Addis Abeba, ancora una volta. Testo di Alfredo Davoli
E’ l‘una di notte quando dall’aeroporto percorriamo i viali deserti in direzione dell’Hotel Gijon di Addis Abeba. La baraccopoli, con le case dai tetti di lamiera ondulata chiuse da improbabili porte, lambisce il centro città e come un serpente s’insinua strisciando in mezzo ai nuovi palazzi di cemento e vetro. Di lì a qualche ora, appena al sorgere del sole, quelle stesse misere abitazioni avrebbero rigurgitato una bolo incontenibile di gente e riempito le strade di sferraglianti e disastrate automobili. Dalle migliaia di bottegucce del Merkato,
tra le merci esposte e dalle fogne a cielo aperto
l’inconfondibile afrore dell’Africa avrebbe sovrastato ogni altro odore. Undici
anni fa, quando nel 1994 visitai per la prima volta l’Etiopia, Addis
Abeba si mi si presentava con la medesima violenta espressione di vivacità e sofferenza. Con un tuffo al cuore gonfio di nostalgia, il “Nuovo Fiore”, questo significa in amarico Addis Abeba, mi riaccoglie tra le sue caotiche vie; rivedo così la Chiesa della Trinità le cui splendide vetrate riproducono scene dal Vecchio e Nuovo testamento. Sul sagrato e lungo i muri perimetrali, solitari pellegrini con gesti antichi sgranano i loro rosari lignei mormorando litanie simili a canzoni. Seguendo una strada appena fuori dal centro che si inerpica fino ad arrivare a tremila metri d’altezza, si giunge ad Entotto con la sua bella chiesa esagonale. Dalla sommità di questa
collina che un tempo ospitò la prima capitale del Regno
d’Abissinia si ha la vista completa su Addis Abeba, con i suoi due milioni e mezzo di abitanti, omogeneamente ricoperta da uno strato di smog.
La storia di questa città fondata da Menelik II imperatore di Abissinia nel 1887, s’intreccia inevitabilmente con quella d’Italia poiché già nel 1896 ci fu un primo tentativo di assoggettare il Paese da parte del governo Crispi; tentativo tragicamente concluso con la disfatta della battaglia di Adua che costò la vita a 15.000 soldati italiani. Una curiosità che pochi sanno è che a vendere le armi a Menelik II, per la precisione 2000 carabine, è Arthur Rimbaud giovane poeta francese autore de “I fiori del male” la cui vena creativa è purtroppo già esaurita e che da qualche anno da spirito inquieto qual è gira l’Africa trafficando in armi. La strada che corre dall’Asmara in Eritrea fino ad Addis Abeba è la stessa che le truppe italiane usarono dall’ottobre 1935 al maggio 1936 per conquistare per la seconda volta l’Etiopia. Questa guerra, costerà all’Italia 12 miliardi di lire di allora e 270 mila morti. Incurante del veto imposto dall’Unione delle Nazioni (oggi O.N.U.) Badoglio userà senza problemi i gas asfissianti e l’iprite entrando trionfalmente nella capitale a bordo di una Lancia Ardita il 5 maggio 1936. Nei tre giorni precedenti la città sarà letteralmente devastata dall’esercito etiope allo sbando e da banditi comuni (shiftà) che violenteranno le donne, bruceranno i tucul saccheggiando i negozi e uccidendo chiunque tenterà di opporsi. Il Museo Nazionale dove in una bacheca è conservata Lucy, esemplare di australopiteco femmina ritrovata nel 1974 vicino al fiume Awash nella regione dell’Afar e risalente a circa 3 milioni e mezzo di anni fa, dal ‘36 fu la residenza del Maresciallo Rodolfo Graziani Viceré d’Etiopia e proprio tra queste mura si scrisse un’altra vergognosa pagina della nostra storia coloniale. Durante una cerimonia ufficiale due irredentisti eritrei lanciano della granate ferendo con 250 schegge il Maresciallo Graziani e parecchie autorità italiane rimangono a terra. Le truppe italiane aprono il fuoco su tutti gli etiopi presenti e le camicie nere insieme ad un folto gruppo di “onesti” cittadini scatenano in città una caccia all’etiope che durerà tre giorni: migliaia di tucul dati alle fiamme e 6000 vittime (ma c’è chi parla di 20.000) sarà il risultato di questa devastante mattanza.
L’Etiopia come del resto tutta l’Africa deve oggi fare i conti con il flagello dell’AIDS. Le cifre sono a dir poco terrificanti: due milioni di adulti e duecentomila bambini vivono con il virus Hiv o con l’AIDS conclamato e la fascia più colpita sembra essere quella tra i 14 e i 24 anni. Qualcosa però si sta muovendo: è in atto una intensa campagna di informazione con cartelloni pubblicitari affissi fino nei piccoli centri rurali; vengono distribuiti gratuitamente i preservativi ai comitati anti AIDS, alle prostitute e ai bar ladies nel tentativo di arginare il rapidissimo ed elevato diffondersi della malattia con i suoi 5000 nuovi casi ogni settimana. Oggi Addis Abeba appare come una città in continua espansione e in fase di lenta e faticosa ristrutturazione come spesso succede in Africa. Del nostro breve passaggio dal 1936 al 1941 non sembra esser sopravvissuto granché: qualche edificio, la Piazza, il Merkato, alcune strade, la carreggiabile Asmara - Addis Abeba, un tratto di ferrovia e uno sparuto gruppo di vecchi etiopi ormai sempre più esiguo che ricorda con amarezza o nostalgia di aver servito sotto la bandiera tricolore salvo poi esser stati abbandonati al loro destino, testimoni di un Impero sacrificato sull’altare della Storia, nato e morto nel breve tempo di un batter d’ali.