Certamente cospiratori da eliminare Ha un prezzo il progresso 6 Di nuovo contro il cielo fumano i camini A pieno ritmo le fabbriche producono I pavimenti di Stammheim sono già
Le variazioni tedesche 89
stati lavati 7 L’economia è salva
Con speranza di preda
ripercorrendo sanguinanti le urla di chi mostrava le vesti
Perché un giorno partimmo abbagliati da sogni di vittoria madri di pianto e rosse anguille inchinano i fiori alla riva giungendo cortei di sonno fate la carità a un povero cieco non ascoltando la domanda e lo scongiuro i sogni i sogni ripetendo in cigolii ripetenti e vani vedi che le navi sono lontane e i fazzoletti inutilmente sventolavano sulla tenerezza dei ciclamini fatta di gesso anche la speranza in statua di sole meridiano lentamente si schiudeva la veste cerimonia inutile d’amore era un cieco o un manichino? mentre i cavalli adoranti brucavano pascendo l’erba dei prati alba di albe incanutite dal vento noi non sapevamo il destino o le cartacce e tutte le cambiali fatte firmare sottoscritte con abbassare di palpebre bandiere di sale e fruscio di gonne tutto inutile il sole non cambia e neppure la legge di monete tintinnanti nell’indifferenza delle ciminiere e dei petroli aprendo una scatola di carne ed asciugando con indolenza i capelli nessuno mai lo avrebbe detto fatto a immagine e somiglianza e grassi vitelli sacrificali sgozzati su altari di vite nel rito di malattie possibile il credito
concesso con schiaffi di gioia sulla fronte battendo e facendo i conti le navi avanzavano da terre e penisole ancheggianti i padroni della guerra cade con colpi di vento torreggiante sullo sbattere delle mani noi avremmo giurato di essere nel giusto
Con speranza di preda 95
di poter ridere con fanciulle stillanti eppure da tanti segni predetti non poterono che scoprire maree all’inverso delle lune io avevo chiesto regolarmente il permesso di essere pazzo di giocare con l’erba di fare sogni di viole di sbattere corna di lumaca errante di accendere ogni tanto il gas e non sapevamo la rotta i fiumi i venti o le bandiere obbligati con teste di rame e risate una sigaretta qualche volta prima della battaglia quotidiana uffici e uffici questo non era stato avvertito neppure con la veste schiusa girando per le strade e facendo sortilegi di dita per incantare i semafori sensi di vite e deriva vietati comunque con conati di vomito io non lo sapevo lo posso giurare e testimoniare sul banco degli accusati dei ridenti dei pazzi danzanti degli uomini oscillanti delle foglie partendo ci avevano promesso ricchezze di conchiglie o almeno corpi d’amore senza fare del male a nessuno del resto il problema demografico l’affitto i ghetti opera di pulizia morale e materiale quattro selvaggi detonati dentro le scatole e i pacchi mai avendo osato guardare opera di folli dente di cane sarebbe finito lo sputo
96 L’altezza del gioco deciso il guadagno nessuno avrebbe pensato la terra incatenata gli dèi urlanti dall’olimpo delle borse allucinato avevano decretato con gravi disturbi psicomotori frutto dell’alcol o dell’amore piaceri d’amore affari suoi comunque nessuno caricando la pipa avrebbe dato un soldo e questo era razionalità di presagio se anche i giornali tacevano e non sapevamo nulla pensaci occhi di stella nulla e poi nulla se graffiavano con le unghie la terra affari loro prima di morire se mordevano coi denti gli sterpi affari loro prima di morire se gridavano risparmiate i bambini affari loro prima di morire noi non sapevamo nulla quando ci dissero di partire si trattava pur sempre di civiltà sparsi a piene mani i chiodi innocenti gridando e ritenendoci trattenuti i pianti e i preservativi usati a tempo debito le navi avanzavano coi remi in cadenza vuote partendo con speranza di preda innocenti possiamo proclamare l’avventura dell’età ma la pazzia è bandita dalla razionalità del sempre unghie fatte a immagine e somiglianza di macchinette di cocacola ci hanno promesso un mondo per darci gli stracci non lo sapevamo verso i regni del sole
Con speranza di preda 97
eldoradi di città pianti grida scalpiccìo di passi gli asfalti incandescenti nel mezzogiorno questa la promessa per redimere gli infedeli in alto sorridono considerando le macchie pronti detersivi a riempirsi la bocca libertà eguaglianza progresso non era affar nostro fare gli affari degli altri potenza dei sogni alla duplice potenza di morti e di saggi del profitto non era affar nostro strisciando per innalzare archi e grattacieli desolazioni di cartelli e croci di urla strumenti designati dal destino di miseria orizzonte di stracci si trascinavano sulla terra nera come vecchi scarafaggi cosa potevamo sapere della storia della morale parole difficili per bocche sazie una sigaretta a noi ogni tanto e pacche sulle spalle quando ci dissero di partire di osare per l’onore della civiltà per la ragione dei vincitori dagli occhi di sole cosa potevamo mai sapere come prevedere banchetti impossibili di rivolta acque cascanti con suoni di vesti noi allevati in batterie di stalle promessi con poco scandalo a bocche di bordelli per tenerci buoni quando partimmo con fame intorno ai fianchi con cinture mordenti di bambini imploranti e seni inariditi?
98 L’altezza del gioco
Essere come rinati
è forse il destino chiediamo che sulla terra a passare di sbieco ci danna?
L’inaridimento è il frutto di questa lunga storia che corre nei millenni inseguendo le giravolte dello sfruttamento e del profitto sotto le varie maschere che hanno indossato. Ma nel concetto di inaridimento riposa il suo contrario, perché ciò che inaridisce è ciò che un giorno è stato ricco, fertile, fluente, variopinto e che giace forse ancora nella nostra infanzia. Proviamo a chiudere gli occhi, a ricordare: e riecco la trottola rossa che ci incantava, le biglie di vetro in cui rotolava il sole, lo scalpello dell’uomo del ghiaccio con le sue cascate di diamanti, le cassette dell’ortolano che solcavano gli inverni del nostro Klondike, la fierezza improvvisa delle spade di legno, il coperchio della pentola che fu lo scudo delle nostre battaglie... e l’armadio troneggiante si trasformava nel castello stregato dove la bella principessa languiva in attesa del nostro soccorso, le cianfrusaglie della mamma diventavano i rubini e gli smeraldi del tesoro dei nostri forzieri, la vasca da bagno era il vascello pronto a salpare sulla rotta dei pirati... e il cavallino di pezza aggrappati al quale varcavamo i recinti del sonno... Tutto era fantasia, libertà, invenzione, gioco, magia. Un mondo che contrasta singolarmente con la banalità ripetitiva delle nostre giornate scandite dalla necessità di venderci per soddisfare desideri che appagano soltanto l’altrui portafoglio. Come il movimento nel circolo, diceva Raimondo Lullo, è la pena dell’inferno. Giriamo a vuoto, giorno dopo giorno, nell’immenso supermercato che ci circonda e di cui siamo contemporaneamente merce ed acquirenti. E alcuni, i più fragili o i più sensibili, quella pena non riescono a sopportarla. E soccombono. Perdono la testa. Letteralmente impazziscono. Col disagio mentale Renato Boeri è stato quotidianamente a contatto data la professione di neurologo che ha svolto fino alla morte, nel 1994. L’avevo conosciuto una decina di anni prima, grazie a Massimo Bonfantini. Ogni volta che lo vedo, Massimo mi pare l’incarnazione stessa di una delle più belle definizioni di filosofia che mi sia occorso di leggere: “La filosofia è il pensiero che non si lascia frenare”, scrive Adorno nei Paralipomena della sua Teoria estetica. E irrefreanbile Bonfantini lo è sempre stato. Dagli anni dell’università in cui, poco più anziano di me, era il più giovane degli assistenti di Enzo Paci, che teneva allora la cattedra di filosofia teoretica, ai tumulti del ‘68 in cui già metteva in guardia sui temi dell’ecologia e dell’ambiente che sarebbero divenuti, per così dire, di moda una ventina di anni dopo, al lavoro paziente del decennio successivo per introdurre in Italia il pensiero di Peirce, alle sue opere di semiotico di fama quale è oggi: sempre Bonfantini è stato mosso da quella passione di capire e di conoscere che la formula di Adorno esprime e che trova in lui l’esempio vivente. Una filosofia, quella di Massimo, che non si lascia restringere negli scaffali polverosi di una qualche accademia, ma si nutre del gusto tutto socratico del confronto, del dialogo, della parola che si invera nella voce. Quella sua voce profonda, il lampo di intelligenza dietro lo spessore delle lenti mi hanno accompagnato incontro a una folla di personaggi fuori dal comune.
Per me è diventata ormai una consuetudine che scandisce il volgersi delle stagioni raccogliere nella casella della posta le lettere colorate che la moglie di Massimo, Luciana, che è un’artista dell’organizzazione e una roccia di tenerezza che è bello avere accanto, mi spedisce per annunciare la convocazione delle riunioni del primo giovedì di ogni mese. E così, dall’ ‘85 ad oggi, attraversando Milano, i cui muri progressivamente si svuotavano degli ultimi manifesti politici per trasformarsi nell’osceno totem che celebra i trionfi della merce, entravi, prima al Padiglione Besta dell’Istituto Neurologico di cui era direttore Boeri, poi alla Casa della Cultura,
Essere come rinati
103 e oggi al Circolo De Amicis o alla Libreria Tikkun in un’oasi di ragionamento e di dibattito che pare quasi impossibile questa città possa albergare. E lì, di volta in volta, potevi vedere Arrigo Cappelletti, alle prese con un registratore riottoso alle sfumature del suo pianoforte, e poi ascoltarlo spiegare i segreti dell’improvvisazione nel jazz; e Marco Macciò, con gli occhi buoni che contrastano con i dati spietati delle sue analisi socio economiche; o l’altro Marco, Somalvico, l’ingegnere dei robot, costantemente perso in un’astruseria di diagrammi che le sue parole rendono progressivamente chiari; e la voce declamante, nella scansione perfetta dei suoi endecasillabi, di Oretta Dalle Ore; o sentire Guido Nardi, il ritratto dell’architetto con la sua eleganza camp, riflettere sulle vicissitudini delle trasformazioni urbanistiche; e Mauro Ferraresi, un giovane Gorgia dei nostri tempi, rivelarci gli artifici del discorrere in pubblico; e Cristina Zaltieri, dal nome bello come i suoi capelli, china sui fogli di una dottissima filosofia; o Carlo Oliva, che con la sua corporatura massiccia e l’impermeabile bianco, pare un detective uscito dalle pagine dei gialli la composizione dei quali ci va spiegando; e Giampaolo Ferrari, l’eclettico, che la domenica fa l’antiquario nei mercatini, durante la settimana lo psicanalista e nel suoi otia scrive i deliziosi apologhi che ci legge; e l’altro Giampaolo, Proni, col suo lento accento romagnolo strascicato, il primo attorno al ‘9O ad avere diffuso via computer la sua fantascienza, che si accalora ad illustrarci come i vegani abbiano vinto con la non violenza i terrestri; e Lorenzo Magnani, l’atleta, fisico da nuotatore e logico finissimo, che ci guida col filo della sua rigorosa chiarezza nel labirinto delle formule della sua disciplina; ed Emilio Renzi, che chissà perché mi ricorda il protagonista di un noir francese, a smascherare con acribia i trucchi del design; o Pietro Brunelli, che rintraccia nel lavoro degli attori di Grotowski la saggezza antica dei primordi; e Dalmazio Clemente, il prolifico, più di duecento romanzi, nome da Basso Impero, che ben si adatta a un autore come lui che rovista nei meandri della cronaca per restituircene gli orrori come paradigma della decadenza che viviamo; e Salvatore Zingale, trasandato e dolcissimo, a insistere nel dimostrare la possibilità di ritrarre l’invisibile; e Carlo Ippolito, il frenetico, che traduce i balletti di Stravinsky nelle silhouettes volteggianti delle sceneggiature disegnate dei suoi film; o gli ombrelli a spicchi che Stefano Costantinescu fa sbocciare alla lavagna trasformando in un gioco colorato persino le aride cifre del markerting; e Paolo Facchi, che sembra essersi appena alzato da una delle sedie del Circolo di Vienna, e che fa vivere i misteri della filosofia del linguaggio nel teatrino dei personaggi dei suoi racconti... E tanti altri, e insieme a loro, quando erano fra noi, Cesare Musatti e Bruno Munari, e ancora Silvio Ceccato, Fulvio Papi, Gianfranco Bettetini, Augusto Ponzio, Grazia Neri, Stefano Benni, Umberto Eco... Filosofi, artisti, scienziati che lo sfrenato talento dialogico del mio amico ha riunito nel Club Psòmega, che Bonfantini ha fondato insieme a Boeri, e che si propone lo studio del pensiero inventivo e la pratica del vivere inventivo. Mantenere cioè vivi la fantasia, la libertà, l’invenzione, il gioco, la magia di cui parlavo poc’anzi. Di quel gruppo di avventurosi, di cui mi onoro di far parte, Renato Boeri era quello che più mi incuriosiva. Compariva fra di noi col portamento naturalmente signorile del gentiluomo di antico stampo, la sigaretta perennemente accesa e quel sorriso indefinibile che spesso piega le labbra di chi ha visto e conosciuto molta sofferenza. Ne spiavo i tratti del volto e mi sorprendevo
104 L’altezza del gioco
a pensare che in fondo lavoravamo con la stessa materia prima, le emozioni. E le parole che aveva scritto ne Il pensiero inventivo, uno dei tanti libri pubblicati dal Club Psòmega, “...l’emozione obbliga l’essere vivente a ridiventare un vivente istantaneo... fonda l’avvenire col presente...” si adattavano benissimo a descrivere quanto io stesso mi proponevo e mi propongo con la poesia. E, a proposito di poesia, mi ha sempre interessato capire come il suono e il senso stringessero le loro indissolubili alleanze nel segno poetico, partendo dalla fase aurorale del loro incontro nelle aree di Broca e di Wernicke del nostro emisfero cerebrale. E ora avevo l’occasione di conoscere l’autore di scritti che mi sarebbero stati di molto aiuto per chiarire quei problemi. Ma c’era di più in quella mia curiosità e nell’attrattiva che esercitava su di me quell’uomo. Sempre profondamente impegnato nella lotta per la trasformazione della società che lo aveva spinto giovanissimo a partecipare alla Resistenza e lo aveva visto ai tempi del disastro dell’Icmesa battersi per il riconoscimento dei diritti degli sfigurati dalla brama di guadagno del colosso chimico, Boeri aveva fondato nell’ ‘89 la Consulta di bioetica. Ebbene, i temi dell’etica del vivere non erano forse uno degli argomenti principe dei miei scritti? Ma mentre io nella poesia mi limitavo a denunciare l’inautenticità, la devastazione, la violenza che l’assetto economico e sociale diffonde come un morbo nella nostra vita e a sognare una possibile liberazione, avevo lì, davanti a me, una persona che tentava concretamente, quotidianamente, nella realtà, di gettare le fondamenta di un vivere libero e responsabile. Soprattutto nelle circostanze e nelle traversie di una malattia, contro le storture di una medicina che vede nel paziente solo un arnese da riparare per garantirne l’ulteriore utilizzo negli ingranaggi e nelle bielle dell’universale meccanismo che per far denaro ci stritola. Alleviare il dolore altrui: era questo, di cui Boeri aveva fatto il suo mestiere, ciò che in lui mi affascinava. Ma, mi chiedevo volgendo gli occhi sui bizzarri compagni delle mie avventure psomeghine, non è forse questo che tutti noi, imbarcati nella generosa impresa di Bonfantini e di Boeri, in fondo facciamo: cercare di rendere meno pesante, ognuno nel suo campo e con gli strumenti che ha a disposizione, la soma che ci tocca trascinare? Avrei avuto modo in seguito di conoscere e di apprezzare la profonda umanità di Boeri nell’esercitare la sua professione, quando, per certi suoi problemi depressivi, ho portato una persona cara per una visita da Renato. Aveva il dono di farti sentire a tuo agio, fugava con un sorriso e una parola la sensazione che tante volte i medici ispirano al paziente: quella di essere l’oggetto di un qualche esame entomologico, la cavia di esperimenti su cui non hai il controllo, il corpo inerte sul marmo di un tavolo anatomico. Il calore era invece la nota dominante di quel suo conversare in cui si dipanava l’itinerario diagnostico e grazie al quale non perdevi mai la consapevolezza di essere il soggetto, sia pure in difficoltà, sofferente, indifeso, di una vicenda che era la tua e che il medico ti aiutava a ricostruire e a risanare. Ecco, se dovessi riassumere in una parola le impressioni che ho cercato di descrivere, userei a proposito di Boeri il termine cordialità nel suo significato etimologico di movimento di affetto e di simpatia che viene dal cuore. Da quelle emozioni che sono, come scriveva, “la precondizione dell’inventiva”, e, aggiungo io, nel caso di quell’aura di cordialità che Renato emanava, la condizione necessaria di ogni umana convivenza.
Essere come rinati
105 “Essere come rinati: è questa l’intenzione dei lineamenti fondamentali di un mondo migliore per quanto riguarda il corpo”, scriveva Ernst Bloch. Questa era l’idealità cui si ispirava l’agire cordiale di Boeri come medico e come uomo. “Ma”, metteva in guardia Bloch, e Boeri lo sapeva, ed era forse questa consapevolezza a piegargli in quello strano sorriso le labbra, “gli uomini non camminano eretti, se la vita sociale continua ad avere la schiena piegata”. La signoria delle insegne pubblicitarie contro il cielo della notte è lì a ricordarcelo. Una sera incontri a caso una ragazza. E’ la fine di gennaio, forse, o febbraio. Fa freddo. Le parli, ne sfiori il corpo, ti chini sul suo volto, e ti specchi in un abisso di solitudine, di disperazione, un universo esploso in cui le parole galleggiano come i meteoriti di una qualche catastrofe planetaria. Ma non importa. Vuoi scaldarti. Ascolti distrattamente brandelli di storie, di illusioni, di sogni alla deriva. Fa freddo. E quella voce ti parla. Racconta qualcosa che in fondo conosci. Vuoi scaldarti. Capisci che dietro quelle parole c’è solo un disperato bisogno di amore. Che è anche il tuo. Fa freddo. Fa tanto freddo... E allora, immersi nel bagliore delle vetrine, storditi dal fragore dei tram, seguiti dagli occhi spenti dei manichini, ci si aggrappa l’un l’altra come in mare aperto i travolti dalle onde...
106 L’altezza del gioco
E poi le strade della notte Margherita che scendi le scale nel tuo delirio di sogni e bicchieri stringendoti morti bambini fra i denti e parlando parlando parlando verso gli abissi di una geografia da cui fuggirono per sempre le camere odorose dell’infanzia contadina Margherita che ti chiami Daisy per gioco appreso sulla lunga attesa dei fumetti e riscattando in un sorriso talvolta le mani che ti brancicano le mani che ti prendono le mani che ricercano solo ciò che per tante mezzanotti hai per sempre perduto portando in borsetta pistole giocattolo per difenderti dall’ombra Margherita di suore e aghi che ti trafiggono in fantasmagorie di ospedali ridente di barzellette e tutta la solitudine che ti fa nere le unghie oscena nella tua semplice dignità ferma agli angoli aspettando un tram che non arriva
Essere come rinati
107 Margherita detta Daisy dai tuoi sogni di carta indossatrice dicevi e ancora parlando terre e vigne del Piemonte che ti porti sul labbro sperduta e pallida lungo le panchine una sera con una cagna e una pistola giocattolo della violenza che da ventisette anni ti ferisce nel profondo della tua orfana statura e con pietre Margherita con fiori di carta con denti che ridono con borsette e con gonne con tutta la vita che ti stringe alla gola per giungere ad un angolo dove uomini forse ti attendono nello scongiuro di fotografie promettendo di non bere più e sempre trascinandoti da un bar all’altro che nonostante sai amare Margherita scoppiando in risate improvvise di barzellette nervosa tu dici e pazza perché nata sotto un cuscino nella tua incosciente e lunga notte dopo aver guardato dentro lo specchio di un tempo che ti dice no con rughe attorno agli occhi eppure giovane giovane di passi e sorrisi stringendoti pellicce di pelo finto giunta fin nel cuore degli inverni per rimpiangere calori mai visti Margherita detta Daisy con civetteria contadina ancora
108 L’altezza del gioco
di strade provinciali da cui passarono corriere quel giorno che decidesti per sempre di lasciare le vigne e il paese per ritrovarti lungo angoli di cemento panchine panni stesi case a buon mercato mani brancicanti in sospiri che fingono l’amore in precipitante fuga verso bicchieri e vuoi vivere vivere Margherita detta Daisy col tuo corpo lungo e magro aggrappandoti al primo che incontri puntando pistole occhi di notte contro ombre inconsapevoli della tua discesa infernale dei tuoi gradini che portano a stanze di solitudini coi manifesti dei cantanti alla moda e i dischi delle ultime canzonette per dimenticare nel giro di tre minuti l’ombra di chi ti promise di chi ti parlò di chi ti prese di chi ti abbandonò per sempre in questo imbuto di solo cemento Margherita detta Daisy fissando le stelle e piangendo con vestiti lunghi e gonne civetteria di carta straccia inseguendo sulle caselle di parole incrociate anagrammi di felicità sconosciute di sicurezze spese di sentimenti malricambiati
Essere come rinati
109 e la tua piaga Margherita di bambini che ti dici Daisy in un sogno che ti va largo come il vestito che porti che lavori dalle suore che hai il terrore di ospedali e di lunghe punture proprio dentro il cuore Margherita sognante solitaria in fondo a stanze che ricerchi solo l’amore quello che ti dicevano da bambina nelle favole per poi svegliarti in quest’incubo di case e panchine in quest’ora lunga tutte le sere senza sapere che cosa fare e senza il figlio che sognasti che ti portarono via morte e infermiere che dici di avere allattato per poi contemplare solo fotografie su comodini crudeli Margherita detta Daisy per telefonarmi talvolta per dire il mio maschio poeta altro inganno che conosci da occhi che ti fissano nella girandola furiosa di parole che non vogliono stare al loro posto nascosta e annegata dentro sogni di cartapesta per ricordarti semplicemente della tua maternità trafitta e del nido segreto da cui i sogni prendono il volo come anatre impazzite Margherita e l’ora lunga di uno specchio in cui ogni sera tornando da strade e da risa
110 L’altezza del gioco
solitaria scontrosamente ti contempli
Morgana
che ricerchi solo l’amore quello che ti dicevano da bambina nelle favole
Sei vecchio gridava con bocca di polvere vòlto al nadir di stelle declinanti verso le città dove la notte raccoglie i suoi semi incamminandosi con spicchi di luna arance morsicate dall’età dei bimbi impotente col suo remo pesante nelle stagioni e nel duro giro della terra bianco su orizzonti maledicenti e dai banchi del mercato uno non vedi? bisbigliava non vedi? ma l’acqua inghiottiva ombre dileguanti in bagliori d’incendio travi annerite dove le lumache spargevano bava sui mari ancora veleggiando tra scie di ricordi le bestemmie e le risate in vigilie ardenti di battaglia immobile ora accanto alle case e non sapeva che dire che fare immobile nel largo spiazzo delle acque cadenti perché non poté che andare e le gambe cedevano sulle pozze chino a scrutare rifrangersi il cerchio degli anni fiero tuttavia immenso nel suo riso di uomo con la fame dei viaggi divorante e gli addii intrecciati attorno ai fianchi Ascolta figlio ascolta:
perché i figli siano diversi guarda gli incantati in ombre e in ombre alle vetrine come tutte le sere alle sei e mezza scendono per le strade fuggenti epifanie di un attimo e svoltano scomparendo agli angoli
116 L’altezza del gioco muti per tornarsene a casa con sicurezze di fumo dentro i salotti Osserva il regno dei morti senza parole senza sguardi senza amore Come il mattino che approdammo all’isola dei cani e tirando in secca le barche nella polvere scoprimmo il senso del viaggio Era questo dunque il destino questa la somma dei dadi e delle scommesse quando riprendendo un rimorso di pane il mare preferimmo nell’abbraccio di onde smosse e di navi? e sei vecchio grido impietrito con un sacco sulle spalle vecchio ripercuotendosi con eco sconfinata di corno nel ventre delle metropolitane in un sussulto di biglietti e il giornale arrotolato nelle tasche Il mio dio non sa il mio dio non vede il mio dio perduto in fondo ai corridoi pulendo le scarpe ai suoi figli perché siano in ordine e a posto E tutto questo valeva la pena? Valeva il sortilegio dei venti? smarrito ritrovandosi ai porti sui moli dove l’acqua ristagna riflettendosi negli occhi di chi non vide con monumenti di marmo città sconciate dal fango
Morgana 117
digradanti città di sotterranei e d’archivi città di fabbriche privilegiato luogo trafitto lampeggianti città di silenzi con fognature solo gorgoglianti e strani che si muovono contando sulle dita E tutto questo valeva la pena? perché sei vecchio gridava cigolando sui cancelli crocefisso alle lance con girasoli assurdi rivedendosi in fondo agli specchi con l’acqua oscura che si pente e si ribella di non scorrere come i figli e come il tempo e sei vecchio gallo combattente vecchio Sui pali del telegrafo sono inchiodate quattro parole Mai Più Vedremo Amore Mai Più Vedremo Amore fino al giorno in cui osando viaggi non verso terre ma verso uomini altri rivolteranno con la mano sapiente la sabbia delle ore e la lunga pazienza dei raccolti
118 L’altezza del gioco
Che destino avranno queste parole quale immensità di spazi dovranno attraversare per colmare l’impercettibile distanza della tua fotografia sul tavolo perché riprenda vita sullo sfondo il mare battendo alla scogliera le domande che sono specchio della notte al mondo? Le stelle cadono e sulla terra gli uomini son trascinati da un vento che li afferra fino ai confini dei paesi morti dove corrono lungo i muri i cani e un manifesto finisce di disfarsi nella pioggia Non conosco nulla ma ricordo un terreno vago dove i vecchi gridavano i loro punti alla pétanque e ricordo quelle voci nel silenzio ammonire come negli stagni il tempo quando s’appresta l’anatra a migrare E’ questo esilio dunque di sorrisi il bando che l’ombra furtiva dei cappotti decreta sciamando per le strade nell’ultimo inverno dei ricordi e suona fino al cuore il passo di quella folla fradicia che si accalca nel transito scandito dal bagliore livido all’altra riva di un semaforo Di te e di me si perderà notizia come già una sera camminammo sugli spalti delle mura di un castello
Morgana 119
e la tua mano insensibilmente mi condusse incontro alle generazioni spente che un polverìo travolse alla pianura e fummo per un attimo sospesi nel varco aperto tra ritorno e pianto Ma l’ora dei bagagli si avvicina basteranno certamente poche cose un mozzicone di matita un fiore sarà una notte e ne rammento il giorno questa musica sottile mi rapisce di me e di te si perderà notizia che destino avranno queste parole quale immensità di spazi dovranno attraversare per sussurrarti addio su questa pagina da cui obliquamente t’amo
120 L’altezza del gioco
Dal lato d’occidente dove cade la pietra scabra della notte una scintilla almeno tenteremo per trarre alla sua luce il volto così che sia disciolto il nodo l’enigma che trionfa della bestia mentre piano si fa assenza il mondo ed urla ai suoi deserti il vento
Morgana 121
E come la passione canta del suono che ritorna all’alba di questa rosa ti faremo dono perché sorprenda delle onde il flusso la norma che intende la ragione dell’urlo immenso che stravolge il mare quando s’avventa sugli scogli a un varco che offre al suo tormento scampo
122 L’altezza del gioco
Ma renderai grazie alla dolce che sostenne nel limite del tempo il passo che indugiava perché fu nel tuo deserto l’acqua il volo della rondine che migra quando l’autunno ha dissipato il bosco la costanza dell’attesa la sapienza del ritorno
Morgana 123
Interrogherò la pozza dell’acqua per sapere se il filo che ti lega ancora tiene per sapere Consulterò l’ala del gabbiano per sapere se ha notizia del mio uomo per sapere le isole e la rotta del mio bene per sapere Nel talismano d’oro ti ho cercato e un vento fra le canne si è levato lamenti di rugiada ha sussurrato lunghe grida di battaglia mi ha portato annunci di sventura ha decretato Lampone e verbena un otre di terra e di rena cuore di storno elleboro nero perché tu faccia ritorno Dalla cima di quei monti l’orizzonte scruterò avida cagna in calore il tuo nome invocherò nel freddo nel sole il vascello attenderò –nave zattera legno trave ma che ti ributti implorerò all’approdo del mio seno alla deriva del mio ventre
124 L’altezza del gioco
E nella tua luce riposo pietra levigata dall’onda sconfitta memoria d’abissi all’altezza definitiva della tua cintura del riso algebrica fiammeggiante malìa nominandoti dono dicendoti mia
Morgana 125
Dolcissima di venti e profumi antica antica mia piccola nomade di Mesopotamia e d’Egitto per abbandonarmi infine come già una sera ti vidi al mercato delle olive in Alessandria vagamente sospesa nel tumulto delle strade fra il tempo e le stelle
126 L’altezza del gioco
E il vento gira le sue ruote perché tu sempre ritorni e questa dolcezza che m’è data sia l’acqua che lungamente scorre in fondo ai tuoi occhi E io non sono uno e tu non sei sola ma insieme camminiamo per le strade del mondo senza dimenticare le scale della vendita o le maniche sdrucite del freddo Perché così vive l’amore compagna del nostro sorriso non solo nel silenzio o nel fuoco che sale dai piedi ai capelli ma nella sete ripetuta che vuole che per tutti canti il vino sulle tavole di festa di una terra buona senza recinti e senza padroni dove i campanili dell'alba avranno per sempre sconfitto tutte le ombre della notte
Morgana 127
Lo sapevamo quando partimmo verso orizzonti astratti: la mela che mordemmo ritorna col suo profumo dall’infanzia io te ne feci dono tu m’hai guardato e assunse i suoi colori il mondo tu vita mia mio approdo eterno mio viaggio condiviso
Afferrati ai gorghi
per sapere le isole e la rotta del mio bene per sapere
Con occhi di vento afferrati ai gorghi vedemmo passare carcasse di cavalli e corpi di bianchi annegati stringendo al petto lance di orgoglio udimmo il canto di occhi stelle marine fanciulle avvinghiate ai polipi vedevamo danzare in fondo a relitti di città con travi e con botti isole serpeggianti baciavano l’onda dei piedi e i remi in cadenza con occhi di fango il mare apriva le cosce accogliendoci in un’orma di disgrazie e vedemmo affondare a giri larghi e lenti troni di re e carcasse inseguimmo sull’onda di soffi brucianti in cantine di spuma i fuochi marini la madre chiamava con disperato alito immiserita nello spruzzare delle onde la seconda nascita il mescolarsi di vuoti e di soli e giallo di fango con luce biancastra l’udimmo cantare in relitti di parole orsi marini invano e chi piangeva legandosi ai banchi chi rideva arrampicandosi lungo gli alberi vedevamo affiorare ed affondare nell’alterna vicenda delle stagioni città dai bianchi tetti di marmo lastre spezzate di tombe universi di sciami di api mandatici incontro da pittori bruciati
e bicchieri di cannella e mille pugnali di sole trafiggevano il corpo dell’eterno movimento clavicembali spezzati e flauti messaggi di bottiglie disperate inchiostri con lame ruote e stellate canaglie venti dai fianchi di seta
Afferrati ai gorghi 133
danzanti in coppia ed abbracciati a sciarpe vittorie ed eserciti ognuno moriva cantando non avvertiva l’ombra del sonno il miele delle parole pungeva con api di nascite partorendo in immensi catini di sangue verso il tramonto non si possono ridire i chiodi ed alla sera un vulcano sfatto e boccheggiante sembrò gridare nulla nulla nulla con le unghie qualcuno si era aperto il petto cantando una ninna nanna a prua avanzava volando con strisce di sangue avanzava coi remi in cadenza avanzava cantando con denti spezzati avanzava la nave disormeggiata per sempre senza speranza di porti incontro ai cani occhitonanti incontro ai cani di isole scoscese agli inferni di mosche putrefatte incontro ad isole impazzite che si tenevano per mano avanzava con alito di sogno abbracciata al duplice amore della luna con lacrime di perla la nostra nave senza porto avanzava con squame di pesci e scie di uccelli avanzava con cento vele nere spiegate e si inchinavano le terre al nostro passaggio gettando coriandoli e addii vedemmo pagliacci danzare facendo sciarade di onde e il fondo si ribellava alle catene di banchi e di scogli vedemmo immense pozzanghere aprirsi in passi in cadenza in eserciti in spine vedemmo spianare le armi
134 L’altezza del gioco con alterni singhiozzi ed eserciti occhidinotte baciarsi la fronte spaccata divisa in due la mela del mondo sputava i suoi semi spezzata dalla nave piangente nessuno poteva trattenere ondate di dubbi desideri di morte di rinascita di seconde coppe bevute con occhi assenti e chi piangeva contemplando le mani chi gridava chi rideva in un concerto dalle costellazioni impazzite la madre ci abbracciava con occhi marini la madre gridava ritorna la madre apriva braccia di relitti la madre urlava da cosce impazzite nel dolore del parto senza ritorno e avanzava sprofondando in oscurità sempre più fitte avanzava la nave nostra boccadivento avanzava con insulse preghiere e pietà con carichi di morti ridenti e vedemmo le isole gettarsi verso cieli verdi urlare da maledizioni e da scosse vedemmo animali terrestri e zolfi vedemmo occhicerchiati dannati attorcigliarsi al nostro collo gridando pietà PIETA’ PIETA’ non fu nostra la colpa di braccia di ferro non fu nostra la colpa di vite distrutte e pietà e pietà avanzava la nave con nero alito impazzito lasciandosi alle spalle mani annaspanti alla superficie con catene e pugnali avanzava la nave nostra con immenso sussulto verso l’alba del giorno quando all’improvviso si fece bonaccia
Afferrati ai gorghi 135
quando all’improvviso tacque il respiro del mare quando all’improvviso... e fu giorno giorno di immensi silenzi giorno di morta calma e ognuno gettato sulle assi fissava l’occhio vuoto del cielo in un sonno pesante in bianchi sussulti senza clamori abbandonati immensi e abbandonati sentimmo una strana parola sussurrata appena sussurrata sulla nostra nave immobile oscillavano in lamenti lunghi sfacendosi in pianti oscillavano mordendosi le mani oscillavano con le dita fra i capelli e la bocca aperta vuota in un pianto fanciullo oscillavano sentendo un ritorna ritorna ritorna ritorna alla pace ritorna entro le cosce che ti hanno generato ritorna con furore di seme ritorna in un ansimo di piacere ritorna coi pugni stretti ritorna e si gettarono molti a capofitto si gettarono molti con un urlo che ruppe le acque li vedemmo a giri larghi scomparire ridenti li vedemmo rotolare nel fondo ridenti li vedemmo abbracciarsi agli scogli ridenti li vedemmo ridiventare sabbia ridenti li vedemmo affondare stringendosi le ginocchia e le braccia al petto sanguinando dalle orecchie giacemmo a lungo
136 L’altezza del gioco e vennero uccelli strani vennero larghi di bianche ali vennero con una fiamma nel becco vennero anch’essi parlando con lingua di albero posandosi sulle vele ci guardavano oscillando il becco squarciandosi il petto ci guardavano battendo le ali ed uccidendosi a poco a poco ci guardavano e il sangue colava lungo le vele il sangue colava dalle ali in croce il sangue colava e ci guardavano e quando si fecero legno e palo e quando bruciarono in chiarori di luna ci guardavano con le ali in croce inchiodati ai nostri pennoni a braccia larghe piombammo in un sonno pesante avvinghiati con tenacia di alga alle tavole costruite con un urlo immenso allora il mare si stravolse in iridescenti bagliori in un rotolare di stelle in barili di vendetta dalle braccia verdeartiglianti graffiando con mani di sabbia la nostra culla di legno ci legammo ai banchi con triplici nodi e denti con le mani ficcate nel legno mordendo le nostre tavole strisciando la faccia sul ponte la luna medusa riempiva il cielo di lampi fissandoci con milioni di occhi
Afferrati ai gorghi 137
la luna medusa singhiozzava con passi di tempesta la luna medusa bruciava le vele spezzate lacerando con coltelli di vento le nostre corde la luna medusa urlava maledizioni di penisole gettando manciate di continenti e di terre scagliando con denti di luce frecce di cadaveri e precipitava la nave nostra verso catene di coralli verso cani di conchiglie verso tane di silenzio precipitava in un’ansia di fiamme in cocci di bottiglie con nodi di notte legati alla giostra impazzita dei coralli e dei pesci vomitavamo vino di parole scongiuri inferni di palpebre stretti abbracciandoci e legandoci in catena piangente divenimmo nave nella nave legno nel legno e nel legno divenimmo terra e nella terra roccia e montagna e continente e sul nostro continente di legno impazzito legando le mani alle mani le braccia alle braccia il corpo al corpo scoprimmo la forza di essere uomo ........................................................... E la mattina del terzo giorno approdammo ad un’isola.......... ...........................................................
Palestina
osando viaggi non verso terre ma verso uomini
Onde l’uomo che è della terra cessi di incutere spavento
E mentre le pronuncio, è come se quelle ultime parole richiamassero da un abisso di secoli le innumerevoli generazioni che in esse hanno sperato ancor prima che Davide le cantasse nei suoi Salmi più di tremila anni fa... Poiché il povero non sarà dimenticato per sempre... e nella penombra i compagni mi paiono allora la coralità degli uomini d’ogni tempo e latitudine che si mossero, combatterono e, come costoro che mi ascoltano, tuttora si battono perché la medesima certezza trionfi... Né la speranza dei miseri perirà in perpetuo... C’è un attimo di silenzio. Poi la Sala di via Corridoni è tutta un applauso. Tornando al mio posto in platea, mentre passo davanti al tavolo degli oratori, Wassim, il rappresentante dell’OLP, e Uri Avnery, il pacifista israeliano, mi stringono la mano. E quel gesto dei “fratelli nemici” –dal titolo del libro di Avnery che campeggia anche sulla convocazione dell’incontro organizzato da Democrazia Proletaria alla Sala della Provincia mi pare sancire la giustezza di quanto mi proponevo con la poesia: esprimere con le parole più alte della tradizione dell’uno, la Bibbia, le ragioni della lotta dell’altro. ...esaudisci il desiderio degli umili... Un fragile ponte, in direzione di un dialogo difficile. Come quello che si svolge sotto i nostri occhi, sottolineato dall’attenzione tesa con cui l’assemblea segue i discorsi. Ognuno di noi è infatti consapevole dell’importanza di quel confronto, ma anche del dramma che in quello stesso momento si va consumando nei territori occupati: la corsa dei ragazzi coi sassi, il fumo dei copertoni bruciati, l’echeggiare secco degli spari, la conta quotidiana dei morti. “Perché, signor Avnery,” dice Wassim con la voce appena incrinata, “la condizione del nostro popolo oggi è questa: vedere i propri figli uccisi nel ventre delle loro madri dalle percosse e dai gas del vostro esercito” . Accanto a me due giovanissimi, fra i molti che affollano l’auditorium, si stringono, quasi a voler scongiurare in un abbraccio tutto quell’orrore. “Ma non è proprio questa, forse, la posta in gioco?”, mi sorprendo a pensare volgendo gli occhi dai due innamorati verso Wassim e cercando di indovinare sul suo volto i segni che v’ha lasciato la sua vicenda, di ripercorrere i gradini che l’hanno portato fin qui... E me lo immagino bambino ascoltare ingigantire sulle labbra dei vecchi il ricordo della terra strappata, e le notti di grida e di fiamme dell’Irgun e dell’Haganah, e i camion a deportare villaggi, e la fila lunga delle masserizie, e la miseria senza nome delle baracche e dei campi della sua adolescenza, e l’umiliazione ripetuta a ogni ufficio e sportello di quel “profugo!” buttato in faccia, e le prime riunioni febbrili con altri come lui, la scelta del fucile, la decisione di dare e ricevere la morte... E la meta ultima, il senso più profondo di tutto questo, forse è proprio qui, in ciò che mi sta accanto: la dolcezza di un abbraccio. La riconquista di una tenerezza che, al di là di terre e paesi, è quanto di più intimo e prezioso l’uomo sottrae a se stesso e ai propri simili, la perdita che accomuna la vittima e il carnefice.
“Gli israeliani non sanno, non riescono neppure a immaginare che cosa sia la pace”, sembra far eco ai miei pensieri la voce di Avnery. “La guerra rientra nel normale ordine delle cose”. La curiosità di tutti è per questo personaggio, divenuto leggendario per aver fatto della lotta contro questa “normalità” e dell’impegno di insegnare la pace ai propri compatrioti la ragione della sua vita. La barba bianca e gli occhi chiari di Avnery contrastano singolarmente con la carnagione bruna di Wassim e rivelano in lui l’askenazita dell’Europa centrale. Quell’Europa da cui, bambino, è emigrato in Palestina, fuggendo, nel 1933, dalla Germania in cui i roghi dei libri del nazismo trionfante preparavano incendi ben più vasti. “C’è un uomo al quale va a fuoco la casa,” prende a raccontare Avnery in un apologo “per salvarsi entra in un’altra credendola disabitata. Quando
142 L’altezza del gioco scopre di essersi sbagliato, chiede insistentemente che lo lascino vivere in una stanza, con l’argomento che tanto, tanto tempo fa vi vivevano i suoi antenati. Naturalmente gli abitanti della casa protestano, e cercano di buttarlo fuori a forza. Di fronte a questo nuovo rischio, egli diventa violento, si batte per la stanza e nel corso della lotta conquista progressivamente altre stanze finché gli abitanti originari sono minacciati di essere completamente cacciati da casa loro”. Una storia, questa del sionismo, di cui Avnery è stato un protagonista, conoscendo da vicino la guerra, la violenza, la crudeltà. Da quando nel ‘38, a neppure quindici anni, entra nell’Irgun per combattere contro gli inglesi; e poi, nel ‘48, nell’Haganah, battendosi per la sua “stanza” in quella che gli israeliani chiamano “guerra di indipendenza” e i palestinesi semplicemente “nakhba”, “il disastro”. Irgun, Haganah... eccolo qui, “l’uomo nero” dell’infanzia di Wassim. E fa un certo effetto, dà quasi una sensazione di irrealtà vederlo questa sera seduto accanto a lui a raccontare questi episodi. Eppure quella voce pacata che sembra voler rintracciare un filo di razionalità attraverso le grida e i clamori della storia e la fronte corrugata di Wassim teso ad ascoltare le parole di chi solo ieri lo ha cacciato da casa sua, sono la testimonianza più eloquente della possibilità che hanno gli esseri umani di incontrarsi, di comprendersi. Ed è forse il fatto che questo dialogo urta contro i nostri schemi più consolidati –che vogliono che i nemici non possano intendersi, perché il nemico è per definizione il vaso di ogni iniquità ciò che contribuisce a creare quel senso di spaesamento che dicevo. Rompere quegli schemi, riconoscere il nemico, e farsi da lui riconoscere, è del resto il grande merito di Avnery, e ciò affonda le sue radici proprio negli anni dell’Irgun. “Per gli inglesi ero un terrorista,” dice “mentre ero un combattente della libertà secondo la nostra definizione. In seguito non ho mai dimenticato questa lezione: un terrorista, secondo lui, si batte per la libertà, mentre secondo il nemico chi lotta per la libertà è un terrorista”. Ebbene, tutta l’avventura umana e intellettuale di Avnery, il suo coraggio e la dirittura morale si riassumono in questo percorso: riconoscere nel terrorista –che è il demonio, e quindi una non entità il nemico e, nel nemico, l’uomo –mosso dalle sue ferite, dai suoi ideali, dal suo odio, anche e nell’uomo, il fratello. Mio fratello, il nemico, appunto, come dice il titolo del suo libro. Che è il resoconto di anni e anni di incontri che Avnery ha avuto con i dirigenti palestinesi. Di molti di quei “terroristi assassini”, come Hammami e Sartawi –assassinati, loro sì, forse proprio a causa di quei contatti Avnery è diventato amico personale, durante gli interminabili colloqui a Londra, a Vienna, a Parigi, dovunque fosse possibile, persino tra le macerie di Beirut, dove si recò nell’ ‘82 a incontrare Arafat mentre i mezzi corazzati di Sharon stringevano d’assedio la città. E dovunque ascoltando e facendosi ascoltare, vincendo diffidenze in se stesso e negli interlocutori, tessendo instancabile la tela della speranza che nutre il suo sogno: un Israele progressista, federato con uno Stato palestinese sovrano, in un Medio Oriente di pace. “Se lo hai voluto tu,” sorride Avnery, citando le parole di Herzl, il fondatore del movimento sionista, “non sarà una favola”. Bisogna però che anche gli altri israeliani lo vogliano: di qui l’incessante opera di controinformazione, i comitati per la pace, gli articoli, le manifestazioni organizzate da Avnery per guadagnarsi il favore dell’opinione pubblica perché faccia pressione sul governo e ne muti la
Palestina 143
politica. “E’ necessario convincere i miei compatrioti che i palestinesi non sono belve sanguinarie,” torna a ripetere caparbio “ma nemici, cioè uomini che combattono per i propri diritti e la propria libertà, e con i quali è possibile intendersi e trattare”. In questa prospettiva, Avnery vede nell’intifada, la rivolta delle pietre, una grande occasione. Perché il giovinetto con la fionda è il simbolo di Davide e in Davide, inteso come il giusto che combatte nemici potenti, Israele si è sempre identificato. Ebbene, ogni sera la televisione restituisce agli israeliani rovesciata l’immagine che hanno di se stessi, con Israele nella parte di Golia contro il Davide palestinese. E questo, secondo Avnery, può scuotere coscienze, seminare dubbi, incrinare certezze. E poi, forse perché la mia poesia dei versi di Davide è composta, “Che cosa abbiamo fatto” chiede con tono sommesso e quasi rivolgendo a se stesso la domanda “di quelle parole che impariamo da bambini, che tutti amiamo?”. E dopo una breve pausa: “Come le abbiamo stravolte?”. ...uno stuolo di malfattori m’ha attorniato... La cosa che più mi aveva colpito erano state le dichiarazioni di Rabin, e in particolare la direttiva impartita all’esercito di spezzare braccia e mani a chi avesse osato tirare sassi, una direttiva che mi appariva tanto più oscena in quanto ammantata da ragioni umanitarie. Storpiare ragazzi in fondo non significa ammazzarli, pareva argomentare il ministro della difesa. Solo una lezione, magari un po’ energica, così che imparassero, quegli straccioni, a comportarsi. Non che i vecchi metodi fossero stati abbandonati. Tutt’altro: e anzi la catena degli uccisi a bersaglio di proiettili o a cavia di gas era destinata ad allungarsi ogni giorno. Ma accanto a quella per così dire tradizionale, il mondo doveva imparare a conoscere questa nuova, inedita pratica. La “lezione” di Rabin sarebbe entrata nelle nostre case, coi telegiornali, all’ora di pranzo. Un terreno vago, forse una discarica per le immondizie. Entra in campo un gruppo di soldati. Le riprese, effettuate da un operatore nascosto, appaiono a tratti sfocate e sono completamente prive di sonoro. Ecco, in primo piano, gli stivali del drappello, fra cui si intravedono gambe nude che si impigliano fra gli sterpi, rimbalzano sulle pietre. Ora la cinepresa inquadra due poco più che bambini trascinati a corpo morto per le ascelle. Poi i prigionieri sono a terra. Alcuni militari gli sono sopra; li tengono fermi; gli aprono in croce le braccia; gliele tengono ben stese. Altri afferrano grossi macigni. Un colpo, due, tre... E prendono a fracassare gli arti. Un colpo, due, tre... Con metodo. E il tutto nelle nostre case, attraverso lo schermo come in un acquario, in un silenzio irreale e agghiacciante, in cui le urla degli straziati e gli insulti degli aguzzini, che indovinavi dalle smorfie di dolore e dalle bocche digrignate, pareva dovessero risuonare in eterno. Quella scena, cui quasi volevo rifiutarmi di credere, quella ferocia era la legge: i soldati non stavano facendo altro che ottemperare agli ordini di un ministro laburista di un governo legalmente eletto in un paese che si vuole democratico e civile. ...l’empio dice nel suo cuore...
144 L’altezza del gioco Ero letteralmente nauseato. La cosa mi sembrava talmente enorme che mi pareva impossibile non avesse suscitato un moto generale di ripulsa, di ribellione. Ma quanti, mi chiedevo, di fronte alle stesse immagini, si sarebbero limitati a correre con la mano al telecomando, esorcizzandone lo scandalo con la semplice pressione di un pulsante e specchiandosi nella banalità luccicante di un qualsiasi musical si sarebbero sentiti tranquillizzati, rassicurati, e le avrebbero semplicemente dimenticate? E allora il silenzio spettrale in cui il massacro si era svolto sotto i nostri occhi mi appariva la cifra di un silenzio più grave, la metafora di un mondo in cui ci vorrebbero spettatori muti di fronte alla neutralità fluorescente di uno schermo in cui tutto ciò che appare è di per ciò stesso giustificato, legittimato, vero, ma in cui al contempo il confine tra realtà e finzione viene a perdersi con lo stesso ritmo con cui azionando il telecomando un’immagine trascorre in un’altra. La disperazione di una madre e l’ultimo video di Madonna, i cadaveri smembrati delle guerre del pianeta e le vittime degli intrighi patinati di “Dallas”... tutto ci passa davanti agli occhi appiattito, senza spessore, si equivale, si confonde, per essere subito dimenticato, inghiottito da un’altra immagine, cancellato da un’emozione più forte. Tutto ci viene mostrato perché nulla sia compreso, e nulla quindi toccato, vediamo senza distinguere più che cosa è vero e che cosa è falso, poveri demiurghi inebetiti davanti a uno schermo, aggrappati allo strumento illusorio di un potere che ci consente sì di cambiare canale, ma per assistere a spettacoli di cui non siamo più in grado di cogliere il senso e che altri decidono, organizzano, dirigono... ...volgiti a me... Contro quel silenzio la mia poesia voleva essere un grido, un piccolo granello in quel meccanismo che stritola sensibilità e memoria, il minimo intoppo che placasse almeno per un attimo il fragore degli ingranaggi per offrire un varco alla riflessione. Scrivere una poesia di argomento politico non è difficile, purché si abbiano ben presenti che cosa si vuol dire, a chi ci si rivolge, l’effetto e lo scopo che si vogliono ottenere. E io già la vedevo, la mia poesia, correre di mano in mano riprodotta su un volantino o offerta allo sguardo dei passanti come manifesto agli angoli della strada. Sapevo dunque che doveva essere breve per poter essere contenuta nello spazio di un foglio o di un affisso; doveva parlare a chiunque avesse la ventura di incontrarla; doveva muovere ragionamenti, rimescolare emozioni, restituire verità. Tutto questo sapevo. E tutto rimaneva da fare. Era una mattina di fine gennaio. Ero seduto alla scrivania e i miei pensieri vagavano... ...ed abbi pietà di me... ...si fatica si combatte si muore come un gorgo di silenzio questi anni e tanti ci si sono perduti compagni di un tempo che incontri per strada e ciao e come stai una piega al labbro dura dimentichi di tutto che non sia denaro successo a cosa può servire una poesia se questa è la legge si fatica si combatte si muore correndo a mani nude popolo di bambini con qualche sasso sempre loro i più giovani a pagare e qualcuno te l’ha anche detto in faccia “il loro torto Giulio è non aver vinto” incredulo guardandoli come li ha travolti lo stipendio la professione il tempo a cosa può servire una poesia ma scrivono speranza quelle mani nascosto da panni variopinti il
Palestina 145
volto potrebbero essere figli di Abu Askar questi dell’intifada che aveva sì e no quattordici anni allora ridente lo ricordi orgoglioso del suo mitra mio dio come sono scappati gli anni e ne avevi ventisei sbarcando a Beirut negli occhi ancora riversarsi nella notte bianchi nelle galabie a piedi da ogni portone era incredibile o aggrappati ai tram sul tetto degli autobus uomini e donne da ogni strada al Cairo e quel grido che pareva voler strappare a brandelli il cielo un profumo di gelsomini intorno ne facevano collane per i turisti che ti scambiavano per russo “balalaika!” ti aveva apostrofato uno sciuscià ridendo e quella folla nella notte mai vista tanta gente prima “Alla ai! Alla ai!” non lo dimentico più quel grido “Abdul Nasser tessa ai!” piangendo correndo gridando “Ahimè! Ahimè! Abdul Nasser è morto!” settembre ’70 del mattatoio giordano si fatica si combatte si muore fiammeggiando su Beirut le insegne delle banche chissà se un giorno la rivedrò bianca bellissima sul mare e che effetto mi farebbe oggi che vent’anni di guerra l’han sventrata crocevia di razze Sciarah el Hamra si specchiavano nelle vetrine alte ondeggiando nel tramonto stupende le ragazze libanesi parlando il francese fra di loro andavi allo scoglio degli amanti con Carole in faccia al mare e il libraio maronita in fondo alla strada “eh oui monsieur” studi alla Sorbona elegante compito “les palestiniens c’est notre maladie” al di là della Borsa Rue de Damas ti veniva incontro lacera Beirut Sabra Chatila Tall el Zaatar non c’è che dire l’hanno curata bene la malattia gli occhi spalancati nella domanda muta dei bambini giocando fra le fogne a cielo aperto polvere baracche patria palestinese dilaniata in un universo di miseria tirate su coi copertoni e le lamiere “anch’io qualche volta ho perduto tutto al gioco” nell’atrio di cristallo del Phoenicia il console italiano “ma non per questo ho preso il mitra” portavano sul viso le rughe dell’insonnia “tre giorni e tre notti dietro un muro” diceva Abu Sadu ripiegati a Beirut con le zanne nere di settembre sul costato si fatica si combatte si muore e s’era mangiato un gatto con i peli e tutto ombre sul muro tra casse di proiettili nella baracca dell’OLP di Chatila chini attorno al tavolo a parlare che andavi in Brera nebbia del ‘73 a cercare Abu Ali quando erano venuti i fedayn per lo spettacolo di Fo a Milano e ogni notte che dormiva a casa tua “che cosa c’è Abu Ali?” scuotendolo e lui a urlare le case diroccate di Amman i pugnali della legione araba di Glubb pascià di strada in strada a corpo a corpo “Abu Ali mat!” gridava sognandosi scannato a cosa può servire una poesia buffo però questo chiamarsi Abu che vuol dire padre come i frati tutti seduti in cerchio a mangiare il ginocchio sinistro piegato a terra stringendosi col braccio il mitra al corpo e con la destra raccogliendo il cibo si fatica si combatte si muore coi suoi trent’anni ti sembrava vecchio Abu Sadu sulla sua volkswagen giù verso il Litani che certo era possibile visitare le basi del sud del Libano professore di letteratura all’università aveva messo una bomba sul sedile passando il fiume “for Israel” ridendo e la pistola col colpo in canna si fatica si combatte si muore tu qui alla scrivania a inseguir ricordi Tiro Sidone il castello di Beaufort millenni racchiusi da quei nomi oggi ci voleranno sulle macerie i corvi che erano le roccaforti palestinesi in armi dall’alto di una collina “guarda!” e la distesa dei campicelli brulli diventa l’Alta Galilea degli israeliani sbattendo la portiera fra i muri smozzicati che dal confine dista due chilometri Aynata e spesso ride Sadu l’hanno salutato con lo “shalom” i contadini credendolo israeliano si fatica si combatte si muore come nel nostro sud terra riarsa fichi d’india sole sul muro del cortile dov’è il pozzo la rosa rampicante ti balza incontro come la vedessi oggi e ti restituisce Abu Feras lo zingaro e Abu Medienne senza un occhio e Abu Salim l’indaffarato
146 L’altezza del gioco e Abu Askar il piccolino e Skandar e Sultan e Akam solo in questi nomi oggi vivi tu qui alla scrivania e la notte era chiara alta la luna a cosa può servire una poesia in quattro gruppi verso i confini inginocchiato sul pavimento Abu Sadu indicando sulla mappa la posizione di Al Manara “e qui le mine” che arrivano alle cinque e mezza ogni mattina i camion dei soldati per il cambio “e qui le mitragliatrici” si fatica si combatte si muore lasciandosi alle spalle la sagoma consunta di Aynata ti avevano messo una kefia attorno al viso per ripararti dal freddo dell’ottobre seguendoli per scrivere un articolo e ti si appannavano gli occhiali alta la luna bagnando l’ombra di Sadu col diktirioff in spalla si fatica si combatte si muore e gli altri in fila indiana coi nastri dei proiettili e i lanciarazzi e quelle mine piatte “are you tired Giulio?” e “no” che non son stanco strisciando il passo del leopardo fra le macerie sul confine i lumi tremolanti di Al Manara in lontananza “tieni” fumando una sigaretta a coppa e mi fa scivolare una scatola di tonno in tasca Abu Medienne dietro un muretto a secco aspettando l’alba fascio improvviso di luce un elicottero frugando le tenebre col faro e “ana baekbak enta” “ti voglio bene” sussurra Abu Salim spingendomi che me ne stia nascosto in un cespuglio e urlano fino a impallidire il cielo i cani si fatica si combatte si muore col vento dai villaggi l’eco stridula dei galli si porta il giorno e l’odore buono di quei campi una fuga di collinette spoglie fazzoletti di terra digrignata di fatica separati da muretti e sassi stento qua e là un ulivo paesaggio fermo che imprigiona il sole si fatica si combatte si muore cantavano qualcosa che non so lieve lo scatto delle armi tra le nuvole di polvere sbucando da una curva i camion si morde le labbra Askar come giocattoli traballanti sulla strada mi fa segno di star giù si fatica si combatte si muore e la mina esplode “strano” ricordo d’aver pensato “come tutto sembra attutito soffocato” crepitìo di mitra sbuffo di granate quasi inghiottito dal paesaggio e “yalla!” urlano i compagni “via! via!” mi volto per un attimo che dai camion cominciano a sparare imbratta l’azzurro un fumo nero formicaio di uniformi laggiù fra i sassi si fatica si combatte si muore e corri allora su per la pietraia china la testa che fischiano gli spari scavalca un muretto e poi un altro fa’ come loro così a zig zag corri non fermarti che non vengano speriamo gli elicotteri deve essere il cannone questo tuono e corri bocca riarsa sete l’ansito come il tuo degli altri altissimi gli aerei poi in picchiata bùttati a terra adesso ma è impazzito Skandar? perché arma il mitra? “salta!” contro Askar e lui no smorfia infantile che ha paura “o sparo!” che arrivano di infilata i proiettili delle mitragliatrici giù al riparo tra un fico d’india e un muretto spiando il cielo e quel contadino... si fatica si combatte si muore... e quel contadino... ora capisco qui alla scrivania di averlo inseguito quel contadino e lo rivedo come allora apparso ai nostri occhi d’improvviso sul crinale della collina così irreale piegato sulla zappa indifferente nei gesti antichi del lavoro continuare testardo a dissodare il campo mentre tutt’attorno cambiano solo gli strumenti di una vicenda sempre eguale si fatica si combatte si muore aerei e bombe oggi e lance balenano nei secoli e fionde e baionette e scimitarre e spade balenano nei secoli e secoli di una vicenda sempre eguale si fatica si combatte si muore la legge questa certo ma non della storia bensì di quella lunghissima preistoria aveva ragione Marx prima del regno sperato che sconfigga la necessità del lavoro e della guerra e con la natura riconcili e quindi con la morte quella lunghissima preistoria si fatica si combatte si muore che si consuma qui fra un muretto e un fico d’india sempre eguale come ai tempi della Bibbia...
Palestina 147
...poiché il povero... E così m’ero alzato a prendere una copia della Bibbia dallo scaffale. Forse spinto dall’urgenza di quelle sensazioni che mi avevano rimescolato presente e passato in un’attualità in cui le vicende della storia finivano per confondersi; o, più probabilmente, perché avvertivo che quell’immagine che il corso dei pensieri mi aveva restituito con tanta evidenza, quel contadino chino sulla sua fatica in un paesaggio senza tempo, era la chiave di tutto, l’elemento che dava, per così dire, prospettiva, profondità e, in definitiva, senso a quanto nei ricordi avevo rivissuto. Avevo aperto le Scritture al primo libro dei Salmi, quelli conosciuti come Salmi di Davide, e lo avevo fatto così, senza una ragione. Era stato il mio “coup de dès”, la mossa imprevedibile e imprevista senza la quale non sarei qui a ragionare su questa poesia, perché se il caso mi avesse spinto sotto gli occhi, poniamo, i Numeri o il Levitico, mi sarei probabilmente accontentato di una scorsa e avrei seguito altre strade. E’ quel tanto di casuale che fa scattare di solito il meccanismo creativo: “l’ispirazione”, per intendersi, quel brusìo con cui all’orecchio esercitato la poesia pare sussurrare “sono qui”. Ed è allora che un pensiero, un odore, un rumore, un volto possono catturare tutta la luce dell’universo per restituirla poi in quel punto splendente da cui si irradierà il futuro poema. Io però avevo davanti un libro, anzi il Libro. Mi confrontavo con un linguaggio essenziale, duro e scabro come quelle pietre di Palestina, e che mi pareva straordinariamente efficace nella versione di Giovanni Luzzi, il teologo valdese che aveva curato l’edizione della Bibbia in mio possesso. E intanto cercavo di immaginarmi come suonasse l’originale nell’antica lingua con cui per la prima volta l’uomo misurò se stesso dinnanzi all’eterno, come potessero sciogliersi in canto quelle parole, come dovessero dilatarne l’eco le cetre e i flauti destinati ad accompagnarle. Seguivo il dialogo di Davide col suo Dio –Porgi l’orecchio alle mie parole, o Eterno... e lo fantasticavo buttato lì, sui sassi, fra un fico d’india e un muretto, come noi in quella terra tremila anni dopo, con gli occhi fissi al cielo e udivo nell’immensità del mattino perdersi la sua implorazione –Odi la voce del mio grido, o mio Re o mio Dio... e nel grido la solitudine risuonare, e il dolore e l’ira e la speranza. Come si levasse oggi, quella voce. Il primo verso, dicevano i poeti antichi, lo dona il dio. Nel mio caso, la benevolenza divina m’era venuta incontro con gli ultimi: “poiché il povero non sarà dimenticato per sempre...”. Parole che mi avevano colpito per la loro forza e per quella semplicità che, a dar retta a Brecht, come il comunismo, è difficile da fare. Le avevo quindi scelte a esergo di una poesia che in quel momento intendevo ancora scrivere con parole mie. Il dio dei poeti, quindi, a ben pensare, il suo mestiere lo aveva fatto a puntino: lui i primi versi me li aveva inviati, secondo tutte le regole; sono io che le avrei sovvertite in un lavoro di tagliaecuci che mi avrebbe fatto ritrovare per ultimo ciò che era apparso per primo. Infatti, man mano che leggevo i Salmi, cui ormai mi ero appassionato, altre parole mi si imponevano e avevo cominciato a trascriverle su un foglio; e intanto, a poco a poco, maturava in me un’idea: non era possibile scrivere tutto con i versetti della Bibbia? ...rendi loro secondo le loro opere...
148 L’altezza del gioco Forse sì. Guardo il mio foglio, fitto di citazioni, tratte da Salmi diversi ed estrapolate dal loro contesto. Provo a dividerle in quartine. Ne scelgo sette, disponendole secondo l’ordine del discorso che intendevo svolgere. Volgo al femminile là dove Davide parlando di se stesso usa il maschile. Intitolo il tutto Palestina... e mi trovo di fronte a un testo in cui la Palestina parla con parole sorprendentemente attuali, ma cariche al tempo stesso di tutte le suggestioni, di tutti gli echi che i secoli da cui salgono hanno loro donato. Una poesia, insomma, che rispecchia esattamente quella sensazione che tanto m’aveva colpito quando nei miei ricordi alla scrivania avevo rievocato la scena della battaglia e del contadino. Mi rendevo naturalmente conto dei rischi che un’operazione del genere comportava: non era forse la Bibbia la fonte da cui traevano giustificazione i dirigenti del Likud o, peggio, gli estremisti alla Kahane, per la loro politica di annessione e di violenza? Ma più riflettevo, più mi convincevo della liceità, anzi addirittura dell’astuzia di quel procedimento: avevo ribaltato le ragioni degli avversari usando il testo cui si richiamavano per dare legittimità alle loro scelleratezze. Un uso per così dire “alternativo” della Bibbia. E laico, per di più. Il tu con cui Davide si rivolgeva a Dio infatti chiamava ora in causa il passante o il lettore che mi ero proposto di scuotere. Avevo insomma usato di un libro sacro o, se si preferisce, di un testo sapienziale dell’umanità, come di un codice da cui avevo tratto elementi discreti per comporli in qualcosa di nuovo. Per dirla nei termini di Saussure, la Bibbia era la Langue, là dove la mia poesia era la Parole. ...il mio cuore non avrebbe paura... La mia poesia? Ecco il dubbio, l’interrogativo maiuscolo che mi assillava. Potevo firmarla col mio nome, questa poesia? Potevo considerarla legittimamente mia? Non mi ero forse limitato a copiare? Si trattava sì o no di un’operazione creativa? Le riflessioni precedenti avevano già cominciato a rispondere affermativamente alle mie domande. Ma altre considerazioni dovevano intervenire a rafforzare la mia presunzione di paternità. Leggendo e rileggendo, mi rendevo infatti conto che quanto avevo davanti funzionava allo stesso modo di uno dei meccanismi cardine della creazione poetica: la metafora, che da più di duemila anni, da Aristotele ai neoretori del Gruppo µι, gli studiosi si affannano ad indagare. ...e il poeta dirà della sera... che è la vecchiaia del giorno. Prendiamo questa metafora illustre, usata da Empedocle, e analizzata da Aristotele nel passo citato della sua Poetica. E’ chiaro che i due termini, il termine proprio (sera) e quello figurato (vecchiaia del giorno), si riferiscono alla stessa realtà: quel momento particolare del giorno in cui il sole tramonta. Per dire sera però il poeta ha scritto “vecchiaia del giorno”. In quella espressione convivono quindi due sensi: quello di vecchiaia che è la parola che leggo, che appare, e quello di sera, sottinteso, che è il significato che la metafora intende esprimere. Questa duplicità di senso crea quindi una tensione, uno iato, uno scarto fra i due modi del linguaggio, quello figurato, esibito dal nostro enunciato e quello della lingua naturale che il primo, per essere compreso, richiama. Non appena io capisco la metafora –mi dico “ma guarda, vuol dire sera!” riduco quello scarto, torno per così dire da “vecchiaia” a “sera”, ma arricchito di tutte le connotazioni, i sedimenti, le concrezioni che il termine vecchiaia mi ha lasciato. E guarderò all’imbrunire con occhi diversi,
Palestina 149
cogliendo quel senso di malinconia, di decadimento, di fugacità che il termine sera, proprio perché convenzionale, automatico, indifferente, non mi avrebbe consentito di cogliere. Ho così arricchito il mio modo di percepire uno degli stati del mondo. E questo è avvenuto attraverso la metafora, che è appunto una delle modalità con cui il linguaggio scopre, conosce, crea, inventa. Immaginiamo ora il mio lettore. Gli ho proposto un testo che è intitolato Palestina. Se non sa che è costruito con versetti tratti dalla Bibbia, lo legge, può giudicarlo più o meno bello, e rimarrebbe probabilmente colpito dalla solennità del linguaggio che può pensare modellato su un calco arcaico per ragioni meramente stilistiche. Ma non appena la memoria culturale del lettore gli fa scoprire, o io glielo indico, che si tratta della Bibbia, ecco che la poesia esce dal suo stato di innocenza e partecipa di quella doppiezza che abbiamo già visto in azione nella metafora: abbiamo la Palestina che parla oggi al lettore e al tempo stesso Davide che si rivolge a Dio mille anni prima della nostra era. Anche qui, come nella metafora, si viene dunque a creare una tensione, uno iato, uno scarto che chiamano il lettore a una posizione critica: può essere o non essere d’accordo con l’accostamento fra la Palestina di oggi e la realtà tanto remota del popolo ebraico; può essere indotto a meditare su come muti la realtà storica, dato che la voce dei perseguitati di ieri è divenuta quella dei torturati di oggi; può viceversa cogliere l’eternità e l’immutabilità della parola di Dio nel tempo; può scandalizzarsi e giudicare inopportuno o blasfemo che abbia usato del Libro sacro per eccellenza per commentare e descrivere vicende mondane; o viceversa quella sacralità può diventare la pietra di paragone per stigmatizzare l’abiezione della politica israeliana odierna, e così via... Comunque vada, il nostro lettore non può rimanere neutrale, è costretto a prendere partito. E anche in questo caso, come nella metafora, il linguaggio ...o per dirla più francamente, io, che del linguaggio ho usato in questo modo... io, dunque, attraverso quella cosa così banale che appare a prima vista la citazione, sono riuscito a creare, a inventare tutto uno spazio di senso che altrimenti non sarebbe esistito. Aprendo così quel varco alla riflessione, che era appunto quanto mi proponevo quando mi accingevo a scrivere la poesia. Rassicurato da queste considerazioni, mi ero quindi affrettato a regolarizzare la mia posizione riconoscendo con una firma la mia creatura. ...anche allora sarei fiduciosa... Oltre che fumare, uno dei miei vizi lavorando è quello di ascoltare la radio. Non so, mi distrae, o meglio mi concede in alcuni momenti quel distacco che permette allo sguardo di mettere a fuoco meglio certi particolari. Come il pittore, che si allontana dalla sua tela per coglierne l’architettura. Stavo dunque dando le ultime pennellate alla mia opera, quando sento Radio Popolare annunciare per l’indomani la convocazione dell’assemblea in via Corridoni. “I classici due piccioni con una fava!”, mi dico. Giorni di prova mi avevano infatti convinto che la voce restituiva alla poesia tutta la sua carica di suggestione, e m’era venuta una gran voglia di recitarla in pubblico. Quale occasione migliore di quell’assemblea per presentare il mio lavoro, leggere la poesia e proporla, secondo la mia idea originaria, come testo di un volantino o di un
150 L’altezza del gioco manifesto. Tra parentesi, il manifesto lo avrei realizzato mesi dopo, cavandomi la soddisfazione di vedere la poesia rivestita di un bel disegno di Gioxe De Micheli e accompagnata dalla firma di un centinaio fra i più prestigiosi intellettuali italiani. Ma chiudendo la parentesi e tornando a noi, mi infilo un cappotto, corro da Ricci, la casa editrice con cui collaboro, “Ciao Carole, come stai?”, mi inchiodo alla fotocopiatrice e – approfittando della complicità di Carole che, oltre a volermi molto bene, controlla come redattrice la Rank Xerox procedo alla mia profana moltiplicazione dei pani e dei pesci. “Grazie, ci sentiamo...” e via a casa col mio bel pacco di fotocopie da distribuire in assemblea ai compagni perché ne facessero a loro volta copia. Una catena di Sant’Antonio che spesso in questi casi funziona. Già, ma bisognava leggerla, la poesia... Se scrivere una poesia “politica” non è, come dicevo, molto difficile, leggerla prevede tutto un cerimoniale preventivo, a volte molto fastidioso: lettere, telefonate, sorrisini, dinieghi, tentennamenti, spiegazioni, per arrivare a strappare un risicato sì. Ancor oggi, e sono ormai tanti anni che faccio questo mestiere, non sono riuscito ad abituarmi... “Per evitare la solita, e francamente un po’ umiliante trafila all’ultimo momento sotto il palco, chiedo in anticipo a te e ai compagni di poter leggere in assemblea domani sera la poesia acclusa” m’ero risolto a scrivere a Sandro Barzaghi, il segretario milanese di DP. E dopo aver plaudito alla moralità dell’incontro organizzato fra Avnery e Wassim e aver ribadito la mia convinzione circa l’utilità della poesia come manifesto e volantino, concludevo dicendo: “La lettura costituirebbe quindi un momento di presentazione e soprattutto di verifica dell’efficacia della poesia. E questo mi sembra vada in direzione della moralità di un lavoro come il mio che cerca sempre, per quanto gli è possibile e gli è concesso, di non sottrarsi a un confronto diretto con coloro cui aspira rivolgersi”. L’indomani squilla il telefono. La voce di Barzaghi: “Ti aspettiamo stasera, Giulio”. ...né la speranza dei miseri... La Sala della Provincia è quella delle grandi occasioni. Bandiere rosse e palestinesi dappertutto, brulicare di gente fin dalle scale. Come quella volta, nel ‘77, che avevo recitato la mia Cantata per Tall el Zaatar, accompagnato dal jazz del trio di Gaetano Liguori. “Allora, te la fanno dire la poesia?”. “Sì, certo...”, e guardo la testa canuta di Braga che fa capolino dietro il banchetto straripante di libri e di opuscoli sulla situazione palestinese. “Una bella lezione di fiducia” mi dico, pensando a quante volte in questi vent’anni l’ho visto, sempre a darsi da fare, sempre calmo, sempre sorridente. Lui che la sua parte l’ha fatta, e come!, durante la Resistenza. Vent’anni... e sul viso di molti che conosco da allora si vede che sono passati: una ruga, quella piega del labbro, la nuvola negli occhi di tanti. Ma quando entro nell’anfiteatro, la spavalderia variopinta delle kefie gettate sulle spalle, avvolte a mo’ di sciarpa, legate con noncuranza alle borsette, mi dice che i ragazzi sono numerosissimi. Potrebbero essere i miei figli, se ne avessi avuti... “Scusa...” e quello che ho urtato si volta. E’ Baj. E me lo ricordo, seduto di fianco a me, proprio qui in via Corridoni, singhiozzare come un bambino, lui che è grande e grosso, mentre Nemer
Palestina 151
Hammad raccontava l’assedio di Beirut nell’ ‘82. Quello con la barba bianca, dietro il tavolo, accanto a Capanna, deve essere Avnery e l’altro, più giovane, e con la carnagione scura, vicino a Barzaghi, Wassim. “Speriamo che capiscano, loro e tutti gli altri, quello che ho voluto fare con la poesia”, sussurro sedendomi, a Jole, la mia compagna. Lei mi fa cenno di sì. Mi stringe la mano. Poi mi chiamano. Salgo i gradini del palcoscenico, dando le spalle al pubblico. Quando arrivo al podio e mi volto, le luci della sala si sono spente. Odo solo quel brusìo indistinto che precede ogni rappresentazione. E mentre sto per iniziare, per un attimo, altre parole della Bibbia mi tornano alla memoria. Sono quelle del profeta Isaia: Sentinella, a che punto è la notte? E la risposta: L’alba sta per venire, ma la notte non è ancora terminata. E poi quell’invito, quella esortazione così sorprendente: Non stancatevi, tornate, domandate. E mi pare che il senso di tutta la vicenda dell’uomo sulla terra sia in quel riproporre incessante la stessa domanda. Sentinella, a che punto è la notte? Ma è un attimo. Tocca a me, adesso:
Volgiti a me ed abbi pietà di me perch’io son sola e afflitta Vedi i miei nemici perché son molti e m’odiano d’un odio violento Salmo 25, 16, 19 Cani m’han circondato uno stuolo di malfattori m’ha attorniato M’hanno spezzato le mani forato i piedi Salmo 22, 16 E parlano di pace col prossimo ma hanno la malizia nel cuore Rendi loro secondo le loro opere secondo la malvagità dei loro atti Salmo 28, 3, 4 Esaudisci il desiderio degli umili per far giustizia all’orfano e all’oppresso Onde l’uomo che è della terra cessi di incutere spavento Salmo 10, 18
152 L’altezza del gioco L’empio dice nel suo cuore: Non sarò mai smosso d’età in età non m’accadrà male alcuno Egli sta negli agguati dei villaggi uccide l’innocente in luoghi nascosti Salmo 10, 6, 8 Ma quand’anche un esercito si accampasse contro a me il mio cuore non avrebbe paura Quand’anche la guerra si levasse contro a me anche allora sarei fiduciosa Salmo 27, 3 Poiché il povero non sarà dimenticato per sempre Né la speranza dei miseri perirà in perpetuo Salmo 9, 18
Un frutto d’appartenenza
l’alba sta per venire ma la notte non è ancora terminata
Perché così grande è il silenzio di quelli che parlano ridendo nel buio di sogni con cappelli e parafulmini e oggetti al minuto prezzi al minuto e tu non mi senti sgranocchiando un biscotto e tu non mi senti quando baciasti la terra chino in onde di smisurate fiaccole oh predicatore e cristi e cristi e cristi perché così grande è il silenzio e corre la ragazzina inseguendo il cerchio noi andiamo verso orizzonti predetti verso orizzonti maledetti fra i mercati onde e luce luce pagata l’amore? dite le preghiere tra quelli che si nascondono la chiamano civiltà si nascondono con occhi e orecchie e occhi domani forse vedranno domani non oggi
e sei tornato dal regno dei morti con una bisaccia di pani quando? e ripassi domani sgualciva il cappello vedremo sgualciva il cappello
Un frutto d’appartenenza 157
e forse tuo padre ride fra le lenzuola la nave avanza senza timore di venti portava dei corni attaccati al braccialetto non si può lo hanno detto lo hanno gridato alla radio vedi tu dico a te TU TU TU e lo sappiamo dovrà finire e lo sappiamo ma non oggi e sono le bucce accartocciate li chiamano ribelli banditi con le armi in pugno ai confini? prediche di domenica IL SIGNORE DIO PADRE non sarà oggi ma costa trascinare la ruota del mondo facendo forza sui remi e arriveremo dicevano piegandosi arriveremo ma non oggi ma non oggi gridavano date a chi ha perché abbia di più date a chi ha spezzate i pani il vento è favorevole ma non oggi perché così grande è il silenzio morivano con lamenti lunghi ridendo ri
158 L’altezza del gioco riden ridendo e non era nessuno per questo era forte sapeva ridere sapeva dire la parola giusta al momento giusto ma non era che un uomo e aveva paura della morte? giaceva abbandonato dagli sguardi e dai fiori ma vedeva ma vedeva vedeva nel mare versicolore occhibui e ripetono in coro nelle città il nostro guadagno agli angoli di soli trafitti il nostro guadagno sulla soglia delle botteghe il nostro guadagno costruttori della ricchezza di altri costruttori della felicità di altri ma crollerà il vostro mondo le foglie cadono cadono cadono e la terra coltivata in autunno dà frutti e la terra coltivata è nostra per la fatica della zappa nostra per il sudore nostra nell’ombra delle strade erigevano forche
Un frutto d’appartenenza 159
nostra gridavano sono le leggi nostra colpevoli di lesa proprietà nostra e si stringevano insieme ed erano due volevano dimenticare ed erano due e riscoprivano le madri vedevano lontano le stelle camminano per le strade del cielo e le stagioni seguono alle stagioni si risvegliarono e si ritrovarono in molti sorridendo dovevano inventare nuove parole per riconoscersi perché così grande fu il silenzio ma grande la speranza e la lotta sei così bello baciami e sei forte perché confuso nei simili a te è l’amore e tutti insieme una forza l’onda travolge l’amore le barriere scricchiolano è una forza neri gridano correndo con sacchi di monete la mannaia del sole del sole del sole sta cadendo per noi
160 L’altezza del gioco
Il difficile esercizio della speranza una porta chiusa un portacenere una stanza ci fosse almeno una formula uno scongiuro un’assonanza e tuttavia questo filo di voce che ritorna che cuce che danza è già un fiore di fumo una ripresa d’armonia un arabesco di speranza
Un frutto d’appartenenza 161
E verranno le creature di dio i calabroni portando la parola una memoria di fiori danzando nel tempo gli alfabeti la bellezza possibile l’infanzia l’uscio di una porta sulle strade la neve le arance il natale
162 L’altezza del gioco
Chiude il paesaggio una corona d’alberi di pioppo che sfumano contro il cielo basso d’inverno si dissolve il volo in un battito d’ali che lascia nella neve di bagliore immutata traccia
Un frutto d’appartenenza 163
Luce del giorno o stella cometa il morso della mela la fragranza un alone di nostalgia l’attesa dell’annuncio sempre la ricerca di un segno di una traccia il ramoscello spezzato forse un varco un passaggio e la pozza d’acqua che ci restituirà un’immagine compiuta un volto finalmente placato un’ombra un sorriso una radura
164 L’altezza del gioco
Ma l’ombra con te cammina potersela strappare di dosso restituirla al vento e puri nella luce levarsi senza peso o memoria senza muri liberi dal simbolo che ad ogni istante ammonisce che quella è la partenza e la fine l’intera misura del nostro viaggio
Un frutto d’appartenenza 165
Ascoltammo poi la canzone del mare quella che dice sempre quella che dice riposa l’alta misura del tempo del mondo fino a giungere alle rive della notte dove il pesce immenso si abbandona sotto gli occhi muti delle stelle del cielo a una vicenda di flutti
166 L’altezza del gioco
Luna nel cielo stella che trema e il gallo già canta
Un frutto d’appartenenza 167
Siamo gli uomini del limite i vissuti tra mare e notte con una promessa di vento in fondo agli occhi e la sigaretta tra le labbra attraversammo un’angoscia di città innumerevoli come l’onda che viene a morire su questa scogliera di luna dove l’umana paura si confronta con la stella e una cateratta d’acque ci dice ancora ancora ancora
168 L’altezza del gioco
Quella stella vedi che s’accende nel cielo e poi scolora seguendo il suo ciclo e torna la mattina tutta tremante di quella assenza
Un frutto d’appartenenza 169
Foglia lieve foglia cifra del vento nostalgia di primavera incanto di giochi nel tuo breve volo rendi vera la terra esaudisci il mistero del mondo
170 L’altezza del gioco
Resterà ciò che resta e il resto va filo di parole bava di vento sogno di mare nel cielo una stella questo alfabeto che è già
Un frutto d’appartenenza 171
Essere dunque nella cui pace segna un frutto d’appartenenza un lume musica che svaria alla catena o voce che ripercuote il pozzo nell’infima saggezza che rifrange nella sua parola il volto alle costellazioni roteanti in cielo nel punto stesso in cui riscava la sua scommessa il fiore
Il ragno e il poeta: caso, libertà, necessità
una porta chiusa un portacenere una stanza
Come abbiamo già visto a proposito di Palestina, la nascita del fiore della poesia è sottoposta, come ogni scommessa, al capriccio del caso. Ma è anche determinata dalla libera scelta di chi, spinto da una sua necessità interiore, quella scommessa ingaggia. Caso, libertà e necessità sono i succhi che fanno fertile la terra della poesia e permettono al suo fiore di dare il frutto che illumina l’istante che noi tutti siamo, riconciliandoci con la ruota del tempo e col ciclo delle stagioni, la cadenza di luce e tenebra della natura cui apparteniamo. Immaginate un poeta nel suo studio. Il poeta pensa: pensa al mondo in cui vive, alla sua volgarità, alla sua ingiustizia, alla sua violenza... e avverte in modo lancinante la necessità, il bisogno di poesia. Gli oggetti che si trovano a caso sul suo tavolo, la luce in cui sono immersi sono come le lettere di un alfabeto che è già lì e che attende per così dire che una mano ne raccolga le tessere per comporle nella pienezza dispiegata di un significato, di un senso. Il poeta ha un foglio davanti a sé. Lo fissa: quella pagina bianca è la sua vertigine e la sua libertà, perché, come in musica il rumore bianco è composto da tutti i possibili suoni, così quella nivea assenza in cui si perdono gli occhi del poeta contiene tutti i colori, tutte le frasi, tutti i libri. Ma la pagina bianca, che per il poeta si identifica, come abbiamo visto, con la sua libertà, gli detta, gli impone un imperativo, la prescrizione della sua legge, della legge del suo essere poeta, e cioè la sua necessità interiore. Supponete ora che, immerso in queste riflessioni, il poeta sollevi la testa dal suo foglio e si guardi attorno: i mobili che ben conosce, la lampada che così spesso ha vegliato la sua insonnia, lo scaffale con i volumi che tante volte ha consultato... Ma ecco su quel ripiano familiare, fra i libri, una presenza insolita che gli insondabili percorsi del caso hanno condotto fin lì: un piccolo ragno, intento a filare pazientemente la sua tela. Il poeta lo guarda, l’osserva, lo considera e all’improvviso l’incontro casuale fra lo sguardo e quell’insetto scaturito dal nulla è la scintilla che rivela al poeta nell’opera del suo minuscolo compagno l’allegoria della sua stessa condizione, del suo lavoro, della sua vita, del suo essere un artista, un poeta. E al tempo stesso è come se il filo d’argento che il piccolo tessitore secerne cucisse insieme le quattro poesie che potrete leggere di seguito, e che vi ho raccontato in questa sequenza logica e temporale, ma che in realtà sono nate a caso, in periodi, in anni, in situazioni diverse della mia vita e che, nell’apparizione, nell’epifania di quel ragnetto alle sei di un mattino della settimana scorsa, trovano la loro ragione e la loro necessità.
Non sono cioè più, queste poesie, frammenti irrelati, ma si dispongono appunto nella consequenzialità di un discorso, acquistano la pregnanza e la precisione di figure che spiccano nell’ordito e nella trama di un tessuto. Che è precisamente quello che la poesia, la musica, la pittura e in generale l’arte fanno: raccogliere qua e là parole, suoni, colori, cose che apparentemente non hanno rapporto fra loro –come possono essere appunto un ragno e un poeta e metterle insieme: accostare, imbastire, cucire, annodare, connettere, intrecciare, legare, stringere, tessere. Ecco il lavoro dell’arte. Istituire cioè una necessità dove prima regnava il caso o, se volete, con un facile ma significativo anagramma, il caos. Ed è ciò per cui l’arte, la pittura, la musica, la poesia sono tanto necessarie, ciò per cui ne avvertiamo il bisogno:
176 L’altezza del gioco
C’è bisogno di poesia diceva sul tavolo le forbici sono aperte l’orologio scandisce il tempo l’ultimo raggio d’inverno gioca sul foglio
Il ragno e il poeta: caso, libertà, necessità 177
Dietro la porta il bianco T’abbaglia Paradigma di intensità Luogo d’assenza Metafora ultima attesa Là dove inoltrarsi
178 L’altezza del gioco
Tu leggerai fino all’ultima parola del libro che è in te sfoglierai pagina dopo pagina lettera su lettera ti affaticherai e il silenzio ti circonda ma per comprenderlo appunto perché esso parli
Il ragno e il poeta: caso, libertà, necessità 179
Il ragnetto fra i libri che tesse paziente la tela qualche volta cade ma il filo lo tiene lo lega quel piccolo sarto sapiente tra le parole che giacciono morte allineate nei loro loculi di carta è il segno della vita ostinata testarda che si arrampica annoda ricuce cerca la strada improbabile di una resurrezione il fragile avvento di una domanda che non attende risposta ma quell’esagonale scala di luce che da se stesso secerne la sua grandezza e la sua prigione
Lezione di anatomia
la sua grandezza e la sua prigione
Al polso cui l’orologio ascende con piccole note che solo l’orecchio intende quando sanguinano intorno i cardi di speranze vuote e si raccolgono alla marea di lune rovesciate occhicomete sognanti chimere verso l’inevitabile meta di polvere e si incontrano unicamente in sordine di mari verso conchiglie sul fondo e sono io puramente io tanto che la parola m’abbaglia tra muri gocciolanti sporcizia e ricordi in modo che tutta ne risuona la casa o tomba dove si consuma la sabbia assegnata in sogni improvvisi dal lutto balzando verso fiori e assorda anche semplicemente un sussurro ripetendo chissà ripetendo dovunque ripetendo immagini da specchi che non si conoscono altro che per ombre intraviste di sbieco e tutta la ruggine degli anni sembra congiurare alle giunture per dire tradimenti d’età e lunghe catene che imitano libertà di parole battute con ostinazioni dubbie e maleassortite speranze di braccia perché un’altra volta s’allarghi la nota nel buio come in infanzie di abbandoni così che a questa soglia di anni immobile ti ritrovi e tuttavia non si sa dove camminando con ombre lunghe con polvere con allentata fede ché credere è divenuto speranza e speranza si stravolge in ghigno osservato sulle pareti così che l’amore anch'esso si consegna a striscianti rossodentati sospiri che stritolano anni minuti giorni nomi oggetti
e questo torna a comporre sabbia e un vento la solleva e con occhi accecati nella leggenda di abbracci ancora una volta risorgi nella legge di un’età senza frastuono per non imparare che digradante cammino in ombra spiando dagli angoli la muta di cani che avanza
Lezione di anatomia 185
con lento fragore di tuono ed è la via che si lascia alle spalle anche l’ultima assonanza per ricordare solo miti ottusi e scorie e macerie sempre e ancora qui nonostante l’umile saggezza accumulata scrollandosi di dosso polveri inenarrabili di viaggi e di là dalle pareti qualcosa si muove testimonianza forse di vita testimonianza forse di desideri testimonianza forse che smentisce solitudini di ossa senza voler ascoltare e tutto precipita inconsistente con inchiostri pallidi e calamai con frantumi di specchi con gusci secchi con materia rotta e non sa nemmeno la bocca pronunciare una parola di perdono e battono e battono i chiodi di questa multilanceolata disperazione che ti scava e ti scava senza trovare acqua senza trovare luce senza trovare fuoco ma solo sbriciolando i giorni al polso cui l’orologio ascende
186 L’altezza del gioco
E’ questa sofferenza l’unica dignità l’unico emblema questa pioggia sottile che cade questa insistenza il giocattolo in pezzi di fronte al bambino che l’ha rotto per saggiare il proprio dominio e cerca di rimetterlo assieme la bocca serrata senza lacrime chino una piccola pazienza che prefigura il gioco e la posta per cui rotoleranno i giorni venturi
Lezione di anatomia 187
Cos’altro se non questo esercizio testardo gettare una manciata di pietre ripetere a incanto la filastrocca cercare sulla sabbia le linee di un volto attendere che abbia compiuto la sua opera il vento pur conoscendo in anticipo la risposta?
188 L’altezza del gioco
Si cerca così di ingannare il tempo con vecchie camicie appese e il dito sulla mappa perduto nei viaggi oh volto antico lacrime che scorsero musica che ancora ti rapisce seguendo la linea sottile degli equinozi il punto della stella la rosa dei venti felici l’incanto che ti travolge
Lezione di anatomia 189
L’evidenza d’ogni parola l’albero dove le radici affondano oscure questo gioco di specchi che ti guida da cerchio a luce verso la domanda che ti farà senza risposta libero
190 L’altezza del gioco
D’acqua di vento e di stagione oscura l’incanto di una stella a settentrione e seguitando il fiume la sua corsa una regione d’ombra un nastro dimenticato tra vecchie carte una foto un amuleto una scheggia d’osso composero l’emblema e la ragione la misura sottile di una pioggia che batte ai vetri evocando il volto e chiede il dove e cancella il quando
Lezione di anatomia 191
Come nei circhi di una provincia piovosa quando hanno piantato il tendone e forse di scorcio si intravede il mare e la sua promessa lontana e suona roco il richiamo dei garzoni di scena che saranno pagliacci la sera o di fronte a pochi annoiati si allacceranno nelle giravolte a mezz’aria e dopo essersi dipinti il viso lanceranno in silenzio i coltelli o reciteranno l’interminabile farsa del fiore che nasconde tranelli e nella gabbie intanto i cani sapienti annusano il vento e solo ricordano che di nuovo è tornato l’inverno
192 L’altezza del gioco
Fuori cade un’acqua mista a neve la città prenatalizia sussurra sortilegi di infanzie perdute lo spazio bianco del foglio è l’unico percorso concesso che tu sia un poeta ormai bene o male l’hanno accettato sorseggiando vino bianco scadente hai già riposto con cura le carte che attestano questa fragile identità una solitudine testarda voluta che a colpi di chiodi ti innalzi nel rotolare banale dei giorni e se il vivere spesso t’appare la dignità di un abito smesso tuttavia qui e per sempre chino a scrutare la sabbia nell’attimo sarai consegnato perché almeno il ricordo rimanga
Lezione di anatomia 193
Studieranno le varianti poi e strofinando il naso sui miei versi “Perbacco!” diranno “che gran personaggio!” e misurando a metri il percorso e in lacrime gli amori “ Certamente” esclameranno “doveva avere un cuore” Ma qualcuno più fine ed esperto cavando un fazzoletto dal taschino “ Peccato” sospirerà “un tale destino!” “In fondo era dotato” grugnirà
194 L’altezza del gioco un altro e pulendosi gli occhiali “Come ha potuto mescolare le stelle a tanta prosa a tanto fango?” E dalla sedia scricchiolando “Ha copiato ha copiato” decreterà tossendo fra tutti il decano “O forse il fumo l’alcol l’insana passione di spazi aperti di piazze microfoni masse” azzarderà fresco di studi aggiustando la cravatta il Pa ri gi no E rivoltandomi ancor caldo
Lezione di anatomia 195
“E’ inevitabile rilevare una certa debolezza di stile” aggiungerà lo struttural parolaio “Anche se è indubbio che qualcosa ha rappresentato” chioserà gettandomi un’occhiata distratta il rivoluzionario
E continuando allegramente a seppellirmi s’accorgeranno i critici che è tardi e ad argomenti più seri passando “E’ ora colleghi d’andare a man gia re” bisbiglieranno tutti eccitati
196 L’altezza del gioco
Si alzeranno quindi con reciproci inchini eleganti perfetti trasparenti e in gran polvere di virgole e d’accenti svaniranno finalmente lasciando che io possa tranquillo discorrere con i compagni miei d’allora il vento l’acqua la terra
Il segreto del vento
e chiede il dove e cancella il quando
E non ricordare lungo il passo che fugge e le spiagge tutti i rifiuti lasciati dal mare perché altrove segnata la rotta ricordava solo isole sogni o leggende? asciugandosi il sudore di troppi remi piegati con umano sforzo senza conoscere il giro dei dadi o la sabbia delle clessidre concessa con occhi di profumi nell’imbuto di secoli a venire pozzo oscuro come nell’infanzia quanto deciso per non partire più prometteva ai marinai dalle sponde del mare ignoto piegando remi e tela ricurva come lo scudo in altri tempi condottiero dall’arco invincibile ora nella fonte specchiandosi vecchio nel verdetto degli anni ascoltando di lamenti nodi lunghi o semplicemente dei sogni la smania che ti assale sull’alba quando fuggono dalla fronte le ultime donne della notte lasciando rughe e rughe
e rughe pozzo dei secoli degli anni dell’adolescenza perduta sul petto della primavera o infinito infinito gioco per ritrovarsi alla fine
Il segreto del vento 201
come sempre solitario senza soldati senza guerrieri senza armi e contemplando sulla riva gli ultimi fuochi dell'accampamento nemico che si vanno spegnendo distribuendo con mani di tempo improvvise l’angoscia del domani dove ti attendono per chiederti per giudicarti per abbandonarti una volta per tutte al vento al vento che va al vento che va e più non torna che va e più non torna non torna non torna non torna oscuro solitario eroe dopo aver distribuito sorriso e pianto come nell’ansia della notte per ricordare con foglie e con morta sabbia l’onda degli amici fuggenti che scendono le scale di eterne notti bambini incessanti smarriti nei giochi nei numeri nel sorriso che si spegne nei capelli che imbiancano
202 L’altezza del gioco nelle città che crescono lungo i quartieri del sonno lungo i tram di miseria lungo le malripartite strade della solitudine per abbandonarti una volta per tutte al vento che va al vento al vento che va e più non torna non torna non torna non torna abbarbicato ad una trave per percorrere tutti i mari e al vento al vento che va che va e più non torna non torna non torna canzone dell’infanzia degli eroi delle fiabe di poveri genitori inghiottiti dall’ombra lasciandoti e per sempre abbandonato al vento al vento che va che va al vento che va e più non torna al vento al vento che va e più non torna senza sapere nella pazza sinfonia
Il segreto del vento 203
di queste notti perdute né carta né onda ma solo ascoltando il vento il vento che va che va il vento che va e più non torna non torna non torna e in tutte le conchiglie dei suoi mari conosciuti accorgendosi di avere solo inseguito il segreto il segreto del vento del vento che va che va che va del vento che va e più non torna non torna non torna non torna
Il corpo della poesia
o infinito infinito gioco
Se il nostro ulissiade, sbattuto dai marosi della vita e afferrato dai gorghi della storia, insegue il segreto del vento che non torna, e cioè il mistero, l’enigma dell’umana avventura che di addio in addio è destinata a perdersi nell’oceano del nulla, la poesia invece insegue o, per meglio dire, è il segreto svelato del vento che ritorna. Perché nel vento della poesia, nella cadenza che si ripete dei suoi suoni, le voci di un tempo continuano a riecheggiare, i volti scomparsi sono sempre presenti, l’amore della gioventù tuttora ci rallegra o ci strazia, i portici delle città sepolte brulicano di folla, il grido dei profeti rievoca il deserto, il sangue delle antiche battaglie imbratta il petto dei valorosi... Il profumo che un giorno ci ha inebriati, il sorriso che ci incantò, la mano che ci ha dato sollievo sono tornati e sono ancora lì, perché, cogliendo tutti questi istanti nella precisione di un verso, la poesia ce li restituisce, sottraendoli a quella corrente che tutto travolge e salvandoli nell’unica forma storicamente accertata di eternità. Di immortalità. L’ora è ferma, c’è una leggera bruma sulla campagna ed ecco che dalla foschia la sagoma massiccia del bue riemerge sulla sinistra trascinando l’aratro e, tracciato il solco, l’animale svolta a destra spezzando con un ansito lungo le zolle e quindi lo vediamo più lontano riapparire a sinistra secondo il ritmo della sua fatica, quel continuo svoltare tornando sui suoi passi che gli antichi chiamavano versus e che ha ispirato quella prima forma di scrittura detta bustrofedica, che si dispone cioè alternativamente da sinistra a destra e da destra a sinistra, secondo il modo di volgersi dei buoi. Quel ritmo è il ritmo stesso della poesia che proprio nel nome della sua cellula fondamentale, “verso”, continua a ricordarci che tutta la sua magia consiste in questo qualcosa che ritorna, che ricompare, che si ripresenta, che gira, che ruota... Questo universo in rotazione è l’universo della poesia: la lenta gravitazione delle galassie dei fonemi, l’orbita regolare delle sillabe, la ciclica scansione delle arsi e delle tesi, la rivoluzione dei versi e delle strofe, il bagliore zenitale di un accento, l’eclisse di una cesura, l’albeggiare di una rima che si spegne e poi risorge trascrivono la musica delle sfere di cui fantasticarono astronomi e filosofi. Mentre la prosa è una marcia, diceva Valéry, la poesia è una danza. Il corpo che volteggia davanti a noi è un corpo fatto di vento. Fatto di suoni. La poesia non è forse lo sviluppo di un’interiezione?, si chiedeva ancora Valéry. Il poeta francese era molto caro a Renato Boeri, il quale rifiutava quella che lui chiamava la iperspecializzazione, il rinchiudersi cioè nel recinto esclusivo dei propri interessi e dei propri studi scientifici, e teorizzava una sorta di eclettismo curioso che lo spingeva alla frequentazione e alla lettura di pensatori, filosofi e artisti nei quali cercava spunti che non solo arricchissero il
suo bagaglio culturale, ma gli offrissero dei suggerimenti, delle intuizioni da applicare nello specifico campo del suo lavoro di scienziato. Paul Valéry è il poeta che più gli ha offerto sollecitazioni in questo senso e sulle opere del maestro Boeri ritorna spesso nei suoi scritti, come nel passo che cito, tratto dal suo libro L’invenzione nella vita, pubblicato nel ‘96 a Milano da Mazzotta: “Valéry chiama le emozioni il motore della mente, così interpreta questo mondo intimo, quindi riconosce alle emozioni la capacità veramente di essere il sostegno della ragione, il sostegno di tutto quello che l’uomo crea col proprio pensiero. E per questo diventa un appassionato del cervello.
208 L’altezza del gioco
C’è una frase che ripete due o tre volte e dice: ‘Il maestro cervello, accoccolato nel suo uomo, teneva nelle sue pieghe il suo mistero’. E parte subito con una posizione molto precisa sull’interpretazione del cervello e che è tutta sua e che poi trova conferma in quello che sostengono i ricercatori e i neurologi quando dice: ‘non si ragiona, non si pensa senza il cervello’. Perché il cervello è l’organo che fa funzionare il pensiero. Quindi è un tutt’uno, cervello vuol dire pensiero. Non si rifà al concetto cartesiano del dualismo anima e corpo, vede nel cervello l’organo del pensiero. Il cervello è il pensiero!”. Ebbene, in base alle considerazioni scientifiche che Boeri ha tratto dalla lettura di Valéry, tenterò, prendendo spunto da alcuni versi del poeta, una riflessione sulla poesia sotto la particolare angolazione dei rapporti corpopensiero, materiaspirito, emozioneragione che Boeri, come scienziato, ha indagato e di cui mi è stato maestro. Boeri amava in particolar modo La Giovane Parca, che, insieme a Il Cimitero Marino, è una delle opere più note di Valéry. E forse non a caso l’amava, perché La Giovane Parca mette in scena il risvegliarsi del corpo al pensiero. E’, si può dire, la storia di una individuazione: dell’emergere cioè della soggettività e della coscienza dalle pulsioni caotiche e dalle fantasie fusionali che accompagnano una corporeità non ancora del tutto consapevole di sé. Nella mitologia greca le Parche sono le figlie della notte. Ed è suggestivo, tra parentesi, che la vicenda di quelle tre sorelle si svolga intorno ad una trama tessuta, quindi a un testo, il testo che ognuno di noi è (“Vivere è scriversi la storia”, è questo, secondo Bonfantini, l’insegnamento profondo di Boeri): Cloto, che regge la conocchia, Lachesi che fila la tela e Atropo che recide il filo della vita. Ebbene, la giovane parca è una fanciulla che dalla notte dell’indistinzione confusiva esce alla luce –al sole, come avviene letteralmente nell’ultima scena del poemetto della coscienza pienamente dispiegata. Prenderò spunto, per questo mio discorso sul corpo della poesia, dall’analisi di sette versi che presenterò prima in francese e poi nella versione italiana di Mario Tutino. Je ne sacrifiais que mon épaule nue
Io non sacrificavo che la mia spalla nuda
A la lumière; et sur cette gorge de miel,
Alla luce; e su questo puro seno di miele,
Dont la tendre naissance accomplissait le ciel, La cui tenera nascita completavano i cieli, Se venait assoupir la figure du monde.
Veniva ad assopirsi la figura del mondo.
Puis dans le dieu brillant, captive vagabonde,
Poi, nel dio scintillante, prigioniera errabonda,
Je m’ébranlais brulante et folulais le sol plein, Mi riscotevo ardente, calpestando il sol pieno, Liant et déliant mes ombres sous le lin. Paul Valéry, La Jeune Parque versi 117124
Le mie ombre legando, slegando sotto il velo. La Giovane Parca traduzione di Mario Tutino
La traduzione tenta sempre un ritratto, più o meno fedele, più o meno riuscito, più o meno espressivo. Ma l’individuo vivo, col suo corpo unico e irripetibile, è là, nella scansione di quegli alessandrini dell’originale francese, nell’inanellarsi delle rime, nel flusso delle assonanze e delle allitterazioni, nel ripercuotersi dei suoni e delle sillabe che un giorno un uomo ha pronunciato
Il corpo della poesia 209
ed ha affidato alla carta. E che lì restano, come sua cifra o, meglio, come la formula magica che attende che qualcuno un giorno la ripeta per riportare a vita e splendore quella individualità di suoni che è il corpo vivente della poesia, la sua carne, la sua pelle, la sua materia, i suoi tessuti e le sue fibre. Il suo corpo appunto che per essere fatto di suoni non è, come vedremo, meno materiale del nostro. Ma quei suoni veicolano dei sensi, dei significati, dei concetti, dei pensieri. Come avviene al nostro corpo, il quale “ha” dei pensieri, “produce” dei pensieri. E allora possiamo dire, con una analogia di cui vedremo la natura e la portata, che come il pensiero nasce, trae fondamento dalla costituzione biologica del nostro cervello e del nostro sistema nervoso, dal gioco dei neuroni, dagli ioni di calcio che entrano nelle cellule cerebrali scacciando quelli di potassio e generando quella differenza di potenziale elettrico che presiede alla nostra attività nervosa e consente il nostro pensiero, così il pensiero della poesia, ciò che la poesia dice, il suo senso, il suo significato nasce dal gioco del corpo dei suoi suoni. Possiamo insomma dire, con qualche approssimazione, che come i nostri pensieri sono secreti dalla nostra materia grigia, così la materia sonora della poesia secerne i propri sensi, i propri significati, i propri pensieri. E non si tratta, badate bene, quando dico che la materia sonora della poesia secerne i propri pensieri, non si tratta di una metafora, se poniamo mente a due ordini di considerazioni: 1) quando dico materia sonora della poesia, uso un’espressione appropriata, se teniamo presente che il suono è appunto lo strato più sottile della materia. Se io pronunciassi davanti a voi le parole che state leggendo su questa pagina, i suoni che udreste non sarebbero altro che colonne d’aria fatte vibrare dal mio apparato fonatorio e che si propagherebbero come onde fino a far risuonare il martelletto del vostro timpano, trasformandosi nei concetti, nei pensieri, nelle riflessioni che stareste ascoltando dalla mia voce e che echeggerebbero nella vostra mente; 2) ma anche quando dico che la materia sonora della poesia secerne i propri pensieri, anche qui non si tratta di un’espressione figurata, se consideriamo che nel percorso della ideazione poetica il suono detta quei legami associativi che stanno alla base delle articolazioni concettuali. E ne abbiamo un esempio, una riprova, nel brano che abbiamo appena letto: et sur cette gorge de miel, / Dont la tendre naissance accomplissait le ciel... nella griglia espressiva che il poeta si è scelto per organizzare il suo dire, e cioè quel sistema di rime baciate a due a due, aa, bb, cc, che strutturano tutti i 512 versi del poemetto, quel miel, complemento di specificazione di gorge, di seno, in posizione di rima, richiama, detta alla mente del poeta ciel, la parola compagna di rima nel verso successivo, quel cielo che, a livello semantico, di “significato” della poesia, viene a completare, come dicono i versi che abbiamo letto, cioè a corrispondere e sottolineare con la sua convessità, a coronare con la sua volta la curva del seno che sboccia della fanciulla, in una sorta di risonanza cosmica, o di mistica unione fra micro e macrocosmo. –E su questo puro seno di miele, / La cui tenera nascita completavano i cieli, / Veniva ad assopirsi la figura del mondo. ... Questa dialettica di suono e senso, e cioè di materia e pensiero, e quindi corpo e mente, emozione e ragione che Boeri ha indagato con tanta perizia nella sua opera di scienziato questa dialettica per cui in poesia due parole della lingua che non hanno rapporto fra loro entrano,
210 L’altezza del gioco grazie alla parziale coincidenza sonora, in una relazione che risveglia echi semantici, produce pensiero, questa dialettica la vediamo in scena in questo brano anche a livello per così dire drammatico, di rappresentazione, di intreccio. –Liant et déliant mes ombres sous le lin Perché mi piace ravvisare nelle ombre che si legano e si slegano sotto il lino, sotto il velo, non solo il corpo della fanciulla in corsa o danzante che traspare dal tessuto, come vogliono alcuni interpreti, ma anche, ed è un’interpretazione altrettanto valida, i pensieri che si agitano, che nascono e che muoiono, che si fanno e si disfano, sotto il manto che la civiltà e la cultura hanno gettato su quella spalla nuda, su quel seno di miele. E cioè, e questa volta sì con una metafora, il manto del concetto, del senso, sulla carne del suono. E allora vedete che questa diade suonosenso attraversa e marchia tutti gli strati, tutti i livelli, tutte le faglie della poesia e costituisce, nel rapporto fra i suoi termini, la tensione polare costitutiva, fondativa della poesia, la sua condicio sine qua non, l’arco voltaico che sprigiona la scintilla poetica. Orator fit, poeta nascitur, dicevano gli antichi: oratore si diventa, poeta si nasce. E forse nella capacità di mantenere viva quella tensione consiste il dono nativo del poeta. Un fragile dono, sottoposto a mille insidie, a mille minacce che il poeta rischia costantemente di perdere o da cui rischia di essere perduto. E’ ciò che è avvenuto a Valéry, il quale per 17 anni, come poeta ha taciuto, prima di scrivere nel 1917 quel capolavoro che è La Giovane Parca. Il silenzio dei poeti accade perché uno dei due poli di quell’arco si spegne e la scintilla non scocca più. Succede cioè che il poeta si disamora della sua lingua. Smette di fantasticare, di sognare insieme a lei. Il corpo che adorava, cessa ora di parlargli. Non desidera più accarezzarne la pelle, sentirne il profumo, seguirne le forme. Cessa di ammirare il suo profilo. Non si commuove più alle sue magie, ai suoi incanti, ai suoi charmes, per usare il titolo di una famosa raccolta di Valéry. Il poeta diventa indifferente alla sua lingua. Non l’ama più. La frequenta solo nella sua quotidianità, sciatta e senza trucco. La tratta come una domestica, fedele sì, e servizievole, ma a cui non si fa più caso... E insomma, usa della lingua, come tutti noi facciamo nella comunicazione di ogni giorno, come di un codice automatico. Con il quale, beninteso, si possono fare cose degnissime. E il poeta le fa, ma si trasforma in qualcos’altro. Diventa appunto oratore, saggista, conferenziere, mercante d’armi come è capitato a Rimbaud. Qualche volta si uccide, in preda al rimpianto di ciò che ha tanto amato e che ora ha perduto. Ma comunque cessa di essere un poeta perché la poesia vive nella passione, o, per meglio dire, è la passione per il corpo sonoro della lingua che essa stessa è, cieco di fronte al quale corpo il poeta smarrisce il suo dono, perde, come si dice, l’ispirazione e, in quanto poeta, tace. Perduta cioè la sensibilità verso l’aspetto materico della lingua viene a decadere uno dei poli di quella tensione suonosenso che abbiamo riconosciuto come costitutiva della poesia, decretando così l’impossibilità della poesia stessa, il disfacimento, per così dire, del suo corpo. Costitutiva al punto tale, quella diade suonosenso, che mi pare di poter dire con qualche azzardo, ma certo senza essere troppo lontano dal vero, che qualunque cosa una poesia dica, se è vera poesia, si tratta sempre, in qualsiasi epoca e sotto ogni latitudine, di variazioni su quell’unico tema che è il tema di fondo della poesia, il suo argomento principe, l’unica e vera
Il corpo della poesia 211
fabula dei suoi svariati ed infiniti intrecci: la dialettica fra materia sonora ed articolazione concettuale, cioè, in ultima analisi, la dialettica corpopensiero. Una dialettica che la poesia, come abbiamo visto, non si limita ad indicare, chiosare, descrivere, ma che mette propriamente in scena, davanti ai nostri occhi o rivolta al nostro orecchio, come un dialogo fra personaggi vivi, in modo che possiamo assistere, nella scansione delle sue sillabe – Je m’ébrarnlais brulante et foulais le sol plein, / Liant et déliant mes ombres sous le lin. nella scansione delle sue sillabe e dei significati che esse veicolano, possiamo assistere in poesia al concreto dispiegarsi della sottile trama e degli innumerevoli fili che legano suono e senso, e cioè corpo e pensiero, materia e spirito, emozione e ragione, in quell’ordito intricato che Renato Boeri ci ha insegnato, in tutta la sua opera di studioso e con l’esempio della sua vita, a riconoscere e dipanare.
La gloria di dio
la formula magica che attende che qualcuno un giorno la ripeta
cristallo in trasparenza di parola stella d’assenza astro che ruota la gloria di dio la casella vuota il tempo che s’avvolge alla sua spola
La gloria di dio 215
ecco il teatro di carta e la sua nota il giro esatto della mola la musica ferma la giostra immota fiamma che avvampa in una rosa sola
216 L’altezza del gioco
qui risplende la moneta ignota voce inattesa che consola vento perfetto eco che vola luce sottratta alla sua mota
La gloria di dio 217
luna di divinante gota grido travolto nella gola obolo che tenebra immola notte che a fuoco le sue lame arrota
218 L’altezza del gioco
a questa altezza si conduce il gioco contro la notte abbiamo aperto il fuoco perché lo sguardo venga messo a fuoco di queste sfere calibrando il gioco
La gloria di dio 219
a questa guerra non si va per gioco la vita che è marchiata a fuoco su questo foglio dove tutto è in gioco è la brace in cui discorre il fuoco
220 L’altezza del gioco
prima che strida la civetta è l’ora scaverai di ora in ora per fermare per sempre l’ora il lampo breve che fissasti ora
La gloria di dio 221
armonia ti sarà signora nei versi dove avrai dimora nel canto tuo che non dimora contro il passo della nera signora
222 L’altezza del gioco
teorema di beltà che ti innamora l’avvento che sogna la viola dietro il paesaggio che la neve invola a questa altezza che la morte ignora
Il sogno di Nino
a questa altezza si conduce il gioco contro la notte abbiamo aperto il fuoco
ad Angela, Rossana e Andrea Jomini
La notte che ho saputo della morte di Nino, e dopo aver visto quel volto, tanto mutevole in vita, irrigidito nella sua ultima espressione, ho fatto un sogno. C’era una bottiglia fra di noi. Il lampo dei bicchieri ravvivava l’allegria della tavola, il riflesso policromo delle stoviglie. Alle pareti, le pirografie su cui l’avevo visto così spesso chino mentre dal legno traeva quelle figure di cui poi mi faceva dono a Natale e che conservo ancora a casa mia. E di fronte a me, come tante volte nei ventun’anni e più della nostra amicizia, Nino, col capo lievemente chino, il sorriso sulle labbra, l’aria vagamente ironica, con quella sua erre arrotata parlava e parlava e parlava. E nel sogno, io pensavo: “ma adesso chi glielo dice, al Ninone, che è morto?”. Non si trattava solo del rifiuto istintivo di accettare la scomparsa di una persona cara, il modo con cui ci difendiamo e in cui reagiamo a quella maschera di fissità che è il sigillo che la morte pone sulle vicende umane. No, quel sogno mi diceva di più: diceva che ci sono uomini destinati a durare nella memoria di chi li ha conosciuti e di sopravvivere nel ricordo di chi avrà modo di averne notizia attraverso le loro opere. Uomini rari, come Nino Jomini, che hanno saputo vivere non ristretti nel proprio interesse individuale, seguendo il proprio tornaconto, pensando alla propria carriera, preoccupandosi solo della propria famiglia; ma hanno gettato uno sguardo più vasto sul mondo, hanno sognato cose più grandi di quelle che entrano in un portafoglio, hanno sperato un’alba che sorgesse per tutti, hanno agito insieme agli altri per abbattere gli steccati che impediscono al frumento dell’uomo di crescere in comune; e dunque hanno lasciato un segno del loro passaggio su questa terra perché hanno contribuito a mutare la geografia che hanno trovato, a rendere più abitabile lo spazio del nostro breve soggiorno. E quindi, lasciano un segno nell’animo di chi ha avuto la ventura di conoscerli e di coloro che verranno. Chi passerà sul luogo stesso dove la cerchia affranta dei tuoi compagni si stringeva in un abbraccio attorno a te e leggerà quella targa: Piazza Ardizzone, non potrà non ricordare la pienezza terrestre della tua figura, il passo di tutti i gradini che hai sceso e salito, delle porte cui hai bussato, delle infinite pratiche che hai avviato, delle manifestazioni che da quel lontano 27 ottobre 1962 hai organizzato perché Castano riconoscesse in quello studente, in quel sovversivo, in quel comunista partito una mattina per Milano perché voleva ribadire con la propria presenza e la propria voce il diritto inalienabile di Cuba ad esistere e finito schiacciato con tutte le sue speranze a vent’anni sotto le ruote dei camion della nostra democratica polizia, perché dunque Castano riconoscesse in Gianni Ardizzone uno dei suoi figli migliori e lo onorasse, com’è giusto, con una targa che ne perpetuasse il ricordo. “Anche il silenzio uccide”, era scritto sul manifesto di convocazione di una di quelle serate per Ardizzone cui anch’io ho partecipato era forse il ‘78 organizzate da Nino per tenere desta la memoria. E che la memoria non andasse perduta è stata una delle cure costanti di Nino Jomini,
la memoria delle vicende piccole e grandi degli uomini vissuti attorno a Castano, il paese che è stato uno dei più fedeli amori di Nino. In questa terra di Lombardia che l’inqualificabile paccottiglia ideologica leghista vorrebbe oggi isolare in un osceno quanto inverosimile culto di sangue e suolo, vivificato dalle sacre acque del padre Po, Nino, che sapeva che i fiumi scorrono per unire e non per dividere, si è sempre adoperato per gettare ponti fra questo angolo di Ticino e il resto del mondo. E a Castano sono risuonate le voci di palestinesi, cileni, nicaraguensi, cubani, irlandesi che, nel corso delle innumerevoli manifestazioni di solidarietà organizzate in paese, nella diversità dei loro idiomi, raccontavano le medesime storie di fatica, di dignità e di riscatto che Nino udiva da bambino
228 L’altezza del gioco dipanarsi dalle labbra dei vecchi nel dialetto scabro di queste campagne durante le lunghe sere in cui l’inverno concedeva tregua al lavoro e permetteva di riannodare i fili della memoria. Storie piccole e grandi, come dicevamo, l’epopea quotidiana di queste contrade che tanti anni dopo sarebbe rivissuta nelle canzoni di quel gruppo avventuroso di cantastorie, il Ticino Riva Sinistra, fondato da Nino, con Angela, Flavio, Canziano, Vittorio, Guglielmo, Carlòss, nomi d’allegria, che mi ricordano una buona giovinezza quando anch’io, chiamato dal mio amico, percorrevo borghi e paesini e le mie poesie si intrecciavano con le canzoni che Nino e Angela cantavano perché tutti sapessero della Giovanna Bodini, finita mutilata in un nastro trasportatore dall’avidità di uno sfruttamento feroce o del Santino della Malpaga, l’agitatore contadino, morto a pugnalate per la maggiore tranquillità di qualche latifondista. Gettare ponti fra gli uomini: questa è l’arte più grande. E Nino ne è stato maestro. Io stesso ne sono una prova vivente: se molti da più di vent’anni a Castano mi conoscono e sono diventato per così dire uno di famiglia, è stato grazie a Nino, alla costanza, all’affetto, a quel suo modo veramente maieutico di insegnare, di starti vicino senza farlo pesare “diventerai grande, Giulio, ma non crescerai mai”, diceva qualche volta ridendo a una delle mie pagliacciate che hanno vinto una certa naturale ritrosia del mio carattere che mi spinge spesso ad isolarmi. E invece, quando varcavi quella soglia e lo trovavi, il Ninone, affaccendato in uno dei suoi innumerevoli progetti, come quel dizionario del dialetto “ una vera e propria lingua, Giulio” che non ha avuto il tempo di redigere completamente, o lo vedevi attorno ai fornelli cimentarsi in quel suo modo estroso ed improbabile di cucinare, come il suo leggendario capretto al cioccolato “una vera leccornia, vedrai”, avevi la sensazione di trovarti veramente a casa, anche se magari passavano lunghi periodi senza vedersi “torna presto, mi raccomando, che qui tutti ti aspettano e ti vogliono bene”. E proprio adesso che sto scrivendo, misuro il vuoto della tua assenza, Nino, l’abisso di una perdita che nessuna parola potrà colmare. E tuttavia è ancora il ricordo che dà sostegno, o, meglio, il tuo esempio, la pazienza e la perizia di quel tuo instancabile stringere nodi, per cui ti ho ammirato e in un certo senso invidiato, tu che eri capace di unire quello che forse è più difficile collegare: e intendo le diverse generazioni, che spesso invece si fronteggiano in una reciproca incomprensione. Ebbene, grazie a te, Castano ha visto, sulle prime forse un po’ disorientata, i capelli variopinti, gli orecchini e le borchie dei giovani dei centri sociali che chiamavi in paese ad esporre le loro ragioni, ma poi ha imparato a riconoscere ed apprezzare la tenerezza e la generosità che si nascondono dietro la spavalderia dell’ultima adolescenza. E quei ragazzi, perdutamente stretti alle loro bandiere, durante i tuoi funerali, Nino, quei visi chiari rigati di lacrime, sono stati l’ultima testimonianza di un affetto che la tua grande umanità si è saputa guadagnare. L’umanità, e cioè quella ricchezza di vedute, quella curiosità che è il segno della cultura profonda, e che hanno indotto Jomini a confrontarsi con personaggi rappresentativi dell’arte e del pensiero e che hanno ancora una volta fatto del piccolo borgo, che nulla a ciò destinava, un centro vivo di discussioni e di scambi di esperienze. E sul palcoscenico di quell’ideale teatro che Castano è stata durante la vita di Nino si sono affacciati poeti come Franco Fortini e Franco Loi,
Il sogno di Nino 229
filosofi come Ludovico Geymonat, musicisti come Moni Ovadia e Maurizio Dehò, cantanti come Ivan della Mea, pittori come Jean Moreau e tanti altri che sarebbe troppo lungo citare. Senza contare la miriade di iniziative che la fantasia vulcanica di quell’uomo infaticabile era in grado di mettere in piedi: le serate in biblioteca, il cabaret de “Il teatrino”, i 25 aprile senza retorica, la festa dei lavoratori con gli operai che negli anni diventavano sempre più radi perché le fabbriche chiudevano seguendo il ritmo dell’altrui arricchimento. E ancora i partigiani, i deportati dei campi di concentramento come Cesare Vismara, i medici delle associazioni del volontariato, i boyscouts, gli studiosi della salute e dell’ambiente come Luigi Mara ... tutti con la loro voce, le loro esperienze, il contributo della ricchezza delle loro storie. E Lettere castanesi, il periodico voluto e fondato da Nino, esprime già nel titolo una delle indimenticabili caratteristiche di Jomini: la volontà costante di lanciare messaggi, di far giungere notizia, di far circolare progetti e proposte, di offrire strumenti perché la voce di coloro cui una organizzazione ferrea e feroce del potere la nega possa farsi sentire nell’universale chiacchiera televisiva che ci stordisce. E tutto questo animato dalla passione di comunista, di quel comunista che Nino Jomini era. E il senso del comunismo di Nino vorrei chiarirlo con le parole con cui Ernst Bloch conclude il suo capolavoro, Il principio speranza. Nino nel corso della sua esistenza si è sempre adoperato per tenere aperti i sentieri “verso quello”, e cito il filosofo tedesco, “che a tutti riluce nell’infanzia e dove nessuno ancora è mai stato: la patria”. “A tutti riluce nell’infanzia...”: eh sì, perché il piccolo dell’uomo, quando viene alla luce, circondato solitamente dall’affetto e dalle cure dei suoi genitori, pensa che il mondo sia quella cosa calda, delicata, piena di colori e di tenerezza, amorevole, materna, protettiva, che sperimenta ogni giorno in famiglia. Pensa che questo sia il paradiso, il giardino cui è destinato. E il bambino, e basta riandare ai nostri primi ricordi per accorgersene, ha chiarissima la consapevolezza, fisica prima ancora che mentale, che questo è il suo diritto. Solo più tardi, crescendo, il ragazzo e poi l’adulto impareranno che invece il mondo è una cosa dura, piena di spigoli che feriscono, solcato da divisioni feroci, livido nella freddezza dei suoi bagliori, non un giardino ma una foresta in cui ci si deve difendere, in cui occorre farsi largo a spese di chiunque ci ostacoli. E allora, preso nelle ruote di quella macina, impegnato a “guadagnarsi la vita”, come si dice con un’espressione su cui meriterebbe riflettere per rendersi conto dell’abisso di insensatezza in cui la nostra esistenza precipita, l’adulto vede a poco a poco trasformarsi ciò che nei suoi primi anni aveva avvertito con tanta imperativa chiarezza in un sogno, in una fola, in una chimera. Salvo forse una sera, tornato a casa, sfinito dal quotidiano mercato, sentire come un nodo alla gola, una nostalgia senza perché, e guardando fuori dalla finestra, vedendo in un angolo di cortile dei bambini giocare, udendo un voce argentina sciogliersi in una cantilena senza senso ...ambarabà ciccì coccò, tre civette sul comò... capire in un lampo che forse il senso che abbiamo perduto era proprio lì, in quei giochi, in quelle voci. Ma è appunto un lampo e la cosiddetta realtà vince, come diceva il poeta, il sogno. Ebbene, il comunista, il rivoluzionario anche se magari non ne è consapevole nei termini in cui lo esprimo io a questo sogno è vicino, perché cerca di tradurlo in realtà. Cerca di raggiungere
230 L’altezza del gioco “la patria”: e cioè quello cui ognuno di noi ha diritto e che nell’infanzia ha intravisto. Un mondo dove non le cose che luccicano, che si possono riporre in una tasca o in una cassaforte, non il denaro, non il ruolo che l’assetto sociale riconosce a ciascuno, ignorando tutto il resto sogni, fantasie, speranze, aspirazioni e retribuendolo con un salario che ci rende tutti ingranaggi di un meccanismo che ci stritola perché ci accetta solo in quanto portatori intercambiabili di quella funzione, e basta; ma un mondo che sappia accogliere con un sorriso ciascuno perché di ciascuno riconosce l’unicità, la ricchezza, l’irripetibilità. Di ciascuno riconosce il volto nella propria irriducibile individualità. Nella propria umanità. Un mondo dove non si sia dei concorrenti, ma dei commensali, seduti attorno all’allegria di una tavola, dove è bello guardarsi negli occhi, bere, parlare e ricordare, come nel sogno di Nino con cui ho aperto queste note. “Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente”, scriveva a 25 anni, nel 1843, Marx al suo amico Ruge, con parole che, ad onta di tutti gli interessati becchini, non solo sono attualissime, ma esprimono una consegna imprescindibile: coltivare quel sogno e diffondere la coscienza e gli strumenti per la sua realizzazione diventano quanto mai necessari oggi, agli albori di un’era telematica come questa che minaccia di negare la nostra stessa consistenza fisica, ridotti, come spesso già accade, a terminali anonimi di qualche congegno fluorescente. Ebbene, Nino Jomini per tutta la vita si è adoperato perché la coscienza di una possibile liberazione divenisse una ricchezza comune nella cerchia di coloro in mezzo ai quali ha vissuto. E questo era il sogno di Nino. Questo era il suo comunismo. E allora no, Ninone, nessuno potrà dirti che sei morto, anche se il dolore della tua assenza fa vacillare il pensiero. Perché ogni volta che ognuno di noi sarà in grado di riconoscere se stesso negli altri, e a questa fraternità darà corpo indignandosi per qualsiasi situazione in cui l’uomo sia degradato, umiliato, ridotto a strumento, trattato da bestia da soma, e lotterà per rimuovere le cause di questa indignazione, allora qualcosa di te sopravviverà perché il tuo sogno sarà tenuto desto nell’opera paziente di chi cercherà di realizzarlo. Un sogno di cose semplici che al pari del comunismo, come ben sapeva Brecht sono le più difficili da fare. Semplici, come semplici sono le parole che la bimba sussurra nella poesia con cui il tuo amico Giulio ti saluta. Una poesia che hai sentito tante volte in vita e che mi piace pensare tu possa da qualche parte ascoltare ancora con quel sorriso che amavo sulle labbra e l’aria vagamente ironica che avevi. E se è vero che il sasso della tua morte è destinato a pesare per sempre sul cuore di chi ti ha voluto bene, è altrettanto vero che l’acqua buona della speranza seguiterà a scorrere verso la terra che a ognuno di noi è stata promessa e per raggiungere la quale è degno vivere e aver vissuto, come tu hai vissuto. Grazie, Nino.
L’acqua scorre e il sasso resta
Il sogno di Nino 231
Con la sua bambola lungo il fiume la bimba cammina sussurra una canzone ...bella da niente che sarai regina sarai luna sarai stella e il vento ti porterà via cucendoti un vestito di rugiada e di viole t’affiderò la mia ferita perché sbocci come un fiore con te sarò sovrana dei regni dell’aurora aquila danzante alla periferia del sole erba sottile accarezzata dall’amore farfalla taciturna che s’incendia di colori bella da niente che sarai regina perché il mondo m’accolga in un riso di stupore... Con la sua bambola lungo il fiume la bimba cammina sussurra una canzone E il sasso resta ma l’acqua scorre
L’allodola pazza
con te sarò sovrana dei regni dell’aurora
Canterà l’allodola pazza nell’intrico dell’alba i passi del mattino e rotolando dalle dita del cielo l’erba colerà nell’inchiostro vivente si fermeranno i cani guaiolando di sconforto comprendendo l’ora che giunge scotendo i capelli dai pollai dei campanili sull’acqua dei fiumi mulinante di foglie la polvere cadendo ricorderà sospiri di deserti percorsi dove si seppellirono i giardini per non vedere la frutta nel vassoio dei soli già si intrecciano i fili e le gocce di lacrime dalla barba dei vecchi giocatori di dadi e lingua di rame le lenzuola si arrotolano i sogni e i corpi perduti dalle spiagge nella confusione dei campanelli e dei clacson la voce comincia a sentirsi i calzolai deporranno i ferri e le scarpe battute sonando d’amore e di viole perché la spesa non rende i suoi denti dalla sporta nelle braccia fanciulle attorcigliate ai pali della luce danzeranno coi piedi illuminando le strade corrono incontro i fari e le automobili e i temporali sussurreranno alle guance del vento i punti cardinali vestiti di rosso inchinando tra gli uccelli le cartacce disperse una sinfonia
sui cartelli delle segnalazioni dei bar e delle insegne mostrando le ossa la civiltà di stracci “buttiamo all’aria” grideranno arlecchini desiderosi di colombine sognanti “i manicomi e le cabine” sulle panche dei cinema i garzoni faranno barricate di bottiglie
L’allodola pazza 237
e cuori di gelo fiorendo in bucaneve e giacinti molti sono i segni di avvenimenti fatali perché canterà l’allodola pazza chiamando a raccolta la miseria delle strade vestiti a festa nelle domeniche dei ristoranti si chiederanno con ansia a che punto è cotta la carne e i bambini vorranno trottole per farne satelliti ecco si dice il secondo millennio atteso invano per sospiri di vite bruciate appese ai rami delle mani di scheletri malvagi nel sacco della notte sull’incurvarsi del bordo dei vasi si vanno spiando le ceneri è tutto un fiorire di fondi di caffè di predizioni di sussulti anche la pioggia acquista nuove canzoni i bottegai non sanno più che fare abbassare le insegne e le legioni agli estremi confini si sgretoleranno in sospiri di sonno diserzione e valore si confondono in un gemito e canterà l’allodola pazza con ali di giornali e vele di vento mescolando temporali e primavere l’inverno delle notti e i pomeriggi di sole le spighe che davano pane tintinneranno chiodi si capovolge l’ordine costituito chi stava in alto conoscerà i sotterranei freddi delle stazioni sui barometri già il tempo spaventa le grasse famiglie nuovi uomini giungono dalle periferie su biciclette di raggi cantando canzoni proibite
238 L’altezza del gioco e ripetendo le grida il cielo di rame rovescia sacchi di spiccioli lacerato da telefoni affannati dai grattacieli si segue la marcia e occorre farsi riconoscere dalle colline di città strette nella morsa di assedi digrignati perché canterà l’allodola pazza dai campanili del tempo nomi paurosi si sentono nell’aria ripetere dai monelli lungo i muri rifioriscono le scritte di minaccia molti non vanno in ufficio altri temono di uscire per strada nei quartieri si ha paura delle notizie giunte da altri quartieri barricate divideranno i padri dai figli ma partoriranno nuovi e continui figli i tram sventrati e le ruote non rotoleranno destini ai numeri del lotto ma battaglie cifre nuovi poemi raffiche di vento salutare faranno cadere fiori ottusi sradicati dal privilegio dovunque si ripeterà prendi non chiedere l’acqua santa s’è fatta nera i portinai aspettano che il gallo abbia ripercosso il suo grido nell’alba per fare rifiuti di sangue e crolleranno i muri le croci i questori i palazzi le prigioni i presidenti la festa insolita attira le cavallette le mosche e altri tipi di insetti perché ecco che canta l’allodola pazza dai fiori e dalle cicale dalle stelle e dai seni delle fanciulle sbocciando in piacere e desideri e le cartacce non contano più
L’allodola pazza 239
i prati faranno valere i loro diritti per essere sponda ai letti degli amanti chiamando da tutti i paesi ci si riconosce più in fretta si invecchia di meno e ci si prende per mano quando canterà l’allodola pazza e i saltimbanchi scopriranno il loro volto buono rifiutando la maschera delle circostanze e del bisogno noi che ci abbracciamo già lo sogniamo durante tutti i nostri verdi e viola incubi di case e panchine di numeri e sorrisi biascicanti le formule del consenso canterà l’allodola pazza e i continenti disancorati dai banchi sottomarini andranno a spasso per il corso della storia mettendo l’abito buono dell’eguaglianza e della libertà