Riassunti Di Psico Sociale

  • June 2020
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Il campo della psicologia sociale. Una definizione di psicologia sociale. La psicologia sociale è la disciplina che connettendo l’analisi dei processi psicologici degli individui con l’analisi delle dinamiche sociali nelle esperienze nelle quali questi sono coinvolti, studia in particolare i modi e le forme con cui l’esperienza, l’attività mentale e pratica e i comportamenti si articolano con il contesto sociale. Essa opera in vari settori della vita individuale e collettiva nei quali i processi psicologici si strutturano con le attività pratiche delle persone e con le dinamiche delle organizzazioni e istituzioni sociali. La psicologia sociale è largamente presente, a livello di ricerca e spesso di intervento in vari campi che riguardano la scuola, il lavoro, la saluta, l’amministrazione della giustizia, la gestione sociale e politica della vita associata. Questa disciplina è nata tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, caratterizzato da forti mutamenti: lo sviluppo dell’industria, la crescita delle città, il consolidamento della borghesia e la nascita della classe operaia, le folle invadono le piazze, la crisi del principio di autorità (come senso della gerarchia e della tradizione), l’idea di persona umana dall’ambito della riflessione filosofica entra nella ricerca sociale. Nello stesso periodo psicologia e sociologia tracciano un confine deciso tra mondo individuale e mondo sociale, tra la sfera psicologia e la sfera sociale. Si nota così che vi erano degli aspetti che vi erano dei fenomeni nella vita pratica, individuale e collettiva, che la psicologia e la sociologia tendevano a trascurare o ad indagare in modo unilaterale. Moscovici, nel 1984 sintetizza: “Il carattere originale, e addirittura sovversivo, del punto di vista è di mettere in questione la separazione dell’individuale e del collettivo, di contestare la divisione tra psichico e sociale nei campi essenziali della vita umana. È un po’ assurdo dire che, quando siamo soli, obbediamo alle leggi della psicologia e ci comportiamo mossi da emozioni, valori o rappresentazioni. E che, quando siamo insieme, cambiamo bruscamente, per comportarci secondo le leggi dell’economia e della sociologia, mossi da interessi e condizionati dal potere”.

Nel nostro tempo: problemi umani, problemi sociali. Globalizzazione e individualizzazione. La globalizzazione si è estesa nell’ambito della vita sociale, trovando alimento nelle “guerre locali”. La globalizzazione coinvolge ormai anche dimensioni psicologiche: la consapevolezza che “le nostre vite sono sempre più influenzate da attività ed eventi che hanno luogo al di là dei contesti sociali in cui operiamo quotidianamente”, aumenta ulteriormente il senso di impotenza e la chiusura del mondo individuale. Con il termine “individualizzazione” indichiamo quel processo attraverso il quale l’individuo, nel corso della Modernità, è emerso come persona singola capace di gestire autonomamente se stessa e di partecipare alla gestione della società in cui si vive, raggiungendo il riconoscimento non solo dei suoi diritti civili, politici e sociali, ma anche della sua soggettività, della sua identità, della sua sfera privata. Una liberazione da tradizioni e istituzioni politiche soffocanti. Fattori sociali e fattori psicologici connessi con le vicende della vita quotidiana si

intrecciano nella produzione della complessa realtà del nostro tempo che investe con i suoi problemi le singole persone e la collettività. Problemi umani, problemi sociali. I problemi sono umani e sociali insieme, hanno un versante individuale e un versante collettivo, nonché una dimensione soggettiva e una dimensione oggettiva. Hanno un versante individuale in quanto è sempre l’individuo che li subisce sulla propria persona e che deve farvi fronte, sia sul piano intrapsichico cognitivo-affettivo sia sul piano pratico-oggettivo dei fatti. Presentano un versante sociale perché incidono comunque sulla vita associata, perché alla loro origine si trovano molto spesso fattori e situazioni sociali, e perché è essenzialmente nel contesto sociale che possono essere reperite le risorse, umane e strumentali, per fronteggiarla. La componente soggettiva riveste un ruolo importante, perché sono i processi psicologici di percezione, rappresentazione e valutazione che, ricostruendo i dati oggettivi delle situazioni, conferiscono loro il carattere di problema: cioè di qualcosa che deve in qualche modo essere analizzato e trovare una soluzione possibile. In conclusione i problemi umani sono anche problemi sociali perché: si sono originati come situazioni critiche nell’ambito della convivenza umana; sono i modi di relazione sociale che hanno trasformato le situazioni in problemi, trascinandosi appresso nuove esigenze da parte delle persone e nuove forme di approccio professionale; sono i problemi dell’”uno” ma anche i problemi di molti. Specializzazioni, competenze, problemi. Quanti operano oggi nel campo dei problemi sociali convengono spesso sulla necessità di integrare punti di vista capaci di cogliere le diverse dimensioni dei fenomeni onde averne più completa visione e non rischiare di perdere informazioni preziose. Un caso tipico è costituito dai fenomeni collegati con il problema della sicurezza. La sicurezza è divenuta il problema cruciale della nostra epoca. Il senso di insicurezza ha funzionato per l’essere umano da campanello d’allarme, per così dire, contribuendo a focalizzare l’attenzione, a promuovere il controllo di sé e dell’ambiente, e a sviluppare quelle forme di meta cognizione che permettono all’individuo di adeguare le proprie conoscenze e abilità ai compiti che deve affrontare. Nel senso di insicurezza si intrecciano fattori oggettivi, connessi con l’ambiente fisico e sociale e fattori psicologici di ordine cognitivo e emozionale. Di questo intreccio l’ottica psicosociale consente di cogliere vari aspetti strutturali e dinamici sui quali è possibile elaborare anche specifici progetti di intervento.

Natura e cultura, individuo e società. L’ottica naturalistica ha difficoltà a cogliere l’articolazione tra la sfera psicologica e quella sociale perché ragiona in termini di sostanze anziché di relazioni. Pensando che le sostanze abbiano una “realtà”, e che solo esse quindi possiedano delle “leggi” che le governano, quest’ottica va a cercare le leggi che presiedono ai rapporti tra gli esseri umani o nell’individuo (nella sua “corposità” psicosomatica) oppure nella società, considerata anch’essa in modo quasi fisico, come un “organismo” sostantificato. Secondo Elias, gli individui sono considerati come solidi pilastri tra i quali il filo dei rapporti si stende solo in un secondo tempo. Altri, guardano alla società come una “unità maggiore che supera e comprende il singolo. Dunque per Elias, la dimensione sociale è qualcosa che si aggiunge dopo all’individuo; per gli altri la società diviene qualcosa che esiste prima e indipendentemente dagli individui.

Per uscire da queste visioni, occorre portare l’analisi sul rapporto funzionale che connette individuo e società nel più ampio contesto del divenire storico in cui la nostra specie è stata coinvolta. Se vogliamo ragionare in termini naturalistici, dice, Elias, dobbiamo riconoscere, che la dimensione sociale è intrinsecamente “partecipe della natura stessa dell’essere umano così come lo è la dotazione di base che presiede alla sua costituzione fisica”. L’uomo non è un edificio chiuso in sé ma un essere fatto per proiettarsi all’esterno, strutturato in modo che possa e debba stabilire rapporto con gli altri. La relazione con l’ambiente è una condizione fondamentale per la sopravvivenza di ogni essere vivente, perché nell’ambiente si trovano gli elementi indispensabili per soddisfare i bisogni dell’organismo. Il concetto di bisogno è, in realtà, un concetto interazionale che lega organismo e ambiente. La cultura è essenzialmente connessa con la capacità che l’uomo possiede di tradurre in simboli gli “oggetti” e gli “eventi” che cadono nella sua esperienza sensibile, con questo ricostruendo in un sistema astratto convenzionale la realtà materiale che lo circonda. Tale sistema di simboli e convenzioni è una creazione resa possibile dal linguaggio, da cui nascono i significati. Cultura, linguaggio e vita sociale sono strettamente associate. La capacità di “tradurre” le cose e gli eventi materiali permette di accumulare conoscenze e di tramandarle attraverso il tempo e le generazioni, rende possibile di “utilizzare il passato per la previsione e la progettazione del futuro”. Il fatto che l’essere umano abbia formato le sue caratteristiche specifiche speciespecifiche nell’ambito della vita sociale, e che in questa ciascuno di noi si collochi sin dalla nascita, non implica di svalorizzare il mondo psicologico individuale, ma piuttosto di riconoscere come il contesto sociale sia condizione fondamentale del suo sviluppo.

Gli individui in situazione. Le nozioni di individualità e di soggettività non sono importanti solo per la psicologia: esse costituiscono anche un essenziale fondamento etico, giuridico e politico della società in cui viviamo. Si indica dunque un essere umano che ha valore in quanto tale e non in forza delle sue appartenenze etniche, religiose, sociali, ecc.; ma come un essere capace di autonomia: soggetto del proprio pensiero, della propria parola e della propria azione, dotato di un suo modo interiore e di una sua identità. Nel pensiero antico l’essere umano era considerato come avente valore solo perché apparteneva a una comunità. La socialità era la caratteristica di base che, insieme con la ragione, distingue l’essere umano dagli animali. Fuori dal sociale non si è “uomini”. Nel Medioevo l’essere umano è considerato parte di un tutto, e anche qui l’origine sociale è considerato emanazione divina, ma essa è vista come una prigione perché vincola ciascuno all’appartenenza rigida al grado dell’ordine feudale in cui si nasce. E’ solo con l’umanizzazione del mondo che il senso dell’individuo emerge, come essere capace “di determinarsi la propria natura secondo il proprio arbitrio, libero e sovrano di sé stesso”. L’ “uomo nuovo” degli Umanisti è nato nella stretta connessione dell’attività mentale e dell’attività pratica. La Costituzione dello Stato territoriale moderno ha anche radicalmente cambiato il modo di vedere gli uomini e le cose. Lo Stato moderno assoluto è nato come un “progetto umano” e perciò suscettibile di essere rivoltato e cambiato. Ed è mediante le trasformazioni promosse dall’azione degli individui, dei gruppi, delle classi sociali che esso diverrà lo Stato di diritto in cui oggi viviamo. Ove il diritto su cui lo Stato è

fondato è quello della persona individuale in quanto tale. Questo individuo dei diritti si è forgiato nelle pratiche sociali, ma è potuto nascere grazie alla “concomitante scoperta” del mondo interno psicologico, che ha trovato nell’affermazione dell’ “Io” cartesiano il suo fondamento. Il Cogito ergo sum di Cartesio ha posto in primo piano il soggetto del pensiero, il quale afferma la sua esistenza in quanto “io”. In conclusione, individuo e società hanno proceduto insieme. Louis Dumont (1983) ha definito l’uomo moderno come “autonomo, indipendente e quindi essenzialmente non sociale”, un’affermazione scorretta poiché è nell’ambito della vita sociale che l’individuo ha concretizzato la sua autonomia, non nell’indipendenza dagli altri. Il soggetto può mantenere il suo significato solo nella relazione con l’ “oggetto” attraverso il quale costruisce il proprio mondo psichico. Fuori da questa relazione il soggetto evapora: diviene una “mera impressione”, come diceva Hume. Posto dentro al mondo il soggetto è da questo “attraversato”, e porta con sé le ferite, le crisi, le contraddizioni di questo suo stare in situazione. Da quando i “tre maestri del sospetto” (come Foucault, 1966, ha definito Marx, Nietzche e Freud) hanno mostrato i limiti della coscienza e il travestitismo delle idee, la nostra concezione del soggetto si è fatta assai più problematica. D’altro canto è nel vivo delle situazioni sociali che esso trova il modo di esprimere se stesso attraverso la sua parola, la sua conoscenza e la sua possibilità di cambiare. Sono questi gli individui in situazione, come li definiva Piaget per distinguerli dal soggetto puramente conoscente della psicologia individuale che la psicologia sociale mette al centro della sua analisi.

Nessuno vive solo. Il sociale nella vita quotidiana. Nessuno vive solo, diceva Lewin. In realtà, si dalla nascita, tutti noi instauriamo delle relazioni sociali, fosse pure soltanto in modo minimale col pianto o con qualche gesto, e a livello inconsapevole. Inizia così quel sistema di interrelazioni che continuerà per tutta la vita, non solo sul piano comportamentale, ma anche in forma di atti mentali, di discorsi interiori, di emozioni, sentimenti e feelings. L’idea di bambino competente, che sin dalla nascita dispone di una dotazione genetica atta ad affrontare l’esistenza, ci presenta il quadro di un essere umano dotato di competenze intrinseche in base alle quali avviene il suo sviluppo. Tuttavia tali competenze necessitano di un ambiente specie-specificamente adatto per attivarsi in modo adeguato: il tipo di ambiente in cui si nasce e ci si sviluppa influisce sul tipo di capacità che si acquisiscono, nonché sui modi di sentire, di pensare e di agire che si formano. Mondo sociale e mondo psichico appaiono così strettamente articolati in un quadro nel quale, come hanno visto Vygotsky (1934) e Mead (1934) è continua l’interazione tra mondo intrapsichico e mondo sociale, tra la comunicazione “con l’esterno” e il linguaggio “interno”. Si nota dunque come per consolidare la personalità del singolo, si debba interagire con gli altri. Forme e livelli dell’articolazione psicosociale. L’individuo è coinvolto nel sociale in vari modi e vari livelli. Una tipologia dei vari livelli ai quali il contesto sociale può articolarsi con i processi psicologici è stata elaborata in chiave evolutiva da Bronfenbrenner nella sua Ecologia Dello Sviluppo Umano. Quattro livelli sono stati da lui descritti. Un livello delle relazioni interpersonali dirette, definito come microsistema; un livello nel quale l’individuo è considerato nell’ambito delle

relazioni tra due microsistemi; un terzo livello, definito ecosistema, costituito dal contesto cui l’individuo non partecipa direttamente ma che influisce sulla sua vita relazionale; infine un livello più generale che contiene tutti gli altri: cioè un macrosistema costituito dal contesto culturale, più o meno specifico, di norme, credenze, ideologie, etc. Ancora impostato su quattro livelli è la tipologia proposta da Doise. Il primo livello relativo ai processi di ordine intra-individuale è quello focalizzato dalle ricerche che “non affrontano direttamente l’interazione tra individuo e ambiente sociale ma analizzano i meccanismi che a livello dell’individuo gli permettono di organizzare le proprie esperienze”. Il secondo livello è relativo al contesto interindividuale in senso stretto. Nel terzo livello il contesto è visto essenzialmente in base a differenze di posizioni sociali. Al quarto livello, definito ideologico, possono agire variabili contestuali più ampie, espressione “delle ideologie, dei sistemi di credenze e rappresentazioni, di valutazioni e norme che la società sviluppa” e che concorrono a stabilire i rapporti sociali.

Origini e sviluppi della psicologia sociale. Tra psicologia e sociologia. Nel 1908 vengono pubblicati due testi che esplicitamente portano nel titolo l’indicazione di psicologia sociale: l’ Introduction to Social Psychology di William McDougall e la Social Psychology di Ross: sono le prime opere in lingua inglese dopo che nel 1898, il termine psicologia sociale era comparso nel titolo dell’opera Etudes de psychologie sociale del francese Gabriel Tarde. McDougall fonda il suo studio sul concetto di istinto che interessava largamente gli psicologi dell’epoca. Inteso come una “disposizione innata” che comporta una particolare attenzione verso certi oggetti, l’istinto è collegato da McDougall con l’attivazione delle emozioni e con la produzione di azioni che vanno in direzione di tali “oggetti”. Alcuni di questi istinti, essendo di natura prettamente sociale vengono considerati dall’autore come elementi motivazionali che stanno alla base delle condotte sociali e, più in generale, della vita associata umana. Ross prende le mosse da particolari fenomeni della vita di società, soprattutto da quelli connessi con i comportamenti collettivi. Questi comportamenti e fenomeni, in cui gli uomini sono coinvolti, divengono una specie di “corrente” capace di agire sul mondo individuale, determinando non solo opinioni, ma interessi e sentimenti di ordine più profondamente psicologico. McDougall modificherà poi in parte la sua concezione, rendendo molto più plastico il concetto di istinto: nell’opera The energies of man (1932) gli istinti divengono delle tendenze che contribuiscono a indirizzare interessi, attenzioni e comportamenti, ma non in modo deterministico, perché McDougall sviluppò una concezione decisamente intenzionale dell’agire umano. La società come imitazione. Le tesi di Ross sono meno originali perché riflettono in larga misura il pensiero di Tarde sull’imitazione e sulla suggestione. Tarde affermava “Se si scarta l’individuale, il sociale non è nulla; non c’è assolutamente nulla che esista nella società che già non esista negli individui: quelli viventi o quelli esistiti prima, come forma di ripetizione”. Questa affermazione è

giustificata dal fatto che per Tarde alla base di ogni fenomeno psichico o sociale vi è sempre un solo meccanismo: l’imitazione, che egli considera come il vero e proprio motore universale dell’intero mondo naturale, biologico, psicologico e sociale. Alla base della vita sociale vi sono tre cause di ordine psicologico: il desiderio, l’invenzione, la relazione interpsicologica. Il desiderio è concepito come la molla dell’attività umana, lo stimolo per eccellenza che indirizza l’agire secondo ciò che si crede desiderabile. Il desiderio tende a creare un equilibrio nell’uomo e nella società ma, nello stesso tempo, “società e individui lavorano per soddisfare non solo la loro esigenza di continuo aumento di credenza e di desiderio”. Questo processo spinto dal desiderio trova la sua attuazione nell’invenzione: quell’operazione per cui, attraverso l’eredità delle generazioni e le suggestioni dell’ambiente, il pensiero approda a nuove costruzioni tanto nella realtà interna che in quella sociale. D’altra parte, queste correnti di desiderio e di invenzione si collegano con delle relazioni interpsicologiche formando dei punti di intersezione che diventano a loro volta il centro di nuovi sviluppi e di nuove creazioni. Anche se il processo dell’invenzione in sé è comune a tutti gli uomini, esso è particolarmente vivo in certi uomini che assurgono così al ruolo automaticamente di modelli da imitare, di capi, di leader psicologici della folla. La psicologia di Tarde è decisamente meccanicistica: l’intervento della mente è ignorato, così come ogni intervento attivo dell’individuo nello stabilire previsioni, scopi e fini. Il processo essenziale che domina il quadro è quello di suggestione. Questa, intesa come il processo psichico che induce ad accettare lò’influsso altrui in modo inconscio, era al centro degli studi che la psichiatria francese andava conducendo, in chiave “ideogena” sui disturbi psichici e sull’isteria. Il primato del sociale in Durkheim. Gli studi di Tarde serviranno di base teoretica alla “psicologia delle folle”, ma è totalmente lontana dalla concezione che andava elaborando in Francia Emile Durkheim. La società, secondo Durkheim, va studiata senza alcun riferimento all’individuo, perché essa trascende nettamente il pensare e l’agire dei singoli. La società è tenuta insieme da una solidarietà profonda, intesa come elemento che affonda nella coscienza collettiva e che anzi va oltre il dominio della coscienza: una solidarietà che è “meccanica” nelle società primitive in cui il lavoro umano è indifferenziato, ed “organica” nelle società moderne in cui la “divisione del lavoro” crea relazioni funzionali e differenziate, producendo forme organizzate di vita sociale e rapporti di ordine contrattuale. Questa solidarietà può subire momenti di rottura, fenomeni di sconvolgimenti in cui norme e valori vengono meno, determinando situazioni di anomia responsabili anche di crisi individuali quali il suicidio. Durkheim, sull’individualismo, afferma poi che è un “fine collettivo che non ci si disperde ma ci collega; non è egoismo, ma pietas e simpatia dell’uomo per l’uomo”. A questa concezione positiva del sociale, come luogo nel quale il mondo individuale trova la sua piena espressione e la sua dignità, ci contrappone la visione di Tarde, di Ross e degli altri esponenti della “psicologia delle folle”, per i quali il sociale, dominato da processi di imitazione-suggestione, diviene elemento di disgregazione morale e cognitiva dell’individuo.

La psicologia delle folle. I lavori sulla “psicologia delle folle” costituiscono il primo contributo europeo alla formazione di un punto di vista psicologico-sociale. Nel libro “La psychologie des foules” di LeBon vi è una componente ideologica di ordine autoritari stico e antidemocratico che si interseca costantemente con l’analisi psicosociale. Le folle, dice LeBon, sono le grandi protagoniste negative della nuova era che sta sorgendo. All’epoca di LeBon, le folle incutevano un deciso timore a chi le vedeva come espressione dei grandi movimenti di massa che lottavano per i diritti sociali. Ma inquietavano anche le folle più pacifiche che riempivano le piazze nei giorni di festa, perché concretizzavano l’espandersi di una soggettività allargata anche ai meno abbienti, al “popolo”: un senso personale del Sé che contribuiva a mettere ulteriormente in crisi quel principio di autorità che aveva governato il mondo per secoli e che le folle della rivoluzione francese avevano già sconquassato. Nella folla la personalità singola svanisce, i sentimenti e le idee si polarizzano orientandosi nella stessa direzione, nuove caratteristiche comuni di pensiero e di azione si creano. Questo è possibile in quanto il comportamento umano è sorretto da motivi inconsci che sono largamente comuni: sono essi che costituiscono il fondo dell’anima delle folle. La folla è scarsamente capace di azioni razionali, non può fare cose che richiedano una certa intelligenza: “essa accumula non l’intelligenza ma la mediocrità”. Le folle ragionano per immagini, non associano logicamente le idee ma le giustappongono per somiglianza e per successione. Secondo LeBon, alla base di queste caratteristiche stanno tre fondamentali meccanismi: il senso di potenza, che viene agli uomini quando riunendosi si affievolisce il loro senso di responsabilità e il loro rapporto corretto con la realtà; il contagio mentale, che, propagando atti e sentimenti, spinge a confondersi con l’anima collettiva; la suggestionabilità, che, messa in moto dall’affievolirsi della coscienza, abolisce la volontà personale trasformando l’individuo in una specie di automa. Su queste folle dominano le personalità dei capi: uomini d’azione, spesso nevrotici ma dotati di forte volontà, capaci di imporsi e di guidare questo “gregge che non può fare a meno di un padrone”.

Le basi della psicologia sociale negli Stati Uniti. Il contesto sociale. E’ in America che la Psicologia Sociale si è sviluppata. In America i concetti di progresso e di speranza acquistano un senso concreto. La spinta al progresso e alla valorizzazione dell’individuo che si è sviluppata a seguito del pensiero dell’Illuminismo, è accompagnata in America con l’uguale valorizzazione dell’agire pratico. La valorizzazione è presente anche nel credo religioso dei calvinisti puritani che si erano trapiantati in America, sfuggendo alle persecuzioni cui erano sottoposti nell’Inghilterra del XVII secolo. Era una popolazione laboriosa, innovativa, che vedeva nel lavoro anche uno strumento di elevazione spirituale, organizzata in comunità nelle quali l’impegno morale diviene anche sociale, favorendo il dialogo e la solidarietà. Si viene quindi ad aggiungere l’individualismo umanitario della tradizione puritana attento ai valori della solidarietà e dell’uguaglianza: esso contribuirà a quell’individualismo democratico che avrà tra i suoi esponenti William James e John Dewey. Nel suo insieme, dunque, l’ambiente americano appare aperto a una concezione positiva del sociale, come elemento che contribuisce a concretizzare il mondo individuale psicologico.

Il pragmatismo e il funzionalismo. Il pragmatismo venne così denominato da Charles Peirce perché mette in primo piano la connessione tra la conoscenza e le sue conseguenze pratiche. Il suo assunto di base è che il valore di verità di un’idea è essenzialmente valutabile in base ai suoi effetti pratici. Peirce considerò il pragmatismo un “metodo”. James ne ha fatto anche un modo di pensare, di vedere le cose e i rapporti umani, in sintonia con la sua psicologia. Le idee, le conoscenze, il pensiero sono strumentali nella misura in cui servono a vivere, a scegliere tra le diverse possibilità, ad adattarsi al mondo. L’interesse del pragmatismo, dice James, è rivolto al dato sociale e psicologico, ai problemi concreti dell’adattamento umano, alle questioni della pratica sociale. Dewey sottolinea una concezione creativa e innovativa dell’esperienza: essa non è solo la “registrazione di ciò che è già avvenuto”, ma “sforzo per cambiare le situazioni date, protendendosi verso il futuro”. Fare esperienza non significa chiudersi nella propria soggettività, ma relazionarsi con un ambiente, coglierne gli aspetti oggettivi, e indirizzarlo verso nuove direzioni. Il funzionalismo ha le sue basi nel pensiero di James, pur trovando le sue radici più profonde nella teoria evoluzionistica di Darwin. Vedendo nell’adattamento all’ambiente il meccanismo che presiede alla selezione naturale e all’evoluzione della specie,Darwin aveva aperto la via per porre in primo piano la relazione individuo-ambiente anche sul piano psicologico. Per questo, sin dall’inizio dei suoi lavori, James aveva intrapreso a studiare la mente non nei suoi contenuti e come a sé stante, ma a livello dei processi che “concretamente” la articolano con il contesto. Il soggetto conoscente è attivo sia sul piano cognitivo sia su quello pratico, perché la sua conoscenza e la sua azione contribuiscono a fare e a trasformare il mondo. L’attività mentale è motivata non solo dalle richieste delle situazioni, ma anche da quanto essa stessa elabora facendo esperienza, in modo attivo, del mondo esterno: dunque, la mente contribuisce a creare una realtà proiettandosi al di là delle situazioni esistenti.

La psicologia di James. James è uno dei fondatori della psicologia contemporanea. Insieme con Darwin, Helmoltz e Freud, è uno dei quattro grandi che hanno cambiato il nostro modo di vedere le cose. Per James, come per Wundt, la psicologia studia l’esperienza. Ma questo studio, secondo James, non può indirizzarsi a un’attività psichica concepita come una moltitudine di microscopiche sensazioni che poi un qualche meccanismo mentale mette insieme, perché la nostra esperienza ci offre, da subito, “un mondo unitario di cose e di relazioni”. Essa è cioè, da subito, conoscenza, o pensiero, indicando con questo termine l’intera vita psichica quale è immediatamente esperita “nel suo insieme di thug and feeling”. Il termine feeling comprende emozioni, sensazioni e quanto perviene dalla sensibilità autonomica e periferica: tutto quanto viene sentito, e quindi conosciuto prima ancora di averne una conoscenza intellettuale nel senso stretto del termine. Il feeling fa dell’esperienza (del pensiero) una conoscenza non solo intellettuale ma sensibile. Considerando il corpo come elemento attivo nel rapporto con l’ambiente, i feelings che da questo parvengono, partecipano alla conoscenza di tale ambiente in relazione a noi stessi. Questa conoscenza, che avviene per contatto immediato con le cose, è personale, quasi sempre non traducibile in parole, e non comunicabile né

formalizzabile. La conoscenza dei feelings è sempre valutativa. Essa ci dice non solo come una cosa è, ma come essa è in relazione a noi. Noi viviamo nel presente la nostra esperienza: e il presente è l’unico “tempo” sul quale noi possiamo operare, perché l’attività psichica è un “flusso” che continuamente passa in modo inarrestabile. Tuttavia noi sappiamo bene quale importanza nella nostra vita abbiano le cose e gli eventi del passato, e anche quelli che intravediamo proiettandoci nel futuro con le nostre aspettative, speranze, desideri. Questi “oggetti mentali del prima e del poi” vengono riunificati nel pensiero a quelli presenti grazie alla funzione relazionale dei feelings. Dunque, i feelings personalizzano la conoscenza e la unificano. Per ragioni di studio noi possiamo estrarre gli “oggetti del pensiero” dall’intreccio dei feelings, e farne oggetto di una conoscenza “fredda” priva di implicazioni personali. Ma un simile procedimento ha poco valore per lo psicologo. Lo psicologo che ha come scopo l’analisi dell’attività cognitiva quale si realizza e funziona nell’esperienza personale, se non tiene conto del tessuto relazionale di valutazioni e di feelings che intesse la conoscenza della persona, finisce col perdere il meglio della sua analisi.

La mente e la società. È anche grazie al sostegno della psicologia di James che alcuni studiosi americani hanno potuto mettere in rilievo il ruolo “forte” che la vita sociale svolge sul mondo mentale. Tra questi studiosi sono importanti Baldwin e Mead. James M. Baldwin. Baldwin vede la società come “una rete consolidata di relazioni psichiche, un tessuto di natura psicologica” in cui il bambino entra alla nascita, formandosi via via come individuo. Egli analizza le fasi dell’esperienza nel cui ambito si forma socialmente l’essere umano. Tali fasi sono: “la prima è l’epoca dei processi del piacere e del dolore; è l’epoca dell’adattamento motorio semplice (epoca affettiva); la seconda è l’epoca della rappresentazione, della memoria, dell’imitazione, dell’azione difensiva, dell’istinto, che passa per gradi alla terza, l’epoca della rappresentazione complessa, della coordinazione motoria complessa, della conquista, dell’azione offensiva e della volizione rudimentale (epoche di riferimento obiettivo); vi è infine l’epoca del pensiero, della riflessione, dell’affermazione di sé, dell’organizzazione sociale, dell’unione delle forze, della cooperazione (epoca di riferimento soggettivo). In questo percorso “la realizzazione dell’Io” è vista come un progressivo evolvere, sul piano della “coscienza”. In tale quadro, dice Baldwin, “un fattore importante per la comprensione di me stesso è la comprensione dell’ordine sociale”. George H. Mead. Il rapporto mente – società viene analizzato in modo assai più complesso dallo psicologo di Chicago Mead. Per Mead il punto di partenza è il comportamento esterno, visibile, e non la “mente vista dall’interno”, come era per James. L’essere umano al centro dell’analisi di Mead è ben dotato di una mente e di una capacità di elaborazione interna. Sarebbe assurdo, dice Mead, negare l’esistenza della mente. Noi possiamo studiare “l’esperienza interiore” attraverso il comportamento oggettivo , ma per far questo occorre considerare che “l’atto esterno osservabile è solo una parte del processo che ha avuto inizio nell’interno e che solo in un secondo momento giunge all’espressione esterna.

Inoltre il metodo che suggerisce Mead è di trattare l’esperienza dal punto di vista della società, o almeno dal punto di vista della comunicazione in quanto essenziale per l’ordine sociale. In psicologia sociale si comincia da un determinato insieme sociale costituito da complesse attività di gruppo, e al suo interno analizziamo il comportamento di ciascuno dei separati individui che lo compongono”. Con l’espressione “complesse attività di gruppo” Mead intende specificamente la società, cioè tutto l’insieme delle pratiche di cooperazione sociale. Queste pratiche sono basate sulla continua interazione tra le persone. In tale ottica il concetto centrale è quello di comunicazione, la quale è fondata sul linguaggio come espressione di un sistema di significati condivisi, il cui gesto diviene un simbolo significativo. L’attenzione per il simbolo, inteso come espressione dell’elaborazione mentale del gesto, è derivata da Mead dall’attenta lettura della Psicologia dei popoli di Wundt. Tuttavia, dice Mead, mentre in Wundt la capacità simbolica viene data come presupposto, secondo la sua ottica essa è costituita dalla vita sociale: da quel processo circolare interazionale che, dalle prime forme del “gesto”, si evolve poi nella più complessa forma del “simbolico” attraverso le dinamiche dell’azione sociale. La mente non può essere considerata unicamente sotto il profilo individuale, in quanto le sue funzioni biologiche sono essenzialmente sociali. Il soggetto non è costituito soltanto dall’organismo biologico, bensì anche dal suo rapporto con il mondo. Questo rapporto è mediato dalla relazione con gli altri.

Lo studio dei gruppi. Lo studio dei piccoli gruppi diventa per molti la psicologia sociale, e imprime alla materia caratteristiche particolari, in positivo e in negativo, che restano ancora oggi una delle aree centrali di discussione e di confronto. I piccoli gruppi in generale, anche se ovviamente meno coesi e totalizzanti dei cosiddetti “gruppi primari”, divennero oggetto di varie ricerche. Una delle più note è quella nota come “esperimento Hawthorne” condotta presso la Western Electric Company. Vennero messi in atto più esperimenti. I due esperimenti fondamentali furono quello relativo a una squadra di sei ragazze addette al montaggio relais e quello condotto su una squadra di quattordici operai addetti alla posa fili. Nel primo esperimento si constatò che gli elementi che avevano influito sulle variazioni della produttività erano di natura psicologica: più precisamente, dipendevano dal fatto che le sei ragazze erano diventate, lavorando insieme, un “gruppo”: il sentimento di gruppo con tutti i fenomeni connessi apparve essere la vera variabile che influiva sul rendimento e sul comportamento. I quattordici operai della “sala posa fili” dimostrarono in modo ancora più evidente questo fenomeno, anche a livello di controllo della produzione. Il gruppo si organizzò ben presto elaborando una sua politica del controllo del lavoro al di fuori degli schemi degli sperimentatori. Il gruppo manteneva la sua unità e il suo equilibrio, inoltre si dimostrò ben capace di difendersi, rispetto all’esterno, da intromissioni fisiche e da lesioni al suo corpus di norme e valori. In sintesi: fu questa la prima volta che si vide, nell’ambito di una rigorosa sperimentazione sul campo, nascere, organizzarsi e funzionare un gruppo come unità organica psicologica e sociale. Molte altre ricerche furono poi aperte dalla sociometria di Moreno. Moreno afferma che probabilmente all’origine di questa nostra società vi è stato un momento di creatività e di spontaneità caratterizzato da modalità di comunicazione interumane più dirette e sostanziali: per certi aspetti più “vere”. Con la differenziazione tra i vari gruppi sociali,

i rapporti personali hanno assunto modalità sempre più complesse, generando fenomeni di distacco e di separazione degli individui. Questa normatività e cristallizzazione di rapporti ha rotto il momento creativo e spontaneo in cui i rapporti tra gli uomini avvenivano secondo modalità nuove e creative, in una specie di psicodramma continuo. La sociometria costituirebbe nell’ipotesi di Moreno un modo per ritrovare il senso di quelle relazioni preferenziali che costituiscono l’unica garanzia dell’armonia: psicologica per l’individuo, e sociale per il gruppo in cui vive. Il suo punto di partenza è il concetto di adattamento e la sua idea centrale è di intervenire, modificandolo, sul processo di “selezione naturale” ripreso da una sorta di darwinismo semplificato. Accettando il fatto che il principio fondamentale della natura è la sopravvivenza di quegli individui o gruppi che meglio si adattano alle richieste dell’ambiente, Moreno pensa che il meccanismo di selezione naturale sia crudele e non scientifico, e che su di esso sia possibile intervenire mediante una specie di ricostruzione della società che può essere effettuata grazie a metodi empirici basati sulla ristrutturazione delle reciproche scelte interpersonali. Una ristrutturazione che la sociometria può contribuire a studiare e a plasmare.

La ricerca empirica della scuola di Chicago. Gli studiosi dell’università di Chicago tra il 1920 e il 1950, indirizzarono la loro ricerca su molti problemi emergenti nella vita sociale del tempo, tra la persistenza delle tradizionali comunità agricole americane e i nuovi fenomeni legati a un urbanesimo in enorme crescita. Una delle ricerche più note e importanti prodotte dalla Scuola di Chicago è quella condotta da Thomas con lo studioso polacco Znaniecki. La loro monumentale opera Il contadino polacco in Europa e in America, fornisce un quadro dettagliato della vita e dei problemi degli immigrati polacchi, cogliendoli in un momento delicato di passaggio dal loro antico mondo contadino al nuovo mondo americano delle industrie e delle città: un momento che ne fa degli “sradicati”, in bilico tra memorie personali, legami con le persone rimaste in patria, e modalità di integrità nella cultura urbana degli Stati Uniti. Molte altre ricerche meritano di essere ricordate. The hobo ( termine cui si indicavano i lavoratori disoccupati che giravano per cercare lavoro) è la ricerca condotta da Anderson sulla vita di questi lavoratori migranti che si spostavano per gli Stati Uniti. Anderson studiò a fondo il fenomeno favorito dalla sua stessa esperienza: egli stesso, abbandonata la scuola secondaria, era stata un hobo, fino a quando una famiglia di contadini dello Utah non gli diede un lavoro e non lo incoraggiò a riprendere gli studi fino a laurearsi e a specializzarsi in sociologia. Grazie anche a questo fatto egli riuscì a utilizzare in profondità la tecnica dell’osservazione partecipante. Thrasher studiò in The gang la delinquenza urbana attraverso l’analisi delle 1313 bande giovanili della Chicago dell’epoca. L’impero centrale delle bande della Chicago dell’epoca occupava quella che l’autore definiva “cintura della povertà”: una regione caratterizzata da quartieri degradati , alta mobilità della popolazione e forte disorganizzazione sociale. Di notevole interesse per la psicologia sociale è sicuramente il grosso apporto metodologico che gli studiosi di Chicago hanno dato alla ricerca sul terreno, nonché l’ottica di base che ha giudicato il loro approccio. La prima utilizzazione dell’ “indagine sociale”, cioè del metodo comunemente noto come social survey, risale agli studi che

Booth condusse tra il 1882 e il 1897 sulla povertà dei lavoratori di Londra. Nel corso delle sue ricerche Booth utilizzò vari tipi di statistiche elaborate dagli uffici del territorio,e anche l’intervista, il questionario, colloqui individuali e di gruppo e l’osservazione diretta. La Scuola di Chicago ha trasmesso alle discipline umane e sociali, non solo una metodologia, ma un vero e proprio impegno epistemologico nella ricerca sul campo. Il richiamo alla ricerca direttamente portata sul terreno mantiene, oggi ancora, tutto il suo senso per la psicologia sociale quando si rivolge ai problemi umani e sociali concreti. A questi problemi i ricercatori di Chicago hanno guardato non solo con scrupolo metodologico, ma anche con un’ottica ugualitaria, democratica e riformista nella convinzione che la ricerca, se condotta su basi serie e fondate, costituisce anche un utile strumento per affrontare in modo realistico i conflitti sociali, l’emarginazione, la povertà e in genere i problemi della convivenza soprattutto nelle società in transizione.

Gli studiosi di Chicago, la microsociologia interazionista e la psicologia sociale Thomas e Znaniecki. Thomas e Znaniecki hanno messo la relazione tra il mondo individuale e il mondo sociale alla base teorica della loro ricerca sul contadino polacco, sottolineando che: “vi è una dipendenza tra l’organizzazione sociale e l’organizzazione della vita individuale”. Per dare consistenza teorica a tale interrelazione essi hanno utilizzato i concetti di atteggiamento e di valore, intendendo l’atteggiamento come “un processo psicologico individuale che determina l’attività reale o possiede nel mondo sociale, e il valore come un elemento oggettivo dell’ambiente socioculturale verso cui gli atteggiamenti si indirizzano. La loro concezione della psicologia è fondata su una concezione dei processi psicologici che non è mai stata quella degli psicologi, per i quali l’attività psichica in generale è sempre in qualche modo diretta all’esterno. La concezione dell’atteggiamento dei due studiosi non è errata in sé, ma nella loro ottica finisce col prodursi una specie di spaccatura nell’esperienza dell’individuo. In particolare, mentre i contadini polacchi nell’ambito della loro ricerca empirica appaiono come persone reali a tutti gli effetti, l’ “individuo” teorizzato dal loro assetto concettuale finisce col perdere questa realtà, soprattutto sul piano soggettivo. I dati del contesto sociale, dicono Thomas e Znaniecki, hanno un’influenza sulla condotta solo nella misura in cui passano nel mondo soggettivo: ma la soggettività che entra nella loro teoria non ha una dimensione individuale concreta. L’interazionismo simbolico e la “psicologia sociale sociologica”. Con il termine interazionismo simbolico, Blumer ha indicato la sua ottica che guarda alla società come un mondo in cui ogni cosa acquista una realtà umana solo nella misura in cui viene dotata di significato, costruito nell’interazione tra le persone, e più precisamente dalle reciproche interpretazioni delle loro azioni. Alla base dell’agire umano dunque sta il significato che l’attore attribuisce alla situazione, ma tale significato è essenzialmente determinato dall’agire stesso nel contesto dell’interazione, e cioè da una specie di continua reciproca interpretazione di quello che si pensa essere l’agire dell’altro. Un’interpretazione in cui l’attore sociale è costantemente impegnato, perché, interpretando l’altro, interpreta anche il proprio Sé

quale si costituisce nelle varie situazioni. E’ stato inoltre osservato come la forte insistenza sulla dimensione soggettivistica finisca col mettere in ombra quasi del tutto il versante oggettivo degli eventi, delle persone e delle situazioni, pervenendo così a una visione alquanto riduttiva della realtà sociale. Dal punto di vista della psicologia sociale riconosciamo all’interazionismo simbolico il merito di aver mantenuto viva l’attenzione su un mondo sociale popolato di persone capaci di pensare, valutare e attribuire un senso alle cose e agli eventi di contro agli “organismi senza mente” che il behaviorismo ha messo sulla scena. Tuttavia, l’individuo dell’interazionismo manca di una reale consistenza psicologica. I suoi processi cognitivi sono visti in modo poco concreto, la sua vita affettivo emozionale non viene considerata, e anche le istanze motivazionali non sono affrontate. Definito soprattutto da ruoli sociali con cui agisce nelle situazioni, esso resta un attore più che una persona. La vita sociale come rappresentazione. Ancora più fluida e problematica è la visione della realtà sociale proposta dall’etnometodologia, la più complessa e problematica corrente della microsociologia fondata da Garfinkel. La realtà sociale in cui concretamente gli individui vivono e operano è quella costituita dall’insieme dei significati ormai sedimentati attraverso le generazioni. L’ottica di Garfinkel punta al ruolo delle piccole pratiche ordinarie della vita associata. Egli ha coniato il termine “etnometodologia” per indicare una linea di ricerca diretta a indagare i “metodi” di ragionamento pratico che la gente usa nella vita quotidiana: una scienza degli etnometodi, cioè di quei metodi pratici “popolari” (etnos = popolo) mediante i quali si fanno le cose e si spiegano le cose nella vita di tutti i giorni. La realtà sociale appare come un qualcosa di fluido, che viene costantemente fatto e rifatto attraverso le condotte quotidiane, essenzialmente intese a livello discorsivo. Attraverso i suoi incessanti scambi discorsivi la gente cerca di rendere comprensibile e spiegabile il mondo in cui vive.

La psicologia sociale nella scienza del comportamento. Il “fare dell’uomo” come comportamento. Quando Watson diede l’avvio al comportamentismo, suscitò molte speranze in coloro che erano interessati ad allargare il campo degli studi psicologici dal mero ambito della mente all’intero quadro, soprattutto sociale, dell’agire umano. Costituitasi come scienza dell’esperienza diretta e immediata che il soggetto umano fa del mondo, la psicologia di Wundt intendeva l’esperienza come il percorso di un processo di conoscenza che, partendo dal dato sensoriale e passando attraverso la percezione che rende coscienti le sensazioni, perviene infine a costituire la “rappresentazione” che l’uomo ha delle cose. I “contenuti mentali” erano indagati mediante il metodo dell’introspezione: cioè, in pratica, attraverso l’interrogazione di soggetti addestrati a esprimere le percezioni e le rappresentazioni suscitate in loro dalle stimolazioni controllate dagli sperimentatori. Opponendosi a tale visione, Watson afferma che la psicologia deve studiare “ciò che l’uomo fa”: con questo sembrava dunque aprire una prospettiva ben più ampia, anche e soprattutto sul piano sociale. Ma, identificando il fare con il mero comportamento manifesto egli produce un vero rivolgimento della psicologia, in cui è eliminato ogni riferimento all’attività mentale, all’esperienza soggettiva e anche all’attività pratica

come comunemente concepita. Però nel piano concettuale di Watson, il comportamento perde le sue due fondamentali caratteristiche: il senso del fare come attività che in qualche modo modifica il contesto fisico e sociale; il senso della fonte attiva che gli sta dietro: cioè del soggetto con i suoi desideri, i suoi propositi, il suo corpo. La teoria S-R. La polemica di Watson è indirizzata all’ “introspezionismo” come metodo, ma ciò che, in realtà, viene rifiutato è l’oggetto dell’introspezione: la mente, la coscienza e tutto quanto è riferito all’ “esperienza interna”. Watson negherà ogni realtà alla coscienza e agli stati mentali che “occorre ignorare come qualcosa di indefinibile e di magico”. Il soggetto della teoria stimolo – risposta è un organismo indifferenziato in un contesto indifferenziato, dunque notiamo un’ottica behaviorista ambientalistica. Il processo di apprendimento è divenuto centrale nell’ottica ambientalista del comportamentismo, e per spiegarlo si sono utilizzati modelli meccanicistici tali da escludere ogni intervento mentale. Dapprima il modello piuttosto semplificato per tentativi ed errori; poi modelli basati sul condizionamento classico pavloviano per associazione. Infine modelli più raffinati di condizionamento operante messi a punto da Skinner, secondo il quale sia l’animale sia l’uomo tendono essenzialmente a ricercare il piacere e a fuggire il dolore. In tale ottica, se le risposte a una stessa situazione ricorrono più frequentemente quando procurano piacere, allora si possono variamente rinforzare i comportamenti che si desidera fare apprendere con un opportuno gioco di premi e viceversa cercare di farli disimparare mediante rinforzi negativi o punizioni. In tale ottica l’organismo non viene condizionato da meccanismi “esterni” più o meno complicati, ma dal suo stesso comportamento che tenderà a radicare tanto più profondamente certe risposte quanto più queste gli permetteranno di raggiungere il benessere. E viceversa le punizioni. La teoria S-O-R e il neobehaviorismo. Il comportamentismo, dagli anni Quaranta, inizia a modificarsi. Le modificazioni indotte dal neobehaviorismo, portano a un modello che si definirà SO-R, volendo con O rappresentare l’intervento più attivo dell’organismo, cioè una sua mediazione tra stimolo e risposta. Hull ha inserito tra S ed R una forza motivazionale (un drive) che spinge e guida l’organismo alla riduzione dei suoi bisogni primari e secondari. Tali drivers primari e secondari intervengono nella formazioni di abitudini, le quali, a loro volta, mediano tra S e R. Una mediazione decisamente “più psicologica” tra stimolo e reazione è quella introdotta da Tolman con il concetto di purposive behavior, cioè di un comportamento a cui “ineriscono, come una trama intrinseca” scopi e intenzioni. Il comportamento, cioè, nella sua visione, non è mosso solo da stimoli che “spingono” ma piuttosto da “mete che attirano”. La persistenza della meta consente all’organismo di formarsi delle mappe cognitive del campo comportamentale, nelle quali questo è rappresentato non come insieme di stimoli, ma come unità organizzata. È questa unità che viene imparata dall’organismo, e inoltre viene memorizzata, cosicché “un comportamento può essere funzione anche di un oggetto assente”, di cui si “conserva il ricordo”. Su questa base lo stimolo viene concepito da Tolman come un’unità organizzata che acquista il suo significato grazie alla meta che l’organismo ha già cognitivamente anticipato.

Un ulteriore elemento di mediazione è quello portato da Hebb partendo dalla neurofisiologia. Quest’ultima aveva conosciuto grandi progressi già attorno al 1920, mostrando gli aspetti di integrazione delle funzioni nervose che avvengono a livello centrale. “L’energia non è nello stimolo”, dice Hebb “ma nel cervello, costruito per essere attivo”. La diffusione del suo testo tra gli psicologi, contribuì a intensificare l’attenzione non solo sulla centralità neurologica della vita psichica, ma anche sulla realtà di un centro direzionale non solo ipotetico ma concreto: il cervello, e, sul piano psicologico, la mente. Su questa via si porrà la nuova ottica del cognitivismo.

L’apprendimento sociale e i comportamenti aggressivi. Gli psicologi sociali che hanno operato nell’ambito dell’ottica behaviorista si sono impegnati nel tentativo sia di allargare il concetto di stimolo e di risposta, sia di passare dalla sperimentazione sull’animale alla sperimentazione sull’uomo, pur salvaguardando i principi di osservabilità e di oggettività. In tale clima una delle linee maggiori di ricerca è quella relativa al comportamento aggressivo analizzato in base all’ipotesi che esso sia fondamentalmente attivato alla frustrazione. I limiti di queste ricerche sono i limiti stessi del paradigma behaviorista: l’isolamento del fenomeno dal contesto sociale in cui avviene, la sua generalizzazione in termini astratti e slegati dalle concrete situazioni di interazione, la puntiformità con cui sono viste sia le occasioni di stimolazione sia le reazioni dei soggetti, e infine l’artificiosità complessiva del contesto di laboratorio in cui il problema è stato analizzato. Più interessante è la linea di studio che si è aperta nell’ottica dell’apprendimento sociale. Il social learning è stato al centro della psicologia nata nell’ambito behaviorista, come traslazione nel sociale di un meccanismo generale posto alla base dell’intero comportamento. Sul piano concettuale il tema dell’apprendimento sociale ben si prestava a essere articolato con i modelli dell’imitazione. L’imitazione era un concetto che esercitava un notevole fascino sulla psicologia sociale S-R a causa del ruolo che i fattori imitativi possono giocare nella determinazione dei comportamenti al di là di ogni intervento di meccanismi mentali. Nelle pratiche di vita il soggetto non solo “conosce” ed “apprende” (imita), ma anche agisce. L’attività pratica non è separata dall’attività mentale, e perciò partecipa sia della conoscenza sia dell’apprendimento, connettendo su quest’ultimo alle situazioni concrete: ai riconoscimenti, ai benefici che si possono ricevere, ai rifiuti, alle punizioni, e così via. L’apprendimento sociale dell’aggressione e della violenza riacquista un senso che non può sicuramente essere trascurato. Viviamo in una società che è colma di elementi di violenza. Questi elementi non agiscono solo in modo lineare ma anche in modi complessi, spesso attraverso processi mentali automatici posti al di là del controllo cosciente.

La concretizzazione dell’articolazione psicosociale. Un teorico pratico: Kurt Lewin. L’ampia portata del lavoro di Lewin, le sue brillanti innovazioni in molte aree della psicologia, al sua abilità sul piano sperimentale sono davvero impressionanti. Molto sovente si è etichettato Lewin come un “teorico”. Ma la teoria, come la intendeva Lewin, è un modo di guardare ai fenomeni in termini problematici,

nell’intento non solo di descriverli ma di spiegarli, quindi ponendo delle ipotesi che si cercano poi di verificare utilizzando i metodi più idonei. Guardare in termini problematici ai fatti facendo ipotesi, significa anche aprire la possibilità di scoprire fatti nuovi che prima non si erano visti. In questo senso la teoria non è un’ “aggiunta” alla ricerca e alla pratica, ma un qualcosa che la sorregge. Perciò Lewin poteva affermare “non c’è nulla di più pratico di una buona teoria”: perché proprio la riflessione teorica ci consente di puntare al nuovo, e quindi al cambiamento dell’esistente, sia nella ricerca sia nell’intervento.

Persone umane e metodi della psicologia. Lewin ha dato concretezza affrontando il problema sia del modo di concepire il soggetto, sia il metodo con cui analizzare l’esperienza e la condotta. Lewin si trova spettatore di molteplici e differenti avvenimenti nell’ambito dell’esistenza umana: un ambito che va ben al di là del comportamento tangibile e manifesto. Egli dice anche, è vero che gli psicologi studiano dei “fenomeni”, ma quelli che concretamente essi osservano sono “alla fin fine” degli esseri umani. Quello che occorre fare, aggiunge Lewin, per studiare realmente queste persone nel contesto dei loro problemi è di superare una mera osservazione dall’esterno: egli prende posizione contro il metodo puramente descrittivo. Ma, questo non significa cadere nel metodo tradizionale di tipo speculativo: perché tale ottica, utilizzando una sola categoria globalistica, per spiegare gli eventi psichici finisce col restringere quel “vasto continente” che è l’esperienza umana senza consentirne l’analisi empirica. Con queste rapide considerazioni Lewin mette a fuoco il fondamentale problema costituito dal rapporto oggetto-metodo della psicologia. Focalizzando come oggetto degli “esseri umani” intesi nell’interezza della loro esperienza, e come metodo quello dell’analisi empirica. Il termine persona che Lewin costantemente utilizza non è generico. La persona è definita come un essere umano che: è portatore non solo di percezioni e conoscenze, ma di bisogni, necessità, motivazioni, emozioni, progetti, scopi, speranze, etc.; che sta dentro a un ambiente sempre precisato sul piano situazionale in termini fisici e sociali, materiali e simbolici; che con questo ambiente è in relazione non solo tramite i suoi processi percettivo – cognitivi ma anche tramite la sua azione pratica; che, infine, nell’insieme della situazione è inserito in modo dinamico, perché i cambiamenti provocati dalla sua azione “ritornano”, per così dire, su di lui, modificando “la percezione e la rilevazione dei fatti”, così come a sua volta, “il risultato della rilevazione dei fatti influenza l’azione o la guida”.

Il costrutto di campo e la “field theory”. Il campo e la nuova visione del mondo e della scienza. Il campo è un costrutto che vale a inserire in un quadro scientifico il ragionamento fondato sulle relazioni e sulle funzioni, invece che sulle sostanze. Più specificamente, il costrutto di campo ci permette di ragionare sui fenomeni non più alla base delle caratteristiche dei corpi che nel campo si situano e sulle forze che un corpo può esercitare sull’altro, ma sulla base della configurazione del sistema globale in cui i corpi sono compresi e che essi stessi contribuiscono a formare con il loro sistema di relazioni, sulla base dell’energia che il campo possiede e della direzione delle forze in gioco, oltreché dell’ampiezza delle forze stesse. Occorre ricordare che il campo è un sistema dinamico, cioè essenzialmente un sistema di forze.

Le leggi di un campo non dipendono pertanto dalle caratteristiche singole degli elementi presenti nel campo, ma dalla configurazione e dal movimento del campo globalmente considerato. Quest’ottica sta alla base del metodo con cui Lewin affronta lo studio dei fenomeni psicologici e psicosociali “in riferimento” come egli stesso dice, “alla situazione concreta considerata nel suo insieme”. Il vecchio metodo e i suoi limiti. Con l’espressione “modo aristotelico di pensare in psicologia” Lewin ha indicato l’insieme dei vecchi procedimenti che procedono in modo “speculativo” oppure descrittivo – classificatorio. Questi procedimenti non scendono realmente dentro il fenomeno, non fanno un’analisi “genetica” delle sue cause, ma ne restano alla superficie. Inoltre sono incapaci di cogliere “la situazione concreta”. Ciò costituisce un problema grave quando il nostro studio è diretto proprio a quelle situazioni, come fa la psicologia sociale. L’importanza del “caso individuale” era avvertita dagli psicologi che operavano nell’ambito clinico e in quello della personalità. Tra questi studiosi, la questione di un’ottica indirizzata al caso singolo in contrapposizione a quella indirizzata a leggi generali era posta da Allport. L’attenzione per il caso individuale non può essere sicuramente trascurata dalla psicologia quando guarda alla persona, così come la psicologia sociale, rivolta ai concreti problemi dell’esistenza individuale e collettiva, non può sicuramente trascurare la specificità della situazione in cui tali problemi si producono. La “field theory” come metodo dell’analisi psicosociale. La teoria di campo, dice Lewin si caratterizza come metodo di analisi dei rapporti causali e di elaborazione dei costrutti scientifici nell’ambito di situazioni considerate sotto il profilo del cambiamento. Tali rapporti causali vanno sempre considerati come dipendenti dalle “mutue relazioni tra i diversi fatti, e in particolare delle relazioni tra l’oggetto e l’ambiente in cui esso si trova”. Ciò che è importante per lo studio della dinamica non è fare astrazione dalla situazione, ma trovare quelle situazioni nelle quali i fattori responsabili della struttura dinamica totale possono essere resi evidenti nel modo più netto e più semplice. Invece di un riferimento alla media astratta calcolata sul numero più grande possibile di casi storicamente dati, vi è un riferimento alla piena concretezza delle situazioni particolari. Quanto vale per i fenomeni fisici, vale anche per quelli psicologici e sociali. In particolare, il metodo che Lewin definisce “costruttivo concreto” è utile per la psicologia sociale che è interessata sia a non perdere il senso particolare di ogni situazione specifica, sia a mantenere aperta la ricerca di leggi generali. Nel quadro della dinamica situazionale, in cui ciò che avviene è analizzato in base all’interdipendenza delle variabili, i singoli elementi non perdono le loro caratteristiche peculiari. I vettori che determinano la dinamica di un evento non possono essere definiti che in funzione della totalità concreta che comprende, nel contempo, l’oggetto e la situazione. Per Lewin, il fenomeno studiato è parte di una situazione globale che viene analizzata nel suo stato presente come un insieme dinamico di forze che connettono sempre il

fenomeno con il contesto in cui si realizza. L’analisi viene condotta non sulla base di variabili ma di relazioni tra variabili che sono tutte interne alla situazione stessa. Situazioni, problemi e principi d’indagine. Quello che Lewin propone con il suo costrutto di campo non è soltanto uno studio integrato dei fattori cognitivi, emotivi e ambientali nella produzione della condotta, ma un’analisi del loro concreto modo di funzionare come sistema di fattori che trovano la loro definizione e la loro funzione proprio in quanto sistema di interdipendenze. Quest’ottica consente a Lewin: di centrare l’analisi su situazioni concrete della vita reale; di non considerarle fini a se stesse e concluse, ma di inserirle in un contesto più vasto di strutture e di processi; di analizzare problemi specifici in dipendenza da situazioni specifiche; di passare via via alla formulazione di leggi più generali relative al modo con cui l’uomo agisce, ragiona, valuta, entra in tensione, regola il mondo affettivo e così via, nell’interdipendenza con il contesto sociale, materiale e simbolico, in cui è inserito. Sul piano metodologico la Field Theory ci suggerisce i seguenti principi: - l’analisi di un problema va condotta nell’ambito di una situazione precisa, definita in ordine ai fattori di ordine oggettivo e soggettivo che vi intervengono in un momento definito; - la determinazione dei fattori interveniente va compiuta in termini teorici ed empirici; - tale definizione può essere condotta su situazioni reali o creata in sede sperimentale purché rispetti i suddetti criteri di precisazione; - evidentemente solo nell’ambito sperimentale potrà essere specificamente utilizzato il metodo delle variazioni sistematiche, ma anche nelle situazioni ella vita reale si può focalizzare il momento del mutamento come occasione privilegiata di analisi.

Struttura e dinamica del campo psicologico – sociale. Componenti soggettive (spazio di vita) e oggettive (ecologiche) del campo. Il campo psicosociale si definisce come la totalità dei fatti coesistenti nella loro interdipendenza a un momento dato. Nel campo si situano tre tipi di fatti tutti ugualmente importanti. -Un primo gruppi di fatti è di ordine strettamente psicologico perché comprende la persona e l’ambiente psicologico “come è visto dalla persona”, cioè quegli elementi dell’ambiente, fisico e sociale, che cadono nella percezione e nella valutazione personale. - Tutti i fatti che costituiscono l’ambiente quale oggettivamente è. Dopo averli per un certo tempo trascurati in favore dei fatti soggettivi che sono più direttamente attivi nel campo, Lewin rivolse a questi fatti un’attenta analisi, sotto il titolo di ecologia psicologica. - La trasformazione di questi fattori oggettivi in fatti soggettivi, teorizzando una terza area di fatti, definita come zona di frontiera del campo, perché si può considerare come intermedia tra la zona centrale dello spazio di vita soggettivo e l’ambiente oggettivo. La vera caratteristica del campo lewniano è l’interdipendenza dei fatti. Per esempio, nelle ricerche sul mondo infantile avviene spesso che lo psicologo definisca alcuni aspetti del campo come elementi di irrealtà, in contrapposizione a elementi di realtà che riflettono oggettive capacità personali o concrete esigenze situazionali. Nel considerare tali aspetti occorre avere ben presente che la realtà o l’irrealtà di un fatto, di un elemento, di un giudizio ecc. è data solo dal modo con cui esso è collegato con

l’insieme della situazione totale. Un elemento del tutto irreale in certe situazioni può divenire reale in altre. In questo quadro di interrelazioni e di interdipendenze si colloca anche il comportamento, che dovrebbe quindi essere considerato non solo come funzione della persona e dell’ambiente ma come elemento attivo della loro costruzione. L’esperienza consiste in questo costante passaggio dal soggettivo all’oggettivo e viceversa. La coesistenza dei fatti a un momento dato. Uno degli aspetti della field theory che ha maggiormente intrigato gli studiosi legati al vecchio metodo tradizionale è stato quelli che considera i fatti come “coesistenti a un momento dato”, cioè nella loro contemporaneità presente. La nostra esperienza è sempre vissuta nel presente, e il campo psicologico non può che essere visto nella sua contemporaneità. Dunque, tutto quanto avviene nel campo, deve essere analizzato esclusivamente come funzione della “configurazione” del campo in quel momento. Tale ottica è stata vista come una negazione sia della dimensione storica sempre presente nei fatti umani e sociali. La definizione della situazione al momento dato è rigorosamente affidata all’osservazione empirica, a un test diagnostico del presente la cui validità è strettamente connessa alla qualità e all’accuratezza del procedimento utilizzato. Questa idea di test è abbastanza chiara se la si contrappone al concetto di anamnesi: l’anamnesi è una ricostruzione storica della situazione, il test è una rilevazione dello stato presente, in cui possono entrare anche il “passato” e il “futuro” se hanno un’influenza su tale stato. Organizzazione formale - dinamica del campo. Il ragionamento sui fenomeni psicosociali in termini di campo implica che tali fenomeni debbano essere rappresentati in modo spaziale così come avviene per quelli dei campi fisici. Ovviamente il campo psicologico è diverso da quello fisico. La geometria utilizzata da Lewin è stata quella dello spazio odologico con il quale si intende: uno spazio strutturato in modo finito, ovvero uno spazio le cui parti non sono infinitamente divisibili ma sono composte di certe unità o regioni. La direzione e la distanza sono definite da “traiettorie distinte” che possono essere facilmente collegate con la locomozione psicologica. Il campo psicologico è diviso in regioni separate da frontiere di diversa stabilità e consistenza. Le regioni non sono divisioni statiche stabilite una volta per tutte ma variano col variare del campo. Le locomozioni (spostamenti) che sul piano psicologico la persona compie sono in base ai sistemi di valenze e di forze. La valenza è il valore che una regione acquista in un certo momento per la persona e determina perciò la direzione della locomozione verso quella regione (se la valenza è positiva) o la fuga da quella regione (se la valenza è negativa). La forza è la risultante del sistema di forze che agiscono in quel momento nella regione del campo da cui si inizia la locomozione (in effetti spesso agiscono forze di direzione diversa) e si esprime con un vettore che ne indica la direzione, l’intensità e il punto di applicazione La direzione di una forza è determinata ovviamente dalla regione in cui è situata la valenza positiva e verso cui il sistema di forze tende a orientarsi. La sua intensità è determinata dall’intensità della valenza in collegamento con il mondo interno della persona e con l’ambiente.

L’elemento centrale che lega valenza, forza, tensioni, regioni, locomozioni è il concetto di bisogno, come elemento dinamico di coordinazione. Il gruppo e la sua dinamica. •

La teoria di campo porta Lewin allo studio dei gruppi che costituiscono il vero ambiente sociale col quale l’individuo entra in contatto in molti momenti della sua esistenza. Nell’analisi lewiniana il gruppo è un fenomeno, non una somma di fenomeni rappresentati dall’agire e dal pensare dei suoi membri; è una unità che la psicologia sociale può assumere nel suo studio così come vi assume altre unità quali, per esempio, la persona. Quel che costituisce l’essenza di un gruppo non è la somiglianza o la dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Esso può definirsi come una totalità dinamica. Ciò significa che un cambiamento di uno stato di una sua parte o frazione qualsiasi interessa lo stato di tutte le altre. Considerare il gruppo come un’unità di analisi significa ovviamente prendere in considerazione problemi non riconducibili ai problemi dei singoli membri. Il gruppo evidenzia bisogni che non sono riconducibili ai bisogni dei singoli: sono bisogni di gruppo, da cui nascono tensioni di gruppo che si collegano, nel campo del gruppo, a valenze e a forze. Su questa base le ricerche sperimentali o empiriche sui fenomeni di gruppo vengono centrate non sulle caratteristiche dei membri, ma sulle caratteristiche del gruppo.



Lewin, Lippit e White effettuano una ricerca sui gruppi nel 1939, e si venne alla conclusione che abbiamo tre tipologie di gruppo: democratico, autoritario, laissez-faire. Nel gruppo democratico vi è la viva collaborazione tra i membri, producendo soddisfazione e creatività. Nel gruppo autoritario vi emergono rilevanti fenomeni di aggressività che si manifesta principalmente verso determinati membri del gruppo. Il gruppo laissez-faire è quel gruppo in cui il leader asseconda gli altri membri, affidando a loro la decisione di ogni singola scelta.



Le situazioni sociali si mantengono grazie a un certo equilibrio di forze al loro interno. Per Lewin tale equilibrio non è fisso, ma quasi stazionario, caratterizzato ciò da oscillazioni, prodotte da forze uguali e contrarie, tendenti o all’innalzamento o all’abbassamento dello standard di vita sociale. Un mutamento nella struttura di tale campo di forze può avvenire o con l’aggiunta di forze nella direzione desiderata o con la diminuzione delle forze opposte. In seguito ad una nota ricerca, Lewin afferma inoltre che, all’interno di un gruppo, la propaganda, la partecipazione attiva dei membri del gruppo, hanno minor efficacia rispetto al coinvolgimento del gruppo stesso.

La dinamica di gruppo e la ricerca – azione. Dinamica di gruppo e problemi umano – sociali. Nell’ambito della dinamica di gruppo la teoria e la pratica sono legate metodologicamente in modo tale che correttamente unite possono fornire delle

risposte a più problemi teorici e nello stesso tempo rafforzare quell’approccio razionale ai problemi sociali pratici che è una delle esigenze fondamentali per la loro risoluzione. Nell’ambito della dinamica di gruppo ha preso corpo quel gruppo di formazione, comunemente noto come T – group (training group) nel quale le dinamiche internazionali che insorgono tra i partecipanti al gruppo vengono utilizzate a scopo “formativo”, in senso clinico – sociale. Il T – group ha lo scopo di imparare ad avere relazioni umane migliori. Si possono apprendere cose diverse, su se stessi, sul rapporto con gli altri e sul gruppo. La ricerca azione. la ricerca – azione è fondata sulla partecipazione attiva e paritaria, utilizza l’indagine conoscitiva ai suoi vari livelli, concependo la ricerca come strumento per analizzare in modo non dogmatico i problemi. La ricerca – azione può venire in generale utilizzata in vari contesti di vita associata su problemi pratici che particolarmente implicano aspetti relazionali. Una cosa importante è, ovviamente, la collaborazione attiva del contesto implicato, necessaria per lavorare sulla base di scopi condivisi e per favorire la partecipazione attiva del gruppo. La ricerca – azione è la trascrizione operativa del soggetto attivo nell’ambito dell’attività mentale e dell’attività pratica. A lui, infatti, si dà la parola, insieme con lui si procede a produrre una conoscenza basata non solo sulle sue e sulle nostre idee ma anche e soprattutto sulla sua attività pratica svolta nella situazione.

La teoria della dissonanza cognitiva. La ricerca di consistenza cognitiva. Festinger, allievo di Lewin, espose la teoria della dissonanza cognitiva, sorta come un tentativo di formalizzare nell’ambito di un modello sperimentale una constatazione frequentemente dell’esperienza comune: l’uomo tende in generale ad essere coerente con se stesso nel modo di pensare e di agire. Quando questa coerenza manca si crea uno stato di disagio che si cerca di eliminare o almeno ridurre. Le condizioni necessarie affinché tra due cognitions ( due credenze, idee, opinioni, etc.) si produca uno stato di dissonanza sono tre: la pertinenza tra i due elementi cognitivi, la loro discordanza e la loro attivazione a seguito di una decisione. Il fatto che le due cognitions siano tra loro pertinenti è, ovviamente, una condizione primaria. Essere pertinenti significa che essi abbiano qualcosa in comune che li colleghi, che interagiscano, e abbiano significato l’uno per l’altro. L’unico metro per valutare la dissonanza di due elementi cognitivi è la logicità che essi possiedono nell’ambito di un sistema concettuale conosciuto e utilizzato dal soggetto. È chiaro che questo sistema concettuale è basato non solo e non tanto su schemi generali del ragionamento umano, ma anche sull’esperienza soggettiva e sul tipo di informazioni di cui si dispone. Profezie confermate e venti dollari per una menzogna. Succede nel corso della vita sociale di trovarci a sostenere un comportamento non precisamente coerente con le nostre opinioni personali a causa di una decisione assunta sotto la spinta di circostanze varie: secondo Festinger questa è una situazione tipica di dissonanza che egli ha formalizzato sotto il titolo di accordo forzato. In pratica con questo termine si intende una situazione in cui una persona è indotta con incentivi di vario ordine a sostenere delle tesi, o a giocare un ruolo, in contrasto con le sue idee.

Nell’ipotesi di Festinger, la persona, se non può esimersi dal comportamento richiesto, sperimenta uno stato di dissonanza che cercherà di ridurre modificando il suo quadro cognitivo, e più precisamente adeguando le proprie idee e i propri atteggiamenti alla tesi che è costretta a sostenere o al comportamento che si trova, per accordo forzato, a tenere. Tanto più basso sarà l’incentivo che viene utilizzato per costringere la persona a questo accordo, tanto più alto sarà lo stato di dissonanza che essa prova; tanto più alto lo stato di dissonanza tanto più profondo sarà il cambiamento di atteggiamento che verrà manifestato dopo l’accordo forzato. Questo assunto è stato provato dal celebre esperimento noto come “venti dollari per una menzogna”. In questa ricerca 71 soggetti (studenti universitari) vennero sottoposti a prove lunghe, molto noiose e monotone. Fingendo di essere privo di aiutante, chiese ad ogni soggetto di fargli da “compare” nell’introdurre la persona che doveva sostenere la prova e nel convincerla che la prova era stata piacevole, interessante,e così via. Per questo compito ad alcuni soggetti fu proposta la ricompensa di 20dollari e ad altri 1dollaro. Alla fine delle prove, inoltre, ogni soggetto veniva intervistato da un altro ricercatore apparentemente del tutto estraneo all’esperimento, e nel corso dell’intervista, ufficialmente indirizzata a tutt’altri fini, veniva sondato il suo reale atteggiamento di fronte alle prove stesse. Si disponeva quindi di un doppio controllo abbastanza abilmente mascherato. Conformemente all’ipotesi si rilevò che i soggetti meno pagati furono molto più convincenti nel proclamare la novità e l’interesse delle prove, e all’intervista risultarono essi stessi abbastanza convinti di questo, in palese contrasto con l’opinione precedente. Scelta, impegno, responsabilità. E’ andato chiarendosi che la produzione di stati di dissonanza è in stretta connessione con tutte quelle situazioni post – decisionali in cui la persona si sente responsabile direttamente delle sue azioni e delle conseguenze che ne derivano. Questo perché solo la partecipazione reale alla decisione può realmente coinvolgere la persona nella situazione. Occorre aver presente che oltre la libertà reale di scelta quello che soprattutto incide sulla produzione di stati di dissonanza è il senso soggettivo della scelta, la decisione di impegnarsi in una certa azione: impegno, dunque, ben reso dal termine inglese di commitment (un legame tra decisione e azione).

La conoscenza sociale. L’approccio cognitivo. Il cognitivismo è stato, ai suoi inizi, un orientamento generale di pensiero piuttosto che un paradigma teorico in senso stretto. Un orientamento cui partecipano voci diverse accomunate dal senso di una “psicologia vera”, liberata dalle costrizioni in cui il behaviorismo l’aveva ristretta. La mente è la grande riscoperta del cognitivismo. A questa riscoperta Chomsky ha dato un grande apporto, contribuendo alla rinascita di un soggetto creativo che si muove nel mondo mediante un’analisi del problema della natura del linguaggio basata sulla sua specifica formazione di linguistica. Egli analizza il linguaggio soprattutto come sistema di pensiero. Con questo Chomsky ha invitato la psicologia a un fondamentale cambiamento di prospettiva non solo in merito allo specifico tema linguistico.

Il mentale che Chomsky consegna alla psicologia non è una generica entità metafisica, ma, come ha notato Parisi, “un complesso di meccanismi, processi e informazioni che stanno dietro all’attività direttamente osservabile” e che si può raggiungere non tanto “attraverso un non sempre sicuro emergere della mente nella coscienza”, quanto costruendo della mente stessa modelli dettagliati e coerenti. Tra questi possibili modelli il cognitivismo si focalizzerà su quello che studia la mente come un sistema organizzato e gerarchizzato di strutture, meccanismi e processi che elaborano i dati che giungono dall’esterno, li trasformano, li valutano, li collegano ad altri e così via, fino a giungere a stabilire soluzioni di azione, di espressione, di pensiero. Da qui l’espressione divenuta celebre di Human Information Processing (HIP) con cui, per vario tempo, si identificò il cognitivismo. Sul piano teorico la tesi che sta alla base dell’approccio cognitivo è quella che vede il rapporto dell’uomo con l’ambiente come costantemente mediato da strutture di conoscenza costituite dai processi mentali che elaborano, sotto forma di informazione, quanto proviene dai nostri sistemi percettivi. Inizialmente si tendeva a paragonare la mente ad un calcolatore, più esattamente a un computer. Successivamente l’analisi delle neuroscienze sul cervello e sul sistema nervoso in generale ha messo in luce con molta evidenza l’intenibilità di ogni ottica diretta ad assimilare alle operazioni di un computer il funzionamento dei processi mentali. L’attenzione per il dato neurologico ha favorito la messa in campo di modelli confessionisti, fondati sulle reti neurali che, simulando sul computer i processi mentali, sembrano in grado di rappresentarne meglio il complesso insieme di collegamenti e di interazioni che li governa. I neuroscenziati, inoltre, sottolineando come il cervello non sia “isolato” dal corpo, richiamano con forza alla realtà unitaria dell’attività neurofisiologica. L’attività mentale non può quindi essere vista separata dall’insieme delle funzioni, non solo cognitive ma anche emozionali, che intervengono nell’intero quadro relazionale con l’ambiente. Successivamente, mentre si esaurivano gli studi di Heider e della sua cosiddetta “psicologia ingenua” che metteva in primo piano la ricerca soggettiva delle cause degli eventi sociali, si è sviluppata la teoria dell’attribuzione che, tra il 1960 e il 1990, ha prodotto numerosi modelli teorici e ricerche empiriche. La comprensione degli eventi sociali. L’opera di Heider, Psicologia delle relazioni interpersonali, ha influenzato molto la psicologia sociale per vari decenni grazie a un altro modo di delineare l’intervento dei processi cognitiva nell’esperienza sociale. Heider ha fatto (contrapponendo alla formalistica psicologia della teoria S – R) una psicologia da lui definita ingenua che, tanto ingenua non è, perché basata su una concezione che integra l’ottica fenomenologica con l’ottica funzionalista sull’esperienza quotidiana. La psicologia ingenua si basa sull’utilizzo delle “conoscenze non formulate o quasi – formulate sui rapporti interpersonali così come sono espresse nella nostra esperienza e nel linguaggio quotidiano. Muovere da una psicologia sociale del senso comune (o ingenua) vuol dire rivalutare tutta una serie di aspetti che giocano certamente un notevole ruolo nella dinamica della vita di relazione, e che in parte l’analisi frammentaria e formale rischia di non cogliere. Fondamentalmente, per Heider, questo significa tener conto del soggetto come elemento attivo e consapevole del gioco di motivazioni, valutazioni, tentativi, scelte, decisioni di cui è costituita la condotta sociale. Comprendere l’agire dell’altro, andare alla ricerca delle cause di quanto avviene

attorno a noi, è essenziale per organizzare i nostri atteggiamenti, comportamenti, opinioni e così’ via. L’essere umano, secondo Heider, ha bisogno di un contesto che sia per lui soggettivamente stabile: e le cose meno stabili sono sicuramente le condotte altrui e gli eventi a esse collegati. Così diviene importante nella ricerca della causalità l’attribuzione a cause di natura personale in contrapposto a cause di nature ambientale, e, all’interno di queste, a cause dovute a fattori transitori in opposizione a quelle dovute a fattori permanenti. D’altro canto vengono distinte anche cause del tutto slegate dalle proprietà stabili delle persone o dall’ambiente: la buona o la cattiva sorte, la “fortuna”, che trasporta fuori dal controllo umano ciò che avviene. Nell’ambito della distinzione tra persona, ambiente e “fortuna” (o caso) che percorre tutta l’analisi dell’attribuzione assume particolare rilevanza il concetto di intenzione. L’intenzione è per Heider “il fattore centrale della causalità personale”, e assume particolare rilevanza nell’analisi ingenua dell’azione che egli compie in termini soprattutto connessi ai fattori personali della capacità e del tentare. La capacità si riferisce alla reale “possibilità di produrre un mutamento o comunque un’azione da parte di una persona”; il tentare esprime “qualcosa che va oltre il semplice desiderio”, qualcosa che mira al cambiamento o all’azione anche se non si ha la capacità necessaria a produrli.

La teoria dell’attribuzione. L’essere umano come scienziato ingenuo. I processi attribuzionali sono visti come isolati rispetto al quadro funzionale in cui si collocano. Nelle ricerche si parlerà spesso di “attore” ed “osservatore” per indicare rispettivamente gli individui su cui l’attribuzione è compiuta e quelli che la compiono: ma in realtà l’attore in senso reale, cioè il soggetto concretamente agente, resta spesso assente da questo quadro. Così come ne resta spesso assente il contesto sociale specifico in cui l’azione e la stessa attività cognitiva si svolgono. Finisce così con l’imporsi l’idea di un essere umano che procede come una macchina analizzatrice. Una macchina non perfetta perché spesso le sue attribuzioni sono viziate da vari errori. Quindi una concezione di uomo come scienziato ingenuo, che i lavori via via condotti mostreranno poco tenibile. Dagli atti alle intenzioni. Jones e Davis hanno formalizzato la tesi di Heider in un modello che tenta di risalire dall’analisi degli effetti di un’azione alle intenzioni dell’attore e quindi alle disposizioni di quest’ultimo. Per poter attribuire un’azione alle intenzioni di un individuo, occorre che gli effetti di quell’azione da noi osservati ci permettano di sapere che egli sia a conoscenza dei risultati che otterrà e che abbia la capacità di attuarla. Un elemento essenziale a questo scopo è di poter constatare che egli ha liberamente scelto proprio quella tra le varie azioni che gli erano possibili. Se tale scelta è limitata da costrizioni varie della situazione, gli effetti non possono più essere attribuiti all’attore, venendo a mancare la corrispondenza tra azione – intenzione – disposizione. Tale corrispondenza diretta tra effetto – azione e inferenze relative non è frequente nella realtà. Più sovente si dà il caso che un’azione possa produrre effetti diversi, oppure che azioni diverse possano produrre lo stesso effetto. In questo caso il criterio di discriminazione sarà fondato sugli effetti non comuni di un’azione e sulla sua

desiderabilità sociale. L’insistenza sugli effetti non comuni e sulla desiderabilità sociale è fondamentale in questo modello. Secondo i due autori infatti la possibilità di compiere attribuzioni precise e di risalire alle caratteristiche più particolarmente personali di chi agisce è legata soprattutto agli effetti più “unici”, più “diversi” e più “specifici” dell’azione stessa. Un’ANOVA mentale. Il termine ANOVA (analysis of variance) appartiene ai procedimenti della statistica, in cui è utilizzato per designare un metodo di analisi delle relazioni fra variabili, e più precisamente fra una o più cause effetto. Kelley ha definito così il suo modello di attribuzione in base all’idea che il modo con cui analizziamo le cause degli eventi corrisponda a questo metodo di analisi statistica. Come lo scienziato applica l’ANOVA per distinguere i fattori responsabili di un certo effetto, così l’osservatore nella vita quotidiana cercherà di ottenere informazioni esaurienti sulla situazione e sul comportamento dell’attore, in modo da attribuire specifici effetti a specifiche cause. Seguendo il modello statistico, l’osservatore applicherà il principio della covarianza in base al quale “l’effetto è attribuito a quella condizione che è presente quando l’effetto è presente, e che è assente quando l’effetto è assente”. Il modello presume che nell’attribuzione vengano prese in considerazione le entità della situazione in questione, le persone che interagiscono con queste entità e le varie modalità di interazione. Esso implica la ripetizione delle osservazioni in modo tale da poter confrontare l’azione della persona che interagisce con quella di altre persone, di fronte alla medesima entità e ad altre, in tempi diversi e con modalità diverse. Questa complessa serie di confronti permette di evidenziare i quattro criteri soggettivi in base ai quali vengono compiute le attribuzioni: la specificità, la coerenza nel tempo, la coerenza nelle modalità, e il consenso. Il modello ANOVA ha prodotto un’ampia serie di ricerche. Vari cambiamenti sono stati proposti per rendere il modello ANOVA meno macchinoso e più realistico rispetto all’esperienza quotidiana concreta. Tra questi è interessante il modello delle condizioni anomale di Hilton e Slugoski. Noi “sappiamo” che in condizioni normali un certo comportamento tende a prodursi. È quando questo non avviene che il processo attribuzionale si attiva. Il modello di Hilton e Slugoski tende quindi a puntare su un processo semplificato, in cui il soggetto che compie attribuzioni è in gran parte aiutato dal processo di schemi mentali in cui la sua esperienza ha già inscritto il rapporto cause – eventi quale si da nel corso normale dell’esperienza stessa. Il tipo di analisi che i due autori prevedono, è fondato sullo stesso meccanismo di covariazione dell’ANOVA e ancora mette in gioco i costrutti di specificità. Coerenza e consenso di quel modello, sia pure rivisitato. La persona, il compito, la fortuna. Facciamo tante cose: in alcune abbiamo successo in altre no. Dal fatto di avere successo oppure no possono derivare varie conseguenze, non solo sul piano pratico, ma anche su quello psicologico. Il successo può rassicurarci sulle nostre capacità, aiutarci a prospettare altri compiti più impegnativi, e anche procurarci emozioni in generale positive. E viceversa l’insuccesso. Le nostre prospettive e le nostre emozioni possono assumere coloriti assai differenti a seconda che attribuiamo la riuscita del compito a noi stessi oppure a cause che non dipendono da noi. Questi aspetti dell’attribuzione “interna” o “esterna” sono stati utilizzati da Weiner nell’ambito delle

ricerche da lui condotte sulla motivazione e sull’emozione. Weiner ha formalizzato la sua ottica sulla base di due assi incrociati: uno relativo alla dimensione esterno/interno e l’altro alla dimensione stabilità/instabilità. Le ricerche sull’attribuzione del successo e dell’insuccesso nella loro quasi totalità dimostrano che in generale la gente tende ad attribuire il successo nelle proprie prestazioni a qualità interne, personali, mentre l’insuccesso è di solito attribuito a cause esterne con una certa distinzione peraltro tra cause stabili e cause instabili. Gli errori di attribuzione. Non solo nell’attribuzione del successo/insuccesso, ma in varie altre occasioni, si verificano fenomeni che creano una notevole falla nella concezione dell’essere umano come scienziato ingenuo, intento ad assumere informazioni, a vigilarle nell’ambito di strategie opportune, e a produrre stime di ordine probabilistico. Nel clima dominante della teoria, che proprio a questo modello razionale faceva riferimento, piuttosto che cambiare idea su quest’uomo – macchina pensante,si è preferito pensarlo come una “macchina soggetta ad errori”. •

L’errore fondamentale e la divergenza attore/osservatore. Heider aveva definito “errore fondamentale di attribuzione” una tendenza generalizzata che emerge quando si cerca di capire le cause del comportamento delle persone: quella che consiste nel sovrastimare i fattori personali e nel sottostimare i fattori ambientali connessi con la situazione. Jones e Nisbett hanno ripreso questo tema distinguendo però tra attribuzioni che l’attore compie sul proprio comportamento e attribuzioni che l’osservatore compie sul comportamento altrui. Nella loro ricerca essi hanno rilevato “una generale tendenza dell’attore ad attribuire le proprie azioni a fattori ambientali, e una tendenza dell’osservatore ad attribuire le stesse azoni compiute da un altro a fattori disposizionali, personali e stabili. L’idea di “scienziato ingenuo” può essere così confermata, perché le variazioni nell’attribuire sono sempre ricondotte all’informazione esterna, “trascurando le possibilità di un’attiva selezione delle informazioni da parte dell’osservatore”. Selezione che potrebbe essere effettuata in base alle motivazioni, per esempio, se presumiamo che nell’ambito della reale vita quotidiana nessuno “osserva” l’agire di un altro fuori dal contesto normale delle attività e delle relazioni interpersonali in cui è immerso.



Gli effetti self – serving o tendenze auto difensive. Un altro tipico “errore” emergente nel campo è costituito dalla tendenza ad attribuire a se stessi il successo e a negare la responsabilità per l’insuccesso: cosa che vale non solo per l’autoattribuzione in senso stretto, ma anche per attribuzioni riguardanti i propri amici, il proprio gruppo e così via. Zuckermann è un fervido sostenitore di questo punto di vista motivazionale, che vede cioè i processi cognitivi piegarsi a una superiore esigenza della persona di salvaguardare la stima di sé. Miller e Ross, distinguendo tra effetti protettivi del Sé ed effetti di innalzamento del Sé pensano che quest’ultimo fenomeno possa essere spiegato anche su base squisitamente cognitiva. Infatti una persona “si aspetta” in generale di avere successo, “cerca” di avere risultati positivi dal suo agire, e “tende” ad averli. È quindi naturale che riferisca a sé i risultati positivi dell’azione, anche perché è in occasione del successo che maggiormente verifica il suo controllo

della situazione. Modelli duali: processi controllati e processi automatici. Approfondendo il “percorso cognitivo” di un’operazione di attribuzione, Gilbert ha evidenziato tre fasi: 1-Nella prima si mette in atto un processo di categorizzazione dell’azione osservata; 2- Nella seconda vengono rilevate le caratteristiche personali, cioè disposizionali, dell’attore sulla base di quanto egli ha fatto; 3- Nella terza fase, infine, può intervenire una più ampia analisi di “fattori esterni” suscettibili di aver “costretto” l’attore ad agire in quel modo. Mentre la terza fase richiede un “lavoro cognitivo” più faticoso, complesso, coscientemente diretto e controllato, le prime due avrebbero in modo più rapido e immediato, per mezzo di processi automatici, cioè involontari e non consapevoli. Gilbert ha quindi utilizzato l’idea di un’attività mentale automatica che si pone accanto a quella intenzionale e controllata, divenuta uno degli assi portanti della ricerca sviluppata dalla cognizione sociale. Lieberman, invece, ha proposto di descrivere le componenti neurologiche coinvolte nell’attività cognitiva mediante due processi, rispettivamente definiti X – System o sistema riflessivo e C – System o sistema riflettente, localizzati in aree cerebrali diverse, e deputati a svolgere funzioni inferenziali diverse. Il sistema X è quello che costantemente interviene nel flusso dell’esperienza cosciente quale si realizza nella percezione. Esso vale quindi a darci, in modo automatico, la consapevolezza di quello che percepiamo come “il nostro mondo reale”, non solo di “oggetti” ma anche delle loro caratteristiche semantiche e effettive. Il sistema C è responsabile dei processi di pensiero controllati, consapevoli, logici. La sua localizzazione cerebrale lo dispone di attivarci in relazione al sistema X: può quindi intervenire in suo aiuto, per così dire, quando questo è in difficoltà, o, comunque, ne abbisogna. Anche qui abbiamo due sistema, ma il cui intervento non si configura come quello del modello duale di Gilbert perché entrambi possono partecipare a tutte le fasi del processo inferenziale, e perché funzionano in modo ricorsivo, cioè inviandosi reciproche informazioni ( e non in modo sequenziale, come ipotizzati dai modelli duali di Gilbert).

Dallo scienziato ingenuo al soggetto della cognizione sociale. La teoria dell’attribuzione ha fatto si che si sia ristretto il soggetto nei panni di quello “scienziato ingenuo” la cui attività cognitiva è misurata in relazione a una “norma” del tutto ipotetica. Dalle ricerche di Tversky e Khaneman si è avuta una svolta decisiva nell’approccio cognitivo in psicologia sociale. Abbandonata ogni idea di “normatività”, la ricerca si indirizza in senso decisamente descrittivo, ossia all’analisi delle prestazioni cognitive dell’individuo così come si presentano e operano nell’ambito delle relazioni sociali. Si concretizza così la social cognition. Il contributo delle strutture cognitive diviene essenziale nel dotare di significato l’esperienza delle persone: per questo si afferma che “la cognizione sociale, in generale, è il processo che permette alle persone di pensare e dare senso a se stesse, agli altri e alle situazioni sociali”. Partendo dall’idea che l’essere umano dispone di limitate risorse cognitive, le operazioni di trattamento dell’informazione vengono viste in un quadro in cui la necessità di essere accurati si coniuga con quella di far fronte in modo rapido alle

varie situazioni sociali. Gli errori vengono riguardati non sotto il profilo di un qualche standard normale di razionalità, bensì sotto il profilo dell’efficienza con cui l’individuo affronta i problemi in cui è impegnato, utilizzando quelle strategie cognitive che sembrano più convenienti rispetto alle sue motivazioni. Questa scelta di strategie mentali ha portato a coniare la definizione di essere umano come motivated tactitian. Uno “stratega” un po’ particolare perché la sua possibilità di fare scelte intenzionali è molto spesso condizionata da automatismi cognitivi che agiscono fuori di ogni intenzione, volontà e controllo cosciente. La messa in luce e l’analisi accurata dei processi automatici che costantemente intervengono nell’attività cognitiva e nell’esperienza comune degli individui costituisce il vero aspetto innovativo che gli studiosi della sociel cognition hanno portato nella psicologia sociale.

La cognizione sociale. Immediatezza fenomenologica e percezione sociale. L’ambiente può essere considerato come una sorgente di stimoli ai quali i nostri sistemi recettori reagiscono attraverso una serie di processi che pongono le condizioni della percezione, come processo attraverso il quale facciamo esperienza immediata e diretta della realtà fenomenica circostante. Parliamo di realtà fenomenica nel senso che questa è la realtà data all’essere umano: quale cioè viene costituita, partendo dal mondo fisico, dai nostri organi sensoriali e dal nostro sistema nervoso. Tutto ciò che porta a costituire gli “oggetti” dell’esperienza è una realtà che nel linguaggio comune chiamiamo “oggettiva”, ma che dovremmo definire intersoggettiva, perché comune e condivisa da tutti gli esseri della nostra specie. Questo aspetto deve essere ricordato, quando ci si riferisce al soggetto attivo che partecipa alla costruzione della realtà, per non cadere in visioni puramente soggettivistiche e per ricordare come anche il mondo sociale sia in parte una costruzione intersoggettiva comune, prodotta dalle vicende filogenetiche e storiche attraversate dall’umanità. L’immediatezza dei fenomeni percettivi, cioè del modo con cui la realtà fenomenica si dà a noi sin dal primo “sguardo” almeno nel suo aspetto globale, è quasi un paradosso se pensiamo che essa si fonda sulla complessa sequenza di processi organizzati gerarchicamente, sino al coinvolgimento di aree corticali via via più complesse, messa in luce dalla ricerca psicofisiologica. Processi che operano del tutto al di fuori della nostra consapevolezza e di cui solo il risultato finale, sotto forma di “percezione categoriale” arriva nel nostro campo di coscienza. Altri approcci teorici hanno invece ipotizzato che sin dall’inizio intervengano fattori soggettivo – funzionali, cioè dei processi, automatici e inconsci, di elaborazione cognitiva dell’informazione trasmessa dallo stimolo. Tali processi contribuiscono alla perceptual readiness: una “prontezza” che concorre a selezionare il materiale informativo, e organizzarlo e a categorizzarlo. Categorie, prototipi, esemplari. La percezione, dice Bruner, implica la “costruzione di un sistema di categorie in funzione delle quali gli stimoli sono classificati, identificati e assumono un significato”. Una categoria è “un insieme di specificazioni concernenti gli eventi che possono essere raggruppati come equivalenti”. La nozione classica di categoria è quella fondata sulle nozioni di comprensione e di estensione: ogni elemento è compreso in una categoria se possiede tutte le caratteristiche necessarie e sufficienti che la

identificano e la distinguono. Nell’ambito delle categorie naturali (e sociali) esiste un prototipo che, come “membro di categoria che possiede il massimo di attributi in comune con gli altri membri della categoria stessa e il minimo di attributi in comune con i membri di altre contrapposte categorie”, vale a definire o rappresentare la categoria. Eleonor Rosch ha evidenziato che il livello di base utilizzato per formare una categoria si situa in un punto medio tra il livello più astratto e quello più concreto. Inoltre l’organizzazione proto tipica applicata agli eventi sociali è largamente dipendente da un contesto culturale generale di norme, valori, modi di vita, ecc. che può essere diverso per persone e gruppi diversi. Infine, un vero e proprio esemplare specifico è quell’individuo con cui vengono confrontati le persone e gli eventi incontrati via via nell’esperienza per essere categorizzati. Gli schemi e gli script. Gli schemi sono strutture di dati che rappresentano conoscenze immagazzinate in memoria che intervengono nelle varie operazioni cognitive di identificazione e categorizzazione delle informazioni, e poi nell’intero corso dell’elaborazione che va dall’organizzazione sino alla formulazione di inferenze e di giudizi. Quando parliamo di una mediazione cognitiva che interviene in ogni momento della nostra vita relazionale è, in definitiva, agli schemi che attribuiamo a tale funzione. Come ha messo in rilievo Luciano Arcuri l’organizzazione delle conoscenze nelle strutture schematiche e in quelle categoriali non è esattamente simile. In particolare mentre l’organizzazione categoriale rinvia a procedimenti di classificazione tassonomica, gli schemi vengono piuttosto costituiti sulla base della contiguità e delle relazioni tra i concetti, non tanto in modo sistematico – concettuale quanto in base a elementi più concreti di tipo spaziale, per esempio, o relazionale, o funzionale rispetto all’agire e così via. Gli schemi che possediamo intervengono rendendo più rilevanti certi attributi piuttosto che altri delle persone e delle situazioni. Inoltre uno schema generale può possedere dei sottoschemi variamente articolati, e che tra schemi diversi possono esserci relazioni. Gli schemi particolarmente studiati nella ricerca psicosociale sono quelli: di persone, di ruoli, di sé, di eventi e azioni. Gli schemi di persone sono particolarmente relativi a tratti di personalità e a categorie personali. Tali schemi favoriscono i processi atti a situare le persone incontrate in queste categorie. Tra gli schemi di persona occupano un posto particolare quelli relativi alla nostra persona: gli schemi di sé. Gli schemi di ruolo si riferiscono a quelle prerogative che caratterizzano vari ruoli sociali, lavorativi ecc., oppure anche quei ruoli ascritti riguardanti l’età oppure l’etnia, o il genere sessuale. In base a questi schemi diviene agevole per il soggetto conoscente caratterizzare e interpretare i comportamenti delle persone. Gli schemi di eventi e di azioni sono relativi a quelle sequenze di azioni che, in specifici ambienti, vengono compiute abitualmente in modo routinario. Questi schemi sono definiti script. Lo script è costituito dalla rappresentazione di “una sequenza coerente di eventi attesi dall’individuo, che lo coinvolgono come partecipante o come osservatore”. Uno script è composto da una serie di scene, o vignette, tra loro collegate che, tutte insieme, definiscono la situazione a cui lo script si riferisce. Ogni

vignetta è in definitiva la rappresentazione di un evento che fa parte della situazione o dell’evento più grande rappresentato dallo script.

Come funziona la conoscenza sociale. Processi automatici e controllati. Processi “schema – driven” e “data – driven”. Sono considerati processi automatici quelli che: -si attivano senza l’intenzione della persona; -che passano al di là del campo della coscienza; -che sfuggono al controllo e che non ne abbisognano; -che sono efficienti nel senso di richiedere solo un minimo di “risorse cognitive”, permettendo la contemporanea attivazione di altri processi mentali. All’estremo opposto stanno i processi intenzionalmente attivati, consapevoli e posti sotto il controllo individuale, considerati meno efficienti perché possono essere disturbati da “interferenze” personali e perché richiedono un maggiore “carico cognitivo”. In realtà, processi automatici e processi controllati non si escludono reciprocamente, né sono, quasi mai, allo stato puro. L’automaticità è piuttosto una condizione fluida, disposta su un continuum che va da un massimo al minimo, e i due tipi di processi sono spesso interagenti più che separati. Un’altra interazione importante è quella che si verifica tra processi schema – driven e processi data – driven. I primi s’impongono per la loro rapidità, per l’utilità che hanno nel produrre conoscenze immediate delle situazioni, per formarci impressioni di persone in base a categorie che già ci sono note, e così via. Tutte le situazioni sociali richiedono spesso maggiore accuratezza, ed è così che si utilizzano i processi data – driven. Anche in questo caso i due processi tenderanno a intessersi e a integrarsi: in generale passano dagli schemi ai dati. Per quanto riguarda specificamente la formazione delle impressioni di persone, il continuum è caratterizzato da quattro stadi di elaborazione. Inizialmente, le persone vengono categorizzate in modo automatico in base alle loro caratteristiche più salienti. Nei casi in cui siamo sufficientemente motivati a prestare attenzione all’altra persona e disponiamo di adeguate risorse cognitive, l’elaborazione continuerà, tendendo innanzitutto a confermare la categorizzazione iniziale; tale conferma avrà successo nel caso in cui le informazioni siano coerenti o irrilevanti rispetto all’etichetta di partenza, oppure mutuamente contraddittorie in modo da elidersi le une con le altre. Il funzionamento degli schemi. L’attenzione è il primo fondamentale processo che presiede alla nostra esperienza, incidendo sia sull’insieme dell’attività di decodifica e del trattamento cognitivo dell’informazione sia sulle condotte che ne conseguono. “La mia esperienza” diceva James “è ciò a cui decido di prestare attenzione”, con questo sottolineando il carattere selettivo dell’attenzione in quanto processo che si congiunge con i vari che conducono alla rappresentazione e che si innestano nell’azione. “La percezione e il pensiero sono fatti per l’azione: il nostro pensiero, dal principio alla fine e sempre, è rivolto all’azione”. La “decisione” cui alludeva James in parte può essere una decisione in senso proprio, in parte può avvenire su base più o meno automatica. D’altro canto vi è una quantità di altri “stimoli” che emergono nella situazione e che si impongono visivamente per la loro salienza.

La salienza è una caratteristica in cui particolarità dello stimolo e particolarità socio – emotive del percipiente si intersecano strettamente, mostrando, in modo evidente, come l’idea stessa di informazione rimandi sempre all’interazione tra oggetto e contesto. La salienza è sempre espressione anche della relazione oggetto – contesto, e, più precisamente, del modo con cui lo stimolo si “impone”, rispetto al contesto. questo può avvenire per vari motivi: -la istintività che lo stimolo assume per sue caratteristiche rispetto agli altri presenti; -la rilevanza dovuta a una certa rispondenza con precedenti conoscenze o esperienze dell’osservatore; -la vividezza, cioè la sua capacità di risvegliare un qualche segnale emotivo oppure immagini concrete, oppure a causa della sua prossimità nel tempo e nello spazio; -è importante quella che definiamo come accessibilità, ossia la capacità di uno stimolo di attivare schemi in memoria a esso, per qualche verso, affini. Le caratteristiche fisiche salienti sono particolarmente importanti nell’attivare schemi in fasi di codifica. Gli schemi attivati in fase di encoding si dimostrano capaci di persistere fortemente nel corso dell’intero processo di trattamento, e quindi di avere un notevole influsso sull’organizzazione della conoscenza in memoria e sul loro richiamo nei processi di inferenza. Mettiamo più facilmente in memoria quanto è stato reso rilevante da uno schema se questo è già ben consolidato, mentre siamo particolarmente sensibili alle informazioni che sono incongruenti con uno schema ancora piuttosto debole, non ben strutturato. Tenendo conto che uno schema diviene tanto più consistente quanto più presto si è messo all’opera e quanto più frequentemente è stato utilizzato, si comprende anche quanto sia difficile una sua modifica nel corso dell’esperienza. Processi abbreviati di ragionamento: le euristiche. Bruner ha sottolineato come la mente con la sua attività sia “capace di andare al di là dell’informazione data”, cioè di produrre inferenze, utilizzando le informazioni già possedute per produrne di nuove. Il ragionamento è l’attività mentale per eccellenza mediante la quale l’essere umano si dà una spiegazione dalle “cose”. Andare al di là dell’informazione data vuol dire essenzialmente utilizzare l’informazione che possediamo per ottenere delle informazioni nuove. Ragionare significa fare inferenze per produrre giudizi. I giudizi quando riguardano eventi sociali sono più intriganti di quelli relativi al mondo fisico, perché l’informazione sociale è più ambigua, instabile, spesso più confusa di quanto non lo siano le informazioni sul mondo fisico. Abbiamo inoltre forme di ragionamento abbreviato che Kahneman e Tversky hanno definito euristiche. Da un lato le euristiche ci sono molto utili perché ci consentono di produrre rapidamente inferenze utilizzando anche il “sapere sociale condiviso” assorbito nei nostri schemi mentali; altre volte ci inducono in errore. Con conseguenze che possono avere un notevole peso nella vita sociale. Abbiamo vari tipi di euristiche: -Euristica della rappresentatività. È quella che utilizziamo quando, dovendo fare delle inferenze, ci affidiamo non a criteri razionali di probabilità, ma a elementi rappresentativi dell’evento o della persona. -Euristica della disponibilità. Viene utilizzata per esprimere un giudizio circa la probabilità del verificarsi di un evento. In tal caso non utilizziamo regole statistiche di probabilità, ma piuttosto gli esempi che vengono in mente con maggiore facilità. Si

tratta di un implicito ragionamento di questo tipo: se mi vengono in mente con facilità vuol dire che ce ne sono molti. L’euristica della disponibilità non è mossa dal “numero” degli esempi che vengono in mente, ma dalla facilità con cui tali esempi vengono recuperati dalla memoria. -Euristica della simulazione. Viene utilizzata quando, per valutare gli esiti di un evento realmente accaduto, la gente si immagina gli esiti che esso avrebbe potuto avere se … . -Euristica dell’ancoraggio e aggiustamento. Viene utilizzata quando, dovendo stimare frequenze e probabilità, ci si “°àncora” a qualche dato di partenza, “aggiustando” poi la stima o verso l’alto o verso il basso. Gli errori sono dovuti non solo al fatto che il dato da cui si parte è sbagliato, come spesso accade, ma anche al fatto che questo punto di partenza finisce col dimostrarsi mentalmente così tenace dell’influire sul giudizio successivo. Processi cognitivi e stereotipi. Con la nozione di stereotipo in psicologia sociale si sono comunemente intese delle credenze molto semplificate, basate su alcuni attributi generalizzati, relative a gruppi e categorie sociali, i cui membri vengono etichettati utilizzando queste credenze indipendentemente dalle loro specifiche caratteristiche individuali. Nella nozione di stereotipo convergono quindi, strettamente intrecciandosi, due componenti cognitive: la scarsa accuratezza nell’identificazione delle caratteristiche del gruppo in questione, e la categorizzazione dell’individuo effettuata attribuendogli le caratteristiche semplificate del gruppo. In generale, è soprattutto nell’ambito del pregiudizio etnico che gli stereotipi hanno attirato l’attenzione degli psicologi sociali quando tale pregiudizio ha preso sostanza nel razzismo nazifascista verso gli ebrei. Nel clima attuale, il pregiudizio etnico ha assunto forme più mascherate ma è sempre vivo, allargato nella nostra società all’universo tutto degli “extracomunitari”. Alla base psico – socio – culturale del fenomeno sta l’etnocentrismo messo in luce da Sumner, inteso piuttosto come un gruppo – centrismo o come un noi – centrismo, utilizzato per difendere e innalzare l’ in – group, verificato sperimentalmente da Tajfel che ha costruito su tale base un importante paradigma di studio dei rapporti tra i gruppi e dell’identità sociale. La psicologia sociale ha studiato gli stereotipi in sintonia con lo studio degli atteggiamenti e dei pregiudizi, avvalendosi delle preziose messe a punto di Allport. Uno studio basato su vari metodi di interrogazione più o meno diretta e variamente formalizzata con questionari, scale, self – report tesi a rilevare opinioni, credenze, prese di posizione delle persone, focalizzandosi su quanto esse pensano e dicono, o comunque esprimono. Mostrando che gli individui attivano in modo non cosciente e automatico schemi di conoscenza che vengono a classificare le persone dando loro un significato categoriale capace di trascinare inconsapevolmente atteggiamenti e comportamenti, gli psicologi sociali hanno connesso errori e bias al funzionamento normale dei processi cognitivi e non a “qualcosa di anormale” che capita in essi.

Conoscenza e valutazione nelle dinamiche sociali: atteggiamenti e rappresentazioni sociali. Una conoscenza diffusa e valutativa. La nozione di valutazione è la connotazione essenziale di forme di conoscenza perché è soprattutto attraverso modalità valutative che noi interpretiamo il contesto sociale “dandogli un senso” non solo in generale ma in relazione e noi stessi. Per vivere non è sufficiente “conoscere” le cose, ma occorre anche situarle in quelle pratiche dell’uso che sono sempre connesse a giudizi di valore. Molti studiosi hanno preferito lasciare divise le due funzioni della comprensione e della valutazione non solo a scopi di ricerca, ma anche per fondate ragioni concettuali. L’universo condiviso e intersoggettivo della conoscenza è alla base non solo della scienza ma anche della nostra possibilità di interloquire, comunicare, interagire, mentre l’universo valoriale è intriso di differenze e anche di conflitti e di idee che si confrontano perché è sostanzialmente legato al potere e alle dissimmetrie che lo connotano nella società. Mentre Piaget ha mostrato che la vita intellettiva e quella affettivo – valutativa sono “inseparabili”, perché ogni scambio con l’ambiente presuppone, insieme, una ristrutturazione e una valutazione. Per dare consistenza a questo aspetto della conoscenza e inserirlo in quadri operativi suscettibili di analisi teorica ed empirica, la psicologia sociale ha utilizzato la nozione di atteggiamento che per vari anni è stata al centro della nostra disciplina, trovando nel lavoro di Allport una sostanziale formalizzazione dalla quale si sono dipartite centinaia di ricerche. Gli atteggiamenti presuppongono sempre uno scambio intenso dei processi cognitivo – affettivi con il contesto sociale, perché è appunto da una somma di valutazioni sociali che essi nascono. In tal modo sono l’elemento che più di altri connette la conoscenza personale con quella sociale.

Gli atteggiamenti. Il concetto di atteggiamento tra psichico e sociale. La nozione di atteggiamento è stata per vari decenni, almeno sino al 1960, al centro della psicologia sociale e ancora oggi continua a essere oggetto di analisi teorico – metodologiche e di studi empirici grazie all’utilità operativa che riveste in vari campi in cui sia conveniente e necessario rilevare opinioni, credenze, giudizi, posizionamenti nella vita sociale. La nozione di atteggiamento è servita a mantenere viva l’idea di un soggetto dotato di un mondo interno e di stati mentali durante il behaviorismo; è stata largamente utilizzata nell’analisi della comunicazione e dell’influenza da parte di Hovland e del gruppo di Yale; è stata altrettanto ampiamente utilizzata in molte analisi connesse con l’equilibrio cognitivo e soprattutto con la dissonanza cognitiva, e così via. Le tre dimensioni dell’atteggiamento. La nozione di atteggiamento non è lontana da quella di opinione, spesso utilizzata nel linguaggio comune in modo abbastanza intercambiabile. Allport ha considerato l’atteggiamento come “uno stato di prontezza mentale” che “esercita un’influenza direttrice o dinamica sulle risposte che un individuo dà agli oggetti e situazioni con cui si relazione”. Questa concezione dell’atteggiamento, come

uno stato mentale in cui una componente cognitiva di ordine valutativo si connette con una di ordine affettivo – emozionale nel produrre una specie di disposizione comportamentale, sarà ampiamente ricorrente nella ricerca psicosociale. Dunque l’atteggiamento si distinguerebbe dall’opinione proprio per le sue componenti emozionali e per la latente componente comportamentale. Tale concezione è stata formalizzata nel cosiddetto modello tripartito da Rosenberg e Hovland, e infine meglio articolata da Krech, Crutchfield e Ballachey; la loro disamina delle tre componenti (conoscitiva, affettivo – emozionale e comportamentale) degli atteggiamenti è molto chiara. Infatti distingue nella dimensione conoscitiva aspetti di ordine cognitivo in senso stretto e valutazioni; comprende nella dimensione affettiva sia emozioni, sia sentimenti più ampi, sia aspetti più sottili di tipo empatico; e infine vede la tendenza ad agire come una “disponibilità” che impegna l’individuo e non come una generica predisposizione comportamentale. Successivamente l’enfasi sui processi automatici messi in luce dalla social cognition ha permesso di utilizzare nuovi metodi di rilevazione non diretta: e con questo si è modificata, almeno in parte, anche la concezione dell’atteggiamento. Analisi empirica e misura degli atteggiamenti. L’analisi empirica degli atteggiamenti ha costituito un problema sul quale si sono impegnati molti studiosi. Un problema tanto più complesso quanto si tenga conto: delle diverse componenti che concorrono a costituire l’atteggiamento; della forza, o valenza, più intensa o più debole, che esso dimostra di avere sul piano delle pratiche sociali nei vari campi, e in riferimento ai vari oggetti, a cui si riferisce. Il problema dell’indagine empirica è divenuto, quasi immediatamente, anche quello della misura degli atteggiamenti. Thurstone ha messo a punto la scala a intervalli soggettivamente uguali, suscettibile di misurare gli atteggiamenti verso un oggetto di riferimento nell’arco di un continuum valutativo tra un polo più negativo a uno più positivo. La costruzione della scala prevedeva il ricorso a un gruppo di “giudici” che dovevano valutare il valore di alcune affermazioni significative su un certo oggetto sociale (attribuendo loro un valore da 1 a 11). Selezionate poi le affermazioni sulle quali i giudici avevano mostrato maggior accordo, in modo da ricoprire l’intera gamma di valori, dal più positivo al più negativo, queste venivamo sottoposte a soggetti di cui si voleva indagare l’atteggiamento, i quali dovevano indicare il loro accordo o disaccordo con ciascuna di esse. Si ricavava così il punteggio di ogni persona calcolando la media dei valori scalari delle affermazioni che la persona aveva dichiarato di condividere. La scala a punteggi di Likert consiste in un insieme di affermazioni che esprimono credenze, sentimenti, intenzioni comportamentali verso l’oggetto indagato su cui i soggetti intervistati debbono esprimere il loro accordo o disaccordo usando, a seconda delle versioni, da 5 a 7 categorie di risposta. La scala Likert rappresenta attualmente lo strumento di rilevazione dati più usato nelle inchieste e nei sondaggi condotti in psicologia sociale. Un altro strumento utile a rivelare la valutazione che i soggetti danno a un oggetto è il differenziale semantico, che funziona presentando ai soggetti intervistati un insieme di coppie di aggettivi contrapposti, saparati da sette caselle. Il compito dei soggetti è quello di valutare l’oggetto presentato usando questa coppia di aggettivi. Gli atteggiamenti come struttura cognitiva. Fazio elabora una tesi nella quale afferma che l’atteggiamento può esercitare la sua

influenza sui processi di percezione e di giudizio quanto più facilmente esso sia accessibile all’individuo, cioè quanto più facilmente esso sia ricuperabile dalla memoria. Tale accessibilità dipende dalla forza con cui la valutazione è associata con l’oggetto nell’ambito di un continuum che va da un polo massimo al polo minimo. Nel primo caso l’atteggiamento relativo a un soggetto sarà evocato rapidamente, con facilità, al solo presentarsi dell’oggetto; nel secondo caso (polo debole) l’atteggiamento, per esprimersi, richiederà un processo più lungo e “faticoso” sul piano cognitivo. Partendo dalla tesi che il primo impatto con un oggetto produca delle valutazioni e che tali valutazioni siano il frutto non tanto di concettualizzazioni complesse quanto di un’immediata risposta affettivo – emotiva, gli studiosi, che operano in questa prospettiva, hanno messo a punto la tecniche d’indagine fondata sul cosiddetto priming affettivo. Il priming affettivo è stato utilizzato per la prima volta da Fazio in un esperimento strutturato in due fasi. Nella prima, ai soggetti fu presentata sullo schermo di un computer una lunga sequenza di parole, misurando il tempo che essi impiegavano per dichiarare se ognuna di esse avesse per loro una valenza positiva o negativa, in base al presupposto che le risposte più veloci si sarebbero ottenute per gli oggetti particolarmente connotati. Nella seconda fase, a ogni partecipante vennero presentate come “prime” le parole che egli aveva giudicato in modo più veloce, e anche alcune parole che avevano richiesto un più lungo tempo di elaborazione, facendole seguire da parole target costituite da affettivi che, nella nostra cultura, sono unanimemente considerati positivi o negativi. Il compito dei soggetti era quello di indicare nel modo più veloce e accurato possibile la valenza di tali aggettivi. I risultati mostrarono che quando gli aggettivi erano entrambi positivi o negativi vi era una grande chiarezza e molta velocità; mentre quando gli aggettivi erano incoerenti tra di loro, vi era meno velocità e chiarezza. Più recentemente GreenWald, McGhee e Nosek hanno proposto di rilevare gli atteggiamenti tramite lo Implicit association test (Iat). Si tratta di uno strumento volto a misurare in modo indiretto la forza delle associazioni fra concetti diversi, fondato sul presupposto che la facilità con cui si mettono in atto le stesse condotte, come risposta a stimoli fra loro diversi, dipende dal grado con cui tali stimoli sono associati tra loro. Nella tipica procedura Iat i soggetti devono completare alcuni compiti di categorizzazione utilizzando un computer opportunamente programmato per misurare i tempi impiegati nel loro svolgimento e il numero di errori commessi. I primi due compiti sono esercizi di categorizzazione semplice. Il primo consiste nel collocare nella loro categoria di appartenenza degli elementi che appaiono sullo schermo del computer. Il secondo compito di categorizzazione semplice consiste nel premere uno dei due tasti già utilizzati in precedenza se la parola che appare nello schermo è positiva e l’altro tasto se la parola è negativa. Seguono poi due compiti di categorizzazione doppia, intercalati da un terzo compito distruttore di categorizzazione semplice. I compiti di categorizzazione doppia, definiti anche compiti critici, possono prevedere un uso compatibile o incompatibile dei tasti. Il primo caso è quello di premere lo stesso tasto per aggettivi positivi o aggettivi bello, l’altro caso è quando bisogna premere un tasto per aggettivi negativi e oggetti belli. Nel secondo caso, rispetto al primo, il tempo necessario ai partecipanti per la categorizzazione degli stimoli risulta più elevato e il numero di errori di categorizzazione è superiore. Lo Iat si è rivelato particolarmente utile per studiare atteggiamenti in ambiti delicati,

quali quelli connessi al pregiudizio etnico, principalmente per due ragioni: la difficile controllabilità delle risposte al test fa si che i soggetti abbiano serie difficoltà a mascherare i loro “veri” stati psicologico – sociali dietro una patina di accettabilità sociale; la capacità dello strumento di rilevare atteggiamenti sconosciuti agli stessi intervistati. Formazione e cambiamento degli atteggiamenti. La psicologia sociale è concorde nel vedere gli atteggiamenti come formazioni psicosociale che si acquisiscono nell’esperienza. Anche se ci fosse un dato genetico, esso sarebbe largamente modulato e plasmato dall’esperienza. Varie modalità di formazione sono state identificate in tale ottica: -Esperienza Diretta. Gli atteggiamenti formati da esperienza diretta sono quelli più resistenti ai cambiamenti in questo genere prevedono una forte associazione tra rappresentazione e valutazione. -Esperienza Mediata. È quella che si può realizzare osservando il comportamento altrui. -Processi Di Comunicazione. Costituiscono in effetti una modalità importante di formazione degli atteggiamenti. In tale quadro i gruppi di riferimento hanno un’importanza peculiare nella formazione degli atteggiamenti perché il condividere le stesse valutazioni spesso ha una funzione di adattamento sociale e contribuisce a creare e rafforzare la propria identità sociale. -Processi di mera esposizione. La formazione degli atteggiamenti può avvenire anche attraverso processi nei quali il ruolo dell’informazione sull’oggetto è ridotto al minimo. Zajonc ha dimostrato che la sola esposizione visiva di uno stimolo, se ripetuta,produce un atteggiamento rispetto a esso più favorevole. Questo perché l’esposizione frequente allo stimolo lo rende familiare, riducendo l’ansia nei confronti di ciò che è sconosciuto e quindi favorendo una predisposizione positiva nei suoi confronti. Il problema della formazione degli atteggiamenti è strettamente collegato a quello del loro cambiamento. Nonostante varie ricerche abbiano confermato la tendenza al “conservatorismo cognitivo”, che porta gli individui a mantenere costanti i propri atteggiamenti e a selezionare e ricordare con maggiore probabilità le informazioni che sono con questi coerenti, possono esservi comunque delle situazioni e dei fattori che portano al loro mutamento. Diverse ipotesi sono state formulate a partire dalle modalità di formazione sopra esposte. Un atteggiamento può infatti cambiare per effetto della mera esposizione, per esperienze dirette, per osservazioni degli altri o tramite processi comunicativi. Altre direzioni di ricerca hanno indagato il cambiamento degli atteggiamenti in base all’effetto di corrispondenza. Gli atteggiamenti possono essere modificati anche per altra via, come abbiamo visto nell’ambito della teoria della dissonanza cognitiva. In questo caso è la discrepanza tra un atteggiamento precedentemente tenuto dall’individuo e la nuova disposizione cognitiva indotta da una decisione presa e/o da una condotta messa in atto che, provocando un disagio cognitivo non necessariamente consapevole, provoca il cambiamento. Secondo la teoria classica della dissonanza, il cambiamento di atteggiamento richiede che il soggetto abbia comunque l’impressione di aver scelto, cioè di possedere un controllo personale sul suo agire. Ma l’essere inseriti comunque in una certa azione, anche in modo del tutto non controllato e inconsapevole, sia già di per sé sufficiente a far modificare un atteggiamento. Le relazioni tra atteggiamento e azione.



Un’antica storia di cinesi e albergatori. In generale gli psicologi sociali hanno concepito l’atteggiamento anche come disposizione comportamentale che guida l’eventuale azione: ma le relazioni fra atteggiamenti e condotte sono molto più problematiche di quanto si potesse supporre. Il primo studio empirico che mostrò la problematicità di tale relazione fu condotto da LaPiere. In tale ricerca lo studioso intendeva analizzare se l’atteggiamento negativo, all’epoca diffuso tra gli americani rispetto ai cinesi, producesse comportamenti congruenti di esclusione. LaPiere e una coppia di cinesi visitarono 251 alberghi e ristoranti e solo in un caso furono rifiutati come clienti. Ciò risultò in netto contrasto con l’atteggiamento rilevato in una fase successiva in cui gli stessi albergatori e ristoratori dichiararono per il 92% dei casi di non accettare “membri della razza cinese” come clienti. Furono questi i primi risultati che evidenziarono la scarsa predittività degli atteggiamenti nei confronti dei comportamenti: debolezza predittiva spesso confermata anche da successive ricerche. A partire dagli anni settanta sembrò chiaro agli psicologi sociali che conoscere gli atteggiamenti delle persone non consentiva necessariamente di prevedere il loro comportamento.



L’atteggiamento nel modello aspettativa per valore. Secondo Fishbein gli atteggiamenti sono la risultante della somma delle credenze salienti di un individuo su un determinato oggetto. Ogni singola credenza è vista nei termini della probabilità percepita (aspettativa) rispetto al fatto che l’oggetto possieda determinate caratteristiche, congiunta al valore che la persona attribuisce a quelle caratteristiche, vale a dire alla loro valutazione positiva o negativa. A = ∑ (Aspettativa ∙ Valore)



La teoria dell’azione ragionata. Sulla base del modello aspettativa per valore Fishbein e Ajzen elaborano la teoria dell’azione ragionata. Gli autori assumono che le persone agiscono in base alle loro intenzioni, intendendo per intenzione la decisione di intraprendere un certo comportamento. Tale decisione dipende dall’atteggiamento (positivo o negativo) verso l’azione prevista e dalle norme soggettive alle quali la persona fa riferimento. L’atteggiamento da solo non è però sufficiente a guidare il comportamento, in quanto, per muovere un’intenzione sono importanti anche le norme a cui il soggetto si riferisce. Per norme soggettive, gli studiosi intendono le credenze rispetto all’approvazione o disapprovazione di persone significative, congiunte alla motivazione a soddisfare o meno tali aspettative. La teoria venne criticata perché non considerava gli atteggiamenti automatici, fuori dal controllo cosciente, i quali rivestono un ruolo importante per la vita quotidiana. Successivamente a queste critiche, Ajzen propose una modificazione fondata sull’idea che il controllo dell’agire si svolga nell’ambito di un continuum dal massimo nullo. Gli studi empirici diretti a verificare la teoria hanno evidenziato che sia le norme soggettive e la percezione di controllo sono in relazione significativa con l’intenzione di compiere un’azione; inoltre, sia l’intenzione espressa sia la percezione di controllo si connettono significativamente con l’attuazione effettiva del comportamento, pur se tra i due fattori maggior peso riveste la percezione di controllo. La percezione di controllo non dipenderà però

solo dal controllo effettivo ma anche dalle credenze circa le proprie possibilità di controllo, che varieranno in base alle esperienze pregresse nel soggetto, alle aspettative su impedimenti, ostacoli, risorse o opportunità, e dai rimandi degli altri. in una situazione in cui il controllo non sia totale, l’intenzione sarà intesa non come una decisione di attuare un’azione, ma come la volontà di provare a intraprenderla: un piano d’azione. Da qui il nome del modello.

I pregiudizi. Il radicamento psicosociale del pregiudizio. Secondo Allport il pregiudizio è “un atteggiamento di ostilità o di rifiuto verso un gruppo nel suo insieme o verso un individuo appartenente a quel gruppo”. Le scienze psicologiche e sociali hanno inoltre chiarito che tale atteggiamento ostile e denigratorio è solitamente rivolto a persone o gruppi che non sono il proprio, ossia rivolti all’outgroup. Lippman aveva utilizzato il termine stereotipo per indicare quelle rappresentazioni degli altri fisse e impenetrabili al ragionamento, che, ricevendole “già fabbricate dal contesto sociale”, gli individui utilizzano per etichettare gli altri, tendenzialmente in modo negativo, spesso distorcendo dati di realtà. Il pregiudizio si situa in questa stessa ottica. I pregiudizi costellano la nostra vita sociale, talvolta, pur se non necessariamente, traducendosi in forme di discriminazione palese, prospettando quell’insieme di atteggiamenti in senso lato che tendono a privilegiare l’ingroup a discapito dell’outgroup. Etnocentrismo e “noi – centrismo”. E’ significativo il fatto che, anche nell’ambito delle categorie sociali più disparate e lontane da connotazioni etniche, tendono ad affiorare nelle attribuzioni pregiudiziali degli attributi denigrativi tradizionalmente collegati con il pregiudizio etnico, a testimonianza dell’importanza che questo ha assunto nelle nostre vicende storiche. Sumner ha formalizzato, come etnocentrismo, la tendenza che sin dall’antichità le formazioni sociali hanno evidenziato a collocare se stesse al centro del mondo; “una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa, e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto ad esso”. Gli antropologi culturali hanno ritrovato questa tendenza in vari gruppi di popolazioni “primitive”, presso le quali l’elemento discriminatore tra noi e non – noi ricalca ancora un antico schema che distingue tra esseri umani ed esseri non – umani, o, almeno, meno umani. Spesso si è discriminato su caratteristiche fisiche fondendole con caratteristiche culturali. E poi da queste ultime si è tornati a quelle naturali, nel senso di definire come naturalmente negativi quei tratti che venivano stigmatizzati. Del noi – centrismo l’antropologo Leach ne fa un fenomeno profondamente radicato non solo nella nostra storia culturale, ma “nelle radici stesse della coscienza”, come un’ “estensione” della sfera centralizzatrice dell’Io, di quell’ “egocentrismo nel quale il noi tende a sostituirsi all’Io come centro di identificazione”. In tale ottica “l’etnocentrismo è una caratteristica universale umana” che tende costantemente a riproporsi non solo nei gruppi specificamente “etnici”, o nell’ambito di società castali e simili, ma tutto laddove esista una divisione fra popoli e nazioni. Confronto tra i gruppi e identità sociale. La psicologia sociale ha mostrato come la partecipazione a un gruppo, anche transitoria e anche a un gruppo poco impegnativo, possa essere importante al fine di

produrre sentimenti di appartenenza, discriminazione verso gli altri gruppi e persino norme suscettibili di incidere sulla percezione di dati fisici. Partendo dalla tesi che la nostra percezione del contesto sociale avvenga per categorie, e che tali categorie implichino un confronto in cui le differenze intracategoriali sono minimizzate mentre vengono accentuate quelle tra le categorie, Tajfel ha mostrato come sia quasi naturale la caratterizzazione degli individui basata sui dati della categoria d’appartenenza. Inoltre nell’ambito della categorizzazione sociale noi procediamo in base a connotazioni di calore che tendono a valorizzare l’ingroup a scapito dell’outgroup. Anche perché, secondo Tajfel, è l’appartenenza al nostro gruppo che determina la nostra identità sociale. Nell’ottica di Tajfel le dinamiche sociali sono in larga misura da vedersi come animate da un costante, più o meno esplicito e implicito, confronto sociale tra i gruppi e le categorie sociali di vario tipo presenti nel contesto. Esse sottolineano che le caratteristiche di un gruppo acquistano gran parte del loro significato in rapporto alle differenze percepite rispetto ad altri gruppi e alla connotazione di valore assegnata a tali differenze. È questo bisogno affermato di differenziazione che sembra fornire una base di ordine psicologico a quell’aspetto che appare dinamicizzato non solo da moventi di ordine economico e politico ma anche da istanze identitarie. Adorno ha condotto nel suo studio sulla personalità autoritaria un’ampia ricerca sugli aspetti psicologici del pregiudizio utilizzando varie scale che puntavano a mettere in luce tratti di personalità acquisiti nelle esperienze infantili in un’ottica di tipo psicoanalitico. La tesi è quella che le esperienze avvenute sotto forme rigide di educazione autoritaria parentale sono suscettibili di provocare turbe psichiche che le persone cercano di risolvere mediante condotte e pregiudizi autoritari, di discriminazione e ostilità verso gli altri, soprattutto se individui e gruppi più deboli. L’innovazione portata da Allport è consistita nel connettere la formazione e il mantenimento del pregiudizio al funzionamento del pensiero, utilizzando le nozioni di categorizzazione e di valore. La categorizzazione ha doppio effetto: per un verso costituisce una semplificazione, con conseguente assimilazione di certe caratteristiche dell’oggetto a quelle più generali della categoria; per altro verso offre materiale laddove le informazioni sul singolo oggetto sono poche o povere. Nell’ambito dei fenomeni di pregiudizio attraverso i quali inseriamo una persona in una categoria e la definiamo non sulla base delle caratteristiche personali ma su quelle della categoria stessa, funzionano entrambi questi processi. Il processo di categorizzazione è spesso accompagnato da valenze sociali. Dall’associazione categoria – valore nascono quei giudizi sulle persone che, in un certo senso, sono già dati prima ancora di averle realmente conosciute: dei pre – giudizi appunto. I quali, proprio perché insorti nelle pratiche sociali, vivono e si mantengono perché contribuiscono a favorire in qualche modo, spesso soprattutto in senso difensivo, delle posizioni sociali.

Le rappresentazioni sociali. La ricerca di Moscovici sull’immagine della psicoanalisi. Moscovici si poneva il problema di come una teoria scientifica particolare (quella freudiana), diffondendosi tra il pubblico, potesse trasformarsi in un sistema di immagini, idee, valutazioni, ecc. capace di contribuire alla comprensione della realtà sociale, agendo come una specie di strumento interpretativo di tale realtà. È in quest’ottica, che vede dei soggetti pensanti nell’ambito di un sociale costituito

anch’esso di “idee” e non solo di cose, che ha preso corpo la nozione di rappresentazioni sociali, destinata a divenire un importante strumento concettuale della psicologia sociale contemporanea. Uno strumento concettuale che doveva essere in grado di dar conto, insieme, sia delle proprietà dell’oggetto studiato (in questo caso la teoria psicoanalitica e la sua pratica sociale) sia dell’elaborazione che già di esso era stata operata dai sistemi di percezione, di conoscenza e di valutazione di persone concretamente situate in un contesto di relazioni e comunicazioni sociali. La ricerca è condotta con strumenti tradizionali dell’indagine psicologico – sociale: questionari su un campione rappresentativo di persone dell’area parigina, e analisi del contenuto di 1640 brani di articoli vari. Dal punto di vista concettuale, la ricerca è diretta a mettere in luce: -le definizioni che vengono date dalla psicoanalisi, i fini e i principi che le sono attribuiti e le immagini che vi sono associate; -il quadro sociale della sua clientela e dei suoi campi di applicazione; - le fonti di informazione su di essa e le opinioni sulla sua diffusione e sulla sua valorizzazione; -le interferenze tra la concezione psicoanalitica e le ideologie religiose e politiche e i sistemi di valore; -i bisogni sociali e i modelli culturali espressi attraverso l’immagine dello psicoanalista. Su questa base la ricerca mostra come il pensiero scientifico – professionale sulla psicoanalisi venga rielaborato e trasformato nel sapere “comune” che enfatizza alcuni concetti, ne cambia altri e alcuni li rimuove, attraverso trasformazioni diversificate in base al gruppo sociale dì appartenenza e agli stili comunicativi tipici della stampa a cui il gruppo si riferisce. Moscovici distingue tre specifiche modalità comunicative, definite come “diffusione”, “propagazione” e “propaganda”. La diffusione è tipica della cosiddetta “stampa indipendente di opinione” che, a proposito della psicoanalisi, veicola idee piuttosto disomogenee, punti di vista diversi, nell’ottica di “informare” cercando di adattarsi agli interessi del grande pubblico. La propagazione è tipica dei giornali di matrice cattolica ed è interessata a far sì che una teoria scientifica emergente come lo era la psicoanalisi in quegli anni, non confligga con i principi religiosi, spingendo i lettori a crearsi delle valutazioni critiche a riguardo e suggerendo anche comportamenti appropriati. La propaganda è invece mossa dal tentativo di sostenere e diffondere la propria “ideologia” producendo di conseguenza rappresentazioni più rigide e stereotipate. Nei lavori successivi Moscovici amplia la classificazione dei generi comunicativi, facendovi rientrare anche la conversazione quotidiana, che diventerà uno dei campi privilegiati per le analisi sulle rappresentazioni sociali. Definizione delle rappresentazioni sociali. Le rappresentazioni sociali ci aiutano a prendere le distanze della visione del mondo che il behaviorismo ci ha passato, prendendo in considerazione un essere umano “che cerca di comprendere e conoscere le cose che lo circondano”: un essere quindi per cui “pensieri e parole sono reali, non meri epifenomeni del comportamento”. Una realtà che è anche sociale, ed è quindi partendo da una società pensante che si perviene alle rappresentazioni sociali. Le rappresentazioni sociali, dice Moscovici, sono delle forme particolari di conoscenza che hanno come peculiarità il fatto di essere socialmente elaborate e condivise. La loro forma di esprime come un sistema di immagini e di idee costituito tramite una ricostruzione simbolica della realtà, in base ai valori, alle norme e alle credenze

espressi nei gruppi sociali e per mezzo dei processi comunicativi in cui gli individui e i gruppi sono quotidianamente immersi. Moscovici per le rappresentazioni sociali prende spunto dalle rappresentazioni collettive di Durkheim. Ma rispetto alle rappresentazioni collettive di Durkheim, le rappresentazioni sociali: -perdono il carattere costrittivo, sostituito da quello “cooperativo” che si manifesta negli scambi informali del vivere quotidiano; -centralizzano il ruolo della comunicazione; -perdono il carattere di stabilità e di staticità che Durkheim attribuisce alle rappresentazioni collettive, connotandosi invece per la loro “plasticità”; -sono maggiormente specifiche in quanto sono sempre l’elaborazione di un gruppo, che si confronta con un problema per esso saliente, e vanno quindi studiate proprio nell’ambito del gruppo stesso, sia esso composto di pochi membri, sia che si riferisca all’intera società; - sono sia collettive sia individuali, in quanto se pur sociali, si diversificano non solo tra i gruppi, ma anche tra gli individui singoli i quali modulano il contenuto rappresentativo in base alla propria personale esperienza. Formazione e funzione delle rappresentazioni sociali. Lo scopo delle rappresentazioni sociali, dice Moscovici, è quello di “rendere familiare” ciò che è inconsueto, o l’ “ignoto stesso”; è quello di creare un universo in cui possiamo “sentirci a casa”: operazione fondamentale per vivere in un mondo in cui è difficile rendere “consueti, vicini e reali, parole, idee o esseri non familiari”. È per questo che si mettono in moto due processi denominati ancoraggio e oggettivazione. Ancorare significa inserire l’oggetto ignoto in un quadro di riferimento noto attraverso processi di classificazione e denominazione che, riferendosi a categorie e credenze già comuni al gruppo che elabora la rappresentazione, inseriscono il nuovo contenuto in una rete di significati i quali permettono di collocarlo rispetto ai valori sociali. Le operazioni di denominazione non mirano puramente alla consistenza o alla chiarezza, ma essendo “connesse a un atteggiamento sociale”, la loro funzione è di facilitare “l’interpretazione delle caratteristiche, la comprensione delle interazioni e delle motivazioni dietro alle azioni delle persone, e di fatto, formare opinioni”. L’oggettivazione consiste essenzialmente nel “riprodurre un concetto in un’immagine”: cioè tradurre in un qualcosa di concreto, di figurabile, di percepibile quello che si presenta come un concetto o un’idea. L’idea centrale che sottosta alla nozione di rappresentazione sociale sembra quindi essere la seguente: dare un nome alle cose, renderle sintoniche rispetto all’universo di significati in cui ci muoviamo. Il concetto di rappresentazione sociale implica fondamentalmente un processi di categorizzazione per un verso, ma anche una trascrizione di questo significato in un’immagine, in qualcosa di corposo. Questo “oggetto” diviene così parte del mondo oggettuale che ci circonda, non ha più bisogno di passare attraverso altri processi di elaborazione cognitiva: entra nel nostro universo psichico direttamente tramite un processo percettivo. L’aspetto normativo delle rappresentazioni sociali. Le rappresentazioni sociali ci aiutano a prendere le distanze della visione del mondo che il behaviorismo ci ha passato, prendendo in considerazione un essere umano “che cerca di comprendere e conoscere le cose che lo circondano”: un essere quindi per cui “pensieri e parole sono reali, non meri epifenomeni del comportamento”. Una realtà

che è anche sociale, ed è quindi partendo da una società pensante che si perviene alle rappresentazioni sociali. Le rappresentazioni sociali, dice Moscovici, sono delle forme particolari di conoscenza che hanno come peculiarità il fatto di essere socialmente elaborate e condivise. La loro forma si esprime come un sistema di immagini e di idee costituito tramite una ricostruzione simbolica della realtà, in base ai valori, alle norme e alle credenze espressi nei gruppi sociali e per mezzo dei processi comunicativi in cui gli individui e i gruppi sono quotidianamente immersi. Moscovici per le rappresentazioni sociali prende spunto dalle rappresentazioni collettive di Durkheim, ma le rappresentazioni sociali vanno al di là delle relazioni sociali. Rispetto alle rappresentazioni collettive di Durkheim, la rappresentazione sociale: -perdono il carattere costrittivo, sostituito da quello “cooperativo” che si manifesta negli scambi informali dal vivere quotidiano; -centralizzano il ruolo della comunicazione; -perdono il carattere di stabilità e di staticità che Durkheim attribuisce alle rappresentazioni collettive, connotandosi invece per la loro “plasticità”; -sono maggiormente specifiche in quanto sono sempre l’elaborazione di un gruppo, che si confronta con un problema per esso saliente, e vanno quindi studiate proprio nell’ambito del gruppo stesso, sia esso composto da pochi membri, sia che si riferisca all’intera società; -sono sia collettive sia individuali, in quanto se pur sociali, si diversificano non solo tra i gruppi, ma anche tra gli individui singoli i quali modulano il contenuto rappresentativo in base alla propria personale esperienza. Formazione e funzione delle rappresentazioni sociali. Lo scopo delle rappresentazioni sociali, dice Moscovici, è quello di “rendere familiare” ciò che è inconsueto, o “l’ignoto stesso”; è quello di creare un universo in cui possiamo “sentirci a casa”: operazione fondamentale per vivere in un mondo in cui è difficile rendere “consueti, vicini e reali, parole, idee o esseri non familiari”. È per questo che si mettono in moto due processi denominati ancoraggio e oggettivazione. Ancorare significa inserire l’oggetto ignoto in un quadro di riferimento noto attraverso processi di classificazione e denominazione che, riferendosi a categorie e credenze già comuni al gruppo che elabora la rappresentazione, inseriscono il nuovo contenuto in una rete di significati i quali permettono di collocarlo rispetto ai valori sociali. Le operazioni di denominazione non mirano puramente alla consistenza o alla chiarezza, ma essendo “connesse a un atteggiamento sociale”, la loro funzione di facilitare “l’interpretazione delle caratteristiche, la comprensione delle interazioni e delle motivazioni dietro le azioni delle persone, e di fatto, formare opinioni”. L’oggettivazione consiste essenzialmente nel “riprodurre un concetto in un immagine”, cioè tradurre in qualcosa di concreto, di figurabile, di percepibile quello che si presenta come un concetto o un’idea. L’idea centrale che sottosta alla nozione di rappresentazione sociale sembra quindi essere la seguente: dare un nome alle cose, renderle sintoniche rispetto all’universo di significati in cui ci muoviamo. Il concetto di rappresentazione sociale implica fondamentalmente un processo di categorizzazione per un verso, ma anche una trascrizione di questo significato in un’immagine, in qualcosa di corposo. Questo “oggetto” diviene così parte del mondo oggettuale che ci circonda, non ha più bisogno

di passare attraverso altri processi di elaborazione cognitiva: entra nel nostro universo psichico direttamente tramite un processo percettivo. L’aspetto normativo delle rappresentazioni sociali. Anche le rappresentazioni sociali, costituiscono un processo di convenzionalizzazione, dice Moscovici, di “oggetti, persone, eventi”, in qualche modo forzandoli entro certi modelli. Vi è tuttavia una differenza di fondo tra i modelli cognitivi e le rappresentazioni sociali: i primi hanno un’attenzione fondamentalmente rivolta a meccanismi interni in un’ottica individuale, mentre le seconde non solo sottolineano il ruolo dei fattori sociali, ma anche si appoggiano su un principio organizzatore sociale. Le rappresentazioni sociali sono intese come un principio organizzatore della conoscenza che è mobile, che varia in rapporto alle situazioni contestuali, che può spingere a usare regole logiche o non logiche, imponendo una “regolazione normativa” in costante riferimento alle situazioni sociali. Il pensiero normativo esprime il controllo che il sociale esercita sul pensiero individuale, ed è quindi un “pensiero non neutrale” nel quale si pensa in termini di “pro e contro”, nel senso che “si accetta o si rifiuta quello che è detto”. Doise definisce le rappresentazioni sociali come “principi organizzatori di rapporti simbolici fra individui e gruppi” oltre che “principi organizzatori di prese di posizione”. Le rappresentazioni sociali, consentono, secondo Doise, non solo di individuare le conoscenze condivise da una certa popolazione, ma anche le diverse prese di posizione che, a partire da questa base comune, possono verificarsi in dipendenza dalle diverse inserzioni sociali degli individui e dei gruppi, cioè delle diverse variabili d’ancoraggio, come Doise le definisce. Un esempio interessante di tale approccio è fornito da una serie di ricerche sulle rappresentazioni sociali dei diritti umani in diversi contesti nazionali. L’universalità non esclude tuttavia prese di posizione diverse in base a variabili di ancoraggio significative quali, tra le altre, la nazione, l’età, l’adesione a specifici valori, la credenza circa una concezione fatalistica della storia. In base a tali ancoraggi individui manifestano differenze significative in particolare per quanto riguarda l’insieme dei diritti civili e la tolleranza rispetto alla violazione dei diritti umani in generale. Tale differenziazione di posizioni si evidenzia quando si passa da un livello normativo generale a dimensioni più pragmatiche riguardanti l’applicazione delle norme in contesti specifici. Struttura delle rappresentazioni e pratiche sociali. Sviluppando l’ottica di Moscovici vari studiosi hanno cercato di chiarire: - la relazione tra rappresentazioni e pratiche sociali; -la struttura delle rappresentazioni sociali. A loro avviso i due aspetti sono connessi, perché solo cercando di dettagliare l’articolazione interna caratterizzante questi insieme organizzati di conoscenze che possono essere analizzate le modalità del loro concreto interagire con le pratiche sociali, a livello sia dei processi che contribuiscono a costituirle sia delle maniere con cui essi contribuiscono a produrre e guidare le azioni sociali. Considerando la rappresentazione sociale come costituita da un insieme organizzato di informazioni, credenze, opinioni e atteggiamenti a proposito di un oggetto, questi studiosi vedono tale insieme strutturato in un nucleo centrale e un sistema periferico. Il nucleo centrale acquista una particolare importanza come espressione di ciò che è propriamente sociale nella rappresentazione, cioè di quelle conoscenze, giudizi e atteggiamenti collettivamente generati e storicamente determinati, che non possono

essere rimessi in questione poiché garantiscono l’identità e la permanenza di un gruppo sociale. Al nucleo centrale sono attribuite tre principali funzioni: -una funzione generatrice, in quanto determina il significato di una rappresentazione dandole la sua propria identità che la distingue da altre; -una funzione organizzatrice, perché organizza le relazioni tra i vari elementi che partecipano alla rappresentazione; -una funzione stabilizzatrice, perché essendo relativamente indipendente dalle vicende pratiche del contesto, garantisce alla rappresentazione una stabilità e omogeneità nel tempo e attraverso le situazioni. Se gli elementi del nucleo centrale hanno la funzione di mantenere stabile una rappresentazione sociale, quelli periferici funzionano nel consentire adattamenti sia rispetto all’individuo sia nelle modifiche del contesto. Flament indica tre funzioni: - di prescrizione e guida delle condotte perché servono a decifrare e caratterizzare rapidamente le situazioni; -di permettere differenze individuali in base ai vissuti personali, pur sempre attorno a un nucleo sociale; -di intervento nei processi di trasformazione delle rappresentazioni perché, essendo flessibili, possono adattare la rappresentazione stessa agli eventuali cambiamenti del contesto, pur senza farla sparire. Cambia dunque il sistema periferico ma non la struttura centrale, perché gli elementi periferici, dice Flament, funzionano da “paraurti” rispetto alle trasformazioni del contesto. Secondo Flament i cambiamenti possono avvenire in modo più o meno progressivo o brusco, attraverso resistenze di vario tipo. Tre modalità sono da lui particolarmente descritte: -trasformazione progressiva: quando nuovi elementi periferici vengono elaborati a partire dall’instaurarsi di pratiche innovative che non sono però completamente in contraddizione con il nucleo centrale. I nuovi elementi periferici vengono quindi lentamente assimilati nel nucleo senza rotture, portando a una trasformazione indolore. -trasformazione resistente: quando la contraddizione tra le pratiche in atto e le rappresentazioni produce delle resistenze nelle persone, queste tendono a razionalizzare la situazione in modo da integrare gli elementi contraddittori cercando, fino a quando è possibile, di proteggere il nucleo. -trasformazione brutale: quando le nuove pratiche mettono direttamente in discussione il nucleo semantico della rappresentazione senza possibilità di ricorrere a meccanismi difensivi. In questo caso il ruolo di “paraurti” del sistema periferico non può funzionare. Si generano degli schemi di negazioni che consentono alla contraddizione di permanere per un certo periodo, fintanto che il nucleo centrale non sarà messo definitivamente in crisi. Un ulteriore interessante elemento di cambiamento è stato individuato da Flament e Roquette nell’implicazione forte dei soggetti rispetto all’oggetto di rappresentazione. Tale implicazione può avvenire, secondo i due autori, essenzialmente per tre motivi: -l’identificazione personale; -la valorizzazione dell’oggetto; - la possibilità percepita dall’azione pratica. L’identificazione rinvia al grado di coinvolgimento specifico personale nell’ “oggetto”

della rappresentazione. La valorizzazione è legata alle valenze che l’oggetto assume in relazione ai valori e alle credenze degli individui e dei gruppi sociali. La possibilità percepita dall’azione pratica mette in gioco le possibilità percepite dal gruppo di agire sull’oggetto della rappresentazione. Una ricerca sulle rappresentazioni sociali della malattia mentale. Una ricerca di Jodelet sulla rappresentazione sociale della malattia mentale consente di cogliere bene l’intreccio tra pratiche sociali e rappresentazioni. La ricerca venne scolta presso la “colonia familiare” di Ainay – le – Chateau, un paese francese in cui erano state avviate da più di settant’anni forme di inserimento etero familiare di pazienti dell’ospedale psichiatrico. I malati venivano accolti da famiglie diverse da quelle d’origine le quali ricevevano in cambio un compenso dagli enti sanitari che a loro volta continuavano a seguire il paziente dal punto di vista medico - psicologo. L’indagine venne svolta sull’intera comunità, con l’obbiettivo di analizzare le rappresentazioni sociali della follia e la loro articolazione con le pratiche, in particolare rispetto ai rapporti materiali e simbolici tra la comunità e i malati mentali. I risultati della ricerca fecero emergere la presenza di comportamenti e atteggiamenti contrassegnati dalla paura del contagio e dalla messa in moto di dinamiche difensive volte a distanziarsi dal “diverso” come protezione della comunità “normale”, anche mediante pratiche d’esclusione. Il malato non veniva considerato un cittadino, ma un bredin (folle) i cui diritti erano percepiti come sostanzialmente differenti rispetto a quelli degli altri membri della comunità: egli non faceva parte della famiglia, era sempre e comunque un ospite; i suoi abiti erano lavati separatamente; le stoviglie da lui utilizzate differenti da quelle degli altri … . una demarcazione tesa a indicare, secondo Jodelet, lo strutturarsi di abitudini atte a fronteggiare la paura del contagio, e ancor più profondamente la minaccia dell’essere simili al malato. Tali abitudini esprimono la paura che la follia possa capitare a tutti: meglio allora creare tra i due mondi delle barriere molto nette. La rappresentazione della malattia mentale diviene funzionale nel permettere la coesistenza di due aspetti contraddittori: da un lato l’interesse economica e dall’altro i comportamenti discriminatori.

Le relazioni tra i gruppi. Senso di appartenenza e conflitto fra i gruppi. L’idea che la rilevanza psicologica e sociale dell’appartenenza ai gruppi si collochi all’origine della competizione fra i gruppi stessi può essere fatta risalire al concetto di etnocentrismo coniato da Sumner. Le persone etnocentriche, muovendo da una concezione secondo cui “il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa, e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto a esso”, tendono a non riconoscere l’esistenza di punti di vista “altri” che possano legittimamente dare un senso e una spiegazione a comportamenti e valori diversi da quelli della propria cultura di riferimento. Scriveva Sumner “la lealtà verso il gruppo interno e l’odio e il disprezzo per gli estranei crescono assieme”. Già quattro secoli prima dello studioso statunitense, Montaigne aveva anticipato il concetto di etnocentrismo: “ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo”. Una parte della psicologia sociale si da il compito di come avvenimenti tragici fossero

stati possibili, anche al fine di individuare delle possibili strategie di prevenzione che impedissero loro di ripetersi, dedicando le proprie risorse principalmente all’analisi delle variabili che promuovono i conflitti fra i gruppi. Prima è opportuno fare una definizione di “gruppo”. La caratteristica chiave per definire un gruppo è l’interdipendenza tra i suoi membri, che a sua volta può avere due diversi fondamenti. Il primo è la condivisione di uno scopo perseguibile solo mediante il coordinamento delle azioni dei singoli: ne deriva l’interdipendenza del compito. La seconda fa si che le persone possano sentire di appartenere a un gruppo: Lewin la definisce interdipendenza del destino. Per presentare questa forma di interdipendenza Lewin fa l’esempio degli ebrei che, nel momento in cui hanno condiviso il destino delle persecuzioni razziali, hanno preso a percepire un legame fra loro forte e inestricabile, diventando effettivamente un gruppo dal punto di vista psicosociale. Mentre l’interdipendenza del compito presuppone un’interazione diretta tra le persone, l’interdipendenza del destino può essere sperimentata anche nei confronti di individui che non conosciamo nemmeno e con cui nel corso della nostra vita non avremo mai direttamente a che fare.

Interdipendenza e conflitto intergruppi. Interdipendenza del compito e conflitto. Il primo psicologo sociale ad analizzare la relazione fra appartenenza ai gruppi e conflitto è stato Sherif. Sherif muoveva dal presupposto che il fondamento essenziale dell’esistenza, dei gruppi sociali sia l’interdipendenza del compito: a suo dire le persone sentono di far parte di un gruppo soprattutto quando si trovano a tentare di perseguire degli scopi il cui raggiungimento richiede la coordinazione delle loro azioni individuali. In base alla teoria del conflitto realistico, Sherif sostiene che, come l’esistenza dei gruppi si basa sulla necessità pratica di collaborare per il raggiungimento di obbiettivi, anche il conflitto tra loro ha una base principalmente concreta, innescandosi quando essi competono per il raggiungimento di uno scopo, specie nei casi in cui le risorse disponibili sono scarse. Dal punto di vista psicosociale, le principali conseguenze del conflitto sono la diffusione di stereotipi negativi nei confronti degli appartenenti agli altri gruppi e la discriminazione dei membri dell’outgroup in favore di quelli dell’ingroup. Gli “esperimenti di Robbers Cave” furono ideati per mettere empiricamente alla prova la teoria di Sherif. I soggetti degli esperimenti erano una ventina di ragazzini di 12 anni di età, ospiti in un campo estivo localizzato in una struttura lontana dai centri abitati e virtualmente isolata da ogni influenza esterna. Il personale adulto del campo era interamente costituito dall’equipe degli sperimentatori, che potevano osservare le interazioni dei ragazzi senza insospettirli inducendoli a modificare i loro comportamenti “naturali”. Nella prima fase dell’esperimento i ragazzi non erano suddivisi in gruppi, e mangiavano, dormivano e giocavano tutti insieme; in questa fase venivano tipicamente sviluppandosi delle relazioni privilegiate fra coppie di partecipanti, presumibilmente sulla base delle loro affinità caratteriali. Nella seconda tappa i ragazzi venivano suddivisi in due gruppi, separando le amicizie più strette che si erano formato nella prima fase dello studio: questa scelta aveva lo scopo di creare aggregati che non avessero particolari ragioni per essere coesi al proprio interno. Ai due gruppi venivano fatte praticare separatamente attività che necessitavano di un’interazione coordinata fra i loro componenti. In questa fase i gruppi tentavano di definire una loro specifica identità, dandosi dei soprannomi e dei simboli di

riconoscimento; inoltre, essi venivano sviluppando un sistema di status e di norme, e aumentava la coesione tra i loro membri; i ragazzi tendevano infine a frequentare meno volentieri gli amici che si erano fatti nella fase di libera interazione, iniziando a prediligere la compagnia dei componenti dell’ingroup. Nella terza tappa i due gruppi venivano messi in diretta competizione fra loro, per esempio mediante gare sportive o di tiro alla fune. A questo punto si sviluppavano e si diffondevano tipicamente espressioni di ostilità tra i membri dei due gruppi non solo durante le loro sfide “istituzionali”, ma anche nelle situazioni non competitive. Inoltre, le analisi sociometriche mostrano la presenza di un sistematico favoritismo per i componenti dell’ingroup, che veniva unanimemente considerato migliore dell’outgroup. Coerentemente con quanto previsto dalla teoria di Sherif, la competizione su questioni concrete generava dunque un conflitto intergruppi che si generalizzava a tutte le situazioni in cui esse convivevano; parallelamente, i gruppi diventavano più coesi al proprio interno. La quarta fase della ricerca era volta a mettere empiricamente alla prova un’ulteriore ipotesi: che anche la cooperazione tra i gruppi potesse avere principalmente una base materiale. Sherif e i suoi colleghi osservarono che la necessità di collaborazione tra i due gruppi, ossia la loro interdipendenza per il perseguimento di un obbiettivo comune, tendeva effettivamente a ridurre in modo assai sensibile i comportamenti competitivi e conflittuali tra essi. Addirittura, i ragazzini finivano talvolta per tornare a frequentare di preferenza gli amici che si erano fatti nella prima fase della vacanza, prima che essi venissero a far parte dell’outgroup. In pratica, nel momento in cui i due gruppi venivano formalmente sciolti, scomparivano anche gli indicatori dell’esistenza psicologica, nella mente dei ragazzini, della divisione di un ingroup e un outgroup. Interdipendenza del destino e conflitto. Sherif aveva dunque evidenziato empiricamente il legame tra l’interdipendenza del compito, l’esistenza psicologica di un gruppo e il conflitto intergruppi. È possibile tuttavia ipotizzare che alla base dell’esistenza dei gruppi possa trovarsi, oltre alla condivisione di obiettivi concreti, anche l’esperienza di condividere con altre persone il medesimo destino. Questa ipotesi fu messa empiricamente alla prova da Rabbie e Horwitz. All’esperimento partecipavano 8 soggetti, ripartiti dai ricercatori in due gruppi, denominati i blu e i verdi. A questo punto i partecipanti dovevano svolgere alcuni compiti che essi ritenevano costituissero l’oggetto d’indagine, ma che in realtà erano solo un pretesto per giustificare il setting della ricerca. Le prove venivano fatte svolgere individualmente. Una volta che aveva ultimato il loro compito, ai partecipanti veniva chiesto di valutare, per mezzo di alcune scale, i membri dell’ingroup, quelli dell’outgroup e il clima interno dei due gruppi. Dopo che avevano terminato il loro compito, il ricercatore comunicava loro che, per un’imprevista carenza di fondi, era stato possibile acquistare solamente quattro apparecchi (cosa che era stata promessa come premio): si sarebbe dunque potuto ricompensare un solo gruppo di partecipanti. In metà dei casi la scelta dei premiati veniva effettuata in maniera casuale (mediante il lancio di una monetina), e nell’altra metà era operata arbitrariamente dallo sperimentatore; in nessun caso essa dipendeva dunque dal comportamento dei membri dei gruppi: questo stratagemma serviva per far loro sperimentare un destino comune, di fortuna o di sfortuna, indipendente dalla loro prestazione. Indipendentemente dal criterio con cui era stato stabilito chi avrebbe ricevuto la ricompensa e dal fatto che i soggetti appartenessero o meno alla categoria delle persone premiate, si riscontrò una netta distinzione nelle valutazioni ottenute. I

membri dell’ingroup erano valutati in modo sistematicamente più positivo di quelli dell’outgroup, così come il clima del proprio gruppo era considerato migliore di quello del gruppo cui non si apparteneva. Nella condizione sperimentale la condivisione di un destino comune, vincere o non vincere la radiolina, faceva sì che l’appartenenza ai blu piuttosto che ai verdi diventasse saliente: l’interdipendenza del destino stimolava la “nascita” psicologica dei due gruppi che, a sua volta, promuoveva il loro conflitto.

Categorizzazione sociale e rapporti intergruppi. L’ “intergroup bias”. Per Tajfel il favoritismo per l’ingroup è principalmente una conseguenza dei semplici processi cognitivi di categorizzazione del mondo sociale. La sua principale ipotesi di partenza fu che, come l’interdipendenza del compito, anche l’interdipendenza del destino non è indispensabile allo sviluppo di un conflitto tra gruppi: postulò infatti che esso potesse basarsi sulla semplice esistenza di due categorie sociali compresenti in una situazione data. Per mettere empiricamente alla prova tale ipotesi, Tajfel condusse una serie di studi fondati sul cosiddetto paradigma dei gruppi minimi e finalizzati ad appurare quali caratteristiche dei gruppi fossero sufficienti per innescare il conflitto intergruppi e la discriminazione. Nei suoi esperimenti i soggetti non interagivano direttamente tra loro, non dovevano svolgere alcun compito apertamente collaborativo né competitivo e non avevano alcun destino che li legasse gli uni agli altri. Più che all’interdipendenza dei membri, essa fa appello al fatto che questi sentano di appartenere al gruppo, anche in assenza di qualsiasi tipo di interazione: il termine “gruppo” denota un’entità cognitiva piena di significato per il soggetto in un particolare momento, e che deve essere distinta dal modo in cui il termine “gruppo” è usato per denotare una relazione faccia a faccia tra un certo numero di persone. Nella versione più conosciuta degli esperimenti di Tajfel, ai soggetti venivano inizialmente mostrate delle riproduzioni di alcuni quadri di Klee e Kandinskij, e si chiedeva loro di indicare se preferivano l’uno o l’altro artista. Ai soggetti veniva chiesto di premiare, assegnando piccole somme di denaro, altri due partecipanti, presentati in modo volutamente asettico e impersonale, che essi non vedevano direttamente e dei quali sapevano solamente qual era il pittore che avevano maggiormente apprezzato. Uno apparteneva dunque all’ingroup della persona che assegnava i premi e l’altro al suo outgroup. In definitiva nonostante i soggetti non ottenessero alcun beneficio personale premiando maggiormente il membro dell’ingroup a discapito dell’outgroup, e nonostante la suddivisione in categorie si basasse su una dimensione per loro priva di valore, i risultati mostrarono chiaramente l’esistenza di un notevole favoritismo per l’ingroup. È insomma sufficiente che un outgroup sia evocato sulla scena perché si determini una discriminazione netta fra tale gruppo e il proprio. Tale discriminazione porta a scegliere strategie che possono anche procurare minori guadagni in senso assoluto ai membri dell’ingroup: quello che importa è che comunque questo guadagno sia sempre superiore a quello dei membri del gruppo al quale non si appartiene. Questa tendenza viene denominata intergroup bias. La teoria dell’identità sociale. Secondo Tajfel il conflitto può fondarsi anche su un guadagno psicologico, immateriale. Nella sua ottica i gruppi competono anche per il prestigio; in particolare in tale contesa entrano in gioco rilevanti aspetti identitari.Tajfel riassume esprimendo con notevole chiarezza il doppio elemento che egli articola: quello di ordine cognitivo e quello di

ordine sociologico. Il processo socio cognitivo di discriminazione tra i gruppi viene a trovare il suo specifico correlato in una società in cui i gruppi e le categorie hanno un ruolo fondamentale. Se una società viene percepita come caratterizzata da forti elementi di stratificazione sarà probabile che le condotte sociali tendano a collocarsi vicino al versante intergruppi: le persone “non reagiranno come individui, sulla base delle loro caratteristiche individuali, o delle loro relazioni interpersonali, ma come membri degli altri gruppi”. Cruciale in questo insieme di dinamiche è il concetto di identità sociale. Per Tajfel, una parte dell’identità si fonda su una definizione di sé in termini puramente individuali, e può essere definita identità personale: è quella tradizionalmente studiata in psicologia e in psicologia sociale. Un’altra parte si fonda invece sulle appartenenze a gruppi di categorie sociali. Quando qualcuno ci chiede chi siamo possiamo rispondergli in termini individuali, facendo riferimento alla nostra identità personale, ma possiamo anche presentarci per mezzo della nostra appartenenza a categorie sociali per noi rilevanti. In quest’ultimo caso stiamo facendo riferimento alla nostra identità sociale. L’identità sociale “è quella parte della concezione di sé di un individuo che gli deriva dalla consapevolezza di essere membro di un gruppo (o di più gruppi) sociali, oltre al rilievo emozionale collegato a questa condizione di membro”. L’individuo che trova per qualunque motiva a far parte di un gruppo cercherà di rafforzarne la caratterizzazione in modo che essa risulti soddisfacente per la propria identità. Secondo Tajfel il confronto intergruppi viene a innescarsi in modo pressoché automatico in tutte le situazioni in cui almeno due gruppi sono compresenti in modo saliente in senso materiale o simbolico: è in queste situazioni, infatti, che il gruppo di appartenenza viene effettivamente percepito come tale e che i suoi membri tendono a considerarsi simili tra di loro, attribbuendosi un insieme di caratteristiche comuni che li distinguono dai componenti dell’outgroup. L’intergroup bias si fonda principalmente, secondo Tajfel, su tre processi psicologici: la categorizzazione sociale, l’identificazione e il controllo sociale. La categorizzazione è un processo di semplificazione del mondo operato riconducendo una grande quantità di oggetti a un numero limitato di categorie; è sociale quando gli oggetti classificati sono individui e le categorie gruppi. La categorizzazione comporta l’accentuazione delle differenze tra le categorie in gioco e la riduzione delle differenze all’interno della stessa categoria. In pratica, quando si utilizza tale processo di pensiero nella percezione del mondo sociale si tenderà ad associare alle persone le caratteristiche stereotipiche del loro gruppo di appartenenza. Se un’appartenenza categoriale è importante per la definizione della nostra identità saremo motivati a specificare la positività e il valore della categoria in questione. Secondo la teoria del confronto sociale di Festinger gli individui, non potendolo fare in base a criteri oggettivi, valutano le proprie abilità e competenze paragonandole con quelle delle altre persone. Secondo Tajfel, lo stesso avviene per i gruppi. Per poter connotare positivamente il nostro gruppo abbiamo infatti bisogno di confrontarlo con un gruppo che sia peggiore; questa è la principale ragione per cui la discriminazione dell’outgroup contribuisce a permetterci di sviluppare un’identità sociale positiva. È però evidente che appartenere ai gruppi socialmente stigmatizzati, a quelli di status basso e, più in generale, a quelli sistematicamente “perdenti” nel confronto con gli outgroup può ostacolare, invece che promuovere, la positività dell’identità sociale. In

questi casi, secondo Tajfel e Turner gli individui possono ricorrere a differenti strategie per preservare un’identità sociale soddisfacente. La prima possibilità a loro disposizione è la mobilità sociale: possono abbandonare il gruppo “perdente” cercando di entrare in gruppi più premianti dal punto di vista identitario. Il passaggio da un gruppo a un altro non è socialmente approvato, e un individuo che lo tentasse potrebbe essere bollato come un traditore o non venire accettato dai gruppi nei quali tenta di inserirsi. Quando non è loro possibile lasciare il gruppo “perdente”, gli individui hanno a disposizione una seconda strategia: impegnarsi per promuovere il cambiamento sociale, cercando di ribaltare l’esito del confronto fra il proprio e gli altri gruppi. Questo può avvenire in diversi modi: modificando materialmente la realtà sociale, oppure, in maniera simbolica, spostando i termini del confronto su caratteristiche che permettano al proprio gruppo di primeggiare. Altre strategie utilizzate di frequente sono la disidentificazione, che consiste nel minimizzare le proprie relazioni personali con il gruppo svantaggiato e il considerarsi, come singoli, un’eccezione anziché un tipico rappresentante del gruppo. Sviluppi della teoria dell’identità sociale. Dopo la morte di Tajfel alcuni suoi collaboratori hanno rielaborato le sue concettualizzazioni in senso più cognitivo, formulando la cosiddetta teoria della categorizzazione del sé. Secondo tale teoria il comportamento individuale e quello di gruppo possono essere considerati entrambi come fondati sul medesimo processo di categorizzazione che applichiamo a noi stessi e alle altre persone. L’identità personale e l’identità sociale dovrebbero essere dunque concepite come l’espressione di un sé unico, che può manifestarsi a diversi livelli di astrazione. La scelta del livello di astrazione con il quale definiamo noi stessi e le altre persone coinvolte nel “qui e ora” della situazione in cui ci troviamo dipende principalmente dalle caratteristiche di tale situazione. Secondo il modello che Turner e colleghi definiscono Accessibilità per corrispondenza, nelle differenti circostanze gli individui utilizzano la categoria per loro più saliente, che permette, in quel particolare contesto, di distinguere nella maniera più accurata possibile i vari attori sociali presenti sulla scena. I conflitti tra i gruppi possono trovare il loro fondamento anche in un insieme di “innocenti” processi che utilizziamo, da un lato, per semplificare la “ottimale”, e, dall’altro, per promuovere la nostra autostima. La ricerca condotta a partire dalla metà degli anni ottanta ha evidenziato l’impossibilità di generalizzare l’applicabilità a tutte le relazioni intergruppo. Attualmente si ritiene che la portata esplicativa delle teorie di matrice tajfeliana sia decisamente più limitata di quanto non si ritenesse in origine. In molti casi la forza dell’identificazione con l’ingroup non è risultata statisticamente correlata con la tendenza a ricorrere all’intergroup bias. Tale risultato ha fatto vacillare uno dei principali presupposti delle teorie sull’identità sociale: quello che sostiene che l’identità di un gruppo si fonda sempre sul confronto con uno o più outgroup. È evidente che l’appartenenza a una categoria che ha rapporti intrinsecamente conflittuali con altre categorie implica necessariamente la differenziazione o addirittura l’aperta contrapposizione con l’outgroup. Si possono distinguere gruppi autonomi, i cui membri per definirsi non necessitano di contrapporsi a quelli di altri gruppi; e gruppi relazionali, i cui componenti si definiscono in buona parte differenziandosi dall’outgroup. Secondo Hinkle e Brown, il meccanismo dell’intergroup bias, e quindi il conflitto intergruppi descritto dalle teorie dell’identità

sociale, si innesca principalmente quando è saliente l’appartenenza a gruppi del secondo tipo, mentre nei casi in cui è saliente l’appartenenza a gruppi autonomi l’importanza dell’appartenenza per la definizione della propria identità non comporta necessariamente la discriminazione dell’outgroup. Hinkle e Brown combinando il tipo di cultura d’appartenenza e la natura del gruppo di cui si fa parte più saliente nel “qui e ora”, hanno proposto una tipologia utile a predire le condizioni in cui si manifestano i processi previsti dalle teorie dell’identità sociale. Secondo i due autori l’intergroup bias si manifesta quasi invariabilmente nei contesti culturali collettivisti quando sono in gioco le apparenze a gruppi relazionali, mentre negli altri casi l’identificazione con un gruppo non comporta automaticamente la sua attivazione. In definitiva la ricerca, mostrando che la forte identificazione con l’ingroup non è una condizione di per sé sufficiente a instaurare l’intergroup bias, ha evidenziato come le teorie dell’identità sociale abbiano accordato eccessiva importanza alla dimensione socio cognitiva dei conflitti intergruppi.

Appartenenze multiple e funzioni dell’identità sociale. Uno dei principali aspetti critici delle teorie dell’identità sociale concerne il fatto che è davvero troppo semplicistico considerare le persone come appartenenti a un solo ingroup contrapposto ad un solo outgroup. È infatti evidente che noi tutti siamo contemporaneamente membri di molti gruppi differenti, non necessariamente coincidenti gli uni con gli altri, ognuno dei quali contribuisce in modo specifico alla nostra identità sociale soddisfacendo bisogni concreti o simbolici. Questo significa che le stesse persone che secondo un sistema di categorizzazione risulterebbero essere membri del nostro ingroup, secondo un altro sistema possono essere considerate componenti di outgroup. Deschamps e Doise hanno mostrato sperimentalmente che attivare la salienza di un sistema di categorizzazione incrociata, che combina l’appartenenza a due gruppi, può portare a una riduzione dell’intergroup bias. Doise ha mostrato come lo status sociale obbiettivo dei gruppi sia un fattore che influisce in modo rilevante su discriminazioni, giudizi e valutazioni sia all’interno dell’ingroup che sull’outgroup. Questo insieme di ricerche ha evidenziato nette differenze tra i gruppi di status sociale più elevato, definiti “dominanti”, e quelli più svantaggiati, definiti “dominati”. “I membri dei gruppi dominati considerano se stessi individualmente come il punto di riferimento in rapporto a cui gli altri sono definiti, si concepiscono come individui unici e non cercano perciò una definizione di sé in termini di appartenenza di gruppo. I membri dei gruppi dominati, invece, definiscono se stessi, e spesso sono definiti anche dagli altri, più nei termini delle categorizzazioni sociali che sono loro imposte. La ricerca di differenzazione da altri sul piano individuale è più forte per i membri dei gruppi dominati e viene incrementata quando una tale appartenenza di gruppo è resa saliente. Studi recenti si sono rivolti all’analisi di una più realistica identità sociale multidimensionale, basata su appartenenze molteplici che possono risultare più o meno salienti in funzione della situazione contingente e che possono assolvere a diverse funzioni. Secondo questo punto di vista, identificarci con un gruppo “dominante” può effettivamente servirci per aumentare la nostra autostima in situazioni sociali in cui potremo definirci “superiori” rispetto alle persone che appartengono a un gruppo “dominato”. Kay Deaux e i suoi colleghi hanno individuato sette funzioni principali dell’identità sociale, scoprendo che solo alcune di essere influiscono sulle relazioni intergruppi. La

prima si riferisce a bisogni puramente individuali: appartenere a un gruppo può contribuire a far sviluppare una più accurata conoscenza e comprensione di sé. La seconda funzione, anch’essa di stampo prettamente individuale, è detta confronto sociale verso il basso: trova il suo fondamento nell’esigenza di promuovere la positività della propria identità personale operando confronti vantaggiosi con altri membri del proprio gruppo. La terza e la quarta funzione concernono i nostri bisogni di socialità, e si collocano a livello interpersonale: l’appartenenza a gruppi può infatti consentirci di sperimentare relazioni interpersonali positive e proficue. Esistono infine tre funzioni strettamente collegate con le relazioni intergruppi; sono le più vicine a quelle individuate dalle teorie di matrice tajfeliana: promozione dell’autostima collettiva; del confronto e della competizione intergruppi e della cooperazione e della coesione intergruppo.

L’influenza sociale. Cos’è l’influenza sociale. Quando si parla di influenza sociale si fa riferimento a un più ristretto ambito di ricerca: lo studio delle modalità secondo cui le opinioni e i comportamenti pubblici e privati degli individui sono influenzati da altri soggetti. Nel corso dello sviluppo della psicologia sociale ci sono alternate due principali concezioni dell’influenza sociale. La prima è stata sviluppata soprattutto in ambito nordamericano nel periodo compreso fra le origini della disciplina e i primi anni sessanta del Novecento. Questi studi condividono alcuni assunti teorici fondamentali al punto da essere considerati come rappresentanti del medesimo modello dell’influenza sociale, definito funzionalista da Moscovici. Tale modello considera l’influenza come il prodotto dei rapporti di forza del mondo sociale: colui che, in funzione del numero, di un maggiore potere o di maggiore autorità, è più forte, può influenzare le opinioni e i comportamenti di chi è in una posizione di inferiorità. La seconda concezione dell’influenza sociale è stata proposta negli anni settanta dallo stesso Moscovici in alternativa a quella funzionalista: si tratta del cosiddetto modello genetico, che mira a spiegare l’influenza come il prodotto di un processo interattivo fra gli attori coinvolti, definito anche, ma non solo, dai loro rapporti di forza. Lo studioso francese ha costruito un modello generale dell’influenza sociale, in grado di spiegare le ragioni per cui in certe condizioni anche le minoranze e chi detiene meno potere possono esercitare influenza sociale sulle maggioranze e su chi ha più potere. Successivamente agli studi di Moscovici sono stati proposti altri modelli di interpretazione dei fenomeni di influenza che, per quanto differenti per alcuni aspetti dal modello genetico, condividono con questo modello l’interesse per lo studio dei processi di elaborazione dell’informazione alla base dell’influenza nelle differenti condizioni, ovvero classicamente quella di influenza maggioritaria e quella di influenza minoritaria.

Il modello funzionalista. La pressione verso il conformismo. I primi studi sull’influenza analizzano tale fenomeno essenzialmente all’interno dei gruppi sociali. Il loro principale capostipite è il classico esperimento dell’effetto auto cinetico di Sherif per mettere empiricamente alla prova l’ipotesi di Allport secondo cui, all’interno dei gruppi, le opinioni delle persone tendono a modificarsi, convergendo su

posizioni più moderate di quelle sostenute quando esse sono isolate. L’effetto auto cinetico è un’illusione ottica: consiste nel fatto che, in una stanza buia, senza punti di riferimento, un punto luminoso proiettato su uno schermo dà l’impressione di oscillare anche se in realtà è fermo. L’esperimento consisteva nel far valutare ai soggetti sperimentali l’ampiezza degli spostamenti di un punto luminoso proiettato su uno schermo in una sequenza di prove. In una prima versione dell’esperimento, i soggetti svolgevano l’esperimento da soli nel laboratorio. I soggetti si costruivano una norma personale di valutazione, decidendo quanto ampio fosse lo spostamento del punto e utilizzando tale norma per valutare i successivi movimenti. Nella seconda condizione i soggetti iniziavano a svolgere le prove in gruppo e, successivamente, continuavano da soli. I soggetti tendevano, prova dopo prova, a far convergere le loro norme individuali verso un valore intermedio. È particolarmente interessante notare come tutti i soggetti tendessero a modificare le proprie valutazioni medie. Ed in modo inconsapevole i singoli modificavano la loro valutazione iniziale convergendo su posizioni comune senza rendersene conto. Le norme di gruppo si rivelarono dunque più resistenti al cambiamento di quelle individuali. Sherif interpretò questi risultati sostenendo che, all’interno dei gruppi, si sviluppano rilevanti tendenze al conformismo, cioè ad assumere opinioni comuni moderate, intermedie rispetto alle posizioni estreme. L’influenza della maggioranza. Il secondo studio classico sull’influenza sociale fu effettuato da Asch. L’ipotesi di partenza era che, all’interno dei gruppi sociali, non tutte le persone abbiano la medesima probabilità di esercitare un’influenza: sono le opinioni maggioritarie, quelle maggiormente più influenti. Asch ideò un esperimento in cui, si chiedeva ai soggetti di esprimere un giudizio percettivo. Alle persone venivano presentate una linea campione e, separatamente, tra linee di confronto etichettate con le lettere A,B e C. Il compito consisteva nell’indicare quale delle tre linee di confronto fosse uguale alla linea campione. Vi erano due gruppi di partecipanti. I primi, esprimevano le loro valutazioni da soli. Valutazioni che erano praticamente sempre corrette, a dimostrare dalla facilità del compito. Nel secondo insieme di soggetti, la prova veniva effettuata in gruppi di otto persone, che comunicavano i propri giudizi pubblicamente, ad alta voce. Le prime sei persone interpellate erano tutte dei complici dello sperimentatore, istruiti a dare, tutti e sei, la stessa risposta sbagliata. Toccava poi all’unico soggetto sperimentale, seguito dall’ultimo collaboratore dello sperimentatore, che dava anch’esso la stessa risposta errata data dai suoi predecessori. Il soggetto ingenuo si trovava quindi in una condizione peculiare e sgradevole: una maggioranza di persone dava una risposta differente da quella che, senza alcuna ambiguità, gli suggeriva l’evidenza percettiva. I risultati dell’esperimento mostrarono che ben un terzo dei soggetti “ingenui” del gruppo sperimentale finiva per conformare la propria risposta a quelle espresse dalla maggioranza, esprimendo cioè giudizi palesemente errati. Asch interpretò questi risultati come la prova del fatto che le persone tendono a essere massicciamente influenzate dalle opinioni e dalle posizioni della maggioranza. A parere di Asch, l’influenza è frutto di un processo di ragionamento che, nelle situazioni in cui siamo in minoranza, ci può portare a cambiare la nostra opinione partendo dal presupposto che, se la maggioranza delle altre persone con cui siamo in interazione valuta una situazione in maniera differente da noi, è possibile che la valutazione corretta sia la loro non la nostra. Si tratta del processo psicologico definito influenza informativa da Deutsch e Gerard. Secondo i due autori, ad essa si aggiunge una seconda forma di influenza. Deutsch e

Gerard osservarono che, nelle occasioni in cui i soggetti “ingenui” possono esprimere in forma privata la loro posizione minoritaria, l’ampiezza dell’influenza della maggioranza si riduce sensibilmente. È evidente che se l’interpretazione data da Asch dei propri risultati fosse corretta, questa riduzione non avrebbe dovuto avere luogo. Ne consegue che all’influenza informativa se ne associa una seconda, che agisce in parallelo alla prima: si tratta dell’influenza normativa, che ci spinge a rispondere pubblicamente in modo coerente con le aspettative degli altri membri e dei gruppi a cui apparteniamo. Secondo Deutsch e Gerard, riteniamo che gli altri si aspettino che la pensiamo come loro: per questo siamo indotti a uniformare le nostre opinioni pubbliche a quelle della maggioranza. L’obbedienza all’autorità. Oltre che alle maggioranze, in psicologia sociale viene attribuita la capacità d’influenza anche a singoli individui che, occupano posizioni socialmente privilegiate: sono le persone che detengono una posizione di potere o quella a cui, vi è attribuita autorevolezza. L’esperimento più famoso è quello ideato e condotto da Milgram sull’obbedienza all’autorità. L’esperimento di Milgram ha indubbiamente contribuito a far progredire la comunità degli psicologi inducendoli a sviluppare un codice etico che indica con chiarezza i principi che devono governare la ricerca, prevedendo pesanti sanzioni per coloro che li violano. Si è talvolta sostenuto, che Hitler e il nazismo hanno costituito uno dei principali volani che hanno contribuito successo della psicologia sociale. Questo per due ragioni: da un lato, perché ha costretto alcuni dei migliori psicologi sociali europei a fuggire dai loro paesi in America (Tajfel), contribuendo al diffondersi e al disseminarsi delle loro teorizzazioni e ricerche. Dall’altro perché, terminata la seconda guerra mondiale, un cospicuo numero di studiosi prese a interrogarsi sulle ragioni psicologiche che avevano concorso all’affermarsi di ideologie tanto distruttive e al fatto che milioni di persone apparentemente “normali” avessero tollerato, o addirittura promosso, lo sterminio in massa di milioni di loro concittadini. Originariamente Milgram riteneva che la collaborazione di migliaia di tedeschi alla messa in atto dello sterminio di massa fosse da imputare principalmente a caratteristiche culturali e di personalità del popolo tedesco. La tesi era che i tedeschi fossero “per carattere” abituati a obbedire all’autorità senza metterla in discussione, anche nei casi in cui essa è rappresentata da un feroce e sanguinario dittatore. Nel corso dei suoi studi, Milgram si trovò sempre meno soddisfatto di una spiegazione di questo genere, giungendo a ipotizzare che taluni processi psicologici legati all’obbedienza conformistica fossero molto più diffusi di quanto si pensasse. Milgram ideò una situazione sperimentale in cui un’autorità poneva ai soggetti sperimentali delle richieste capaci di indurli a mettere in atto comportamenti distruttivi manifestamente contrari alle loro norme e ai loro valori personali. Scopo dello studio era analizzare fino a che punto le persone erano disposte a rinunciare ai dettami della loro coscienza per obbedire alle richieste dell’autorità. I soggetti, volontari e pagati, venivano convocati individualmente in un laboratorio universitario dove incontravano un’altra persona che avrebbe partecipato all’esperimento. Lo sperimentatore comunicava loro che la ricerca finalizzata ad analizzare i processi di apprendimento e, più precisamente, gli effetti esercitati su questo dalle punizioni. Per tale motivo, si sarebbe stabilito con un sorteggio quali dei due soggetti sperimentali avrebbe svolto il ruolo di insegnante e quale quello di allievo. In realtà delle due persone convocate in laboratorio solo una era un vero soggetto sperimentale, mentre l’altra era un complice dello sperimentatore; inoltre, il sorteggio era truccato in modo tale che al soggetto

sperimentale toccasse inevitabilmente il ruolo dell’insegnante. L’insegnante avrebbe dovuto far svolgere all’allievo una serie di esercizi mnemonici (ricordare alcune coppie di parole). Ogni volta che l’allievo avesse commesso un errore, l’insegnante avrebbe dovuto infliggergli una punizione e, col susseguirsi degli errori, la punizione sarebbe dovuta diventare sempre più severa. L’allievo veniva legato a una sorta di sedia elettrica e gli veniva applicato un elettrodo al polso. Il generatore elettrico aveva trenta interruttori con l’indicazione di voltaggi crescenti dai 15 ai 450 volt. Sopra gli interruttori c’erano delle targhette con indicazioni sull’intensità della scossa somministrata, che andavano da “scossa leggera” fino a “attenzione, scossa molto pericolosa”. Gli ultimi due interruttori erano semplicemente corredati dall’etichetta “XXX”. Ovviamente l’allievo non riceveva alcuna scossa, ma l’insegnante non lo sapeva. Per evitare che subodorasse l’inganno, prima dell’inizio dell’esperimento gli si faceva provare la macchina infligendogli una vera scossa di lieve entità. Il complice dello sperimentatore iniziava sin da subito a commettere molti errori, così che il soggetto sperimentale si trovava a dover infliggere punizioni sempre più severe. Al crescere delle scosse, l’allievo iniziava a lamentarsi sempre più e, a urlare di dolore in maniera straziante e a implorare di essere liberato. Ogni volta che l’insegnante esitava, lo sperimentatore lo incitava a proseguire dicendogli che ciò che stava facendo era molto importante e che l’esperimento non poteva essere interrotto. Circa due terzi dei soggetti, nonostante le suppliche dell’allievo e l’assurdità della situazione, arrivavano a somministrare gli allievi fino all’ultima scossa. In pratica anche i cittadini “normali” di un grande paese democratico come gli Stati Uniti erano disposti, sulla base della semplice richiesta di un autorità a “torturare” una persona uguale a loro. Milgram si dedicò a studiare le condizioni che potevano aumentare o diminuire la sottomissione dell’autorità. Per fare ciò replicò ripetutamente l’esperimento modificandone di volta in volta alcune caratteristiche. Queste ulteriori indagini misero in luce che l’obbedienza era maggiore quando l’allievo, era più lontano dall’insegnante e massima quando non lo vedeva nemmeno. Una conseguenza è la perdita soggettiva di responsabilità del soggetto che attua gli ordini. Sentire di essere solo un ingranaggio nella macchina della distruzione, attribuendo la responsabilità delle proprie condotte alle persone gerarchicamente superiori, permette di compiere azioni distruttive minimizzando la propria responsabilità personale. La perdita di responsabilità è anche un’ottima difesa per l’immagine di sé: se le nostre azioni non dipendono da noi, le loro conseguenze non incideranno sul giudizio che abbiamo di noi stessi. In generale gli studi di Milgram hanno permesso di sottolineare come l’obbedienza dell’autorità non dipenda soltanto da una particolare conformazione di personalità o di altri fattori personali, ma venga in buona parte dettata dalla situazione in cui si trovano le persone: la pressione normativa che spinge a sottometterci alle autorità considerate legittime e quindi una rilevante e diffusa forma di influenza che i sistemi sociali esercitano sugli individui. I risultati dell’esperimento ci aiutano a capire “la facilità con cui le persone possono inchinarsi alle ragioni del conformismo e dall’ubbidienza anche in quelle situazioni estreme in cui si potrebbe pensare che il rifiuto di adeguamento sia più naturale e spontaneo”.

Il modello genetico. La critica del modello funzionalista. L’influenza sociale non fu mai ricondotta a un modello unitario dagli autori che

avevano contribuito a delinearla. Fu invece Moscovici che la etichettò come funzionalista. Secondo Moscovici, la psicologia sociale dei primi anni settanta sposava in maniera quasi unanime una visione secondo cui “i sistemi sociali formali e non formali da un lato, e i fattori ambientali dall’altro, vengono considerati come dati predeterminati per l’individuo o per il gruppo. Essi forniscono a ognuno, prima dell’interazione sociale, un ruolo, uno stato e delle risorse psicologiche”. In quest’ottica “la devianza rappresenta l’incapacità di adattarsi al sistema, una mancanza di informazioni o di risorse in relazione all’ambiente esterno. La normalità, da parte sua, rappresenta uno stato di adattamento al sistema, una condizione di equilibrio con l’ambiente e uno stretto coordinamento tra i due. Da questo punto di vista privilegiato, il processo di influenza ha per oggetto la riduzione della devianza, la stabilizzazione delle relazioni fra individui e degli scambi col mondo esterno”. innanzitutto si considera che all’interno dei gruppi l’influenza sociale sia distribuita in modo diseguale e venga esercitata in modo unilaterale. L’influenza viene considerata un processo unidirezionale, caratterizzato da una sorgente che detiene le risorse indispensabili per esercitarla e dei bersagli che la subiscono. Ne consegue che all’interno dei gruppi non tutti hanno la stessa possibilità di esercitare influenza. L’influenza origina da un vissuto di insicurezza; conformarsi alle norme sociali aiuta a ridurre questo vissuto negativo. L’insicurezza può essere dovuta dalla sensazione di non essere in sintonia con gli altri attori del mondo sociale, oppure dall’ambiguità di una percezione. In entrambi i casi la conformità con un gruppo sociale permette di ridurre il disagio che si sperimenta. Per Deutsch, Gerard e Milgram, gli individui sentono la pressione normativa a conformarsi alle opinioni della maggioranza e a non contestare gli ordini delle autorità, il che costituisce la base di quella che Bauman definisce etica dell’obbedienza. Particolare importanza ha inoltre la teoria del credito idiosincratico di Hollander, secondo cui nei gruppi l’innovazione è principalmente promossa dal leader. Per arrivare a rivestire tale ruolo le persone devono guadagnare credito nei confronti degli altri membri del gruppo, e tale credito ottengono dimostrandosi inizialmente particolarmente leali e fedeli rispetto alle norme e alle mete condivise. Così guadagnata, la leadership offre loro la possibilità di modificare i valori e le norme comuni, senza incorrere in sanzioni da parte degli altri membri. La teoria del credito idiosincratico è perfettamente coerente con il modello funzionalista: anche per Hollander, infatti, l’influenza è una questione di potere e procede in maniera unidirezionale dall’alto verso il basso, pur non escludendo che i detentori di una posizione privilegiata abbiano la possibilità di modificare le norme vigenti e di promuovere il cambiamento sociale. Possibilità invece preclusa alle minoranze e agli individui che non ricoprono ruoli di comando. Secondo Moscovici, invece, tutte le persone e tutti i gruppi sono potenzialmente sia fronte sia bersaglio di influenza, anche se in misura diversa in funzione del loro status. Ne consegue che l’influenza deve essere letta come un processo bidirezionale e non come esclusivamente diretto dall’alto verso il basso. L’influenza minoritaria. Per mettere empiricamente alla prova l’assunto teorico secondo il quale tutti gli individui e i gruppi, a prescindere dalla dimensione e dal potere che detengono, possono essere portatori di influenza, Moscovici ideò uno studio che cercava di sovvertire le conclusioni del famoso esperimento di Asch: dimostrare cioè che una minoranza può influenzare una maggioranza. Anche questo esperimento si basava su

valutazioni di stimoli percettivi ambigui: il compito affidato ai soggetti era di dichiarare pubblicamente in una serie di prove quale fosse, a loro parere, il colore piuttosto incerto tra il verde e il blu di alcune diapositive. Per l’esperimento vennero costituiti due gruppi. Il gruppo di controllo era formato da sei soggetti ingenui, quello sperimentale da quattro soggetti ingenui e da due complici dello sperimentatore, istruiti a dichiarare sistematicamente che tutte le diapositive proiettato erano di colore verde. La principale variante rispetto allo studio di Asch concerneva dunque lo status di maggioranza/minoranza dei complici dello sperimentatore: nello studio di Asch erano sette su otto, mentre qui erano solo due su sei. La quasi totalità dei partecipanti appartenenti al gruppo di controllo riferì correttamente di aver visto delle diapositive blu. Questo avvenne anche per la maggioranza dei componenti del gruppo sperimentale ma in maniera minore. La presenza di una minoranza di partecipanti che sistematicamente riferiva valutazioni errate aveva il potere di spingere in errore una quota significativa di soggetti ingenui. L’impatto dell0jnfluenza era ovviamente molto inferiore a quello dell’influenza della maggioranza emerso nell’esperimento di Asch, in cui i soggetti che cambiavano opinione erano circa un terzo del totale. Ciononostante, questi dati mostravano che anche le minoranze possono influenzare la maggioranza. Moscovici sostiene che i processi in influenza dipendono dallo stile di comportamento tenuto da chi effettua il tentativo di influenza: a patto che sostengano la loro posizione con coerenza, tutti gli individui possono esercitare influenza, indipendentemente dal loro status di maggioranza/minoranza. Condiscendenza e conversione. Il modello genetico testimonia l’utilità di superare la concezione quantitativa di maggioranza e minoranza, considerando invece minoritarie le posizioni di chi sostiene opinioni contrarie alle idee dominanti in una cultura e maggioritarie quelle di chi difende le norme sociali vigenti e l’ordine sociale attuale. L’influenza maggioritaria ha come scopo il mantenimento del controllo sociale, e si realizza principalmente attraverso i fenomeni di conformismo. Dal momento che spinge le persone ad adottare norme e opinioni già dominante e ampiamente conosciute, è un processo che non richiede un’elaborazione approfondita delle argomentazioni proposte per condizionare la minoranza, né una messa in discussione di valori e credenze consolidati. Si tende ad adeguarsi alle già conosciute opinioni della maggioranza; non si riorganizzano le proprie credenze, ci si limita a confrontare la propria posizione con quella dominante e ad accettare quest’ultima. Questo processo viene definito condiscendenza e avviene a seguito di un’attività di confronto sociale con la maggioranza. L’influenza minoritaria, per Moscovici, è invece frutto di un processo molto differente. In questo caso il gruppo minoritario propone il cambiamento e la messa in discussione di qualche punto di vista largamente condiviso. Sostenendo idee che vanno contro le opinioni affermate, per avere successo nel processo di influenza la minoranza deve “costringere” i membri della maggioranza a un lavoro cognitivo rivolto alla messa in discussione delle opinioni precedenti e ad un esame approfondito delle proposte alternative. Questo processo comporta che il cambiamento sociale sia sempre il frutto di un conflitto tra posizioni dominanti e posizioni alternative. La prima reazione della maggioranza alla proposta alternativa di una minoranza è quasi sempre di rifiuto. Vi sono varie difese contro i devianti che possono essere messe in atto dalla maggioranza. In questo modo la maggioranza evita di confrontarsi con la posizione

alternativa sostenuta dalla minoranza. Proprio per neutralizzare queste difese è fondamentale che la minoranza metta in atto un insieme di azioni costanti e coerenti, continuando a sostenere la propria posizione impedendo che il conflitto si risolva. La persistenza della minoranza nel sostenere le sue opinioni può indurre i membri della maggioranza a focalizzare la loro attenzione sull’oggetto della disputa e dunque a prendere in considerazione le argomentazioni della controparte. A questo punto, attraverso un processo di validazione, le tesi minoritarie possono essere rifiutate o accettate. L’influenza minoritaria, essendo frutto di un negoziato, è un processo che richiede tempi lunghi. Al contrario, l’influenza maggioritaria avviene in maniera molto più rapida e automatica. Resta il fatto che alcune persone, pur essendo state convinte a cambiare opinione nel loro intimo a causa dell’influenza minoritaria, abbiano poi molte riserve ad ammetterlo pubblicamente per timore di essere considerati devianti.

L’influenza come processo unitario vs. duale. Un processo unico per maggioranza e minoranza. Vari studiosi hanno considerato l’influenza come il frutto di un processo unico, indipendentemente da quale sia la fonte. Latané e Wolf hanno reinterpretato molti risultati di ricerche precedenti costruendo un nuovo modello di influenza sociale. Secondo questi autori l’influenza sociale, che loro preferiscono chiamare impatto sociale, è il prodotto di tre caratteristiche della fonte dell’influenza: la forza, l’immediatezza e il numero. La forza di chi esercita l’influenza può essere definita principalmente in termini di potere o status detenuto dalla fonte e di abilità che essa possiede nel sostenere le posizioni proposte. L’immediatezza è la vicinanza tra la fonte e il bersaglio dell’influenza, che può essere intesa tanto in senso spaziale quanto in senso temporale. Infine il numero si riferisce alle dimensioni del gruppo che esercita l’influenza. L’impatto sociale sarà massimo nei casi in cui la fonte di influenza è caratterizzata da forza immediatezza e numero elevati, e minimo nei casi in cui essa ha forza, immediatezza e numero ridotti. Oltre alle dimensioni del gruppo fonte di influenza, il risultato del processo dipende anche dalla numerosità del gruppo bersaglio. All’aumentare delle dimensione del gruppo su cui esercita l’influenza, l’impatto della fonte su ciascun singolo individuo si riduce. Ne consegue che l’influenza minoritaria è meno efficace di quella maggioritaria per due motivi: in primo luogo per il fatto che è esercitata da un gruppo numericamente ridotto; in secondo luogo perché i suoi effetti sono diffusi su un numero elevato di bersagli, e quindi meno rilevanti. Per Latané e Wolf in conclusione, il processo di influenza è unico e la differenza di effetti tra maggioranza e minoranza si deve al differente peso che, in funzione del numero, assumono gli altri fattori in gioco nell’esito dell’influenza. Questi autori tornano dunque a interessarsi maggiormente alle condizioni sociali che facilitano l’influenza (le differenze di potere, abilità, prossimità e numero) piuttosto che non ai processi di pensiero e agli stili di comportamento che contribuiscono a strutturarne gli effetti. •

Elaborazione convergente ed elaborazione divergente. In contrasto con Latané e Wolf altri studiosi sono tornati ad appoggiare la distinzione tra influenza maggioritaria e influenza minoritaria. Nemeth ha sostenuto e argomentato la sensatezza della distinzione tra l’influenza

maggioritaria e quella minoritaria, sia dal punto di vista dei processi di pensiero che stanno alla base dell’influenza, sia, soprattutto, per quel che concerne i loro effetti. Le differenze tra l’impatto di una maggioranza e una minoranza non sono infatti, secondo Nemeth, solo quantitative, tesi sostenuta da Latané e Wolf, bensì concernono il tipo stesso di cambiamento generato dalla fonte dell’influenza. Nemeth sostiene che le minoranze, pur avendo in generale un effetto diretto ridotto su un argomento specifico possono spesso influenzare un numero maggiore di persone su argomenti affini. Parliamo in questo caso di influenza indiretta. A parere di Nemeth i due tipi di influenza si fondano su processi di pensiero differenti. L’influenza maggioritaria si basa su di un’elaborazione dell’informazione di tipo convergente: le persone accettano la posizione della maggioranza senza metterla in discussione, o comunque si limitano a verificare la fondatezza nell’opinione dominante senza prendere in considerazione possibili alternative. L’influenza minoritaria stimola un’elaborazione di tipo divergente: con il proprio comportamento costringe la maggioranza a prendere in considerazione punti di vista differenti e a confrontarli con le proprie opinioni attraverso un’elaborazione approfondita e più dettagliata. Non è detto che l’elaborazione divergente porti a un’influenza diretta; tuttavia, essa comporta sicuramente una presa in considerazione dell’argomento più ampia e particolareggiata, spingendo la maggioranza ad allargare la conoscenza e la riflessione su di un particolare tema. Alcuni esperimenti hanno confermato queste tesi, mostrando come i punti di vista minoritari possano aumentare la creatività nei gruppi e quindi condurre a prestazioni migliori nella soluzione dei problemi. Questi effetti positivi dell’influenza minoritaria possono evitare, all’interno dei gruppi, scelte decisionali affrettate o errate basate su una scarsa elaborazione delle informazioni. Le minoranze spingono i membri della maggioranza a un’analisi della situazione più approfondita e questo può portarli a cambiare effettivamente le proprie opinioni, anche se non necessariamente nella direzione proposta dalla minoranza. Il cambiamento di opinione può avvenire a seguito di due differenti processi di elaborazione dell’informazione: una sistematica, cioè approfondita e dispendiosa dal punto di vista cognitivo, e una euristica, cioè basata su scorciatoie di pensiero e poco dispendiosa. La scelta del percorso di elaborazione da utilizzare dipende, secondo le autrici statunitensi, dal grado di motivazione e dalle abilità cognitive della persona. I dati empirici mostrano che il cambio di opinione è più probabile quando avviene attraverso processi di elaborazione sistematica della posizione proposta. Nel caso dell’influenza esercitata da una maggioranza entrerebbe in azione un’euristica abbastanza comune che vuole un’opinione tanto più valida quanto più sostenuta da tante persone. Quando le persone hanno un’opinione o credenza differente da quella maggioritaria, si convincono più facilmente a impegnarsi in un’elaborazione sistematica, cioè ad analizzare più a fondo le argomentazioni per controllare la validità della loro opinione. Quando invece l’influenza è esercitata da una minoranza, l’euristica di cui sopra ovviamente non funziona: è dunque molto difficile che ci si impegni in una

elaborazione sistematica. Questo potrà avvenire solo a seguito di un lungo lavoro da parte della minoranza, a meno che il punto di vista da questa sostenuto non appaia decisamente valido e fuori discussione.

Del potere e di altri demoni. Introduzione. Tentare una definizione del potere che tenga conto dei suoi molteplici aspetti ed implorarne i confini indubbiamente vaghi e indefiniti è un’operazione estremamente complessa, perché richiede un’analisi di quei fenomeni che da un lato attengono all’universo delle pulsioni e dall’altro alle dinamiche del sistema sociale ed alla sua organizzazione. Come lo si chiami power o Match, poder o pouvoir, il potere ha rappresentato e rappresenta l’oggetto privilegiato di tutte le grandi riflessioni sulla politica, la filosofia, la storia, la sociologia. Tant’è che appare lecito affermare che il pensiero contemporaneo costituisce un’instancabile, unica inchiesta sul senso e sul destino del potere. Come ricordano Bobbio, Matteucci e Pasquino il termine potere indica la capacità, la possibilità di operare, di produrre effetti, che si precisa nella prassi sociale come la capacità dell’uomo di determinare la condotta dell’altro uomo: il potere dell’uomo sull’uomo. Potere significa facoltà, potenza legalmente attribuita, possibilità e capacità di fare, come bene espresso dal termine latino potestas. Secondo Trentini potestà significa poter realisticamente usare una forza per far valere la propria volontà. In questo caso “potere” assume due significati complementari ma diversi: “avere il permesso di” e “essere capace di”. Il primo ad aver esposto una teoria moderna del potere politico è Niccolò Machiavelli. La sua opera poggia sull’idea che, per fondare la stabilità di un potere politico, non basta fare delle buone leggi. Per conservarlo è necessario disporre della forza e ancor più utilizzare la furbizia e l’intelligenza politica. il potere è un esercizio che esige delle competenze militari ma anche intellettuali. Hobbes ha descritto il modo in cui gli uomini rinunciano al loro potere ed alla loro forza a vantaggio di una sola assemblea, di un solo uomo. Secondo l’autore questa è la condizione necessaria per ottenere pace e prosperità. Locke sottolinea che lo scopo dell’organizzazione politica non è di rafforzare la potenza dello Stato, ma di garantire agli individui la libertà di pensare, di credere, di circolare, di organizzare le loro vite fintanto che non viene minacciata la libertà altrui. Quasi mezzo secolo dopo, i filosofi illuministi giustificavano l’idea di potere come emanazione razionale della società civile e ne analizzavano le forme possibili. Montesquieu criticò il dispotismo e denunciò il principio della separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Rousseau elaborò la nozione di contratto sociale e descrisse il potere legittimo come l’emanazione della volontà generale che promulga leggi che hanno per obiettivo il bene comune. In questo modo egli perseguì e corroborò una corrente di pensiero che fa del diritto l’istanza principale di legittimazione del potere. Marx ed Engels affermano invece che la storia del potere non è nient’altro che la successione dei rapporti di dominazione tra le classi e al fine della storia dovrà coincidere con il declino dello Stato, in favore del “governo delle cose”. Pareto analizza il potere come emanazione di una minoranza dominante: l’élite. Il termine élite designa tutte quelle persone che giocano un ruolo sostanziale nei campi

della politica, dell’economia e dell’opinione pubblica. La stabilità del potere politico presuppone che esso abbia una “circolazione” nelle élite, cioè un movimento costante di individui che si elevano dalle classi dominate verso le classi dominanti. Per Foucault il potere non è collocabile in un luogo preciso, al contrario si definisce proprio a partire dalla sua ubiquità. È una sorta di flusso che attraversa e connette l’insieme degli elementi del corpo sociale. Il potere non può essere associato ad un insieme di dispositivi legali, che hanno lo scopo di sottomettere i cittadini alle norme promulgate dallo Stato. Foucault precisa il suo pensiero, attribuendo al potere quattro caratteristiche: il potere è immanente, esso si esercita in “foyers locaux”, il potere varia permanentemente, esistono modifiche incessanti nei rapporti di forza, al punto che la tradizionale analisi delle istituzioni non saprebbe renderne conto. Il potere si inscrive in un doppio condizionamento: a dispetto del suo carattere microfisico obbedisce ad una logica globale, che consente di caratterizzare una società ad un’epoca data. Il potere è indissociabile dal sapere: qualunque punto di esercizio del potere in una società moderna si identifica con il luogo di formazione del potere. In modo simmetrico, ogni sapere stabilito permette ed assicura l’esercizio di un potere. Sebbene potere e autorità siano inevitabilmente interconnessi, essi non devono tuttavia essere considerati sinonimi, poiché ciò che li lega non è altro che una “falsa sinonimia”. Se potere significa facoltà, potenza, possibilità di fare; autorità significa conferire idealmente e sul piano dei valori, prima e oltre che socialmente, le possibilità e le capacità di essere e di fare. Nel linguaggio comune non esiste una netta distinzione tra potere e autorità. Il dominio è un altro dei concetti chiave del potere. Come ricorda Bourdieu il dominio rappresenta la caratteristica stessa di qualsiasi vita sociale, sia che si eserciti nel quadro del dominio di una classe sulle altre, sia che essa passi attraverso forme di dominio culturale o di prestigio. Carotenuto ritiene che alla base di ogni forma di dominio vi sia una palese incapacità creativa, che si risolve nel bisogno di reprimere l’originalità altrui. Vi sono altri aspetti delle relazioni di potere che devono essere considerati. A parere di De Grada, Pierro e Kruglanki, anche i concetti di potere e influenza determinano un’ambiguità terminologica. Un primo tentativo di distinguere influenza e potere lo si deve a French e Raven, a parere dei quali il potere consiste nella possibilità di esercitare influenza e l’influenza è un potere attualizzato. Per altri autori l’influenza si basa sulla persuasione, mentre il potere consiste nella possibilità di controllare persone, cose ed eventi. Turner afferma che il potere nasce dalla formazione del gruppo, dall’organizzazione della società e dalle credenze condivise che costruiscono l’identità sociale e personale degli individui. Le relazioni di potere hanno sempre un preciso contenuto sociale, relazionale ed ideologico, capace d’influenzarne direttamente le modalità di acquisizione. La sofisticata proposta analitica di Turner, che si richiama alla Teoria dell’identità sociale e personale, inserisce il potere in un contesto concreto molto spesso assente nelle altre prospettive epistemologiche. Nonostante il nome di Lewin non venga universalmente associato allo studio del potere, molte delle sue intuizioni hanno costituito una vera e propria piattaforma di partenza per numerosissimi approcci psicosociali allo studio del potere. Uno dei suoi più stimolanti filoni di studi è quello relativo agli stili della leadership. I suoi allievi Lippit e White hanno compiuto studi incentrati sui comportamenti e sulle atmosfere dei gruppi, a seconda dello stile di conduzione autoritario, lassista o democratico,

adottato dal leader. I già citati discepoli di Lewin, French e Raven, iniziarono a mettere a punto una Teoria generale del potere sociale, definito in termini di capacità diffusa di influenzare altre persone, sulla scia dell’intuizione lewiniana di “possibilità di indurre forze”. Gli autori distinsero cinque tipi di potere: coercitivo, di ricompensa, legittimo, esperto e di riferimento. Il potere coercitivo è fondato sulla capacità di dispensare o meno punizioni per un comportamento indesiderato e richiede sempre una qualche forme di legittimazione. Il potere di ricompensa deriva dalla capacità di premiare le persone per un comportamento desiderato. Il potere legittimo si fonda sulla credenza dei subordinati che la persona di potere abbia sempre il diritto di prescrizione e controllo sui loro comportamenti. Il potere esperto può derivare dal possedere una grossa esperienza, ampie conoscenze e particolari abilità in una determinata area; in realtà esso si fonda sulla convinzione dei subordinati che tali capacità della persona di potere siano reali. Il potere di riferimento si fonda sull’ammirazione, l’attrazione e l’identificazione che i subordinati sperimentano nei confronti della persona di potere, la quale costituisce un modello di riferimento in grado di fornire loro addirittura i parametri per valutare atteggiamenti, credenze e comportamenti. Alle cinque sopra elencate, Raven, aggiunse: il potere di informazione, basato sulla capacità della persona di potere di utilizzare fonti o fornire dati razionali e persuasivi. Tra le definizioni di potere legate alle relazioni intergruppo, quella fornita da Jones è considerata tra le più significative, focalizzandosi sul fatto che il potere determina il controllo del gruppo sul suo proprio destino, così come sul destino dell’outgroup. La professoressa Ida Galli è stata invitata da Moscovici a coordinare per il Laboratoire Europeen de Psychologie Sociale des Sciences de l’Homme di Parigi, una ricerca internazionale sulla rappresentazione sociale del potere. Nel libro vengono infatti spiegati i vari passaggi della ricerca. La ricerca si è articolata in due distinte fasi. La prima è stata concepita per studiare la componente informazione e ricostruire il campo rappresentazionale del potere, mentre la seconda era finalizzata ad un’analisi strutturale della rappresentazione, così come all’individuazione degli atteggiamenti, delle opinioni e degli stereotipi relativi all’oggetto di analisi. In ciascuno dei Paesi coinvolti nell’indagine, Francia, Indonesia, Italia, Messico, Romania, il campione era costituito esclusivamente da studenti universitari, frequentanti il primo anno di Facoltà afferenti all’area delle Scienze Sociali. Il metodo utilizzato è stato quello delle Libere Associazioni. A ciascun oggetto è stato chiesto di associare le prime cinque parole che gli venivano in mente a partire dal termine induttore “potere”, di motivare per iscritto la scelta di ciascuna parola; di scegliere, tra le cinque parole fornite, le tre ritenute più importanti ed infine di attribuire, servendosi di un totale di 10 punti, un peso specifico a ciascuna delle tre parole selezionate. Per integrare le informazioni raccolte attraverso l’intervista è stata utilizzata una particolare tecnica d’indagine –gli “Stimoli proto tipici”- che prevedono la presentazione di fotografie in bianco e in nero raffiguranti situazioni di potere. Questa tecnica è stata messa a punto per superare i limiti proprio dell’intervista ed allo scopo di rendere in qualche modo “visibile” l’oggetto di studio. Nello specifico agli intervistati sono stati proposti 6 stimoli proto tipici raffiguranti altrettante scene di potere asimmetrico, di cui 3 relative a rapporti di tipo diadico e 3 relative ai poteri del tipo “uno a molti”. L’intervista si concludeva chiedendo ai soggetti di ordinare i sei stimoli proto tipici creando una propria gerarchia del potere.

A proposito delle rappresentazioni sociali del potere nel contesto francese. Denominare, designare. Quando si affronta la questione del potere nel suo contesto storico e societario in Francia, una prima analisi dei testi e degli articoli indica come la nozione di potere si inserisca all’interno di un corpus i cui elementi rinviano principalmente al potere politico. Alcuni avvenimenti storici possono essere considerati fondamentali nel processo di metamorfosi del potere politico: la Rivoluzione Francese, periodo di rottura costituzionale rispetto alla monarchia assoluta; la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, che ha fondato l’idea di cittadinanza sui principi dei diritti naturali, inalienabili e sacri dell’Uomo; la Costituzione della Repubblica; le riforme in campo amministrativo, militare ed elettorale; la separazione dei poteri della Chiesa e dello Stato; le Repubbliche successive. In maniera meno pregnante si trovano riferimenti a concetti quali il potere economico, il potere delle élites, il potere delle organizzazioni, il potere dei media, il potere della Chiesa e, in minor misura, il potere delle donne, ognuno dei quali offre l’occasione per sviluppare un dibattito sul potere. Designare, definire il potere in lingua francese. Un’altra chiave di lettura che permette di accedere ai significati della nozione di potere ci è data dalle differenti designazioni del termine. Il verbo potere possiede diversi significati. Significa avere la possibilità di fare qualcosa, essere capace; avere il diritto, il permesso di fare qualcosa; infine esso è definito come relativo a ciò che è ipotetico ed incerto. In quanto sostantivo, la parola potere viene definita come facoltà, possibilità, ma anche come commissione, delegazione, mandato, missione, o ancora come possibilità d’azione su qualcuno o qualcosa. Infine, designa la condizione di colui o coloro che dirigono: sovranità, governo, regime. La polisemia del termine potere nella lingua francese rinvia ad una dimensione polarizzata rispetto ai predicati avere il potere d’agire vs. incarnare il potere, che si fonda alternativamente sulle proprietà d’azione e sulle proprietà di coloro che l’esercitano: i loro tratti di personalità o la legittimità delle loro azioni. Nella letteratura psicologica francese. Nel “Grand Dictionnaire de la Psychologie”, Enriquez definisce il potere come “la relazione a carattere sacri, di tipo asimmetrico, stabilita fra uomo o un gruppo di soggetti che possono formare un insieme o un apparato specifico, i quali definiscono gli scopi e gli orientamenti della società e disponendo dell’uso legittimo della violenza da un lato, e dall’altro lato, un gruppo più o meno ampio di individui disponibili ad accordare il loro consenso alle norme imposte”. Ogni forma di potere possiede dunque un carattere sacro, dal quale deriva probabilmente la sua dimensione religiosa e consiste in una relazione asimmetrica fra due soggetti, l’uno dei quali delega all’altro la legittimità del suo esercizio. Una volta che il potere è istituito, il modo nel quale una società si organizza attorno a certe figure del potere partecipa alla formazione delle sue stesse rappresentazioni. La maniera in cui la psicologia sociale ha affrontato il potere deriva sia da una matrice culturale, sia da una tradizione intellettuale. Definito d’emblée come processo pragmatico, il potere è studiato in quanto leadership le cui conseguenze effettive sull’efficacia e sul clima di gruppo sono messe in evidenzia. In alternativa, esso viene studiato in quanto influenza, soprattutto per quanto riguarda le sue diverse funzioni:

conformismo, sottomissione all’autorità, negoziazione, innovazione. L’opera della francese Paicheler “Psicologia delle influenze sociali” è particolarmente chiarificatrice circa le origini delle ricerche sull’influenza. L’autrice ripercorre l’evoluzione dell’interesse per l’influenza a partire dal XVIII secolo: i legami fra l’isteria e l’ipnosi delineati da Charcot, gli scritti di Tarde sulla suggestione sociale e sul suo effetto principale, l’imitazione e gli studi di LeBon sul “contagio delle idee” più irrazionali nelle folle. I lavori di Beauvois, focalizzati sul liberalismo in quanto sistema ideologico di “sottomissione liberamente consentita”, partono dal presupposto che le norme sociali e culturali siano interiorizzate, relegando in questo modo la nozione di libertà individuale al ruolo d’illusione ideologicamente costruita. Il liberalismo ideologico è definito come una forma di pensiero sociale illusorio, in quanto riflesso che dissimula la realtà stessa alla quale si sostituisce. Il potere non può trovare la sua legittimità in fonti esterne o interne se non fondandosi su elaborazioni e credenze condivise. Ciò sottolinea l’importanza, in psicologia sociale, di considerare il potere in quanto concetto fondamentale, tenuto conto del legame indissociabile che collega questo concetto agli ambiti psicologici, sociale, religiosi e politici. Moscovici ha rilevato come le religioni siano state rimpiazzate da religioni profane, ideologie incarnate in leader idolatrati. Questa visione è in una certa misura congruente con quelle proposte da alcuni sociologi: Weber, il quale si è occupato del potere personificato nei capi di partito e ha proposto la figura di leader carismatico in quanto fonte di legittimità; Durkheim, nel suo libro “Le forme elementari della vita religiosa” parla della legittimazione che trova le sue origini nella condizione stessa della società, nella quale si innescano i comportamenti collettivi. Weber definisce la legittimità come attributo del potere ed il potere come capacità di condurre le persone all’accettazione degli ordini, in termini di dominazione. La tradizione, le regole legali e razionali, l’essere carismatico sono differenti fonti di legittimazione di differenti tipi di potere, dal contenuto culturalmente e socialmente definiti. Lewin e Cartwright hanno orientato le prime ricerche sul potere nei gruppi, introducendo la nozione di leadership oggettivata a partire dalle interazioni di gruppo. In Francia, tale tradizione di ricerca si è sviluppata e trasformata a partire dagli anni ’70 in psicologia clinica e sociale, nell’analisi e negli interventi istituzionali, nella socio – psicanalisi e nella psicologia clinica focalizzandosi sulle categorie epistemologiche di istituente/istituito. Analizzate di sovente anche dai sociologi si può considerare che queste categorie siano, mutatis mutandis, alla base dei saggi e delle riflessioni che hanno spinto Moscovici a sviluppare la sua teoria sull’influenza delle minoranze attive e delle loro proprietà, che costituiscono il principio del cambiamento sociale. Faucheux e Moscovici si chiedevano perché la ricerca psicologica si fosse, fino a quel momento, interessata esclusivamente alla “normalizzazione”. Moscovici, nel suo saggio “Psicologia delle minoranze attive” propone un paradigma alternativo, in seguito al quale si svilupperà in Europa l’interesse teorico per l’influenza “minoritaria”. Così, se da un lato l’approccio funzionalista considera che “le trasformazioni siano scatenate da coloro i quali detengono l’informazione e le risorse ed occupano delle posizioni sociali chiave: i leader, gli esperti, gli specialisti, etc. “, dall’altro lato il nuovo approccio interazionisti reputa l’influenza minoritaria come legittima e dimostra l’efficacia dell’azione di entità a priori sprovviste di potere. In Psicologia Sociale, e soprattutto in psicologia sperimentale, il termine potere è

raramente utilizzato. Deschamps e Sacdev & Bourhis si riferiscono esplicitamente a tale nozione per designare le posizioni dominante/dominato, occupate dalle persone in funzione della loro appartenenza categoriale. È tuttavia importante rilevare che il potere è spesso studiato indirettamente, attraverso altri fenomeni e ciò è vero in particolar modo nell’ambito delle ricerche sulla comunicazione. Il potere è esaminato indirettamente innanzitutto nelle ricerche sui gruppi, in associazione alla nozione di leader, ma lo è anche nel campo delle comunicazioni di massa, in associazione alla nozione di persuasione, considerata come una forma d’influenza minoritaria che si concretizza in uno stile linguistico performativo. Moscovici propone una definizione che pone come oggetti specifici della psicologia “tutti i fenomeni associati all’ideologia e alla comunicazione”. In generale, quindi, questa prospettiva invita ad articolare le dinamiche societarie ed i processi di pensiero individuali che si riflettono nella comunicazione. Nel cuore della questione del potere sono centrali tanto i conflitti d’interesse o simbolici, quanto i dissensi. Il consenso, il cui scopo è di favorire il riconoscimento reciproco e l’impegno morale è considerato, al contrario, come forma d’espressione privilegiata del potere. In Francia, l’importanza dell’attaccamento alla cittadinanza ed il credo democratico che l’accompagna sono senza dubbio alcuni degli elementi contestuali e politici che facilitano la concezione dell’esercizio del potere in quanto condizione necessaria per l’esistenza della democrazia e del cambiamento sociale, che si tratti del potere civico di eleggere i propri rappresentanti attraverso il voto, di esprimere pubblicamente il proprio punto di vista e la propria opinione politica, grazie ad azioni collettive quali manifestazioni e scioperi legittimati dal principio di libertà d’espressione o di partecipare alla vita associativa o a movimenti tesi verso il cambiamento sociale. In questo senso, il potere dei cittadini è inseparabilmente legato al peso che essi hanno nelle scelte sociali e nell’orientamento politico del paese. La sovranità del potere è sempre garantita da forme multiple di sacralità: segni, simboli, pratiche rituali. La loro funzione è generare una sistemazione sociale, allo scopo di scongiurare i pericoli potenziali che potrebbero minacciare il potere. L’enigma che circonda il potere si situa nel cuore della relazione fra la sua visibilità e la sua invisibilità. Nel contempo visibile ed invisibile, il potere è una rappresentazione socialmente e culturalmente costruita. La ricerca. Il nostro approccio consiste nel considerare il potere come un costrutto elaborato socialmente , culturalmente e psicologicamente. Se fondamentalmente il potere non esiste che come credenza espressa attraverso le opinioni che generano atteggiamenti ad esso relativi e quindi anche come espressione esteriore dell’individuo che parla, le rappresentazioni di cui esso è oggetto permettono di mettere in evidenzia i processi di legittimazione sui quali si fonda. La ricerca, in Francia ha visto la partecipazione di 50 studenti iscritti al primo anno di Scienze Umane e Sociali. I partecipanti sono stati interrogati tramite interviste approfondite semi – direttive, realizzate in situazione di faccia a faccia, seguendo il protocollo comune all’insieme di ricerche collegate al Laboratorio Europeo di Psicologia Sociale. L’analisi delle risposte è stata condotta per mezzo di una griglia di categorizzazione del contenuto, comune all’insieme delle interviste. Tale griglia è stata elaborata a posteriori, a partire dai contenuti raccolti in ciascun paese appartenente al network LEPS, al fine di favorire un’analisi transculturale.

L’analisi delle associazioni verbali è stata effettuata secondo due modalità distinte: l’utilizzo del programma ALCESTE e l’analisi tematica del contenuto. Risultati. I campi semantici associati al concetto di potere. Le associazioni verbali generate dai partecipanti in risposta al termine induttore potere, sono state analizzate tramite il programma ALCESTE. Dall’analisi sono emerse 500 associazioni verbali delle quali in 191 forme distinte. L’interpretazione del dendogramma ottenuto in seguito alla doppia classificazione gerarchica realizzata dal software ALCESTE permette di mettere in evidenzia le diverse opposizioni tra classi specifiche. Le classi 1 e 3 si riferiscono al potere nei suoi aspetti politici e in questo modo si distinguono dalla classe 2, centrata maggiormente sul potere in quanto risorsa simbolica e materiale, che funziona come principio d’ordine sociale e di subordinazione. Sebbene i contesti lessicali delle classi 1 e 3 si riferiscano al potere politico, i temi affrontati risultano distinti. La classe 1 si riferisce al potere politico come sistema istituzionale democratico per mezzo dei seguenti lemmi specifici di classe: democrazia, governo, ministro, legge, popolo; mentre la classe 3 rinvia maggiormente al potere politico come concentrazione e imposizione di poteri attraverso lemmi quali: dirigente, dittatura, abuso, politica. La classe 2 rinvia in maniera specifica al potere in quanto risorsa simbolica e materiale funzionante come principio d’ordine sociale e di subordinazione: potenza, denaro, superiorità, dominio, forza, gerarchia. L’Analisi fattoriale delle Corrispondenze. Questa analisi indica l’organizzazione delle classi e del genere dei partecipanti su due assi fattoriali. Il primo fattore oppone le classi 1 e 3 alla classe 2, la quale si riferisce al potere come risorsa simbolica e materiale, principio d’ordine sociale e di subordinazione. Tale fattore oppone inoltre le partecipanti ai partecipanti. Il secondo fattore oppone la classe 3 alle classi 1 e 2. Anche questo fattore oppone i partecipanti alla partecipanti. Le donne si situano nel quadrante superiore destro, caratterizzato dai lemmi: legge, governo, democrazia, giustizia, presidente. Gli uomini si situano invece all’interno del quadrante inferiore sinistro, il quale è caratterizzato dai lemmi potenza, forza, dominazione, denaro. Il termine denaro risulta essere quello meno associato al fattore. Sul primo asso si riscontra una netta opposizione fra un universo lessicale caratterizzato dai termini democrazia, governo, presidente e quello caratterizzato dai termini potenza e gerarchia. Il primo asse può esser di conseguenza denominato fattore delle origini e forme del potere. L’opposizione sul secondo asse, tra la legge da un lato e gli abusi e la dittatura dall’altro, permette di denominare tale asso come fattore del diritto/mancanza di diritto. Il quadrante superiore destro è quello dei principi legali e istituzionali democratici: la legittimità del potere è legata alle regole giuridiche e istituzionali. Il quadrante superiore sinistro è relativo ai principi di classificazione sociale: la legittimità del potere simbolico. Il quadrante inferiore destro è infine, quello relativo al principio di dominazione, definito sul piano morale.

Le concezioni del potere. Il potere è carico di significati; quale definizione gli attribuiscono gli studenti e le studentesse francesi che hanno preso parte alla ricerca della professoressa Galli? Nella nostra società si parla spesso di potere. A tuo avviso, cos’è il potere? Più di un quarto delle risposte si situano all’interno della più importante categoria: dominio. Seguono la categoria influenza e la categoria leadership. Le altre categorie rappresentano meno del 10% del corpus, l’idea che il potere sia riservato a Dio appare solamente in un caso. A cosa ti fa pensare il termine potere? Le diverse connotazioni del potere fanno emergere dei riferimenti agli attori del potere e alle istituzioni. Le categorie dominazione e attori del potere sono le prime per ordine di importanza. Poi seguono: forza, autorità, leadership e istituzioni, superiorità. L’idea che ci si fa del rapporto che la gente intrattiene col potere. L’idea relativa al rapporto che la gente intrattiene con il potere è stata investigata tramite diverse domande. La gente è prevalentemente descritta come desiderosa di potere (77,5%) piuttosto che come disinteressata ad esso (10%) o indifferente (10%). Tuttavia paradossalmente, in risposta alla domanda successiva, i partecipanti affermano che la gente preferisca obbedire (42%) piuttosto che comandare (30%) e per il 28% delle risposte l’atteggiamento delle persone dipende dalle situazioni. La paura del potere è spiegata principalmente attraverso l’idea della paura delle responsabilità e dall’incapacità o mancanza di competenze, in seguito dalla paura dell’insuccesso e dalla mancanza di autostima. La paura del potere è dunque descritta al 95% in termini di attribuzioni interne. Gli elementi tramite i quali si riconosce chi detiene il potere. Il 52,25% dei partecipanti afferma che una persona che detiene il potere non si riconosce da tratti psicologici particolari, il 42,5% indica, al contrario, l’esistenza di tratti fisici particolari e il 5% non si pronuncia in merito. D’altro canto, per una larga maggioranza dei partecipanti una persona che detiene il potere possiede dei tratti di personalità particolari: un carattere forte, del temperamento, un certo atteggiamento, del carisma. Queste disposizioni sono inoltre evocate in maggior misura rispetto alle caratteristiche legate all’apparenza: gradevolezza, la maniera di presentarsi. I giudizi sulla riconoscibilità del potere carismatico sono meno polarizzati rispetto a quelli sul potere in generale: si (47%), no (42,5%) e altro/NS (10%). Inoltre, esso è riconosciuto a partire da tratti psicologici distintivi, quali la capacità di persuadere e di convincere, la capacità di capire gli altri, l’estroversione, la simpatia e la socievolezza, la decisione e la prevaricazione. L’effetto del potere sulla gente e su se stessi. Alla domanda “il potere modifica le persone?” la risposta è si nel 90% dei casi. Alla domanda “come reagisci quando una persona esercita del potere su di te?” è invece la risposta dipende ad essere indicata più di frequente, rispetto al rifiuto della sottomissione e all’obbedienza. Quanto all’effetto su di sé procurato dall’esercizio del potere, esso fa sentire bene il 47,5% dei partecipanti, fa sentire male il 25%, non ha alcun effetto per il 10%, mentre il 17,5% dei partecipanti da una risposta inclassificabile o non si pronuncia affatto.

Discussione generale. Le diverse “concezioni” del potere in quanto oggetto polisemico e controverso sono state trattate a partire da due strumenti di raccolta dei dati: le associazioni libere e le interviste approfondite semi – strutturate. Analizzare le associazioni libere grazie al programma ALCESTE significa aderire ai principi teorici o metodologici sui quali tale strumento si fonda, ossia l’idea che sia possibile individuare la strutturazione delle rappresentazioni sociali sottostante all’enunciazione, ma anche che lo spazio lessicale di ogni termine è importante al fine di cogliere il senso del discorso, soprattutto per quanto riguarda la ricostituzione dei nuclei senso, o “universi lessicali” dei locutori. I risultati mostrano l’esistenza di alcuni nuclei di senso specifici. A livello di contenuto, si riscontra da un lato la pregnanza della dimensione politica e, dall’altro, in maniera più generale, i principi di legittimazione delle diverse forme di potere evocate nelle specifiche classi. A livello di forma, la loro organizzazione si articola attorno ad alcuni fattori esplicativi: le forme che il potere può prendere ed i principi retti dal diritto. L’ancoraggio specifico delle rappresentazioni sulla sola variabile “genere” rivela una lieve tendenza, solo per le partecipanti di genere femminile, ad attribuire al potere dei significati a connotazione politica ed istituzionale, soprattutto di tipo democratico, laddove i ragazzi evocano più spesso dei significati legati alle risorse simboliche e materiali come principio di subordinazione. L’analisi delle frequenze ha mostrato che i termini politica e denaro sono evocati più frequentemente rispetto a termini quali autorità, forza e sottomissione, questi ultimi più simili alle risposte fornite durante l’intervista. Si può allora ipotizzare che la consegna di evocare “le prime cose che vengono in mente” che accompagna le associazioni libere stimoli la generazione di significati meno controllati e più permeabili al discorso socialmente diffuso. La presentazione delle diverse concezioni del potere si è basata inoltre sull’analisi delle categorie tematiche ottenute a partire dalle risposte date alle interviste semi – strutturate. Questi punti di vista diversi possono essere spiegati evocando le specificità dei metodi impiegati: le caratteristiche della situazione di somministrazione e gli strumenti stessi di raccolta dati. Senza dubbio, sia l’intervista faccia a faccia che il tipo di domande poste possono rendere più accessibili alcuni elementi personali ed interpersonali. Inoltre, contrariamente alle associazioni verbali, le quali sono prodotte in una situazione, per definizione, limitante, grazie alla possibilità di esprimersi liberamente dei partecipanti, ma anche grazie alle loro competenze e alle caratteristiche proprie alla situazione, favorisce l’espressione di opinioni più complesse ed elaborate. Invitati dapprima ad esprimere la loro opinione sull’atteggiamento che la gente ha nei confronti del potere ed in seguito a spiegare perché alcune persone hanno paura di detenere il potere, i partecipanti alla ricerca di Ida Galli attivano dei processi socio – cognitivi ben noti. Nel primo caso, il dispositivo utilizzato favorisce l’espressione d’idee stereotipate, rivolte ad una categoria generica: la gente. Nel secondo caso, al contrario, il dispositivo induce alle attribuzioni casuali. Il contenuto delle risposte è allora coerente con i risultati delle ricerche sperimentali condotte in psicologia sociale. Nel primo caso, si tratta della pregnanza dei stereotipi che “non sono solamente delle credenze riguardo ai gruppi ma anche delle autentiche teorie che permettono di spiegare come e perché certe caratteristiche vanno di pari passo”, nel secondo caso, della presenza massiva di attribuzioni interne in termini di disposizioni personali.

Queste risposte sono caratteristiche della posizione nella quale si ritrovano i partecipanti alla nostra ricerca. Per quanto riguarda la gente in generale, a prima vista, i risultati sembrerebbero contraddittori. Nel tentativo di fornire un’interpretazione generale di questi risultati, si potrebbe allora avanzare l’ipotesi che il pensiero sociale sia fondamentalmente meno coerente rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare. Le modalità del pensiero del senso comune possono contraddirsi, nel momento in cui esse si riferiscono a contesti diversi. Il sapere relativo al potere è un sapere contestuale, sia che sia inteso a livello di comunicazione, sia che sia inteso, più in generale, come posizione sociale e culturale. Questo principio di non contraddizione è esaminato nell’ambito della teoria delle rappresentazioni sociali grazie alla nozione di “polifasia cognitiva” , ossia il fatto che “diverse modalità di pensiero coesistono frequentemente in uno stesso individuo”. Questa ipotesi è principalmente intesa come modalità di risposta situata, propria ad individui o gruppi e si riferisce alle funzioni sociali delle rappresentazioni sociali. Essa suppone una corrispondenza tra la funzione sociale da un lato e la struttura cognitiva e psicologia da un altro. Nell’interpretazione dei risultati è sicuramente preferibile essere prudenti. In questa sede i ricercatori preferiscono dunque proporre unicamente delle semplici piste interpretative. Una di queste consiste nel vedere nelle risposte date dai partecipanti l’espressione di una sottomissione liberamente consentita, in cui la volontà di potere si inserisce nell’ideologia del liberalismo. In questo caso il discorso prodotto sarebbe l’espressione del servilismo liberale, che caratterizzerebbe la nostra società e l’organizzazione del discorso, riprodurrebbe l’ideologia comune, velando le contraddizioni del locutore. Se ci soffermiamo sulle cause della paura che certi individui provano nell’esercitare il potere, qui descritte in termini di predisposizioni, ritroviamo dei contenuti focalizzati sui valori caratteristici del liberalismo e dell’individualismo. Se alcune persone hanno paura di esercitare un potere non è perché temono di nuocere agli altri, o di abusarne, ma perché temono di non essere all’altezza di questo esercizio. Le rappresentazioni del potere potrebbero essere considerate in quanto sistema di coping, dal momento che utilizzano le risorse sociali e cognitive del soggetto allo scopo di far fronte a questo oggetto controverso ed in costante trasformazione. Per quanto riguarda le domande relative all’effetto del potere sulla gente, la chiave d’interpretazione che permette di rendere conto dei risultati è ancora una volta quella del ruolo nell’ambito del processo d’attribuzione sociale. I risultati osservati indicano come le rappresentazioni sociali del potere siano tributarie delle posizioni occupate dagli intervistati nel loro particolare contesto socioculturale. Questi posizionamenti sociali non devono tuttavia essere operazionalizzati esclusivamente attraverso una o più variabili d’ancoraggio. Il modo di somministrazione e gli strumenti di raccolta, agendo come delle vere e proprie indicazioni, partecipano ai processi di attivazione degli ancoraggi e delle oggettivazioni messi in atto dai partecipanti. Conclusione generale. Oggetto controverso, oggetto di discussione e dalle molteplici implicazioni, il potere è oggetto di studio esemplare per una psicologia sociale che si dia come obiettivo quello di analizzare le dinamiche societarie, focalizzandosi sull’intervento delle regolazioni sociali e complesse sul funzionamento individuale, cognitivo, valutativo e decisionale. La teoria delle rappresentazioni sociali, nel suo proporre un’articolazione tra il

funzionamento cognitivo e il meta – sistema delle rappresentazioni, analizza l’impatto dei fattori sociali e culturali che determinano in quale modo gli individui concepiscono il potere. Ciò ci permette di chiarire le logiche sociali e culturali di cui le persone sono, allo stesso tempo, soggetti e oggetti.

Il fascino indiscreto del potere. Uno studio empirico nell’ottica teorica delle rappresentazioni sociali. Solo di recente i ricercatori si sono cimentati nella formulazione di teorie integrative sulle relazioni di potere, applicabili contemporaneamente alle relazioni interpersonali così come a quelle intergruppo. Doise sostiene che le teorie psicosociali tendono ad essere formulate in base a quattro differenti livelli di analisi, che possono essere situati su un continuum che comprende i livelli intrapersonale, interpersonale, intergruppo e ideologico. Le teorie relative al livello intrapersonale si interessano a come gli individui organizzano, cognitivamente ed affettivamente, le loro percezioni e valutazioni della realtà sociale. In esse gli attori appaiono distaccati o addirittura avversi al contesto sociale in cui si muovono. Le teorie che si collocano a livello interpersonale descrivono i processi affettivi e cognitivi che regolano le relazioni interpersonali negli incontri vis – à – vis che avvengono all’interno della diade o nel piccolo gruppo. Le teorie relative al livello intergruppo , dal canto loro, fanno riferimento ai processi psicologici di individui che si sentono e agiscono come membri di un gruppo, in virtù di un sentimento di membership che li vincola alla propria categoria di appartenenza, all’identificazione sociale, così come alla loro posizione di status e di potere ricoperta nella struttura sociale tipica delle società stratificate. Le teorie psicosociali formulate a livello ideologico si focalizzano su come le persone costruiscono sistemi di credenze e rappresentazioni sociali, al fine di legittimare, perpetuare o ricusare la propria posizione nella struttura sociale. Doise suggerisce che un dato fenomeno psicosociale possa e, a nostro avviso debba, essere analizzato attraverso concetti e teorie non riconducibili esclusivamente ad uno solo dei succitati livelli di analisi, ma a prospettive differenti, che li utilizzino tutti e quattro, in maniera complementare. L’Approach – Inhibition Theory of Power di Keltner, Grunfeld e Anderson, che si situa a cavallo tra i livelli intra ed interpersonale, colloca l’influenza del potere sul piano del comportamento individuale. Keltner e collaboratori, infatti, definiscono il potere come la capacità del singolo di modificare la condizione altrui, fornendogli o sottraendogli risorse, oppure somministrandogli punizioni. Le persone di potere hanno un relativo controllo sui risultati previsti dalle proprie azioni. Ciò significa che esse possono agire senza subire pesanti interferenze e costrizioni da parte di altri. Per contrasto, coloro che hanno poco potere hanno un controllo molto scarso sui risultati attesi delle loro azioni e tengono in considerazione le reazioni dei potenti prima di compiere una qualsivoglia azione, perché essi possono punirli, qualora disapprovino i loro comportamenti. Tra il livello interpersonale e quello intergruppo si colloca l’Asymmetrical Outcome Dependency Theory di Fiske e Dépret, secondo la quale individui o gruppi sono di potere quando i loro risultati dipendono dagli altri in misura minore di quanto i risultati di questi ultimi dipendano da loro. L’idea centrale di Fiske e Dépret è che le persone hanno un bisogno basico di controllo. Individui potenti e membri di gruppi potenti si trovano in una posizione confortevole perché hanno sempre il controllo della situazione. Di conseguenza essi possono permettersi di non prestare attenzione alle caratteristiche di coloro i cui risultati sono da loro stessi determinati. In alcuni casi i

potenti sono motivati a mantenere il controllo, mediante il ricorso ad informazioni consistenti con lo stereotipo, cioè informazioni che li aiutano a giustificare la loro posizione di superiorità. I powerless ed i membri dei gruppi privi di potere sono motivati a ripristinare una qualche forma di controllo. Essi generalmente lo fanno attraverso un sistematico information processing, relativo all’ambiente sociale, così come attraverso il ricorso ad informazioni di tipo più diagnostico: informazioni inconsistenti con lo stereotipo della loro inferiorità. Questa strategia viene abbandonata allorché gli esiti negativi di un’azione appaiono inevitabili o intollerabili. In questo caso i membri dei gruppi privi di potere tendono a ristabilire il controllo adottando un processing stile, biasato in senso motivazionale, che determina la tendenza a ricorrere ad informazioni più consistenti con lo stereotipo di powerless. Al livello intergruppo del continuum epistemologico di Doise si situa il Three Process Theory of Power di Turner. L’identità di gruppo rende le persone più unite e più potenti, fornendo loro un comune interesse per il Sé e costituendo un indubbio vantaggio. Essa produce influenza e l’influenza rende capace il gruppo di agire come un corpo unico, coordinato ed organizzato. Identità di gruppo e influenza conferiscono alle persone il potere derivante dall’agire collettivo e dallo sforzo cooperativo, in breve il potere di affrontare il mondo e perseguire obiettivi condivisi decisamente superiori a quelli che ciascun membro avrebbe ottenuto isolatamente. Turner considera il potere una conseguenza dell’influenza e che l’influenza sia, a sua volta, determinata dalla formazione psicologica del gruppo. Egli focalizza la sua attenzione su tre processi di influenza sociale: persuasione, autorità e coercizione. La persuasione si riferisce alla capacità di convincere la gente, specialmente i membri dell’ingroup, che una data decisione è corretta e valida. L’autorità è controllo fondato sulle norme dell’ingroup e sul diritto di controllare gli altri, soprattutto se questi appartengono al proprio gruppo. La coercizione è la tendenza a controllare gli altri contro il loro volere, se necessario anche con l’uso della forza, specialmente se si tratta di membri dell’outgroup. La coercizione indebolisce l’impatto della persuasione e dell’autorità, favorendo atteggiamenti e comportamenti resistenti e l’emergere di un potere in grado di controbilanciare la situazione, così che i soggetti che hanno subito la coercizione sviluppano un’identità collettiva distinta da quella dell’agente della coercizione stessa. Recentemente Simon e Oakes hanno proposto l’Identity Model of Power, anch’esso basato sulle teorie dell’Identità e della Self Categorization. Situato al livello intergruppo del modello di Doise, questo costrutto propone di considerare il potere non solo come una forza coercitiva e conflittuale, ma anche come una forza organizzatrice e in grado di produrre consenso. Individui e gruppi possono essere considerati “detentori di potere” qualora abbiano la capacità di dirigere gli sforzi altrui nella stessa direzione dei loro progetti. Il potere consiste nella capacità dei suoi detentori di “reclutare”, di inglobare nelle proprie strategie progettuali le azioni di persone ancora libere da vincoli. I detentori del potere esercitano potere spingendo gli altri a desiderare ciò che essi vogliono, manipolandone l’identità sociale. Secondo Simon e Oakes il tipico detentore del potere non è un dittatore violento e coercitivo, ma un “Impresario di identità”m che ne enfatizza alcune e ne marginalizza altre. La Social Dominance Theory di Sidanius e Pratto è stata messa a punto per comprendere i processi psicologici coinvolti nella costruzione e nel mantenimento delle gerarchie sociali fondate sull’appartenenza gruppale. Gli Autori suggeriscono che le gerarchie e le disuguaglianze sociali, basate sull’appartenenza di gruppo, incoraggiano le disuguaglianze e sono una caratteristica universale e ricorrente di

tutte le organizzazioni sociali umane. I gruppi dominanti governano in modo iniquo grandi e rilevanti quantità di risorse, come i beni materiali, la salute e il benessere, mentre ai gruppi subordinati sono collegati valori sociali negativi, come la povertà, la malattia e la mancanza di controllo sul proprio destino. La SDT propone che, mentre le forze che accrescono la gerarchia promuovono la disuguaglianza, le forze che controbilanciano la gerarchia l’attenuano e promuovono l’uguaglianza all’interno del gruppo. Gli individui con un alto orientamento alla dominanza sociale tendono a credere che la società sia necessariamente stratificata e che i membri del gruppo al top della gerarchia meritino la poro posizione dominante, mentre i membri dei gruppi di livello gerarchico più basso meritino la loro posizione subordinata. Sidanius e Pratto sostengono che le differenze individuali e di gruppo, nell’orientamento alla dominanza sociale, sono multi determinate, in funzione dei differenti processi di socializzazione, dei differenti temperamenti e personalità individuali, del genere e della posizione individuale all’interno delle gerarchie sociali fondate sull’appartenenza al gruppo. La SDT suggerisce che i membri di alto status di gruppi dominanti, che si identificano fortemente con il proprio gruppo, sono molto più propensi ad appoggiare l’orientamento alla dominanza sociale rispetto ai membri dei gruppi subordinati di basso status. Il “potere” si iscrive, di fatto, in una rete di relazioni con altri rilevanti oggetti sociali, anch’essi generatori di rappresentazioni, quali l’autorità, il dominio, l’influenza, ma anche la libertà, la democrazia ed i loro opposti. Infine, il “potere” si riferisce a norme ed a valori, sia generali, sia particolari, riconducibili all’etica, all’ideologia, alla religione ed agli interessi economici di specifici contesti culturali. Dunque, il potere è indebitamente oggetto di rappresentazione sociale. La componente informazione ed il campo semantico. Allo scopo di conoscere la componente informazione della rappresentazione sociale del potere, ad un campione di 120 studenti universitari (M=60; F=60) iscritti al primo anno di Corso delle Facoltà afferenti al Polo delle Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, è stato chiesto di associare 5 sostantivi al termine induttore potere. I soggetti di genere femminile hanno fornito 300 sostantivi, di cui 133 diversi tra loro. Allo stesso modo, anche i soggetti di genere maschile hanno associato all’induttore 300 sostantivi, di cui 144 diversi tra loro. A ciascuno dei soggetti intervistati veniva anche chiesto di motivare per iscritto la scelta di ognuna delle cinque parole fornite. Dunque, sia per le femmine, sia per i maschi, la parola più frequentemente associata al potere è denaro. Le somiglianze si riconducono allorché si considerano gli altri termini del campo semantico, indicati da almeno il 10% dei soggetti. In particolare, per le femmine il potere è strettamente legato alla forza (30%) ed all’autorità (25%). Altrettanto significative appaiono, per questi soggetti, le relazioni tra potere e successo (13,3%), così come tra cultura e politica (10%). Dal canto loro i maschi ritengono che il potere evochi concetti quali la forza (15%), l’autorità, il controllo ed il prestigio (11,7%). Il 10% degli intervistati, infine, menziona termini quali carisma, notorietà e politica. Nel comparare tra loro i campi semantici del potere, raccolti su campioni omologhi nel 1986, nel 1992 e nel 2006, i termini denaro, forza e politica sono costantemente associati all’induttore potere, a prescindere dal periodo in cui sono stati raccolti i dati. Se denaro, forza e politica costituiscono il nucleo stabile della rappresentazione sociale

del potere, studiato longitudinalmente, gli elementi che ne compongono la periferia cambiano nel corso degli anni, col mutare delle condizioni storico – sociali del Paese. Nel 1986, periodo in cui si conclude la fase denominata “anni di piombo”, la periferia della rappresentazione è fortemente ancorata alle idee ed al lessico del momento e viene definita da concetti quali dittatura, dominio, Stato e violenza. Nel 1992, periodo contrassegnato da “tangentopoli” la rappresentazione del potere ingloba nella sua periferia elementi quali celebrità, comando, influenza e responsabilità, condividendo con la fase precedente il tema dominante della corruzione. Infine, nel 2006 la periferia della rappresentazione del potere comprende i concetti di coercizione, leader e successo. Anche l’atteggiamento nei confronti del potere, così come le componenti informazione e campo semantico della sua rappresentazione, può essere analizzato in senso diacronico. Nella ricerca del 1986 potere e denaro erano valutati in maniera tendenzialmente negativa, mentre il dominio non risultava caratterizzato in modo netto. I risultati ottenuti in quel periodo mostrano che politica e Stato da una parte e dittatura e violenza dall’altro hanno determinato prese di posizione nette, mentre potere e denaro hanno dato luogo a giudizi sostanzialmente ambigui, sintomo di una sorta di ambivalenza dei soggetti nei confronti di questi due oggetti sociali. Nel 1992 le scale del differenziale semantico avevano determinato l’opposizione tra carisma e celebrità ed il concetto di corruzione. Denaro e ricchezza, risultavano molto vicini al pari di forza, potere e comando e, in seconda battuta di autorità ed influenza. Politica, infine si opponeva a responsabilità. Nella ricerca del 2006 il primo fattore è caratterizzato dall’opposizione tra carisma e successo da un lato, giudicati fortemente desiderabili, belli e giusti, e politica e coercizione dall’altro, considerate dai soggetti intervistati assolutamente illegittime, indesiderabili ed ingiuste. Il potere è strettamente legato ai concetti di forza ed autorità, evidenziando un possibile ancoraggio alle tesi proposte dalla scuola di Francoforte e da Adorno in particolare, nell’ambito dei suoi studi sulla personalità autoritaria. La collocazione centrale del potere all’interno dello spazio delimitato dagli assi cartesiani, trova la sua spiegazione nelle valutazioni ambigue che esso ha ottenuto sulle distinte scale del differenziale semantico. Nello specifico, mentre veniva giudicato inequivocabilmente forte, attivo, carismatico e desiderabile, il potere lasciava interdetti i soggetti circa la sua legittimità e giustezza, tant’è che essi lo valutavano servendosi essenzialmente dei punti medi delle scale. Teorie naif sul potere. Invitati a fornire una loro definizione del potere, indipendentemente dal genere, la maggior parte degli intervistati tende a considerarlo come un comando, un abuso, un imposizione della propria volontà, addirittura un disporre del destino degli altri, in sintesi un’attitudine a dominare gli altri. Questo dato viene ribadito dalle risposte fornite dai soggetti alla domanda “A cosa ti fa pensare la parola potere?”. Infatti il 65% dei maschi ed il 55% delle femmine affermano che l’idea del potere richiama alla mente quella del dominio. Altri soggetti identificano il potere con la capacità di influenzare gli altri, altri ancora lo considerano uno strumento utile a raggiungere i propri fini. Alla domanda “Secondo lei la gente vuole avere potere, non vuole avere potere, o non si interessa affatto del potere?” il 90% degli intervistati, a prescindere dal genere, afferma che le persone vogliono avere potere. Chiamati ad indicare se le persone di potere hanno caratteristiche fisiche particolari il

65% dei maschi e il 75% delle femmine rispondono in maniera negativa, al contrario, tutti gli intervistati concordano nel sostenere che le persone di potere sono contraddistinte da una serie di caratteristiche di personalità, quali il carattere, il carisma, l’attitudine, il temperamento o il modo di presentarsi. Le reazioni che gli intervistati dichiarano di avere, allorché viene esercitato un potere su di loro, dipendono essenzialmente dalle circostanze. Tuttavia il 25% dei maschi ed il 30% delle femmine intervistate manifestano la volontà di non sottomettersi mai e per nessun motivo. Quando la situazione viene ribaltata e ad esercitare il potere sono gli intervistati stessi, il 45% dei maschi ed il 40% delle femmine dichiara di provare sensazioni positive, mentre il 25% dei maschi ed il 40% delle femmine afferma di esprimere sensazioni negative. Provocati ad esprimersi sul perché le persone adulino i potenti, i soggetti sostengono che le principali motivazioni consistono nell’ammirazione, da un lato e nell’interesse personale e nel profitto, dall’altro. In percentuale minore vengono indicate la paura e la salvaguardia personale. Molti degli intervistati sostengono che il colore del potere è il rosso, perché considerato vivo, caldo, aggressivo, e perché ricorda il fuoco, il sangue, la guerra. Altri lo identificano con il nero, perché il potere è negativo, fa paura, è intenso, buio e freddo. Infine, c’è anche chi, pensando alle divise e agli abiti dei potenti, sostiene che il colore del potere è il blu. Alla domanda relativa alla possibilità o meno di immaginare una società senza potere, i soggetti intervistati hanno decretato che ciò è assolutamente impossibile, perché è necessario un capo visto che il potere è qualcosa che è sempre esistito e sempre esisterà. D’altra parte una società senza potere sarebbe dominata dal caos, perché l’uomo ha bisogno di essere governato. Solo una esigua minoranza dei rispondenti ha sostenuto, controcorrente, che una società senza potere non solo è possibile, ma auspicabile. La totalità dei maschi e la quasi totalità delle femmine si dimostrano molto ambiziosi, dichiarando apertamente le loro aspettative in questa direzione. A loro parere essi otterranno il potere attraverso l’impegno personale ed un forte coinvolgimento nel lavoro e nello studio. Una volta raggiunto il potere, la maggior parte degli intervistati, a prescindere dal genere, immagina di utilizzarlo per fini altruistici. C’è chi aiuterebbe “tutti gli altri”, chi tenterebbe di correggere il modo di funzionare del Paese e del mondo, chi darebbe una mano a familiari ed amici. Tuttavia esiste anche una quota di soggetti che più brutalmente dichiara che perseguirebbe unicamente i propri interessi. Conclusioni. Il nostro ambiente sociale è popolato di oggetti, persone, situazioni che rivestono una grande importanza per ciascuno di noi. Le informazioni di cui disponiamo su questi oggetti, su queste situazioni, su queste persone, così come le credenze che possediamo su di essi ci appartengono. Esse fanno parte della nostra individualità. Tuttavia, esistono anche oggetti, situazioni e persone che sono importanti per noi come per gli altri. il denaro, il dominio, il potere, sono altrettanti esempi di oggetti sociali che occupano largo spazio nella vita di tutti. Se parliamo di questi oggetti con gli amici, i familiari, i conoscenti, ci rendiamo conto che, nella maggior parte dei casi e fino ad un certo punto, le nostre conoscenze sono comparabili, al di là di effimere divergenze, esiste uno spazio comune di significati, di prese di posizione, di credenze e di aspettative. Ed è proprio per descrivere e spiegare come si forma questo tipo di

spazio comune che, più di quaranta anni fa, Moscovici, ha formulato la sua Teoria delle rappresentazioni sociali. I dati raccolti mostrano che la componente informazione, cioè la quantità e la qualità delle conoscenze possedute sul potere, rimanda innanzitutto alla fisionomia di colui che lo detiene, che viene descritto come qualcuno di autorevole, intelligente, colto, di aspetto gradevole e di successo, a testimonianza del fatto che, così come non può esistere una rappresentazione in assenza di un oggetto, non può esistere il potere il assenza di un soggetto. La componente campo della rappresentazione, cioè l’unità gerarchizzata degli elementi proveniente dell’informazione, è dominata dal denaro. Del resto, come ricorda Moscovici “il denaro è diventato per molti, il vero legame attuato dalla nostra società e il modello della nostra cultura. In altre parole, il ruolo che il denaro comunque ha svolto da molto tempo nello scambio, nella produzione, e nel potere, non è mai stato così determinante come oggi”. Personalmente, condividiamo le posizioni di quegli autori che individuano, come caratteristica fondamentale del denaro, la sua dipendenza da fattori sociali, o meglio, da atti di decisione sviluppati all’interno della miriade di transazioni interpersonali quotidiane. Un discorso a parte va fatto per i risultati di ricerca relativi alla componente atteggiamento della rappresentazione sociale del potere, che può essere considerata decisamente ambivalente. Nella definizione di atteggiamento è implicita l’assunzione che gli oggetti attitudinali possono essere valutati unidimensionalmente positivi, negativi o neutri e non simultaneamente positivi e negativi. Tale concezione non regge nel caso in cui ad un soggetto possa contemporaneamente piacere o non piacere un medesimo oggetto. Infatti, a prescindere dal genere, dal momento storico, tutti gli intervistati hanno fornito una valutazione ambigua dell’induttore potere, mentre hanno valutato positivamente le sue dimensioni più seducenti come il denaro, la ricchezza, il successo, il carisma e negativamente i suoi aspetti più brutali e respingenti, come la coercizione, il comando e la politica. Oltre che di cognizioni valutative, fonti di giudizi sulle qualità dell’oggetto, il contenuto di una rappresentazione si compone anche di cognizioni descrittive, utili a meglio definirlo, ci riferiamo alle opinioni, agli stereotipi e alle categorizzazioni raccolte nel corso delle interviste. Comunque, nonostante la conflittualità che contraddistingue il discorso sul potere, gli intervistati si sono dimostrati “più realisti del Re”, affermando di desiderare potere, nonostante la responsabilità che esso indubbiamente comporta, di preferire certamente comandare piuttosto che obbedire, di sentirsi bene nell’esercitarlo e di essere convinti di riuscire ad ottenere un potere nel corso della propria vita. del resto le persone di potere sono considerate oggetto di ammirazione da tutti i soggetti coinvolti nello studio. Sollecitati ad esprimersi su reali situazioni di potere, i soggetti hanno restituito elementi utili ad identificare i loro meccanismi di giustificazione e le loro strategie di legittimazione, che abbiamo riassunto in due grandi categorie. La prima, definita alla Beauvois e Joule “sottomissione liberamente consentita”, sintetizza quelle produzioni discorsive caratterizzate da un sentimento di libertà circa le possibilità di decidere se sottomettersi o meno a colui che detiene il potere. Il Papa che benedice i fedeli, il medico che visita la paziente ed il professore che tiene la sua lezione agli studenti rientrano in questa categoria grazie alla legittimazione derivante dal carisma, dalle competenze e dal ruolo e ai processi di giustificazione, tutti mediati dalle emozioni

fortemente positive sperimentate da chi detiene, ma anche da chi subisce il potere. La seconda categoria, definita alla Milgram “sottomissione all’autorità”, raccoglie quei discorsi improntati all’obbedienza, in presenza o in assenza di un vero e proprio comando. L’ufficiale che passa in rassegnala truppa, la moglie che serve il caffè al marito e la madre che controlla il figlio nello svolgimento dei compiti, sono esempi in tal senso, legittimati dall’esistenza di gerarchie relative allo status, al ruolo o all’età, nonostante i sentimenti ambivalenti che li accompagnano. L’obbedienza in questo caso acquista una configurazione di senso attraverso la relazione, divenendo inscindibile dalla natura del comando e dalla persona che lo emana. Il potere, dunque, non esiste se non attraverso le sue rappresentazioni sociali.

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