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“Dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia”(Rm 5,20b) (Rinaldo Fabris, Castelpetroso 06 settembre 2008) Il tema della dialettica tra “peccato” e “grazia” è affrontato da Paolo nella Lettera ai Romani, dettata dall’apostolo a Corinto, verso la fine degli anni cinquanta (58 d.C.), con lo scopo di predisporre la chiesa di Roma ad un prossimo incontro e coinvolgerla nella missione in Spagna (cf. Rm 16,22; 1Cor 1,14). Paolo, che sta per concludere la sua attività missionaria nelle regioni orientali dell’impero romano, intende portare a Gerusalemme la raccolta di fondi per i poveri di quella chiesa (Rm 1,8-15; 15,14-33). Nello scritto inviato alla Chiesa della capitale egli fa un bilancio del “Vangelo di Dio”, che chiama anche “Vangelo di Gesù Cristo” e ”il mio Vangelo”. Si può considera la Lettera ai Romani il vertice del pensiero di Paolo, il suo testamento teologico. I destinatari sono cristiani di origine ebraica, che costituiscono il nucleo originario ancora molto consistente della chiesa di Roma, ma dove fanno parte della comunità cristiana molti che non sono di origine ebraica (cf. Rm 1,5-6.13-15; 11,13.16-24). Si tratta dunque di una Chiesa composita, dove si manifestano alcune tensioni tra i giudeo-cristiani e gli etnico-cristiani (cf. Rm 14,1-15,13). 1. La “grazia di Dio” nelle lettere di Paolo Il termine greco cháris, “grazia”, negli scritti del Nuovo Testamento, è concentrato nell’epistolario paolino, dove designa l’azione libera, gratuita ed efficace di Dio, rivelata e attuata in Gesù Cristo, suo Figlio. Nella intestazione delle sue Lettere Paolo combina insieme il saluto di matrice greca cháris, “grazia”, con quello della tradizione biblica-ebraica šalôm, eirênē, “pace”. Nella Lettera indirizzata «a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata» egli rivolge il saluto: «grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!» (Rm 1,7). Alla libera e gratuita iniziativa di Dio Paolo fa risalire la sua chiamata a proclamare il Vangelo di Gesù Cristo alle genti. Nella lettera alle chiese della Galazia per difendere la verità del Vangelo e la legittimità del suo annuncio evangelico Paolo traccia una breve autobiografia ponendo al centro la sua investitura come apostolo di Gesù Cristo. Egli sa di essere stato chiamato per iniziativa gratuita di Dio, dal quale ha ricevuto anche l'incarico di proclamare il Vangelo alle genti. Perciò non ha bisogno di cercare conferme presso quelli che erano apostoli prima di lui a Gerusalemme. Il punto di partenza nella chiamata di Paolo è la grazia Dio, il suo amore gratuito ed efficace, che sta anche alla base della chiamata dei Galati mediante il Vangelo (Gal 1,6). Prima della chiamata di Dio, Paolo era impegnato in un’azione devastatrice della Chiesa, a motivo del suo zelo nel giudaismo per affermare e difendere le tradizioni dei padri (Gal 1,13-14). Quello che agli occhi dei suoi avversari poteva essere un motivo per screditare la sua autorità apostolica il suo ruolo come persecutore della Chiesa - a Paolo serve per mettere in risalto la gratuità radicale dell’azione di Dio che lo ha trasformato da militante fanatico del giudaismo in apostolo del Vangelo di Cristo. Per presentare la sua chiamata come frutto dell’iniziativa gratuita di Dio Paolo si ispira al racconto della chiamata di Geremia e del servo del Signore, di cui parla nel libro di Isaia (Ger 1,5; Is 49,1). Anch’egli è stato messo da parte fin dal seno di sua madre per un incarico
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profetico (Gal 1,15). Paolo obbedì a questa chiamata di Dio che gli rivelò il suo Figlio per poterlo annunziare ai non ebrei (Gal 1,16). Dio ha rivelato a Paolo la vera identità di Gesù il crocifisso, che egli considerava un maledetto da Dio (Gal 3,13). Gesù è il Figlio di Dio che ha affrontato la morte di croce per liberare quelli che stavano sotto la maledizione della legge e strappare tutti gli esseri umani dalla schiavitù del peccato e della morte. In questa nuova prospettiva Paolo scopre anche il nuovo volto di Dio Padre che gratuitamente salva tutti gli uomini mediante la fede in Gesù Cristo. Sulla base di questa rivelazione divina Paolo scopre anche l’incarico di annunciare il Vangelo della salvezza a tutti senza distinzione tra ebrei e greci. Egli ha accolto la chiamata di Dio e senza assecondare “la carne e il sangue” - cioè gli impulsi umani – non si è recato a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di lui. Invece è andato ad annunciare il Vangelo ai non ebrei nei dintorni di Damasco. Dopo questo primo tirocinio come evangelizzatore delle genti, è ritornato a Damasco (Gal 1,17). Dunque il contenuto del Vangelo di Paolo e l'autorizzazione a proclamarlo a tutti, risalgono alla libera e gratuita iniziativa di Dio. Paolo conferma questa convinzione nella stessa Lettera ai Galati quando ricostruisce le vicende dell’incontro con le “colonne” della Chiesa a Gerusalemme, Pietro, Giacomo e Giovanni. Essi riconoscono il carisma che Paolo ha ricevuto da Dio per annunciare il Vangelo ai non ebrei: «Visto che a me era stato affidato il Vangelo per i non circoncisi, come a Pietro per i circoncisi… e riconoscendo la grazia a me data, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuto le colonne, diedero a me e a Barnaba la destra in segno di comunione» (Gal 2,7-9). Con espressioni analoghe nella Lettera ai Romani dichiara che per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore «abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli per suscitare la obbedienza della fede in tutte le genti» (Rm 1,5; cf. 15,18). Il tema della chiamata ad essere apostolo per la grazia di Dio compare anche nella prima Lettera ai Corinzi, dove si riporta l’elenco dei testimoni della risurrezione di Gesù Cristo. Paolo si colloca alla fine di questo elenco, «ultimo fra tutti». Anzi precisa che egli non è neppure degno di essere chiamato apostolo perché ha perseguitato la Chiesa di Dio. Sullo fondo del suo passato di persecutore risalta la libera e gratuita iniziativa di Dio: «Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è in me» (1Cor 15,10). Nella parte finale della Lettera ai Galati, dove riassume la sua argomentazione a favore della verità e libertà del Vangelo, per trarne le conseguenze pratiche, Paolo invita i cristiani della Galazia, che rischiano di ricadere sotto la schiavitù della Legge, a stare saldi nella libertà che è dono di Dio per mezzo di Gesù Cristo. Con toni molto accesi egli li avverte che se essi cercano il giusto rapporto con Dio – la giustificazione - nella pratica della circoncisione, che comporta l’osservanza di tutta la Legge, «non avete più nulla a che fare con Cristo… voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia» (Gal 5,4). In questo brano paolino, dettato sotto l’impulso dell’emozione per la crisi che stanno attraversando le chiese della Galazia, la grazia, che coincide con l’adesione di fede in Gesù Cristo, è contrapposta alla Legge. In altre parole la via della grazia è alternativa a quella dell’osservanza della Legge. 2. Per grazia Dio salva tutti i credenti in Gesù Cristo (Rm 3,21-31) Nella Lettera ai Romani Paolo riprende e sviluppa i temi abbozzati nella Lettera alle chiese della Galazia. Dopo l’intestazione e l’esordio di ringraziamento Paolo enuncia la tesi
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della Lettera: il Vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, senza distinzione tra Giudei e Greci, perché nel Vangelo si rivela e si rende presenta la “giustizia” (fedeltà) di Dio. L’unica condizione richiesta per avere la salvezza o la vita è la fede, cioè la libera accoglienza dell’iniziativa gratuita di Dio (Rm 1,16-17). Solo per mezzo della fede in Gesù Cristo ogni essere umano entra nel giusto rapporto con Dio. Infatti, chi accoglie l'amore fedele e perdonante di Dio, che si rivela in Gesù Cristo, è sottratto al giudizio di condanna e raggiunge la salvezza definitiva. Paolo dichiara che al di fuori del Vangelo di Dio, accolto nella fede, si rivela il giudizio di Dio che condanna il peccato degli esseri umani (Rm 1,18). Egli ricorre all'espressione biblica “ira di Dio” per parlare della sua reazione di fronte al peccato che “empietà e ingiustizia”. Con queste due categorie si definisce il peccato umano nella sua duplice dimensione religiosa e etica. Infatti, il giusto rapporto con Dio, conosciuto sulla base della realtà creata, viene stravolto dal peccato. Questo è il caso dei Greci, che si considerano sapienti. Essi, pur avendo conosciuto la realtà invisibile di Dio a partire dalla riflessione sulle cose visibili, di fatto non hanno stabilito un giusto rapporto con lui. Invece hanno venerato la creatura al posto del creatore. Questa menzogna idolatrica sta all'origine della perversione etica di quelli che, «pur conoscendo il giudizio di Dio», che cioè chi fa il male merita la morte, non solo continuano a farlo, ma anche approvano chi lo fa» (cf. Rm 1,32). Quanti compiono il male sono condannati come peccatori. Infatti, il giudizio di Dio è “giusto” in quanto rende a ciascuno secondo le sue opere: «La vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all'ingiustizia» (Rm 2,78). Questo principio del giusto giudizio di Dio elimina ogni privilegio da parte dei Giudei che sono giudicati alla pari degli altri in base alle opere: «Tribolazione e angoscia su ogni uomo che opera il male, sul Giudeo prima, come sul Ggreco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco. Dio infatti non fa preferenze di persone» (Rm 2,9-11). Sulla base di questo principio Paolo affronta la posizione del “Giudeo” che si considera al riparo dal giudizio di Dio perché per mezzo della legge egli conosce la sua volontà. «Non basta avere la legge di Dio - dice Paolo - per considerarsi sentirsi sicuri davanti al giudizio di Dio, bisogna osservarla». Anche la circoncisione, che è segno di appartenenza al popolo di Israele, è inutile se non si osserva la legge sulla quale si fonda l'alleanza con Dio. Egli utilizza le categorie bibliche - la circoncisione nel cuore e la legge dello Spirito contrapposta alla Lettera (legge esterna) - per mostrare che solo la pratica della volontà di Dio, espressa nella legge, sottrae l'essere umano al giudizio di condanna e lo apre alla giustizia di Dio che perdona e salva. Il Giudeo ritiene di essere sottratto per sempre al giudizio di Dio in quanto è destinatario delle sue promesse. Egli pensa che paradossalmente la sua ingiustizia o infedeltà alla legge non fanno altro che mettere ancora più in risalto la giustizia o la fedeltà assoluta di Dio. Paolo tiene presenti due aspetti della giustizia di Dio che sembrano contraddittori: da una parte la fedeltà di Dio, che perdona, e dall'altra il giusto giudizio di Dio che condanna il peccato. In ogni caso il peccatore non può appellarsi alla fedeltà di Dio per sottrarsi al suo giudizio (cf. Rm 3,18). Di fronte alla posizione assurda di chi si appella alla giustizia di Dio per sottrarsi al suo giudizio di condanna, Paolo fa ricorso alla testimonianza della Scrittura. Con un montaggio di frasi prese dai Salmi egli mostra che tutti gli esseri umani senza esclusione sono sotto il dominio del peccato e dunque esposti al giudizio di Dio. Ma la parola di Dio conservata nella Scrittura vale in particolare per i Giudei che «sono sotto la Legge». Alla fine
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Paolo riprende la frase del Salmo 143,2 «nessun vivente sarò giustificato davanti a Dio» aggiundendovi «in base alle opere della Legge» (Rm 3,20a). Come aveva già fatto nella Lettera ai Galati Paolo applica questa dichiarazione al dibattito circa il ruolo della Legge nel processo di giustificazione, precisando qual è il suo ruolo effettivo: «per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato» (Rm 3,20b). In altri termini la Legge, che Dio ha dato ad Israele per mezzo di Mosè, non dà la forza di compiere quello che essa comanda, ma fa prendere coscienza a chi la trasgredisce di essere sotto il dominio del peccato. In tal modo Paolo conferma la sua dichiarazione programmatica iniziale: solo per mezzo della fede in Gesù Cristo ogni essere umano entra nel giusto rapporto con Dio. Egli infatti si rivela “giusto” perché comunica la sua giustizia ai credenti per mezzo della fede in Gesù Cristo. Paolo incalza il suo ipotetico interlocutore con una serie di domande che tendono a estromettere la Legge dal processo che va dalla condizione di peccato a quella di giusto rapporto con Dio. Alla fine conclude con una dichiarazione solenne: «Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge» (Rm 3,28). Con l'espressione “opere della Legge” Paolo indica tutto quello che una persona compie come osservanza della Legge di Dio. La fede invece non è una prestazione umana tale da essere computata come un diritto davanti a Dio, ma è la libera accoglienza della sua iniziativa gratuita. Paolo porta il suo interlocutore sul terreno della fede in cui si riconosce che c'è un solo Dio. In tale contesto egli può affermare che non c'è più nessuna distinzione tra Giudei e Greci «poiché unico è Dio, che giustificherà i circoncisi in virtù della fede e anche i non circoncisi per mezzo della fede» (Rm 3,30). Con questa dichiarazione Paolo non intende archiviare la questione. Se è vero che il giusto rapporto con Dio, per tutti, Giudei e greci, passa attraverso la fede, resta comunque aperto l'interrogativo circa il ruolo della Legge data da Dio. Per ora egli enuncia il tema che svilupperà in seguito: per mezzo della fede non si toglie valore alla legge, ma la si conferma! (cf. Rm 3,31). Per presentare l'aspetto positivo della sua tesi che solo nel Vangelo si rivela la giustizia di Dio per la salvezza di chiunque crede, Paolo fa ricorso ad una sintesi della professione di fede, dove predomina il lessico della fede e della grazia. Il termine fede fa da ponte tra la giustizia di Dio e la giustificazione. Ma la direzione del percorso è indicata dalla terminologia della grazia: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù» (Rm 3,23-24). Paolo sottolinea l’efficacia redentiva della morte di Gesù Cristo a favore di ogni credente. Egli ricorre al linguaggio e alle categorie del rituale biblico dell'espiazione (Lv 16). Realmente nella morte di Gesù Cristo, come atto estremo di amore solidale con la condizione peccatrice del genere umano, Dio rivela il suo impegno irreversibile – giusto e giustizia - per liberare ogni uomo oppresso dal peccato e dalla morte. In altri termini la grazia di Dio si rivela e rende presente nella morte redentrice di Cristo Gesù. 3. La situazione attuale dei credenti (Rm 5,1-11) Con midrásh - commento biblico attualizzante - sulla figura di Abramo Paolo conferma la tesi iniziale: «il Vangelo di Dio è potenza di salvezza e giustizia per chiunque crede». Egli quinidi esplicita i riferimenti alla “Scrittura”, dove si annuncia profeticamente la “giustizia” di Dio, rivelata e attuata in Gesù Cristo e proposta nell'annuncio del Vangelo. L'esempio di Abramo, il “giusto” della tradizione biblica è proposto in modo progressivo, prima con due citazioni del testo di Gen 15,6 - torâh e del Sal 31,1-2, dove sono contrapposti i
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due regimi o sistemi, da una parte la fede e la gratuità, cháris, dall’altra le opere e la contrattualità, che leva sulla prestazione e la paga (Rm 4,1-8). Paolo afferma l’universalità della giustificazione per mezzo della fede sul modello di Abramo, che è il padre di tutti i credenti, suoi discendenti in forza della fede. La sua argomentazione si fonda sul fatto che, secondo il racconto della Genesi, Abramo è riconosciuto “giusto” da Dio sulla base della fede - capitolo XV - prima di ricevere il comando della circoncisione, capitolo XVII (Rm 4,9-12). L'impegno gratuito e unilaterale di Dio costituisce Abramo erede della promessa, che si trasmette ai discendenti o credenti. Invece la Legge provoca l'ira, cioè la condanna da parte di Dio, perché essa comanda quello che l'essere umano non è in grado di fare. Perciò quando interviene la Legge il peccato diventa anche trasgressione della Legge. Paolo conclude dicento: «Eredi dunque si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia, e in tal modo la promessa sia sicura per tutta la discendenza: non soltanto per quella che deriva dalla Legge, ma anche per quella che deriva dalla fede di Abramo, il quale è padre di tutti noi, come sta scritto: Ti ho costituito padre di molti popoli - davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che non esistono» (Rm 4,16-17). Mediante la fede in Dio creatore e Signore che dà la vita ai morti Abramo è il prototipo della fede dei cristiani che credono in Dio Padre che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti, come fonte della giustificazione, cioè di un nuovo rapporto con Dio. Dopo questo intermezzo della figura di Abramo, prototipo dei “giusti” in forza della fede, Paolo fa un primo bilancio della sua riflessione sul disegno salvifico di Dio rivelato nel Vangelo. Egli presenta la condizione dei credenti. Giustificati per mezzo di Gesù Cristo, i credenti sono «in pace con Dio» (=fede), hanno il dono dello Spirito santo (=amore), e vivono nell'attesa della gloria futura (=speranza) (Rm 5,1-5). Il fondamento di questa condizione è la morte salvifica di Gesù, nella quale si manifesta in modo pieno e irreversibile l'amore di Dio. L’impegno radicale di Dio in Gesù Cristo a favore degli esseri umani peccatori, è la fonte della loro attuale riconciliazione e la garanzia della salvezza futura quando saranno associati alla sua immortale con la risurrezione (Rm 5,6-11). 4. Il dramma del peccato umano e della grazia di Dio (Rm 5,12-21) Per presentare il dramma della storia umana segna dal peccato e dalla morte nella Lettera ai Romani Paolo fa ricorso alla tipologia di Adamo, figura di Cristo, che aveva già utilizzato nella prima Lettera ai Corinzi (1Cor 15,21-22.44-4). Egli la rilegge facendo leva su una regola di interpretazione giudaica chiamata qál -wa-homér, “dal più debole al più forte” o a fortiori. Inoltre tiene presente il principio della speranza profetica, espressa nei testi apocalittici: «La misura del bene è più forte della misura del male», fondandola sulla fede in Gesù Cristo. Egli è l’unico e definitivo mediatore di salvezza che libera tutti gli esseri umani dalla condizione di morte, introdotta nella storia dal peccato. Nella sua argomentazione Paolo procede in tre fasi: I. In un primo quadro presenta l’ingresso e l’espansione della forza distruttiva del peccatomorte nella storia umana per mezzo di un solo uomo (Adàm): la morte travolge tutti, perché tutti, da Adamo a Mosè, hanno peccato (Rm 5,12-14; cf. Gen 3-11; Sap 2,23-24). II. Prosegue il confronto sproporzionato (“molto di più!”) tra la storia di peccato-morte (caduta, colpa, disobbedienza, condanna) dell’Adàm e la storia di grazia, vita, dono,
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obbedienza, giustizia per mezzo del solo uomo Gesù Cristo: «Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo» (Rm 5,17; cf. 5,15-19). III. Alla fine afferma l’inefficacia salvifica della “legge” – toràh, data al Sinai, che porta allo scoperto la condizione di peccato-morte nella storia umana, e mette in risalto l’efficacia salvifica della grazia di Dio. Paolo riassume la sua argomentazione nell’antitesi tra il regno del peccato-morte e il regno della grazia-giustizia-vita, inaugurato da Gesù Cristo Signore: « Come regnò il peccato con la morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore» (Rm 5,20-21). In un modo sintetico si può visualizzare la serie di antitesi dell’argometnazione di Paolo in questo quadro:
Adám • peccato di uno • morte di tutti (Mosè/legge) • caduta • peccato/disobbedienza • condanna • regno di morte su tutti • legge • caduta/peccato • morte
typos di
Cristo (Rm 5,12-14) • uno solo • “molto di più” (Rm 5,15.17) • dono di grazia (Rm 5,15-19) • grazia/obbedienza • giustificazione • regno di vita su tutti • grazia (Rm 5,20-21) • giustizia • vita
In una serie di affermazioni Paolo dichiara che la morte ha travolto tutti, perché tutti, da Adamo a Mosè, hanno peccato (cf. Gen 3-11; Sap 2,23-24). Egli ricostruisce un dittico, in cui contrappone due storie alternative che fanno capo rispettivamente ad Adamo e a Cristo. Adamo rappresenta l'umanità segnata dal peccato a cui è associata la morte. L'autore del libro della Sapienza rilegge il racconto della Genesi in questi termini: «Sì, Dio ha creato l'uomo per l'immortalità, lo fece a immagine della propria natura. Ma per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap 2,23-24). Nel dramma ricostruito da Paolo nella Lettera ai Romani vi sono due soli protagonisti : l'uomo peccatore e Dio. L'idea della solidarietà tra Adamo e il genere umano, assente nella Bibbia, si trova in alcuni testi apocrifi giudaici, dove si riflette sul rapporto tra la condizione attuale dell'umanità e il peccato di Adamo. Nel Quarto Esdra, composto alla fine del I secolo d.C., si dice che Dio ha creato Adamo dandogli lo spirito di vita, ma a causa della trasgressione di un solo comandamento fu subito istituita «la morte contro di lui e contro sua discendenza» (4Esdr. III, 5-7). Il cuore maligno di Adamo impedisce alla Legge data ai figli di Israele di portare i suoi frutti. Infatti, i figli di Israele «peccarono comportandosi in tutto come avevano fatto Adamo e tutta la sua posterità: anche loro, infatti, si erano rivestiti di cuore maligno» (4Esdr. III, 20-
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22.25-26). Di fronte a questa constatazione l'autore esclama: «Sarebbe stato meglio che la terra non avesse prodotto Adamo, oppure, una volta prodotto, gli avesse insegnato a non peccare. Cosa giova, infatti, a tutti, che ora vivano in tristezza e da morti debbano aspettarsi una punizione? Cos'hai fatto Adamo! Se, infatti, peccasti, la rovina non è stata solo tua, ma anche di tutti noi che siamo discesi da te!» (4Esdr. VII,116-118). L'unico rimedio alla storia di peccato-morte che risale ad Adamo, sarebbe la fedeltà alla Legge. Per Paolo invece la Legge, sopraggiunta dopo la storia di peccato-morte che va da Adamo fino a Mosè, fa abbondare il peccato (Rm 5,14.20). Questa affermazione paolina sul ruolo della Legge nella storia dell'umanità che fa capo ad Adamo, è volutamente provocatoria e scandalosa. Nell’argomentazione di Paolo serve da sponda per rimarcare la necessità e l'unicità del ruolo salvifico di Gesù Cristo. Conclusione Partendo dalla sua esperienza personale – chiamato dall’iniziativa gratuita di Dio – Paolo incentra la sua proclamazione del Vangelo sulla “grazia” di Dio che, in Gesù Cristo, suo Figlio, offre a tutti gli esseri umani senza distinzione, la possibilità di incontrarlo come colui che li libera dalla condizione di peccato-morte, per introdurli nella vita piena e definitiva.