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Giuliano Capani
Magia del cinema Le visioni dell’invisibile
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ISBN
978–88–548–1034–1
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I edizione: febbraio 2007
Indice Introduzione La regia e la visione nella nuova realtà iconica di Vito Zagarrio ........... 9 Confini ritrovati di Gian Paolo Caprettini ............................................ 17 Premessa ............................................................................................... 21 PARTE PRIMA Elementi fondanti del cinema ............................................................... 23 Capitolo I Cinema e percezione visiva 1.1 Video ergo sum ............................................................................... 29 1.2 Il Voyeur cinematografico ............................................................... 30 1.3 Ubiquità dello sguardo cinematografico ......................................... 32 Capitolo II Dirigere lo sguardo dello spettatore 2.1 Inquadratura, piani e campi............................................................. 35 2.2 Movimenti di camera: la de-localizzazione dello sguardo cinematografico ....................... 40 2.3 Composizione delle inquadrature ................................................... 43 2.4 Il sistema a 180° .............................................................................. 44 Capitolo III Lo sguardo del distacco magico 3.1 Processi di interazione nel cinema: la finestra di Johary ................ 50 3.2 Il gioco del cinema: guardare per guardarsi .................................... 51 Capitolo IV Aspetti psicologici del cinema 4.1 Letteratura, teatro e cinema............................................................. 54 4.2 Impressione di realtà e sinapsi neuronali ........................................ 56 4.3 Le leggi della realtà......................................................................... 57 4.4 Il cinema e lʼespansione del suo Corpus spirituale ........................ 57
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4.5 Cinema e stato alfagenico ............................................................... 63 4.6 Niente paura è solo un film ............................................................. 63 4.7 Fare o veder fare: i mirrors neurons ............................................... 65 4.8 Processi di partecipazione dello spettacolo cinematografico .......... 67 Capitolo V Cinema e comunicazione 5.1 Comunicazione e informazione ...................................................... 71 5.2 Arte del comunicare e comunicazione artistica .............................. 73 5.3 Il comportamento artistico .............................................................. 74 5.4 Matte Blanco e lʼartista bilogico ..................................................... 75 5.5 La neuroestetica .............................................................................. 79 5.6 Lʼartista è un trovatore .................................................................... 81 5.7 Lʼartista e il consenso implicito collettivo ...................................... 82 Capitolo VI La motivazione artistica 6.1 Lʼartista è un illegale disadattato ................................................... 86 6.2 I livelli logici di Dilts ...................................................................... 87 6.3 La spinta motivazionale .................................................................. 85 6.4 La piramide delle aspirazioni di Maslow ........................................ 87 Capitolo VII La comunicazione non verbale 7.1 Cinema e CNV ................................................................................ 96 7.2 La coerenza delle azioni cinematografiche ..................................... 99 7.3 Gli ambiti della CNV .................................................................... 100 7.4 I sistemi rappresentazionali........................................................... 103 7.5 Fisiologia del personaggio: Il Sorpasso di Dino Risi.................... 106 7.6 I luoghi dellʼazione mentale: la situ-azione .................................. 110 7.7 le categorie di Virginia Satir ......................................................... 111 7.8 Lʼattore: persona e personaggio .................................................... 112 7.9 Roberto Rossellini e gli attori non professionisti.......................... 118
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Capitolo VIII Cinema come specchio dellʼanima 8.1 Gli enneatipi .................................................................................. 122 8.2 Analisi comportamentale dei personaggi e loro interazioni .......... 125 8.3 La rottura degli schemi comportamentali ..................................... 128 PARTE SECONDA Elementi costitutivi del film ................................................................ 129 Capitolo IX Le fasi di realizzazione del film 9.1 Lʼideazione .................................................................................... 131 9.2 La sceneggiatura: il modello S. Field ........................................... 135 9.3 La scrittura scenica ....................................................................... 137 9.4 Le location .................................................................................... 142 9.5 Film Commission .......................................................................... 143 9.6 Il casting ........................................................................................ 144 9.7 Lo star system ............................................................................... 145 9.8 Il Piano di lavorazione .................................................................. 146 9.9 Il produttore e il product placement .............................................. 146 9.10 Il preventivo di spesa .................................................................. 148 Capitolo X La produzione 10.1 Il regista ...................................................................................... 151 10.2 Il direttore della cinematografia .................................................. 153 10.3 Il fonico ....................................................................................... 155 10.4 Lo scenografo e la scena digitale ................................................ 156 Capitolo XI Il suono nel cinema 11.1 La colonna sonora ....................................................................... 160 11.2 Lʼascolto ...................................................................................... 161 11.3 Lʼaudio sul video: legare ............................................................. 164 11.4 Lo slittanento semantico ............................................................. 165
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Capitolo XII Il montaggio 12.1 Tagliare o unire?.......................................................................... 170 12.2 Pudovkin e Ejzenstejn ................................................................. 170 12.3 Il montaggio come costruzione di senso ..................................... 171 12.4 Il montaggio delle idee................................................................ 172 12.5 Come nascono le idee?................................................................ 173 12.6 Il montaggio nellʼarte pittorica ................................................... 176 12.7 Diverse modalità di connessione narrativa ................................. 178 12.8 Quando tagliare ........................................................................... 179 12.9 Il tempo cinematografico ............................................................ 180 PARTE TERZA Capitolo XIII Cinema e conoscenza 13.1 Il cinema come documentum ...................................................... 185 13.2 Percezione, comprensione, coscienza ......................................... 186 13.3 I prigionieri del video nella caverna di Platone .......................... 191 Capitolo XIV Il cinema nel futuro ................................................... 195 Appendice Il cinema come atto magico: Les vues cinematographiques di George Méliès ................................ 205 Filmare il teatro. Intervista a Torgeir Wethal dellʼOdin Teatret .......... 213 Scrivere con la luce. Incontro conVittorio Storaro ............................. 219 Bibliografia ........................................................................................ 223 Modulistica ........................................................................................ 227
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INTRODUZIONE La regia e la visione nella nuova realtà iconica di Vito Zagarrio* Nel capitolo dedicato alla regia del suo I mestieri del cinema, Michel Chion definisce il regista lʼuomo-che-ha-una-sedia-con-il-suo-nome-sulset. Il regista è lʼeroe del cinefilo per eccellenza. Mentre infatti la gente comune va a vedere un film con, per lo spettatore intellettuale è di la preposizione chiave. Non sempre, però, alla domanda “Di chi è questo film?” la risposta può essere solo e unicamente: “il regista”. Altre figure chiave concorrono alla sua creazione: il produttore, lo sceneggiatore, lʼinterprete, ma anche il direttore della fotografia, lo scenografo, il montatore, il musicista, il location manager, addirittura il macchinista e lʼelettricista. «Talvolta il suo ruolo si concentra innanzitutto sulla direzione degli attori ed il resto (fotografia, scenografia, musica) si sottrae al suo controllo. Il sistema europeo e asiatico – così come le riprese indipendenti in piccole troupe – gli permette di mettere più facilmente le mani in pasta, di occuparsi direttamente della luce, della cinepresa… Il ruolo del regista oscilla alla fine tra questi due estremi: il “mi occupo io di ogni cosa” del cineasta indipendente, e il “mi occupo solo degli attori” di numerosi director. In ogni caso il regista, anche se non ci mette il naso, dovrebbe essere pratico di tutte le tecniche implicate nel film, come un direttore dʼorchestra dotato del tocco dei diversi strumenti».1 La metafora del direttore dʼorchestra per la definizione dellʼoperato del regista è particolarmente fortunata ed è suggerita anche da Hitchcock: «Lʼessenziale è commuovere il pubblico e lʼemozione nasce dal modo in cui si racconta una storia, dal modo in cui si giustappongono le sequenze. Ho dunque lʼimpressione di essere un diret* Vito Zagarrio, regista, sceneggiatore, storico del cinema ha diretto vari lungometraggi che si contraddistinguono, oltre che per il loro alto impegno civile, anche per lʼuso delle tecniche innovative. Il suo film sperimentale in HD, Un bel dì vedremo ha vinto un David di Donatello nel 1989. Attualmente insegna Regia presso la Scuola Nazionale di Cinema a Roma ed è ordinario di Storia del Cinema presso lʼUniversità Roma 3. Ha pubblicato numerosi libri sul cinema. 1
Michel Chion, I mestieri del cinema, Grafica Santhianese Editrice, Santhià, 1999
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tore dʼorchestra; uno squillo di tromba corrisponde a un primissimo piano e un campo lungo evoca tutta unʼorchestra che suona in sordina».2 Questa nota metafora del regista come “direttore dʼorchestra” si accentua e al tempo stesso muta profondamente di fronte alla grande trasformazione iconica avvenuta negli anni Novanta-Duemila, con lʼirruzione del digitale, con la messa in discussione dello stesso statuto dellʼimmagine. Un problema centrale anima infatti, ormai da anni, il dibattito sulle nuove immagini anche a livello filosofico: ci si chiede, innanzitutto, se il valore estetico delle icone contemporanee sia da ricercare nella loro capacità di rappresentare in modo problematico il reale, oppure nella loro possibilità di dare vita allʼartificio; ci si chiede, insomma, se il giudizio estetico sugli scenari aperti dalla digitalizzazione applicata al cinema vada fondato sulla comunicazione o sugli elementi metacomunicativi di cui il cinema in particolare, e lʼaudiovisivo più in generale, risultano oggi particolarmente ridondanti. Nella disputa sembra prevalere la seconda delle due linee, quella che fa dire a Baudrillard che se, allora, lʼarte contemporanea è capace di parlare solo di se stessa, questo è sintomo che essa è morta3. In questa posizione è evidente la condanna nei confronti di quella stessa tendenza che, invece, molti altri filosofi contemporanei, a partire dai teorici del pensiero debole come Gianni Vattimo, non solo difendono, ma addirittura esaltano: la perdita del senso della realtà di cui il cinema, soprattutto attraverso lʼuso delle immagini sintetiche, si fa carico, non sarebbe un danno, bensì lʼinizio di una liberazione, di uno spaesamento, fondamentali per la fondazione di una nuova esperienza estetica4. Forse i “fuochi dʼartificio” con cui il nuovo cinema eccita, acceca, commuove, spaventa lo spettatore sono il risultato, come affermato da Mario Perniola5, di unʼepoca, quale quella contemporanea, che, sempre più, si muove alla ricerca dellʼintensità dellʼistante presente, della dismisura, del dispendio; come probabilmente è altrettanto vero quanto detto da Paul Virilio6, a proposito della passività come condizione connaturata allʼuomo 2
Francois Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997
3
Jean Baudrillard, La sparizione dellʼarte, Milano, G. Politi Editore, 1988, pp.40-42.
4
G. Vattimo, La società trasparente, Milano, Garzanti, 1989, p.99.
5
M. Perniola, Lʼaria si fa tesa, Genova, Costa & Nolan, 1994, p. 36.
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P.Virilio, Lo schermo e lʼoblio, Milano, Anabasi, 1994, pp.110-111.
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postmoderno cui fa da contraltare la ricerca spasmodica dellʼeccitazione e dellʼeccesso. Una cosa, comunque, è certa: la famosa definizione di Jean Cocteau del cinema come ʻmorte al lavoroʼ smette di essere calzante in un panorama in cui a dominare sono ora la clonazione filmica, lʼevanescenza, la combinazione dei corpi con i loro omologhi antimaterici. Più che ʻmorte al lavoroʼ, come più volte rimarca anche Gianni Canova7, ai nuovi scenari si addice maggiormente la dimensione di unʼepifania che opera non più sui famosi 24 fotogrammi al secondo, ma sulla nuova successione di pixel digitali e di puntate seriali; tutto fa insomma pensare che il nuovo territorio cinematografico e televisivo sia sempre più quello di un ambiente-software, con tanto di film che diventano versioni seriali e progressive di uno stesso programma, come in fondo dimostra già il caso di Star Wars, forma di upgrade, di aggiornamento progressivo, di una versione base, con i nuovi episodi che si configurano come “plug-in”, innesti via via più nuovi, dellʼapplicazione originale. Proprio questo sembra, dunque, il territorio in cui la tecnologia che presiede alla realizzazione del cinema digitale si congiunge e si fonde con i principi della serialità, quella stessa che regola ed organizza le forme della ritualità televisiva. Viene allora da chiedersi se davvero basterà con un clic di mouse scaricare nel proprio computer dalla grande Rete lʼultimo film in uscita, come fosse la versione più aggiornata del videogame di turno o, addirittura, realizzarlo in proprio e lanciarlo su Internet alla grande massa dei web-nauti, alla stregua di un film di Spielberg. Cosa rimarrà del grande schermo e del rito collettivo che dinnanzi ad esso, per più di un secolo, ha continuato a raccogliere moltitudini di individui? Una delle prime conseguenze derivanti da tali premesse è che, se nella messa in scena tradizionale, quella che deriva direttamente dalla concezione rinascimentale, lʼocchio della macchina da presa, cui si offre la prospettiva, è ancorato a coordinate spaziali precise e riconoscibili e, dunque, il rapporto tra soggetto osservatore e oggetto osservato è chiaro, lʼimmagine sintetica ottenuta al computer annulla qualsiasi certezza spaziale; in particolare, viene a cancellarsi il tradizionale rapporto soggetto-oggetto in un contesto in cui non esiste più, realmente, né una telecamera o macchi-
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Canova, op.cit., p.36.
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na da presa che inquadri, né lʼoggetto inquadrato. Il nuovo ordine della visione introdotto dallʼimmagine di sintesi, così come già da particolari sistemi di ripresa ʻrealiʼ, come quelli basati sullʼuso della steadicam o della skycam, determina, allora, una visione ʻimpossibileʼ, sganciata, cioè, dalle possibilità materiali del corpo: gli improbabili punti di vista, ottenuti con la skycam, con la steadicam o con le immagini virtuali, determinano una continua simulazione in cui non ha più senso porsi problemi di realismo del punto di vista; si pensi, al proposito, ad Omicidio in diretta, il film di Brian De Palma che si apre con un famoso (pseudo) piano sequenza (falso, in quanto pieno di piccoli tagli ʻinvisibiliʼ). Ma se questo è un caso in cui, in fondo, il punto di vista riportato è ancora quello di una reale macchina da presa che viene fatta giocare dentro e sopra il set producendo una visione vertiginosa, si pensi a quanto slegato da qualsiasi limitazione tecnica e, dunque, votato ad una visione ancor più irrealistica, possa essere il punto di vista di una scena ottenuta al computer, quella fondata sullʼelaborazione e la manipolazione totale della realtà ottenibile con i sempre più ʻmiracolosiʼ software della Computer Graphic. È, dʼaltronde, proprio questo uno degli elementi più caratterizzanti il cinema della postmodernità in cui, con sempre maggiore evidenza, la ricerca ossessiva di punti di vista non giustificati dalla presenza di un personaggio, di un soggetto umano, configura un sistema opposto a quello del cinema classico in cui dominava una visione tipicamente antropocentrica. Un libro di cinema tra teoria e pratica In questa profonda mutazione dellʼimmagine, qual è il ruolo dello spettatore, come funziona la “percezione” di una “cosa” che non è più solo il “film”, ma è un mix ibrido di cinema, televisione, video, arte elettronica, fiction, serie tv? Come cambia il rapporto con lʼimmagine filmica nel momento in cui è tramontato il dominio del grande schermo, della sala buia, dellʼ“eros”; nel momento in cui un “testo” (multiforme, contaminato, sinergico, interattivo) è leggibile e visibile su un telefonino, un Ipod, un palmare, una Playstation? Valgono ancora gli studi dei teorici di cinema & psicanalisi alla Metz o degli esperti di psicologia e cinema alla Angelini? E, soprattutto, si può insegnare cinema, si può educare a una “grammatica del film”, si possono stabilire e consigliare “regole” (dallo scavalcamento di campo al bilanciamento dellʼinquadratura allʼarmonia dei piani)?
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Il libro di Capani si pone queste domande, evitando di fare un ennesimo “manuale” di tecnica cinematografica, ma andando a monte, nel rapporto più profondo della mente (e, se interpreto bene, dellʼanimo umano) con lʼimmagine filmica (con le mutazioni e le ibridazioni viste prima). «Molti manuali di cinema iniziano con la trattazione della grammatica del linguaggio cinematografico, come se per imparare a vedere o a parlare nei nostri primi anni di vita avessimo bisogno di impararne astrattamente le regole. Quello che è più importante, invece, mi sembra sia la motivazione a farlo. Un bambino che non avesse motivazioni sufficienti per comunicare non parlerebbe e le patologie di autismo ce lo dimostrano» (p.23). Per questo, lʼautore insiste molto sulla percezione visiva, sulle motivazioni comunicazionali, sulle dinamiche più profonde della comunicazione non verbale, sui processi neuronali che sono dietro alla ricezione dellʼimmagine e, di più, allʼapprezzamento del fatto artistico. Il libro di Capani è dunque un libro misto, con un coté originalmente teorico e uno più tradizionalmente dedicato allʼeducazione della ʻgrammaticaʼ (punto che è certamente al centro degli interessi dellʼautore: «Cʼè da constatare, purtroppo, che nessuna formazione in questo campo è prevista nella scuola dellʼobbligo» (p.22). Un volume anche ʻschizofrenicoʼ, ma nel senso positivo e provocatorio di un ʻviaggioʼ informato ed entusiasta attraverso il mondo delle immagini in movimento. Viaggio dentro lo sguardo, dentro la psiche, dentro i neuroni, con il quale, secondo Capani, è possibile arricchire le conoscenze per affrontare il problema del ʻlinguaggioʼ. Da Matte Blanco ai “sufi”, dai livelli logici ai sistemi rappresentazionali, dalla programmazione neuro linguistica alla piramide delle aspirazioni, il libro è un vastissimo repertorio di informazioni, di riflessioni e di suggestioni. Un libro di teoria, di filosofia, di psicologia, e insieme un libro di storia del cinema e di analisi del film. Dunque un testo ambizioso, che non è destinato, mi pare, né solo ai “cineamatori” (cui una volta erano rivolti i manuali tecnici) né solo agli studenti dellʼuniversità riformata (che in questo caso hanno la possibilità di essere stimolati ad approfondimenti interdisciplinari ed ulteriori letture), né solo agli studiosi (che magari non hanno bisogno delle informazioni sulle fasi di lavorazione del film), ma a un pubblico più generalista interessato ai processi della visione e, di conseguenza, agli strumenti di interpretazione del film e alle tecniche di ideazione e produzione del fatto cinematografico.
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Insomma un libro denso di teorizzazione nella prima parte, che poi si distende nella seconda, coerentemente con la sua vocazione didattica. Non a caso, uno dei registi citati è il didatta per eccellenza, Rossellini: «Roberto Rossellini dichiarava: “ un errore da evitare quando si insegna la tecnica è pensare che sia qualcosa di magico. La tecnica non è niente, è una sciocchezza. Ma è qualcosa di cui hai bisogno. Lʼalfabeto è la cosa più stupida del mondo, ma senza lʼalfabeto non puoi esprimerti. Perciò cʼè bisogno di conoscere la tecnica e di allenarsi”» (p. 23). E dunque una vasta seconda parte del libro è rivolta, più umilmente, alla “tecnica”, alle fasi di lavorazione del film, dalla sceneggiatura alla stesura del piano di lavorazione, dalla produzione alla recitazione, dalla colonna sonora al montaggio. Anche qui, mi viene da osservare, nei modi di produzione del film contemporaneo, è avvenuta una mutazione profonda. Il lavoro filmico e il digitale Il computer, il software, il digitale, i numeri astratti da una parte; la pellicola cinematografica, la striscia di celluloide, lʼanalogico, la materia dallʼaltra. Lʼamalgama e la dialettica tra questi due mondi opposti è il punto di partenza di un processo che può essere alla base non solo, come si è visto fin qui, dellʼimmagine sintetica ottenuta attraverso interventi di post-produzione sulla pellicola, ma anche delle riprese di un film girato interamente con tecnologia digitale, oppure di interventi nellʼambito della previsualizzazione degli effetti speciali, come anche della nascita stessa di una nuova tipologia di cinema, quale quella rappresentata dal “web-movie” destinato alla rete di Internet, o, ancora, di una semplificazione e velocizzazione nellʼambito del montaggio cinematografico, quello che una volta si realizzava sulle ingombranti moviole su cui la pellicola si “giuntava” con lo scotch e che oggi, in maniera ormai diffusa, si affida ai sistemi di editing computerizzato. Utilizzando una sorta di sineddoche, si potrebbe dire che oggi, quando si parla di montaggio digitale, si allude tout court allʼAVID. È questa, infatti, la più famosa e la più usata delle tecnologie digitali, tanto per il montaggio quanto, in parte, per la creazione degli effetti speciali. Lʼ”acquisizione”
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delle scene del film, preventivamente “telecinemate” su normale videocassetta Betacam, corrisponde alla fase iniziale, quella che consiste nella trasformazione dellʼanalogico in digitale, nella traduzione di linguaggio che porta la pellicola a diventare bit e, una volta tale, a far parte a pieno diritto del mondo fluttuante e immateriale del virtuale. Oltre il mondo della materia, il mondo reale, comincia dunque quello, completamente intangibile, del computer, che permette di utilizzare le tecnologie informatiche in modo da ottenere la stessa flessibilità di un programma di videoscrittura: quello che un semplice software di scrittura, come il Word processor, permette di fare con le frasi, tagliandole, spezzettandole e spostandole dappertutto, lʼAVID trasferisce nellʼambito delle immagini e dei suoni, la cui manipolazione diventa totale e, soprattutto, segue tempi reali. È questo uno degli esempi che testimoniano come non necessariamente la tecnologia digitale debba essere considerata quale antagonista di quella analogica; è questo il caso, invece, di una moderna tecnologia che “aiuta” e, soprattutto, stimola, velocizzandola e rendendola più malleabile, una fase creativa, quale quella del montaggio cinematografico, che, nei principi e nelle regole, continua a rimanere la stessa del passato, con la differenza di veder potenziate, grazie alle possibilità di intervento dellʼinformatica, le proprie stesse capacità; è indubbio, infatti, il vantaggio che il regista di un film ottiene dalla possibilità di veder eseguiti in tempo reale montaggi e “smontaggi” di scene o sequenze (senza più, dunque, dover aspettare il tempo necessario per quellʼazione tanto affascinante quanto certamente meno celere della giuntatrice e dello scotch sulla pellicola), oppure di veder eseguiti in “diretta” effetti e dissolvenze che una volta era possibile realizzare solo con la stampa della copia. Nel quadro della nuova tecnologia digitale al servizio della “fabbrica delle immagini”, non si possono dimenticare le possibilità offerte dal computer nellʼambito della previsualizzazione di scenografie ed effetti speciali, ambito, fino ad oggi, quasi del tutto impraticabile. Con lʼaumento del numero e della complessità di scene contenenti effetti speciali, il regista sempre più ha necessità di “vedere” in anticipo i movimenti di complicate riprese in motion-control o di pre-determinare i dettagli di compositing complessi; la previsualizzazione digitale trae, dʼaltronde, le sue origini dal settore del CAD/CAM architettonico (progetazzione computerizzata), applicando gli stessi principi alla base della progettazione di case, palazzi, città, alla realizzazione degli ambienti e degli elementi della vrtualità cinematografica. Il digitale al servizio del digitale: proprio in questa formula sembra,
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dunque, potersi riassumere il significato ed il compito di una pratica, quale quella appunto della pre e post-visualizzazione, in cui, effettivamente, è quella stessa tecnologia che darà vita su uno schermo agli effetti più strabilianti a creare le condizioni per essere prevista, calcolata e, in qualche modo, “arginata” da software la cui funzione è proprio quella di “virtualizzare il virtuale”. Eʼ ormai fenomeno radicato il fatto che il concetto post-industriale di rete abbia rimpiazzato, a tutti i livelli, quello industriale di distribuzione, ed è così che, nellʼambito della più generale rivoluzione comunicativa apportata dai bit, anche il cinema comincia a sovrapporsi alle reti telematiche da computer, creando le premesse perchè sorgano autonome comunità di fatto i cui membri possano impersonare tanto il ruolo di produttori, quanto quello di fruitori di prodotti comunicativi. Ho parlato di digitalizzazione a livello degli effetti speciali come del montaggio o delle riprese di un film; tutto sembra suggerire che il processo di trasformazione dalla pesante materia agli impalpabili numeri sia ormai completo. Eppure manca ancora un tassello, perchè di cinema digitale si possa parlare in maniera del tutto esauriente: lʼanello mancante della catena è proprio lʼultimo, quello che coincide con la fase distributiva, dunque con il vero e proprio momento in cui il film viene offerto alla fruizione del pubblico. Non mancano i pro e i contro; un fatto però è certo: non sarà possibile parlare realmente di cinema digitale finchè anche lʼultimo anello della catena produzione-postproduzione-distribuzione cinematografica non avrà subito la stessa mutazione che ha interessato, in maniera ormai radicale, gli anelli precedenti; finchè il momento culminante del processo attraverso il quale il film si daʼ al pubblico, vale a dire quello della proiezione delle immagini sullo schermo, rimarrà basato sullʼanalogica coppia proiettore meccanico-pellicola di celluloide, il nuovo cinema, quello delle immagini concepite e realizzate digitalmente, continuerà ad essere un ibrido, una creatura non finita, frutto di un processo incompleto, in precario equilibrio tra il passato e il futuro. Ancora una volta ci accorgiamo che il panorama è complesso e non è più possibile parlare solo di tecnologie, ma di modi di pensare. Di fronte a questo materiale magmatico e caotico, bisogna ormai teorizzare un “pensiero digitale”, un nuovo modo di concepire la sceneggiatura, la strutturazione delle storie, il montaggio, e dunque la percezione dello spettatore. Bene fa, dunque, Capani, a dare una sua risposta originale, e porre sul tappeto i nuovi problemi teorici che avrà davanti il cinema (o quellʼibrido film-televisione-video-elettronica-digitale-virtuale-internet ecc. che è diventato) nel nuovo millennio.
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Confini ritrovati di Gian Paolo Caprettini* Cʼè una pagina del diario di Andrej Tarkovskij (1973), in cui il regista russo annotava lʼimportanza di raggiungere nel cinema il “minimo recepito”, qualcosa che sia mostrato allo spettatore nella misura minore possibile in modo tale che “lo spettatore possa farsi, per conto proprio, unʼidea di tutto ciò che rimane inespresso” (cit. in A. Scarlato, La Zona del Sacro. Lʼestetica cinematografica di Andrej Tarkovskij, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2005, p.43). Lʼellissi deve avere valore simbolico alludendo a ciò che è recondito e svolgendo così il suo ruolo di espressione del sacro: il sacro essendo qualcosa che si intuisce come esperienza del limite. Ma questa allusività, questa sacralità del confine dellʼimmagine è strettamente connessa con il rendere percepibile e comprensibile la vita di ogni giorno, esprimendo il realismo derivante dal riconoscimento di fatti e persone, il “processo dellʼesistenza”, come lo chiamava Ejzenstejn. Così il cinema rende evidente, descrive, attualizza, ma nello stesso tempo maschera, sogna, dimentica…, dunque pone la sua specifica realtà in una particolare semiosfera che consiste anche in una drammaturgia e in un darsi a vedere. Sotto questʼultimo aspetto si vanno a intrecciare tre sguardi, come ha scritto Francesco Casetti: “lo sguardo che modella la scena evidenzia la presenza, assieme a ciò che viene mostrato, anche di chi mostra e di colui al quale si mostra” (Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano 1986, p.59). Da tali riflessioni si evidenzia il rapporto difficile tra tecnica e rappresentazione, tra il mondo parziale presentato dal film -che lascia allo spettatore i riempimenti di senso e il gioco caleiodoscopico dei punti di vista (come aveva già notato Jakobson)– e tutti i dati del senso immediato che il film pone in essere, mette in gioco e struttura: ma sono appunto la dinamica degli sguardi e la sintesi narrativa a dar conto del lavoro che presiede
* Studioso di semiotica della cultura della comunicazione, Gian Paolo Caprettini insegna allʼUniversità di Torino dove è ordinario di Semiologia del Cinema e della televisione presso il Dams e responsabile del Telegiornale dellʼUniversità e della rivista “Semiotiche”. Presidente dellʼAssociazione italiana di studi semiotici, è autore di molte opere e attento osservatore della attuale realtà mediatica.
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alla “vocazione del cinema a impossessarsi del mondo simbolico” (L. Albano, Lo schermo dei sogni. Chiavi psicoanalitiche del cinema, Marsilio, Venezia 2004, p. 60). Una padronanza che passa necessariamente attraverso lʼintervento del corpo come “operatore di autenticazione” (F. Jost), sia esso testimone, “passante nel mondo” col suo sguardo soggettivo - documentarista - oppure interprete assoluto, perfino sacerdote dellʼimmaginazione. Questo e altri atteggiamenti, come mostra Giuliano Capani, sorgono da differenti spinte alla motivazione artistica, da differenti piani di soddisfacimento di bisogni, da una varietà di quadri emozionali. Non si può affrontare il mondo magico del cinema, come preme a Capani, senza porsi il problema di unʼestetica che pare davvero prioritaria rispetto alla capacità di condurre adeguate, stringenti, logiche analisi di ogni singolo film. Così la via chiara e operativa tracciata in questo libro per avvicinarsi alla complessità del problema tiene conto di tutta una serie di dati che sono specifici del cinema, di altri che competono allʼimmagine e alla visione, di altri ancora che sviluppano lʼintreccio affascinante e paradossale tra esteriorità di ciò che vediamo e processi di immedesimazione: bastino come esempi La rosa purpurea del Cairo di W. Allen e The Truman Show di Peter Weir. La complessità nasce dal concorso nel lavoro cinematografico di differenti competenze e di diverse tappe prima di raggiungere il risultato desiderato. Dunque, cʼè bisogno di un team efficiente che però condivida quella curiosa vocazione insieme provocatoria e rassicurante, geniale e stereotipata che attraversa tutta la storia del cinema, il suo organizzarsi in generi, in tipologie espressive, in modalità di sviluppo della storia e in progettazioni emozionali. “Ci sono registi che catturano il reale intrappolandolo nel dispositivo del cinema e altri che reinventano la realtà … con la luce, i colori, la scenografia… Ci sono registi narratori la cui messa in scena è al servizio del racconto … e ci sono … i sovvertitori del realismo. Ci sono registi che hanno il senso del ritmo e dellʼazione mentre … altri usano la macchina da presa per danzare” (L. Albano, cit., p. 60). Far entrare il lettore neofita nel mondo del cinema oggi può anche significare esporlo alla consapevolezza e al dominio dellʼintegrazione sensoriale – con una sempre crescente attenzione allʼambiente sonoro e alla
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interpretazione musicale, richiedergli quella speciale creatività ordinata che devʼessere messa in campo, renderlo cosciente delle nuove professionalità, dei nuovi saperi emergenti nel fare cinema, senza dimenticare che oggi tornano problemi di ieri; la voce, ad esempio, e la “fine della sua innocenza” come notava Michel Chion per il cinema di settanta-ottantʼanni fa non è forse oggi stimolo per capire tutto il divenire sintetico di questʼarte e dei suoi linguaggi? Unʼarte, il cinema, la quale “oggi più che mai … aspira a recuperare… tutte le forme e tutti i dati figurativi del passato…, abbracciando in un percorso visivo cinematico tutta la storia delle arti, eternandola in un grande presente…Un gioco che si rifà alla concezione umanistica dellʼuomo come oculus mundi, occhio del mondo che realizza tutte la potenzialità visibile e intelligibile esistente nel mondo” (S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Il castoro, Milano 2000, p. 174). Di fronte a compiti tanto impegnativi, ma anche provocatoriamente sproporzionati, occorre non poca disciplina e un costruttivo senso del limite, quello che si sperimenta, ad esempio, tradizionalmente con la tecnica del montaggio. Tutti siamo convinti, in ultima analisi, che il cinema abbia bisogno, come mostra questo lavoro, di una forte tenuta di conoscenze anche strumentali, consapevole di saper rispondere a un lungo profilo costruttivo, dalla visione sinottica iniziale dellʼidea fino al malinconico abbandono in cui si trova - o si trovava un tempo - lo spettatore alla fine della proiezione, nel buio della sala.
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Premessa Cortomanìa: fare il proprio video per ʻesserciʼ La telecamera a portata di tutti e la forte esposizione ai programmi televisivi hanno indotto fortemente molti giovani a credere che fare un film sia semplice quanto fare una foto. Così lʼaccessorio da portare con se durante le vacanze è oramai la telecamera che prende il posto della vecchia macchina fotografica a pellicola sostituita dal modernissimo telefono cellulare facente anche funzioni di foto-video-camera. Oggi sempre più persone sono in grado di catturare a basso costo la realtà che scorre loro intorno. Lʼeconomicità che oggi ha la registrazione della realtà, se da una parte costituisce un ampliamento delle possibilità operative di chi vuole cimentarsi in questo campo, dallʼaltra può facilmente portare ad una scarsa riflessione su quel che si vuole riprendere e, quindi, comunicare. Il nastro magnetico o il piccolo DVD costa talmente poco che ci si può permettere di registrare qualsiasi cosa senza pensarci due volte. Ma il tutto è niente giacché è il punto di vista quello che seleziona gli avvenimenti conferendo loro una forma, nuova e visibile. In passato, lʼalto costo della pellicola e della sua lavorazione, spingeva i cineasti a considerare il mezzo come un oggetto prezioso con il quale impressionare solo alcuni dei possibili eventi che accadevano intorno alla propria vita (di solito quelli ritenuti più importanti). In questo caso il calo dei prezzi mi sembra che abbia notevolmente banalizzato ciò che di prezioso aveva lʼevento della ripresa cinematografica. Oggi cʼè una grande confusione che alimenta una ʻbollaʼ speculativa di tipo autoreferenziale: i numerosi Filmfestival che si svolgono in tutto il mondo sono la spia di un fermento che bolle in pentola: la cortomanìa ovvero fare il proprio corto per ʻesserciʼ. Molti giovani che, in passato, si cimentavano con le varie arti: il teatro, la musica, la pittura… ora, che i costi della produzione video (dalla telecamera al computer per il montaggio) sono notevolmente calati, approdano al video con una disinvoltura raccapricciante. Un bravo attore teatrale professionista facendomi vedere i suoi video non proprio entusiasmanti (perché privi di una spinta motivazionale valida e realizzati con scarsa struttura diegetica, anche se con unʼottima
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fotografia) confessava candidamente che si era messo a fare video perché nessun regista di cinema lo teneva presente per ruoli da protagonista e quindi era ricorso al self made per esserci. Girando per i Festival dei video-amatori (che, dʼaltra parte, costituiscono la loro vera ed unica palestra) non si può che rimanere impressionati per la quantità dei film che vi concorrono… ma ahimè la qualità drammaturgica lascia molto spesso a desiderare mentre si rileva un abuso dellʼeffettistica preconfezionata. E non potrebbe essere altrimenti dato che la loro formazione è per forza di cose autodidatta e quindi le loro risorse provengono dallʼemulazione del ʻgià vistoʼ in TV o al Cinema. Probabilmente lʼequivoco di fondo sta nel fatto che il linguaggio audiovisivo, essendo molto simile a quello con cui percepiamo gli avvenimenti della nostra vita, (vediamo e ascoltiamo) è dato per scontato. Ma così non è. In questo lavoro ci proponiamo alcune riflessioni sulle quali di solito i manuali cinematografici non si soffermano ma che costituiscono le basi dellʼazione artistica compresa quella cinematografica. Una formazione cinematografica carente Cʼè da constatare, purtroppo, che nessuna formazione in questo campo è prevista nella scuola dellʼobbligo. Si studia la ʻlingua italianaʼ scritta (e non quella parlata) ma non il linguaggio audiovisivo del cinema e della TV. Solo ultimamente si è pensato di introdurre ʻlʼeducazione allʼimmagineʼ come materia di studio nella scuola elementare con risultati alquanto deludenti perché insegnata da docenti che non hanno avuto la possibilità di unʼesperienza adeguata, ma forse anche perché si partiva da una considerazione a mio avviso erronea. Non si tratta di educare allʼimmagine giacché tutti lo siamo secondo le nostre attitudini fisiologiche a percepire la realtà (anche se è quella cinematografata), ma di imparare ad usare le immagini per comunicare attraverso il codice audiovisivo e, una volta conosciuto, acquisire la capacità compositiva per strutturare con coerenza il proprio messaggio. Quello che fino a poco tempo fa era solo appannaggio di pochi, lo ʻscrivere per immaginiʼ cioè comunicare attraverso la registrazione dellʼimmagine in movimento, oggi può essere usato da molti a patto che lo si impari.
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La tecnica è solo un mezzo non il fine Scopo di queste riflessioni è fornire gli elementi di base per iniziare un percorso conoscitivo attraverso il cinema. E sottolineo iniziare giacché non basta una lettura per imparare ma occorre mettersi in gioco: provare e provarsi. Attivare non solo lʼapparato percettivo intellettivo (il sapere) ma anche quello senso-motorio (il fare). Non è sufficiente, infatti, conoscere la tecnica, che attiene al come fare. Cʼè bisogno di sapere prima di tutto cosa fare e perché fare. Roberto Rossellini dichiarava: «un errore da evitare quando si insegna la tecnica è pensare che sia qualcosa di magico. La tecnica non è niente, è una sciocchezza. Ma è qualcosa di cui hai bisogno. Lʼalfabeto è la cosa più stupida del mondo, ma senza lʼalfabeto non puoi esprimerti. Perciò cʼè bisogno di conoscere la tecnica e di allenarsi»1 Rossellini usa il termine magico nel senso di inconoscibile o comunque non razionalmente analizzabile. È nostra intenzione, invece, indagare proprio quellʼaura misteriosa per svelare ciò che possiamo chiamare la ʻmagia del cinemaʼ ed apprenderne percorsi e processi attraverso cui lʼopera cinematografica si realizza: una sorta di materializzazione del pensiero in immagini2! Molti manuali di cinema iniziano con la trattazione della grammatica del linguaggio cinematografico, come se per imparare a vedere o a parlare nei nostri primi anni di vita avessimo bisogno di impararne astrattamente le regole. Quello che è più importante, invece, mi sembra sia la motivazione a farlo. Un bambino che non avesse motivazioni sufficienti per comunicare non parlerebbe e le patologie di autismo ce lo dimostrano.
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Intervista del 1972 a cura di James Blue in: Roberto Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di Adriano Aprà, Marsilio editori S.p.A., Venezia, 1987, p. 410
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Nei corsi di Laboratorio audiovisivo, che svolgo dal 2003 presso lʼUniversità di Lecce nel corso di Laurea della classe 23 (ex Dams), uno dei maggiori problemi che riscontravo era costituito dalla difficoltà di insegnare una materia così complessa, quale è fare cinema, in così poco tempo (appena 24 ore) e con scarsi mezzi tecnici. Ai Laboratori di solito son attribuiti al massimo 5 crediti formativi (un credito è lʼequivalente di circa otto ore di lezione frontale) e le strumentazioni, che diventano obsolete nel giro di poco tempo, sono quasi sempre inadeguate sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo.
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Ci soffermeremo, quindi, sul tema della motivazione alla comunicazione e, in particolare, quello connesso alla comunicazione artistica, e vedremo come essa abbia delle caratteristiche tutte proprie: una sorta di un eccesso di vitalità che presuppone una propensione al distacco, cioè una pulsione allʼesteriorizzazione di una esperienza emozionale3 che è arrivata a diventare unʼelaborazione del pensiero così impetuosa da premere fortemente per uscire fuori da noi e vivere di vita autonoma (una sorta di teoria del parto artistico). Affronteremo poi i temi che attengono alla percezione visiva connessi allo spectare cinematografico e vedremo come il cinema si sia sviluppato, Si sa che il percorso formativo universitario in Italia offre poche conoscenze professionalizzanti, essendo rivolto maggiormente a fornire le conoscenze storico-teoriche che costituiscono le basi e la ʻcorniceʼ della materia trattata. In un laboratorio audiovisivo, poi, il discorso si complica per molte ragioni. Innanzitutto perchè il film, essendo unʼopera collettiva, necessita un lavoro in gruppo mentre tutta la formazione di ogni ordine e grado, nel nostro Paese, è improntata verso lʼapprendimento (e la conseguente verifica) individuale. Uno degli ostacoli più grossi è stato, infatti, quello di convincere gli studenti ad interagire e lavorare insieme. Unʼaltra difficoltà nasce poi dalla peculiarietà stessa del cinema che è un racconto per immagini, alla cui realizzazione concorrono varie competenze: scrittori, registi, direttore della fotografia, attori, scenografi, fonici, montatori, etc. Come fare a trasferire agli studenti anche una pallida idea di tutto ciò? Nei primi due anni accademici mi ero praticamente arreso. Le mie lezioni si limitavano allʼapprendimento del linguaggio cinematografico, la sua grammatica, qualche esempio tratto da film importanti... ma i miei studenti mi incitavano a fare e dare di più: volevano ʻmettere le mani in pastaʼ. Così mi son lasciato travolgere dal loro entusiasmo (per la verità non ho opposto molta resistenza) e abbiamo iniziato insieme una sperimentazione didattica superando la limitazione del tempo e dei mezzi tecnici: forse li avevo in qualche modo contagiati? Attorno a chi possedeva una piccola telecamera (usata fino a quel momento in famiglia per i compleanni e le gite) si formavano i gruppi, ognuno cercava un ruolo produttivo e per il montaggio si faceva quel che si poteva: non ricordo più quanti cortometraggi ho montato nel mio studio con gli studenti fino a notte tarda. I lavori degli studenti sono stati poi presentati al pubblico in varie manifestazioni pubbliche, dalle piazze ai Festival, alle televisioni satellitari. Questo saggio nasce dallʼesigenza di far tesoro di questa esperienza didattica per renderla accessibile agli altri. Non è un manuale di cinema ma molto di meno o, forse, qualcosa di più. In queste righe ci proponiamo di suggerire percorsi conoscitivi attraverso il fare cinema: una sorta di iniziazione per giovani apprendisti stregoni... della celluloide! 3
Leopardi nello Zibaldone esplora il nesso conoscenza/emozione quando afferma che “se non vuole essere un ʻfilosofo dimezzatoʼ - il pensatore è tenuto a sperimentare passioni e illusioni: «Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, dʼillusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce
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nel corso dellʼultimo secolo, in linguaggio sintetico elaborando schemi e modelli propri per conquistare una percezione condivisa: oggi nessuno più vedrebbe un primo piano di un attore come una persona a cui abbiano mozzato la testa dividendola dal corpo (cosa che avvenne allʼinizio del secolo scorso quando i primi registi iniziarono a tagliare le inquadrature avvicinando la camera al soggetto e scegliendo di mostrare una parte del tutto) come nessuno si stupirebbe più vedendo che in un film il luogo e il tempo del racconto possa mutare repentinamente e non seguire gli usuali percorsi spazio-temporali a cui siamo abituati (passato-presente-futuro). Quindi tratteremo la comunicazione non verbale (CNV) che nel cinema, come nella vita, ha un ruolo di primaria importanza visto che siamo calati in un universo di segni, non solamente verbali, del quale spesso non ne siamo del tutto consapevoli. I pionieri del cinema avevano solo immagini senza suono per realizzare le loro opere e riuscirono a creare un vero e proprio linguaggio iconico non verbale che ha costituito la base del linguaggio cinematografico. Non possiamo poi dimenticare che fare cinema, al contrario delle altre arti come la pittura, la fotografia, la musica, presuppone unʼattività di gruppo e purtroppo la formazione scolastica ha sempre sottovalutato il lavoro dʼéquipe (se non proprio ignorato). Vedremo quali sono i pericoli e i segreti per lavorare insieme o, almeno, per evitare quanto più possibile i conflitti che immancabilmente si presenteranno non soltanto nella troupe ma anche dirigendo gli attori che sono, come vedremo, persone molto particolari: devono diventare qualcosa di diverso da se stessi attingendo alle risorse che sono racchiuse nella loro esperienza passata. Ci occuperemo, quindi, della conoscenza dei tipi psicologici avvalendoci dellʼEnneagramma, una metodologia orientale fatta conoscere in occidente da Gurdjieff e che Jung avrà sicuramente conosciuto, come si evince
lʼimmenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha mai letto e sentito i poeti, non può essere un grande, vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo dimezzato, di corta vista, di colpo dʼocchio assai debole, di penetrazione scarsa ... Non già perché il cuore e la fantasia dicano sovente più vero della fredda ragione, ma perché la stessa freddissima ragione ha bisogno di conoscere tutte queste cose, se vuol penetrare nel sistema della natura, e svilupparlo ... La ragione ha bisogno dellʼimmaginazione e delle illusioni chʼella distrugge» (Zibaldone, 4 ottobre 1821).
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dal suo studio su I tipi psicologici4. Mediante la conoscenza di questo modello potremo approfondire caratteristiche e comportamenti delle persone per farle diventare personaggi giacché non si può essere altro da se stessi (il lavoro dellʼattore) se non si ha conoscenza di se. Vedremo poi come tutto questo possa diventare un film, cioè come funziona il racconto per immagini e come usare questo ʻfiltro cinemaʼ per comunicare in maniera non quotidiana, ma artistica, lʼelaborazione dei nostri pensieri e soprattutto come fare a trasformare la nostra esperienza individuale (la vita) in unʼesperienza condivisa (il cinema). In appendice ho voluto offrire al lettore alcuni documenti che in un certo senso arricchiscono questo saggio con tre interviste ai professionisti del Cinema. La prima è una storica intervista del 1907 che Maurice Noverre fece a George Méliès: Les vues cinematographiques, una preziosa testimonianza del primo Mago della celluloide. La seconda, Filmare il teatro, è una riflessione sulle tematiche del cinema documentario con Torgeir Wethal, lo storico attore dellʼOdin Teatret di Eugenio Barba, direttore dellʼOdin Teatret film, che ha filmato gli spettacoli di questo prestigioso gruppo teatrale contemporaneo. La terza è costituita da un Incontro con Vittorio Storaro avvenuto in occasione di una conferenza che tenne a Tricase (Lecce) durante il Salento Film Festival nel Settembre del 2004. Chiude il volume una modulistica della quale il lettore si può servire per la lavorazione dei suoi film. Questo saggio ha lo scopo di fornire informazioni sulla materia trattata in una visione interdisisciplinare5 e stimolare domande. Ad alcune verranno proposte delle risposte che riflettono le idee cui sono pervenuto fino a questo momento sullʼargomento. Ad altre dovrà essere il lettore stesso a trovarle perché nessuno più di chi leggerà questo saggio ha la capacità di valutare le riflessioni fatte e servirsene per ciò che riterrà utile alla sua attività, alle sue conoscenze, alla sua vita.
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Jung C. Gustav Tipi psicologici, Bollati Boringhieri, 1977
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Affrontare lʼargomento filmico da un punto di vista esclusivamente ʻcinematograficoʼ rischierebbe di risultare un discorso tautologico e di fornire una visione troppo ristretta del fenomeno anche perchè mancherebbe quello sguardo tridimensionale (da più punti di vista) in grado di imprimere una diversa profondità alle nostre riflessioni.
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PARTE PRIMA Elementi fondanti del cinema
Cap I CINEMA E PERCEZIONE VISIVA 1.1 Video ergo sum: Sguardo umano e sguardo cinematografico: la cornice magica. Quando siamo davanti allo schermo cinematografico le immagini che si susseguono sono come incorniciate dal fascio luminoso del proiettore: questa è la limitazione fondante del campo visivo cinematografico. Tutto quel che accade al di fuori di tale limite non esiste, nel senso che è stato escluso alla nostra vista, come ritagliato da una realtà più ampia. Lʼesclusione e il restringimento nella cornice è la prima scelta del cinematographer6, in parte anche dovuta a un limite tecnico: quello di catturare una porzione di realtà che riesca ad entrare nellʼangolo di ripresa della camera. In termini tecnici questo limite spaziale si definisce: inquadratura. Lʼinquadratura, dunque, è là dove finisce lo sguardo della camera! A differenza dello sguardo umano, o meglio del campo visivo dellʼuomo, quello cinematografico è più limitato (ci vorrebbe un grandangolo spinto, con unʼevidentissima deformazione della realtà data dalle aberrazioni ottiche delle lenti, per arrivare a ciò che un solo occhio umano riesce a percepire). Altra limitazione è la mono-ocularità della camera che, per questo, è privata della profondità tridimensionale. Questa limitazione tecnica è stata oggetto agli inizi del ʻ900 di varie ricerche specie nel campo fotografico: la stereoscopia. Si trattava di una camera che aveva due obbiettivi distanziati tra loro, proprio come gli occhi umani; un visore con due lenti aveva poi il compito di accoppiare le due immagini scattate da questa speciale macchina fotografica. Uno sviluppo ulteriore di questa tecnica si ebbe negli anni ʼ50 con il Wiew master, una sorta di binocolo nel quale andava posto un disco contenente coppie di diapositive disposte lungo la sua circonferenza scattate con il metodo stereoscopico (distanziate). Sul versante del cinema, negli anni ʻ50 si tentò di ottenere la tridimensionalità con la tecnica della doppia immagine stampata su unʼunica pel6
In omaggio a Vittorio Storaro, che lo ha usato per primo, userò questo termine per indicare colui che scrive con il cinema come il fotografo è colui che scrive con la fotografia.
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licola usando due colori ad angolazione sfasata. In realtà erano due immagini di diverso colore riprese da angolazioni distanziate. Allʼentrata in sala venivano forniti degli occhiali di cartone con una lente rossa e lʼaltra verde. Il risultato, anche se dava una certa impressione di tridimensionalità, era talmente deludente che fu abbandonato quasi subito. Queste ricerche tecniche sulla rappresentazione cinematografata della realtà avevano il fine dellʼimitazione, della mimesi: equiparare lo sguardo cinematografico a quello umano. La mimesi rende più veritiero, più reale il soggetto ripreso per far si che lo spettatore fosse catturato da quel fascio di luce e, dimenticandosi di essere in una sala cinematografica, lo percepissse come vero. Lʼinganno convenzionale del cinema (come nel teatro e nellʼarte in generale) ci permette di vedere ʻun doppioʼ sullo schermo, come sulla scena, con il quale possiamo in qualche modo confrontarci immedesimandoci e proiettando le nostre pulsioni che si annidano nel profondo.7 1.2 Il voyeur cinematografico Le interazioni psichiche della proiezione cinematografica sono state oggetto di molti studiosi non solamente dellʼarea psicologica. Oltre al già citato Angelini, il famoso semiologo Christian Metz nel 1980 ha dedicato un interessante studio ai rapporti tra cinema e psicanalisi8. In particolare Metz osserva come lʼesperienza del guardare senza essere visti possa accumunare spettatore cinematografico e il voyeur e come in tutti e due vi siano delle ʻpulsioni a vedereʼ che nascono da ciò che il semiologo definisce il desiderio perduto, cioè lʼoggetto-feticcio (ciò che vede proiettato) che viene mantenuto a distanza (perché inarrivabile) in maniera tale che la sua pulsione percettiva si limiti ai sensi a distanza (vista e udito) traendone esclusivamente il piacere della vista: si vede ma non si tocca. Su questa forma di sadismo visivo, rileva ancora Metz, si fondano la maggior parte delle arti socialmente riuscite (teatro, cinema, pittura, scultura), mentre quelle che si basano sui sensi a contatto (gusto, odorato, tatto) sono spesso 7
Sul fenomeno della immedesimazione e proiezione psichica dello spettatore, di cui ci occuperemo in altra parte di questo lavoro, vedi tra gli altri: Alberto Angelini, Psicologia del cinema, Liguori editore, Napoli, 1992
8
Christian Metz, Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia, 1980
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considerate minori (arte culinaria, dei profumi etc.). Il motivo forse è da ricercarsi nella tensione provocata dal procrastinare lʼattesa del desiderio pulsionale che, se appagato totalmente, cesserebbe di essere tale o comunque sarebbe di breve durata. Da rilevare anche che i sensi di contatto ʻbucanoʼ in un certo senso la sfera personale dellʼindividuo, invadono la fisicità del soggetto e pertanto agiscono direttamente nel suo sistema di integrità bio-psichica: una cosa è guardare intensamente una persona e tuttʼaltra farle una carezza o baciarla sulle labbra! Quindi il cinema opera sulle pulsioni dei sensi a distanza stimolando il piacere di vedere in una collettività provvisoria (il pubblico in sala) della quale ne dirige gli sguardi. Ma cosa intendiamo per sguardo cinematografico? Quali sono le caratteristiche che lo distinguono da quello quotidiano? Abbiamo detto che la camera può abbracciare un campo visuale più ridotto di quello umano e da questa limitazione sorgono una serie di questioni. Uno dei primi problemi che troviamo portando al nostro occhio la cinecamera è quello di perdere il campo del nostro sguardo abituale: ci sentiamo come un cavallo con il paraocchi. Quindi siamo naturalmente portati a muovere freneticamente la camera per riacquistare lo ʻsguardo perdutoʼ ed è ciò che possiamo osservare nelle riprese cosiddette amatoriali dove la camera non sta mai ferma fluttuando maldestramente alla ricerca dello spazio mancante. Allʼinizio dellʼesperienza-cinema lo sguardo della camera simulava quello di uno spettatore immobile seduto in platea al quale si doveva far vedere tutto, come se assistesse ad uno spettacolo teatrale. Ed è con la mente al boccascena del teatro che i cineasti delle origini mossero i loro primi passi: la camera era fissa ed abbracciava un campo visivo molto simile a quello del proscenio teatrale. Nei primissimi film di Lumière, ma anche in quelli di Méliès, è evidente questo atteggiamento ʻteatraleʼ: lʼinquadratura (quasi sempre un totale) era mantenuta immobile mentre lʼazione scenica si svolgeva al suo interno. Questo atteggiamento di fissità dellʼosservazione derivava, come abbiamo detto, dallʼesperienza teatrale così che lo spettatore poteva guardare, proprio come a teatro, da un solo punto di vista.
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Ma ben presto, si dice per un accidente9, ci si affrancò da questo immobilismo. Nei manuali di storia del cinema si fa nascere il primo movimento di camera nel 1896, quando Eugéne Promio (un collaboratore dei Lumière) a spasso nel mondo per riprendere vedute eccellenti, pose la sua camera su una gondola ed effettuò quella che poteremmo chiamare una gondola-car in cui si poteva ammirare Venezia dai canali. 1.3. Ubiquità dello spettatore cinematografico Negli States D.W. Griffith, per poter meglio mostrare lʼintensità dellʼespressione degli attori trovò conveniente avvicinare la camera al loro volto inventando il primo piano e svincolando per sempre lo sguardo fisso della camera che da quel momento divenne mobile e in grado di dirigere lo sguardo dello spettatore da più punti di vista, iniziandolo così al grande viaggio nellʼimmaginario cinematografico. Lʼinquadratura è come lʼatomo, il nucleo, la cellula dalla quale si costruisce il film. Attraverso di essa il regista provoca una sorta di costrizione al guardare scegliendo quello spazio delimitato per trasportare il nostro sguardo nei luoghi e nei tempi del racconto cinematografico. La direzione dello sguardo è un tema centrale del linguaggio e della regia cinematografica10. Esso permette non solo di mostrare, ma anche di suggerire, puntualizzare, soffermare lʼattenzione su un particolare, ingannare, far intravedere… le parole sono inadeguate ad elencare le innumerevoli significazioni che un inquadratura può realizzare. Dʼaltronde un pensatore molto autorevole11 ha riconosciuto che unʼimmagine vale più di mille parole! Il linguaggio cinematografico si è sviluppato per sperimentazioni successive fino a configurarsi nel modo in cui oggi lo conosciamo, ma il suo obiettivo è stato sempre lo stesso: creare una realtà immaginaria attrattiva per lo spettatore: dalle vedute esotiche dei Lumière passando per
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Pare che alle origini del cinema un rudimentale carrello, su cui era posta la camera per rendere più facili i suoi spostamenti, scivolò giù per una strada inclinata e dette inizio alla prima carrellata!
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A questo proposito vedasi: Joel Magny, Il punto di vista. Dalla visione del regista allo sguardo dello spettatore, Lindau, Torino, 2004
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Confucio, 551 – 479 a.C.
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le fantasmagorie di Méliès fino ai mondi fantastici di Star wars. Cosa pagheremmo per assistere, senza correre alcun pericolo, ad unʼazione avventurosa o, non visti, ad una piccante scena dʼamore.12 Il guardare senza essere guardati, come abbiamo già detto, è una delle attrattive maggiori del cinema: esso, infatti, con inquadrature e montaggio ci da lʼimpressione (oltre che a vederle) di esserci molto vicino a queste scene e forse di osservarle in una maniera più coinvolgente di quanto potremmo fare essendoci di persona. Possiamo infatti guardare la scena (cosa impossibile nella realtà) da più punti di vista, da diverse angolature e distanze. Possiamo dire che lo sguardo dello spettatore cinematografico sia in un certo senso privilegiato: può vedere di più e meglio di quello che potrebbe fare nella realtà. Ed è questo privilegio di ubiquità unʼaltra delle maggiori attrattive della ʻmacchina cinemaʼ. Pensate ad una partita di calcio. Anche acquistando un biglietto per il posto di tribuna centrale (che è il punto visuale migliore) non potremo mai competere con la visione televisiva dellʼevento sportivo giacché non sarebbe possibile avvicinarci ad un dribbling di un attaccante o essere dietro la porta mentre si sta tirando un calcio di rigore… e tutto ciò attraverso una pluralità di sguardi (le varie inquadrature delle camere) che convergono poi nel montaggio per riportare lʼunità di sguardo allʼubiquità delle riprese.
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Fin dai primissimi esordi i film che riempivano le ʻnickel odeonʼ parigine erano donne che si mostravano senza tanti veli. Ricordo di aver visto, una collezione di brevi filmati pornografici parigini degli inizi ʻ900 dove era evidente la forza voyeuristica del cinema.
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Cap. II Dirigere lo sguardo dello spettatore Come si dirige lo sguardo dello spettatore? Ejzenstejn parla di «modellare lo spettatore nel senso voluto attraverso una serie di pressioni, calcolate con precisione, sulla sua psiche»13 Queste pressioni psicologiche costituiscono le scelte registiche attinenti al cosa e come guardare. In un certo senso è il regista che guarda per noi e, quindi, sceglie cosa farci guardare. Nella vita di tutti i giorni in realtà noi compiamo una serie di attività motorie e mentali che si avvicinano molto alla maniera con cui vediamo un film. Per esempio se dobbiamo andare a trovare un amico in una città poco conosciuta il nostro sguardo eseguirà delle panoramiche ruotando la testa per osservare una piazza in cerca della via che da questa si diparte, poi ci avvicineremo al cartello indicatore della via (Dettaglio). Riprendendo il nostro cammino potremmo essere distratti da una provocante ragazza che ci passa accanto sorpassandoci (panoramica a seguire) e focalizzeremo la nostra attenzione (ZOOM in avanti) su qualche particolare che ci attrae particolarmente (PPP). 2.1 Inquadratura: piani e campi e loro significazione Abbiamo usato i termini del lessico cinematografico che occorre ora definire. L’inquadratura definisce i limiti dello spazio che viene ripreso ed è del tutto simile alla fotografia da cui se ne differenzia per il tempo della sua esecuzione. Infatti la ripresa di un’inquadratura cinematografica consiste in una serie di fotografie che vengono scattate in successione con una cadenza di ventiquattro foto al secondo. L’inquadratura viene canonicamente definita come «un segmento di pellicola girato in continuità; a livello di ripresa esso è delimitato dalla partenza e dall’arresto del motore della macchina da presa. A livello del montaggio da due tagli: all’inizio e alla fine.14» 13
S.M. Ejzenstejn, Il montaggio, Marsilio, Venezia, 1986, p. 227
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G. Rondolino - D. Tomasi, Manuale di film, Utet, Torino, 1995
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Per definire la qualità dellʼinquadratura, cioè in che maniera viene inquadrato un soggetto, da quale distanza, il cinema usa i seguenti termini di classificazione: Piani e Campi. I piani si riferiscono prevalentemente alle persone mentre i campi ai luoghi o alle cose. Quindi, per le persone avremo: (FI) Figura intera: il soggetto viene ripreso dalla testa ai piedi. Si usa per descrivere una persona nella sua interezza. (PA) Piano americano: dalle ginocchia alla testa. Quando vogliamo mettere in luce solo la parte superiore di un soggetto. (MF) Mezza figura: dalla vita in su. Quando occorre avvicinarsi di più al soggetto per metterne in risalto la sua mimica (PP) Primo piano: dalle spalle in su. Con questo piano il soggetto occupa tutto lo spazio dellʼinquadratura ed è il suo volto, la sua espressione facciale che ci interessa maggiormente. (PPP) Primissimo piano: solo il volto. In questo piano, essendo molto ravvicinato, sono percepibili anche i minimi mutamenti espressivi di umore, come il socchiudere gli occhi, mordersi le labbra, ammiccare etc. (DET) un dettaglio del viso o di altra parte del corpo. Per focalizzare su un singolo elemento lʼattenzione dello spettatore. Come si può notare il restringimento dei piani privilegia il volto perché è li che si trovano gli elementi più espressivi della persona nonché i canali sensoriali principali (video, audio e cenestetico) Per i luoghi classifichiamo: (CLL) Campo lunghissimo: una vastissima porzione di territorio (di solito in esterno) dove i personaggi, se ci sono, sono poco visibili e comunque non si distinguono. Serve per contestualizzare lʼazione nello spazio in cui si svolge. (CL) Campo lungo: il totale di un ambiente dove i personaggi sono riconoscibili. Viene usato per descrivere lʼazione dei personaggi in un ambiente che è rilevante per il racconto. (TOT) Totale: è un campo lungo che definisce la totalità dello spazio in
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cui si svolge lʼazione ed include tutti i personaggi che vi partecipano. La ripresa di tutta lʼazione con questo piano è detta Master perché contiene la totalità degli elementi della scena. Di solito si gira un master completo dellʼazione per poi dettagliare gli elementi su cui vogliamo che lo spettatore posi maggiormente la sua attenzione. (CM) Campo medio: lʼattenzione è focalizzata sui personaggi, mentre lʼambiente non è più tanto importante da far vedere. Il CM descrive soprattutto lʼazione che si presume abbracci uno spazio tale da giustificarlo. I Campi, come i Piani, sono determinati dalla distanza cinematografica che si definisce come quello spazio che intercorre dal soggetto alla camera. Il concetto di distanza cinematografica è strettamente connesso a quello di lunghezza focale perché lʼuso di obbiettivi a focale corta (grandangolo) o lunga (tele obbiettivo) determinano Primi piani o Campi lunghi a prescindere dalla distanza cinematografica. Con lʼuso degli obiettivi a focale variabile (chiamati transfocatore) la distanza, e quindi la relativa inquadratura, può essere ottenuta otticamente. Il transfocatore (lo zoom) è formato da un gruppo di lenti mobili che permettono di avvicinare o allontanare il soggetto, attraverso ingrandimenti ottici, senza spostare la camera. Alcuni esempi tratti da film celebri per rendere visibile quanto detto.
F. Fellini, La dolce vita, 1959
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P. Germi, Divorzio allʼitaliana, 1961
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B. Bertolucci, Ultimo tango a Parigi, 1972
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La classificazione delle inquadrature definisce un codice di linguaggio che serve per comunicare con le parole il tipo di inquadratura da realizzare. È indispensabile esprimersi con questi termini per agevolare la comunicazione veloce e corretta allʼinterno della troupe cinematografica. Il tipo di inquadratura ci dice come vedremo lʼazione dei personaggi, da quale angolatura e a quale distanza dalla camera. Finora abbiamo parlato di inquadrature presupponendo che siano fisse, cioè che la camera non si muova ma, come abbiamo detto, già dagli inizi del 1900 il cinema abbandonò la ʻvisione teatraleʼ per ricercare un modo di far vedere i soggetti ripresi che sfruttasse le nuove possibilità che il cinema offriva (visione dinamica). Nacquero così i movimenti di camera. 2.2 I movimenti di camera: la de-localizzazione dello sguardo cinematografico La possibilità di muovere la camera per realizzare una ripresa in movimento aprì al cinema orizzonti narrativi nuovi giacché con questa tecnica ci si affranca per sempre dalla concezione statica del punto di vista unico ed immobile dello spettatore (situazione prettamente teatrale) trasportandolo negli spazi sino ad allora inesplorati di una nuova realtà dinamica. Dal punto di vista funzionale i movimenti di camera rispondono allʼesigenza di ʻmostrareʼ una porzione maggiore di spazio che non entrerebbe in unʼinquadratura ʻstrettaʼ come ad esempio in un PP o CM per mantenere i dettagli dei soggetti inquadrati o per seguire un soggetto in movimento che altrimenti uscirebbe fuori da unʼinquadratura fissa. Ma da un punto di vista formale-narrativo i movimenti di camera permettono di realizzare una dinamicità narrativa senza uguali. Ad esempio, per rendere sullo schermo lʼeffetto di una persona colta da vertigini, il genio cinematografico di Alfred Hitchcock inventò una tecnica efficacissima nella sua semplicità: fece muovere la cinepresa verso lʼattore, usando contemporaneamente lo zoom in senso contrario, per “allontanare” lʼimmagine. In questo modo le proporzioni dellʼattore rimanevano le stesse sullo schermo, come se non ci fosse movimento, ed era invece il mondo intorno a lui che sembrava muoversi e collassare, come a volerlo schiacciare. Questa tecnica prese il nome di “effetto Vertigo”, dal titolo del film per cui fu inventata Vertigo, 1958 (titolo in italiano La donna che visse due volte).
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Un altro esempio ce lo offre Psyco, sempre di A. Hitchcock (1960) nel celebre piano sequenza dellʼomicidio nella doccia dove lo scorrere dellʼacqua mista al sangue della vittima viene seguito con una panoramica in PP che porta il nostro sguardo fino al buco dello scarico che, in dissolvenza incrociata si trasforma nellʼocchio del cadavere. Muovere la camera ci permette di dirigere lo sguardo dello spettatore verso un flusso di avvenimenti continuo accrescendo la loro percezione in senso dinamico. Nella scena citata di Vertigo è come se noi stessi fossimo presi da un attacco di vertigini, mentre in Psyco siamo trascinati nel gorgo sanguinoso dellʼomicidio. Il movimento della camera dirige il movimento del nostro sguardo trasportandolo in una posizione vagante nello spazio del racconto strappandoci mentalmente dalla posizione immobile in cui ci troviamo come spettatori facendoci ʻvolareʼ davanti, dietro, in alto, molto vicino o molto lontano dai protagonisti della storia. È una sorta di privilegio magico che non potremmo avere nella realtà ma soltanto nellʼimmaginazione. Lo spettatore cinematografico si trova in una realtà delocalizzata nel senso che può cambiare istantaneamente luogo e punto di vista inducendo lʼimpressione di trovarsi contemporaneamente in più luoghi dʼosservazione. Questa de-localizzazione dello sguardo cinematografico potrebbe avere qualche correlazione a quella che i fisici sub-atomici15 chiamano la de-localizzazione della realtà e in psicologia quantistica la non-localizzazione della mente ma, data la complessità dellʼargomento di ciò accenneremo in altra parte di questo lavoro. Dunque muovere la camera vuol dire essenzialmente far muovere lo sguardo dello spettatore, e con esso la sua mente, attraverso percorsi di percezione dinamica dello spazio-tempo. Ogni movimento deve avere una coerenza interna, uno scopo ben preciso. I movimenti di camera, dal punto di vista cinetico, si classificano nel modo seguente: Panoramica. Si effettua facendo ruotare la camera sul proprio asse. Essa è fermamente avvitata su un supporto fisso (il cavalletto). La panoramica può essere di tre tipi: orizzontale, verticale, obliqua.
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John Stuart Bell, David Bohm, Rupert Sheldrake ed altri
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Carrellata o Traveling. La Camera è situata su un mezzo semovente, un carrello che si muove su binari, e viene spostata nello spazio. Dolly. Consiste in braccio meccanico allʼestremità del quale è fissata la camera, mentre allʼaltra estremità trovano alloggio una serie di pesi per controbilanciare il peso della camera e dellʼoperatore. In questa maniera si può facilmente manovrare lʼattrezzo facendogli compiere una serie di movimenti (alzate da terra e rotazioni). Camera car. Quando la camera è posta su un automobile. Usata spesso per riprendere unʼaltra auto in marcia o nelle scene di inseguimenti. Steadycam. Si tratta di unʼinvenzione abbastanza moderna usata per la prima volta in Shining di S. Kubrick (1980) e consiste in un braccio ammortizzato con una serie di bilanciamenti su cui viene fissata la camera. Consente di effettuare riprese camminando a piedi senza che siano visibili gli scossoni provocati dalla deambulazione. Louma. È un braccio meccanico di circa 7 metri su cui è fissata la camera e i cui movimenti sono controllati a distanza da un computer. Viene usata in quei casi dove lʼoperatore, per ragioni di sicurezza, non può stare vicino alla cinepresa (salti oltre un burrone, fuoriuscita da una finestra etc.) Sky cam. La camera è sospesa con un sistema di cavi fissati in vari punti e può quindi ʻvolareʼ nel vuoto raggiungendo velocità abbastanza rilevanti. Usata negli stadi specialmente nelle gare sportive dove può arrivare ad altezze fino a 20 metri e precedere la corsa di un centometrista. Camera a mano. Usata specialmente nei servizi giornalistici o comunque in quei casi dove non è opportuno piazzare un cavalletto perché la situazione richiede una rapidità di spostamenti elevata. In questo caso i movimenti di camera, non avendo supporti su cui contare, sono dati dallʼoperatore che mantiene con la forza del proprio braccio la camera, quindi la loro fluidità dipende soprattutto dalle capacità di chi opera. Lo zoom. Non è un vero e proprio movimento di camera ma un movimento ottico nel senso che non è la cinepresa a muoversi bensì il gruppo di lenti poste nellʼobiettivo chiamate transfocatore che consentono di ingrandire il soggetto ripreso.
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2.3 Composizione delle inquadrature: il principio della continuità visiva Piani, campi e movimenti di camera sono alla base del linguaggio cinematografico ma, dato che il film è una registrazione della realtà nel tempo, quali sono le maniere di collegare una ripresa allʼaltra? Dove finisce una ripresa ed inizia la successiva? Questo non è soltanto un problema connesso al montaggio ma attiene allʼarte della ripresa e della regia giacché se non si ha un materiale cinematografico valido e correttamente girato difficilmente si potrà poi montarlo. Occorre quindi esaminare le modalità che permettono il collegamento corretto tra le inquadrature tenendo presente che ciò che diremo in questo paragrafo si riferisce alle tecniche di rappresentazione naturalistica che sono alla base del montaggio detto invisibile perché fatto in maniera che lo spettatore non se ne accorga. Molti sono i modi di riprendere unʼazione. Lo possiamo fare con unʼinquadratura fissa o in movimento, in PP o in CM, ma se il soggetto, ad esempio, entra in una casa come facciamo a farlo vedere nella stanza in cui è entrato se noi con la nostra camera rimaniamo allʼesterno? Si comprende facilmente che dobbiamo fermare la ripresa e cambiare luogo (dentro la stanza) per proseguire il racconto16. Quindi il problema è: dove posizionare la camera nellʼinquadratura seguente per dare lʼimpressione di continuità allʼazione? Il principio di continuità visiva prevede che si debba rispettare innanzitutto la direzione del movimento che il soggetto aveva nellʼinquadratura precedente e quindi continuarlo nellʼinquadratura successiva. Ma ciò non basta perché ci possono essere due tipi di raccordi: 1. il raccordo diretto 2. il raccordo indiretto Nel primo il soggetto non esce totalmente dallʼinquadratura, cosa che invece avviene nel secondo. Questa differenza, che a prima vista ci può sembrare di poco conto, ci vincolerà invece ad una serie di accorgimenti da rispettare. Nel raccordo diretto, se il nostro attore percorre lo spazio del quadro da destra a sinistra per entrare nella porta, nella seconda inquadratura (che effettueremo avendo spostato la camera allʼinterno della casa) dobbiamo conservare questa direzione di marcia. Tutto ciò per rendere più fluido il 16
Possiamo girare con due o tre camere contemporaneamente ma il problema si pone ugualmente su dove posizionare le camere.
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passaggio tra le due inquadrature e occultare così lʼavvenuto cambio di ripresa (è per questo che viene chiamato montaggio invisibile). Nel raccordo indiretto invece il soggetto entra nella casa e la ripresa viene mantenuta fino a che non scompare dal quadro, quindi nella inquadratura successiva non abbiamo lʼesigenza di mantenere la direzione del movimento in quanto abbiamo interrotto volontariamente la continuità visiva. Unʼaltra regola si pone nel raccordo sul movimento che presenta i problemi relativi allʼentrata e allʼuscita dallʼinquadratura. Se il nostro personaggio uscirà dalla parte sinistra del quadro da quale parte entrerà nel quadro successivo? La convenzione cinematografica ritiene che lo schermo continui oltre lʼinquadratura nella direzione del movimento del soggetto per cui un personaggio che esce dal quadro ricomparirà dal lato opposto del quadro stesso continuando il suo movimento nella stessa direzione come possiamo osservare dal raccordo tra le due riprese tratte da Respiro di Emanuele Crialese (2003).
Questa che abbiamo chiamato convenzione cinematografica in realtà è un espediente per restituire una certa tridimensionalità virtuale (osservare il soggetto da più punti di vista) alla bidimensionalità del cinema. 2.4 Il sistema a 180° Unʼaltra regola che occorre rispettare è riferita allo schema per i dialoghi e viene chiamata la corrispondenza tra le inquadrature. Si tratta di un sistema di angolazioni con le quali devono venire ripresi due soggetti che svolgono unʼazione di relazione tra loro (dialogo o altro). La regola della corrispondenza ci dice che gli angoli formati dalla linea di ripresa (la linea ideale che congiunge il soggetto alla MdP) con la linea dʼazione (la linea ideale lungo la quale si svolge lʼazione) devono essere uguali. Nel dialo-
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go, ad esempio, la linea dʼazione è quella che congiunge due personaggi quindi se riprendiamo il primo attore con un angolo di 45°, la ripresa del secondo attore deve mantenere la stessa angolazione tenendo presente che non dobbiamo superare la linea dʼazione che formerà un angolo di 180° rispetto allo spazio in cui abbiamo deciso di posizionare la MdP. In questa maniera assicuriamo che lʼangolazione con cui gli attori si guardano siano guardati dalla MdP, e quindi dallo spettatore, con la stessa angolatura, anche se opposta. Ciò darà lʼimpressione di una corrispondenza nellʼangolazione degli sguardi tra gli attori (raccordo di direzione degli sguardi). Due riprese siffatte si chiamano: Campo e Contro campo.
Il sistema a 180°
Il risultato lo possiamo vedere sotto in questi due fotogrammi tratti da Respiro di Emanuele Crialese (2003).
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Cap. III Lo sguardo del distacco magico
Se riprendiamo unʼazione dobbiamo decidere i punti di vista da cui faremo vedere il soggetto, compreso ciò che lui guarda; il tutto verrà osservato dallo spettatore che, non dimentichiamolo, si indentifica con lo sguardo della MdP. Quindi abbiamo diversi piani di osservazione interni ed esterni al film. 1. lo sguardo degli attori 2. lo sguardo della camera 3. lo sguardo dello spettatore Per raccontare in forma letteraria possiamo scegliere la terza persona (estraniamento dai personaggi) o la prima persona (è il personaggio che racconta direttamente), mentre nel cinema è prevalente il racconto in prima persona nel senso che è direttamente lʼazione del personaggio ad imprimere lo sviluppo drammatico. Ma dobbiamo operare una sorta di distacco che consiste nella creazione di un piano di osservazione esterno ai personaggi stessi che ci permetta di tessere una rete di informazioni complesse, alcune delle quali neanche i personaggi conoscono: questa situazione si trova spesso nei thriller o nei film polizieschi dove noi conosciamo alcuni particolari non noti a chi, per esempio compie lʼindagine. In Psyco allʼinizio la polizia, che è alla ricerca della ladra, non sa quanto è realmente accaduto ma lo spettatore ne è al corrente. Viceversa lo spettatore non conosce le motivazione dellʼomicidio che sono note, anche se inconsciamente, solo al protagonista. Nello sviluppo del racconto cinematografico troviamo di solito una situazione informativa che ci distacca dalle storie raccontate per cui ci troviamo di volta in volta ad assumenre una posizione di osservazione cangiante che si intreccia nelle azioni sceniche stimolando le nostre aspettative: e adesso che succederà? Lo spettatore cinematografico, come abbiamo detto, ha il dono dellʼubiquità: è contemporaneamente in ogni luogo utile allʼosservazione ora associandosi ora distaccandosi dalle azioni dei personaggi. Senza questo distacco ci troveremo di fronte ad un racconto in prima persona del personaggio principale e non riusciremmo ad osservare altro
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che quello che osserva il nostro personaggio. Solo in alcuni casi lo sguardo dellʼattore coincide con quello della MdP: una ripresa siffatta si chiama, appunto, soggettiva. Da questa semplice constatazione ne deriva che per poter filmare un evento (e quindi fare un film) occorre operare una sorta di ʻdistaccoʼ dallʼevento stesso altrimenti il film risulterebbe composto da unʼunica soggettiva: la camera vedrebbe esclusivamente ciò che vede lʼattore ma noi spettatori non vedremmo mai il volto dellʼattore se non ci distaccasimo da lui. Tale distacco farà si che lʼattore sarà in posizione di osservato dallo spettatore che diverrà a sua volta osservatore al pari di chi dirige o effettua le riprese. Lʼassenza di distacco, se notate bene, la ritroviamo sia nel cinema delle origini che nelle riprese amatoriali dove chi riprende conserva lʼatteggiamento naturale del guardare dal suo punto di vista che, in quel caso, coincide con quello della camera. Infatti, quando vediamo ʻi film familiariʼ, essi ci sembrano pezzi di vita spiati da un soggetto. Ma il cinema non è la vita; se mai può essere un filtro o un mezzo per scrutare la vita, quindi il punto di vista del regista non è solo ottico ma mentale: distaccarsi dal soggetto ripreso per renderlo disponibile allʼosservazione dallo spettatore. In questo distacco si concretizza lʼarte cinematografica attraverso la quale possiamo acquisire una conoscenza di avvenimenti, luoghi, cose e persone con le quali è possibile instaurare rapporti di sim-patia che si rifletteranno immancabilmente in associazioni di pensiero che riguardano direttamente il nostro modo di essere. Gli studi di psicologia ci confermano che la percezione di se stessi si conquista solo dopo lʼadolescenza giacché è il mondo esterno a noi che percepiamo dapprima. Quale è la natura di questo distacco? Dalle ʻvedute soggettiveʼ dei Lumière, dove vi era assenza di distacco ma solo osservazione di quello che accadeva davanti agli ʻocchi della cameraʼ17 si passa pian piano alla messa in scena di una realtà costruita, da cinematografare. La storia ci dice che fu George Méliès a realizzare questo passaggio. E forse non poteva essere altro che un illusionista, un mago, a
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Si ricordi: Lʼarrivo del treno alla stazione di Ciotat, La colazione del bebè, Lʼuscita delle operaie dalla fabbrica, Le lavandaie sulla Senna, fino ai più esotici Lungo il Nilo etc.
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creare questo effetto di magia.18 Ritengo che la natura del distacco cinematografico abbia a che fare con la magia e cercherò di spiegarne le ragioni. Di solito intendiamo per magia un evento che è inspiegabile ai nostri occhi o, almeno, non abbiamo abbastanza cognizione delle cause che lo possano provocare. Esso, quindi, risulta essere un fatto inspiegabile. La sua misteriosa costruzione sta nel fatto che il mago orienta lo sguardo dello spettatore nascondendo alcune azioni per metterne in evidenza altre. Il nostro sguardo viene così calamitato solo su alcuni passaggi dellʼazione magica e, quindi, vedremo solo quello che il mago vuol farci vedere. Mancandoci tutti i percorsi informativi che portano allʼevento finale non riusciremo a comprenderne il meccanismo e lo scambieremo per magia. Se questo è vero, sarà vero anche il fatto che per il mago (che conosce il procedimento per realizzare lʼatto magico) magia non è, ma solo una serie di eventi organizzati in modo tale da dare allo spettatore ignaro quellʼimpressione.
Georges Méliès in un suo film A ben guardare, un fatto analogo si verifica nello spettacolo cinemato-
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J.L. Godard fa dire al suo attore preferito, Jean Pierre Léaud, che i Lumiére inventarono il cinematografo ma fu Méliès ad inventare il Cinema. Intendendo per cinematografo lʼapparato tecnico-meccanico mentre per Cinema il Corpus spirituale che da quellʼapparato emana.
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grafico: il cinema infatti nasce come un effetto, unʼillusione ottica19, ma illusione, dal latino in-ludere, vuol dire mettersi in gioco e cioè stare al gioco di tale magia, ed è questa la convenzione20 con la quale è possibile andare al cinema e percepire quelle luci ed ombre proiettate sullo schermo come pezzi di vita realmente veri e palpitanti. Questa condizione, per la verità, la ritroviamo un poʼ in tutte le arti: nella manualistica del XVI e XVII secolo ad uso dei pittori, lʼarte è rappresentata come una donna con lo specchio in mano perché riflette le forme della natura e mostra per vero quel che, in realtà, è soltanto dipinto o scolpito: un vero e proprio atto magico! 3.1 Il gioco del cinema: guardare per guardarsi La percezione cinematografica, risulta essere connaturata con quel primordiale effetto ottico che ne determinò la sua nascita.21 La materia prima di cui si nutre il cinema è soprattutto, come abbiamo detto, lʼillusione. Chi vuol fare cinema non deve imparare a fare lʼimbroglione, ma diventare mago! A qualcuno non sarà sfuggito che la parola immagine e immaginazione abbiano una radice comune con la parola magia, forse è solo un caso… anche se chi lavora con le immagini può rischiare di essere chiamato mago: a me gli occhi please! Come il mago dirige lo sguardo dello spettatore dove vuole occultando e manifestando per creare le sue illusioni, così il cinematographer inqua-
19
Il fenachistoscopio, inventato da Joseph Plateau nel 1833, permise per la prima volta la riproduzione del movimento. Molti storici considerano lʼinvenzione di Plateau la tappa più importante verso lʼinvenzione del cinema. Infatti lʼeffetto ottico su cui di basa il cinema è dovuto alla persistenza retinica che permette ai nostri occhi di considerare continue ed in movimento sequenziale le immagini discontinue e fisse che sono proiettate ad una velocità tale (24 fotogrammi al secondo) da darci quellʼimpressione.
20
Michel Chion in: Lʼaudiovisione, Lindau, Torino, 2002, chiama questa convenzione: Il contratto audiovisivo
21
Il cinema come apparato ottico-meccanico nacque dalle ricerche di fisiologi e scienziati che misero a punto i primi strumenti per catturare e quindi analizzare il movimento umano e degli astri. A questo proposito vedi il mio saggio: Intorno alle origini del cinema, in: In corso dʼopera 2, Adriatica editrice, Lecce, 2003 con accluso DVD
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dra, sceglie i punti di vista, taglia, esclude, include, sovrappone, gioca con il tempo e lo spazio per dirigere la nostra attenzione sui suoi personaggi e le loro storie. Ci si potrebbe domandare: ma allora dovʼè la verità? Mi dispiace deludervi ma non cʼè verità… è tutta una finzione! Se una verità ci può essere essa è da ricercarsi nella convenzione magica chiamata ʻla realtà cinematograficaʼ e consiste nellʼillusione di cui parlavamo prima! Il cinema nasce come illusione ottica e ne conserva ad oggi tutta la sua misteriosa carica di menzogna attrattiva. Illusione, come abbiamo rilevato sopra, nasce da in-ludere, cioè mettersi in gioco. Ed è grazie a questo gioco che prendiamo per vero quel che vedono i nostri occhi anche se una parte di noi è conscia che sono solo proiezioni, ma è la parte illusoria a prendere il sopravvento perché forse è quello di cui sentiamo il bisogno ed è anche la materia prima con cui gioca il cinema. Una persona non decide di andare a vedere un film se non sente il bisogno di immergersi per qualche ora in una storia con la quale intrecciare confronti empatici. È con questo bisogno primordiale di guardarsi mentre si guarda che dobbiamo giocare. È questa la grande illusione di cui sentiamo il bisogno e penso che sia anche la natura di quel distacco magico che, occultando la macchina cinema, rende convenzionalmente trasparente lʼazione permettendo il transfert tra le storie proiettate e il vissuto dello spettatore. 3.2 Processi di interazione nel cinema: la finestra di Johary Lo spettatore cinematografico si trova in definitiva di fronte agli stessi processi di interazione che vive nel suo quotidiano. Quando si trova di fronte ad una nuova esperienza, infatti, non conosce persone e situazioni che si possono venire a creare, quindi si trova, per dirla con Joe Luft e Harry Ingham,22 in una finestra chiusa. Man mano che interagisce con gli altri viene a conoscenza della realtà attraverso un procedimento di questo tipo: • ignoto a se-ignoto agli altri (inconsapevolezza) Finestra chiusa. • ignoto a se-noto agli altri (lʼidea che diamo agli altri e di cui non ne siamo consapevoli) Finestra cieca 22
Joseph Luft e Harry Ingham Dinamica delle relazioni interpersonali. ISEDI Editore, 1985.
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• noto a se ignoto agli altri (le cose di noi che non vogliamo far conoscere) Finestra nascosta • noto a se noto agli altri (consapevolezza) Finestra aperta Gli autori su citati hanno elaborato un modello conosciuto come la Finestra di Johary (dallʼanagramma delle iniziali dei loro nomi) che si presenta in questo modo:
La Finestra di Johary
Dalle considerazioni su esposte non vi sarà sfuggito il fatto che gli stessi percorsi di conoscenza avvengono quando si assiste ad una proiezione cinematografica. Allʼinizio, infatti, non sappiamo nulla della storia (proprio come quando ci troviamo in un ambiente sconosciuto) ma alla fine, dopo varie conoscenze ed interazioni con i personaggi, sapremo tutto di loro! La maggior parte dei film gioca proprio sulle attese e sullʼimprevisto per attirare la nostra attenzione. Proprio come quando siamo presi da quellʼemozione, che tutti conosciamo, nel momento in cui dobbiamo fare unʼincontro importante di cui non ne conosciamo lʼesito. Una differenza sostanziale, che conferisce al cinema quellʼattrattiva non riscontrabile nella vita, risiede nel fatto che, mentre nel film sapremo come andrà a finire quella storia, della nostra vita non ci è dato sapere cosa ci riserverà il futuro. E qui è la magia del cinema: giocare con il tempo distaccandosi dal suo flusso naturale per costruirne unʼaltro immaginario, possibile e visibile.
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Cap. IV Alcuni aspetti psicologici del cinema
Il famoso semiologo Christian Metz scrive che «il cinema, preso nel suo insieme è, prima di tutto, un fatto e come tale pone problemi alla psicologia della percezione, allʼestetica teorica, alla sociologia del pubblico, alla semiologia in generale»23, ponendo la sua attenzione soprattutto sullʼaspetto fenomenico del cinema in quanto stimolatore di effetti psichici. La situazione psicologica dello spettatore cinematografico, poi, coinvolge molteplici aspetti, che vanno dallʼarea cognitiva, a quella dinamica, ai riscontri psicofisiologici e così via. Ci occuperemo di alcuni di questi aspetti che ci possono aiutare a comprendere meglio il fatto cinema ed indagarne le sue specificità anche in rapporto ad altri fatti artistici.
23
Christian Metz, Semiologia del cinema, Garzanti editore, Milano, 1972, p. 31
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Aspetti psicologici del cinema
4.1 Letteratura, teatro e cinema Lo spettatore, al cinema, si trova di fronte ad uno spazio finto che ha tutti i caratteri della realtà ma che ha una valenza preminentemente utopica nel senso che se non è oggettivamente in nessun luogo, può paradossalmente rappresentare tutti i luoghi possibili (potremmo chiamare questo aspetto la de-localizzazione del cinema). Lo psicologo Cesare Musatti24 evidenziando i diversi modi in cui può essere vissuta una vicenda rappresentata in un romanzo, nella situazione teatrale o in quella cinematografica, rileva come a chi legga un romanzo, i fatti che vi sono descritti risultino immaginati dallo stesso lettore: si tratta, cioè, di una rappresentazione esclusivamente mentale e soggettiva. A teatro, invece, lo spettatore percepisce una porzione di spazio reale, ovvero il palcoscenico dove, attraverso le scenografie, i costumi, i gesti ed i discorsi degli attori si ottiene la rappresentazione di una realtà fittizia. Al cinema, lo spettatore sperimenta un tipo di percezione differente giacché la storia viene proiettata, non si vedono uomini ma simulacri di uomini che altro non sono che luci ed ombre. A questo proposito ancora Metz rileva: “La finzione teatrale è maggiormente avvertita [...] mentre la finzione cinematografica è piuttosto sentita come la presenza quasi reale di questo irreale”.25 Questo paradosso artistico, per cui la maggior finzione è avvertita come la maggior verità non era sfuggito a Galileo Galilei che nel 1612 in una lettera al suo amico Ludovico Cardi, detto il Cigoli, a proposito della preminenza della pittura sulla scultura così scrive: «Perciocché quanto più i mezzi, coʼ quali si imita, son lontani dalle cose da imitarsi, tanto più lʼimitazione è maravigliosa».26 Sullʼimpressione di realtà che si sprigiona prodigiosamente dal cinema più che in altre arti (il teatro, la fotografia) molti illustri studiosi si son soffermati: da André Bazin a Roland Barthes, Rudolf Arnheim, Edgar Morin ed altri, cercando di definire quella specifica caratteristica che rendesse possibile ciò. Le loro riflessioni prendono in considerazione varie cause. A. Michotte rileva che il movimento, a partire dal momento in cui è percepito, sia percepito come reale; Edgar Morin afferma che «la congiunzione della 24
Cesare Musatti, Psicologia degli spettatori al cinema, ʻQuaderni di Ikonʼ n° 7, 1969
25
Cristhian Metz, Cinema e psicoanalisi, Marsilio, Venezia 1980, p. 70
26
Galileo Galilei, Opere XI
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realtà del movimento e dellʼapparenza delle forme implica la sensazione della vita concreta e la percezione della realtà oggettiva»27; Andrè Bazin28 comparando la fotografia al cinema afferma che la fotografia, fissando la traccia di un evento passato, viene percepita appunto come un segno del passato. Essendo composto il cinema di fotografie in movimento, ci si dovrebbe aspettare la stessa reazione, e invece non è così perché lo spettatore percepisce il movimento come sempre attuale, anche se riproduce un movimento passato. Rudolf Arnheim29, noto tra lʼaltro per la sua teoria sullʼillusione parziale afferma che ogni arte di rappresentazione si basi su unʼillusione parziale di realtà e questa parzialità definisca la convenzione spettacolare che varia a secondo del mezzo di rappresentazione usato. Per C. Metz «il segreto del cinema è anche questo: iniettare nellʼirrealtà dellʼimmagine la realtà del movimento, e realizzare così lʼimmaginario fino a un punto mai ancora raggiunto»30
27
Edgar Morin, Il cinema o dellʼimmaginario, Silva editore, 1962, p.123
28
André Bazin, Che cosʼè il cinema, Garzanti, 1973
29
Rudolf Arnheim, Film come arte, Feltrinelli, 1989
30
Cristhian Metz, Semiologia del cinema, op. cit., p. 45
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Aspetti psicologici del cinema
4.2 Impressione di realtà e sinapsi neuronali. Ho voluto citare brevemente questi autori per rilevare come il pensiero critico sullʼimpressione di realtà nel cinema si sia focalizzato esclusivamente sul movimento, ed era comprensibile dato che la novità di questo mezzo era appunto il movimento delle immagini fisse31, ma oggi credo si possa andare oltre prendendo in considerazione il fenomeno cinematografico in relazione ai processi mentali che esso innesca. Infatti una delle caratteristiche più importanti del cinema è la sua somiglianza ai processi mentali. Con il pensiero infatti possiamo andare velocemente avanti e indietro nel tempo. Per ricordare un avvenimento accaduto quando eravamo bambini non occorre andare a ritroso scorrendo tutta la nostra vita precedente. Possiamo arrivarci immediatamente. Quando compiamo associazioni di idee in pratica operiamo un vero e proprio montaggio di fatti accaduti nel passato e possiamo proiettarli nel futuro, come facciamo continuamente sia nella vita reale che nei sogni. Ed è anche ciò che avviene al cinematografo. Questa somiglianza procedurale dei pattern neuronali che creano modelli cognitivi attraverso le reti neurali, fa si che la percezione cinematografica segua percorsi mentalmente omogenei, per questo facilmente assimilabili, e quindi riconoscibili, come realtà.
31
Deleuze nel suo volume: Immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, parla di segmenti di immagini fisse equidistanti che danno lʼimpressione del movimento.
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4.3 Le leggi della realtà Ma parlare di realtà implicherebbe una sua definizione e ciò non è per niente facile. Filosofi e scienziati nel corso del tempo hanno dedicato la loro vita per spiegare come è fatta la realtà in cui viviamo. Da Copernico in poi si è aperta una nuova era con un ribaltamento totale dei punti di vista: ciò che era reale prima della rivoluzione copernicana non lo è stato più. Newton, poi, ha stabilito nuove regole spiegandoci che le leggi della realtà sottostanno al dualismo causa/effetto. Einstein in astrofisica ci ha detto che le leggi newtoniane vanno bene per la realtà terrestre ma non per quella siderale (lʼinfinitamente grande) dove vigerebbe il principio della relatività ed ha ipotizzato una realtà quadridimensionale con lʼaggiunta del fattore spazio-tempo. La fisica quantistica sub-atomica (lʼinfinitesimamente piccolo) oggi ci dice che nè il principio newtoniano nè quello eisteniano possono spiegare i fenomeni della realtà sub-atomica che è regolata, invece, dal principio di indeterminatezza postulato da Heisenberg. Nella realtà sub-atomica la fisica quantistica ci dice che le particelle che compongono la materia non sono localizzate, nel senso che possono stare contemporaneamente in luoghi diversi. Solo al momento della loro misurazione (o osservazione) si può sapere la loro posizione, ma Heisenberg ci dice che lʼattività del misuratore in un certo senso condiziona la particella stessa (fa collassare la sua funzione dʼonda) per cui la probabilità di trovarla in un punto anziché in un altro (il principio dʼindeterminatezza) rimane intatto fino a che non la si ʻblocchiʼ con lʼosservazione. Un bel dilemma! Il fenomeno cinema da quali leggi potrebbe essere regolato? O meglio con quale metodologia di ricerca potrebbe più proficuamente essere indagato? 4.4 Il cinema e lʻespansione del suo ʻCorpus spiritualeʼ Lʼopera cinematografica si presenta come il prodotto di unʼattività artistica complessa alla cui realizzazione concorrono molteplici fattori. Anche lʼaspetto stesso del prodotto cinematografico risponde a questa complessità. Come rileva Luigi De Laurentis in una sua pubblicazione edita dallʼIstituto di Stato per la cinematografia: «... il film si presenta sotto forma di un bene che è materiale e immateriale al tempo stesso. Bene immateriale perché i suoi valori di contenuto e di forma sono racchiusi in un corpus misticum di natura artistica, celato nella pellicola (ottica o magnetica) che ne fa da
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supporto e ne costituisce il corpus meccanicum. I due corpora sono legati tra loro in modo indissolubile. [...] ma non è tutto; il corpus meccanicum, la pellicola positiva, non si identifica con il film giacché questo, per potersi estrinsecare, ha bisogno di un apparato ottico-meccanico (la proiezione) che ne renda percepibile il racconto visivo»32. La considerazione di De Laurentis è la prova di come in poco più di trentʼanni (il suo saggio è infatti del 1972) la tecnologia di tutto lʼapparato cinematografico si sia evoluta. Se fino a ieri per vedere un film si era obbligati ad andare nelle sale di proiezione, in cui il film svaniva dopo pochi giorni, oggi lo possiamo vedere perfino sul nostro telefono cellulare, noleggiarlo in una delle tante videoteche o ʻscaricarloʼ sul nostro computer da Internet. Questa incredibile diffusione del prodotto cinematografico (solo dieci anni fa non era nemmeno immaginabile) se da una parte ha provocato problemi legati allo sfruttamento dellʼopera difficilmente risolvibili (la pirateria in rete è un fenomeno in continua crescita e poco controllabile) dallʼaltra costituisce un fatto estremamente positivo dal punto di vista della conoscenza del corpus cinematografico che si è reso fruibile, una volta liberatosi dallʼingombrante e costoso corpus meccanicum, ad un più vasto pubblico. I restauri e le masterizzazioni su supporti di qualità come il Digital Versatile Disk (DVD), destinati allʼHome video, permettono il ritorno alla vita di film che altrimenti dormirebbero in qualche rara cineteca o tra le videoteche dei cinefili. Il film, dunque, ha acquisito un nuovo corpus, quello digitale che, per la sua caratteristica di trasferibilità immediata, ne esalta il corpus misticum in cui idee, pensieri e storie possono viaggiare velocemente sino ai confini del mondo ed arrivare in quei luoghi che prima ne erano esclusi. Ora, con le tecnologie del terzo millennio, la realtà cinematografica da quali principi è regolata? Azzardando unʼipotesi potremmo pensare che forse potrebbe essere sottoposta alle regole della fisica quantistica non localizzata. Provate a pensare dove sarà quel film che avete visto lʼanno scorso. In qualche sala nel mondo? In Internet? Nelle videoteche? In casa di qualcuno che, comodamente sdraiato davanti al suo televisore lo sta osservando facendo collassare la sua funzione dʼonda?
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Luigi De Laurentis, Tecnica e organizzazione della produzione, Istituto di Stato per la Cinematografia e la Televisione, IV Edizione, Stillitano, Roma, 1972, p. 9
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Lʼidea, che a prima vista potrebbe sembrare assurda (il film non è una particella e neanche infinitesimamente piccolo), forse non lo è poi tanto se si considera il Corpus spirituale del film come la parte più significativa dellʼistituto cinematografico costituito dal suo Corpus meccanicum che oggi assume formati diversi e sempre più virtuali che ne amplificano la sua trasmissibilità e con essa la sua stessa vita. Stiamo assistendo ad una riduzione drastica del Corpus meccanicum del film che viene compresso al limite della sua esistenza materica trasformandosi in pura emissione di segnali binari (il formato mpeg2 del DVD e gli altri moderni algoritmi di compressione) che di fatto ne riducono il corpo meccanico riducendolo ad un flusso di informazioni digitali. Ma anche il pensiero altro non è che un flusso di elettroni contenenti informazione. Allora il materiale mentale che è nei film in qualche modo si stacca dal suo corpo meccanico (regolato dalle leggi della fisica classica) e sopravvive nelle menti di chi se ne ricorda o di chi, probabilmente, lo vedrà e di chi farà nuove sinapsi neuronali in un sistema evidentemente regolato dal principio di indeterminatezza e di probabilità (leggi della fisica quantistica). Ma cʼè dellʼaltro. Alcuni studi neurologici che si rifanno alla meccanica quantistica33 sono arrivati alla conclusione che i processi neurali allʼinterno del cervello possono essere compresi meglio se visti alla luce dalle leggi quantistiche. Stimolati dalle informazioni provenienti dai canali sensoriali i neuroni si connettono tra loro creando un modello (reti neurali) che poi produrrà pensieri, concetti, comportamenti. Queste connessioni diventano poi stabili se si associano a modelli presistenti (altre sinapsi avvenute in precedenza) e si ripeta il comportamento modellizzato. Lʼapprendimento di un modello dunque è dato dallʼattività di associazione, imitazione34 e ripetizione e ciò avviene non soltanto attraverso la comunicazione verbale o visiva, ma anche attraverso lʼesperienza sensomotoria (non basta fare lezioni teoriche per imparare a guidare unʼautomobile ma occorre fare anche pratica di guida). 33
Un nuovo orientamento negli studi psicologici è la Psicologia quantistica
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Una delle principali forme di apprendimento, e quindi di conoscenza, è lʼimitazione del già visto. Su questo si basa lʼidea aristotelica dellʼArte come mimesi. Ed è anche per questo i film cosiddetti didattici, in cui si vede fare una determinata azione che si vuole imparare, risultano efficaci.
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Fin qui niente di eccezionale. Il fatto sorprendente invece è che i flussi di informazione neuronale sono misurabili come flussi di elettroni che non rimangono nella scatola cranica ma in qualche modo sono in grado di comunicare allʼesterno ad una velocità subluminare (superiore alla luce). Tuttavia per la fisica quantistica non esiste un interno ed un esterno perché tutto è connesso stabilmente e si evolve in base ai campi cosiddetti morfogeni35 una sorta di energia che attrae o respinge informazioni materiche creando nuove forme. Ciò che guida questa energia compositiva è la risonanza morfica, una sintonizzazione in grado di ʻvibrare sulle stesse ondeʼ
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Rupert Sheldrake fu il primo ad elaborare la teoria dei campi morfogeni che così definisce nel suo saggio: The Presence of the Past. Morphic Resonance and the Habits of Nature, London, Collins, 1981. “I campi morfici sono regioni dʼinfluenza allʼinterno dello spazio-tempo, localizzati dentro e intorno ai sistemi che organizzano. Essi limitano ovvero impongono un ordine allʼindeterminismo intrinseco dei sistemi che presiedono. I campi che presiedono allo sviluppo e al mantenimento della forma corporea si chiamano morfogenetici. Quelli che si occupano della percezione, del comportamento e dellʼattività mentale si chiamano campi percettivi, comportamentali e mentali. In sociologia sono detti sociali e culturali. Comprendono in sé, e connettono, le varie parti del sistema che sono preposti ad organizzare. Così un campo cristallino organizza i modi secondo cui le molecole e atomi si ordinano allʼinterno di un cristallo. Il campo di un animale plasma le cellule e i tessuti allʼinterno di un embrione, ne guida lo sviluppo fino a che esso assuma la caratteristica forma della sua specie. Un campo sociale organizza e coordina il comportamento degli individui che lo compongono, per esempio il modo in cui ciascun uccello vola allʼinterno del suo stormo. Il campo morfico conduce i sistemi a esso sottoposti verso mete o obiettivi specifici (Attrattori ). Per Sheldrake il campo stesso si evolve. Esso non è fissato una volta per tutte ma si organizza secondo il principio di risonanza morfica. Le implicazioni di questa teoria sono di portata immensa, per esempio in campo sociale, artistico, scientifico, ecc. Sheldrake ci offre nuovi aspetti degli istinti e dei comportamenti, ci dà nuove prospettive delle strutture sociali, in termini di campi morfici, e delle forme culturali e delle idee. In campo umanistico tutto questo porta allʼidea di una memoria collettiva umana alla quale tutti attingiamo e spiega la teoria dellʼinconscio collettivo di C.G.Jung. In termini di gruppi sociali, dà origine allʼidea che lʼintero gruppo sociale è organizzato da un campo. E che questo campo non è solo una struttura organizzatrice nel presente, ma contiene anche una memoria di quello che era quel gruppo sociale nel passato, una memoria di gruppo – e anche, mediante la risonanza morfica - una memoria di altri gruppi sociali simili che sono esistiti nel passato. Da questo punto di vista, una squadra di football, per es., si sintonizzerà con il proprio campo del passato. I singoli giocatori della squadra saranno coordinati non solo dallʼosservarsi a vicenda, ma anche da una sorta di mente di gruppo che sarà al lavoro mentre il gioco si sviluppa. E questa a sua volta avrà una specie di risonanza di fondo con i campi morfici di altre squadre di football simili”.
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comunicandosi informazioni. Il modo più semplice per comprendere la risonanza morfica è attraverso unʼanalogia a cui Sheldrake ricorre sempre, quella di un apparecchio televisivo o radiofonico. Nella TV fili, transistor e altre componenti agiscono insieme come apparecchio ricevente che capta segnali emessi dalla stazione televisiva. Lʼimmagine finale che compare dipende dagli elementi interni dellʼapparecchio, che deve essere sintonizzato correttamente sulla trasmissione. Se si cambiano le componenti, si cambierà la sintonizzazione che interferirà con lʼimmagine. Questo può causare distorsioni dellʼimmagine, ma anche la sua perdita completa. In questo caso la realtà televisiva (e cinematografica in senso ampio) che vediamo dentro il cinescopio è in qualche modo de-localizzata nel senso che non è solo dentro quel televisore. In altri termini non è qui ed ora ma ovunque (visibile su tutti gli apparecchi sintonizzati) e per sempre (quando venga attivata). Questa teoria prevede una realtà connessa non influenzata dallo spazio-tempo e dove le informazioni vengono scambiate allʼistante secondo il principio chiamato di sintonizzazione morfica. Questi risultati della meccanica quantistica sono stati confermati da due esperimenti, il primo eseguito nel 1972 da John Clauser e Stuart Freeman negli Stati Uniti e il secondo da A. Aspect, P. Grangier e C. Roger al CERN di Ginevra nel 198I. Sono state prese in considerazione due particelle facenti parti di uno stesso sistema materico e si è osservato il loro spin (movimento di rotazione sul loro asse) verificando che lʼuna aveva uno spin opposto allʼaltra. Poi si sono allontanate le due particelle a 14 metri (per la fisica subatomica tale distanza è enorme) e, attraverso lʼimmissione in un campo magnetico si è provocato un cambiamento di spin ad una di loro. Allʼistante anche lʼaltra particella ha cambiato il suo spin. Quindi, per quanto possa apparire insolito, esiste una qualche forma di comunicazione istantanea tra le due particelle, tale che, modificando lo spin di una, muta istantaneamente lo spin dellʼaltra. Istantanea in termini fisici significa velocità superluminare ossia superiore alla luce. Potremmo avanzare lʼipotesi che si tratti di una forma di trasferimento di informazioni che la materia si scambia sfruttando la risonanza morfica, quindi non ci sono canali di trasmissione per attraversare lo spazio-tempo ma solo codici di sintonizzazione in cui la trasmissione avviene allʼistante
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poiché tutto è connesso da una informazione che potremmo chiamare di livello superiore e che lo stesso Sheldrake definisce ʻprimordialeʼ.36 Gli studiosi di storia del cinema parlano di un Corpus cinematografico intendendo per esso tutti i film prodotti dallʼuomo, o almeno quelli di cui se ne ha conoscenza. Questi film sono da qualche parte, inerti nel loro corpo materiale ma con la probabilità di essere osservati e quindi di manifestare il loro corpo spirituale che è il vero fine per il quale sono stati realizzati. I filosofi che hanno prestato la loro attenzione al cinema, in special modo Edgar Morin, hanno rilevato come il fenomeno cinematografico sia in grado di creare stati empatici con la conseguente attività di sintonizzazione dei processi mentali degli spettatori. Nel suo studio vi è un illuminante paragrafo dedicato appunto allʼAnima del cinema: «La magia sʼintegra e si riassorbe nella nozione più vasta di partecipazione affettiva. Questʼultima ha determinato il consolidarsi e fissarsi del cinematografo come forma di spettacolo, e la sua metamorfosi in cinema determina tuttʼora lʼevoluzione della settima arte. È al centro stesso delle sue tecniche. In altre parole, dobbiamo concepire la partecipazione affettiva come stadio genetico e come fondamento strutturale del cinema37». Quel che Morin chiama partecipazione affettiva mi sembra abbia molti punti in comune con quella ʻsintonizzazione empaticaʼ che avviene nel fenomeno cinematografico e ciò che lo rende unico è la sua modalità di fruizione molto simile al funzionamento delle strutture sinaptiche neurali creando con facilità nuovi modelli di apprendimento attraverso lʼattività di associazione-imitazione-ripetizione. Una volta che il film rivive, cioè va in proiezione, cʼè qualcosa che rimane nelle menti degli spettatori che si sono sintonizzati e che vive oltre la durata della proiezione. Questo quid mentale rimane ʻin circoloʼ come una sorta di risorsa collettiva e universale che si trasforma e si evolve in continuazione dando vita a nuove connessioni che producono nuove idee, nuove tendenze, nuovi comportamenti e, se vogliamo, nuovi film.
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Rupert Sheldrake, Lʼipotesi della causalità formativa, Red, Como 1981
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Edgar Morin. op. cit, pag. 115
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Sarebbe interessante unʼapproccio allo studio del cinema in maniera evolutiva, vista come una risorsa per lʼumanità che, costruendo unʼimmaginario collettivo arricchisce la mente universale in cui tutto è connesso dal grande inconscio collettivo di junghiana memoria. 4.5 Cinema e stato alfagenico Ma il cinema si avvale anche di un altro elemento che agevola la sintonizzazione: lo stato psicofisico alfagenico. Quando entriamo in una sala cinematografica lʼilluminazione della sala è soffusa, le poltrone comode e le pareti scure. Ci troviamo dunque in un ambiente sicuro, confortevole e silenzioso ancor prima che inizi la proiezione. Questa situazione agevola il nostro cervello a sentirsi tranquillo e dis-mettere le emissioni di onde beta (14-30 Hz che sono emesse in situazione di piena attività di veglia) con la conseguente emissione di onde alfa (8-14 Hz sono associate a uno stato di coscienza vigile ma rilassata). In questo stato la mente, calma e ricettiva, è concentrata sul raggiungimento di uno stato meditativo leggero. Le onde alfa dominano nei momenti introspettivi, o in quelli in cui più acuta è la concentrazione per raggiungere un obiettivo preciso. È in questo stato alfagenico che vediamo un film, qualcosa di molto simile a ciò che viviamo anche nellʼattività onirica. 4.6 Niente paura, è solo un film Lʼanalogia tra la situazione cinematografica e quella onirica, in cui si sperimenta il sogno, è stata presa in considerazione soprattutto da autori di estrazione psicoanalitica, come il citato Musatti. Anche importanti registi nella storia del cinema, come S. M. Ejzenstejn, Kuleshov e Pudovkin si sono interessati degli effetti psichici del cinema e le problematiche relative alla percezione visiva in situazione cinematografica. Si ricordi per tutti il cosiddetto effetto Kuleshov da cui deriva lʼintuizione che una ripresa assume il suo significato solo in relazione ad una sequenza, cioè nella successione, operata con il montaggio di altre riprese contigue. Alcuni autori, poi, hanno paragonato la situazione cinematografica agli stati ipnotici, riconoscendo la capacità del cinema di provocare una sorta di regressione psicologica nello spettatore. In effetti, tra sogno e situazione cinematografica vi sono, oltre alle ov-
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vie differenze, alcune precise analogie. In primo luogo sia il cinema che il sogno inducono lʼindividuo a sperimentare una situazione diversa da quella propria della vita reale. Analogamente al sogno, anche nella situazione cinematografica, i contatti con lʼambiente circostante vengono limitati. Per questo si spengono le luci, si evitano i rumori e si cerca di offrire allo spettatore una situazione comoda e confortevole. Possiamo quindi constatare che sia il sogno che il cinema rappresentino delle forme di evasione dal mondo reale che viene debitamente oscurato. Tuttavia, la contrapposizione tra sogno e realtà, come quella tra cinema e realtà, presentano delle analogie. Secondo lʼorientamento psicoanalitico i sogni, proprio perché si verificano durante una sospensione della attività psichica cosciente, ricadrebbero sotto il dominio dei processi psichici inconsci. Gli impulsi e le fantasie insoddisfatte durante la veglia (per il controllo cosciente che esercitiamo su noi stessi) si manifestano, durante il sonno, attraverso lʼelaborazione onirica, ovvero tramite i sogni. Per questo i sogni accolgono, a volte in modo esplicito, esigenze e desideri che non ammetteremmo mai nella vita reale. Anche in questo caso, vi è una forte analogia con la situazione cinematografica. Infatti, sebbene gli spettatori non abbiano realizzato i film a cui assistono, la loro tolleranza nei confronti delle situazioni illustrate cinematograficamente è assai maggiore di quella che potrebbero avere nei confronti di fatti reali, a cui fossero costretti a partecipare o anche semplicemente ad assistere: pensiamo ai film di violenza o a quelli dove il fuorilegge diventa un eroe. Anche la situazione cinematografica, come quella onirica, consente, almeno parzialmente, di allentare la sorveglianza che esercitiamo su noi stessi. I film di maggiore successo sono quelli in cui compaiono quei fattori latenti che agiscono negli strati profondi della nostra personalità fattori che non possiamo o non vogliamo soddisfare nella vita reale, ma a cui non riusciamo a rinunciare completamente, Il film, entro certi limiti, consente di appagare, in forma innocua, quegli impulsi che la coscienza considera proibiti. Anche questo potrebbe essere considerato un atto di magia.
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4.7 Fare o veder fare: i mirror neurons Cʼè da rilevare, inoltre, che lʼesperienza cinematografica si avvale della stimolazione dei c.d. mirror neurons38. Questi neuroni, infatti, pare che si attivino sia quando il soggetto compie una certa azione (comportamento caratteristico in generale dei normali neuroni motori) sia quando, ed è questa la cosa strana, il soggetto vede qualcunʼaltro fare la stessa azione; sia, ancora, nel caso in cui il soggetto senta un rumore associabile direttamente allʼazione stessa. Uno degli esperimenti riportati in queste ricerche registrava lʼattività cerebrale in 3 situazioni differenti: a) nel momento in cui le scimmie sottoposte allʼesperimento strappano un foglio di carta; b) quando vedono qualcuno strappare un foglio di carta o, infine: c) allorchè sentono il rumore di un foglio di carta strappato senza vedere chi lo stia strappando. Sempre, in tutti questi casi, registrando lʼattività cerebrale, lʼarea implicata risultava essere la F5 della corteccia cerebrale, risultato verificabile anche rispetto ad altre azioni, quali, ad esempio, rompere una nocciolina. Assodato, poi, che lʼarea attivata è la medesima, Rizzolatti e collaboratori si sono occupati di determinare se siano rilevabili delle differenze di intensità in funzione dei vari tipi di compito. Pare che: 1. il solo suono (S) riconducibile allʼazione attivi gli stessi neuroni, ma in modo meno intenso; 2. il solo vedere (V) lʼazione , senza il suono, non produca alcuna attivazione; 3. il vedere e il sentire insieme (V+S) producano una attivazione che ha la stessa intensità prodotta dal fare lʼazione (M)39. Ma la ricerca di Rizzolatti si spinge oltre giacché in un altro esperimento le scimmie riescono a determinare anche lʼintenzionalità dei gesti distinguendoli (attivando quindi percorsi neurali differenti) a seconda del
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Scoperti nel 2000 da Giacomo Rizzolatti dellʼUniversità di Parma
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S= Canale Auditivo; V= Canale Visivo; M= Sensomotorio..
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loro scopo, quindi lʼesperimento40 dimostrerebbe che il cervello è in grado di “leggere” le intenzioni dellʼindividuo in azione prima che questi abbia terminato lʼazione stessa. Sulla base di questi esperimenti possiamo ritenere che, quando lo spettatore cinematografico vede e ascolta fare unʼazione sulla schermo, vengano attivate sinapsi neurali simili a quelle che attiverebbe facendo la stessa azione. Ne deriva che la percezione della proiezione cinematografica non mette in moto solo i meccanismi visivi e auditivi, ma crea una sorta di esperienza dʼimpatto capace di coinvolgere lo spettatore in maniera più complessa. Ricordate come vi sentivate dopo aver visto un film di terrore? I muscoli contratti, il respiro corto... e che sollievo fisico avete provato quando la tensione si allentava! Che dire poi dei pianti che qualche film romantico vi ha strappato! Tutto ciò ci spinge a pensare che la partecipazione allo spettacolo cinematografico non sia solo mentale ma coinvolga la totalità della nostra persona anche se siamo fisicamente immobili su una poltrona. Vi sarà capitato, poi, di non ricordare bene se una data azione lʼavete fatta o solo pensata di fare, oppure soltanto sognata. Lʼesperienza del déjà Vu (trovarsi in una situazione che ci sembra di aver già visto o vissuto) ne è unʼaltra conferma. In realtà fare unʼazione o pensare intensamente di farla o vedere qualcun altro che la fa ha alla base gli stessi percorsi mentali purché ci sia lʼemozione, lʼaffettività a sorregerli. È lʼemozione che provoca la tensione per le vicende proiettate e le avvicina in maniera neurofisiologica alla nostra esperienza di vita. Ma come avviene tutto ciò?
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La ricerca, presentata a firma Fogassi, Ferrari, Gensierich, Rozzi, Chersi, Rizzolatti, è intitolata “Lobo parietale: dallʼorganizzazione dellʼazione alla comprensione dellʼintenzione” e si basa su un esperimento condotto ponendo delle scimmie in due differenti situazioni. Nella prima lʼanimale era indotto ad allungare la mano per afferrare del cibo e portarselo alla bocca. Nella seconda lʼatto di allungare la mano era finalizzato ad afferrare un oggetto (o anche del cibo) per riporlo in un contenitore. Ora, lʼesperimento prova che la maggior parte dei neuroni motori delle scimmie che si attivano durante un particolare atto (nel nostro caso lʼafferrare lʼoggetto-cibo) lo fa in modo sensibile allo scopo finale. In altri termini, la maggior parte dei neuroni codifica lo stesso atto (lʼafferrare) in modo diverso a seconda della differente azione di cui esso fa parte. Lo stesso avviene quando unʼaltra scimmia vede i due differenti atti della sua consimile.
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4.8 I processi di partecipazione allo spettacolo cinematografico Abbiamo detto che lʼemozione gioca un ruolo fondamentale nella sintonizzazione e costituisce la scintilla che innesca i procedimenti di trasferimento delle informazioni associative neurali. Lʼetimologia stessa della parola, ex movere, rende bene lʼidea dello scuotimento dei propri sentimenti a cui la persona accede associandoli con ciò che vede e ascolta. I principali processi psichici con cui lo spettatore partecipa affettivamente alla vicenda filmica sono: lʼidentificazione e la proiezione.
Col termine identificazione si definisce il processo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di unʼaltra persona e si trasforma, parzialmente o totalmente, sul modello di questʼultima. È un processo che parte dallʼesterno e va verso lʼinterno (dallo schermo allo spettatore): lo spettatore vorrebbe trovarsi nella situazione dellʼattore e ne vorrebbe possedere le sue caratteristiche. In questo caso sembra che il cinema permetta la soddisfazione di impulsi che la realtà non consente. Ciò, del resto, è proprio anche del romanzo e del teatro, ma la maggiore impressione di realtà che offre il cinema agevola questo transfert e lo rende più verosimile e accettabile.
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Oltre al meccanismo della identificazione è presente nello spettatore anche il fenomeno della proiezione. Il termine proiezione indica, in senso molto ampio, lʼoperazione con cui un fatto psicologico è spostato dallʼinterno allʼesterno, dal soggetto allʼoggetto: dallo spettatore allo schermo. Alberto Angelini così descrive il fenomeno: “Sul piano strettamente psicoanalitico, per proiezione si intende quel processo con cui lʼindividuo espelle da sé e localizza nellʼaltro, persona o cosa, delle qualità, dei desideri e dei sentimenti che egli non riconosce o rifiuta. È una difesa che ha origini arcaiche e che agisce, particolarmente, nella paranoia. Non manca, però, di manifestarsi in forme di pensiero ʻnormaliʼ, come la superstizione. Sebbene in maniera subordinata, anche il meccanismo della proiezione agisce nella situazione cinematografica. La struttura, generalmente rigida ed articolata, del linguaggio filmico consente un limitato esercizio della proiezione. Tuttavia essa si manifesta, palesemente, ogni volta che lo spettatore tende ad attribuire ai personaggi del film sentimenti ed intenzioni che sono, più o meno consapevolmente, suoi”. 41 Nella storia del cinema registi come Pudovkin, Kuleshov, Ejzenstejn hanno intuitivamente percepito lʼimportanza di questo fenomeno, giungendo anche, ad elaborare sperimentazioni per verificarne le circostanze di attuazione e la loro portata. Kulesov, col suo esperimento sul montaggio (conosciuto come effetto Kulesov), aveva montato la stessa ripresa di un PP di un attore con tre riprese diverse e cioè: un piatto di minestra fumante, un bimbo e una persona morta. In proiezione lʼespressione dellʼattore sembrava che cambiasse tramutandosi in: fame, gioia, dolore. Ejzenstejn nelle sue Lezioni di regia dimostra come fosse importante per lui nella messa in scena definire i movimenti degli attori e la posizione della camera per provocare nello spettatore lʼeffetto voluto42. Ma di questo argomento ci occuperemo più specificatamente nella parte dedicata al montaggio.
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Alberto Angelini, Psicologia del cinema, Liguori editore, Napoli, 1992, p. 50
42
Sergej M. Ejzenstein, Lezioni di regia, Einaudi, Torino, 1964. Prima edizione, Iskusstvo, Moskva, 1958
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Come ha scritto Musatti: “per effetto della identificazione, lo spettatore è di volta in volta tutti i singoli personaggi mentre per effetto della proiezione i singoli personaggi sono sempre lo stesso spettatore”43. È chiaro che entrambi i meccanismi agiscono contemporaneamente e, quindi, interagiscono fra loro. Uno dei motivi che spingono lo spettatore al cinema, come abbiamo già rilevato, è costituito dal desiderio di sperimentare, soprattutto tramite i meccanismi psichici descritti sopra, una realtà diversa da quella quotidiana. In linea di massima, questa realtà desiderata è senzaltro migliore di quella effettivamente vissuta. Anche per questo le produzioni, specie quelle americane che sono fra le più rassicuranti, fanno abbondantemente uso del finale happy end. ʻE tutti vissero felici e contentiʼ soddisfa una grossa fetta di pubblico che cerca nel racconto cinematografico quellʼeffetto consolatorio che probabilmente ricerca nella sua vita quotidiana. Ma non tutti i film finiscono bene… esistono molti altri film che prediligono un finale negativo, cruento, catastrofico etc. e non per questo hanno meno successo perché? Ancora Angelini osserva giustamente che: «Esiste un altro meccanismo psichico che rende gradevole lo sgradevole, anche quando la vicenda finisce male in senso assoluto e non sembrano apparire giustificazioni di nessun tipo. In simili circostanze, quando la luce torna nella sala cinematografica lo spettatore percepisce la realtà della vita più positivamente, rispetto alle minacciose vicende cinematografiche cui ha assistito. Anche questo è un lieto fine»44. Una sorta di esorcismo del male.
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Alberto Angelini, op.cit., p. 52
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Cap V Cinema e comunicazione
5.1 Comunicazione e informazione Il cinema è essenzialmente un evento comunicativo. Ma cosa intendiamo per ʻcomunicazioneʼ? Dobbiamo constatare che la parola comunicazione non è stata mai usata tanto come in questi ultimi tempi, così che il termine ci sembra abbia perso il suo significato originario. La parola comunicare (dal latino communicare) vuol dire rendere comune, trasmettere. Questo implica unʼazione atta a condividere con almeno unʼaltra persona lʼoggetto della comunicazione (il messaggio) attraverso un codice (la forma del messaggio), quindi è insito nella con-divisione uno scambio, cioè la possibilità di interagire con il comunicatore, altrimenti si userebbe più appropriatamente la parola ʻinformazioneʼ il cui significato è quello di ragguagliare, dare notizie senza nessuna possibilità di risposta del percettore. La comunicazione è dunque qualcosa di più dellʼinformazione perché prevede una capacità tra le persone di interagire in uno scambio che tende a diventare un confronto. Quando diciamo: “con quella persona non riesco a comunicare” non vogliamo dire che è impossibile mandargli un messaggio ma che non riusciamo ad interagire oltre le parole, cioè non riusciamo ad instaurare un rapporto più coinvolgente: in altre parole uno scambio di comunicazioni. Ricordiamo che perché si abbia informazione (secondo la nota teoria della comunicazione elaborata da Shannon che studiava la generazione, trasmissione e ricezione dei messaggi) occorre che siano presenti tre elementi: 1. trasmittente 2. canale di comunicazione 3. ricevente Vi è poi il segnale (che può essere unʼonda sonora o luminosa etc.); lʼoggetto della comunicazione (il messaggio) e il canale attraverso cui si trasmette tale messaggio (il mezzo di comunicazione).
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Cinema e comunicazione
Lo schema qui sotto renderà più chiaro il concetto:
Shannon, schema del sistema di comunicazione
Shannon stesso (dal cui testo45 è tratto questo schema) parla di sistema di comunicazione ma ad un primo sguardo sembra si tratti di informazione giacché il ricevente non può diventare a sua volta trasmittente (cosa che invece avviene nella comunicazione). Chiameremo dunque comunicazione unidirezionale (o verticale) quella che non da possibilità al ricevente di divenire a sua volta trasmittente e comunicazione bidirezionale (o orizzontale) quella che questa possibilità la offre. Quasi tutti i mass media (radio, cinema, televisione, carta stampata etc) appartengono alla prima categoria, mentre il telefono, la webcam alla seconda. Una menzione particolare merita Internet che prevede sia la comunicazione verticale che quella orizzontale anche se solo in alcuni casi è possibile una certa simultaneità di azione tra ricevente e trasmittente (chat-line, webcam, etc). Cʼè da rilevare, però, che anche il ricevere unʼinformazione provoca una qualche reazione che si tramuta comunque in un comportamento e quindi, a sua volta, in un fatto comunicativo giacché, come è noto, nella nostra vita siamo immersi in un sistema comunicativo complesso che ci impedisce di non-comunicare, dato che si comunica anche attraverso il comportamento (che è un linguaggio non verbale) è impossibile non-comunicare perché 45
C. E. Shannon, A Mathematical Theory of Communication, The Bell System Technical Journal, Vol. 27, pp. 379–423, July, October, 1948.
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non è possibile non tenere un comportamento46. Lʼintero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio poiché ogni comportamento, anche lo stare inerte e con gli occhi chiusi, invia comunque un messaggio allʼesterno. Nel cinema la situazione psicofisica in cui si trova lo spettatore, anche se apparentemente inerte, è tutta rivolta (come abbiamo visto) verso lʼinterno: una sorta di comunicazione interna in cui proiezione ed identificazione provocano rappresentazioni mentali che, elaborate dalla nostra mente, modificheranno le strutture sinaptiche precedentemente acquisite determinando comportamenti futuri. A questo punto dobbiamo chiederci se esista una comunicazione artistica, quale posto occupi e quali siano le caratteristiche che la rendano diversa da quella comune e quotidiana. Nello schema di Shannon tra i due soggetti comunicanti vi è il canale (o mezzo) di comunicazione che qualifica la trasmissione del messaggio. Occorre poi che questo canale usi un codice, cioè una serie di regole a cui il messaggio deve attenersi (ad esempio le varie lingue nazionali, lʼalfabeto morse, la musica, il teatro, il cinema etc.) Il codice attiene alla forma del messaggio e questa forma di trasmissione deve essere ovviamente condivisa (conosciuta) da entrambi i comunicanti. Esiste nella comunicazione artistica un codice differente da quello della comunicazione quotidiana? E se esiste, in che consiste questa differenza? Non vi è dubbio che esista, altrimenti non potremmo distinguere un telegiornale da un videoclip! Anche se non è questa la sede per riprendere lʼannoso tema di cosa sia lʼarte qualche riflessione a questo proposito dobbiamo concedercela se vogliamo definire meglio gli ambiti della nostra indagine. 5.2 Arte del comunicare e comunicazione artistica In latino ARS, ARTIS era ogni abilità mirata a progettare o a costruire qualcosa, tanto che il concetto di arte come attività svolta con particolare abilità era usato dai romani, che chiamavano arti meccaniche le attività
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Paul Watzlawick nel suo Pragmatica della Comunicazione Umana, Astrolabio Editore, Roma, 1997, enuncia i cosiddetti assiomi della comunicazione, tra cui quello citato.
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manuali e arti liberali quelle intellettuali, letterarie e scientifiche. In italiano la parola ARTE indica lʼattività umana regolata da procedimenti tecnici e fondata sullo studio e sullʼesperienza (é ancora in uso la frase a regola dʼarte, ovvero tecnicamente ben fatto). La successiva distinzione in ARTI e MESTIERI portò ad una considerazione particolare quelle attività che richiedevano unʼabilità non comune e che soltanto pochi uomini possedevano. Artisti erano dunque solo coloro che detenevano non soltanto la tecnologia (come fare) ma soprattutto lʼidea creativa (che fare), il punto di vista originale; artigiani tutti gli altri. Questa ʻmarcia in piùʼ faceva dellʼartista un essere superiore, come se avesse ricevuto un dono dagli Dei, unʼenergia speciale che lo mettesse in grado di pre-vedere nella natura, come nella materia informe, quello che diventerà dopo il suo intervento. Pensiamo ai grandi scultori, pittori, ma anche ai poeti che riescono con il vocabolario delle parole, che tutti noi usiamo quotidianamente, a creare opere in cui le parole sono usate in maniera originale alla ricerca della produzione di nuovi significati. Ricordate il Mi illumino dʼimmenso di Ungaretti? Da rilevare che la parola ARTE contiene in se un duplice segno che rivela la sostanziale falsità della sua essenza: ʻArtefattoʼ e ʻfatto ad Arteʼ hanno infatti significati opposti. A questo riguardo è illuminante la frase di Pablo Picasso: “Lʼarte è una bugia che insegna a vedere la verità”. 5.3 Il comportamento artistico Il comportamento artistico non è stato oggetto di studi particolari forse perché lʼArte è stata spesso considerata come frutto della genialità dellʼuomo, essa accadeva quasi come per un miracolo divino e perciò di difficile spiegazione. Lʼispirazione, una sorta di afflato provvidenziale colto solo da pochi eletti, ha costituito per molto tempo lʼorientamento epistemologico del fenomeno artistico. Su queste basi fideistiche è comprensibile la difficoltà di impostare una ricerca su basi più ʻscientificheʼ o, se vogliamo, ʻorganicheʼ. Fino a che lʼestetica47 rimaneva ancorata alla speculazione fi47
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La radice etimologica del termine estetica: dal greco aisthesis, significa sensazione, cioè percezione attraverso i sensi ed è in questa accezione che già Alexander Gottfried Baumgarten (1714-1762) autore di Aesthetica (1750), la definisce come conoscenza sensibile mentre la Logica quella intellettuale.
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losofica, nellʼaccezione di scienze umane separate dalla fisiologia, non era possibile un orientamento conoscitivo unitario che riconoscesse alle attività dellʼuomo la dimensione olistica e cioè come fenomeni facenti parte di uno stesso ʻsistema antropologicoʼ. Ma già dal 1719 lʼabate Dubos nel suo “Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura”, che può essere considerato uno dei primi trattati di estetica moderna, ha riconosciuto al corpo e ai suoi organi un ruolo cruciale nella determinazione dellʼesperienza artistica. Sarebbe poi stata la fondazione della psicofisiologia nellʼOttocento, grazie allʼopera di autori come Gustav Theodor Fechner, Hermann Helmholtz, Wilhelm Wundt, a ricondurre con decisione la speculazione estetica sul terreno del corpo organico e dei suoi processi descrivibili sperimentalmente: esemplare è la Vorschule der Aesthetik di Fechner (1876), che si attirò feroci critiche per il suo naturalismo radicale, tendente a equiparare lʼesperienza estetico-artistica a qualsivoglia esperienza sensibile (suo è il paragone del piacere estetico al piacere che lʼagricoltore prova per lʼodore di stallatico). Studi molto interessanti ci vengono dalla psicoanalisi e soprattutto da Ignacio Matte Blanco che in un suo prezioso saggio48 sulla creatività artistica pone le basi per unʼindagine originale che costituirà poi un punto di partenza per altri studiosi. 5.4 Matte Blanco e lʼartista bi-logico Psicoanalista freudiano, Matte Blanco ritiene che la parte più importante e sorprendente dellʼopera freudiana non sia stata indagata fino in fondo. La scoperta dellʼinconscio, infatti, ha messo in luce la presenza nella psiche umana di una logica incompatibile con il pensiero razionale fondato sulle categorie spazio-temporali. La logica classica, quella aristotelica, basata soprattutto sul principio di
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Matte Blanco Ignacio, “Note sulla creazione artistica”, in Dottorini D. (a cura di), Estetica ed infinito. Scritti di Matte Blanco, Roma, Bulzoni, 2000
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non-contraddizione e sul presupposto di una griglia spazio-temporale, non può avanzare la pretesa di racchiudere tutto allʼinterno delle sue regole. Le cinque caratteristiche che Freud, nel suo saggio intitolato Lʼinconscio49, attribuisce a quella che definì come la vera realtà psichica testimoniano a favore di questa considerazione. Dunque nellʼinconscio si trova: 1. 2. 3. 4. 5.
Assenza di contraddizione mutua e di negazione spostamento condensazione assenza di tempo sostituzione della realtà esterna con la realtà psichica.
Siamo in un universo senza tempo e senza spazio, dove i contraddittori sono comunque veri, in un mondo che il pensiero comune può valutare assurdo ma che è, comunque, reale per lʼindividuo. I principi fondamentali, secondo Matte Blanco, sui quali è costruito un sistema così singolare sono essenzialmente due: 1. generalizzazione 2. simmetria. In base al primo «Il sistema inconscio tratta una cosa individuale (persona, oggetto, concetto) come se fosse un membro o elemento di un insieme o classe che contiene altri membri; tratta questa classe come sottoclasse di una classe più generale e questa classe più generale come sottoclasse o sottoinsieme di una classe ancora più generale e così via»50. In base al secondo «Il sistema inconscio tratta la relazione inversa di qualsiasi relazione come se fosse identica alla relazione. In altre parole, tratta le relazioni asimmetriche come se fossero simmetriche»51.
49
Freud Sigmund, “Lʼinconscio”, in Opere 1915-1917, a cura di Musatti C. L., Torino, Boringhieri, 1976.
50
Matte Blanco Ignacio, Lʼinconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Torino, Einaudi, 2000, p. 43. (1ª ed. The unconscious as infinite sets. An essay in bi-logic, London, Duckworth & C., 1975).
51
Ibidem, p. 44
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Un esempio di relazione asimmetrica facilmente riscontrabile nella quotidianità è rintracciabile nel legame padre-figlio: se A è padre di B, nella razionalità cosciente B sarà necessariamente figlio di A; nei livelli più profondi della mente, invece, alla paternità di A nei confronti di B corrisponderà che anche B è padre di A. Se il principio di generalizzazione è riscontrabile, in una certa misura, anche nella logica ordinaria, quello di simmetria costituisce la vera e propria novità della presente teoria; ed è in virtù di questo che la logica dellʼinconscio e dei fenomeni emotivi potrà essere denominata semplicemente logica simmetrica. Naturalmente tutto ciò porterebbe uno scompiglio nella vita degli individui, così per Blanco la simmetria (lʼinconscio) ha bisogno dellʼasimmetria (la razionalità) per potersi manifestare in una maniera cosciente. Per questo il pensiero bi-logico si presenta come una duplice modalità dellʼessere umano di trattare le informazioni. Lʼidea di Blanco è molto articolata e nellʼeconomia di questo saggio non è possibile trattarla a fondo, ma il merito del suo pensiero è quello di aver trovato una via interpretativa di quelle attività emozionali dellʼuomo (ivi compresa lʼarte) che non si riconducono a pura razionalità. Per lo psicanalista cileno il comportamento artistico risponde appieno a questa duplice modalità. Lʼidea artistica è in un certo senso come un parto, si distacca da un mondo in cui vige lʼunità (nellʼutero materno madre e figlio sono una cosa sola). Tutto è collegato senza contraddizioni e differenziazioni. Questa dimensione è vissuta come un ipotetico punto zero, punto di origine, radice unitaria di ogni successivo dispiegarsi delle dissomiglianze e delle individualità, ma anche come meta di un ritorno impossibile per la nostra capacità dividente costituita dal pensiero asimmetrico adulto e razionale. Dunque lʼatto artistico da una parte attinge da questa dimensione unitaria e simmetrica e dallʼaltra per potersi manifestare deve tradurlo in asimmetria, cioè deve dare una forma allʼinforme originario: ciò che sembra assurdo ed impossibile nel mondo tridimensionale, diventa perfettamente coerente ed ammissibile nel contesto multidimensionale dellʼinconscio. Lʼartista in questo senso sarebbe una sorta di mediatore tra i due mondi per portare a conoscenza lʼinconoscibile. Nel suo saggio possiamo infatti leggere: «Ogni creazione è, in fondo, la scoperta di qualcosa di occulto nel creatore, qualcosa che emerge dalla profondità dellʼinconscio e che è o sembra estranea alle funzioni dellʼio dellʼindividuo. Dʼaltra parte,
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il creatore (artista, scienziato che sviluppa unʼinterpretazione della realtà, filosofo, ecc.) presenta qualcosa che è nuova anche per il suo io, ma che è semplicemente la traduzione o lʼespressione di un aspetto del suo inconscio»52. Questa scoperta non si rivolge, quindi, a qualcosa che si può trovare in oggetti esterni, ma allʼintimità del soggetto. «La creazione artistica contiene frequentemente, non so se sempre, certe intuizioni cognitive le cui relazioni interne sono, per così dire, i germi per uno sviluppo del pensiero”.53 I surrealisti della fine degli anni ʼ20 nelle loro sperimentazioni si avvicinarono a queste dimensioni simmetriche (Ballet mécanique di F. Lèger, EntrʼActe di R. Clair, Lʼetoile de mer di Man Ray e Marcel Duchamp) ma non riuscirono a compiere fino in fondo lʼoperazione di ritorno nel mondo della comunicazione asimmetrica, per cui la loro rimase una, se pur rilevante, esercitazione stilistica. Lasciare libertà alle follie dellʼincoscio senza ricercarne lʼoriginario disordine ordinato è compiere unʼopera per metà: usare solo una modalità di pensiero e non quello bilogico. Nei film di Luis Buñuel, invece, di cui parleremo in seguito, possiamo rilevare un tentativo più riuscito di mettere in scena lʼinconscio. Dal primo Un chien andalou (1929), che comunque risulta ancora troppo disconnesso perché siamo totalmente nel mondo delle intuizioni inconsce, allʼultimo Quellʼoscuro oggetto del desiderio (1977) in cui lo sdoppiamento della protagonista sembra evocare quella dimensione simmetrica di cui parla Matte Blanco. Ma qui, a differenza del primo, Buñuel ha raggiunto la maturità artistica per cui la simmetria femminile costituisce lʼintreccio più importante del film: non è di una donna che si parla, ma della donna nel senso bilogico più compiuto. La generalizzazione e simmetria si incarnano indivisibilmente nelle due attrici, Carole Bouquet e Angela Molina che diventano nel film unʼunica persona: Concita. Anche questa è una forma di magia del cinema! Oltre allʼopera di Matte Blanco una serie di studi recenti sulla creatività artistica iniziano a manifestarsi nel panorama delle neuroscienze ponendo in campo delle idee del tutto nuove. Alla base di queste idee vi è unʼaspirazione: quella di poter esibire le basi anatomiche e fisiche della nostra esperienza dellʼarte e dei valori estetici. 52
Matte Blanco Ignacio, “Creatività e ortodossia”, in Rivista di psicoanalisi, XXI, Roma, 1975, p. 224
53
Matte Blanco Ignacio, “Note sulla creazione artistica”, op.cit. pp. 85-86
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5.5 La neuroestetica Nel 1994 compare sul numero 117 della rivista di neurologia “Brain” un articolo a firma di Mathew Lamb e Semir Zeki - “The Neurology of Kinetic Art” - che segna la ripresa di quella tradizione di estetica scientifica su citata, spostando il fuoco dalla psicofisiologia alla neurobiologia. Specialista di neuroanatomia, Zeki è dal 1987 professore di Neurobiologia allʼUniversity College di Londra, e dal 1995 co-direttore del Wellcome Laboratory of Neurobiology. Esperto dei processi del cervello visuale, Zeki sviluppa le sue ricerche neurologiche in direzione del mondo delle immagini visive artistiche, raccogliendole in una prima densa sintesi nel 1999 nel volume “La visione dallʼinterno. Arte e cervello”54. Nel 2001 fonda lʼIstituto di Neuroestetica, associato al Wellcome Laboratory operativo in parte a Londra in parte a Berkeley (si veda il sito http://www.neuroesthetics.org). Fra gli obiettivi principali delle attività dellʼIstituto vi è quello di stabilire i fondamenti biologici e neurobiologici dellʼesperienza estetica. Anche la cultura neurologica italiana si è precocemente interessata ai fondamenti neurofisiologici dellʼesperienza artistica: nel 1995 usciva per Zanichelli il volume “Arte e cervello”, scritto da Lamberto Maffei (professore di Neurobiologia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, direttore dellʼIstituto di Neuroscienze del CNR e vicepresidente dellʼAccademia dei Lincei) con Adriana Fiorentini. Lo studio si propone di esplorare le proprietà e le caratteristiche del cervello che entrano in gioco nella valutazione di unʼopera dʼarte, approfondendo in particolare il rapporto fra la neurofisiologia della visione e la nostra esperienza del colore nelle immagini fisse della pittura, senza però trascurare le immagini in movimento del cinema e della televisione. Il citato neurobiologo Semir Zeki, in unʼintervista rilasciata ad Andrea 54
Zeki Semir, La visione dallʼinterno. Arte e cervello, Bollati Boringhieri, 2003
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Lavazza, così si esprime su questo nuovo orientamento che sembra unire filosofia e scienza: «Si tratta di un campo relativamente nuovo, il cui obiettivo è esplorare lʼattività cerebrale che sta alla base della creatività e del godimento dellʼarte. La sua premessa fondamentale consiste nel fatto che tutta lʼattività umana è un risultato dellʼattività del cervello e obbedisce alle leggi del cervello. Per questo, solo comprendendo le basi neuronali della creatività e dellʼesperienza artistica possiamo sviluppare una valida teoria estetica. Ciò è possibile grazie agli spettacolari progressi compiuti dalle neuroscienze negli ultimi ventʼanni. Oggi possiamo chiederci quali sono le condizioni neuronali coinvolte nellʼesperienza soggettiva della bellezza. Tra le acquisizioni principali della neuroestetica spicca la convinzione che i nostri cervelli (almeno a un certo livello) siano organizzati fondamentalmente nello stesso modo. Ma è anche ovvio che persone diverse dinanzi alla stessa opera dʼarte rispondono in maniera diversa. La variabilità umana è un tema poco studiato in genere, e io spero che la neuroestetica possa dare un contributo in questo senso»55. Il famoso neuroscienziato indiano V.S. Ramachandran sostiene che il comportamento artistico sia dovuto ad un eccesso di connessioni sinaptiche che si traducono nella capacità di collegare concetti apparentemente non correlati e propone dieci leggi universali dellʼarte per comprendere, in una visione direi antropologica, quali possano essere le ʻregoleʼ del comportamento artistico.56 Lo studio di Ramachandran è un interessante sguardo al mondo dellʼArte del quale solo i critici di estrazione preminentemente umanistica fino ad ora se ne erano occupati e sicuramente la interdisciplinarità del sapere potrebbe portare contributi determinanti in questo settore che sembra abbia vissuto per lungo tempo in un isolamento quasi patologico. Dʼaltronde lʼartista-pazzo, incompreso, imprevedibile, ha sempre conservato il suo fascino.
55 56
Tratto da: http://www.camoillaonline.com/archives/2003/12/000523.html V.S. Ramachandran, Cosa sappiamo della mente, Mondadori, 2004, pag. 46
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5.6 Lʼartista è un trovatore Una delle caratteristiche del comportamento artistico è quello di proporre forme di comunicazione non usuali, non quotidiane57 che siano capaci di provocare una sorta di corto-circuito del pensiero dal quale poi ʻscintillerannoʼ nuovi significati e nuove associazioni di idee. Lʼartista in un certo senso è un trovatore o meglio un inventore di senso. È indubbio che ogni comportamento umano abbia uno scopo e quindi crei delle aspettative in relazione al raggiungimento dello scopo stesso. Queste aspettative non provengono soltanto dalla parte di chi agisce, (lʼattore), ma anche da chi osserva (lo spettatore). Nel comportamento quotidiano (logica asimmetrica) vi è una sorta di mediazione, di negoziazione sociale, che guida i comportamenti affinché questi possano essere confrontati, accettati e compresi. Ad esempio, se arrivo in mezzo ad una piazza, sistemo a terra un panchetto e ci salgo sopra, la gente si aspetterà che io abbia da dire qualcosa che interessi tutti gli astanti. Il comportamento artistico (pensiero bilogico) è fuori da tale negoziazione, lʼartista non negozia con lʼutente. Rompe e diverge in continuazione le aspettative della gente. Lʼartista produce un significante, una forma, secondo limiti che si pone da solo. Negozia con se stesso, per vedere se la forma scelta (il significante) sia appropriato al significato che egli vuole esprimere, qualunque esso sia. Proseguendo lʼesempio di prima, se salgo sul panchetto e mi metto a fare delle bolle di sapone così deliziosamente variopinte che di una di queste me ne innamoro e mentre tento di baciarla questa scoppia inondandomi il viso di liquido facendomi piangere disperatamente… è il tema della solitudine o della perdita degli affetti che sto comunicando, ma in maniera artistica, simbolica e non quotidiana. In questo caso le aspettative della gente subiscono una deviazione di senso e ʻvedonoʼ il comportamento artistico oltre il significato delle azioni in se stesse. Questa deviazione di senso è uno degli elementi su cui si basa lʼarte. 57
V.S. Ramachandran parla di ʻIperboleʼ come una delle 10 leggi universali sullʼArte e consiste, secondo lʼautore, nellʼesagerare un elemento della rappresentazione artistica per renderla non realisticamente quotidiana conferendole quel valore aggiunto che la contraddistinguerebbe come arte.
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La natura di questa ʻdeviazioneʼ risiede in quellʼatto magico capace di trans-formare le cose, cioè di creare le metamorfosi semantiche (metafore e metonimie) che consentono di associare cose e pensieri anche tra loro diversi e lontani. 5.7 Lʼartista e il consenso implicito collettivo Ogni artista sceglierà di porsi in uno spazio comunicativo condiviso ed avrà almeno due possibili forme dʼespressione: la piena aderenza ai significanti condivisi e accettati dalla grande maggioranza dei possibili utenti, in questo caso abbiamo la mimesi della realtà comunicativa più diffusa (lʼarte come mimesi della realtà: il realismo). O può sperimentare nuove forme di comunicazione che vadano oltre la mimesi, rompano gli schemi comunicativi per esplorare nuovi orizzonti. In tutti e due i casi egli opera in un sistema di consenso implicito collettivo in cui la sintonizzazione attore-spettatore avviene grazie a quella convenzione illusoria di cui abbiamo parlato innanzi. Lʼartista mimetico trova un immediato riscontro: ogni spettatore è in grado di comprendere il messaggio artistico che tuttavia, a differenza di quello della comunicazione quotidiana, non è soggetto a negoziazione ma è concluso una volta emesso: nessuno spettatore potrebbe cambiare lʼopera dʼarte qualunque essa sia, teatro, cinema, pittura. Ciò vuol dire che il prodotto artistico (anche quello mimetico più condiviso) è sempre una proposta verticale. Lʼartista concettuale, invece, deve effettuare una scelta duplice per sperimentare forme di comunicazione che presentino uno scarto rispetto a quelle quotidiane, egli ricerca proprio nella rottura dei canoni comunicativi nuove forme drammatiche che producano veri e propri ictus, tagli, cesure, conflitti nella maniera quotidiana di guardare la vita e propone altre modalità di osservazione. Lʼabilità risiede nel trovare una forma comunicativa in grado di essere riconosciuta sì come ʻaltraʼ, ma frutto di scelte intelligenti, non di banalità. Una scelta consapevole, cioè frutto di scelte volute, non casuali ma coerenti con tutta lʼopera e lʼesperienza culturale di quellʼartista. La sua azione ha una caratteristica essenziale: lʼautonomia (ovvero la libertà) dai sistemi di attesa condivisi. Lʼapprezzamento del pubblico, (cioè lʼaccettazione della comunicazione) dei colleghi artisti e dei critici non è legato alla
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capacità (o incapacità) di tali gruppi di comprendere il messaggio emesso dallʼartista, ma è la conseguenza diretta della sua scelta che ha selezionato coscientemente un gruppo di destinatari in grado di comprendere la sua opera escludendone gli altri. Lʼartista ʻincompresoʼ ha semplicemente sbagliato nella scelta del punto del continuum in cui mettere il limite dei propri scarti comunicativi, che possono risultare troppo sfasati rispetto alla sua previsione di accettazione della comunicazione stessa, cioè non ha incontrato la ʻsintonizzazioneʼ con i riceventi. Un esempio sono i film di Luis Buñuel (si pensi Un chien andalou citato) che ci presentano realtà e comportamenti a prima vista normali, quotidiani e realistici ma sono gli intrecci che si avvicendano sullo schermo a rendere questa realtà su-reale costruendo continuamente eccessi di senso e rimandi di significato tanto da farla sembrare onirica, ma in questo sogno illusorio troviamo forse una più profonda verità: Buñuel nelle sue opere riesce a smascherare gli apparati ideologici che si celano nella società. Come nel film Lʼangelo sterminatore (1962) dove un cartello didascalico dʼapertura ci avvisa che: «Se il film che state per vedere vi sembra enigmatico e incongruente, anche la vita lo è. È ripetitivo come la vita e, come la vita, soggetto a molte interpretazioni». Questa coincidenza dichiarata tra racconto cinematografico e vita, che per Buñuel è una costante, ci riporta alle nostre considerazioni precedenti per cui lʼarte è quello sguardo sulla vita capace di farci vedere le verità che non scorgiamo nel normale guardare quotidiano. Uno spiraglio follemente cosciente nella normale incoscienza quotidiana. Lʼarte è certamente una comunicazione complessa che provoca sinestesie58 nei nostri recettori sensoriali: infatti un evento artistico più che guardarlo, si ammira, più che ascoltarlo, si sente. Alla stessa maniera potremmo dire che il cinema non si guarda soltanto, ma ci si lascia avvolgere… quasi ipnotizzare. Dʼaltronde anche la conformazione architettonica della sala di proiezione (perfettamente buia con il fascio di luce che ci abbaglia e una moltitudine di persone che condividono questo spectare) agevola il transfert. 58
Per sinestesia qui intendiamo il coinvolgimento di più canali sensoriali contemporaneamente.
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Questo trans-ferimento ci trasporta attraverso i percorsi del sentire e ci offre viaggi mentali nei luoghi utopici dei nostri sentimenti. A questo proposito mi piace citare Edgar Morin che così inizia il primo capitolo del suo famoso saggio sul cinema: «Il secolo XIX che muore lascia in eredità due nuove macchine: … Lʼaereoplano e il cinema: ambedue fanno volare …»59
59
Edgar Morin, op. cit. p. 25
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Cap. VI La motivazione artistica
Abbiamo tentato di definire la natura della comunicazione artistica e le sue componenti essenziali, ma come nasce unʼopera dʼarte? Quali condizioni si devono verificare perché una persona si ponga in situazione creativa? Tutti possono essere artisti? Quali caratteristiche ha il comportamento artistico? Chi sono queste persone che chiamiamo artisti e in che cosa si distinguono dagli altri? Uno sguardo storico alla vita di artisti unanimemente riconosciuti come tali, ci permette di rilevare facilmente come essi siano accomunati da un forte senso di ʻinadeguatezza al vivereʼ. Essi si staccano nettamente dagli uomini del loro tempo e sembra che vivano in una dimensione separata: questa dimensione potremmo chiamarla quella dellʼimmaginario! Spesso, infatti, vengono chiamati visionari. Qualunque sia il mezzo usato: dalla scultura alla pittura, allʼarchitettura, al teatro al cinema, questi uomini che ʻvedono oltreʼ il comune sguardo della loro generazione hanno lasciato dei segni indelebili nelle loro opere che vivono oltre la loro vita e sembrano esistere al di là dello spazio e del tempo. Perché? Dove era Leonardo da Vinci nel passato o nel futuro? Cosa spingeva Dante Aliglieri tra il cielo e la terra a comporre la sua monumentale Divina Commedia o Michelangelo a cercare nel suo tormentato Mosè lʼanelito della vita? È un luogo comune pensare che lʼartista possa agire solo quando lo colga quel particolare moto dellʼanimo chiamato ispirazione. Questo stato di grazia di solito viene associato con il divino. Lʼispirazione, in questa accezione, potrebbe essere una sorta di transe per cui lʼispirato altro non è che un tramite da cui si sprigiona una forza più grande di lui. Questa esigenza di varcare il limite, superare se stessi e i propri limiti è una costante di tutte le attività dello spirito e, quindi, anche del comportamento artistico che di esso ne è una delle espressioni. Ma per arrivare a questi stadi occorre avere una forte motivazione. Cosa intendiamo per motivazione? Il vocabolario della lingua italiana alla parola motivazione così recita: «Atteggiamento positivo che un individuo assume verso un compito da
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svolgere; nellʼapprendimento è un atteggiamento fondamentale ai fini del successo, ovvero la capacità e tendenza naturale nelle persone ad apprendere e a crescere in modi positivi, rivolta al raggiungimento degli obiettivi personali». La motivazione risponde alla domanda: ʻperché fareʼ o ʻa che scopo fareʼ. Il termine ʻmotivazioneʼ nel linguaggio psicologico, viene usato spesso in riferimento a pulsioni, processi e comportamenti abbastanza eterogenei: per esempio, la tendenza dellʼorganismo a soddisfare i bisogni primari, lʼattività esplorativa del bambino piccolo, la curiosità dello scienziato, il desiderio di riuscire in una attività e così via. Questi e altri aspetti, pur genericamente classificabili come motivazionali, trovano definizione e spiegazione in teorie diverse, nellʼambito delle quali assumono particolare significato e rilievo. Non ci occuperemo qui delle varie teorie in proposito, quel che a noi interessa nellʼeconomia del presente lavoro è capire quanta parte abbia la motivazione in relazione al comportamento artistico. 6.1 Lʼartista è un illegale disadattato Possiamo pensare che lʼartista sia, in qualche modo, un disadattato in quanto è insoddisfatto dello status quo in cui si trova, quindi è spinto a ricercare altri modi di essere e, non trovandoli nella realtà, si sospinge nellʼimmaginario: egli non è in cerca di soddisfare bisogni primari di sopravvivenza nè è ancorato alla materialità fisica del vivere. Peter Brook, il famoso regista teatrale contemporaneo, diceva in unʼintervista televisiva che «il regista, lʼattore, lʼartista, sono persone che non amano la vita nel senso che non amano quel che li circonda, i sistemi sociali in cui si trovano a vivere. Questa è una spinta per evadere da tutto ciò e sbarcare in un mondo personale ed illegale dove tutto è possibile e dove tutto si giustifica secondo un principio individuale di essere in unʼaltra dimensione, impalpabile, sfuggente, onirica: quella dello spettacolo». I suoi bisogni, dunque, sono collocati in una scala di valori più alti che ne coinvolgono la sua identità di uomo che vive in un contesto utopico de-localizzato e che, per questo, supera spazio e tempo. Carmelo Bene in Nostra signora dei turchi ma anche in tutte le sue opere (in special modo nel saggio letterario A bocca aperta) riafferma con forza questa collocazione utopica dellʼartista quando parla del “Sud del sud dei santi”: una sorta di
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luogo del pensiero dove è possibile, come il Santo dei voli, staccarsi dalla terrestrità per conquistare altre dimensioni dellʼimmaginario artistico che in un certo senso accomuna tutti gli uomini in quanto tali. 6.2 I livelli logici di Robert Dilts È noto che tutti gli uomini abbiano delle credenze, le cose di cui sono fermamente convinti: ogni uomo ha una scala di valori che dirige i suoi comportamenti e ne determina la sua personalità o, se vogliamo, la sua identità. I livelli logici di Robert Dilts60 ci aiutano a capire in che maniera organizziamo il nostro pensiero, con quali gerarchie e quali sono le motivazioni che sottendono i nostri comportamenti. Dilts riconosce 5 livelli logici che costituiscono la nostra personalità. Essi sono:
I livelli logici di Dilts
Essi sono disposti in maniera gerarchica nel senso che, il livello inferio-
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Dilts, I livelli di pensiero, NLP Italy, Astrolabio, 1985
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re ha unʼimportanza maggiore rispetto a quello superiore fino ad arrivare in fondo, allʼidentità, a cui son agganciati gli altri e che, in un certo senso, li comprende tutti. Possiamo pensare alla forma di una cipolla i cui strati più superficiali avvolgono il nucleo centrale. Ne deriva che se si ha un problema o una mancanza ad un certo livello, ad es. nel comportamento (secondo livello), non lo si può risolvere operando sullo stesso livello nè cambiando il livello superiore (più superficiale), cioè lʼambiente (andar via, cambiare aria, « a Mosca! a Mosca!» dicevano le tre sorelle nel romanzo di Anton Cechov credendo che spostandosi nella capitale (ambiente) avrebbero trovato la soluzione ai loro problemi) perché se le competenze (3° livello) e tutti gli altri livelli più profondi (i valori, le credenze etc) rimangono immutati il problema prima o poi si riproporrà anche nel nuovo ambiente. Lʼevoluzione della persona può realizzarsi solo con il cambiamento, o sviluppo, dei livelli più profondi. Quindi il mio comportamento (2° livello) potrà cambiare se cambieranno le mie credenze, i miei valori e la mie competenze. Descriviamo ora i vari livelli di Dilts. Lʼambiente è il livello più superficiale, quello in cui ci troviamo a vivere. La nostra nazione, città, casa, famiglia e la cerchia di amici o colleghi che frequentiamo. Il comportamento sono le azioni che compiamo per interagire ed adattarci allʼambiente che ci circonda. Le capacità sono le nostre abilità, cioè quello che sappiamo fare. La nostra professione. Le credenze e i valori sono ciò in cui crediamo, le nostre convinzioni, le idee che guidano i nostri comportamenti. Lʼidentità è ciò che siamo, con le nostre convinzioni, capacità e comportamenti che ci fanno agire nellʼambiente in cui viviamo. I livelli logici cono connessi strettamente con le motivazioni giacché la spinta allʼagire deriva sempre da una situazione deficitaria che opera su un livello e trae la sua forza nel desiderio che attiva la volontà di colmare tale mancanza. Infatti, la motivazione dipende in modo determinante da due elementi fondamentali della personalità dellʼindividuo: le competenze, che rappresentano ciò che lʼindividuo è in grado di fare, e i valori personali, vale a dire ciò che lʼindividuo vuole e crede che sia indispensabile fare. I valori
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rappresentano il nucleo di idee guida dellʼindividuo, ovvero ciò che dà forma e significato alla sua esistenza, mentre le competenze sono lʼinsieme di risorse necessarie alla riuscita. Questi due elementi sono così il tramite per tradurre la spinta motivazionale in un processo dʼazione. 6.3 La spinta motivazionale Cosa innesca la spinta motivazionale? Ogni qual volta lʼindividuo avverte che il suo equilibrio interno è stato modificato, avverte un bisogno. Un bisogno è la percezione di una distanza, di una mancanza, di uno squilibrio tra una situazione attuale e una situazione desiderata. Se una persona ha sete è perché un suo equilibrio interno è stato interrotto da una situazione di disagio, la sete appunto. La motivazione è la spinta che attiva lʼindividuo allʼazione e che lo spinge ad adoperarsi per ristabilire la situazione di equilibrio precedente, bevendo un bicchiere dʼacqua per esempio.
La spinta motivazionale
Le spinte motivazionali non sono soltanto di tipo elementare come la sete e la fame, ma possono essere molto più complesse. Nelle nostre società occidentali la civilizzazione ha reso la nostra esistenza più complicata aggiungendo una tale quantità di bisogni dettati molto spesso da un aberrante modello di sviluppo che privilegia il consumo materiale spostando i nostri desideri verso lʼesterno oggettivandoli, per esempio, in una serie di prodotti che costituiscono status symbol ma che non corrispondono affatto a ciò di cui un individuo avrebbe effettivamente bisogno. Questo sfasamento dei bisogni verso falsi obiettivi fa si che spesso le motivazioni non siano chiare agli stessi individui, così molte persone attraversano delle crisi esistenziali (quel tipo di orientamento nevrotico che chiamiamo ʻdepressioneʼ) nelle quali non riescono più a capire cosa vogliono dalla loro vita o a comprendere i motivi profondi che guidano i loro comportamenti.
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Per comodità di analisi possiamo riconoscere tre categorie fondamentali in cui è possibile classificare le motivazioni umane, secondo un ordine di crescente complessità. Le motivazioni primarie: sono pulsioni di natura fisiologica che comprendono essenzialmente bisogni fondamentali per la sopravvivenza quali bere, mangiare e dormire. Le motivazioni secondarie: sono bisogni di natura individuale e sociale che si sono formati nellʼindividuo a seguito dei vari processi di socializzazione. Sono, per esempio, il successo, la cooperazione e la competizione. Le motivazioni di livello superiore: sono impulsi che appartengono in maniera specifica a ciascun individuo e riguardano il perseguimento dei propri obiettivi coerentemente con i propri valori e con la propria gerarchia di ideali. Sono esempi di questa categoria il perseguire la propria soddisfazione personale, nel campo delle affettività, nellʼambito del lavoro e della professione, vivere in conformità con i propri principi morali condivisi dalla società di cui facciamo parte. Se, per una qualsiasi ragione, una pulsione non dovesse venire soddisfatta, essa rimarrà comunque attiva nellʼindividuo, cercando altre soddisfazioni nei livelli dove sono più disponibili. Il che provocherà tensione e disfunzione divenendo così un elemento negativo e destabilizzante a livello di dinamica intrapersonale ed interpersonale.
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6.4 La piramide delle aspirazioni di Abraham Maslow Il contributo più importante e significativo sul tema della motivazione in ambito psicologico, rimane lʼopera di Maslow61 che, nonostante risalga al 1954, mi sembra ancora molto interessante. La sua teoria è sintetizzabile nei seguenti punti: • Lʼuomo è una totalità dinamica e integrata, per cui un bisogno o necessità che si palesa in un certo ambito, per esempio la fame, si riverbera sullʼindividuo nella sua globalità. Non esiste cioè un bisogno dello stomaco, ma esiste un bisogno della persona nel suo complesso62. • Nellʼindividuo esistono tendenze diverse, che traggono origine da bisogni di differente natura. Siamo portati a soddisfare i nostri bisogni fisiologici così come siamo portati verso lʼacquisizione di nuove amicizie, lʼaccumulazione di denaro, verso il successo nel lavoro etc. • I processi motivazionali sono fondamentali per la vita umana: essi sono presenti in tutte le culture e in tutti i popoli del mondo. Nonostante i bisogni degli uomini siano universali, ogni cultura ha la sua modalità precipua per soddisfarli. Per esempio, il bisogno di autorealizzazione è presente in ognuno di noi, anche se le mete da raggiungere sono molto diverse e variano a seconda della cultura e dellʼepoca storica a cui ci si riferisce. • I desideri dellʼuomo non sono isolati e a sé stanti, ma tendono a disporsi in una gerarchia di dominanza e di importanza. In questa scala, al livello di base, ci sono i bisogni fisiologici essenziali per la nostra sopravvivenza fisica nellʼambiente. Prima di soddisfare i bisogni più alti nella scala, lʼindividuo tende a soddisfare quelli più bassi, ovvero quelli più importanti per la sua sopravvivenza. Per quello che riguarda i bisogni più alti degli individui essi tendono a variare molto nel tempo. Ogni persona compie un suo percorso di maturazione e sviluppo motivazionale allʼinterno del quale le mete e gli obiettivi di livello alto
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Abraham Maslow, Motivazione e personalità [1954], Armando, Roma, 1973
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Le patologie associate allʼanoressia e alla bulimia lo dimostrano ampiamente
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possono subire grandi modificazioni. Inoltre un successo tende spesso a essere dimenticato e, il vecchio obiettivo, tende a essere sostituito da uno più grande e ambizioso. Mentre i bisogni fondamentali per la sopravvivenza una volta soddisfatti tendono a non ripresentarsi, almeno per un periodo di tempo, i bisogni sociali e relazionali tendono a innescare nuove e più ambiziose mete da raggiungere: è quello che chiamiamo evoluzione personale. La scala delle aspirazioni degli individui, con i bisogni fondamentali ordinati per priorità di soddisfazione, è così schematicamente rappresentata
La piramide di Maslow Le aspirazioni ordinate per importanza e priorità di soddisfacimento.
Entriamo ora nello specifico di ogni singola categoria. • I bisogni fisiologici : sono i tipici bisogni di sopravvivenza (fame, sete, desiderio sessuale…). Funzionali al mantenimento fisico dellʼindividuo e della sua specie. Secondo Maslow ogni bisogno primario serve da
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canale e da stimolatore per qualsiasi altro bisogno. In questo senso lʼindividuo che sente lo stimolo della fame può ricercare amore, sicurezza, stabilità affettiva, al di là del più comune bisogno di nutrimento fisico. Nella scala delle priorità i bisogni fisiologici sono i primi a dovere essere soddisfatti in quanto alla base di tali bisogni vi è lʼistinto di autoconservazione, il più potente e universale drive dei comportamenti sia negli uomini che negli animali. Se in un individuo non trova soddisfazione di nessun bisogno, sentirà la pressione dei bisogni fisiologici come unica e prioritaria (sono i casi citati di bulimia e anoressia). Nelle nostre moderne civiltà occidentali il problema della sopravvivenza è diventato oramai un acquisizione stabile e duratura, per cui sono i bisogni di livello superiore ad essere al centro dellʼattenzione. • I bisogni di sicurezza: i bisogni di appartenenza, stabilità, protezione e dipendenza, che giocano un ruolo fondamentale soprattutto nel periodo evolutivo, insorgono nel momento in cui i bisogni primari sono stati soddisfatti. Anche questi bisogni sono spinte fondamentali che danno forma ad alcuni comportamenti tipici, soprattutto di carattere sociale. La stessa organizzazione sociale, che ogni comunità si dà a seconda della propria cultura, è un modo di rendere stabile e sicuro il percorso di crescita dellʼindividuo. Problemi riguardanti il soddisfacimento di questo bisogno durante le fasi critiche dello sviluppo, da parte per esempio di madri poco affettuose e rassicuranti, possono preludere a problematiche anche profonde nellʼetà adulta. • I bisogni di affetto: questa categoria di bisogni è fondamentalmente di natura sociale e rappresenta lʼaspirazione di ognuno di noi a essere un elemento della comunità sociale apprezzato e benvoluto. Più in generale il bisogno dʼaffetto riguarda lʼaspirazione ad avere amici, ad avere una vita affettiva e relazionale soddisfacente, ad avere dei colleghi dai quali essere accettato e con i quali avere scambi e confronti. • Il bisogno di stima: anche questa categoria di aspirazioni è essenzialmente rivolta alla sfera sociale e ha come obiettivo quello di essere percepito dalla comunità sociale come un membro valido, affidabile e degno di considerazione. Spesso le autovalutazioni o la percezione delle valutazioni possono differire grandemente rispetto al loro reale valore. Molte persone possono sentirsi molto valide al di là dei loro meriti e riconoscimenti reali, mentre altre possono soffrire di forti sentimenti di inferiorità e disistima anche se lʼambiente sociale ha un atteggiamento
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globalmente positivo nei loro confronti. • Il bisogno di autorealizzazione: si tratta di unʼaspirazione individuale a essere ciò che si vuole essere, a diventare ciò che si vuole diventare, a sfruttare a pieno le nostre facoltà mentali, intellettive e fisiche in modo da percepire che le proprie aspirazioni sono congruenti e consone con i propri pensieri, i propri valori e con le proprie azioni. Così un regista deve fare un film, un pittore deve dipingere, un musicista deve suonare, un manager deve creare profitti, una casalinga deve occuparsi delle faccende domestiche e così via. Non tutte le persone nelle nostre società riescono a soddisfare a pieno le loro potenzialità, infatti lʼinsoddisfazione sia sul lavoro che nei rapporti sociali (ed anche di coppia) è un fenomeno molto diffuso. Solo da pochi anni si sta prendendo coscienza che lʼuomo viva immerso in una situazione di interazione complessa di eventi che attengono alla sua sfera psico-fisica e che fanno parte di un unico sistema. Quindi, per esempio, se non troviamo soddisfazione nei bisogni del terzo livello (affetto) è probabile che, scenderemo ai livelli sottostanti (che sono più accessibili) e, per colmare la lacuna ci attesteremo su quelli di sicurezza, chiudendoci in difesa oppure in quelli fisiologici (ad es. alimentari). Molti di voi riconosceranno facilmente questi percorsi. Il favorire la libera espressione delle aspirazioni in tutti i loro livelli è indispensabile per mantenere il proprio equilibrio psico-fisico e sta diventando sempre più unʼesigenza diffusa. Il sorgere e lʼaffermarsi delle cosiddette Artiterapie (il fare Arte alla portata di tutti) ne è un interessante conferma. Le motivazioni che sono alla base del comportamento artistico, come si può agevolmente evincere da quanto detto sopra, attengono ai livelli superiori: dal terzo al primo e sono stimolate dal bisogno di autorealizzazione per affermare la propria identità. Ma, essendo i livelli collegati in maniera sistemica, dobbiamo credere che, in qualche modo, vi siano presenti tutti. Quindi, se dobbiamo rispondere alla domanda che ci siamo posti allʼinizio di questo capitolo: cosa spinge una persona al comportamento artistico, possiamo rispondere che lo fa seguendo una sua esigenza comunicativa, provocata da una mancanza nei livelli logici, attraverso la ricerca di un processo di conoscenza che parli di se e della propria esperienza di vita.
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Cap. VII La comunicazione non verbale
Quel che è contenuto in un film è il frutto del pensiero che un autore (che in qualche caso ne è anche il regista) assieme ad una troupe di persone ne hanno reso possibile la sua concretizzazione nella forma filmica. Il cinema delle origini non aveva dialoghi parlati: tutto era basato sulla mimica e sulla prossemica così che poteva varcare i confini nazionali con molta facilità. La materia di cui è costituito un film, ieri come oggi, è soprattutto comunicazione non verbale: comportamenti, azioni, sguardi, sentimenti, pensieri, azioni ed emozioni. Per comunicazione non verbale (in seguito useremo le iniziali: CNV) intendiamo lʼinsieme dei processi comunicativi che vengono messi in atto (consciamente o inconsciamente) senza lʼuso della lingua parlata. Ai suoi primordi, come è noto, il cinema non aveva la parola affidando unicamente alle azioni dei personaggi le sue storie: i primi film di Méliès erano in realtà delle pantomime. Solo quando non si poteva farne a meno venivano intercalate delle didascalie scritte, che comunque non superavano, come durata, il 10% del film stesso. Con questo non vogliamo affermare la supremazia della CNV sul linguaggio parlato poiché, come vedremo, entrambi fanno parte del processo comunicativo cinematografico, anche se siamo più propensi a credere a quel che vedono i nostri occhi che a quel che ascoltano le nostre orecchie! Come si sa la maggior parte delle comunicazioni umane sono di tipo non verbale. I fattori che intervengono nella comunicazione interpersonale hanno una rilevanza differente e sono quantificati dagli studiosi più o meno con queste percentuali: •
60% il linguaggio del corpo
•
30% il tono di voce
•
10% il messaggio verbale.
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Il contenuto di ciò che viene comunicato attraverso il linguaggio parlato, come si vede, ha una rilevanza minoritaria. A questo proposito Watzlawick63 asserisce che il linguaggio non verbale definisce la relazione, al di là anche dello stesso contenuto della comunicazione. I segnali sul piano del contenuto e su quello della relazione possono essere congruenti e convincenti oppure incongruenti e confondere, facilitando o ostacolando lʼinterpretazione dellʼevento comunicativo: se dico a qualcuno una frase minacciosa con il volto sorridente la minaccia verrà interpretata come uno scherzo. Da ciò si evince che siamo portati a dare la prevalenza al comportamento non verbale piuttosto che a quello verbale. La parola, essendo sotto il controllo dellʼio verbalizzante, può essere falsificata e ciò è già un limite espressivo in quanto codice precostituito. È come se potessimo indossare solo abiti già fatti, che non sempre si adattano a noi. Il corpo, invece, è plasmabile e si esprime liberamente nellʼambiente, sotto la spinta delle due forze primordiali dellʼespansione e della conservazione, la prima si sviluppa in un ambiente favorevole, la seconda tende a rompere il contatto con un ambiente minaccioso, per concentrarsi sui processi interni (vedi leggi della fisiognomica ma anche dellʼ orgonomia reichiana e della bioenergetica di Lowen).
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Paul Watzlawick è il massimo studioso della pragmatica della comunicazione umana e delle teorie del cambiamento e del costruttivismo radicale. Figura di spicco dellʼapproccio sistemico e della teoria breve, si deve alle sue opere la diffusione dellʼapproccio allo studio della comunicazione e dei problemi umani della prestigiosa Scuola di Palo Alto in California.
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7.1 Cinema e CNV Mentre la parola può mentire, il corpo non mente, anzi rivela, e nei suoi movimenti trovano spazio anche quegli aspetti che lʼio rimuove dal pensiero e dallʼespressione verbale: un comportamento vale più di cento parole! Per dimostrare (qualora ce ne fosse bisogno) quanto sia importante la CNV per una persona che voglia imparare a fare cinema basti pensare a quel che accade in un film. Il film non si compone solo di battute e dialoghi tra i personaggi, ma di un insieme di situazioni non-verbali quali il sonoro ambiente, la musica, gli sguardi, i movimenti tra le persone e nello spazio dellʼinquadratura. Tutti questi elementi contribuiscono a creare quella che chiamiamo realtà cinematografica. Essa non la si trova bellʼè pronta davanti la cinepresa ma va costruita con sapienza e conoscenza di una serie di regole che non sono solo tecniche del cinema in senso stretto ma spaziano in altre discipline. In ciò è la sensibilità di un regista, nellʼusare il materiale cinematografico con consapevolezza così da dare attraverso lʼopera filmica una percezione profonda e coerente di ciò che vogliamo comunicare. Facciamo un esempio: nella sequenza iniziale di Ultimo tango a Parigi (1972) Bernardo Bertolucci con appena quattro inquadrature ci comunica lʼintero dramma della vicenda che poi svilupperà nel corso del film. Analizziamolo. Rumore assordante di sferragliare di una metropolitana. Ripresa dallʼalto in Campo lungo del protagonista (Marlon Brando) che si tappa le orecchie; movimento di camera in avvicinamento fino al Primo Piano del viso: una smorfia di dolore. Stacco. Campo lungo: Rumore assordante della metropolitana che passa sopra un ponte. Stacco. Primo piano del protagonista (Marlon Brando) che lentamente toglie le mani dalle orecchie. Il suo sguardo è come perso. Guarda in basso iniziando a camminare. Campo a due, carrellata a precedere. Dal fondo si vede la sagoma di una donna (Maria Schneider) che, con passo deciso, sta sopraggiungendo.
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La sequenza iniziale di Ultimo tango a Parigi di B. Bertolucci. (1972)
Lʼinquadratura mostra in primo piano il protagonista e possiamo scorgere il dolore di un uomo di mezza età che vaga senza meta ma mantiene il contatto con i suoi sentimenti dolorosi attraverso lo sguardo in basso64. La sua camminata è lenta, non ha una direzione precisa: sembra non sapere dove andare. La donna invece cammina con passo svelto e sicuro e, sorpassandolo, lo nota fissandolo per un attimo. Poi va via ma sul suo volto, o meglio nei suoi occhi, si legge unʼespressione di turbamento, come se fosse entrata in sintonia con il dolore che emanava da quellʼuomo. Lʼinquadratura è sempre in campo a due, poi unʼinquadratura mostra la donna di spalle e poi ancora è la donna ad essere in primo piano, lasciandosi lʼuomo, sfocato, alle spalle. La colonna sonora di tutta la scena è costituita dal sonoro ambiente. 64
Parleremo in seguito dei movimenti dei bulbi oculari come finestra dei sentimenti. Per adesso anticipiamo che lo sguardo basso stabilisce un contatto con la parte cenestetica: introspezione e sentimento
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7.2 La coerenza delle azioni cinematografiche Questa apertura del film ci fornisce gli elementi essenziali (non verbali) che ci calano nella psicologia dei personaggi e ci fanno comprendere la situazione drammatica: un uomo di mezza età in un momento di particolare squilibrio (il suicidio della moglie) incontra sul suo cammino una donna, giovane, bella e determinata. Lʼincontro avviene su un ponte che, di solito, unisce due sponde opposte. La donna, dopo aver percepito il suo dolore gli passa avanti e va via. Il rapporto tra i due personaggi, per tutto il film, è stigmatizzato da questo paradigma. Ma Bertolucci fa di più. Prima del loro incontro nellʼappartamento dove avverrà il contatto, ce li fa incontrare indirettamente giocando con il montaggio della direzione degli sguardi. Infatti nelle riprese che seguono il sorpasso della donna, altre inquadrature ci mostrano, questa volta alternativamente, i due personaggi che camminano. Al termine un primo piano di Brando che guarda in alto viene montato con una panoramica in discesa verticale su un palazzo al cui portone troviamo la Schneider che guarda nella stessa direzione (sempre verso lʼalto), poi suona il campanello. Si nota una sorta di rapporto sinallagmatico tra le due inquadrature che ci suggerisce in qualche modo ciò che li unirà al di là dei loro sguardi: lʼappartamento.
Questa maniera di costruire il racconto cinematografico facendo uso di metafore visive che racchiudono come in una sineddoche (una parte per il tutto) le varie inquadrature, rappresenta la coerenza stilistica di tutto il film. Tutto ciò senza dialogo ma usando esclusivamente la CNV. La maestrìa con cui il regista costruisce una sequenza siffatta non dipende solo dalle sue conoscenze tecniche (Hitchcock dichiarò che la tecnica cinematografica si impara in pochi giorni) ma dalla sua cultura tout court che non può prescindere dalla conoscenza di altre discipline che ne coinvolgono gli aspetti socio-psichici del racconto, compresa la CNV.
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A conforto di quanto abbiamo osservato, in occasione del conferimento del Premio Musatti, Bernardo Bertolucci in un intervista confessa lʼinfluenza che hanno avuto gli anni passati dallʼanalista Pietro Bellanova sul suo lavoro: «... Il mio cinema allʼinizio era molto chiuso, un poʼ punitivo, rigoroso come allora si diceva, proprio un cinema duro e puro che quasi non teneva conto del pubblico. Con lʼanalisi ho cominciato ad aprirmi io e si è aperto anche il mio cinema...»65. Bertolucci è il primo regista cinematografico che abbia ricevuto il premio intitolato al grande psicoanalista Cesare Musatti. 7.3 Gli ambiti della CNV La CNV comprende altre discipline che ne studiano le sue diverse espressioni. Esse sono: la prossemica che studia il significato dei rapporti spaziali tra le persone, cioè la distanza nella quale si collocano per interagire tra loro. La cinesica studia i movimenti del corpo, i gesti e il loro significato. La paralinguistica che si occupa delle emissioni vocali non semantiche, non grammaticali ed istintive, tali ad esempio sono gli “uhm…”, il tono della voce, la sua velocità, i silenzi, le pause che spesso sono più cariche di significato delle parole stesse. Prenderemo in analisi le prime due. La prossemica È quella branca della psicologia (con sconfinamenti nella sociologia e nellʼantropologia) che studia i comportamenti spaziali, ovvero il modo in cui ci collochiamo nello spazio e regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e allʼambiente. Il primo studioso a fare ricerche estensive in questo ambito è stato lʼantropologo E.T. Hall66 il quale, al termine della seconda guerra mondiale, venne incaricato di studiare come riavvicinare le culture “nemiche” tedesca e giapponese a quella degli Stati Uniti, così che la successiva cooperazione per la ricostruzione procedesse con maggiore collaborazione e senza incomprensioni. La storia, del resto, si ripete: terminato il conflitto in Iraq, gli Stati Uniti hanno dovuto affrontare un 65
La Repubblica del 28/09/2006. Intervista di Lucia Sica.
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E.T. Hall, La dimensione nascosta, Bompiani, Milano 1968
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problema analogo, quello di farsi accettare da una cultura, quella arabomusulmana, che è molto diversa dalla cultura americana, anche in termini di prossemica. Hall, osservando che la distanza sociale tra le persone è stabilmente correlata con la distanza fisica, ha definito e misurato quattro zone interpersonali: • La distanza intima (15-45 cm ) a cui ci si abbraccia, ci si tocca e si parla sottovoce. • La distanza personale (45-120 cm) per lʼinterazione tra cari amici. • La distanza sociale (1,2-3,5 metri) per la comunicazione tra conoscenti. • La distanza pubblica (oltre i 3,5 metri) per le pubbliche relazioni. Ne La dimensione nascosta, Hall osservò che la distanza esatta alla quale ci sentiamo a nostro agio con le altre persone vicino a noi dipende dalla nostra cultura: i Sauditi, i Norvegesi, i Milanesi ed i Giapponesi hanno diverse concezioni di ʻvicinanzaʼ. Dal punto di vista fisico i nostri confini sono definiti dalla pelle, o tuttʼal più dai vestiti. Non è così dal punto di vista psicologico. In questo caso essi vanno al di là sia della pelle che dei vestiti e formano una sorta di “aura” che ci circonda e ci segue continuamente, regolando silenziosamente i nostri rapporti con gli altri. Come tipicamente avviene in qualsiasi comportamento non verbale, nella grande maggioranza dei casi noi non scegliamo consapevolmente a che distanza stare dagli altri, o in che punto metterci in un gruppo. Tutto avviene in modo inconsapevole, spontaneo, veloce e fluido. Ciononostante, nelle relazioni di tutti i giorni, le distanze che stabiliamo sono un preciso indice della nostra situazione sociale, del nostro sesso, del tipo di rapporto che stiamo intrattenendo, del nostro disagio o della nostra soddisfazione, etc. Quindi il modo con cui ci disponiamo nello spazio, trasmette messaggi non verbali a coloro che ci stanno vicini e viceversa noi stessi li rileviamo e rispondiamo ad essi con atteggiamenti emotivi spesso inconsci. Abbiamo infatti in comune con gli animali la reazione di rigetto della prossimità dellʼaltro simile, che assume la caratteristica detta dagli entomologi fight or fly (combatti o fuggi), in quanto molte bestie reagiscono, alla vicinanza dellʼaltro, come limitazione del proprio spazio vitale e quindi rispondono emotivamente con aggressività o con paura.
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Anche negli uomini esiste la percezione di una ʻdistanza intimaʼ difficilmente valicabile senza provocare reazioni di disagio, superabili solo in caso di accettazione cosciente o di relazioni affettive. Le modalità di reazione, essendo correlate ad atteggiamenti mentali relativi alla percezione dello spazio, vanno ad assumere significati diversi a seconda della cultura di origine, così ad es. Arabi e Giapponesi tollerano meglio lʼaffollamento rispetto ad americani ed Europei. In Europa, ad esempio, si notano forti differenze che riguardano la concezione individuale della “privacy”: per i Tedeschi è fortemente correlata alla delimitazione dello spazio fisico mentre per gli Inglesi e più interiorizzata, in quanto la loro proverbiale “flemma britannica” comporta la creazione di barriere psichiche che li rende capaci di isolarsi, anche in condizioni di vicinanza ambientale. Oggi la globalizzazione e lo sviluppo delle Tecnologie di Comunicazione Interattiva (TIC), comportano cambiamenti profondi che iniziano ad esercitarsi fin dalla più tenera età, e riguardano le relazioni “prossemiche” che lʼappredimento localizzato nella classe, conduce a strutturare, producendo limitati processi di ampiezza comunicativa riguardo lo sviluppo dei circuiti cerebrali che permettono una più piena e creativa espressione dellʼindividuo. Gli studi a questo riguardo hanno dimostrato che la sistemazione di una classe scolastica in banchi a file contrapposti alla cattedra non favorisce lʼinterazione comunicativa ma provoca invece un aumento della passività intellettiva e, quindi, una limitazione nellʼapprendimento che risulta de-responsabilizzato (cʼè qualcuno più in alto di me, sulla cattedra, che mi dice le cose come stanno ed io devo soltanto memorizzarle). Oltre che con la prossemica comunichiamo anche con la gestualità e con gli innumerevoli movimenti che compiamo con il nostro volto non soltanto quando parliamo, ma anche quando osserviamo o ascoltiamo. Essi fanno parte della cinesica.
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Ray L. Birdwhistell Cinesica e comunicazione, in Carpenter E. e McLuhan M., La comunicazione di massa, La Nuova Italia, Firenze, 1969 (ed. orig. 1960)
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La cinesica, fondata da Ray Birdwhistell67 allʼinizio degli anni ʻ50, si occupa dei movimenti del corpo come forme strutturate di linguaggio. Oggi si tende a suddividere la cinesica secondo due principali aree di comportamenti: •
La microcinesica (soprattutto il volto);
•
La macrocinesica (la postura e la gestualità)
7.4 I sistemi rappresentazionali Ai fini del presente lavoro prenderemo in considerazione solo alcuni aspetti della cinesica, quelli più evidenti, che ci saranno utili per costruire una realtà cinematografica credibile e più consapevole. Sia nel momento della creazione di una storia, infatti, che nel momento della sua messa in scena la pre-visione di quello che accadrà e della maniera con cui gli attori lo faranno ri-vivere dipende anche dalla conoscenza del regista di quella che potremmo chiamare la fisiologia dei sentimenti. Ma prima occorre conoscere qualcosa che riguarda la maniera con cui organizziamo le percezioni della realtà esterna. Alcuni studiosi di Programmazione Neuro Linguistica (PNL)68 hanno messo a punto un modello chiamato “Sistema rappresentazionale”. Esso ci dice che percepiamo la realtà attraverso i nostri canali sensoriali e di essa ne facciamo una rappresentazione filtrata dalle esperienze che hanno segnato la nostra vita.
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S. Lankton, R. Bandler e J. Grindler, R. Dilts ed altri
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Dallo schema della pagina precedente69 si comprende come la PNL prenda in considerazione tre tipi fondamentali di canali sensoriali con i conseguenti sistemi rappresentazionali. Alcuni di questi canali sono rivolti allʼesterno (sensi a distanza: vista, udito), mentre altri allʼinterno (sensi a contatto: olfatto, tatto, gusto, sensazioni, etc.) Abbiamo dunque il canale: •
VISIVO (V)
•
AUDITIVO (A)
•
CENESTETICO (K)
Questi canali hanno caratteristiche differenti. Il sistema visivo è veloce, diretto e con esso si possono processare una gran quantità di informazioni ma ad un livello superficiale. Di conseguenza le persone che lo privilegiano sono prevalentemente molto attive, dinamiche e rapide. Il sistema auditivo è più lento ma va più in profondità. Ci permette di compiere analisi, comparare idee ed esperienze. Le persone auditive sono quelle a cui piace il ragionamento e la ricerca, quindi sono più propense al pensare che al fare. Il sistema cenestetico è rivolto allʼinterno. È molto lento e introspettivo. Si basa sulle sensazioni più che sul raziocinio. Esso è indispensabile, ad es., per il comportamento artistico poiché permette di scandagliare le intimità dellʼessere esprimerdone le emozioni. Usano prevalentemente questo sistema le persone che privilegiano il ʻsentireʼ al ʻcapireʼ; di conseguenza son tipi remissivi che dipendono dalle loro sensazioni e sono predisposti a farsi trascinare facilmente dalle situazioni esterne. Noi usiamo tutti questi tre sistemi attraverso i canali sensoriali che li rappresentano dando la prevalenza ad uno piuttosto che allʼaltro a secondo delle situazioni in cui ci troviamo. Per esempio se dobbiamo fare un compito di matematica ci converrà usare quello auditivo e non il cenestetico, ma se dobbiamo recitare in teatro sarà questʼultimo ad essere più efficace. Quando non cʼè flessibilità nellʼadattamento alla situazione e nellʼuso del canale appropriato ci sarà incongruenza nella risposta comportamentale che, in qualche caso può rivelarsi patologica. Tutti sappiamo che lo sguardo è lo specchio dellʼanima, ognuno di noi sa 69
Tratta da: T. James e W. Woodsmall, Time line, Astrolabio, 2001
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interpretare unʼespressione facciale (gioia, dolore, terrore, spensieratezza, dubbio), ma non tutti sanno leggere nei movimenti dei bulbi oculari che una persona compie nel momento in cui pensa a quello che dovrà dire e fare o quando reagisce ad una nostra azione. Tali movimenti ci indicano da dove una persona attinge le informazioni necessarie per organizzare un comportamento verbale o non verbale, cioè da quali sistemi rappresentazionali sta attingendo le informazioni. Provate ad osservare una persona nel momento in cui sta raccogliendo le idee subito prima di rispondere ad una domanda, potrete notare che dirigerà il suo sguardo in una direzione che ci rivelerà quale dei tre sistemi rappresentativi sta usando con la seguente modalità:
I movimenti dei bulbi oculari e i sistemi rappresentazionali
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La rappresentazione grafica dei canali sensoriali indica, attraverso i movimenti dei bulbi oculari70 a quali sistemi si sta accedendo. Si può notare come vi sia una differenza tra la parte destra e la sinistra. Premettiamo che tale modello è valido per le persone destrorse mentre per quelle sinistrorse è ribaltato. Quindi avremo dalla parte destra (sinistra per chi osserva) la costruzioni di immagini rappresentative della realtà mentre dalla parte sinistra (destra per chi osserva) immagini ricordate. Tutto ciò perché non possiamo avere un ricordo senza un immagine che ad esso è collegata. La differenza tra il costruito e il ricordato consiste nel fatto che nel primo caso (costruito) attingiamo le informazioni da nuove associazioni di idee e quindi dobbiamo costruire la risposta mentre nel secondo stiamo ricordando esperienze passate già disponibili e coerenti con la risposta da dare. Lʼaltezza dello sguardo, invece, ci da le informazioni del canale sensoriale che stiamo usando. Quindi avremo il canale • VISIVO = in alto • AUDITIVO = orizzontale • CENESTETICO = in basso
7.5 Fisiologia del personaggio: Il Sorpasso di Dino Risi Queste informazioni, nellʼeconomia del nostro discorso, sono indispensabili sia per lʼanalisi che la costruzione dei tipi psicologici di personaggi credibili per la drammaturgia cinematografica. Avrete notato che uso frequentemente la parola ʻcredibileʼ perché nella costruzione di una storia come nella scelta e nella direzione degli attori, se vogliamo creare quel rapporto empatico (proiezione ed identificazione) con lo spettatore, questi deve credere a ciò che mostriamo, e per crederci dobbiamo prospettargli situazioni che siano quanto più vicine possibile alla realtà che siamo abituati a riconoscere. Dino Risi nelle sue indimenticabili commedie fa largo uso della CNV. Incontrandolo lʼanno scorso a Lecce in occasione della presentazione del 70
La figura è tratta da: Steve Lankton, Magia pratica, Ubaldini editore, Roma, 1989, pag. 47
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suo libro I nuovi mostri ne ho parlato con lui ed ho scoperto che è laureato in psicologia! Per visualizzare quel che si è detto sopra prendiamo in considerazione un suo film: Il sorpasso (1962). Sono facilmente riconoscibili nel personaggio interpretato da Vittorio Gassman le caratteristiche del visivo per la velocità delle sue azioni, per il gesticolare ampio nella parte alta del corpo mentre il personaggio di Trintignant usa chiaramente un comportamento di tipo cenestetico, riservato, riflessivo e sempre in contatto con il suo mondo interiore.
Le posture mimiche di Gassman di tipo ʻvisivoʼ
Kc (cenestetico costruito)
Sguardo Kr (cenestetico ricordato)
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I movimenti dei bulbi oculari sono ben visibili in questa scena del Il sorpasso dove Trintignant incontra una donna prevalentemente auditiva. Cerca di instaurare un rapporto con lei ma si nota subito lʼinadeguatezza del suo comportamento. Lui parla dei suoi sentimenti e lei pensa al suo fidanzato che non è venuto allʼappuntamento lasciandola sola. Il regista, per comunicarci che tra i due non ci può essere rapporto usa la CNV mostrandoci i canali sensoriali divergenti.
Interazioni di sguardi Rispetto alle azioni fra i personaggi ed alla distanza di interazione notiamo come Risi abbia sviluppato le leggi della prossemica e quelle della cinesica (vedi foto nella pagina accanto). Il personaggio visivo di Gassman tende ad abolire le distanze entrando le ʻaureʼ personali degli altri toccandoli ripetutamente: ci manifesta il tipo psicologico dellʼinvadente, sbruffone, pieno di se. E infatti Il sorpasso è la storia del rapporto tra i due personaggi (Trintignant un cenestetico-auditivo e Gassman un visivo-cenestetico) che, dopo aver attraversato un segmento di vita assieme, terminano tragicamente il loro viaggio in un incidente stradale: ad avere la peggio è il più debole, quello che è dapprima ʻinvasoʼ, poi sedotto e trascinato nel suo destino dal più forte.
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Le posture ʻinvasiveʼ del personaggio di Gassman
Sempre nel Il sorpasso una soluzione registica per visualizzare la differente posizione tra i personaggi in conflitto è realizzata con unʼinquadratura fissa dove la parete a vetri della casa ʻseparaʼ gli attori che risultano così come ingabbiati e isolati nei loro rapporti problematici.
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7.6 I luoghi dellʼazione mentale: La situ-azione. Ogni essere umano ha delle referenze spaziali interne che lo ʻorientanoʼ nel mondo circostante. Queste referenze, primordiali, hanno subito, poi, una metamorfosi trasformandosi in vere e proprie allocuzioni metaforiche. Tutti riconosciamo il significato delle frasi quali: ʻquella persona è sopra di meʼ; ʻho lasciato il passato dietro le mie spalleʼ; ʻbisogna guardare avantiʼ; ʻDio come son caduto in bassoʼ; ʻseduto alla sua destraʼ e così via. Siamo portati a dare un significato aggiuntivo a questi avverbi di luogo che indicano in realtà non tanto un luogo fisico, ma una situazione mentale (situ-azione il luogo dove si svolge unʼazione). Nello specifico diamo dei valori a tali luoghi riconoscendo che in alto ci sono quelli più importanti mentre in basso i peggiori. Avanti indica una situazione di raggiungimento di mete future, indietro rappresenta una regressione della propria azione. La destra è una condizione favorevole (è anche la parte dominante nella simmetria fisiologica umana) mentre la sinistra una situazione di svantaggio. Non è un caso che in alto pensiamo ci sia il paradiso mentre giù in basso, nelle viscere della terra, lʼinferno! Questi luoghi mentali sono presenti anche nelle culture orientali: i chakra (vortici di energia vitale) sono collocati nel corpo umano con lo stesso criterio: in basso vi sono quelli attinenti al radicamento delle pulsioni materiali e più primordiali (1° chakra, il sesso, la riproduzione è situato nei pressi dellʼinguine rivolto verso il basso) mentre in alto è collocato quello della spiritualità (il 7° chakra, posto sulla testa e rivolto verso lʼalto). Frasi come “seduto alla sua destra” sta a significare una posizione di potere mentre “un tipo sinistro” non ispirerà certo molta simpatia. Anche nella terminologia politica possiamo notare come a destra si trovino i poteri forti e a sinistra le classi svantaggiate. Queste referenze interne sono dei veri e propri modelli mentali che condizionano inevitabilmente la nostra percezione, nel senso che risulta automatico il riferimento ad essi e, conseguentemente, ne indirizzerano il nostro comportamento. Tornando alle scene iniziali di Ultimo tango, già analizzate, possiamo notare come le referenze interne siano presenti in maniera significante. Brando nella prima inquadratura viene ripreso dallʼalto, come se qualcosa
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di superiore incombesse su di lui. La donna sopraggiunge da dietro (un passato che arriva), ma lo sorpassa e va in avanti come ad attraversarlo completamente e infatti sarà lei a finire il protagonista con un colpo di pistola sparato a bruciapelo nellʼaddome (zona dei sentimenti e delle emozioni). Da queste considerazioni possiamo ricavare un insegnamento: la sequenza delle inquadrature che costituiranno la scena va realizzata in maniera tale che tutte le sue componenti (location, inquadrature, illuminazione, sonoro, musica, azioni degli attori e loro interazione) rispondano ad una coerenza interna. Cioè tendano tutte insieme alla costruzione di significati congruenti con la significazione della scena stessa. In ciò è lʼarte del cineasta: dirigere la troupe (che è formata, come vedremo, da una serie di professionalità diverse) per costruire un prodotto comunicativo che abbia in se le qualità di unitarietà e congruenza stilistica comunicativa. In riferimento poi alle posture ed ai gesti, una menzione particolare meritano le cosiddette categorie Satir che ci aiutano a riconoscere il tipo caratteriale, quindi, la psicologia del personaggio dai suoi gesti e dal ritmo con cui li esegue. Teniamo presente che le osservazioni della Satir sono riferite al modello occidentale. 7.7 Le categorie di Virginia Satir: le posture e i gesti indicano il carattere Virginia Satir71 ha distinto tre tipi di categorie di persone individuando, dal loro comportamento non verbale alcune costanti che li identificano come:
71
1.
Indicatorio
2.
Superlogico
3.
Propiziatorio
Virginia Satir, psicoterapeuta americana ha fondato la Terapia Familiare lavorando sulla comunicazione. Ha inoltre collaborato con Gregory Bateson nel suo gruppo di ricerca a Palo Alto (California). Il suo lavoro più famoso in Italia è: Psicodinamica e psicoterapia del nucleo familiare, Armando editore, Roma, 1973,
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Lʼ indicatorio (o accusatorio) usa gesticolare con le mani prevalentemente nella zona alta del corpo agitando violentemente lʼindice e usa la mano come una spada. È autoritario e cerca di dominare le situazioni È uno che trova a ridire su tutto, un dittatore, un boss. Si dà arie di superiorità e sembra dire: ʻSe non fosse per te, andrebbe tutto beneʼ. Il Superlogico (o calcolatore) usa gesticolare con le mani simulando intrecci, movimenti rotatori, suole congiungere spesso il dito indice con il pollice formando un cerchio. La zona dʼazione è la parte mediana del corpo (il tronco sino al ventre). È una persona che da molta importanza al ragionamento, la razionalità e si pone in relazione con gli altri attraverso la sua capacità di convinzione logica (notate il gesticolare dellʼex presidente del consiglio Massimo DʼAlema e ne avrete una prova concreta) Il calcolatore è estremamente corretto, ragionevole e non dà a vedere di avere un qualunque sentimento. È calmo, freddo e padrone di sé. Il Propiziatorio quando parla usa tenere le mani aperte con il palmo rivolto verso lʼalto come a voler contenere quel che gli viene concesso. È un tipo passivo che dipende dagli altri, rifiuta il conflitto e cerca la comprensione. Il propiziatore parla sempre in maniera suasiva, cercando di riuscire gradito, scusandosi, non dissentendo mai, di qualunque cosa si tratti. Questi schemi, nati dallo studio e lʼosservazione costante della ricerca della Satir, sono dei modelli e perciò vanno considerati come tali. Essi sono come una mappa che ci può guidare in una città che non conosciamo. Sono rappresentazioni delle vie e degli edifici che incontreremo, non le vie e gli edifici stessi. Lʼesperienza personale ce li renderà poi reali e vivi. Lʼinteresse per le categorie della Satir nel nostro discorso è dato dal fatto che ci rende consapevoli non soltanto del tipo psicologico con cui ci troviamo ad interagire, ma soprattutto del suo modo di rappresentarsi la realtà e, quindi, le forme della sua espressione corporea non verbale. 7.8 Lʼattore: persona e personaggio Quando costruiamo un personaggio nella fase ideativa sarebbe bene tener presenti le considerazioni fin qui fatte. Ed anche quando ci troveremo nella fase del casting, la nostra scelta cadrà su un tipo più vicino alle caratteristiche del nostro personaggio poiché sarà difficile per un attore, trasformarsi da un indicatorio ad un propiziatorio e viceversa (anche se il mestiere dellʼattore dovrebbe essere quello di essere diverso da se stesso).
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Solo i grandi attori ci riescono, ma anche per loro la prevalenza di un sistema rappresentazionale sugli altri è evidente. Prendiamo ad esempio Alberto Sordi che è stato forse uno dei più versatili attori italiani interpretando ruoli diversissimi: dal poveraccio al Marchese del Grillo! Potete notare come la postura, lo sguardo, il gesticolare cambi notevolmente a secondo del personaggio in cui si calava. Non altrettanto versatile Vittorio Gassman intrappolato nel ruolo del ʻMattatoreʼ per lungo tempo con il suo fare da visivo-indicatorio anche nei ruoli più ʻdisgraziatiʼ si pensi allʼArmata Brancaleone di M. Monicelli. Marcello Mastroianni è rimasto sempre un cenestetico-superlogico un poʼ sornione che riflette sulla vita. Nino Manfredi deve la sua fortuna a ruoli prevalentemente cenestetici-propiziatori come Per grazia ricevuta, Pane e cioccolata, Caffè express, Brutti, sporchi e cattivi, in cui dispiega la sua semplice filosofia di vita che potremmo ridurre alla sua famosa canzone: ʻtanto peʼ cantàʼ. Quando un attore interpreta un ruolo che lo porta al successo, difficilmente lo cambia anche perché lʼindustria cinematografica in un certo senso lo costringe a ripetere quei personaggi sperando così di incontrare nuovamente il favore del pubblico: squadra vincente non si cambia! Questo produce dei veri e propri clicché che in un certo senso impoveriscono lʼesperienza dellʼattore che si trova ingabbiato, suo malgrado, alla mercè di un unico personaggio. Nel momento in cui si dirige un attore dobbiamo costruire il personaggio partendo dalle sue risorse di base dalle quali non possiamo prescindere: se ci troviamo a lavorare ad es. con un propiziatorio (le cui caratteristiche sono quelle di essere un mite che si lascia trascinare dagli eventi della vita) che deve interpretare un superlogico (calcolatore raziocinante) le risorse di base propiziatorie non devono essere eliminate, ma incastrate con le superlogiche. Un esempio ne è lʼattore Woody Allen che nei suoi film da propiziatorio diventa superlogico e qualche volta anche indicatorio e assertivo per cercare di ʻessere allʼaltezza della situazioneʼ e sfuggire al suo destino avverso, ma tutto questo ragionare, o se vogliamo s-ragionare, lo riporterà sempre alla sua natura propiziatoria di succube della vita che, nonostante i suoi sforzi, lo schiaccierà. Nel suo film Io e Annie (1977), ad esempio, ci da una esemplare dimostrazione di come nella personalità di un individuo coesistano diverse identità e quindi diverse risorse cui poter attingere. Allen passa da propiziatorio che cerca comprensione dalle perso-
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ne al superlogico che analizza sempre e comunque il suo comportamento e quello degli altri, ma questo gli provoca un disadattamento allʼambiente in cui vive, così diventa indicatorio, aggressivo. Indimenticabile la scena in cui si arrabia con un sedicente professore universitario che pontifica con la sua ragazza sulle teorie di Mc Luhan facendo bella mostra di se. Allen lo contesta e, per avallare le sue parole, tira per la giacca nellʼinquadratura Mc Luhan in persona che fa fare una figura meschina al bellimbusto. Poi Allen rientra nellʼinquadratura e, rivolgendosi alla camera, dice: “Così dovrebbe essere!” Ho citato Woody Allen perchè è un attore che si mette in gioco in maniera totale e possiede un alto senso dellʼironia non si prendendosi mai sul serio e offre così allo spettatore un mondo ipotetico dove la risoluzione finale la si trova solo allʼinterno del racconto cinematografico: entrando ed uscendo in continuazione dal suo personaggio, buca lo schermo creando unʼidentificazione tra vita e film come ne La rosa purpurea del Cairo (1985) In Italia non abbiamo un equivalente altrettanto versatile. Dobbiamo rilevare, infatti, che il cinema italiano odierno privilegia il lʼattore-personaggio che recita se stesso e non è più in grado di provarsi in situazioni diverse dal suo carattere di base e, quel che è peggio, si prendono tutti sul serio! Pensiamo a Margherita Buy che non riesce a non essere lʼesaurita di turno sempre in crisi tra il cenestetico e lʼauditivo; Valeria Golino la segue a ruota presentando personaggi sullʼorlo di una crisi nervosa quando non proprio borderline, e così via. Sul versante maschile la situazione non è differente. Luigi Lo Cascio, Massimo Ghione, Silvio Orlando, ripetono in varie salse gli stessi personaggi. Per non parlare poi degli attori comici: Vincenzo Salemme, Massimo Troisi, lo stesso Roberto Benigni…. in realtà nei loro film non si nota la differenza tra persona e personaggio perchè in fin dei conti è principalmente il loro modo di essere che portano sulla scena. Ma quando un attore deve interpretare un personaggio diverso da se non ha altra scelta che prendere in prestito il linguaggio non verbale di unʼaltra persona di sua conoscenza, oppure ricercare nel proprio passato situazioni che si possano adattare allo scopo, quindi portarle al presente ed elaborare nuovi comportamenti che rendano credibili le sue espressioni.
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Questa metamorfosi è alla base del lavoro dellʼattore. I processi che portano a questa trasformazione sono stati a lungo studiati ed hanno portato alla formazione di vere e proprie scuole. Allʼinizio del secolo Kostantin Stanislawskij nel suo famoso studio Il lavoro dellʼattore72 mise a punto un metodo che fu poi seguito in tutto il mondo. Esso prevedeva la interiorizzazione del personaggio attraverso analogie e similitudini da ricercare nelle risorse dellʼattore, cioè nel suo vissuto in maniera che la recitazione non risultasse falsa ma fosse un ri-vivere le vicissitudini del personaggio attraverso le esperienze personali di chi lo interpreta. Non possiamo qui dilungarci sul lavoro dellʼattore cinematografico che richiederebbe una trattazione a parte. Possiamo solamente dire che, a differenza dellʼattore teatrale allʼattore della celluloide sono richieste caratteristiche diverse. In teatro lʼattore ha il tempo di entrare nel suo personaggio che ha uno sviluppo continuo per tutta la durata dello spettacolo. Ha la possibilità di sentire il pubblico e, in qualche modo, di aggiustare il tiro calibrando la sua recitazione. Ogni spettacolo, poi, è differente perchè diversa è la situazione che si presenta ad ogni replica, essendo lo spettacolo teatrale un evento e, come tale, irripetibile. Al contrario lʼattore cinematografico non vede il suo pubblico e non ha la possibilità di caricarsi emotivamente per un tempo così lungo come quello che avrebbe a disposizione nel teatro. La sua recitazione è frammentata in continuazione dai ciack che si susseguono scandendo un tempo dettato dalla lavorazione del film e non dal racconto recitato. Gli può capitare di recitare allʼinizio una scena che andrà collocata alla fine del film e viceversa. Quindi la sua concentrazione deve essere rapida per entrare immediatamente nella situazione dettata da quel pezzo di copione tanto che molte volte non si renderà neanche conto completamente del suo reale ruolo allʼinterno del racconto filmico. La tecnica cinematografica, poi, influenza notevolmente la recitazione giacché con lʼuso dei piani ravvicinati (Primi e primissimi piani), lʼattore si trova vicinissimo allo spettatore per cui la sua diventa una micro-recitazione: non cʼè bisogno di gesti plateali mentre la mimica facciale diventa di
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K.S. Stanislavskij, Il lavoro dellʼattore su se stesso, Roma-Bari, Laterza, 1990.
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importanza primaria perchè è il volto il vero protagonista dello schermo. Bisogna rilevare che lʼattore cinematografico è maggiormente esposto alla manipolazione del regista essendo questʼultimo lʼunica persona ad avere chiaro tutto il progetto filmico. Alcuni registi, come Fellini ad esempio, cercano gli attori per i loro film esclusivamente con un criterio di corrispondenza fisica73, così molte volte lʼattore si trova ad essere un tassello inconsapevole di un puzzle più ampio. Sul versante teatrale ricordiamo Strehler che mimava davanti allʼattore il comportamento che pretendeva da lui. Questa cattiva abitudine di considerare lʼattore alla stregua di un oggetto deriva dalla concezione tradizionale del regista-onnipotente, quasi un demiurgo che fa e disfa a suo piacimento le situazioni narrative servendosi di attori-marionette pronte a realizzare le sue immaginazioni. Ma non dobbiamo pensare che questo rapporto sia tutto sbilanciato a favore del regista perchè nella relazione artistica attore-regista accade qualcosa di magico che trasforma il presistente creando nuove possibilità fino a quel momento neppure pensate. È ciò che accadde tra Fellini e Leopoldo Trieste che, in questa intervista74 ricorda come lʼincontro con il Maestro abbia cambiato la sua carriera: «Credo che sia stata la cosa più divertente della mia vita. Questa mia trasformazione da attore drammatico ad attore comico, cinematografico, fu determinata dal mio incontro con Federico Fellini. Mi ricordo quando mi chiese di fare un provino per il suo film. Io non lo conoscevo e mi opposi decisamente, lui voleva un attore comico e per me era quasi unʼoffesa. Ma Fellini era un tipo simpatico e riuscì a convincermi. Mi mise dietro alla macchina da presa e mi domandò: “Se tu dovessi scrivere una poesia per la tua donna, cosa scriveresti, un madrigale?” Io risposi, no, un sonetto. “Bene, proviamo a fare un sonetto” così cominciai. Ma mentre parlavo con la camera davanti sentivo come un filo che mi legava a questʼuomo, quegli occhi intensi che mi guardavano erano come un filo che mi conduceva, che addirittura mi ispirava le parole. Tutto veniva bene, veniva facile... per me fu una sorpresa. Non credevo di essere capa73
Fellini dedicava molto tempo nel suo ufficio di Cinecittà ad interminabili provini alla ricerca dei suoi personaggi che erano già ʻschizzatiʼ a matita sul suo tacquino poi ri-scriveva il personaggio incorporandolo nellʼattore che aveva scelto.
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Lʼintervista a Leopoldo Trieste, che poi diventerà il protagonista dello Sceicco bianco (1952), è inserita nei contenuti speciali della versione DVD del film.
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ce di tanto. Fellini non era uno che preparava le scene nè provava con gli attori. Faceva tutto sul set quando si girava il film. Lui componeva tutto allʼistante aveva una rapidità di decisione incredibile una memoria di ferro... sembrava che più che girare il film lo stesse già montando tale era la sicurezza di mettere la macchina nelle angolazioni giuste. Io come attore fui trascinato dalle sue intuizioni e forse posso dire che aveva visto in me delle qualità che io stesso non conoscevo... e le ha portate fuori tanto che ho cambiato la mia carriera da attore teatrale drammatico ad attore cinematografico con una vena comico-drammatica. Mi sembra incredibile come sia potuto avvenire questo cambiamento così radicale in un istante!». La testimonianza dellʼattore calabrese dimostra come un rapporto di tipo artistico basato su una ʻrelazione apertaʼ e non pregiudiziale (in cui lʼincontro attore/regista avviene in una situazione in cui le intuizioni del regista e le capacità dellʼattore si scontrano e si confrontano in un processo interattivo) è altamente produttivo di trasformazioni non solo a livello artistico. Forse sarebbe auspicabile una sorta di etica cinematografica che preveda una maggior consapevolezza dei ʻmaterialiʼ umani impiegati e quindi riconoscere nellʼattore quellʼinsieme di caratteristiche proprie che costituiscono le risorse del suo vissuto come persona cui attingere per raccontare artisticamente. Dʼaltronde ogni essere umano, per dirla con Shakespeare (All the word is a stage), in qualche modo è unʼattore che interpreta il suo ruolo nella società. Lʼillustre sociologo Erving Goffman, il padre della sociologia della quotidianità, nel suo fortunatissimo saggio75 è convinto che nella Every day life lo scambio continuo di informazioni non avvenga a caso ma secondo regole precise simili a copioni. E per spiegare la propria concezione interattiva fa ricorso alla ʻmetafora drammaturgicaʼ secondo la quale nella vita sociale ciascuno di noi è un interprete che si pone in scena sul palco della società utilizzando diversi mezzi, quali ad esempio la capacità di controllare espressioni, posture e tonalità della voce, affinché la propria performance risulti efficace e credibile. Oltre che dei singoli attori Goffman parla anche delle rappresentazioni
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Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, il Mulino, 2005 I ed. 1969
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messe in scena dai gruppi sociali di fronte ad altri gruppi. Un esempio, che nel suo volume cita più volte, è quello dei camerieri di un hotel delle Isole Shetland (dove aveva svolto la sua ricerca): egli osserva che nello ʻspazio di palcoscenicoʼ il gruppo dei camerieri di fronte al proprio pubblico (i clienti del ristorante) sembra inscenare una rappresentazione mostrandosi deferente, umile, discreto con posture gestuali composte e contenute. Ma questo accade solo quando il pubblico è presente, mentre nello spazio di retroscena nascosto al pubblico (la cucina), i camerieri hanno un comportamento del tutto diverso, molto più informale e irrispettoso. La vita sociale, per Goffman, si divide in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè in spazi pubblici in cui le persone inscenano una precisa rappresentazione e in spazi privati, dove gli attori si sentono liberi e in cui non ʻrecitanoʼ. Questa naturale predisposizione delle persone a cambiare comportamento in relazione alla situazione nella quale si trovano ad interagire ha reso possibile lʼimpiego di gente comune nello spettacolo cinematografico in qualità di attori. Un esempio per tutti è La Terra trema (1945) di Luchino Visconti girato interamente con i pescatori siciliani di Acitrezza. 7.9 Roberto Rossellini e gli attori non professionisti Un autorevole assertore di queste possibilità è Roberto Rossellini che prediligeva lavorare con attori non professionisti dai quali riusciva a trarre quelle capacità espressive che erano in loro latenti. In unʼintervista del 1972 Rossellini racconta: «Se lavori con un attore non professionista, devi scoprire cosa può darti: Può essere la sua presenza fisica, un certo modo di muoversi: Niente di più di quello che è abituato a fare. Se lo studi, lo controlli un poʼ e gli dai modo di esprimere queste cose, diventerà un buon attore. Altrimenti no […] devi fargli fare i suoi movimenti, quelli che per lui sono naturali. Anche se fosse soltanto mettersi le dita nel naso. Qualsiasi cosa ma secondo il suo modo di fare. Ognuno di noi ha un suo modo di esprimersi. Lʼattore non professionista ha un suo modo di gestire: tu lo noti, lo tieni a mente e poi gli dici di rifare quello che hai osservato. I suoi muscoli sono abituati a quei movimenti, e così lui si sentirà subito a suo agio».76
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Roberto Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, op.cit., p. 408
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Rossellini ci spiega come, con un trucco da grande mago quale era, riusciva ad usare le risorse degli attori in maniera opposta alla loro visibilità esteriore. Ce lo racconta, sempre nella stessa intervista, svelandoci un metodo che lui chiama di contrasto: «Lo guardi (indica uno studente seduto in aula, molto teso), guardi come si controlla, è lo studente che meno si è mosso in questʼaula. Come potrei utilizzarlo? Se sfrutto questa attitudine in una situazione contraria, allora diventerà subito drammatica! Se prendo quellʼimmobilità e la applico ad un personaggio molto violento, che personaggio ne verrà fuori! Molte qualità vanno giocate per contrasto. In La prise de pouvoir par Louis XIV ho utilizzato questo contrasto in molti modi. Quello che interpretava il re si vergognava tutto il tempo, non aveva il coraggio di dire le battute, era timido e se le dimenticava. Io dovevo sfruttare quellʼelemento perchè fisicamente era proprio il tipo di cui avevo bisogno. Bastava un poʼ di astuzia per riuscirci. Proprio perché era così rigido dava lʼimpressione di essere molto forte, di avere una grande volontà. Capivo che dovevo puntare tutto su quella rigidezza. Come fare per renderlo ancora più rigido? È abbastanza semplice. Basta scrivere le battute su una lavagna messa alla giusta distanza, in modo che non debba muovere gli occhi per leggere: tenderà ad essere molto rigido. Erano queste le astuzie necessarie per farlo recitare».77 Queste parole di Rossellini ci danno lʼopportunità di comprendere la natura del suo metodo che in realtà si basava non su tecniche propriamente cinematografiche, ma sullʼosservazione e sullʼesperienza dellʼuomo in quanto essere ad una dimensione. La sua opera e i suoi film, del resto, sono tutti improntati al recupero dei valori etici di unʼumanità che lotta contro le avversità sociali e della vita. In un altro passo della stessa intervista Rossellini rivela la sua arguzia di osservatore quando dichiara: «Basta vedere qualcuno per dare un giudizio su di lui. Lʼaspetto fisico è sempre molto legato alla psicologia. Non cʼè dubbio. È un giudizio sommario ma è così. Perciò scelgo la persona fisicamente perchè corrisponde a un certo tipo psicologico, È questo il mio metodo».78
77
ivi, p. 409
78
ivi, p. 412
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In effetti le persone in qualche modo incorporano le loro esperienze passate nel senso che sono leggibili nella loro fisicità, nel loro modo di usare il corpo. Alexander Lowen, padre della bioenergetica, parla di corazze caratteriali descrivendo le diverse tipologie psicologiche a partire dalla loro struttura fisica. La conoscenza della CNV e le discipline ad essa connesse costituisce un elemento essenziale per chi voglia imparare a fare cinema. Qui sotto una foto che ritrae i tre registi italiani che hanno usato spesso attori non professionisti nei loro film.
Rossellini tra De Sica e Fellini (1958)
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Cap. VIII Cinema come specchio dellʼanima.
Esiste una metodologia orientale importata in occidente dai discepoli di Gurdjieff79 che descrive i nove tipi psicologici di cui è costituita lʼumanità. Sarà bene spendere qualche parola su questo strumento sofisticato di conoscenza perchè costituisce un modello di cui possiamo servirci sia nella costruzione dei personaggi, che nel casting e nella direzione degli attori, oltre che aiutarci a comprendere i comportamenti nei processi di interazione umana. Il suo nome è Enneagramma: dal greco ennea (nove) e gramma (segno) Lʼenneagramma o, come è stato chiamato, diagramma dellʼanima, fa parte delle conoscenze esoteriche della filosofia Sufi. È arrivato a noi da quando Gurdjieff lo fece conoscere, in occidente al suo gruppo di seguaci. Infatti si deve ad uno di loro, il boliviano Oscar Ichazo e poi allo psichiatra cileno Claudio Naranjo80 la prima stesura scritta e la successiva divulgazione in ambiti, comunque, molto ristretti. Ma prima di Naranjo lʼEnneagramma rimaneva un modello esoterico da usare per la propria elevazione spirituale (i Gesuiti lo hanno conosciuto ed usato nei loro esercizi spirituali) giacché, riconoscendo la parte in ombra di noi (quella negativa, il peccato) forniva gli strumenti per combatterla e raggiungere lʼobiettivo della salvezza: la parte in luce, la redenzione.
79
George Ivanovitch Gurdjieff, filosofo esoterista nato nel 1877 (?) ad Alexandropol, in Russia ai confini con la Persia. Con i suoi ʻCercatori di Veritàʼ che annoveravano fra lʼaltro geografi, archeologi e medici, superando molteplici difficoltà, riuscì ad entrare in contatto con alcune comunità isolate dʼAfrica, del Medio Oriente e dellʼAsia Centrale, e a raccogliere in seno ad esse frammenti sparsi di un insegnamento tradizionale. Poi, praticando le più rigorose discipline interiori, riuscì a ricostruire lʼunità della conoscenza che cercava.
80
Psichiatra, psicoterapeuta. Allievo di F. Perls, è stato uno dei primi componenti dellʼEsalen Institute. Insegna allʼUniversità di Berkeley. Il suo ultimo saggio sullʼEnneagramma è: Claudio Naranjo, Ennea-type Structures, Gateways Books & Tapes, Nevada City (USA), 1991
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LʼEnneagramma, come abbiamo detto, faceva parte delle conoscenze esoteriche che non potevano essere rivelate se non agli iniziati perchè, se usate impropriamente, avrebbero potuto costituire unʼarma con la quale manipolare le persone. Attraverso questa metodologia, infatti, ci basta uno sguardo (come diceva Rossellini) per comprendere a quale enneatipo appartenga la persona e quindi prevedere facilmente i suoi comportamenti. Nellʼeconomia del nostro discorso81 affronteremo soltanto quella parte dellʼEnneagramma che riguarda la costruzione dei tipi psicologici e le loro motivazioni comportamentali. Ciò ci servirà per comprendere il perchè una persona adotta quel determinato comportamento e cosa cʼè alla base dei percorsi mentali (sinapsi neurali che creano modelli comportamentali) che provocano le risposte adattive alla vita. È indispensabile, infatti, conoscere le tipologie per costruire storie credibili e coerenti con il messaggio che si vuol trasmettere. Lʼenneagramma lo si può usare nella scrittura scenica, nel casting e nella direzione degli attori, oltre che, naturalmente, nella vita. 8.1 Gli enneatipi Prima di esaminare in dettaglio i singoli enneatipi occorre avvertire che la definizione letterale dellʼenneatipo non corrisponde a ciò che intendiamo nel linguaggio comune. È solo un nome che da vagamente lʼidea del personaggio che descriveremo nelle sue caratteristiche enneatipiche. In qualche testo che si occupa di questa disciplina potrete trovare altri nomi ma il contenuto non cambia. Passiamo ora alla descrizione dei nove tipi psicologici che chiameremo enneatipi. Essi sono:
81
Non è possibile in questo contesto approfondire la conoscenza di questa disciplina giacchè la si può imparare solo con una costante pratica ed esercizi eseguiti sotto la guida di un esperto. Su questo tema, oltre al citato volume di Naranjo, vi è una nutrita bibliografia, anche in lingua italiana e Corsi esperenziali che si svolgono in tutto il mondo.
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1.
Il perfezionista
2.
Lʼaltruista
3.
Il Manager
4.
Il romantico tragico
5.
Il ricercatore o eremita
6.
Lo scettico
7.
Lʼartista
8.
Il boss
9.
Il diplomatico
1 Il perfezionista vuole che ogni cosa sia al suo posto e si da un gran da fare per realizzare un casellario dove tutto abbia la sua collocazione giusta. Giudica continuamente e separa ciò che è giusto da quello che è sbagliato. La sua parola dʼordine è: tutto deve essere perfetto. Non ammette errori che, invece, cerca di evitare. Naturalmente nel mondo non tutto è perfetto e per questo è molto facile che accumuli rabbia nei confronti di chi non è come lui. Non cede quasi mai al sentimento che cerca, invece, di controllare perché lo ritiene imperfetto. Solo quando vede che tutto va bene secondo i suoi piani e quindi si sente in piena forma si concede al sentimento. Ragiona in maniera rigida: per lui tutto è bianco o nero, perdendosi le sfumature del grigio che la vita ci offre.
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2 Lʼaltruista La sua preoccupazione principale è aiutare gli altri al fine di essere amati, una forma di generosità egocentrica giacché quando questo non si verifica esprimono la rabbia nei loro atteggiamenti passivo-aggressivi pretendendo riconoscimenti dalle persone da cui dipendono adottando strategie che aumentano il loro essere indispensabili facendo sentire in colpa gli altri: “dopo tutto quello che ho fatto per te, ecco come mi ricompensi!” I due tendono a reprimere i propri bisogni e si identificano/fondono spesso con gli altri creando rapporti di dipendenza passiva divenendo, a volte, vendicativi e distruttivi. Il loro problema è lʼio separato. Non avendo chiara la percezione del sè la ricercano negli altri investendo troppe energie allʼesterno tanto che ne rimane poca per se stessi. Per avere un rapporto proficuo con i due basta chiedere il loro aiuto e metterli in una situazione tale da far sembrar loro di essere indispensabili. 3 Il Manager è una persona iperattiva, un grande organizzatore. Ha bisogno di avere molte persone alle sue dipendenze che devono ubbidire ai suoi ordini. Abbiate fiducia in me perchè so io come fare. La loro preoccupazione principale è il successo e la conquista. La loro identità è legata a ciò che fanno. La loro intelligenza è centrata sul cuore: usare lʼemozione per realizzare lʼimmagine di sé, ossia fornire agli altri una buona apparenza. Cerca il successo a tutti i costi, infatti la sua parola dʼordine è: Avere successo, quindi la loro strategia di vita è quella di realizzare continuamente che sfocia spesso in un fare esagerato. Vuole essere accettato per quello che fa, che riesce a realizzare, per cui lʼimmagine di se e lo status sociale sono per lui di unʼimportanza esagerata. Qualcuno di voi forse avrà riconosciuto in questa figura un singolare politico italiano. 4 Il romantico tragico è molto riflessivo. Fa molto poco perchè preferisce la introspezione allʼazione. Attira su di se il dolore del mondo. È un buon confidente di chi sta male. Sa ascoltare e si immedesima spesso con il suo interlocutore. Parla con voce calma e suadente toccando le persone discretamente perchè ha bisogno di sentire il loro contatto fisico. Crede che la vita sia sofferenza e che la felicità non sia di questa terra. Preferisce vivere di attese piuttosto che agire. 5 il ricercatore/eremita è una persona che studia molto. Accumula notizie e informazioni perchè crede che la conoscenza sia il valore più importante. La vita di relazione non è il suo forte mentre preferisce stare da
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solo ad analizzare e riflettere. Non lo fa per emergere, ma per realizzarsi attraverso il sapere. Non è interessato affatto a cosa la gente pensi di lui. La sua parola dʼordine è: conoscere. 6 Lo scettico è un poʼ come Don Chisciotte. Pensa che nessuno sappia fare le cose meglio di lui. È estremamente sospettoso e vede nemici dappertutto. Quando non ha nemici se li crea per combattere e quindi attivarsi (si pensi ai mulini a vento). Passa il suo tempo a far strategie e crede che ci sia sempre qualcosa di nascosto da scoprire. Si circonda di gente di poco valore (i Sancho Panza) da cui richiede fedeltà assoluta e non vuole essere contradetto per nessuna ragione. La sua parola dʼordine è: Mi posso fidare solo di me stesso. 7 Lʼartista è un giocherellone. Quello che ricerca è il piacere. Un poʼ come Peter Pan. Non cresce mai e rimpiange lʼinfanzia perduta. Fa molte cose ma raramente le porta a termine perchè vuole avere sempre davanti cose da fare. Ha paura di bloccarsi e quindi mette in cantiere molti progetti. Prende decisioni in un attimo e riflette raramente. La sua parola dʼordine è: Mi piace piacere, per questo è anche chiamato epicureo. 8 Il boss deve avere sotto il suo controllo il suo clan. Cerca persone di cui si può fidare e le fidelizza. A loro dedica la sua attività. È autoritario ma per la sua ʻfamigliaʼ potrebbe dare anche la vita. Non ama apparire in prima persona ma vuole essere rispettato e cerca gratificazioni continue per la sua opera benemerita che svolge prevalentemente per la sua cerchia di amici fidati. 9 Il diplomatico è un tipo mite a cui piace organizzare incontri e feste in cui tutti gli invitati si trovino a loro agio, cerca lʼarmonia tra le cose e le persone. Difficilmente si arrabbia perchè preferisce la comprensione al conflitto. Non è molto attivo, riflette molto prima di prendere una decisione e si attiva solo se la sua azione non reca disturbo a nessuno.
8.2 Analisi comportamentale dei personaggi e loro interazioni Come si può facilmente comprendere questi comportamenti hanno alla base dei veri e propri programmi che le persone elaborano rivelando il modo di utilizzare le loro esperienze precedenti. È dunque un modello di cui possiamo servirci per comprendere e strutturare meglio i processi di
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interazione tra le persone. Come possiamo utilizzare tale disciplina nel cinema? Nellʼanalisi del film la parte attinente ai personaggi ed alle loro relazioni, che danno vita allʼintreccio narrativo, non può prescindere da tali considerazioni. Per esempio nei due film citati: Ultimo tango a Parigi e Il sorpasso è facile scorgere nel personaggio di Marlon Brando un numero quattro (romantico tragico) per la sua maniera di convivere con il proprio dolore ed essere sempre in contatto con i suoi sentimenti... anche quelli più primordiali e animaleschi! Essendo il quattro un KA (cenestetico auditivo) ha il canale video compresso e quindi non si attiva nellʼazione se non quando viene stimolato nel ʻsentireʼ (Faccio perchè sento di dover fare). Il personaggio infatti si lascia andare al suo destino, non prende iniziative se non quelle che gli facciano sentire di esser vivo attraverso il sentimento che, in questo caso, viene ʻfiltratoʼ dal sesso. Non è un caso che il regista Bernardo Bertolucci lo abbia affiancato con Maria Shneider che è una VK (visiva-cenestetica) con il canale auditivo compresso (potrebbe essere un sette: artista). La co-protagonista, infatti è come una foglia al vento, si lascia sedurre cercando di svolazzare tra chi la vuol condurre a se. È succube delle situazioni ed è attirata dal piacere, ma si sente continuamente ʻinvasaʼ dalla rete che il ʻromanticoʼ Brando le tesse portandola fuori dal tempo (infatti tra i due cʼè il patto di non voler sapere niente del loro passato) e rinchiudendola in uno spazio cenestetico: lʼappartamento dove avvengono i loro incontri. Ad integrare lʼintreccio il racconto si avvale di un ulteriore elemento: Jean Pierre Léaud, il ragazzo di Jeanne (è questo il nome del personaggio interpretato dalla Schneider), un tre (manager) pieno di iniziativa, sa quel che vuole ed è sempre in grande attività. Questo contrasto tra i due uomini di diverso carattere porta la protagonista ad una sua definizione maggiore. Jean Pierre sta girando un film sulla vita di Jeanne così la costringe a guardare nel suo passato rifiutato dallʼaltro uomo. E poi cʼè un doppio (interpretato dallʼindimenticabile Massimo Girotti) che entra quasi di sfuggita nel film, come unʼombra, a darci qualche ragguaglio sul suicidio della moglie di Brando: Rosa. Il regista mostra i due personaggi insieme come se si specchiassero a vicenda con due vestaglie identiche: un regalo di Rosa al marito e allʼamante. Il loro incontro in realtà serve a definire la figura della suicida Rosa che sembra aver cercato nellʼamante una sbiadita fotocopia del marito, e in questo specchiarsi tragico forse ha perso il senso della realtà, la sua identità e con essa la sua vita. Questo molteplice intreccio fa si che i personaggi (come del resto avviene nella vita) definiscano le loro
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identità in relazione con gli altri. La struttura narrativa, infatti, trae la sua energia sviluppando i contrasti tra gli enneatipi creando così una variegata e policroma tessitura dove i colori alle volte si mischiano alle volte si sfiorano nei loro contorni ed altre volte schizzano via dalla tela... Lʼepilogo della storia arriva proprio quando Brando sembra aver fatto i conti col suo passato e si sente pronto a vivere affrontando il presente, ma Jeanne è ormai fuori dalla trappola cenestetica e la lacera. Nel momento in cui Brando le dichiara il suo amore e le dice di voler conoscere il suo nome il gioco è finito. Con un colpo di rivoltella Jeanne mette fine alla vicenda disconoscendola. Le ultime parole che le escono dalla bocca infatti sono: «Non lo conosco… non conosco il suo nome… voleva violentarmi». Questo finale tragico sembra la naturale conseguenza di ciò che si era costruito in precedenza poiché i personaggi in realtà rimangono sempre nei loro schemi comportamentali: Paul (Brando svela il suo nome solo nellʼultima scena) nei suoi misteriosi ricordi che lo trascinano nel passato, e Jeanne nelle sue vivaci quanto frenetiche azioni che la portano verso lʼaffermazione di se attraverso il piacere di piacere, ma quando sente che qualcuno potrebbe fermare questo suo felice svolazzare per costringerla a guardare in faccia con responsabilità la realtà, reagisce istintivamente e riprendendosi la propria libertà. Da quanto detto sopra possiamo comprendere come è possibile costruire una storia credibile in cui i personaggi seguano i loro programmi di base (gli enneatipi) e attraverso questi sviluppino gli intrecci propri di ciascun segno di appartenenza creando lʼintreccio drammatico. Naturalmente lʼenneagramma è solo un possibile modello e come tale va utilizzato: esso ci indica i possibili percorsi congruenti di un enneatipo secondo una mappa prestabilita nella quale possiamo muoverci a secondo la direzione che vogliamo imprimere alla vicenda. Il modello è come una mappa che contiene alcune rappresentazioni grafiche della realtà a cui si riferisce. Pertanto ci può solo aiutare ad avere unʼidea dʼinsieme della realtà in cui stiamo operando. Lʼuso della mappa enneatipica, quindi, è solo orientativo giacchè non costituisce nè sostituisce la realtà stessa ma ci aiuta a riconoscerla. Utilizzare lʼenneagramma in senso passivo (giocare negli intrecci tra i personaggi come con le pedine su una scacchiera) per costruire storie non è efficace. Occorre, invece, usarla in senso dinamico e cioè partire dalla realtà per osservarla, comprenderla, quindi prospettare delle soluzioni drammatiche che risultino coerenti narrativamente e stilisticamente con il pensiero che vogliamo comunicare.
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8.3 La rottura degli schemi comportamentali Non dobbiamo pensare, però, che lʼenneagramma costituisca una trappola entro la quale siamo destinati a rimanere ingabbiati. Nessuno è condannato a ripetere i suoi schemi comportamentali, anche se i modelli sinaptici, come abbiamo detto, trattenendo memoria, divengono stabili e ostacolano fortemente il cambiamento. Ma si può cambiare a patto che lo si voglia e si sia consapevoli della propria situazione. Se pensate al vostro passato sicuramente troverete alcuni momenti in cui ci sono stati dei cambiamenti nella vostra vita. Ricordate la drammaticità di quei momenti? Le emozioni provate? Quei momenti si possono paragonare a ciò che in sceneggiatura viene chiamato plot point cioè un punto di svolta importante per la trama del racconto. Il punto di svolta di una storia è forse quello che richiede maggiori risorse da parte del protagonista e attrae lo spettatore perchè da quel momento in poi si apriranno altre strade da percorrere: è come un salto nellʼignoto che farà acquistare al racconto una vitalità nuova. La rottura degli schemi comportamentali crea nuove aspettative e sʼimpone allʼattenzione dello spettatore. Rompere gli schemi è essenziale per tenere vivo lʼinteresse di chi guarda ciò che noi proponiamo. Lo spettatore non deve dire mai: “Me lʼaspettavo” dobbiamo stupirlo per portarlo sempre su altri livelli dʼosservazione. Il cinema è pieno di questi esempi. Nel Il sorpasso il personaggio interpretato da Trintignant che cerca di rompere lo schema del timido e diligente studente e viene spinto a trasformarsi in un viveur innesca i maggiori risvolti narrativi del film. In Sedotta e abbandonata (P. Germi, 1964) la protagonista femminile (Stefania Sandrelli) rapita con scopo di matrimonio non si comporta come tutte le altre siciliane e da questo inusuale comportamento la storia prende risvolti imprevisti. A volte è lʼintera storia del film che si presenta come una rottura di schema. Ad esempio lo schema dei pellerossa cattivi e dei bianchi buoni dei primi western americani si ribalta completamente in film come Soldato blu (Ralph Nelson, 1970), Balla coi lupi (K. Costner, 1990), Piccolo grande uomo (Arthur Penn, 1970) dove sono i bianchi ad essere i malvagi. Rompere lo schema vuol dire proporre nuovi modelli comportamentali che vanno a collidere con quelli usuali, conosciuti e prevedibili e per questo dispiegano tutta la loro carica eversiva.
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PARTE SECONDA Elementi costitutivi del film
Cap IX Le fasi di realizzazione
Dopo aver trattato gli elementi fondanti del cinema, analizzeremo ora il percorso mediante il quale un film si realizza e che ne rappresenta lʼaspetto costitutivo. Tre sono le fasi fondamentali attraverso le quali il racconto cinematografico si trans-forma in film: -
PRE-PRODUZIONE
-
PRODUZIONE
-
POST-PRODUZIONE
La pre-produzione. Questa fase comprende quelle attività necessarie alla preparazione di tutto quel che occorre per arrivare a poter girare il film e cioè 1. Lʼideazione: (soggetto e sceneggiatura) 2. Le location (trovare i luoghi adatti per ambientare le varie scene) 3. Il Casting (scegliere gli attori che saranno i protagonisti, i comprimari, i figuranti e le comparse del film) 4. Il piano di lavorazione (pianificare le risorse per ottimizzare il lavoro) 5. Il preventivo di spesa (analisi dei costi) 9.1 Lʼideazione Il cammino per realizzare un film inizia dallʼidea base del racconto detto ʻsoggettoʼ. Esso è una descrizione sommaria (della lunghezza di circa una pagina) della storia. Tutte le storie in astratto sono buone per un film ma le più efficaci sono senzʼaltro quelle che presentano caratteristiche emozionali forti e dove lʼinatteso provoca maggiore attenzionalità nello spettatore: lʼinusuale, lʼincredibile, il fuori dal comune, il non visibile hanno più probabilità di
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Fasi di realizzazione del film
incontrare il favore del pubblico giacché il cinema, essendo un atto magico, deve far veder ciò che non è alla portata dei nostri occhi nella vita quotidiana. Dobbiamo offrire una motivazione valida per far si che lo spettatore decida di abbandonare la sua comoda poltrona di casa, comperare un biglietto e scegliere di andare a vedere il nostro film piuttosto che unʼaltro. La storia, per essere attrattiva, secondo Aimeri,82 deve rispondere ad una semplice domanda: Cosa succederebbe se... Prendiamo un esempio: Cosa succederebbe se in futuro i computer prendessero il sopravvento sullʼuomo? (2001 odissea nello spazio, Terminator etc.) E se un ragazzo vedesse esaudire un suo desiderio e diventasse improvvisamente adulto? (Big e, remake italiano Da grande). Se la risposta alla domanda magica risulta interessante vuol dire che lʼidea drammatica stessa sarà avvincente; viceversa se è banale, anche il film lo sarà. Ad esempio: Cosa succederebbe se una ragazza si innamorasse di un ragazzo? Questa idea così come è formulata non è di per se interessante perchè è troppo usuale. Quindi dovremmo modificarla aggiungendo degli elementi che la possano rendere drammatica per esempio: cosa succederebbe se una ragazza si innamorasse di un ragazzo e le loro famiglie fossero acerrime nemiche? Riconoscerete in questo soggetto Romeo e Giulietta di W. Shakespeare. Quel che fa funzionare unʼidea drammatica è il conflitto che provoca una destabilizzazione delle azioni abituali e spinge verso la ricerca di un nuovo equilibrio. A ben vedere è una situazione molto simile al magico se... che Stanislawskij83 usava nel suo famoso metodo per innescare processi dinamici nelle motivazioni degli attori capaci di sviluppare le azioni drammatiche. La motivazione, poi, deve attenere ai valori più alti e universali in maniera che la maggior parte degli spettatori possano riconoscersi. Molti manuali di sceneggiatura, ai quali rimandiamo, trattano abbastanza esaurientemente le fasi della scrittura cinematografica (soggetto, scaletta, trattamento, sceneggiatura) che consistono in una sorta di tappe di avvicinamento alla stesura finale, la sceneggiatura: uno strumento narrativo
82
L. Aimeri, Manuale di sceneggiatura cinematografica, Utet, Torino, 1998
83
K. Stanislawskji, Op. cit.
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tecnico per poter passare alla fase della produzione, cioè le riprese. Queste fasi si giustificano anche per il fatto che la realizzazione di un film richiede grosse risorse finanziarie, queste sono reperite dal produttore (che è quella figura professionale in grado di trovarle sul mercato) mettendo insieme i vari soggetti interessati allʼoperazione. Perchè il produttore possa ʻfiutare lʼaffareʼ, o comunque essere interessato allʼimpresa, è necessario fornirgli un piccolo assaggio di quel che sarà il film vero e proprio: il soggetto appunto. Scrivere un soggetto non è cosa semplice perchè, a parte la bontà della storia, bisogna avere una capacità di sintesi tale da dare subito lʼidea del racconto cinematografico mettendo in luce le parti più interessanti e quelle spettacolari di tutto il racconto. Il soggetto si dice originale se proviene da unʼidea nuova; derivato se si riferisce ad un opera presistente (ad es. un racconto); remake se si basa su un film precedente. Lʼarte di scrivere per il cinema non ha regole precise. Ogni sceneggiatore ha il suo metodo e varia a secondo le esigenze e il temperamento di chi se ne deve servire. Nel cinema dʼautore (in cui il regista è anche lʼautore del soggetto, e qualche volta perfino della sceneggiatura) cʼè chi ha bisogno di una sceneggiatura di ferro (Pudovkin annotava anche i movimenti di camera e così anche Eisenstejn e Hitchcock) e a chi basta un canovaccio (Fellini e Rossellini) perchè è sul set (il luogo dove si gira il film) che le decisioni finali vengono prese. Hitchcock diceva che il film è finito quando la sceneggiatura è terminata mentre Rossellini arrivò a dichiarare che le sceneggiature servono solo a rassicurare i produttori! Il ruolo strumentale della sceneggiatura ha fatto si che molte di queste non fossero conservate e così sono andate perdute irrimediabilmente le tracce di quella parte letteraria del film che è come il progetto su carta della costruzione di un edificio. È difficile, quindi, per lo storico del cinema risalire agli avvenimenti della lavorazione del film (tranne in alcuni casi in cui i documenti sono stati conservati) e documentarne le vicende, i percorsi e le immancabili variazioni rispetto allʼidea originaria perchè, essendo la sceneggiatura, come abbiamo detto, un mezzo, essa va adattata al momento delle riprese in quel luogo e con quegli attori per poter ottenere il meglio rispetto alla situazione contingente in cui ci si viene a trovare. Fino a poco tempo fa al cinema non era dedicata molta importanza dai mass media che lo vedevano come un concorrente, per cui i trailer, i backstage, le interviste agli autori e agli attori (quello che viene chiamato nei moderni
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Fasi di realizzazione del film
DVD ʻcontenuti specialiʼ) erano scarsi. Questi documenti invece ci danno preziose informazioni sulla vita di un film che molte volte sono essenziali per comprenderne appieno i percorsi di realizzazione. Ricordo una serata trascorsa con Andrea Albino Frezza, regista e sceneggiatore italo-americano che, parlandomi della sua esperienza, mi raccontò un episodio della lavorazione di Quellʼoscuro oggetto del desiderio di Buñuel. Si parlava del perché il grande regista avesse usato due attrici per il medesimo personaggio di Concita e Andrea mi disse che la ragione non era stata per niente stilistica: a metà lavorazione Carole Bouquet entrò in conflitto con Buñuel che la cacciò via dal set. In un secondo momento scelse Angela Molina e continuò a girare il film montando magistralmente il tutto e creando quello sdoppiamento del personaggio femminile che contribuì a sviluppare le già molteplici chiavi di lettura del film! Ma quando il cinema diventa industria, e sono gli americani a dare per primi questo impulso, occorrono delle regole da lavoro in serie per poter realizzare una quantità di prodotti tali da giustificare gli investimenti industriali. Così nascono dei veri e propri modelli che forniscono allo sceneggiatore una mappa (alcune volte anche troppo precisa) dello sviluppo del racconto. Un esempio ne è il modello del famoso sceneggiatore statunitense Syd Field84 che ha messo a punto un metodo di scrittura scenica largamente usato in tutto il mondo. Sul versante europeo85 da sempre contrario a considerare lʼopera dʼarte (anche nellʼepoca della sua riproducibilità tecnica) come un prodotto industriale, si nota un altro tipo di approccio alla questione che tiene presente maggiormente la libertà creativa dellʼautore svincolandolo da quelle regole preconfezionate che son sentite come limiti allo sviluppo narrativo, con il conseguente pericolo di fare opere che, nella loro struttura, si assomiglino tutte. Cosa che, in verità, avviene nel cinema americano delle Major.
84
Syd Field, La sceneggiatura. Il film sulla carta, Lupetti, Milano, 1991 (I ed. 1979)
85
- Francis Vanoye, la sceneggiatura. Forme, dispositivi, modelli, Lindau, Torino, 1998 (I ed. 1991) - Vincenzo Cerami, Consigli a un giovane scrittore, Einaudi, torino, 1996 - L. Aimeri, Manuale di sceneggiatura cinematografica. Teoria a pratica, Utet, Torino, 1998 - G. Robbiano, La sceneggiatura cinematografica, Carocci, Roma, 2000
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Non possiamo, comunque, non soffermarci sul modello di Field perchè è quello che ha avuto maggior successo tra gli sceneggiatori.
9.2 La sceneggiatura: Il modello Syd Field Partendo dalla considerazione aristotelica che un racconto è costituito da un principio, uno svolgimento e una fine86 e rifacendosi anche alle ricerche degli strutturalisti, in particolare a Vladimir Propp87, Field propone un modello di racconto cinematografico chiamato ʻin tre attiʼ in cui sono presenti alcuni elementi costanti ed altri variabili. Gli elementi costanti secondo questo modello sono: 1. lʼimpostazione 2. il confronto (o conflitto) 3. la risoluzione Field prevede dunque uno sviluppo del racconto scandito in tre atti, allʼinterno dei quali si snodano le azioni drammatiche. Lʼimpostazione contiene la descrizione del personaggio principale, lʼambiente in cui vive e le motivazioni del suo agire fornendo le indicazioni necessarie alla vicenda: Chi è il personaggio, dove vive? In quale situazione? Quali sono le problematiche in campo? Quali i suoi obiettivi? Prendiamo ad esempio il soggetto del film Big88: umiliato perchè troppo piccolo, il tredicenne Josh esprime il desiderio di diventare grande e il mago di una macchinetta a gettoni di un Luna Park lo esaudisce. Si trova così un corpo da trentenne con la testa di un tredicenne. Si rende conto che il mondo dei grandi è difficile tanto che vorrebbe ritornare il ragazzino che era. 86
Vedi Aristotile nella Poetica
87
Vladimir Propp, etnologo sovietico, studioso di fiabe popolari, ha svolto unʼanalisi formale nella sua Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino, 1966, (I ed. 1928) rilevando come nelle fiabe di magia le situazioni siano costanti e ne ha individuate 31 (definite funzioni) mentre sono variabili i personaggi e le loro caratteristiche (fisiche e sociali). Queste funzioni costanti costituirebbero un modello antropologico della struttura delle fiabe.
88
Big, di Penny Marshall con Tom Hanks, USA 1988
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Fasi di realizzazione del film
Dopo varie vicissitudini alla ricerca del Mago ci riesce e ritorna dalla sua famiglia. In Big, dunque, lʼimpostazione della storia prevede un protagonista bambino che vuole bruciare le tappe e diventare immediatamente grande (quanti di noi non lo avrebbero voluto?) Il confronto o il conflitto è dato dagli ostacoli che si frappongono al protagonista per raggiungere il suo obiettivo e di solito sono rappresentati da due elementi: •
gli opponenti
•
gli adiuvanti
gli elementi opponenti di solito fanno capo ad un antagonista con il quale egli entra in conflitto, gli adiuvanti rappresentano gli amici che lo aiuteranno a risolvere il conflitto. Nel nostro film il conflitto di Josh sorge dal confronto che il protagonista ha con il mondo degli adulti in cui si trova come un pesce fuor dʼacqua. Il suo giovane amico lo aiuterà a districarsi dal pasticcio nel quale si è cacciato. La risoluzione del racconto prevede, solitamente, il ristabilimento dellʼequilibrio perduto, infatti Josh, dopo una serie di peripezie, ritorna bambino accettando di buon grado la sua originale condizione. Questa è la macrostruttura del racconto. Ma naturalmente su questo tronco si innestano le azioni, frutto di scelte che provocano una catena di complicazioni fino ad arrivare al primo punto di svolta (Field lo colloca verso la fine del primo atto). Nel film preso in considerazione esso è dato dal momento in cui Josh entra a lavorare in una fabbrica di giocattoli e di lui si invaghisce una giovane dirigente. Il protagonista non è allʼaltezza di tenere testa alle offerte amorose rivelando il suo modo di fare infantile. Da questa situazione nascono una serie di conflitti con il mondo dei ʻgrandiʼ; si rende conto della sua inadeguatezza e ricerca soluzioni di adattamento impossibile. Il secondo atto contiene lo sviluppo della storia che arriva al suo momento più drammatico, chiamato il punto di non ritorno (verso la metà del secondo atto). Josh è ormai intrappolato nel mondo degli affari dove scopre che le persone non vogliono giocare, ma si fanno la guerra per il potere. Non ha armi per combattere questa battaglia. Sembra che debba soccombere non vedendo vie dʼuscita: vivere in un corpo da grande con la
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mentalità di un bambino non sembra essere stata una buona idea per Josh! Verso la fine del secondo atto avviene il secondo punto di svolta che inverte la situazione avviandola verso la risoluzione. Quindi inizia il terzo atto in cui il protagonista deve dar fondo a tutte le sue risorse e tentare il tutto per tutto invertendo i suoi obbiettivi: riacquistare lʼequilibrio perduto. Josh decide di ritornare indietro e inizia la ricerca del mago del luna Park per tornare bambino. 9.3 La scrittura scenica Syd Field, con precisione meticolosa, prevede anche i minuti in cui tutto ciò debba avvenire! La maniera di scrivere sceneggiature allʼamericana, infatti, ha una formattazione particolare che dovrebbe assicurare la corrispondenza di una pagina dattiloscritta ad un minuto di film così che si possa agevolmente stabilire la durata delle azioni drammatiche attraverso il materiale cartaceo. Esistono vari software dedicati alla scrittura cinematografica (il più usato è il Final Draft: www.finaldraft.com) che, attraverso una particolare formattazione, crea dimensione di caratteri, spaziatura, tabulazioni ed interlinea tali da rispettare la durata in minuti delle scene (una pagina = un minuto). Il software comprende anche un database per cui è possibile fare lo spoglio della sceneggiatura per location, scene, attori, etc. Lo spoglio (chiamato report nel software preso in considerazione di cui esiste, a tuttʼoggi, solo la versione in lingua inglese) consiste nellʼelenco degli eventi che dovranno essere ripresi e quindi quante volte un attore è presente nelle scene del film, quante volte lo stesso ambiente (location) ricorre nel film etc. Ciò serve per compilare il Piano di lavorazione che è la parte organizzativa della pre-produzione, in cui si ottimizzano le risorse. Ad esempio se una location ricorre per più volte nel film si gireranno tutte le scene (anche se si trovano in momenti diversi nel racconto) ambientate in quel luogo; oppure si organizzeranno le riprese in maniera tale da liberare quanto prima possibile gli attori che hanno meno tempo a disposizione, quelli più costosi etc. Diamo un esempio della forma con cui si scrive la sceneggiatura cosiddetta allʼamericana (che è quella più usata) prendendo come modello la formattazione di Final Draft. La sceneggiatura, come abbiamo detto, è la forma letterale del film, il
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carattere usato è il Courier corpo 12, interlinea 1,5, allineamento testo a sinistra. In essa sono indicati: 1. I luoghi dellʼazione scenica con riferimento al tempo del racconto (DAY, NIGHT, AFTERNOON etc) Le scene sono numerate progressivamente ed ad ogni cambio scena corrisponde un cambio di ambiente (SCENE HEADING) 2. La descrizione dellʼazione (ACTION) 3. I personaggi, (CHARACTER) con la possibilità di usare didascalie descrittive che vengono messe tra parentesi (Parenthetical) 4. I dialoghi tra i personaggi (DIALOGUE) 5. Le transizioni tra le varie scene (dissolvenze, assolvenze, taglio etc (TRANSITION) Diamo un esempio pratico trascrivendo un brano dalla scena 6 di Arancia Meccanica89 mettendo tra parentesi le indicazioni di formattazione presenti in Final Draft e che serviranno per i report (lo spoglio), vere e proprie funzioni di database (Scene Heading, Action etc).
89
Arancia meccanica di Stanley Kubrick, 1971
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(SCENE HEADING)6. INT. CASA DI CAMPAGNA – NIGHT
6
(Action) Suona il campanello della porta, la moglie di un anziano signore va ad aprire non prima di aver messo la catenella di sicurezza alla porta (CHARACTER)SIGNORA (Dialogue)Si... chi è? (CHARACTER)ALEX (voce off da fuori la porta) Scusi signora ci può aiutare, cʼè stato un grave incidente... (Action) La signora apre la porta ancora assicurata dalla catenella, compare la faccia di Alex da dietro la porta (CHARACTER)ALEX Un amico in mezzo alla strada, pieno di sangue, posso telefonare per unʼautombulanza? SIGNORA Mi dispiace ma noi non abbiamo il telefono, dovete andare da unʼaltra parte (Action) Il marito della signora ascolta dallʼaltra stanza mentre sta scrivendo con la sua typewriter ALEX (voce off) Ma signora è questione di vita o di morte
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MARITO Chi è cara? SIGNORA (voce off) Un giovanotto, dice che cʼè stato un incidente, vorrebbe telefonare MARITO (pensando un attimo) Beh, forse è meglio farlo entrare SIGNORA (voce off) Un minuto le dispiace? (action)La signora apre la porta togliendo la catenella di sicurezza SIGNORA (mentre apre la porta) Mi scusi ma in genere non apriamo ad estranei ... (action)la banda dei drughi irrompe violentemente nella casa assaltando la signora.
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Alcuni fotogrammi della scena presa in esame
Questa particolare forma dovrebbe assicurare, come dicevamo, la corrispondenza temporale tra scrittura e azione scenica per cui ogni pagina scritta dovrebbe durare un minuto. Sempre Field stabilisce la durata degli avvenimenti nello sviluppo in tre atti della storia determinando le lunghezze degli atti e dei colpi di scena in maniera forse troppo precisa: Durata del primo atto: 30 pagine (equivalenti a 30 min.) primo colpo di scena (plot point) a pag. 30. Durata del secondo atto: 60 minuti, da pagina 30 a 90. Punto del non ritorno a pag. 60. Durata del terzo atto: 30 pagine, da pag. 91 a 120. Colpo di scena a p. 90, cioè allʼapertura dellʼultimo atto quando avviene la svolta che porterà alla risoluzione.
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I colpi di scena (o plot point) costituiscono dei veri e propri detonatori, delle svolte che fanno prendere al racconto direzioni nuove costringendo lo spettatore a prestare la sua attenzione in maniera maggiore creando unʼattesa nel nuovo sviluppo drammatico. Questa semplice struttura si arricchisce poi di altri elementi come le forze opponenti che ostacolano il raggiungimento degli obiettivi (antagoniste) e quelle coadiuvanti (alleati) che favoriscono la risoluzione del conflitto drammatico.
9.4 Le location. Dove si svolgerà la storia? Se non si gira in studio, dove tutto viene ricostruito (sotto la direzione dello scenografo) secondo le esigenze dellʼazione drammatica, occorre trovare i luoghi (interni ed esterni) pertinenti al racconto. È questo un momento molto importante che attiene a quella fase chiamata dei sopraluoghi ed è organizzata da una figura professionale nuova chiamata location manager. Da quando si preferisce girare in luoghi veri questa figura assume nel cinema una rilevanza sempre più importante. Il location manager è una persona che conosce i luoghi e le situazioni più diverse e spesso si affida ad Agenzie cinematografiche che attraverso un book fotografico (oggi le si può scegliere direttamente da Internet) mettono a disposizione gli scenari più vari per soddisfare le esigenze più diverse dei registi.
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9.5 Le Film Commission Dagli anni ʻ90 sono attive anche in Italia alcune strutture degli Enti locali chiamate Film Commission che prestano una serie di servizi territoriali connessi alla lavorazione del film (location, permessi, trasporti, convenzioni con strutture recettive quali alberghi, ristoranti etc.) Vi è anche un organo che riunisce le Film Commission di tutto il mondo AFCI (Association Film Commission International) che organizza una Fiera annuale nel mese di Aprile a Los Angeles: lʼAFCI location tradeshow. Nate negli Stati Uniti durante gli anni ʼ40 e sviluppatesi in seguito in Australia, Canada ed Europa, le Film Commission sono organizzazioni sostenute da un Ente Pubblico (Stato, Regione, Provincia o Comune), con lo scopo di attrarre produzioni cinematografiche e audiovisive ad operare nel proprio territorio di riferimento fornendo loro aiuto e assistenza a titolo gratuito. Lo sviluppo dellʼindustria audiovisiva è infatti uno straordinario catalizzatore di ricchezza e di attività, economiche e culturali, per qualsiasi territorio. Per raggiungere il proprio obiettivo le Film Commission promuovono le località, attraverso la valorizzazione delle caratteristiche geografiche, paesaggistiche e artistiche, nonché delle professionalità locali e dei servizi, sia di settore che generici, facilitando le incombenze burocratiche e fiscali. Le ricadute positive sul territorio sono sia dirette (in termini di investimenti in ospitalità, servizi acquistati e personale impiegato) che indirette, per la crescita dei flussi turistici nei luoghi ʻpromozionatiʼ dallʼambientazione di film si successo. Avere unʼampia possibilità di scelta per ambientare i film risulta di unʼimportanza determinante poiché nel cinema i luoghi dove si svolge il racconto costituiscono lo sfondo non solo fisico, ma soprattutto mentale di tutta lʼazione drammatica. Dario Argento, ad esempio, ambienta molti dei suoi thriller in palazzi dalle architetture lugubri e oscure che ben si sposano con le trame noir dei suoi film. Bertolucci sceglie lʼappartamento di Ultimo tango a Parigi decadente e disadorno, confuso e disordinato, proprio come i personaggi della sua storia. Ancora in The dreamers vi è una netta separazione tra lʼinterno dellʼappartamento dove vivono isolati i tre personaggi chiusi al mondo esterno in cui si agitano le lotte studentesche del ʻ68 e da cui arriverà alla fine, loro malgrado, la salvezza.
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Se gli ambienti saranno congruenti con la storia essi acquisteranno un valore aggiunto rispetto alla loro reale fisicità trasformandosi in metafore che rafforzeranno i significati comunicativi del racconto. LʼOverloock Hotel di Shining e il suo labirintico giardino innevato diventa una mappa intricata in cui si annidano le follie del protagonista. 9.6 Il Casting Quando uno scrittore crea la sua storia immagina anche il tipo di personaggi che interagiscono nelle vicende raccontate; è come se si facesse un vero e proprio film nella sua mente. Se lʼautore del soggetto coincide con il regista con molta probabilità gli attori che interpreteranno i personaggi sono già decisi, ma se così non fosse chi saranno gli attori che faranno pender vita ai personaggi del film? La fase del casting (scelta degli attori) è molto delicata perchè molti fattori concorrono alla loro scelta. Il primo dovrebbe essere senzʼaltro il punto di vista artistico e cioè la rispondenza di quel determinato attore al personaggio, ma non è sempre così. Infatti la produzione (chi mette le risorse finanziarie) il più delle volte per motivi commerciali incide profondamente imponendo le sue scelte. È il caso delle coproduzioni tra più paesi in cui, per assicurarsi il mercato di entrambi, vengono scelti attori delle nazioni interessate. Non dobbiamo dimenticare che il film, in ultima analisi, è ciò che si vede sullo schermo quindi è sullʼattore che si punta maggiormente per la riuscita della pellicola oltre che ai realizzatori (il regista e la troupe tecnica) che dietro le quinte, non visti, rendono possibile questo evento. Da una banale considerazione si deduce che siamo naturalmente più propensi ad accettare quello che conosciamo piuttosto che quello che non ci è noto. Un attore che ha già dato una buona prova di se è un investimento meno rischioso per il produttore giacché è già entrato nellʼimmaginario affettivo degli spettatori ed avrà maggiore attrattiva di un attore esordiente. Ma allora gli attori esordienti che sono sconosciuti come faranno? Come si fabbrica una stella del cinema?
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9.7 Lo star system Negli States già dagli anni ʼ20 Hollywood, la capitale del cinema americano, mise a punto un sistema per ʻfabbricareʼ i divi del cinema: lo Star system. In che consiste? Si prende un attore su cui investire, gli si fa un contratto per 5 o 10 anni con una paga che, al momento della scrittura allʼattore sembra molto alta perchè non è conosciuto, poi gli si costruisce intorno unʼaurea interessante (spesso inventandosi trascorsi avventurosi o storie dʼamore con personaggi importanti etc.) lo si lancia in una serie di film in cui i personaggi interpretati rafforzano la sua fama iniziale. Perchè tutto ciò funzioni bisogna avere a disposizione non solo la produzione, ma anche la forza distributiva, cioè la capacità di diffondere lʼimmagine creata, su vasta scala. Oggi vi sono dei veri e propri trust in mano alle maggiori case di produzione che controllano anche la catena di distribuzione avendo la maggioranza azionaria delle sale di proiezione. In Italia, ad esempio, la Medusa la fa da padrone avendo la maggioranza di sale nel nostro paese. Il divo poi non va abbandonato. Tra un film e unʼaltro, e per tutta la durata del contratto, per mantenere vivo lʼinteresse del pubblico occorre inventare situazioni attrattive, fuori dal comune che lo facciano vivere come in un film che continua anche nella sua vita privata. Di ciò se ne fanno tramite i mass media, televisioni e stampa (spesso scandalistica) che trovano così materia succulenta per i loro articoli. Come si può notare è un sistema perfido, una sorta di fiction nella fiction, che alcune volte può provocare, non disponendo più lʼattore di una vita privata, seri problemi di identità: dove finisce il personaggio e dove inizia la persona? Il suicidio di Marilyn Monroe ne è una tragica testimonianza. Ma a parte i divi, dove e come si trovano gli attori? Esiste un Annuario degli attori che viene aggiornato annualmente e che elenca, con un breve curriculum e fotografie, gli attori disponibili sul mercato. Questi hanno un agente che organizza, propone e contratta per loro il lavoro artistico. Lʼambiente delle Agenzie cinematografiche è come un covo di lupi giacchè gestiscono non soltanto denaro, ma anche lʼintera persona che a loro si affida. Non è molto difficile trovare persone senza scrupoli che promettono fama e ricchezza, perseguendo invece scopi non proprio cristallini. Molte le truffe in questo campo per gli attori esordienti. Per ovviare a ciò
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lʼAssociazione Nazionale Aspiranti Attori che ha sede a Roma (www.aspirantiattori.it) si propone di fornire assistenza ai giovani attori per aiutarli a districarsi in questa giungla infernale. 9.8 Il piano di lavorazione: ottimizzare le risorse Una volta trovate le location, decisi gli attori e la troupe tecnica occorre compilare il piano di lavorazione che servirà ad organizzare il lavoro di ripresa in maniera tale da ottimizzare risorse umane e finanziarie giacchè le spese più rilevanti iniziano a decorrere dal momento del ʻprimo giro di manovellaʼ. Il piano di lavorazione è uno strumento operativo da cui non si può prescindere. Con esso è possibile controllare su un solo foglio tutte quelle informazioni necessarie allo svolgimento del lavoro di ripresa: dagli appuntamenti alle giornate di lavoro al fabbisogno di scena e tecnico etc. Il piano di lavorazione è una sorta di planning, un calendario organizzato giorno per giorno che contiene lʼindicazione dei giorni di ripresa relativi alle date reali in cui si girerà, le location, gli attori, le scene da girare, lʼindicazione temporale (Giorno, Notte) e quella spaziale (Interno, Esterno). Va compilato attentamente tenendo presente soprattutto la economicità e quindi lʼottimizzazione del lavoro della troupe. Ad esempio si gireranno tutte le scene che si svolgono in un determinato luogo o quelle dove sono presenti gli stessi attori e così via. In appendice troverete un modello di piano di lavorazione che potrete usare per i vostri film. 9.9 Il produttore e il product placement La parte finanziaria del film è sotto il controllo del produttore, ma non dobbiamo pensare che rischi soldi suoi, perchè il ruolo del produttore è quello di creare un ʼcartelloʼ di soggetti finanziatori (Banche, sponsor privati, case di distribuzione cinematografica, emittenti televisive, etc) che partecipino allʼaffare con diverse modalità (coproduzioni, prestito, partecipazione percentuale agli utili, finanziamento in conto pubblicitario etc). Il reperimento delle risorse finanziarie viene scandagliato a 360 gradi. Una nuova tendenza sta prendendo piede anche in Italia: il Product placement (letteralmente piazzare il prodotto). Consiste nellʼinserire allʼin-
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terno di unʼopera cinematografica o televisiva il prodotto che si desidera pubblicizzare. Non è un vero e proprio spot, ma una forma di pubblicità indiretta. In Italia era vietata poiché veniva considerata pubblicità occulta ma la recente “Legge Urbani sul Cinema” (DLS 28/2004) lʼha recepita regolamentandola. Infatti detta Legge include, in un capitolo riservato al Product Placement, la possibilità concessa alla aziende commerciali di comunicare se stesse e i loro prodotti allʼinterno delle pellicole cinematografiche. Questa opportunità, disciplinata da un decreto attuativo, è in Italia una novità che necessita di studi e analisi approfondite dei modelli e delle pratiche che -specie negli USA- vengono utilizzati da vari decenni. Il primo esempio di product placement pare risalga al 1944, al film americano Vertigine di Otto Preminger, in cui la protagonista ordinava, sul finale, un whisky: Black Pony. La marca, completamente inventata, creò tale confusione negli spettatori che produttori di whisky e di film si misero dʼaccordo per fare pubblicità al Jack Daniels, unʼetichetta realmente presente sul mercato. I possibili abbinamenti marche-film sono oggi studiati a fondo per trovare la migliore soluzione di presentazione del prodotto. Gerardo Corti, laureato in Economia e considerato il guru italiano in materia, ha scritto un libro90 in cui affronta il tema in maniera esemplare. In particolare Corti, un ragazzone simpatico e pieno di entusiasmo che ho conosciuto personalmente lʼanno scorso, è lʼinventore del cosidetto Coefficiente Dyʼs, strumento che costituisce la base per la valutazione delle operazioni di Product Placement. In esso son contenuti una serie di parametri (capacità di penetrazione del film, attori utilizzati, numero di copie per la distribuzione, mercati internazionali, durata di esposizione del prodotto etc.) che permettono di stilare un vero e proprio prezzario dellʼoperazione. Queste nuove risorse finanziarie, come si può ben comprendere, per esigenze pubblicitarie, in qualche modo potrebbero modificare la sceneggiatura stessa. Un dibattito apparso su Micromega91 tra Oliviero Toscani (famoso pubblicitario) e Daniele Lucchetti (regista) rileva questi rischi: «Toscani: Se nel Sorpasso di Dino Risi, in cui tutti ricordano un Gassman smagliante alla guida di unʼAurelia, la Lancia avesse pagato, non 90
Gerardo Corti, Occulta sarà tua sorella, Pubblicità, product placement, persuasione: dalla psicologia subliminale ai nuovi media, Castelvecchi editore, 2004.
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Micromega, Almanacco del cinema italiano, Roma, n° 7, settembre 2006, p. 92
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sarebbe stato male. Perchè essere contrari alla pubblicità nei film? Lucchetti: Se la Lancia avesse sponsorizzato Il sorpasso, probabilmente avrebbe chiesto di togliere dal finale lʼincidente in cui muore Trintignant!» Il dibattito è aperto e si cercano soluzioni di compatibilità tra la creatività dellʼautore e lʼesigenze pubblicitarie delle aziende. Lo stesso Gerardo Corti auspica che gli sceneggiatori, prima di ultimare la sceneggiatura, gliela sottopongano per poterla ʻlavorareʼ trovando le opportune modalità per lʼinserimento dei prodotti da pubblicizzare. Ma dʼaltra parte dobbiamo dire che il product placement ha il grande vantaggio di reperire nuove risorse finanziarie in un momento in cui i contributi pubblici scarseggiano e quindi mi sembra che vada vista, nel bene o nel male, come unʼopportunità in più, anche per la considerazione che la produzione di un film è un evento a cui partecipano più soggetti con i quali, volenti o nolenti, occorre fare i conti. 9.10 Il preventivo di spesa Quanti soldi ci vorranno per fare il film? Quali sono i fattori che ne determinano il suo costo? Ogni film è un caso a parte nel senso che vi sono dei costi variabili detti sopra la linea che si riferiscono al compenso per quelle figure professionali squisitamente artistiche che non hanno un costo fisso, ma dipende dalle loro capacità professionali e la loro fama acquisita nel tempo e quindi dal valore che essi hanno sul mercato in quel momento: sceneggiatore, regista, produttore esecutivo, attori principali. Gli altri costi, sotto la linea sono invece fissi e possono essere calcolati attraverso apposite tabelle di riferimento essi si riferiscono al personale tecnico e allʼacquisto e noleggio dei materiali cinematografici indispensabili alle riprese (pellicola, nastri magnetici, macchine da presa, registratori, parco lampade, attrezzeria varia etc.). Quando i soldi non bastano occorre ricorrere al prestito che va restituito con gli interessi che costituiscono i costi finanziari. La maggior parte dei film sono prodotti attraverso il contributo ministeriale le cui norme per accedervi mutano in continuazione. Recentemente è stato pubblicato
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un interessante volume che riunisce la normativa italiana aggiornata sul cinema compresa lʼultima legge Urbani e i provvedimenti a favore dellʼindustria cinematografica.92 Per presentare un progetto di un film occorre acquistarne i diritti del soggetto. Ma se non si è sicuri di poter ottenere i finanziamenti necessari, esiste la possibilità di acquistarne soltanto lʼopzione. È una sorta di contratto sotto condizione. Il produttore versa un acconto (di solito il 10%) allʼautore sotto condizione che si riescano ad ottenere, in un lasso di tempo stabilito, i finanziamenti necessari. In questo periodo di tempo lʼautore cede temporaneamente ed in esclusiva i diritti al produttore che se ne serve per avviare le procedure relative ai finanziamenti. Qualunque sia lʼentità del preventivo, anche per un cortometraggio a basso costo e con attori esordienti, è bene sempre fare il preventivo perchè ci fornisce, con una buona approssimazione, la quantità delle risorse finanziare occorrenti allʼoperazione. Esiste un preventivo generico, dove i costi vengono elencati per voci di spesa raggruppate per categorie (preparazione, soggetto e sceneggiatura, regia e produttore esecutivo, protagonisti, altri attori e comparse etc.) ed un preventivo specifico dove queste voci sono dettagliatamente descritte punto per punto. Il primo ci servirà per la presentazione del progetto allʼesterno e cercare coproduzioni, sponsor e finanziamenti mentre il secondo è utilizzato allʼinterno per poter organizzare il pagamento degli acquisti, noleggi, paghe etc.
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Emanuele Fisicaro, Diritto cinematografico, Giuffrè Editore, Milano, 2006
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Cap. X LA PRODUZIONE
Compilato il PdL (Piano di Lavorazione) è giunto il momento di girare il film. La fase delle riprese è quella in cui la troupe è impegnata a dare il massimo delle sue prestazioni per il miglior risultato nel minor tempo possibile. A comporre una troupe cinematografica concorrono varie professionalità, queste le più importanti: •
il regista
•
il direttore esecutivo
•
la segretaria di produzione
•
il direttore della fotografia
•
lʼoperatore
•
il fonico
•
lo scenografo
oltre a maestranze varie come elettricisti, attrezzisti, aiuti etc. Descriveremo ora i ruoli delle figure professionali più rilevanti. 10.1 Il regista La figura del regista, che è lʼautore dellʼopera cinematografica, presiede tutte le tre fasi di realizzazione (pre-produzione, produzione, postproduzione) coordinandole e dirigendole: in inglese è chiamato appunto director. Egli è coadiuvato dalle figure professionali tecniche che hanno competenze specifiche per ogni fase: lo sceneggiatore, il produttore e il direttore esecutivo nella pre-produzione; il direttore della fotografia nella produzione e il montatore nella post-produzione; e da altre organizzative (lʼaiuto regista, segretaria di produzione etc.). Al regista spetta il compito di trovare la forma cinematografica da imprimere al racconto cartaceo, quindi deve dirigere gli attori e nello stesso tempo la troupe tecnica che riprenderà le azioni. Il suo lavoro è molto particolare e richiede una grande capacità relazionale. Dipende in gran parte da lui lʼaffiatamento nel gruppo di lavoro. È per questo che molti registi, nel corso della loro carriera, non
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cambiano la troupe tecnica quando trovano lʼarmonia necessaria. Non è possibile, nel corso di questo lavoro, esaminare le varie tematiche connesse al lavoro del regista che rimandiamo agli ottimi lavori citati in bibliografia, anche perchè non esiste un modello cui attenersi. Ogni regista in fin dei conti ha un suo metodo nel dirigere gli attori e un suo punto di vista nel tagliare la realtà per renderla cinematograficamente raccontabile. Quando il regista scrive anche il soggetto e la relativa sceneggiatura (anche se coadiuvato dallo sceneggiatore) si parla di film dʼautore. Un esempio italiano ne è Federico Fellini: le sue storie non possono essere che raccontate e filmate da lui. Fellini creava i suoi film in una maniera particolarissima. Il soggetto, appena accennato su carta, viveva e si sviluppava nella sua mente attraverso fasi successive: la ricerca dei personaggi e situazioni che crescevano giorno per giorno. Fellini svernava a Cinecittà dove stabiliva il suo quartier generale provinando innumerevoli comparse e figuranti. Con il suo inseparabile amico Tonino Guerra (uno dei più grandi sceneggiatori italiani) ci ha regalato intramontabili film dai quali sprigiona lʼanimo di questo eterno bambinone romagnolo, la cui magia, a mio avviso, consisteva soprattutto dal sapersi ascoltare per raccontarci i suoi sogni: Amarcord (1973), La voce della luna (1990), i suoi dubbi: La dolce vita (1960), Otto e mezzo (1963), le sue riflessioni più profonde sulla società contemporanea: La città delle donne (1980), Prova dʼorchestra (1979), Ginger e Fred (1985) che costituiscono, come rileva Vito Zagarrio, «... un testamento in libertà ... uno scenario dʼItalia tanto delirante quanto reale, ma forse per questo radiografia attendibile dellʼItalia contemporanea»93 Ma non sempre il regista scrive i suoi film. Nella maggior parte dei casi gli vengono proposti soggetti di altri autori, spesso scrittori o tratti da testi letterari... si pensi quanti film sono stati realizzati dai racconti di Alberto Moravia! O da best seller, romanzi già presenti nellʼimmaginario collettivo. Allora il suo lavoro consiste nel mettere in scena il testo, dopo averlo adattato per il cinema. La maggior parte dei film di Stanley Kubrick sono derivati da opere letterarie. Lʼadattamento di un testo letterario in una sceneggiatura cinematografica viene di solito realizzato in collaborazione con lo sceneggiatore (specia-
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Vito Zagarrio, Cinema italiano anni novanta, Marsilio, Venezia, 1998, p. 68
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lista nelle tecniche narrative) e costituisce una vera e propria tra-duzione del racconto con il conseguente inevitabile tra-dimento dellʼoriginale. In un romanzo, infatti, il punto di vista dello scrittore è come uno spirito che aleggia su tutta lʼopera. Nel film, invece, dovendo ʻfar vedereʼ luoghi, personaggi e cose nella loro realtà, il punto di vista è molto più focalizzato. Ne I promessi sposi, ad esempio, la casa di don Rodrigo è quella e solo quella che ci viene mostrata nel film con il suo esterno, le sue stanze e il relativo arredamento. Questa specificità oggettuale è un vero e proprio arbitrio che il regista deve assumersi per poter raccontare con il cinema. Vi sono registi, come Franco Zeffirelli, che operano una meticolosa ricostruzione della storia altri, come Luchino Visconti, che badano maggiormente a ricostruire lo sfondo socio-politico del racconto pur non trascurandone la fedele ricostruzione scenografica. Altri ancora, come Pasolini, di un testo letterario ne colgono il succo, lʼessenza, ricercando una forma filmica che ne possa restituire la sua profondità, limitando allʼessenziale gli elementi scenografici. Si pensi al Vangelo secondo Matteo (1964). In ogni caso è il punto di vista del regista che determina le scelte di traduzione in film di un opera letteraria. Il grande maestro russo S. M. Ejzenstein ne da unʼampia prova nel suo Lezioni di regia94 quando affronta con i suoi studenti dellʼIstituto statale sovietico di cinematografia i problemi inerenti la messa in scena di un romanzo di A. Vinogradov, Il console negro sulla storia del movimento di liberazione dellʼisola di Haiti del 1802. In questo pregevole documento le lezioni di Ejzenstein, trascritte dal suo allievo Nizij, danno il senso profondo del lavoro del regista: ricercare soluzioni comunicative congruenti che operino come un flusso di azioni diverse ma confluenti in un unico obiettivo: il film. 10.2 Il direttore della cinematografia Nella fase di produzione il direttore della cinematografia, assieme agli operatori alla macchina, sono i personaggi più importanti. Ad essi infatti spetta il compito di cinematografare le azioni degli attori e quindi realizzare le inquadrature, i movimenti di camera e di illuminare la scena in 94
S. M. Ejzenstein, Lezioni di regia, Einaudi, Torino, 1946 e 2001. I ed., Iskusstvo, Mosca, 1958
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maniera congruente al racconto filmico. Il direttore della fotografia ha una formazione eminentemente tecnica. Conosce le tecniche di illuminazione, i vari tipi di corpi illuminanti (lampade e proiettori), conosce i vari tipi di pellicola e come essi reagiscono alla diversa qualità della luce. Inoltre ha una spiccata sensibilità allʼinquadratura, cioè al taglio della scena da riprendere. Di solito non sta alla camera ma dirige il lavoro degli operatori. È lʼautore della parte iconografica del film. A lui spetta la responsabilità di ciò che si vedrà e come si vedrà il film in proiezione. Lʼilluminazione di una scena non è, come si potrebbe pensare, un fatto puramente tecnico. Anche qui la tecnica serve ma non basta. Lʼilluminazione deve creare la situazione narrativa che sia consona a quella particolare scena. Nellʼappendice troverete alcune riflessioni di Vittorio Storaro95 sulla sua filosofia della luce che ho raccolto personalmente e che possono fornire unʼidea più precisa di questa professione. Giacchè la pellicola cinematografica è sensibile alla luce, si comprenderà come una fotografia congruente con ciò che si racconta sia dʼimportanza primaria. In Ultimo tango a Parigi, ad esempio, non troveremo mai una luce piena, neanche negli esterni. La prima scena sul ponte è illuminata da un cielo plumbeo. I personaggi sono sempre sotto tono. Solo una lama di luce, in un momento magico in cui il protagonista si lascia andare in riflessioni personali ne illumina il volto... ma tuttʼintorno rimane oscuro. Unʼaltro esempio lo abbiamo in Goya di Carlos Saura, un film sulla vita e le opere del grande pittore spagnolo, dove Storaro realizza vere e proprie visioni tra opalescenze dal colore antico e trasparenze di luce che, più che illuminare dipingono i tratti della scena. Lʼilluminazione della scena è un fatto artistico. Non serve solo a far vedere ma soprattutto a creare una situazione emotiva che sia coerente con il racconto cinematografico. È un elemento, forse quello più spettacolare del cinema, che insieme agli altri (attori, musica, montaggio etc.) concorre in maniera decisiva alla costruzione di quellʼatto magico che è il film.
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Vittorio Storaro, oltre ad aver lavorato con i più prestigiosi registi di tutto il mondo, ha pubblicato tre volumi: Scrivere con la luce, La luce, I colori, Gli elementi, Mondadori Electa, Milano, 2002 che costituiscono i risultati della sua ricerca come cinematographer.
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10.3 Il fonico Il fonico ha il compito di registrare la parte sonora e cioè i dialoghi tra gli attori e il sonoro ambiente. Nel cinema, contrariamente a quanto avviene con il mezzo televisivo, il suono viene registrato su colonna separata (attraverso un registratore a parte) e si accoppia poi al video nella fase del montaggio. Se si prevede che il film si debba doppiare, la registrazione dei dialoghi servirà come colonna guida per gli attori che dovranno eseguire poi il doppiaggio nella fase della sonorizzazione del film in uno studio appositamente attrezzato. La parte sonora del film consiste in una serie di piste audio indipendenti tra loro: questa separazione ha un duplice compito, da una parte serve a favorire il montaggio (giacché solo se si hanno elementi separati li si può comporre a proprio piacimento) dallʼaltra permette il doppiaggio nelle varie lingue. Infatti se dobbiamo fare una edizione in lingua diversa dallʼoriginale (per esempio dallʼitaliano allʼinglese) abbiamo bisogno di avere le piste dei dialoghi separate (che verranno doppiati nella lingua scelta) da quelle dei sonori ambiente e le musiche extradiegetiche96 che rimarranno immutate. Questʼultima pista si chiama colonna internazionale (giacchè rumori e musica ovviamente non hanno bisogno di essere tradotti). Naturalmente quando si registrano i dialoghi si registrano contemporaneamente anche gli eventuali rumori presenti nellʼambiente: questo è un problema che si presenta quando si gira in presa diretta97. Per alcuni film, specie la commedia brillante allʼitaliana con attori che fanno dellʼimprovvisazione una loro maniera di recitare (Verdone, Troisi, Benigni etc) la presa diretta è indispensabile e il doppiaggio avviene solo per qualche piccola parte. Oltre che per la traduzione in lingua straniera il doppiaggio serve anche per avere una qualità del suono migliore. Durante le riprese, infatti, è difficile ottenere una qualità eccellente del suono perchè gli ambienti, spesso reali, non sono insonorizzati a dovere e i rumori circostanti indesiderati possono ʻrovinareʼ una ripresa che invece dal punto di vista della resa degli attori risultava qualitativamente migliore.
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Le musiche fuori dal racconto, cioè quelle che non si riferiscono a ciò che si vede
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La presa diretta consiste nella registrazione sincronizzata del suono assieme al video nel momento in cui si gira la scena.
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10.4 Lo scenografo e la scena digitale Anche quando si gira in ambienti reali, lo scenografo modifica lʼambiente adattandolo alle esigenze narrative. Il suo lavoro è in stretta collaborazione con il regista e consiste nellʼideare prima (attraverso bozzetti o piccoli plastici) e realizzare dopo i luoghi dove si svolgerà lʼazione scenica. Molte volte occorre ri-costruire gli ambienti perchè quelli reali sono troppo angusti e non permettono lo spazio necessario per le riprese o modificarli per avere una continuità stilistica adeguata. Ma il suo lavoro vero e proprio lo si ha nelle ricostruzioni storiche o fantastiche, quando deve realizzare interamente il set. Dai fondali dipinti di Méliès ai moderni studios dalle pareti mobili il suo lavoro è rimasto pressoché identico perchè il cinema, anche se riprende luoghi tridimensionali, viene visto in due dimensioni. Quindi le costruzioni scenografiche sono come quelle delle facciate barocche delle chiese: dietro non cʼè nulla perché servono solo per la parte che si vede e che verrà esposta alla ripresa. Lʼimportante è lʼeffetto che faranno come sfondo della scena. Lo scenografo prepara dapprima i bozzetti che sono disegni contenenti lʼidea scenografica con una proiezione ortogonale che simula il punto di vista della camera. Quindi redige lʼesecutivo che è un vero e proprio progetto architettonico. Questo servirà non solo per la sua costruzione ma anche per ricavarne un preventivo dei costi. Una tendenza che si sta affermando sempre di più nel cinema è lʼuso della grafica computerizzata per creare situazioni scenografiche che sono delle vere e proprie scene virtuali. Si tratta della tecnica chiamata CromaKey che consente di ʻbucareʼ un colore presente nellʼinquadratura e rendere così trasparente solo la parte dove quel colore è presente. La trasparenza permette poi di sovrapporre un altro filmato che può essere la scena digitalizzata: in questo modo gli attori si muoveranno tra fondali di un colore (di solito blu o verde) che verranno poi sovrapposti alla scenografia digitale nella fase di post-produzione. Questa soluzione viene usata spesso per creare scene fantastiche che sarebbe troppo costoso, se non impossibile, costruire realmente. Dietro le realizzazioni digitali vi è una vera e propria squadra di specialisti che hanno diverse competenze. 1. Concept artist, è forse una delle figure più avvicinabili ai professionisti tradizionali, è colui che si occupa di realizzare i bozzetti preparatori per i personaggi e le ambientazioni, in pratica è un illustratore tradizionale. 2. Modeller, è la persona che si occupa di trasformare i bozzetti bidimensionali in un modello tridimensionale con lʼuso del computer.
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3. Texture artist, è colui che crea le immagini bidimensionali che andranno applicate sopra i modelli tridimensionali, ci sono molte tecniche per farlo, dalla semplice realizzazione pittorica, alla fotografia e ovviamente mediante software appositi. 4. Animator, chi svolge questo ruolo si occupa di far muovere gli oggetti 3D creati da un modeller. Le tecniche sono varie a secondo quel che si vuole ottenere. Di solito si tratta di sincronizzare le scene girate in reale con quelle virtuali. Per una trattazione più puntuale su questa professione si rimanda agli ottimi lavori esistenti a riguardo.98
Due scenografie di 2001 Odissea nella spazio (S. Kubrick (1968) 98
Renato. Lori, Il lavoro dello scenografo, Gremese, Roma, 2000; John Kundert Gibbs e Peter Lee Guida alla scenografia digitale, Apogeo editore, 2004
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Cap. XI Il suono nel cinema
Prima di occuparci della fase successiva alle riprese, il montaggio, non possiamo esimerci da alcune considerazioni relative alla parte sonora del film. Il cinema non è mai stato muto. Sin dalle sue origini la visione dei film era accompagnata da un commento sonoro di tipo musicale eseguito dal vivo sia per coprire il rumore del proiettore che per rendere più attrattivo lo spettacolo. Si trattava di composizioni semplici, di solito con un solo strumento (un pianoforte) adattate in qualche modo alle scene che scorrevano sullo schermo e nella maggior parte dei casi ci si affidava allʼimprovvisazione dellʼesecutore. Ben presto, però, quando il cinema iniziava a divenire adulto, si compose musica espressamente per i film. Tra gli altri ricordiamo il compositore francese Camille Saint-Saëns che compose la prima importante partitura originale per il film LʼAssassinat du Duc de Guise (1908), di Charles Le Bargy; in Italia Ildebrando Pizzetti, autore della partitura sinfonica dʼaccompagnamento per Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone e Erik Satie, autore delle musiche per Entrʼacte (1924) di René Clair. Unʼorchestra suonava contemporaneamente alla proiezione del film. Questa situazione la si può osservare nel celebre film di Dziga Vertov Lʼuomo con la macchina da presa (1929). Sempre in Italia Giuseppe Becce compose oltre 200 brani musicali da utilizzare per commentare scene di ogni tipo: una sorta di musica di repertorio per il cinema! In qualche caso, distribuite assieme alla pellicola, si trovavano i cue sheets, indicazioni musicali riferite a ciascun rullo da proiettare. Ma, non essendo stabilmente fissato alla pellicola, la musica poteva essere sostituita da altra a secondo i gusti dei vari paesi in cui veniva proposto il film: è quel che successe a Cabiria quando varcò lʼOceano e fu proiettato a New York. Le musiche di Pizzetti furono rifatte da J. C. Breil. Fu con lʼinvenzione del suono sincronizzato alla pellicola che i musicisti approdarono a pieno titolo nel cinema. Due le pellicole, entrambe della Warner Bros, che inaugurarono il sonoro sincronizzato: Don Juan (1926) primo film sonorizzato - ma non ancora “parlato” - con commento musicale registrato in pellicola e The Jazz Singer (1927) primo film parzialmente parlato/cantato, protagonista Al Jolson. La regia di entrambi era firmata da
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Alan Crosland. Le musiche di Max Steiner per King Kong (1933) dimostrarono a tutti quali risultati si potessero ottenere grazie a una colonna sonora originale montata in stretta sincronia con le immagini. Così, a partire dagli anni Quaranta, lʼindustria cinematografica iniziò a mettere sotto contratto compositori provenienti dalle più diverse aree musicali. 11.1 La colonna sonora Ma perché usare la musica nel film? Se nei film muti la mancanza della voce nei dialoghi poteva giustificarne lʼuso, nei film sonori quale funzione ha la musica? Precisiamo che la colonna sonora di un film è costituita da voce, rumori e musica e che questʼultima non è indispensabile giacché per raccontare una storia in maniera realistica ne potremmo tranquillamente fare a meno. Ricordiamo anche che il suono può essere diegetico o extra-diegetico a seconda che si riferisca a ciò che si vede nella scena o ciò che si sente e non fa parte della visione: ad esempio, se vediamo dei giovani che ballano in una discoteca, la musica (facendo parte di ciò che si vede) è diegetica. Al contrario se due innamorati si incontrano alla discesa del treno in una Stazione e parte una musica che ʻcopreʼ il loro bacio si tratta di extra-diegetica giacche è improbalile che in una Stazione ci sia una musica così intensamente romantica. Il suono extra-diegetico nel film svolge diverse funzioni, qui ci limiteremo solo ad alcune considerazioni che interessano maggiormente il nostro lavoro rimandando, per una conoscenza più approfondita ai numerosi lavori che affrontano più specificatamente lʼargomento.99 Il nostro apparato percettivo ci pone in contatto con la realtà attraverso i canali sensoriali (VAK) già esaminati sopra. Nel quotidiano vediamo, ascoltiamo e sentiamo in continuazione. Questo continuum percettivo non
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Michel Chion, Lʼaudiovisione, Lindau, Torino, 2001; Sergio Miceli, Musica e cinema nella cultura del Novecento, RCS libri, Milano, 2000; Gilles Mouëllic La musica al cinema - Per ascoltare i film, Lindau, Torino, 2005; Gianni Rondolino, Cinema e musica - Breve storia della musica cinematografica, Utet, Torino, 1991
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ci abbandona mai e costituisce una sorta di flusso informativo sonoro col quale siamo abituati a convivere, per cui è praticamente impossibile scindere i vari canali uno dallʼaltro, anche se essi hanno peculiarità diverse. Come abbiamo detto, il video è più veloce anche se superficiale, lʼaudio è più lento ma va più in profondità mentre il cenestetico attiene alla sfera delle sensazioni. Questa specificità dei canali percettivi, che interagiscono tra loro, ci fanno vivere nella realtà esterna imparando a conoscere e riconoscere cose, persone, suoni e situazioni mettendoli in relazione nel nostro spazio-tempo: è quello che chiamiamo esperienza di vita. 11.2 Lʼascolto Lʼesperienza di spettatore cinematografico, invece, è ben diversa da quella usuale giacchè il cinema gioca con tutti e tre i canali percettivi trovando una serie di combinazioni che nella vita reale sarebbe quasi impossibile provare. Ad esempio nel film Memento di Christopher Nolan (2000) il protagonista, che ha perso la memoria a breve a causa di un trauma cranico, escogita un complesso sistema di segnali visivi e sonori (foto polaroid, tatuaggi, mappe, effetti sonori) per risalire al tempo della sua vita. Il film è realizzato in maniera tale che lo spettatore non sappia mai se la scena che vede si riferisca al presente o al passato. Solo piccoli indizi visivi o sonori ce lo suggeriscono, ed è con questo gioco di disorientamento percettivo che il regista crea la sua avvincente opera sfruttando le peculiarità del mezzo cinematografico che ci consente di montare anticipando, posticipando e sovrapponendo i vari livelli percettivi. Ma questo gioco non avviene solo con i thriller (si pensi ai film di A. Hitchcock in cui lʼincastro dei piani percettivi è realizzato con grande maestria per creare nello spettatore lo stupore, la suspense). In ogni film i VAK (Video. Audio, Kenestetico) si intersecano in varie maniere secondo ben precisi piani di comunicazione decisi dallo sceneggiatore e dal regista. Lʼarte con cui avviene tale mix porta alla stimolazione di nuove percezioni che provocano, nello spettatore, delle vere e proprie lacerazioni mentali con slittamenti sul piano semantico. Un esempio per tutti lo troviamo nella scena iniziale del film dʼesordio di Luis Buñuel Un chien andalou (1929) in cui una lama di rasoio scuarcia lʼocchio di una donna come a voler dire: squarciatevi gli occhi! Guardate oltre il vedere e aprite gli altri sensi: ascoltate con gli occhi e guardate con le orecchie!
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Un fotogramma da Un chien andalou di L. Buñuel
Bèla Balàzs, il famoso critico ungherese, intervenendo nel dibattito sulla funzione della musica nel cinema, già negli anni ʻ30 aveva affermato che: «Lʼuomo non percepisce mai la realtà con un solo organo di senso. Le cose che soltanto vediamo, che soltanto udiamo, ecc. non hanno per noi carattere di realtà tridimensionale. La musica nel film crea in un certo senso la terza dimensione»100. È di questa terza dimensione che dobbiamo ora occuparci e cioè delle rappresentazioni interne che provoca il fenomeno cinematografico quando innesca campi dʼinterferenza tra i vari canali sensoriali. Sappiamo che attraverso il canale audio solitamente percepiamo parole, rumori e suoni. Se facciamo due passi per una strada cittadina o in campagna ci rendiamo conto di quanti diversi suoni captino le nostre orecchie, ma se vogliamo ascoltare una musica abbiamo bisogno di entrare in
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B. Balàzs, Il film. Evoluzione ed essenza di unʼarte nuova, Einaudi, Torino 1987, p.303
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contatto con un esecutore che tale musica produca. La musica non si trova in natura perché è una composizione artificiale di vari suoni secondo un sistema di armonie che formano un vero e proprio codice. Tali suoni sono ottenuti attraverso strumenti appositamente costruiti. Quindi, se vogliamo ascoltare musica, dobbiamo recarci ad un concerto o ascoltarla registrata su qualche supporto. Ma andiamo a vedere cosa succede in un concerto, per esempio sin-fonico, dove unʼorchestra suonerà per noi. Una volta comodamente seduti in poltrona quel che noterete subito è che i musicisti son vestiti di nero, tutti uguali... anche il pianoforte è nero! Si sa che il colore nero assorbe tutte le radiazioni luminose e non ne riflette nessuna quindi in qualche modo non attrae lʼattenzione dello sguardo che invece deve essere rivolta principalmente allʼascolto. Potremmo affermare, quindi, che in un concerto il video non è così rilevante. Ma proseguiamo nel nostro ascolto. Inizia il concerto e ci accorgiamo che i movimenti degli orchestrali sugli strumenti non sono poi tanto significanti: a muoversi sono solo le braccia e le mani e non è certo da quei movimenti che possiamo trarne informazioni utili alla nostra percezione. Quindi il canale video viene stimolato molto debolmente. Naturalmente quando un canale è inattivo gli altri si allertano. Se ad esempio entrate in una stanza buia è lʼudito e il tatto che userete maggiormente per sopperire alla mancanza del video. Così avviene anche durante un concerto: i canali stimolati saranno lʼaudio e il cenestetico ed è tutto predisposto a che quello video non disturbi questi ultimi due. Capirete allora facilmente perché quando ascoltiamo una musica qualche volta siamo portati a chiudere gli occhi lasciando che lʼaudio entri in contatto con la nostra parte più profonda (cenestetico) che anche ai meno sensibili provocherà suggestive visioni interiori. Da notare che la parola ʻsuggestioneʼ deriva dal latino suggèrere, cioè suggerire. È come se il canale sensoriale attivo suggerisca allʼaltro percezioni che non sono sue proprie ma lo coinvolga attivando per risonanza il canale dormiente. Si realizza, quindi, uno sorta di sinestesia sensoriale dato che tutti i nostri sensi interagiscono unitamente e contemporaneamente nel sistema psico-fisico. Lo stesso procedimento si attiva quando baciamo la persona amata: la chiusura degli occhi provoca lʼaumento delle nostre sensibilità cenestetiche (tatto, gusto, odorato etc.). Se poi, mentre viviamo il nostro atto amoroso, è presente unʼappropriata musica (cosa che di solito facciamo in
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modo che avvenga) attivando il canale audio ci avvarremo di un altro senso aumentando il trasporto cenestetico giacchè il co-involgimento maggiore si ottiene quando più canali sensoriali si attivano simultaneamente. Ho usato questo esempio psico-fisiologico, che fa parte dellʼesperienza comune a ognuno di noi, per far comprendere meglio lʼinterazione tra i canali sensoriali. La musica, essendo un continuum in qualche modo unisce ciò che era separato ed è questa, come vedremo, una delle funzioni della musica nel film. 11.3 Lʼaudio sul video: legare. Il film è composto da una serie di segmenti di pellicola (le singole riprese) che vengono poi messe in sequenza con il montaggio. Lo stacco tra le riprese, come vedremo meglio quando ci occuperemo del montaggio, cʼè e si vede. Se vogliamo che una sequenza (lʼinsieme di più riprese di una stessa azione) abbia una parvenza unitaria è la musica che ci viene in aiuto perché con il suo flusso continuo ce le fa percepire come un insieme. Ciò vuol dire che una sequenza musicata non viene percepita allo stesso modo di quella stessa sequenza muta. In questo caso la musica (audio) unisce le singole inquadrature delle azioni riprese (video) che si svolgono in luoghi diversi aumentando lʼillusione di unitarietà che il montaggio crea nello spettatore. Ad esempio in Easy rider (1969) di Dennis Hopper la musica dei Byrds accompagna le varie inquadrature del viaggio sulle Harley Davidson dei due protagonisti che solcano le autostrade della California. Spesso la musica svolge una funzione accompagnatoria nel senso che sottolinea la situazione a volte mantenendola viva e altre volte enfatizzandola.
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11.4 Lo slittamento semantico In alcuni casi invece lʼuso della musica è quello di provocare uno spostamento semantico dellʼazione drammatica. La sequenza finale di Rapsodia in Agosto (1991) di Akira Kurosawa ne è un esempio eloquente: la vecchia nonna sopravvissuta ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, ne conserva per sempre lʼimpronta del terrore di quei momenti. Allʼimprovviso il cielo si fa plumbeo, scoppia un temporale con forti raffiche di vento. La nonna, rivedendo in quel cielo scuro il giorno dello scoppio dellʼatomica, prende il suo esile ombrello, esce di casa e arranca in un viottolo di campagna. I suoi parenti la cercano sotto la pioggia scrosciante. Il regista dedica unʼinquadratura ad ognuno di loro che camminano faticosamente nella tempesta. Si sente solo il rumore del temporale e le grida dei parenti che chiamano la nonna. Ad un tratto, come per magia, mentre la nonna sfida le intemperie, una raffica di vento rivolta il suo ombrello. In questo preciso momento parte una musica da carillon che suona come una cantilena infantile. Seguono le inquadrature singole dei parenti che continuano a correre (questa volta al ralenti) per portare soccorso alla nonna, ma lo spettatore non ascolta più il rumore della tempesta che prende il posto del carillon. Svanisce di colpo anche la tragedia e la scena si tramuta in un gioco dove, al suono del carillon i vari personaggi, abbandonati i loro drammi quotidiani, sebbene nella loro individualità (continuano ad essere inquadrati uno per volta) si ritrovano uniti a correre nella stessa direzione come in una giostra della vita ... al suono di un carillon!
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Fotogrammi tratti da Rapsodia in Agosto di Akira Kurosawa
In questo caso la musica determina un vero e proprio corto circuito percettivo: innestandosi sulle immagini, provoca uno spiazzamento semantico del vedere aumentando lʼentropia drammatica che crea un valore aggiunto a ciò che vedono i nostri occhi. Nel caso del film innanzi descritto è lʼandare tutti in una stessa direzione esorcizzando gli orrori della guerra che
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sembra ridare una nuova energia al popolo giapponese. Questo valore aggiunto della musica nel film non era sfuggito a Pierpaolo Pasolini che, in uno scritto riportato da A. Bertini, afferma: «La funzione principale [della musica nel film] è generalmente quella di rendere esplicito, chiaro, fisicamente presente il tema o il filo conduttore del film. Questo tema o filo conduttore può essere di tipo concettuale o di tipo sentimentale. Ma per la musica ciò è indifferente: un motivo musicale ha la stessa forza patetica sia applicato a un tema concettuale che a un tema sentimentale. Anzi, la sua vera funzione è forse quella di concettualizzare (sintetizzandoli in un motivo) i sentimenti e di sentimentalizzare i concetti. La sua è quindi una funzione ambigua (che solo nellʼatto concreto si rivela, e viene decisa): tale ambiguità della funzione della musica è dovuta al fatto che essa è didascalica ed emotiva, contemporaneamente. Ciò che essa aggiunge alle immagini, o meglio, la trasformazione che essa opera sulle immagini, resta un fatto misterioso, e difficilmente definibile».101 La difficoltà di definire questa trasformazione è probabilmente determinata dalla concezione dualistica di questo fenomeno da parte di Pasolini. In realtà non vi è scissione tra una presunta percezione concettuale e quella sentimentale giacchè il nostro apparato sensoriale, come abbiamo avuto modo di rilevare, non funziona a compartimenti stagni bensì come un sistema integrato: sentiamo e ragioniamo in un processo di interazione continua quindi, a nostro avviso, quel che Pasolini chiama ʻtrasformazioneʼ non può che essere il risultato dei percorsi di riconoscimento percettivi.102 Il flusso continuo delle informazioni audiovisive nel cinema non avviene in maniera abituale come le percepiamo nella vita quotidiana, quindi lʼimmissione musicale sulle immagini filmiche attiva sinestesie sensoriali che collegano i ricordi dello spettatore suggerendo (suggestionando) nuove associazioni di idee che andranno ad immagazzinarsi nella nostra mente elaborando così una nuova esperienza: lʼesperienza cinematografica.
101
A. Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Roma Bulzoni, 1979, pp. 51
102
A questo proposito cfr: U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 78 e segg.
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Cap. XII Il montaggio
Sotto il profilo strettamente fisico il montaggio consiste nel congiungere due diversi pezzi di film (riprese). Fino a poco tempo fa esso si realizzava attraverso apparecchiature ingombranti (la moviola e la pressa giuntatrice) veri e propri tavoli da lavoro dove si maneggiava la pellicola alla fioca luce di una lampadina. Oggi viene eseguito attraverso il computer con software dedicati (AVID, Final Cut, Premiere) che simulano graficamente lʼantico banco di montaggio; ma le moderne tecnologie digitali, anche se hanno facilitato notevolmente il lavoro, non hanno cambiato quasi per nulla le sue funzioni.
La moviola
Il desktop dellʼediting digitale
Sin dallʼorigine il montaggio sopperiva allʼesigenza di mettere insieme le diverse riprese togliendo tutto ciò che ʻsporcavaʼ la ripresa stessa (la
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parte iniziale dove compare il ciack, la parte finale dove gli attori hanno esaurito la loro azione, quelle sbagliate etc.) quindi possiamo dire che il montaggio svolgeva una funzione sottrattiva: ripulire lʼazione scenica, occultando il lavoro sul set. Unʼaltra, la funzione additiva, permette la costruzione dei singoli rulli per la proiezione di una durata di almeno 20 minuti, ed essere poi montati dallʼoperatore di sala in due rulli della durata di 60 minuti cadauno circa (primo e secondo tempo) sul proiettore. Ma è la funzione ordinatrice quella che provvede a collocare le riprese secondo lʼordine narrativo. Le riprese, infatti, per esigenze di lavorazione (vedi il piano di lavorazione di cui abbiamo parlato sopra) non vengono quasi mai effettuate secondo lʼordine temporale che poi vedremo in proiezione nel film. Ma queste sono solo le funzioni ʻfisiologicheʼ del montaggio. Il montaggio non è solo tagliare e buttare via le cose che non vanno. Allora cosa vuol dire montare, cioè mettere insieme una dopo lʼaltra due riprese? 12.1 Tagliare o unire? I francesi chiamano questa operazione Join che significa ʻunireʼ mentre inglesi e americani usano il termine Cut, che vuol dire ʻtagliareʼ. La differenza linguistica indica lʼatteggiamento con cui viene realizzata questa azione. Gli inglesi mettono lʼaccento sul fattore ʻdemolitorioʼ del montaggio (tagliare per sfrondare e buttar via) mentre i francesi lo considerano un atto di costruzione attraverso lʼunione di elementi differenti. Questa differenza non è priva di conseguenze giacché il buttar via e il mettere insieme sono due azioni differenti che riflettono un diverso modo di concepire il montaggio. 12.2 Pudovkin e Ejzenstejn: concatenazione o collisione? Alle origini delle teorie sul montaggio troviamo un interessante dibattito, riportato da Ejsenstejn, che esprime due differenti scuole di pensiero: Il grande regista sovietico attacca con forza la vecchia concezione del montaggio come concatenazione espressa da Kulesov e dal suo allievo Pudovkin: «Kulesov, tanto per fare un nome, scrive usando davvero lʼesempio del mattone: “Si prenda un pensiero-frase, una particella di soggetto, un anello di tutta una catena drammaturgica: questo pensiero deve essere espresso, manifestato con inquadrature segni, come con dei mattoni” (L. Kulesov,
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Iskusstvo Kino [Lʼarte del cinema], Izd. Teakinopecat, 1929, p. 100) [....] Questo metodo di analisi è pericolosissimo perché lʼinterpretazione complessiva del processo (il legame inquadratura-montaggio) si limita agli aspetti esteriori del suo decorso materiale (un pezzo si incolla allʼaltro). [...] Lʼinquadratura non è affatto un elemento del montaggio. Lʼinquadratura è la cellula del montaggio. [...] Ho davanti a me un foglietto di carta stropicciata e ingiallita. Vi compare unʼiscrizione misteriosa: ʻConcatenazioneʼ – P e ʻCollisioneʼ – E. È la traccia materiale di unʼaccesa lite sul tema del montaggio tra me (E) e Pudovkin (P), avvenuta sei mesi fa. Per noi è ormai una tradizione. A intervalli regolari lui passa da me la sera tardi e, a porte chiuse, ci mettiamo a litigare su temi di principio. Ecco il punto. Allievo della scuola di Kulesov, Pudovkin difende a spada tratta il concetto di montaggio come concatenazione di pezzi: una catena, una catena di mattoncini. I mattoncini, uno accanto allʼaltro, espongono un pensiero. Io gli contrappongo il mio punto di vista sul montaggio come collisione. Il luogo in cui vengono in collisione due dati è il luogo in cui si produce un pensiero. Dal mio punto di vista la concatenazione non è che uno dei possibili casi parziali. [...] Il montaggio è sempre conflitto. Il fondamento dellʼarte in generale è il conflitto (Si tratta di una particolare realizzazione ʻin immagineʼ della dialettica)».103 12.3 Il montaggio come costruzione di senso Lʼidea del montaggio come insieme significante che nasce dalla collisione di elementi diversi Ejzenstejn lʼaveva elaborata da tempo partendo dallʼosservazione della scrittura cinese. Osservava, infatti, che tale scrittura si fondi sulla combinazione di due o più segni grafici la cui risultante non è la somma (i mattoncini di Pudovkin) ma una sorta di prodotto. Il confronto tra i due segni forma un concetto. E per spiegare meglio questo pensiero fa lʼesempio di come un occhio vicino ad una goccia esprima ʻil piantoʼ, un coltello vicino ad un cuore ʻla tristezzaʼ, una porta e un orecchio ʻlʼorigliareʼ. 103
Sergej M. Ejzenstejn, Il montaggio, op.cit,, p. 10 e segg.
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Ogni segno in se ha un significato ma è nel confronto con unʼaltro che se ne produce uno nuovo. Quindi, prosegue Ejzenstejn, la collisione di due segni crea una costruzione di senso. Una sorta di genesi semiotica in cui lʼincontro tra i diversi (così come avviene in natura) crea unʼentità differente che non è la somma dei primi due (come una creatura non è la somma dei suoi genitori) ma il prodotto provocato da questa ʻcollisioneʼ. Questa intuizione sul ruolo creativo del montaggio aprì, nelle teorie sul cinema, prospettive fino a quel momento inesplorate, e furono proprio i formalisti russi degli anni ʻ20 a dare un contributo determinante per far conquistare al cinema il titolo di ʻsettima arteʼ. Il montaggio, infatti, fu considerato una peculiarietà di questo nuovo mezzo che sembrava non si trovasse nelle altre arti (figurative, plastiche e sonore). Certamente il montaggio in senso stretto fa parte di quello che vien chiamato lo specifico filmico e contraddistingue il cinema così come siamo abituati a vederlo, ma a ben guardare il fondamento stesso di questa operazione è allʼorigine del pensiero creativo. Le automobili che vediamo circolare sulle strade sono frutto di unʼinvenzione creativa che sfrutta la tecnica del montaggio di elementi presistenti: la carrozza, la ruota, la poltrona, il motore a scoppio, la pila di Volta. Lʼautomobile, guarda caso, esprime la sua potenza in ʻcavalliʼ ed infatti somigliavano proprio ad un calesse i primi esemplari! 12.4 Il montaggio delle idee Anche il nostro cervello non può fare a meno di ʻmontareʼ cioè mettere in relazione le informazioni ricevute per produrre un pensiero o comunque per organizzare una risposta comportamentale. Il procedimento è molto simile a ciò che avviene nel montaggio cinematografico giacchè i nostri percorsi cerebrali si avvalgono di due modalità di pensare: •
modalità analogica basata su segnali continui che danno vita al pensiero analitico-sequenziale proprio della razionalità
•
modalità digitale basata su segnali discontinui: il pensiero istintivoemozionale proprio delle attività artistiche.
Con le ovvie differenze anche il montaggio cinematografico presenta le stesse modalità espressive: •
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il montaggio invisibile basato sulla logica sequenziale dellʼunità di tempo e dello spazio: una ripresa viene dopo lʼaltra secondo il princi-
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pio della raffigurazione naturalistica •
il montaggio creativo che sfrutta il pensiero laterale secondo una logica istintiva emozionale basata sul principio della significazione iconica e filmica.
12.5 Come si formano le idee? Ma facciamo un passo indietro. Come nascono le idee? Come viene elaborato ciò che percepiamo dalla realtà esterna? Tra le moderne teorie della percezione (Bateson, Gibson, Neisser ed altri) prenderemo in esame quella di Ulric Neisser che ci sembra la più interessante per lʼeconomia del nostro discorso.
Ulric Neisser. Il ciclo percettivo
Neisser104 descrive il ciclo percettivo come quel processo costruttivo che, attraverso lʼesplorazione della realtà esterna, ne raccoglie le informazioni selezionandole tra quelle più note al soggetto percepiente (schemi anticipatori che preparano il percettore ad accettare determinati tipi di informazione piuttosto che altri) immagazzinandole poi nella memoria. Lʼinformazione così raccolta ed immagazzinata, confrontandosi con le altre già disponibili ed immagazzinate in precedenza, modifica lo schema 104
U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, Bologna, 1997 (I ed. San Francisco, 1976)
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originale determinando una nuova conoscenza che si aggiunge a quelle già acquisite ed è quindi pronto per una nuova esplorazione. Lo schema percettivo, che prepara il percettore ad accettare determinati tipi di informazione, controlla lʼattività dello scanning sensoriale e dirige lʼattenzione selezionando quegli elementi già percepiti (conosciuti) per confrontarli con i nuovi (in un certo senso la collisione di Ejzenstejn). Una volta organizzati nel suo sistema mentale (sinapsi neurali che determinano il modello da apprendere) essi determinano una nuova conoscenza che modificherà lo schema precedente nel senso che lʼindividuo, avendo acquisito una nuova conoscenza, si avvarrà anche di questa negli ulteriori atti percettivi. Da ciò se ne deduce che lʼattività di associazione tra il ʻconosciutoʼ e lo ʻsconosciutoʼ è fondamentale per lʼapprendimento e la creazione di nuovi modelli. Gli stessi percorsi cognitivi avvengono nel cinema in tutte le sue fasi: dal momento della ideazione a quello del montaggio. Lo sceneggiatore, infatti, scriverà una storia deducendola da quello che lui conosce105 (informazione disponibile) trovando gli sviluppi narrativi che modifichino gli schemi originali (pensiamo ai plot point della sceneggiatura in tre atti di Syd Field). Il regista e il montatore troveranno le soluzioni visive facendoci vedere le azioni (esplorazione sensoriale) secondo gli schemi anticipatori selezionati dalle loro conoscenze e modi di vedere la vita per provocare nello spettatore una sorta di percezione indotta. Il regista, specialmente nel momento della messa in scena, tenderà a far fare allʼattore quelle azioni che sono nella sua esperienza immaginativa (inform. disponibile), ma dovendosi confrontare con lʼattore, che è una persona diversa da lui, si troverà irrimediabilmente a dover modificare i suoi schemi originari (anticipatori) per esplorarne le capacità del soggetto attante che potranno essere diverse dalle sue aspettative. Su questo confronto o, per dirla con Ejsenstejn, collisione, tra gli schemi anticipatori (aspettative) del regista che deve mettere in scena una serie di azioni, e lʼattore che deve eseguirle si basa la creazione dellʼatto cinematografico. È un processo ben conosciuto dai registi, come abbiamo avuto modo di rilevare in Roberto Rossellini che ricercava nellʼuomo lʼattore latente. 105
Non è un caso che tutti i manuali di sceneggiatura consiglino di scrivere partendo da ciò che si conosce.
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Da punto di vista dellʼattore, poi, lʼesperienza cognitiva segue gli stessi percorsi giacchè nella dialettica tra attore e personaggio sono gli elementi che sopravvivono dal conflitto di queste due anime a manifestarsi nellʼatto dellʼinterpretazione. In questo caso lʼattore, partendo dalle sue esperienze note, le elabora secondo i propri schemi anticipatori confrontandole con quelle del personaggio operando così una sorta di montaggio creativo che non è la somma dellʼattore più il personaggio, ma unʼaltra entità che nasce da quellʼatto magico in grado di dare la vita a questʼultimo (la reviviscenza di Stanislawskij) ed è ciò che chiamiamo interpretazione. La stessa parola ʻinterpretazioneʼ, la cui etimologia106 è farsi tramite, mediatore di comunicazione tra due parti diverse, contiene in se la traccia di questa avvenuta resurrezione creativa.107
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“Interprete” è il negoziatore, vale a dire colui che stabilisce un “interpretium”: il prezzo intermedio tra le esigenze del compratore e quelle del venditore.
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Se vogliamo è una particolare applicazione allʼarte della Dottrina dello sviluppo di Hegel o della dialettica marxista.
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12.6 Il montaggio nellʼarte pittorica. Anche nellʼarte pittorica non mimetica, ritroviamo gli stessi percorsi. In Guernica ad esempio, il famoso quadro di Picasso realizzato come una reazione dellʼartista alla prima città vittima del bombardamento aereo tedesco della seconda guerra mondiale. Lo spazio prospettico è annullato per consentirci la visione simultanea in un piano cartesiano dove i vari frammenti prendono vita. È come se gli elementi compositivi fossero stati in un certo senso ʻsmontatiʼ e rimontati secondo una logica compositiva emozionale.
Guernica di Pablo Picasso, 1937
Il colore è del tutto assente per accentuare la carica drammatica evocativa di quanto è rappresentato. Il posto centrale è occupato dalla figura di un cavallo. Ha un aspetto allucinato da animale impazzito. Nella bocca ha una sagoma che ricorda quella di una bomba. È lui la figura che simboleggia la violenza della furia omicida, la cui irruzione sconvolge gli spazi della vita quotidiana della cittadina basca. Sopra di lui è posto un lampadario con una banalissima lampadina a filamento. È questo il primo elemento di contrasto che rende intensamente drammatica la presenza di un cavallo così imbizzarrito in uno spazio che sembra fatto di affetti semplici e quotidiani. Il lampadario, unito al lume che gli è di fianco sostenuto dalla mano di un uomo, sembra avere evidenti analogie formali con il lampadario posto al centro in alto nel quadro di Van Gogh «I mangiatori di patate». Di questo quadro è lʼunica cosa che Picasso sembra citare, quasi a rendere più esplicita lʼatmosfera di serenità carica di valori umani di un pasto serale consu-
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mato da persone semplici che è stata drammaticamente spazzata via. Al cavallo Picasso contrappone sulla sinistra la figura di un toro: simbolo della Spagna offesa, di una Spagna che concepiva la lotta come scontro leale e ad armi pari. Uno scontro leale come quello della corrida dove un uomo ingaggia la lotta con un animale più forte di lui rischiando la propria vita. Invece il bombardamento aereo rappresenta quanto di più vile lʼuomo possa attuare, perché la distruzione piove dal cielo senza che gli si possa opporre resistenza e colpisce indiscriminatamente. La fine di un modo di concepire la guerra viene rappresentato, anche in basso, da un braccio che ha in mano una spada spezzata: la spada, come simbolo dellʼarma bianca, ricorda la lealtà di uno scontro che vede affrontarsi degli uomini ad armi pari. Sulla sinistra una donna si dispera con in braccio il figlio morto. In basso è la testa mutilata di un uomo. Sulla sinistra, tra case e finestre, appaiono altre figure. Alcune hanno il volto incerto di chi si interroga cercando di capire cosa stia succedendo. Unʼultima figura sulla destra mostra il terrore di chi cerca di fuggire da case che si sono improvvisamente incendiate. Queste entità sono disposte nellʼopera pittorica non secondo il principio della raffigurazione naturalistica bensì secondo quello della significazione iconica per cui le diverse figure che compongono il quadro e che occupano uno spazio allʼapparenza privo di relazioni interne (il cavallo, il toro, la donna, la lampadina) non sembrano relazionarsi da nessun apparente legame iconico ma confluiscono in un unica visione che assume significato solo dalla loro collisione, cioè dal loro essere insieme. E ciò provoca unʼassociazione di idee, quindi un pensiero che assume il significato di un concetto: il dolore per la mattanza umana, lo sdegno umano per lʼatrocità del bombardamento aereo tedesco sulla inerme cittadina di Guernica il 26 aprile del 1937 che suona impetuoso come un atto dʼaccusa. Il montaggio, visto come ʻcollisione in progressʼ di entità diverse, è lʼelemento fondante dellʼatto creativo, presente in tutte le attività artistiche; ma forse potremmo azzardare che esso sia iscritto nella nostra stessa esperienza biologica, almeno dal Big Bang in poi, la prima collisione che liberò lʼenergia da cui tutto ebbe inizio! Esempi nella storia del cinema di montaggio creativo sono presenti in molti film: dallʼUomo con la macchina da presa di Dziga Vertov (1929) al Un chien andalou di Luis Buñuel (1928) a quasi tutti i film di Ejzenstein e in quelli di Stanley Kubrick: si ricordi in 2001 Odissea nello spazio (1968)
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lʼosso gettato nel cielo dallʼominide cui segue lʼimmagine dellʼastronave che ha la stessa forma. 12.7 Diverse modalità di connessione narrativa Naturalmente montaggio narrativo e creativo coesistono nello stesso film giacchè sono due modalità comunicative che concorrono entrambe alla diegesi. Ma mentre il primo ʻmostraʼ il secondo ʻevocaʼ. Il montaggio narrativo prende per mano e conduce lo spettatore dirigendo il suo sguardo in maniera sequenziale e prevalentemente logica: le inquadrature si succedono secondo un principio di conseguenzialità: Ad esempio in Lolita (1962), di S. Kubrick, dopo che la padrona di casa ha fatto visitare la casa al prof. Humbert, che ne vuole affittare una stanza, i due arrivano nel giardino dove la giovane Lolita in bikini, mostrando tutto il suo splendore di diciottenne prende il sole sdraiata sul prato. Dopo questa inquadratura in FI di Lolita si passa al PP dellʼaffittuario che la guarda in maniera molto interessata... è già colpo di fulmine! Poi ancora un CM a due dove il protagonista prende subito la decisione di affittare la stanza mentre la padrona di casa gli domanda quale sia stato lʼelemento determinante della sua decisione. Ogni inquadratura si giustifica secondo un principio di domandarisposta, causa-effetto.
Il colpo di fulmine del prof Humbert
Il montaggio creativo, invece, ri-chiama alla mente concetti, pensieri e segue una logica di tipo immaginativo: per usare una metafora è la stessa differenza che corre tra il linguaggio letterario, con il quale scriviamo un racconto, e quello poetico nel quale le parole sono usate non per il loro significato intrinseco ma per la loro capacità evocativa. Un esempio è la già citata sequenza di 2001 Odissea nella spazio dove il montaggio dellʼosso
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lanciato in aria dallʼominide con la moderna astronave esprime il concetto del cammino dellʼhomo tecnologicus. I manuali di tecnica cinematografica usano classificare questi due modi di ʻmettere insiemeʼ le riprese come montaggio narrativo il primo e connotativo il secondo.108 12.8 Quando staccare Non dobbiamo dimenticare che il montaggio, nella sua accezione meccanica, consiste nel taglio di una ripresa in movimento quindi qualʼè il momento giusto per tagliare, e quindi interrompere, una ripresa? Ogni azione ha un suo inizio, uno svolgimento e una fine. Guardandola dal punto di vista cinetico essa si presenta come il tiro di una freccia con lʼarco: vi è un momento di carica tensionale (quando tiriamo la corda) un limite massimo della tensione (la corda è arrivata a fine corsa) e la scarica che libera lʼenergia (la freccia scocca dallʼarco). Il momento della massima tensione si presenta come quello di maggior accumulo di energia e, pertanto, costituisce lʼacme dellʼazione. È questo il punto in cui lo spettatore presta maggiore attenzione ed è qui che lo stacco agisce più dinamicamente. Non bisogna aspettare che lʼazione inizi a scaricarsi perché, con essa, si scaricherà anche la tensione che abbiamo provocato in chi guarda. Walter Murch, famoso montatore statunitense, stabilisce sei criteri per effettuare uno ʻstacco idealeʼ: « [...] Uno stacco ideale dovrebbe: 1. rispecchiare fedelmente lʼemozione del momento 2. far andare avanti la storia 3. essere effettuato in un momento interessante e “giusto” dal punto di vista del ritmo 4. rispettare quello che potremmo chiamare “il tracciato dellʼocchio”, cioè la posizione e il movimento del centro dʼattenzione dello spettatore allʼinterno del fotogramma 5. rispettare “la planimetria”, cioè la grammatica delle tre dimensioni proiettate dalla fotografia a due dimensioni (i problemi di salto di campo etc) 108
Rondolino, Tomasi, op.cit. pag. 178 e seg.
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6. rispettare la continuità tridimensionale dello spazio reale [ripreso]».109 Murch tiene a precisare lʼordine di preferenza da rispettare, mettendo al primo livello lʼemozionalità e allʼultimo la continuità visiva. Ciò potrebbe sembrare azzardato per un montatore professionista quale egli è, ma a ben vedere si giustifica dal fatto che un film, come abbiamo avuto modo di rilevare ampiamente, non è un racconto neutro come potrebbe essere un telegiornale o un documentario scientifico. Il film è soprattutto una storia raccontata emozionalmente. In Psyco, già citato, la celebre sequenza dellʼomicidio nella doccia presenta degli attacchi non ʻregolariʼ in cui Marion, sola sotto la doccia, è mostrata per due volte da due inquadrature troppo poco differenziate fra loro sul piano dellʼangolazione (la regola prescrive una variazione delle inquadrature nellʼordine di almeno 30° rispetto alla precedente) e della distanza (su tratta di due mezzefigure quasi simili). Mentre da un punto di vista delle regole della grammatica cinematografica tutto ciò risulterebbe scorretto, dal punto di vista emozionale ha la sua giustificazione perché lo spettatore si sente improvvisamente spaesato da questa modalità di rappresentazione inusuale e la percepisce come un effetto di straniamento predisponendosi alla suspense, cioè a quantʼaltro di ʻstranoʼ possa succedere. Una delle funzioni del montaggio è quella di stabilire il tempo cinematografico che, come vedremo, è molto diverso da quello a cui siamo abituati a percepire nella vita quotidiana. Il montaggio definisce il tempo delle azioni riprese, quello delle sequenze e, infine, la durata dellʼintero film. 12.9 Il tempo cinematografico Nel cinema niente è reale, tantomeno il tempo. La finzione inizia nel momento in cui si batte il ciack e continua nel montaggio fino allʼedizione completa del film. Nel cinema cinque minuti possono sconvolgere lʼintero pianeta mentre nella vita reale non riusciremmo a fumare neanche una sigaretta. E questo vale non solo per il cinema di fiction ma anche per quello documentario. 109
Walter Murch, In un batter dʼocchi, Una prospettiva sul montaggio cinematografico nellʼera digitale, Lindau, Torino, 2000, pag. 28
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Cʼè da chiedersi da dove nasce questa esigenza di sintesi narrativa. Sotto lʼaspetto percettivo è noto che il continuum attenzionale dello spettatore non supera i sei-dieci minuti, per cui la cadenza delle vicende raccontate deve adeguarsi a questi valori. Lo stare immobili in poltrona, poi, ha una tolleranza che non supera i 60 minuti. Alcuni film della durata di tre ore prevedono tre intervalli per permettere allo spettatore una pausa di ʻdistensioneʼ dei propri apparati sensoriali. Ciò per quanto concerne la durata, ma ben più interessante è la caratteristica del tempo cinematografico sotto lʼaspetto compositivo. Attraverso il montaggio si crea un tempo particolare che ci consente di accelerare o rallentare lʼazione o di invertire il corso del tempo passando immediatamente da un evento presente ad uno passato o futuro (montaggio sincronico e diacronico), o ancora vedere più eventi contemporaneamente che si svolgono in luoghi e tempi differenti (montaggio parallelo, usato per la prima volta in Intollerance di D.W. Griffith, 1916). Modalità simili le usiamo quotidianamente con il nostro pensiero. È a tutti noto che il tempo è una convenzione creata dallʼuomo per esigenze di orientamento e misurazione delle vicende legate alla vita su questo pianeta. Molti filosofi e scienziati, da Aristotile a Einstein, passando per SantʼAgostino, hanno trattato lʼargomento mettendo in dubbio lʼesistenza stessa del tempo nel suo flusso che scorre univocamente dal passato al presente andando verso il futuro. Ma cosʼè, dunque, il tempo? Il tempo percepito dagli uomini, per dirla con SantʼAgostino, è un eterno presente, ovvero se si può affermare che il presente indubbiamente esiste, non così è per il passato e per il futuro, i quali non sono altro che proiezioni dellʼanimo umano. Lʼuomo infatti vive il passato come ricordo al presente e il futuro come aspettative che ci si auspica avverranno, mentre il presente che vive lo percepisce intuitivamente come un reale continuativo e contingente. Di conseguenza le tre dimensioni temporali dellʼuomo dovrebbero essere: • il presente del passato (memoria) • il presente del presente (esperienza) • il presente del futuro (aspettative) È solo nel presente, dunque, in quel trascorrere istantaneo in cui compiamo le nostre azioni di pensiero e senso-motorie, che ci tocca vivere. Un
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esempio può chiarire questa condizione. Se io dico: “Domani appena mi sveglierò gusterò una bella tazzina di caffè!” Quanti di voi, leggendo questa frase, hanno visualizzato la tazzina di caffè? Vi devo confessare che anche io, scrivendo questa frase lʼho vista e ne ho sentito perfino il profumo. Il nostro cervello elabora sempre al presente, così i pensieri e le azioni sono energia che spendiamo al presente per aspettative future. Questo saggio che sto scrivendo (nel mio presente) nasce dalle esperienze fatte (nel mio passato) con lʼaspettativa di essere utile (nel futuro che non è più soltanto mio) al lettore che io probabilmente non conoscerò ma la tensione che guida al presente la mia azione a scriverlo è la probabile utilità che possa avere per qualcuno che lo leggerà in futuro. Esistono, quindi, realmente il passato e il futuro? Esiste realmente un tempo passato, che ci siamo lasciati alle spalle, e un tempo futuro, ancora da vivere, di cui non possiamo avere alcuna certezza? Per SantʼAgostino110 lʼuomo è impossibilitato a vivere il passato e il futuro come condizioni reali, in effetti lʼuomo vive il suo presente sempre e in ogni luogo, passato e futuro possono essere presenti in lui soltanto come proiezioni dellʼanima, questo perché non è possibile a nessun uomo vivere contemporaneamente nel presente e in un altra dimensione temporale allo stesso tempo. Ebbene questa impossibilità, che è percepita come una limitazione umana, con lʼatto cinematografico diventa possibile perché ci immette in unʼaltra dimensione in cui il flusso del tempo (passato-presente-futuro) viene in qualche modo destabilizzato provocando unʼalterazione della per-
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Nelle Confessioni SantʼAgostino al Cap. XXVII così scrive “... non esse (le cose passate) io misuro, esse che non sono più, ma misuro qualcosa nella mia memoria, che vi rimane fissa” e ancora al Cap. XXVIII si può leggere:Nelle “Ma in qual modo diminuisce, o si consuma, il futuro, che non è ancora, o cresce il passato che non è più, se non perché nellʼanima che è la causa del fatto, esistono tre stati? E, invero, essa aspetta, fa attenzione, si ricorda: per modo che quello che aspetta, attraverso a ciò che è lʼoggetto della sua attenzione, passa a diventare la materia del suo ricordo. Ora nessuno nega che il futuro non è ancora. Ciò non pertanto esiste nellʼanima lʼaspettazione del futuro. E nessuno nega che il passato non è più. Ciò non pertanto esiste ancora nellʼanima il ricordo del passato. E nessuno nega che il presente è privo di estensione, giacché il suo trascorrere è un punto. Ciò non pertanto dura lʼattenzione, attraverso la quale ciò che sarà presente si affretta verso lʼessere assente. Non dunque è lungo il tempo futuro che non esiste, ma il futuro lungo è lʼattesa lunga del futuro. Né è lungo il tempo passato che nemmeno esiste, ma il passato lungo è il ricordo lungo del passato”.
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cezione temporale così che ci sentiamo trasportati in una sorta di stato non ordinario di coscienza in cui diventa possibile invertire il corso del tempo e... gettare uno sguardo sul futuro. Ogni forma di conoscenza prevede unʼattività neuronale che mette in collegamento modelli sinaptici111 presistenti (passato) con le nuove informazioni da acquisire attraverso lʼesperienza sensoriale (presente) che poi saranno elaborate soggettivamente per dirigere i comportamenti futuri. Ogni comportamento ha uno scopo che si traduce nelle aspettative che ognuno di noi ha e sono queste che guidano le nostre azioni ma, dato che il futuro rappresenta unʼincognita, viviamo in un mondo instabile dove ciò che ancora deve accadere fa parte delle potenzialità o delle probabilità che accada. La tensione verso il futuro è lʼenergia che da la forza alle nostre azioni e ci spinge a vivere! Naturalmente dipende dai nostri comportamenti lʼaumento o la diminuzione delle probabilità che lʼevento sperato accada in futuro e la nostra vita scorre nelle attese di un tempo in cui le nostre aspettative si realizzino. Quindi il futuro che vogliamo è la molla per la nostra evoluzione in questo mondo. Nel cinema, dove il tempo può scorrere liberamente invertendo il suo flusso naturale, abbiamo la possibilità di vedere e pre-vedere lo svolgimento di una storia. A nessuno è dato sapere come andrà a finire la sua storia, nel film invece tutto ciò non solo è possibile, ma costituisce lʼattrattiva maggiore dello spettacolo cinematografico.
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Il modello sinaptico è formato dai collegamenti fra i neuroni che formano una rete. Questa viene creata dallʼapprendimento di nuove informazioni, ha la caratteristica di trattenere memoria e la rende disponibile per future connessioni ampliando in questo modo il modello stesso.
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Capitolo XIII Cinema e conoscenza In conclusione proponiamo alcune riflessioni sul cinema come strumento di conoscenza. Gli studi su questo argomento sono molti e sconfinano in diverse discipline, dalla filosofia alla psicologia, dalla sociologia alla fisica quantistica. In questo capitolo ne esamineremo solo alcuni, quelli che ci sembrano più pertinenti alla materia trattata in questo lavoro. 13.1 Il cinema come documentum Il cinema come documento (dal latino documentum, ossia dato inconfutabile e oggettivo) potremmo definirlo una rappresentazione in movimento, impressa su un supporto fotosensibile o elettronico, di un evento ripreso da uno o più punti di vista, delimitato dallo spazio dellʼinquadratura nel lasso di tempo che ne determina la sua durata. In questo caso ciò che noi vediamo è realmente accaduto in un tempo passato e la ripresa cinematografica ha ʻstabilizzatoʼ il flusso del tempo rendendolo disponibile alla nostra percezione. Per esempio, guardando un cinegiornale degli anni ʼ40, possiamo vedere ciò che accadeva sul fronte di guerra ma solo limitatamente allo sguardo dellʼoperatore che ha realizzato quelle riprese, allʼottica usata e per quel tempo che è durata la ripresa stessa. Tutto il resto (quello che non è stato inquadrato e ciò che accadde prima e dopo la scena ripresa) sfugge al cinema e fa parte del flusso continuo della vita. Il documento cinematografico in un certo senso congela, mummifica (per usare un termine caro a Bazin112) una porzione limitata di spazio-tempo rendendolo immortale attraverso un materiale che è la pellicola la cui consistenza, per dirla con Pasolini, è appena più spessa di quella delle ali di una farfalla! 112
André Bazin, uno dei fondatori dei Chaiers du Cinéma e padre riconosciuto della Nouvelle vague, sostiene che Tutte le arti sono fondate sulla presenza attiva dellʼuomo; solo nella fotografia ne godiamo lʼassenza. Egli parla a questo proposito di complesso della mummia: “una psicoanalisi delle arti plastiche - dice - potrebbe considerare la pratica dellʼimbalsamazione come fatto fondamentale della loro genesi; allʼorigine della pittura e della scultura si troverebbe il complesso della mummia”. In altre parole alla base delle arti figurative vi sarebbe lʼidea di difendersi contro il tempo, che corrompe le cose e i corpi, e in parallelo il sogno di vincere la morte: “fissare artificialmente le apparenze carnali dellʼessere - così ancora Bazin - vuol dire strapparlo dal flusso della durata: ricondurlo alla vita”. Una sorta di ossessione riproduttiva che viene prima di ogni esigenza estetica: prima dellʼesprimersi di un artista viene “il desiderio tutto psicologico di rimpiazzare il mondo esterno con il suo doppio (...), lʼistinto di salvare lʼessere mediante le apparenze”.
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La percezione di tale fenomeno risulta essere la presenza di unʼassenza, qualcosa di molto simile allʼoggetto temporale di Husserl113 per cui la coscienza di un determinato fenomeno viene vissuta in una dimensione temporale continua che non è composta dalla somma degli istanti trascorsi ma ne è un elemento costitutivo del flusso unico del tempo. Ne risulta che il documentum filmico è una parte di quel continuum della storia, strappato e congelato dal corso del tempo, reso pertanto visibile in modo non locale e a-temporale (li e allora=qui ed ora) attraverso la teknè cinematografica. In che maniera il documentum filmato può produrre conoscenza? Il cinema ha la capacità di trattenere memoria nel senso che ritiene azioni, avvenimenti, immagini, suoni di un passato e le rende disponibili al presente. Questa caratteristica è anche alla base della conoscenza ma non è ancora sufficiente per lʼattivazione della coscienza giacchè lʼosservazione senza coscienza è sterile. Il problema, quindi, diventa: come si passa dalla percezione alla comprensione e da questa alla coscienza? Il tema è arduo e non ci addentreremo nelle varie teorie che hanno dato origine a nuove discipline come, ad esempio, Philosophy of mind, Cognitive science, Affective neuroscience ed altre. Cionondimeno ci sembra interessante, nellʼeconomia delle nostre riflessioni, prospettare alcune questioni collegate in qualche maniera con il ʻfatto cinematograficoʼ. 13.2 Percezione, comprensione, coscienza Abbiamo detto che guardare non è propriamente vedere e che i nostri canali sensoriali introducono la realtà esterna nel cervello eleborandola e creando sinapsi che si strutturano poi in reti neurali costruendo i modelli. Ma per arrivare alla comprensione non basta tutto ciò. Lʼetimologia della parola comprensione: dal latino cum prehendere, cioè contenere, includere, rivela unʼattività di ricezione di informazioni esterne in un apparato (immaginiamo interno) che possa contenerle e metterle in relazione. Ebbene questo contenitore è uno degli più organi più evoluti che si conoscano in natura: il nostro cervello. Al suo interno le informazioni non vengono solo depositate ma processate con sistemi sofisticatissimi molti dei quali ancora oggi non siamo in grado di conoscere. Possiamo comprendere perché il 113
E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano 1985.
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sole ogni giorno tramonta ad Ovest e prevederne con esattezza lʼorario nei vari periodi dellʼanno ma non goderci un tramonto di fine giornata; capire e analizzare la maestria di un pittore e della sua opera ma non rimanere estasiati e gustare della bellezza del quadro. In questo scarto qualitativo si pone la coscienza. Qualcosa di non facile definizione. Filosofi, psicologi, scienziati di tutte le epoche si sono interessati allʼargomento in vario modo. Secondo Cartesio (Renè Descartes, 1596-1650), Cartesio distingue pensiero e natura, identificandoli con due sostanze (res), cioè con due realtà autonome e quindi autosufficienti. Perciò il pensiero, la res cogitans (sostanza pensante) è la dimensione razionale dellʼuomo, quindi uguale in tutti gli uomini (“…il buon senso è il bene meglio ripartito tra gli uomini…”). In quanto identifica il pensiero con una realtà (res), Cartesio presuppone che lʼuomo abbia la coscienza immediata di tale identità: se penso, allora sono una realtà che pensa (cogito, ergo sum). Tale verità risulta da quel “criterio di evidenza” che egli considera come universalmente valido, anche quindi per conoscere la realtà esterna al pensiero. Pure questa è per Cartesio, come abbiamo detto, una sostanza a se stante, che egli identifica con lo spazio-materia (res extensa). Lʼidentificazione della materia con lo spazio comporta una smaterializzazione della natura, dei corpi, ma offre la possibilità di identificare la geometria (scienza dello spazio) con la fisica (scienza dei corpi e del movimento). In realtà, il dualismo delle sostanze teorizzato da Cartesio doveva rivelarsi carico di problemi che sul momento si presentavano come di natura metafisica, ma che non tardarono a rivelarsi come uno dei più ricchi terreni per lʼindagine fisico-naturalistica dellʼetà moderna. Riferito allʼuomo, infatti, quel dualismo presentava un problema in più: quello relativo alla capacità del pensiero di interferire sul corpo. Al di là delle questioni metafisiche,(come è possibile che ciò avvenga, senza che ne risulti compromessa lʼautonomia della sostanza), si aprì unʼampia indagine a livello scientifico-fisiologico per individuare in che modo, in quale punto del corpo il pensiero trasmettesse al corpo i suoi impulsi. Come possono esserci relazioni causali tra lʼuna e lʼaltra? Come possono i processi cerebrali produrre fenomeni mentali? Lʼipotesi del dualismo mente-corpo (Body-mind), ha segnato per lungo tempo il pensiero filosofico occidentale a tale riguardo114 e possiamo dire 114
Dallʼ anti-sostanzialismo moderato di Locke (il quale sosteneva la funzione essenziale che svolge la coscienza indipendentemente dalla sostanza), a quello radicale di Hume (dissolve il soggetto conoscente in un fascio di percezioni) o al trascendentale in Kant (con la teoria “ dellʼio penso”).
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abbia rappresentato una sorta di limitazione che ha ingabbiato le riflessioni in questa visione dicotomica. A partire dagli anni ʼ40 e ʼ50 dello scorso secolo, vennero introdotte nuove idee nel campo della linguistica, dellʼinformatica e della psicologia, che crearono una vera e propria rivoluzione. I momenti più importanti di tale rivoluzione furono sicuramente le conferenze tenute a Cambridge e Darthmouth nel 1956, dai principali esponenti di questo movimento: Herbert Simon, Noam Chomsky, Marvin Minsky e John McCarthy. Lʼidea di fondo era quella di superare il dualismo body-mind con il concetto di embodied. Secondo questa nuova visione della realtà la mente fa parte del corpo e perciò può essere studiata dalla scienza anche come un elemento fisico al pari degli altri. Non fu facile per la comunità scientifica accettare questa nuova prospettiva che oggi, dopo innumerevoli ricerche, studi ed esperimenti, ha riscosso un crescente interesse. Alla luce di questo nuovo approccio la coscienza si presenta come unʼidentità relazionale115 dellʼindividuo con lʼambiente che lo circonda. Ma quali sono i processi che producono coscienza? Tralasciando le varie teorie materialistiche, riduzionistiche, dualistiche, qualitativistiche, che hanno contribuito a sviluppare il pensiero su questo argomento, prenderemo in considerazione le conclusioni cui sono pervenuti due illustri studiosi della coscienza. Il primo è un neuroscienziato: Antonio Damasio, il secondo un filosofo: Herbert Mead. Antonio R. Damasio, neuroscienziato americano di origine portoghese, nel suo volume116 parte proprio da Cartesio per rilevarne ʻlʼerrore dualisticoʼ. Damasio fa parte di quella corrente chiamata Affective neuroscience che riconosce allʼemozione un ruolo centrale nella determinazione della coscienza.117 Nella concezione di Damasio, la coscienza non è monolitica, ma può essere distinta in:
115
Cfr. Herbert Mead, Mente, Sé e Società, Giunti Barbera, Firenze 1972. Riporta il pensiero raccolto dai suoi allievi nel 1934
116
Antonio R. Damasio, Lʼerrore di Cartesio. Emozioni, ragione e cervello umano [1994], Adelphi, Milano, 1995
117
Antonio R. Damasio, The Feeling of what happens, trad. it. Emozione e Coscienza, Adelphi, Milano, 2000
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1. Proto-sé: Fenomeno primordiale di autoidentificazione che lʼuomo condivide con gli animali superiori, alle cui basi sono le emozioni, eventi strettamente biologici, sui quali si sviluppano poi i sentimenti (paura, fame, sesso, rabbia...) che hanno come motore lʼinterazione tra lʼorganismo e il mondo oggettuale. Il “proto-sé” non è consapevole di sé: rappresenta semmai quella parte del sé che impara poco per volta a riconoscersi come parte separata dal mondo esterno. 2. Coscienza nucleare: fornisce allʼorganismo un senso di sé in un dato momento e in un dato luogo (coordinate spazio-temporali). La coscienza nucleare non ci dice nulla riguardo al futuro. Lʼunico passato che possiede è quello, vago, relativo a ciò che è appena accaduto. 3. Coscienza estesa: Si forma sulla base della coscienza nucleare ed è allʼorigine del “sé autobiografico”. Questo livello di coscienza richiede il linguaggio, poiché solo attraverso di esso possiamo formulare la nostra storia personale, in cui prendono posto i ricordi, le speranze, i rimpianti e così via. Quindi ci offre un senso elaborato del sé e ci colloca in un punto del nostro tempo storico con piena consapevolezza del passato vissuto e del futuro previsto, con una profonda conoscenza del mondo che ci circonda. Ma è lʼemozione che innesca tutto il processo. Qui lʼemozione è intesa come il pattern complesso di reazione somatica ad una variazione ambientale che diventa un fatto essenziale dellʼesperienza di coscienza. A questo proposito Damasio individua due distinti problemi, tra loro connessi: la descrizione del film che incessantemente scorre nel cervello monitorando le variazioni somatiche sensoriali continuamente indotte dallo stimolo esterno ed il senso di proprietà (identità personale) che vi è immanente, ma che non richiede nessun homunculus osservante: You are the music while the music lasts, siamo (e quindi non ascoltiamo, giacchè lʼascoltatore è parte integrante della musica stessa) la musica stessa che ci suona dentro. Lʼesperienza di coscienza (detta OR) consiste proprio nel riconoscersi come una parte di un tutto in cui siamo immersi e che si espande oltre i nostri limiti corporei. Damasio poi distingue le emozioni di fondo (primarie e sociali che sono risposte somatiche automatiche e innate un poʼ come le risposte immunologiche) dai sentimenti che non sono automatici
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ma volontari e costituiscono rappresentazioni mentali dello stato somatico dellʼorganismo, cioè il riconoscimento che sta avvenendo qualcosa. Per esempio quando si crea il quadro (biologico) dellʼemozione che chiamiamo tristezza, si produce la rappresentazione (mentale) del sentimento di tristezza e la corteccia associativa produce quei pensieri118 che normalmente causano, secondo la nostra osservazione introspettiva, lʼemozione e il sentimento di tristezza in un continuo gioco interattivo di elementi emozionali ed elementi cognitivi. Un altro esempio può rafforzare maggiormente questo concetto: Se vedo un cane, ne percepisco subito la forma, poi comprendo che appartiene alla specie animale, posso determinarne la razza, il colore, la statura, il sesso etc. Ma se io vedo il mio cane, pur conoscendo tutti gli elementi innanzi descritti (definitori e determinati), ho un altro tipo di informazioni: sento qualcosa in più verso questo essere (risposta affettiva) che me lo fa distinguere e rendere unico rispetto a tutti gli altri cani. Questo quid in più è il risultato della realzione che ho con il mio il cane, quindi la coscienza. Da ciò se ne deduce che la coscienza sarebbe la consapevolezza di avere unʼidentità relazionale. Sono le relazioni che stabiliamo con gli altri che ci danno la coscienza di quello che siamo nel mondo in cui viviamo. In questo senso, secondo Damasio, la coscienza non può essere cercata nei correlati neuronali è de-localizzata perchè esiste solo come pattern relazionale. Lʼesperienza di spettatore cinematografico, come abbiamo rilevato nel cap. IV, attraverso i fenomeni della proiezione e identificazione ci ʻavvicinaʼ a quellʼuniverso filmico che è costituito soprattutto dalle emozioni provocate dalla storia e dai personaggi (quello che E. Morin chiama la partecipazione affettiva)119, quindi possiamo dire che vedere un film, oltre lʼaspetto percettivo che attiene principalmente alla forma (fotografia, musica, montaggio etc) contiene in sé anche quello comprensivo degli avvenimenti e relazioni tra i personaggi che in esso si svolgono ma non sempre
118
Damasio parla anche di un marcatore somatico che è quellʼelemento centrale dellʼapprendimento emozionale che registra e mantiene traccia delle nostre reazioni emozionali pregresse a determinate situazioni e che corrisponderebbe, in un certo senso, ai concetti psicologici di credenza e desiderio.
119
E. Morin, op.cit. p. 119
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un film arriva alla coscienza dello spettatore giacchè non tutti i film sono in grado si provocare quelle relazioni empatiche (affettive) che ci permettono di stabilire un rapporto soggettivo tra la realtà cinematografica e il nostro sé autobiografico. Per questa ragione il cinema, specialmente quello statunitense, ricerca nei soggetti quei valori universali condivisi ovunque dalla maggior parte delle persone senza limiti territoriali e temporali, cioè delocalizzati e a-temporali: la lotta del bene contro il male, storie dʼamore conflittuali, violenza, terrore, comicità... Certamente avrete riconosciuto in queste situazioni emotive la maggior parte dei film che avete visto.
13.3 I prigionieri del video nella caverna di Platone
Una stampa che ritrae il Mito della caverna di Platone
Dalle considerazioni fin qui esposte sembrerebbe ovvio che il fenomeno cinema debba considerarsi a pieno titolo un mezzo per acquisire non solo conoscenza ma anche coscienza. Il discorso, però, non è così semplice giacché il cinema, come abbiamo avuto modo di rilevare, è soprattutto illusione per cui, non riproducendo la realtà così come è ma arte-facendola, potrebbe indurre a una conoscenza fallace
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Come è stato da molti già rilevato si può vedere nel ʻmito della cavernaʼ di Platone120 una originaria intuizione del cinema. La tesi è plausibile sotto vari profili. Quello più estrinseco riguarda il fatto che il mito racconta di uomini chiusi in una caverna e costretti vedere solo ombre (immagini) di statue proiettate sulla parete da un fuoco artificiale, nascosto, alle loro spalle. Ma al di là di questo fatto un altro elemento riconduce alla filosofia di Platone. Infatti, come per il cinema, la conoscenza per Platone è basata sulla vista121, sulla facoltà del vedere. Vedere come facoltà fisica, quindi legata al corpo, ma anche come facoltà dellʼanima, come ʻvirtù dellʼintelligenzaʼ. Il mito della caverna pone il problema della conoscenza della realtà come problema educativo, che consiste proprio in una educazione alla vista. Educazione che, per Platone, non riguarda il far acquisire la capacità di vedere, bensì nellʼaiutare a ʻsaperʼ vedere, cioè a orientare lo sguardo. Un esercizio tuttʼaltro che facile, descritto da Platone come ʻascesa scabra ed ertaʼ, che comporta quindi momenti di decisa coercizione da parte del maestro e dolore, insicurezza, sfiducia da parte dellʼallievo. Nel mito di Platone, come nel cinema, cʼè una doppia possibilità del vedere. Da un lato, il vedere come intrat-tenimento, perché è basato su una finta realtà, capace di affascinare proprio perché produce un effetto rassicurante di rispecchiamento del sé (tutti fanno ciò che io faccio, tutti sono come io sono). Dallʼaltro, la vista che apre un percorso di ricerca. Platone aveva dellʼarte, in particolare della scrittura e della pittura con lʼeccezione della musica, un giudizio negativo, perché attività diseducative in quanto copie di copie, raffigurazioni cioè di realtà sensibili che guardavano nella direzione opposta, proprio come i prigionieri della caverna, rispetto alla via della verità, che per Platone è fuori del mondo sensibile e quindi metafisica. In realtà, si può dire che proprio Platone offra una chiave per uscire dalla caverna, anche attraverso le immagini. Il fascino letterario del mito platonico dipende proprio dal fatto che esso è costruito sulla base di un pensiero simbolico. Le immagini caricate simbolicamente chiamano in 120
Platone, La Repubblica, VII, 514a-518b
121
La radice del termine ʻideaʼ deriva dal participio passato del verbo verbo greco orao: id che significa, appunto, vedere
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causa lo spettatore, lo scuotono dal ruolo passivo interrogandolo e lasciandogli, da ultimo, la responsabilità del significato e del senso della storia. Per questa via il cinema non rispecchia il sé dello spettatore e non lo aiuta nella evasione dal sé, ma lo coinvolge, lo provoca, lo inquieta fino a fare della coscienza di sé il punto di partenza di un personale percorso di conoscenza. Insomma, porre una relazione tra cinema e conoscenza significa accettare la sfida di un linguaggio che aiuti lʼuomo ad uscire dalla caverna, che lo renda cioè più libero e ricco di sé. Come abbiamo rilevato nel Cap. IV al paragrafo 3 il corpus spirituale del cinema si dovrebbe trovare proprio in questa dimensione intellettiva dato che uno dei suoi fini è proprio quello di trasportare la conoscenza sensibile (guardare la proiezione) verso quella intellegibile (ampliamento delle reti neurali e quindi creazione di nuovi pensieri) della cui veridicità oggettiva, essendo la percezione unʼesperienza soggettiva, non possiamo esserne certi. Ma non è allʼaderenza di una presunta oggettività che lo statuto del cinema risponde, quanto ad una tensione ideale capace di proiettarsi al di sopra della conoscenza sensibile e innescare nuovi pattern conoscitivi mentali che sono in quel flusso temporale che chiamiamo futuro. Allora forse si potrebbe affermare che il cinema possa produrre coscienza solo nel caso in cui riesca a stabilire un confronto empatico con gli spettatori tale da indurre riflessioni sulla propria condizione di vita, il proprio vissuto relazionale e stimolare lʼemergenza di quei valori condivisi dalla comunità umana.
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Cap. XIV Il cinema nel futuro
Il cinema nasce dagli studi scientifici sul movimento e trova subito una sua applicazione commerciale nelle Nickel odeon122 come fenomeno da baraccone. Fu un mago a fargli prendere una direzione imprevista: George Méliès. Con lui il cinema prese il volo verso lʼimmaginario mondo dellʼillusione. Il gioco era fatto! Se guardiamo il cinema odierno, a distanza di oltre un secolo dalla sua invenzione, le cose non ci sembra che siano cambiate poi molto. Il supporto è rimasto quasi identico come anche il dispositivo di proiezione. Grosse innovazioni, a parte il sonoro sincronizzato, il colore e le proporzioni dello schermo, non sono state apportate. Ma forse oggi, a ben vedere, sta accadendo qualcosa in grado di trasformare profondamente il concetto di spettatore e lʼistituto stesso del cinematografo. Le ricerche scientifiche hanno da sempre influenzato e determinato i modelli di vita delle società. Se in questo saggio ho dedicato una parte cospicua delle considerazioni sul fenomeno cinema alla luce del pensiero filosofico-scientifico e la sua evoluzione è perchè la storia dellʼuomo nel suo essere unico e intero non può che essere studiata in maniera interdisciplinare. Il cinema non è altro che unʼestensione psicofisica, una potenzialità acquisita, grazie alla tecnologia, per conservare, materializzare ed amplificare il pensiero. Nellʼera moderna, dopo il cinema, vi sono state tre nuove invenzioni che hanno introdotto grosse innovazioni e cambiamenti profondi nel settore della comunicazione: 1. La televisione 2. Internet 3. I videogames interattivi.
122
Nickel odeon venivano chiamate le sale sorte nei primi anni del ʻ900 dove, con una monetina , il nickel, si potevano vedere in unʼapposita postazione visiva individuale brevi filmati dai contenuti attrattivi e spesso erotici
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Il cinema nel futuro
Lʼinvenzione della televisione123 ha permesso la contemporaneità della visione dellʼevento, nel momento in cui si svolge, quindi una forma di partecipazione percettiva sincrona. La realtà delocalizzata (lʼevento trasmesso televisivamente può svolgersi in qualunque parte del mondo ed essere presente contemporaneamente ovunque sui teleschermi di chi è sintonizzato) ha trovato una sua concreta materializzazione. Allʼinizio dellʼesperienza televisiva le trasmissioni avvenivano esclusivamente in diretta e si svolgevano solo in alcune ore della giornata. Lo sviluppo di questo mezzo, e la possibilità di registrarlo su supporto magnetico, ha portato ad allungare sempre di più il tempo di trasmissione fino alla situazione odierna in cui le trasmissioni non hanno più alcuna interruzione essendo presenti 24 ore su 24 sui teleschermi di tutto il mondo. Ciò ha comportato uno snaturamento del mezzo (nato per la diretta) che è stato letteralmente riempito di prodotti registrati, compreso il cinema che rimane, ancora oggi, lʼattrattiva maggiore e a cui è dedicata, di solito, la fascia oraria con maggiore ascolto. La contemporaneità della visione offre lʼoccasione di esserci, cioè viene percepito come una sorta di partecipazione in diretta al corso degli avvenimenti della vita della comunità mondiale. Mezzo di informazione verticale ma, in qualche caso, anche di comunicazione orizzontale poiché i messaggi possono avere un feedback nei collegamenti istantanei in varie parti del mondo oltre allʼuso del telefono che permette al pubblico di intervenire nel programma trasmesso. Ma questa forma di interattività, essendo molto costosa e poco controllabile (in diretta è difficile censurare) non è poi molto usata come potrebbe esserlo.
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Lʼinvenzione della televisione, ossia lʼosservazione istantanea di oggetti distanti trasmessi grazie ad impulsi elettrici, è il risultato di un processo di scoperte successive e interdipendenti. Il primo tubo a raggi catodici è stato messo in commercio nel 1897 da Karl Ferdinand Braun, ma solo nel 1907 è stato collegato alla “visione elettrica” dal russo Boris Rosing. La prima vera dimostrazione pubblica di televisione è stata data il 27 gennaio 1926 dallo scienziato scozzese John Logie Baird, che aveva perfezionato il sistema di scansione meccanica brevettato da Paul Nipkow nel 1884. La scoperta di Baird è considerato il primo vero sistema televisivo della storia. Nel 1934 V.K. Zworykin mise a punto lʼiconoscopio per lʼesplorazione elettronica dellʼimmagine. La prima trasmissione televisiva al mondo con buona definizione dellʼimmagine (405 linee) è stata effettuata dallʼAlexandra Palace di Londra il 2 novembre 1936. Il 20 aprile del 1939 viene comunemente considerata la data ufficiale di nascita della televisione.
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Il cinema nel futuro
Dalle tecnologie di difesa degli Stati Uniti durante la guerra fredda nasce Internet124 che, una volta resa di dominio pubblico, ha costituito una sorta di liberalizzazione della comunicazione attraverso lʼinterattività dei processi comunicativi. Questo formidabile strumento, infatti, è costituito da una rete alla quale è possibile collegarsi per trasmettere e ricevere informazioni più svariate: testi scritti, fotografie, musica e film. La trasmissione avviene in maniera molto rapida, quasi istantanea, e i costi di gestione sono veramente bassi per il servizio che offre. Tutto ciò ha favorito lo sviluppo in tempi molto brevi di questo fenomeno. Internet ha rivoluzionato i sistemi precedenti di comunicazione dati costituendo un grande contenitore mondiale di informazioni e documenti senza precedenti nella storia dellʼumanità. La caratteristica principale che fa di Internet una tecnologia allʼavanguardia è lʼinterattività della comunicazione attraverso due modalità fondamentali: 1. la chat line con la quale è possibile comunicare (tramite tastiera) in tempo reale scrivendo contemporaneamente ed interagendo con altre persone. 2. la webcam con la quale è possibile mettersi in contatto video e audio in tempo reale in tutto il mondo.
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Internet nacque nel 1969 come rete sperimentale costruita per il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti dallʼARPA (Advanced Research Project Agency). La rete fu chiamata ARPANET e il progetto aveva due obiettivi principali: consentire la comunicazione e lo scambio dei dati tra computer aventi diverse architetture hardware e differenti sistemi operativi; creare una rete di elaboratori decentrata che potesse resistere ad un attacco nucleare da parte dellʼUnione Sovietica. Una tale rete decentrata sarebbe sopravvissuta a molti attacchi visto che un attacco ad un singolo elaboratore non ne avrebbe impedito il funzionamento generale, ed i collegamenti ridondanti avrebbero sostituito quelli distrutti. Il risultato di questi sforzi fu lo sviluppo del protocollo TCP/IP (Transfer Control Protocol/ Internet Protocol) che rappresenta la base per tutte le comunicazioni su Internet. Nel 1992 presso il CERN di Ginevra il ricercatore Tim Berners-Lee definì il protocollo HTTP (HyperText Transfer Protocol), un sistema che permette una lettura ipertestuale, non-sequenziale dei documenti, saltando da un punto allʼaltro mediante lʼutilizzo di rimandi (link o, più propriamente, hyperlink). Il primo browser con caratteristiche simili a quelle attuali, il Mosaic, venne realizzato nel 1993. Esso rivoluzionò profondamente il modo di effettuare le ricerche e di comunicare in rete. Nacque così il World Wide Web.
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Questa potenzialità di interagire istantaneamente incontrandosi tecnologicamente a grandi distanze è la virtù maggiore del word wide web. Le modalità con cui avviene tale interconnessione è chiamata, appunto, virtuale giacchè rappresenta in qualche modo unʼespansione meta-fisica delle nostre capacità fisiologiche. Il famoso sociologo MacLuhan asserisce che tutte le tecnologie, quindi tutti i media, possono essere considerati come estensioni specializzate delle funzioni psichiche e mentali dellʼuomo. Queste estensioni provocano quella che McLuhan chiama la narcosi di Narciso. Gli esseri umani sono infatti «soggetti allʼimmediato fascino di ogni estensione di sé, riprodotta in un materiale diverso da quello stesso di cui sono fatti125» Tutti i media hanno effetti sui sensi perché tutti fanno appello allʼuno o allʼaltro dei sensi per poter operare secondo modi altamente differenziati che impongono ciascuno il proprio ordine. Lʼutilizzazione dei media può portare, a lungo andare, a una forma di assoggettamento che può modificare lʼequilibrio dellʼapparato sensoriale. Alcuni dei sensi sono sollecitati, altri quasi atrofizzati. Lʼinfluenza di ciascun senso sulla psiche di differenzia nella sua modalità e nel suo impatto sensoriale; è la ragione per cui ogni modifica di un equilibrio sensoriale porta con sé una modifica proporzionale dellʼequilibrio psichico. La vista, per esempio, favorisce più degli altri sensi lʼesperienza intellettuale, lʼapprendimento di primo impatto, mentre lʼudito e il tatto sono piuttosto legati allʼanalisi e alla percezione emotiva. Una volta penetrati nelle nostre vite – prosegue il sociologo canadese– i media diventano estensioni delle nostre facoltà al punto da indebolire alcune capacità ed avere un effetto narcotico su di noi. Da qui il celebre motto secondo il quale il medium è il massaggio126 nel senso che ogni medium condiziona i propri utenti e contribuisce a plasmarne le caratteristiche psicosomatiche, dunque in un certo senso li massaggia. Ogni estensione di una facoltà umana è la reazione a una irruzione causata dallʼambiente che giunge sotto forma di esigenze sempre più imperati-
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McLuhan M., , Understanding media. The Extensions of Man, McGraw-Hill Book Company, New York, 1964; trad. it. Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano, 1986, p.61
126
McLuhan M. e Fiore Q. The medium is the massage, New York, Bantam Books, 1967; ed. it. Il medium è il massaggio, Milano, Feltrinelli, 1968
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ve in relazione alla facoltà minacciata. Il nuovo medium, dunque, se da una parte è un antidoto destinato a salvaguardare lʼequilibrio dellʼorganismo sociale, dallʼaltra è anche un atto di autoamputazione «ogni invenzione o tecnologia – scrive McLuhan nel saggio citato – è unʼestensione o unʼautoamputazione del nostro corpo, che impone nuovi rapporti o nuovi equilibri tra gli altri organi e le altre estensioni del corpo127»: lʼautomobile, per esempio, sostituisce le gambe, ma per questo fatto stesso, essa gli toglie le sue più importanti funzioni: è una specie di amputazione. Questa estensione di una facoltà che si accompagna anche con la propria amputazione, imprime uno shock traumatizzante sulla psiche che registra tale shock secondo un processo di desensibilizzazione o di intorpidimento. McLuhan afferma che le nuove tecnologie effettuano una specie di chirurgia collettiva. Una conseguenza di ciò sta nel nostro senso di alienazione e nel senso di atomizzazione che si riflette nel crollo dei valori sociali, quali il diritto alla vita privata e il rispetto dellʼindividuo. «Questi valori vengono travolti dal vortice della nuova tecnologia e lʼuomo della strada ha la sensazione che il cielo gli cada in testa128». Solo un artista autentico – dice ancora McLuhan – può essere in grado di fronteggiare impunemente la tecnologia, proprio perché è un esperto consapevole dei mutamenti che intervengono nella percezione sensoriale. Ognuno di noi può facilmente accorgersi che sta mutando la maniera di interagire dellʼuomo con la realtà che lo circonda nel senso che è stata stimolata una sensazione che il mondo sia più piccolo, più vicino e alla portata di mano (o di un click di mouse), che si possa partecipare, anche se virtualmente, a ciò che accade nel grande mondo della rete, ciò che MacLuhan chiama Villaggio globale. Lʼistanza partecipativa virtuale ci sembra che si stia affermando sempre di più nellʼimmaginario collettivo nellʼambito dello spettacolo. Basta osservare la proliferazione dei Reality show nelle trasmissioni televisive che inducono ad un coinvolgimento decisionale dello spettatore in riferimento alle svolte drammatiche delle vicende. In queste situazioni non ci sono attori a dar spettacolo ma persone comuni che ingenerano aspettative partecipative del tipo: potrei essere io al loro posto.
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McLuhan M. Understanding Media: The Extensions of Man. op. cit. p. 64-65
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McLuhan M. Understanding Media: The Extensions of Man. op. cit. p. 58
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Probabilmente questi mutamenti del gusto della comunità spectante nella direzione partecipativa potrebbero portare ad una ridefinizione della forma futura del cinematografo. La gente potrebbe stancarsi129 di vedere uno spettacolo cinematografico, così come siamo soliti fare oggi, in cui non può intervenire per condizionarne gli sviluppi drammatici. Questo bisogno indotto di interattività potrebbe avere risvolti interessanti in un futuro prossimo. Lʼesigenza è sentita anche da un regista dalla sensibilità molto acuta come Peter Greenaway che, in unʼintervista, così si esprime: «Io credo semplicemente che il mondo sia stanco del cinema. Voglio dire, il vero cinema, quello della provocazione, ormai è morto, nessuno fa più cose interessanti in Europa. Qui in Italia la produzione importante è completamente sparita, la Francia ha un industria ancora forte, ma non sta facendo nulla che abbia un qualche interesse. Le persone che potrebbero fare buon cinema si stanno dedicando ad altro, fanno i webmaster, i videoartisti, cercano nuove forme di espressione che coinvolgano le due principali novità di questo secolo, la multimedialità e lʼinterattività, e il cinema non può utilizzare nessuna di queste. Ogni società si merita la cultura che sa creare. Il cinema ha avuto i suoi giorni di gloria per circa un secolo, adesso dobbiamo creare qualcosa di nuovo, e io voglio essere parte di tutto questo».130 Il regista inglese ha prodotto un game-film che è già in rete e nel quale lo spettatore-giocatore può far prendere alla storia innumerevoli risvolti. Il game, Tulse Luper journey, che prende il nome dal protagonista, ha la struttura di un film in cui si possono scegliere i personaggi e le scene in cui ʻvivereʼ lʼesperienza virtuale131. Sono le prime avvisaglie di una svolta? È difficile dirlo e altrettanto prevederlo. Negli Stati Uniti agli inizi degli anni ʼ90 è stato fatto un esperimento di film interattivo intitolato Iʼm the man, nel quale gli spettatori ogni 90 secondi erano direttamente coinvolti nella vicenda di Jack Beamer, con 129
Così come si stancò di vedere i film di Méliès.
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Intervista a Peter Greenaway di Pier David Malloni pubblicata in Internet: http://www. lastefani.it/settimanale/articl.php?directory=06216&block=999&id=1
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Lʼurl del sito è: http://www.tulseluperjourney.com e così viene descritto: «Tulse Luper is the lead character in an ambitious series of projects initiated by film director Peter Greenaway. So far, the project includes three feature films, a series of DVDʼs, travelling exhibitions, books, publications and this online game produced by Submarine. ».
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la possibilità di decidere sulle sue sorti; il tutto servendosi di una sorta di joystick, posto vicino ad ogni spettatore con tre tasti colorati corrispondenti a tre diverse alternative che venivano fornite per la continuazione della storia (tipo: vai a destra, dritto, torna indietro, ecc.); ogni spettatore poteva fare la sua scelta, mentre un computer analizzava statisticamente in tempo reale le risposte, comandando poi un sistema di videodischi. Il risultato non è stato entusiasmante data la macchinosità del sistema e soprattutto perchè le scelte erano il frutto di una maggioranza dei telespettatori, mentre lʼinterattività si basa sul rapporto individuale. Anche nel nostro Paese sono in atto le prime sperimentazioni: Ercole Egizi si vanta di aver realizzato il primo film interattivo italiano dal titolo “E”. Si tratta di una love story con risvolti nel thriller psicologico, la fantascienza e la commedia trash allʼitaliana dove lo spettatore può scegliere il finale tra diverse sceneggiature. Il debutto è su “e.BisMedia”, la prima tv via cavo on demand nata nel nostro Paese. Il nuovo progetto televisivo, prodotto da The Family e Swan Film Europe, dura 45 minuti in tutto, ma, con il telecomando, lo spettatore può scegliere tre diversi finali oppure seguire la storia di uno solo dei protagonisti. «Lo spettatore diventa regista –spiega Ercole Egizi, sceneggiatore e ideatore del film– quando ho pensato “E” avevo in mente una specie di Rosa purpurea del Cairo al contrario, dove cioè il pubblico diventa attore e sceneggiatore, entra nel film e cambia tutto». Questa situazione somiglia molto ai videogames in cui non vi è uno spettatore ma un attore che si immerge in una storia e agisce virtualmente determinando le situazioni. Oggi i videogiochi vanno assumendo sempre più la forma di un film. Scene iper-realistiche, musica di sottofondo, titoli di testa e di coda stacchi di prospettiva etc. Esiste un canale di SKY in cui si può giocare in diretta scegliendo fra unʼincredibile quantità di videogames. Le statistiche ci dicono che i giovani (entro i ventitrè anni) passano più tempo davanti ai videogames che a vedere un film e lʼindustria del divertimento elettronico ha aperto le sue sale accanto alle multiplex cinematografiche. La Sony Pictures Home Entertainment è impeganta a lanciare un nuovo supporto chiamato Blu ray che consiste in un DVD di nuova generazione con molta più capacità di memoria (ben 57 Gigabyte). Con questo sistema un film dʼazione può trasformarsi in un videogioco ad altissima risoluzione dando la possibilità allo spettatore di interagire con le sequenze del film. Le nuove frontiere del videogame interattivo sono in piena espansione. Probabilmente non sostituiranno il cinema che in qualche maniera dovrà fare i conti con questa nuova emergenza se non vuole ritornare nei luoghi delle sue origini: le antiche sale Nikel odeon potrebbero diventare le nuove Euro odeon.
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Appendice
La visione cinema Le riflessioni di George Méliès, raccolte da Maurice Noverre, che vi proponiamo costituisce un interessante documento sotto molti punti di vista. Méliès è stato il primo uomo dello scorso secolo a trovarsi davanti alla nuova invenzione del cinema e da questa ne ha fatto uscire fuori lʼanima inventando unʼutilizzazione spettacolare del mezzo e ricercandone le potenzialità che fino a quel momento non erano state neppure pensate. I suoi modelli sinaptici (le competenze di illusionista) gli hanno permesso di mettere in relazione la nuova tecnologia che registrava il reale con lʼirrealtà dei suoi spettacoli. Allʼinizio il grande mago avrà pensato che attraverso il cinema i suoi spettacoli sarebbero stati più attrattivi, infatti i suoi primi film erano parte integrante dei numeri di illusionismo. Poi probabilmente si rese conto che forse sarebbe stato più semplice, oltre che più attrattivo, creare attraverso il cinema le sue performance e così nacque lo spettacolo cinematografico. In questa intervista trapela lʼentusiasmo per il nuovo strumento e la chiara pre-visione delle grandi possibilità che il cinema poteva offrire ad un grande manipolatore della realtà come era lui.
Les vues cinematographiques di George Méliès da: Revue du Cinema. Paris, n.4-5, Ottobre 1929. pp. 21-31 Abbiamo chiesto a Maurice Noverre di comunicarci queste riflessioni di George Melies sulle visioni cinematografiche. Diamo qui gli estratti principali di questo studio pubblicato nel 1907 assolutamente introvabile oggi. LA COMPOSIZIONE DEI SOGGETTI E I GENERI In questa categoria possono trovare posto tutti i soggetti dove la scena è preparata come al teatro, rappresentata da attori davanti alla cinepresa, i generi sono molto numerosi, dalle scene comiche, burlesque, fino ai dram-
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mi più tenebrosi, passando dalle commedie alle farse, gli inseguimenti, le clowneries, le acrobazie, i numeri di danza leggiadri, artistiche o eccentriche, i balletti, lʼopera, le rappresentazioni teatrali, le scene religiose, i soggetti scabrosi, i quadri plastici, le scene di guerra, dʼattualità, i fatti di cronaca, gli incidenti, le catastrofi, i crimini, gli attentati etc. La possibilità del cinema non conosce più frontiere. Tutto quello che lʼimmaginazione può fornire come soggetto il cinema se ne impossessa. È soprattutto questo che ha reso il cinema immortale perché i soggetti dellʼimmaginazione sono infiniti e inesauribili. LE RIPRESE DETTE A TRASFORMAZIONE Adesso arrivo alla categoria delle riprese dette a trasformazione. Però la dizione è impropria. Mi sarà permesso credo, visto che ho creato io stesso questo campo speciale, mi permetto di dire che ʻscena fantasticaʼ sarebbe la parola più esatta. Infatti, se queste scene comportano delle metamorfosi, vi è in un gran numero di esse dove non cʼè alcuna trasformazione, ma ci sono dei trucchi ad opera della macchina teatrale, delle illusioni ottiche, e tutta una serie di procedimenti per i quali non esiste altro nome che “trucchi”, nome poco accademico ma che non ha equivalente nel linguaggio dotto. Tuttavia questa categoria è molto più estesa perché ingloba tutto: dalle scene in plein air (non preparate o truccate, riprese dal vivo) fino alle composizioni teatrali più importanti passando per tutte le illusioni che può produrre la prestidigitazione, lʼottica, il trucco fotografico, la decorazione e le macchine teatrali, i giochi di luce e gli effetti di dissolvenza (dissolving wiew, come le chiamano gli inglesi) e tutto lʼarsenale delle composizioni fantastiche, fuori di testa, le più intraprendenti… Senza alcuna intenzione di diminuire le due prime categorie, adesso vorrei parlare esclusivamente di queste ultime perchè sono di mia invenzione e quindi ne potrò parlare con più competenza. Dal giorno in cui (e questo risale a dieci anni fa) numerosi realizzatori di scene cinematografiche si sono buttati a produrre scene tratte dalla realtà o di soggetti comici, di buona o cattiva qualità che fossero, ho lasciato da parte le cose più semplici ed ho creato una specialità realizzando i soggetti più interessanti per la loro difficoltà di esecuzione ai quali mi sono esclusivamente dedicato.
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Lʼarte cinematografica offre una tale varietà di ricerca ed esige una così grande quantità di lavoro di tutti i generi e richiede unʼattenzione così intensa che non esito a definirla la più attraente delle arti perché le utilizza quasi tutte: arte drammatica, disegno, pittura, scultura, architettura, meccanica, lavori manuali di tutti i generi. Tutto è utilizzato in dosi uguali in questa straordinaria professione e la sorpresa di quelli che per caso hanno potuto assistere ad una parte dei nostri lavori ne hanno ricevuto sempre molto divertimento e un estremo piacere. La solita frase che è sempre sulle loro labbra: “Veramente è straordinario, non mi sarei mai immaginato che ci volesse tanto spazio e tanto materiale per ottenere queste scene. Non mi sarei mai reso conto di come si potesse fare”. Ahimè non possono comprendere di più perché occorre mettere le mani in pasta per poter capire le numerose difficoltà che bisogna superare in un mestiere che consiste nel realizzare tutto, anche quello che sembra impossibile e a dare lʼapparenza della realtà ai sogni più chimerici, alle invenzioni più inverosimili dellʼimmaginazione. Per concludere devo dire che bisogna per forza realizzare lʼimpossibile, visto che lo si deve riprendere e farlo vedere. IL LABORATORIO DI POSA Per il genere specifico che ci interessa abbiamo dovuto creare un laboratorio predisposto ad hoc. In poche parole è lʼunione tra il laboratorio fotografico (in proporzioni giganti) e il palcoscenico teatrale. La costruzione è fatta in ferro e vetro ad unʼestremità cʼè la cabina con la cinepresa e lʼoperatore mentre allʼaltra estremità il palcoscenico costruito esattamente come quello della scena teatrale. Esso è diviso in botole e da ogni lato della scena di trovano le quinte con i magazzini per il decoro e dietro i camerini per gli artisti e i figuranti. Al di sotto del palcoscenico trovano posto delle aperture e botole necessarie per far comparire o sparire le divinità infernali nelle scene fantastiche. Delle false strade dove spariscono le case mentre si svolgono, a vista, i cambiamenti di panorama attraverso un sistema di tamburi con elevatori che necessitano di molta forza per spostare personaggi o carri volanti, voli obliqui sulla scena per gli angeli, fate, nuotatrici etc. Degli speciali tamburi servono per manovrare le tele panoramiche. I proiettori servono per illuminare e a mettere in evidenza le apparizioni varie.
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Per riassumere è realizzata in piccolo unʼimmagine abbastanza fedele del teatro fantastico. La scena è 10 mt. di larghezza più 3 mt. di quinte. La lunghezza del laboratorio, dallʼavanscena alla cinepresa è di 17 metri. Non sono compresi, perché sono al di fuori, gli hangar di ferro per la costruzione degli accessori di falegnameria e una serie di atelier e magazzini per il materiale di costruzione di accessori e costumi. COMPOSIZIONE E PREPARAZIONE DELLE SCENE La composizione di una pièce, di un dramma o di una scena fantastica, una commedia, richiede naturalmente la realizzazione di uno scenario che deriva dallʼimmaginazione, poi la ricerca degli effetti che faranno presa sul pubblico, la realizzazione di bozzetti vari, modellini plastici delle decorazioni e dei costumi; lʼinvenzione del nucleo dello spettacolo senza il quale nessuna scena avrebbe possibilità di successo. Quando si tratta dellʼillusione o di fantasticherie, lʼinvenzione, la combinazione, i bozzetti dei trucchi e lo studio precedente alla costruzione richiedono una cura molto speciale: la messa in scena è minuziosamente preparata in anticipo come i movimenti di figurazione e la disposizione dei personaggi e dei tecnici. È un lavoro analogo alla preparazione di una scena teatrale con la sola differenza che lʼattore deve saper da solo combinare tutto sulla carta: deve cioè saper essere contemporaneamente autore, regista, disegnatore e spesso attore se vuole ottenere unʼazione coerente che regga. Lʼinventore della scena deve dirigere in prima persona tutto perché è assolutamente impossibile ottenere un risultato soddisfacente se dieci persone differenti dovessero occuparsene. Bisogna prima di tutto sapere bene quello che vogliamo fare e spiegare varie volte a tutti i loro ruoli. Bisogna tenere conto che lʼattore non potrà ripetere per tre mesi la parte da recitare, come si fa in teatro, ma un quarto dʼora al massimo; se perdiamo del tempo il giorno finisce, si fa buio e… addio alle riprese. Tutto deve essere previsto, soprattutto per evitare gli intoppi durante il lavoro e nelle scene dove si fa uso di macchine di intoppi ce ne sono molti.
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I DECORI I decori devono essere eseguiti seguendo il modello plastico prescelto. Sono costruiti in falegnameria e tela in un laboratorio adiacente allo studio di posa e dipinti alla colla, come la decorazione teatrale; solamente la pittura va eseguita esclusivamente in grigio usando tutte le gamme di grigio intermediarie dal nero al bianco puro. Assomigliano molto alle decorazioni funebri e fanno un effetto strano a chi le vede per la prima volta. I decori a colori vengono orribilmente male: il blu diventa bianco e i rossi i verdi e i gialli diventano neri, ne esce una distruzione completa dellʼeffetto che si vorrebbe dare, quindi è necessario che i decori siano dipinti come gli sfondi dei fotografi. La pittura deve essere estremamente accurata, al contrario della decorazione teatrale, lʼesattezza della prospettiva, il trompe dʼoil eseguiti bene, gli oggetti definiti realisticamente come nei panorami, tutto ciò è necessario per dare lʼeffetto della verità alle cose assolutamente false che la cinepresa fotograferà con precisione assoluta. Tutto quello che è fatto male sarà fedelmente ripreso dalla cinepresa, quindi bisogna stare bene attenti ed eseguire il tutto con cura meticolosa. Non conosco altro modo di lavorare. Per quanto riguarda, quindi, i materiali il cinematografo deve fare meglio che del teatro e non può accettare il convenzionale. GLI ATTORI E I FIGURANTI Contrariamente a quello che crediamo generalmente è molto difficile trovare buoni artisti per il cinema. Un attore, eccellente al teatro, anche un primo attore, non vale assolutamente niente per le scene cinematografiche. Spesso dei mimi di professione non sono bravi perché recitano in pantomima con dei principi convenzionali, allo stesso modo dei mimi nei balletti essi hanno uno speciale modo di recitare che si riconosce immediatamente. Questi artisti, molto eccellenti nella loro specialità, sono sconcertati non appena si avvicinano al cinema. Questo avviene per il fatto che la mimica cinematografica richiede tutto uno studio a se e delle qualità speciali. La non cʼè il pubblico al quale lʼattore si rivolge sia verbalmente che mimando. Solamente la cinepresa è la spettatrice e non cʼè niente di peggiore di guardarla quando si recita, come purtroppo succede le prime volte
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agli attori abituati al teatro e non al cinema. Occorre che lʼattore si immagini che deve farsi capire dal pubblico sapendo di essere muto e che gli spettatori siano sordi. Questa sua arte deve essere sobria e molto espressiva: pochi gesti ma molto netti e molto chiari. Giochi di fisionomia perfetti e comportamenti calibrati sono indispensabili. Ho visto numerose scene recitate da attori conosciuti che non erano buone perché il principale elemento del loro successo, la parola, mancava. Abituati a parlare bene, usano il gesto solamente come accessorio alla parola. Mentre nel cinema la parola non è niente. Il gesto è tutto. Alcuni attori hanno fatto delle buone scene, per esempio Galipaux perché è abituato a mimare nei suoi monologhi (monomime) e perché è dotato di una fisionomia molto espressiva. Questa persona sa farsi capire senza parlare e il suo gesto, anche se è volontariamente esagerato (il che è necessario nella pantomima cinematografica) è sempre molto preciso. Il gesto molto sicuro di un attore, quando accompagna la sua parola non è più comprensibile quando lo mima. Se in teatro dite: “Ho sete”, non porterete il vostro pollice alla bocca per simulare una bottiglia; è perfettamente inutile perché tutti hanno sentito che voi avete sete, ma nella pantomima sarete obbligati a fare questo gesto. È semplice non è vero? Purtroppo nove volte su dieci questo non avviene soprattutto a personaggi che non hanno lʼabitudine di mimare. Niente si improvvisa, tutto si impara. Bisogna anche tenere conto della resa della macchina da presa. I personaggi, quando si trovando in unʼinquadratura, sono incollati lʼuno vicino lʼaltro, bisogna stare molto attenti a distaccare e mettere in evidenza i personaggi principali e moderare lʼardore dei personaggi secondari, sempre pronti a gesticolare a sproposito. Questo ha lʼeffetto di provocare un miscuglio di gente che si muove: il pubblico non sa più dove guardare e non comprende niente dellʼazione. Le frasi devono essere scandite in tempi successivi e non simultanee, per questo gli attori devono imparare a recitare nel preciso momento che il loro ruolo lo richiede: lʼuno dopo lʼaltro. Ancora una cosa che spesso ho avuto molta difficoltà a far capire agli artisti, sempre portati a mettersi in evidenza e a farsi notare a discapito dellʼazione e del contesto. Generalmente vogliono fare troppo e quante precauzioni bisogna avere per mitigare questa voglia di fare senza offendere nessuno.
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Potrà sembrare strano, ma ciascuno degli gli artisti che io utilizzo nella mia troupe sono stati scelti tra venti o trenta attori ai quali ho fatto un provino senza ottenere ciò che volevo eppure erano tutti ottimi artisti dei teatri di Parigi dei quali fanno parte. Nessuno aveva le qualità necessarie e la buona volontà non può sostituire la qualità sfortunatamente. Quelli che hanno la stoffa entrano rapidamente nel gioco, gli altri mai. Le artiste donne, specialmente quelle che mimano sono molto rare. Molte sono belle donne, intelligenti, indossano splendidamente i costumi, però quando si tratta di mimare una scena un poʼ difficile, ahimè… falliscono. Chi non ha visto la fatica che si mette quando si costruisce una scena non ha visto niente. Vorrei però aggiungere che ci sono quelle che fanno eccezione e recitano con molta intelligenza. In conclusione formare una buona troupe cinematografica è una cosa lunga e difficile, solo quelli che non amano lʼarte si accontentano dei primi venuti per realizzare velocemente, e male, scene che risultano confuse e prive di interesse. I TRUCCHI È impossibile in questa conversazione, già abbastanza lunga, spiegare in dettaglio lʼesecuzione dei trucchi cinematografici, occorrerebbe unʼopera a parte, anche se solo la pratica potrebbe fare capire in dettaglio i procedimenti utilizzati e quali incredibili difficoltà comportano. Io posso dire, senza millantare visto che tutti i professionisti sono lieti di riconoscerlo, di essere stato io stesso ad aver trovato tutti i procedimenti detti ʻmisteriosiʼ del cinema. Tutti i produttori di scene articolate hanno seguito più o meno il cammino che avevo tracciato e uno di loro, il capo della casa cinematografica più grande del mondo, dal punto di vista della grande produzione a buon mercato, mi ha detto: “Grazie a lei il cinema ha potuto crescere e diventare un successo senza precedenti. Applicando la fotografia animata al teatro con dei soggetti variabili allʼinfinito avete impedito al cinema il fallimento, quello che sarebbe successo rapidamente con i soggetti realistici girati in esterno che fatalmente si assomigliano tutti e avrebbero finito con lʼannoiare il pubblico”. Devo ammettere senza falso pudore, che questa gloria, se gloria è, è quella che mi rende più felice. Volete sapere come mi venne la prima idea di applicare i trucchi al cinema? Molto semplicemente ….
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Un blocco della Mdp che usavo allʼinizio (un apparecchio rudimentale nel quale la pellicola si inceppava spesso e si rifiutava di andare avanti) produsse un effetto inatteso un giorno che riprendevo la piazza dellʼOpera; fu necessario un minuto per sbloccare la pellicola e rimettere in marcia lʼapparecchio. Durante questo minuto i passanti, il Bus, le macchine hanno cambiato di posto naturalmente. Proiettando la pellicola ricucita al punto in cui si era spezzata, ho visto dʼun tratto il Bus Madleine-Bastille cambiato in un carro funebre e degli uomini cambiati in donne. Il trucco per sostituzione, detto trucco ad arresto, era stato trovato e due giorni dopo eseguì le prime trasformazioni di uomini in donne e le prime sparizioni repentine che ebbero al mio debutto, un così grande successo. Grazie a questo trucco molto semplice ho eseguito le prime fantasticherie: Le Manoir du Diable, Le Diable au convent, Cendrillon, etc. Un trucco poi ne porta un altro. Davanti al successo di questo nuovo genere successivamente mi ingegnai a trovare nuovi procedimenti e immaginai successivamente i cambiamenti dei fondi con dissolvenze, ottenute con un dispositivo speciale della Mdp, le apparizioni, le scomparse, le trasformazioni ottenute per sovrapposizione su fondi neri o su una parte del fondale decorata riservata a ciò, poi le sovrimpressioni su fondo bianco già impressionato. Tutto ciò, che tutti dichiaravano impossibile prima di averlo visto, si ottiene grazie a un sotterfugio del quale non posso parlare, gli imitatori non ne sono ancora riusciti a capirne completamente il segreto. Poi ci furono i trucchi delle teste tagliate, dello sdoppiamento dei personaggi: scene recitate da un solo personaggio che sdoppiandosi finisce per rappresentare da solo fino a dieci personaggi simili che recitano tra loro. In conclusione, utilizzando le mie conoscenze speciali di illusionismo che 25 anni di pratica al Teatro Robert Houdini mi avevano insegnato, ho introdotto nel cinema i trucchi di meccanica, ottica, prestidigitazione, etc. Con tutti questi trucchi messi insieme e utilizzati con competenza non esito a dire che nel cinema è oggi possibile realizzare le cose più impossibili e inverosimili. Tuttavia è il trucco intelligentemente applicato che permette di rendere visibile il sovrannaturale, lʼimmaginario, anche lʼimpossibile e di realizzare delle scene veramente artistiche che sono una vera gioia per quelli che sanno comprendere come tutti questi vari campi delle arti concorrono alla loro realizzazione.
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Filmare il teatro Intervista a Torgeir Whetal Torgeir Whetal è uno degli attori che hanno fondato lʼOdin Teatret di Eugenio Barba. Ci siamo conosciuti nellʼestate del 1974 quando venne con il suo gruppo a Carpignano Salentino, un piccolo centro della provincia di Lecce, per quella formidabile esperienza alla quale partecipai con il gruppo teatrale dellʼUniversità di Lecce Oistros di cui ero uno dei fondatori. Torgeir ha filmato quasi tutti gli spettacoli dellʼOdin producendoli attraverso la Odin teatret film. Vedendo i suoi film mi rendevo conto che non erano realizzati con la solita tecnica documentaria ma avevano qualcosa in più. Qualcosa di particolare che li rendeva speciali, come se la sua macchina da presa fosse presente dietro ogni angolo e volasse insieme agli attori. Mi sembrava che avesse messo a punto una tecnica particolare per documentare il lavoro dellʼOdin, così, chiacchierando con lui sulle problematiche del fare cinema documentario nacque questa intervista in cui son presenti alcune interessanti riflessioni non solo sulla tecnica cinematografica, ma anche sul senso e lʼatteggiamento del regista verso la realtà ripresa. Quali problemi hai incontrato nel documentare con il Cinema unʼattività teatrale. Io ho scelto, dopo aver fatto una serie di esperienze, di vedere gli spettacoli dal di dentro, cioè non vederli come se fossi uno spettatore che guarda sul palco o in una piazza, il mio caso è un poʼ speciale nel senso che conoscevo già bene quello che sarebbe successo, ma ho sempre ri-creato una situazione privilegiando lʼimprovvisazione e ricostruendo i processi che portano allo spettacolo, questo lʼho fatto già nei primi film sul training dellʼattore dellʼOdin. Per esempio, quello che nel film sembra unʼunica improvvisazione vocale in effetti è il risultato di varie improvvisazioni svolte nellʼarco di una settimana e messe insieme poi con il montaggio. Per me è stato semplice perché, conoscendo gli attori, sapevo che la mia ricostruzione per il film sarebbe stata fedele a quello che loro potevano aver fatto. La conoscenza di quello che si riprende è fondamentale per restituire allo spettatore, con maggiore fedeltà, quello che è accaduto. Per il film sul Vangelo di Oxyrincus invece la situazione era differente, lʼho girato come visto da dentro, cioè dal punto di vista non di vari
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spettatori, ma di vari attori, come se fosse visto dal palco in cui gli attori agivano. Per descrivere una situazione devi entrare dentro. In questo caso, però, ho incontrato quello che è il vero problema del cinema che riprende il teatro. Nel teatro, o almeno quel particolare teatro che facciamo noi, tutto succede nello stesso tempo, la situazione teatrale che creiamo non è lineare, tutto dipende da dove lo spettatore guarda, quale montaggio fa: a sinistra, a destra, dietro o di fronte a te, tutto avviene nello stesso momento. Tutto questo nel film non può esistere perché il cinema è lineare, le inquadrature si succedono una dopo lʼaltra, e succede che il film ha una durata maggiore dello spettacolo, anche se non sembra, perché io mostro quasi tutto, più di quello che potrebbe vedere un singolo spettatore. Quello che nel film è una azione dopo lʼaltra, nello spettacolo succede nello stesso tempo. Quindi nel film tu hai la possibilità di far vedere lo spettacolo da più punti di vista rispetto a quello che può vedere un singolo spettatore. Certo, però lo spettacolo perde la sua dinamica acquistandone unʼaltra. Il montaggio soggettivo di ogni singolo spettatore non cʼè più, è già fatto dal regista nel film. Nel film, quindi, cʼè il tuo punto di vista, quello del regista che sceglie che cosa mostrare. Devi cercare di mostrare tutto e allora preferisco non di ʻmostrare lo spettacoloʼ ma ricreare lo spettacolo con il cinema. Come ho fatto in altre occasioni, ricreo una situazione che potrebbe accadere. Penso allʼesperienza nel Perù, in Sulle due sponde del fiume (1978) tantissime situazioni sono state girate con una sola camera mentre sembrano cinque e sono state ricreate tutte per il film. Io credo che un documentarista debba ricreare un effetto, una sensazione, una nuova situazione che è simile a quello che è successo, ma che non è la stessa. Devi provare a restituire lo stesso effetto. Teatro e cinema sono molto differenti ma il ritmo scenico ha molte analogie: si tratta di ri-scrivere una partitura usando strumenti diversi. Io ho sempre amato il montaggio ed ancora oggi è la fase del film dove mi trovo a lavorare meglio, dove puoi creare una realtà, quella cinematografica con gli elementi che hai. Crei una nuova situazione che magari non
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è successa in quel modo, o almeno non in quellʼordine. Questo chiaramente dipende dal fatto che conosco bene la realtà e i materiali su cui lavoro. Probabilmente lavorando su unʼaltra realtà, che non è così vicina a me, non potrei permettermi di seguire lo stesso metodo, avrei bisogno di vivere per conoscere a fondo questa realtà altrimenti correrei il rischio di manipolare la realtà e quindi documentare il mio punto di vista e non la situazione. Certamente il film è sempre qualcosa di soggettivo, personale ed è proprio questo ʻpersonaleʼ che bisogna coltivare, cioè essere dentro alle cose che mostri, averne conoscenza e coscienza, non come uno spione che resta a guardare dal di fuori, magari non visto. Anche lʼinquadratura è una scelta estremamente personale, mi ricordo quando sono ritornato al ristorante sulla costa salentina che abbiamo usato in unʼinquadratura esterna di Vestita di bianco (1974), non è simile, non è riconoscibile in quello che si vede nel film perché quando passo come un turista non mi metto in ginocchio e guardo dal basso includendo quellʼalbero etc. tutti gli elementi di composizione dellʼinquadratura sono estremamente personali. Anche se sono reali perché si trovano li davanti ai tuoi occhi, nel film diventano unʼaltra cosa che somiglia alla realtà, ma nello stesso tempo è diversa. Il teatro è un evento che si svolge in un certo luogo e in un determinato momento quindi o ci si trova li e allora, e si assiste allo spettacolo, oppure dopo la sua fine lʼevento scompare. Questa scomparsa è anche uno dei problemi dello studioso di storia del teatro che non può lavorare su documenti originali. Con i mezzi della riproducibilità tecnica si può procrastinare questo tempo. La ripresa di uno spettacolo a mezzo della pellicola o del video, quindi, può essere uno strumento per fissare lʼevento. Ma quali sono le modalità da usare per restituire allo spettatore cinematografico quanto è accaduto sul palcoscenico? Può il cinema documentare la performance? Il film che ho fatto su Oxyrincus (1991) per me è il più vicino alla documentazione di uno spettacolo che potevo fare, nel senso che ho provato a creare gli stessi effetti che lo spettacolo provoca negli spettatori. Però per farlo ho anche cambiato lo spettacolo. Uno dei grandi problemi che incontri in questo lavoro è che il linguaggio che usa lʼattore sul palco, nel senso della vastità delle azioni, intensità di voce, è completamente diverso da quello che dovevo usare per rispettare lʼestensione dello spazio in un film.
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Allora ho dovuto cambiare, modulare lo spazio, le azioni degli attori, perché trasferite nel film le azioni teatrali diventano ridicole e comunque non funzionano. Se una persona conosce bene le dinamiche dello spettacolo teatrale può studiare e capire bene quello che è successo, ma uno spettatore comune no; vede il film come si vede un film, unʼopera differente che ha i suoi codici e la sua forma propria. Abbiamo detto che lo spettacolo svanisce ma il film rimane. Quali sono le cose importanti che ci devono essere nel film di uno spettacolo che sarà visto da quelli che verranno dopo e che non hanno potuto assistere allo spettacolo. Probabilmente le stesse cose che sono importanti per me come attore e come regista e cioè le relazioni, i punti di azione tra gli attori: questi sono gli elementi che in se danno respiro, natura e senso allo spettacolo. Elementi che non vedi se metti una macchina da presa a venti metri di distanza, non vedi quello sguardo dellʼocchio che va verso lʼatro e la successiva reazione di risposta. Tutto quello che è il corpo carnale, la natura dello spettacolo, è quello che lo spettatore nella sala percepisce, anche se non ha il tempo per trasformarlo in un pensiero, unʼidea, ma forse solo in unʼemozione. Questo è il ping-pong di azioni e reazioni tra gli attori. Fare questo non è facile. Ho impiegato circa un anno per fare il film su Oxyrincus è stato un lungo lavoro e ho avuto molte difficoltà per trovare lʼordine giusto, o meglio la rete delle relazioni giusta. Una rete che è estremamente regolare ma nello stesso tempo ha mille combinazioni diverse. Nello spettacolo, come nel film questo è uguale, esiste un ordine nella comunicazione: azione-reazione, parola-risposta tra attori diversi, e questo lentamente crea una storia che viene fuori in una logica emotiva vera. Una serie di belle immagini, campi e controcampi che davano lʼidea delle relazioni funzionava ma non diventava un corso, un flusso. Allora ho creato delle storie dentro la storia che non esistono a livello di primo piano, e anche se gli spettatori possono non capire bene il significato di quella singola inquadratura, capiscono che qui cʼè una logica, allora ci si lascia trasportare dal flusso delle immagini che sono concatenate tra loro da una logica che è quella emotiva. Dico queste cose basandomi sulla mia esperienza, ritengo che sia molto difficile fare questo tipo di lavoro con uno spettacolo che non conosci nel dettaglio e in profondità.
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Quanto è importante la relazione che intercorre tra regista e operatore? Jean Rouch diceva che preferiva prendere nelle sue mani la macchina da presa piuttosto che affidarsi ad un occhio diverso dal suo. Se parliamo di una situazione antropologica dove tu devi reagire nel momento in cui si verifica il fatto allora son dʼaccordo con lui, però puoi trovare lʼoperatore che guarda come te. Quando ero nel Perù avevo due operatori che avevano un occhio che accettavo. Credo che per fare un film si abbia bisogno delle figure professionali del cinema. Per quelle performance in cui non è possibile ricreare, ma devi documentare quello che succede, come ti sei regolato, che soluzioni hai adottato? Puoi sempre ricrearle perché se stabilisci in partenza i punti di vista, poi lʼorganizzazione dei materiali in fase di montaggio è sempre un fatto creativo che ti permette di restituire il senso dellʼevento. Nella fase di ripresa occorre che tu sappia quello che ti serve per il montaggio finale. Eravamo a Cuba in Febbraio (2002) e ho visto una troupe norvegese che faceva un reportage con una fotografa che era soprattutto montatore. Era fantastico vedere come girava perché aveva la stessa tecnica che ho io, cioè sapeva di cosa aveva bisogno per poter poi fare il montaggio. I materiali di ripresa devono essere tali da permetterti di lavorare poi liberamente nel montaggio. Se devi documentare non puoi inventare storie ma devi attenerti a quello che hai visto, e quello che hai visto lo puoi raccontare anche attraverso qualcosa che può somigliare alla tua storia che hai vissuto vedendo, in maniera diciamo poetica. Cioè ricreare lʼimpressione che lʼevento ha dato a te. Non così è per il reportage, per il documentario che documenta ʻfatti freddiʼ. In questo caso devi stare ai fatti e non allʼimpressione personale. Però anche in questo caso i fatti sono filtrati attraverso il regista. Credo che non possa esistere un documentario oggettivo. Non si può negare se stessi, annullarsi. Fai un film per comunicare, ma la prima comunicazione avviene tra evento e regista. Allora il regista deve trovare il modo di comunicare ciò che ha provato oltre a ciò che ha visto e non deve negarsi questa sua peculiare funzione, il suo essere, la sua natura altrimenti la comunicazione perderà la sua efficacia.
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Da che cosa è nata lʼesigenza di documentare con il cinema il vostro lavoro teatrale? La mia attività non aveva niente a che fare con la documentazione. Da bambino ho cominciato a fare teatro e anche cinema. Erano due interessi che coltivavo contemporaneamente. Ho fatto anche piccole parti in qualche film, son riuscito a rimanere sul set anche se non recitavo, facendo lavori saltuari, il ciack, il garzone… Mi era abbastanza chiaro che lʼinteresse per il cinema era un bisogno che avevo di capire questo mezzo; Eugenio Barba lo aveva notato e, furbo comʼè, alla fine degli anni ʼ60, quando Mario Raimondo, che allora dirigeva i Servizi sperimentali della RAI, ci propose di realizzare dei film, io ho potuto cominciare a lavorare e sperimentare fino a quanto si poteva arrivare a usare il linguaggio cinematografico per filmare un fatto teatrale, quali erano i limiti. Si trattava di lavori che dovevano mantenere il loro valore per 25 anni. Allora sugli spettacoli teatrali, specie quelli della cosiddetta avanguardia si poteva soltanto leggere saggi o articoli di giornale, non erano documentati con il video quindi, le parole con le quali si descrivevano gli spettacoli, rimandavano ad un immagine che il lettore poteva farsi dello spettacolo. Siccome lavoravo sui nostri spettacoli, quelli dellʼOdin, ho iniziato a fare una serie di film che erano incentrati sul nostro modo di fare teatro, ma allʼinizio i film non nascevano da un esigenza di documentare lʼattività del gruppo anche se di fatto è questo che è anche avvenuto. Carpignano, Novembre 2002
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Scrivere con la luce Incontro con Vittorio Storaro Sono nella mia auto con Vittorio Storaro in direzione sud Salento, attraversando distese di ulivi secolari e muretti a secco che scorrono sotto un cielo azzurro intenso di una giornata cristallina di Settembre. Vittorio guarda fuori dal finestrino ammirando la qualità di questa luce salentina che definisce ʻintensaʼ. Io scherzo dicendogli che sotto questo cielo la vita scorre a un ritmo lento … perciò questa terra si chiama Sa-lento! Sorride. Mi dice che è molto interessato al Salento… lo affascinano i colori, la luce e questo modo di vivere che, se a me sembra lento lui lo percepisce come frutto di antiche sapienze… del vivere! Finora il Maestro era stato solo nel mio immaginario cinematografico dei suoi film (Ultimo tango a Parigi, Reds, Apocalypse now, Lʼultimo imperatore, Il tè nel deserto, Tango, Goya solo per citare alcuni dei capolavori che ha ʻilluminatoʼ e che hanno segnato la storia del cinema negli ultimi anni). Lʼinteresse per il personaggio cresceva dal momento in cui avevo letto i suoi libri: La luce, I colori, Gli elementi (tre volumi della collana Scrivere con la luce) che hanno fatto di Storaro un cinematographer (così ama definirsi) capace di riflettere e comunicare il senso profondo del suo lavoro. Durante il suo breve soggiorno a Tricase abbiamo parlato di alcune tematiche connesse al fare cinema oggi che vi propongo. Insegnare cinema Storaro insegna allʼAccademia dellʼimmagine di LʼAquila di cui è un co-fondatore. Io al DAMS dellʼUniversità di Lecce. Siamo tutti e due dʼaccordo che la formazione nel campo cinematografico (ma del resto anche in altri campi) è insufficiente: molto spesso si limita a fornire solo le tecniche, manca una visione più ampia che faccia comprendere lʼessenza dei significati, il valore della parte più creativa perché non si forniscono gli strumenti culturali adatti né i riferimenti per poterlo fare. Sin dallʼinizio della mia carriera -mi confessa- ho sentito questa mancanza e ho cercato di colmarla tramite una ricerca lunghissima, da autodidatta.
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Fare la fotografia, cioè illuminare una scena di un film non può essere, per Vittorio, un fatto fisico, esecutivo, ma deve costituire un momento comunicativo: cosa mostrare e cosa non mostrare, come mostrarlo e con quale qualità di luce. Una ricerca sulla luce e il colore che Storaro ha compiuto non in modo intellettuale e astratto, ma come conseguenza di una riflessione sul suo lavoro. Mi racconta di Apocalypse now, quando Francis Ford Coppola non riusciva a trovare la soluzione per ʻmostrareʼ Marlon Brando con quello spessore psicologico che il personaggio richiedeva e la sua intuizione fatta di luci e di ombre, di contrasti e opalescenze con le quali il grande attore poteva ʻgiocareʼ nella recitazione per mostrare e nascondere alcune parti di se rendendo enigmatica e misteriosamente potente la sua ʻapparizioneʼ entrando e uscendo da una lama di luce. Mostrare e nascondere è uno dei giochi di luce seduttivi più usati nella cinematografia di Storaro. Quello che manca nella didattica e, ripeto, non solo quella cinematografica, è la capacità di dare profondità e consapevolezza al proprio agire attraverso una ricerca a 360 gradi per gestire il sapere in maniera interdisciplinare. La fisica, lʼottica, la psicologia della percezione, la storia dellʼarte, la letteratura, la filosofia, non sono materie separate ma costituiscono la risorsa unica dalla quale attingere per unʼagire consapevole. In questo senso la ricerca di Storaro assume un carattere tridimensionale: una sorta di viaggio iniziatico che porta alla conoscenza di sè e del mondo. Il cinematographer Vittorio Storaro negli anni ʼ80 (in questi anni vinse tre Oscar: Apocalypse now 1979; Reds, 1981; Lʼultimo imperatore, 1987) condusse una battaglia per il riconoscimento del ruolo di co-autore al direttore della fotografia assieme al regista. Ma lui è stato sempre contrario a questa denominazione. Mi spiega che nel cinema cʼè un solo direttore ed è il regista, le altre figure professionali collaborano alla creazione dellʼopera con pari dignità secondo i loro ruoli: è un lavoro di equipe. Non gli piace parlare di direzione della luce ma di scrivere con la luce. Pertanto questa denominazione gli risulta impropria. E ancora aggiunge: “Sono andato allʼorigine della parola: foto-grafia, letteralmente significa scrittura con la luce e chi lo fa è chiamato fotografo. Chi scrive con la luce immagini in movimento, cioè attraverso il cinema, dovrebbe essere chiamato cinematografo, ma questa parola è stata erroneamente tradotta dal francese scambiando il luogo dove
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si proietta il film con il soggetto che lo ha realizzato. La definizione che più si avvicina alla mia professione allora è quella americana di cinematographer che è colui che scrive con la luce la storia di un film come il compositore scrive con le note musicali, lo sceneggiatore e lo scrittore scrive con le parole…” Si tratta quindi della messa a punto di un vero e proprio linguaggio della luce con il quale le immagini non sono soltanto illuminate, ma prendono forma secondo unʼarte vera e propria che è quella del cinematographer. Storaro mi parla della sua ricerca per definire questʼarte e poterla trasmettere ai giovani, il suo rapporto con i grandi registi con i quali ha collaborato, le soluzioni tecnico-pittoriche che escogitava per inseguire e realizzare il suo immaginario figurativo, le sue visioni. Hai mai pensato di fare un film da regista? Gli chiedo a bruciapelo. La risposta arriva secca: “No! Ad ognuno il suo lavoro. Fare bene il proprio lavoro con la libertà di ricercare ed esprimersi è una grande soddisfazione. Oggi tutti vogliono fare i registi. Gli allievi che si iscrivono alla Scuola Nazionale di Cinema lo fanno per realizzare il loro film non per imparare unʼarte. Cʼè bisogno di grandi competenze nei ruoli della troupe cinematografica ma anche di una grande consapevolezza del proprio operato”. La filosofia della luce Il Maestro, nella sua conferenza alla sala del trono di Palazzo Gallone in Tricase, spiega la sua Filosofia della luce: un affascinante ricerca, un progetto di vita attraverso la luce. Dalle prime parole del suo primo libro che inizia: “quando venni alla luce …” si comprende subito che il lavoro del cinematographer va ben oltre la tecnica cinematografica. Essa è solo un mezzo dʼespressione di una visione del mondo. Storaro descrive i suoi libri (dove è raccolta la summa del suo pensiero) come unʼenciclopedia di un visionario, un ricercatore, uno studioso di quanto i filosofi, pittori, scienziati di tutto il mondo hanno speso in ricerca intorno al mistero della visione. È un insieme di scritti e di immagini, frutto di circa trentʼanni di esperienze, diviso in tre capitoli principali, contenenti un unico ragionamento di … vita. La sera ceniamo in un piccolo ristorante nel borgo antico di Tricase.
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Accanto al nostro tavolo è appeso un quadro naif con al centro un girasole che usciva, luminoso, dalle foglie di colore verde scuro. Vittorio ne è affascinato e quando gli dicono che lʼha dipinto la moglie del gestore lo vuole comprare. Ma il valore affettivo supera quello merceologico e il quadro, con suo grande disappunto, rimane appeso, anonimo, a quella parete del ristorantino di provincia. Il suo interesse per quel dipinto, come mi confesserà dopo, nasceva dalla sua nuova ricerca che prende lʼispirazione dai pittori che lui chiama ʻprimitiviʼ nel senso di autodidatti o spontanei. Non ha voluto aggiungere altro, ma credo che il suo nuovo lavoro si stia spingendo verso un approccio antropologico della visione. Probabilmente su come certi concetti e simboli di oscurità, ombra, luce e colore siano connaturati nellʼuomo e facciano parte di unʼesperienza collettiva che supera i limiti dello spazio e del tempo. Tricase, Settembre 2004
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Modulistica per la lavorazione del film Nelle pagine seguenti troverete alcuni moduli che possono essere utili per la lavorazione dei vostri film. Sono stati pensati per cortometraggi da girare nel formato video con un piano di lavorazione che non duri più di 13 giornate e con un massimo di 9 attori. Se avete esigenze diverse potete modificarli. La loro compilazione è facile ed intuitiva. Diamo qui alcuni suggerimenti. Per il Piano di Lavorazione occorre compilare tutte le voci che andranno lette in verticale in corrispondenza della giornata di lavoro. Nello spazio dedicato agli attori e interpreti in corrispondenza della giornata in cui saranno impiegati va crociata la casella corrispondente. In questa maniera avrete sotto i vostri occhi in un solo foglio tutte le informazioni necessarie allʼorganizzazione delle riprese giorno per giorno (location, attori coinvolti, giorni della settimana e tempo in cui di svolge la ripresa (Interno o Esterno; Giorno o Notte). Il TAPE LIST è un foglio che serve ad annotare il contenuto della videocassetta numerando le riprese che vi sono contenute. Non si può procedere alla cattura delle varie riprese senza il Tapelist. Dovete annotare il numero del nastro (in caso abbiate usato più nastri) il Time code, ovvero il codice del tempo che è presente su tutte le camere in formato miniDV e che contiene le informazioni numeriche sulla ripresa, la descrizione della ripresa con il numero di scena alla quale appartiene. È indispensabile per conoscere lʼallocazione delle riprese sui nastri e poter procedere alla digitalizzazione con ordine sul computer. Quando si procede alla cattura delle riprese occorre assegnare alle stesse due numeri progressivi: gli Edit number. Il primo si riferisce alla scena e il secondo alla ripresa. Per esempio se la scena n°6 è composta da 4 riprese occorre catturarle con la seguente numerazione: 6.1; 6.2; 6.3; 6.4; che riporterete nella apposita finestra denominata, appunto, Edit number, In questa maniera quando catturerete le riprese nel vostro computer ve le troverete in ordine nella finestra del programma di montaggio e agevolerete di molto il lavoro. EDIT LIST è un foglio che elenca le varie riprese nellʼordine in cui andranno montate. La sua compilazione risulta utile giacché è una sorta di premontaggio su carta e ci da unʼidea schematica di come sarà il lavoro finito. Inoltre lʼedit list contiene le informazioni utili per rintracciare una ripresa sui vari nastri impiegati Fotocopiate questi moduli e ingranditeli in formato A4
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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI
Area 01 – Scienze matematiche e informatiche Area 02 – Scienze fisiche Area 03 – Scienze chimiche Area 04 – Scienze della terra Area 05 – Scienze biologiche Area 06 – Scienze mediche Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie Area 08 – Ingegneria civile e Architettura Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche Area 12 – Scienze giuridiche Area 13 – Scienze economiche e statistiche Area 14 – Scienze politiche e sociali
Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su www.aracneeditrice.it
Finito di stampare nel mese di settembre del 2011 dalla ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. 00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15 per la Aracne editrice S.r.l. di Roma