Vite

  • October 2019
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  • Words: 1,866
  • Pages: 5
GIORNATE

DI VITA

Donato Montali

Delle pareti verticali, un pavimento e un soffitto, una grande quantità di mobili di legno pregiato acquistati da un amico a prezzo di favore, pieni di oggetti, tutti scelti dalla moglie con il solo scopo di vedere la luce in presenza di ospiti. Donato Montali, non aveva altra idea della propria abitazione. Ogni mattino la sveglia suonava alle 6.15, trillava per quattro secondi esatti, e Donato iniziava a compiere la routine quotidiana. Si alzava dal lato sinistro del letto ad una piazza, preparato con una leggera trapunta monocroma a rombi, con due cuscini svedesi. Dopo dieci passi in punta di piedi per non svegliare la moglie nel letto accanto, preparato in maniera identica, chiudeva la porta e si dirigeva in cucina, mezzo minuto di contemplazione rivolta ai soprammobili di coccio rappresentanti i vari monumenti storici provenienti da ogni angolo del globo (ma comprati nel negozio a due isolati) posti sopra il frigorifero; si dirigeva poi verso lo scomparto del caffè, sei cucchiaini nella macchinetta, con il cartone del latte in mano. Preso il caffè, terminata la toeletta, e indossato un abito elegante, da lavoro, esattamente alle 7.10, Donato era solito uscire salutando a malapena la moglie. L’ascensore era uno di quei modelli anni ‘30 molto stretta; la luce andava ad intermittenza da ormai un anno, lo specchio era stato rimosso dopo che vandali lo avevano scheggiato e imbrattato. Donato era convinto che il colpevole fosso il figlio di quindici anni della portinaia; a suo vedere era un avanzo di galera, uno di quelli che meritano

una

sonora

punizione.

Giunto

finalmente

al

pianterreno,

guardava

inutilmente nella casella postale e si incrociava sempre con la donna delle pulizie che puntualmente alle 7.00 iniziava a spolverare l’ampio atrio preceduto da un corridoi squallido con le pareti leggermente scrostato. La facciata del palazzo dava su una via molto trafficata. Dirigendosi verso l’automobile era sempre costretto a passare attraverso un’aiuola la cui gestione era stata da poco affidata al supermercato di fronte, ora poteva finalmente vantare dei fiori e del verde. Arrivato alla macchina, controllava eventuali pubblicità sotto il tergicristallo, levava una paio di foglie qua e là sulla carrozzeria color carbone e si coricava sul comodo sedile. Era più legato a quella berlina di sette anni che al resto del mondo. Gli fu regalata dopo un anno di intenso e proficuo lavoro da un suo cliente fidato. In quella automobile si sentiva veramente a casa. Aveva proibito alla moglie di attaccare quegli aggeggi che si vedono di sul cruscotto o appesi allo specchietto.

Dopo aver avviato il motore si immetteva tutti i giorni nel traffico alle 7.25; sapeva che alle 7.30 si formava il solito ingorgo che l’avrebbe costretto a maledire gli automobilisti. Sette chilometri verso il centro giungeva alle 8 meno dieci, finalmente, al suo ufficio. Donato gestiva le pratiche in un edificio barocco di cinque piani, la sua stanza dava verso nord su un parco molto ben curato, gli interni erano stati da poco sostituiti, tutto sapeva di nuovo, e dava quella piccola e dolce illusione di cambiamento e di novità di cui molti hanno bisogno. In quel edificio Donato passava tutta la mattina sistemando pratiche, prenotando incontri, programmando le trattative. Nel suo ufficio si trovavano solo una scrivania in ciliegio con protezione in vetro, una poltrona di pelle nera regalatagli da un amico e un grande armadio che copriva la parete danneggiata da un’infiltrazione vecchia di due anni. Per sua scelta, non c’erano fotografie di parenti o fermacarte. Le penne erano riposte tutte nel primo cassetto. Il direttore si era più volte lamentato dell’austerità di quel luogo. Alle 14.30 terminava sempre il suo lavoro in sede per spostarsi negli uffici di vari clienti. La maggior parte delle volte dava appuntamento alla trattoria nell’edificio accanto. Questa gli ricordava i tempi nei quali andava a cenare con la fidanzata in una stupenda trattoria in campagna. Si servivano piatti tradizionali, i tavoli erano in legno grezzo, il pavimento era di selciato e le pareti erano di mattoncini a vista. Quando i suoi clienti non potevano venire a pranzare, si concedeva un’ora di passeggiata al parco. Era una ambiente molto accogliente. I giardini erano tenuti all’inglese, questo conferiva la sensazione della presenza di natura che manca in città. Da qualche anno il parco era abitato da tre o quattro scoiattoli, che vi avevano trovato una dimora perfetta. Donato cercava sempre la sua panchina, posta sotto un salice di cinquant’anni, che dava sul laghetto centrale del parco. In quel periodo si potevano vedere le oche con i pulcini appena nati. La tranquillità di quel luogo era utile per la seconda parte della sua giornata. Terminata con una certa tristezza la passeggiata, Donato si dirigeva al primo dei suoi due appuntamenti. Il primo lo dedicava sempre al cliente meno importante, sostenendo che a quell’ora si è meno disposti a trattare. Il secondo era dedicato al pezzo grosso. Alcune volte era stato costretto, su consiglio del direttore, a portare regali per la moglie, quali fiori pregiati o dolcetti. L’incontro terminava quasi sempre positivamente, e tutte le volte doveva rispettare un codice di comportamento tanto ferreo quanto ipocrita. Terminato il secondo incontro, Donato si dirigeva sempre al mercato rionale, senza comprare alcunché.

Alle 19.00 ritornava nella sua abitazione. Dopo aver percorso l’oscuro corridoio, aver preso il lento ascensore con la luce intermittente, rientrava, nelle pareti di sua proprietà. Ad aspettarlo, una scatola di surgelati calda e un biglietto più volte riutilizzato: “TORNO PIÙ TARDI AMORE.

TI

HO PREPARATO LA CENA.

PS

DOMANI CERCA DI NON SVEGLIARMI QUANDO TI ALZI”.

Ettore Gentaglio

Una sveglia analogica anni ottanta, colore giallo, posizionata sul mobile di fronte al letto, programmata per le 4.00. Quella era l’ora stabilita il 22 dicembre da Ettore Gentaglio per poter consegnare in orario gli otto quintali di biscotti ordinati per una grande festa in un paese situato a milletrecento metri in una graziosa e tranquilla valle. La consegna doveva essere effettuata per le 17.00 in punto, pensò, quindi non c’era un attimo da perdere. Si alzò da suo letto scricchiolante e si diresse in bagno, girò la maniglia dell’acqua fredda al massimo e si fece una veloce ma efficace doccia. Decise di fare la colazione durante il viaggio, quindi si rasò la barba con il coltellino vecchio stile, preparò due panini con ciò che trovò nel frigorifero, scelse dal guardaroba un abito caldo e comodo e si diresse all’ingresso. Preferì usare le scale e non l’ascensore e uscì in strada. Era ancora notte fonda e si vedevano ben poche automobili o luci accese. Gli parve di sentir cadere dei fiocchi di neve ma non poté controllare in quanto l’illuminazione stradale in quell’isolato iniziava dalle 5.30, per risparmiare corrente, dicono. Si diresse tremando dal freddo tagliente verso la rimessa. Arrivato fece un cenno di saluto inutile al custode che dormiva profondamente; cercò il suo camion, con la scritta banale “Express”. Quando lo trovò, mise le mani in tasca per cercare le chiavi, sbloccò la serratura ed entrò. Accese felicemente il riscaldamento, il termometro interno segnava -3 gradi. Appoggiò il sacchetto con la colazione sul sedile accanto e avviò il mezzo. Dopo un quarto d’ora era in strada con il riscaldamento che iniziava a dare segni di funzionamento. Era contento che a quell’ora non ci fosse traffico, dopo pochi minuti era uscito dalla città ancora addormentata. Trascorse circa due ore di viaggio tranquillo e continuo, decise di fermarsi in una piazzola e mangiare i panini. Scartato il primo, lo addentò di gusto e aprì il cassetto nel cruscotto. Trasse una fotografia scattata con quelle macchine per le istantanee che ritraeva una bambina. Sopra a penna c’era scritto: “Emily l’amore”. Iniziò a sorridere

con uno sguardo languido. Sempre dallo scomparto prese un pacchettino avvolto con carta da regalo con sopra disegnati degli orsacchiotti stilizzati. Dopo aver accarezzato gli oggetti, si asciugò una lacrima col braccio e accese la radio di servizio per ricevere eventuali aggiornamenti. Terminata la colazione fece per ripartire quando si accorse che il parabrezza era completamente coperto di neve. Azionò i tergicristalli che a fatica spostarono la coltre e abbassò con la manopola il finestrino laterale. Vide che era iniziata a scendere una densa quantità fiocchi lanosi. Prima sorridendo e poi sbuffando cercò dietro al sedile le catene antineve e un ombrello e uscì dalla calda cabina. Impiegò dieci minuti a ruota per poi rientrare tutto indolenzito e bagnato. Con una certa soddisfazione riavviò il motore e si immise nella carreggiata. Durante il noioso tragitto l’occhio gli cadeva sui cartelli innevati che passavano velocemente. Sebbene fosse ormai mattina inoltrata il buio non accennava a diminuire. Il paesaggio mutò lento ma progressivamente, la pianura divenne collina e poi montagna. I tentavi degli spazzaneve di rimuovere il manto candido da quelle stradine di montagna sembravano praticamente inutili. Ettore dovette quindi rallentare molto la marcia, ma non si preoccupò più di tanto in quanto aveva un certo margine d’anticipo. Il paesaggio tranquillo ma un po’ inquietante della montagna innevata non lo distoglievano dal pericoloso stato della strada. Se non fosse già stato a due terzi del tragitto avrebbe preferito annullare tutto e tornarsene a casa ad organizzare i preparativi per la vigilia di natale che avrebbe dovuto passare con l’ex moglie e la figlioletta. Il motore stava dando i primi segni di cedimento quando arrivò ad un gioviale paesino tutto illuminato dalle luci natalizie. Trovò un’officina aperta e affidò il camion al meccanico. Quando gli riconsegnò il mezzo aveva ormai perso il suo margine di anticipo e, contro voglia, dovette accelerare il passo. Sui tornati capitava in qualche caso che il retrotreno slittasse paurosamente. La nebbia diede un attimo di tregua ed Ettore poté finalmente scorgere le distanti luci della ormai ambita meta. L’ansia stava lentamente svanendo, il motore andava bene, quando si accorse che il camion non sterzava. Istintivamente pigiò con tutta forza sul freno ma il mezzo era ormai incontrollabile. Quando si risvegliò sussultando aveva le gambe nell’acqua gelida e un qualcosa che gli usciva dall’addome insanguinato. Non aveva più la forza di tremare quando si

accorse che la radio, ancora funzionante era stata sbalzata accanto alla mano. Riuscì a lanciare una messaggio di soccorso e poi perse i sensi. Si risvegliò in un letto di un ospedale. Si accorse che la vista andava e veniva e che riusciva ad emettere un sibilo decifrabile come parole. L’infermiera che lo curava corse a chiamare il medico che l’aveva operato. Questi con pochi ma significativi cenni gli fece capire che il trauma subito era molto grave e che sarebbe stare su un letto per molti mesi. Ettore sussultando e afferrando debolmente la mano del medico implorò che gli fosse permesso di telefonare. Ovviamente gli fu concesso e riuscì a comporre il numero dell’appartamento dei nonni materni di sua figlia. Dopo un paio di squilli rispose una voce maschile; il medico prese il telefono e spiegò l’accaduto, appoggiò poi la cornetta all’orecchio di Ettore, che udì la voce piangente della sua ex. Ansimando chiese di poter sentire sua figlia. La ragazza gli disse con una finta risata che in quel momento stava giocando con il regalo che aveva voluto scartare. Ettore le chiese di mettere il vivavoce per sentire si come stava divertendo.

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