Punto Omega 12-13 - Alla Ricerca Delle Menti Perdute 2003

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Provincia Autonoma di Trento

Servizio Sanitario Provinciale

O

Punto mega

SPEDIZIONE IN A.P. - ART. 2 COMMA 20/B 45% - LEGGE 662/96 - DC TRENTO-

Quadrimestrale - Nuova serie - Anno V n. 12-13/2003

ALLA LLA RICERCA RICERCA DELLE MENTI PERDUTE PERDUTE

Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

Punto Omega Rivista quadrimestrale del Servizio Sanitario del Trentino Nuova serie Anno V/dicembre 2003 numero 12/13 Registrazione del Tribunale di Trento n. 1036 del 6.10.1999 © copyright 2003 Provincia Autonoma di Trento Tutti i diritti riservati. Riproduzione consentita con citazione obbligatoria della fonte Direttore Remo Andreolli Direttore responsabile Alberto Faustini Coordinamento redazionale ed editoriale Vittorio Curzel Redazione a cura del Servizio Programmazione e ricerca sanitaria

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Questo numero è stato realizzato con la collaborazione del MUSEO

STORICO

IN TRENTO

ONLUS

Hanno scritto per questo numero: Carmelo Anderle,

Renzo Anderle,

Pius Dejaco,

Valerio Fontanari,

Fabrizio Fronza,

Casimira Grandi,

Domenico Luciani,

Giuseppe Pantozzi,

Gian Piero Sciocchetti,

Rodolfo Taiani,

Lorenzo Toresini,

Alfredo Vivaldelli.

Grafica e impaginazione a cura del Servizio Programmazione e ricerca sanitaria Art Director Vittorio Curzel Progetto grafico Giancarlo Stefanati Editing Attilio Pedenzini Giovanna Forti Stampa Tipografia Alcione Trento

Provincia Autonoma di Trento Servizio Programmazione e Ricerca sanitaria Via Gilli, 4 38100 Trento tel. +39.0461.494037 fax +39.0461.494073 e-mail: [email protected] www.trentinosalute.net Il trattamento dei dati personali avviene in conformità a quanto disposto dalla legge 675/96, in modo da garantirne la sicurezza e la riservatezza e può essere effettuato attraverso strumenti informatici e telematici atti a gestire i dati stessi. Titolare del trattamento dei dati è la Provincia Autonoma di Trento con sede in Piazza Dante 15, Trento; responsabile il dirigente del Servizio Programmazione e ricerca sanitaria.

Il disegno di copertina e quelli alle pagg. 11, 16, 19, 20, 22, 24, 26, 28, 31, 33, 43, 46, 71, 73, 86, 89, 111, 112, 115, 126 sono di Bruno Caruso e sono tratti da “Dai luoghi della follia. Disegni del manicomio di Palermo 1953­ 1958 e oltre”. Edimond, Città di Castello (PG), 2000.

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Remo Andreolli Editoriale Alfredo Vivaldelli Il superamento dell’ospedale psichiatrico provinciale di Pergine Valsugana (Interventi al Seminario del 30 novembre 2001)

Lorenzo Toresini 15 Alla ricerca delle menti perdute: ragioni di un seminario a Trento Domenico Luciani 21 La terza utopia Gian Piero Sciocchetti 29 Edificazione di un manicomio Renzo Anderle 42 Un luogo per nuove politiche sociali Carmelo Anderle, Fabrizio Fronza 49 Il recupero del parco Casimira Grandi 74 Tracce per una riflessione (Altri interventi) Rodolfo Taiani 83 Un manicomio, una storia, un progetto Pius Dejaco 93 Il manicomio provinciale tirolese di Pergine (1912) Giuseppe Pantozzi 108 Il manicomio di Pergine, istituto interprovinciale

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anno cinque numero dodici/tredici

Valerio Fontanari 113 Gli infermieri di Pergine. Cento anni di storia Scheda 1 128 Il riuso organico dell’ex ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana Scheda 2 130 Bibliografia

“Serrati gli uni contro gli altri dalla crescita del loro numero e dalla moltiplicazione dei collegamenti, accomunati dal risveglio della speranza e dell’angoscia per il futuro, gli uomini di domani lavoreranno per la formazione di una coscienza unica e di una conoscenza condivisa”. Pierre Teilhard de Chardin “Punto Omega”, nel pensiero di Teilhard de Chardin, filosofo e teologo vissuto tra il 1881 e il 1955, è il punto di convergenza naturale dell’umanità, laddove tendono tutte le coscienze, nella ricerca dell’unità che sola può salvare l’Uomo e la Terra. “Punto Omega” è anche il titolo scelto per la rivista quadrimestrale del Servizio sanitario del Trentino ideata nel 1995 da Giovanni Martini, poiché le sue pagine vogliono rappresentare un punto di incontro per tutti coloro che sono interessati ai temi della salute e della qualità della vita.

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N

Editoriale

el processo di crescita e di progresso civile della società italiana la legge n.180/78 ha costituito certamente un significativo passo avanti, preve­ dendo la deistituzionalizzazione del malato psichiatrico e la sua integra­ zione nell’ambiente relazionale e so­ ciale di riferimento, anche attraver­ so modalità assistenziali di tipo co­ munitario, restituendo dunque a que­ sti individui la loro dignità di esseri umani. Credo che sarebbe un errore tornare indietro su questo punto, come vor­ rebbero le proposte di modifica della legge di riforma psichiatrica attual­ mente in discussione a livello nazio­ nale. Tali proposte non considerano infatti che i disagi, le sofferenze e anche le situazioni estreme che non di rado le famiglie di questi pazienti soffrono, non sono dovute al fatto che la normativa sia sbagliata, ma piut­ tosto al fatto che essa non è stata applicata nella sua interezza.

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Gli ostacoli e le difficoltà di attuazio­ ne che a 25 anni dall’approvazione della Legge Basaglia sono ancora pre­ senti, seppure a diversi livelli, sul ter­ ritorio nazionale, sono prima di tutto barriere di carattere culturale, espressioni del rifiuto di considerare le possibilità di cura e di riabilitazio­ ne della malattia mentale, superan­ do lo stigma di irrecuperabilità, di pa­ ura, di indifferenza e di emarginazio­ ne che la caratterizza. Sulla base di questi presupposti, in provincia di Trento abbiamo comple­ tato il processo di superamento del­ l’Ospedale psichiatrico di Pergine Val­ sugana pensando alla contempora­ nea costruzione di una rete integra­ ta tra sanità ed assistenza, con ser­ vizi residenziali diffusi sul territorio, sia per ricollocare i pazienti dell’ex

O.P., sia per i casi sorti dopo la sua chiusura nel 1978. Sono state create variegate tipologie di soluzione a se­ conda delle situazioni patologiche personali e dell’evoluzione delle stes­ se, per permettere ai pazienti di com­ piere un percorso orientato, per quan­ to possibile, verso la riacquisizione della socialità e dell’autonomia. In questo momento di riqualificazio­ ne dell’assistenza psichiatrica in Tren­ tino, proiettata alla piena realizzazio­ ne dei principi ispiratori della legge n.180, ci sono sembrate di particola­ re interesse le iniziative intraprese dal Museo Storico in Trento con l’in­ tento di ripercorrere la storia dell’isti­ tuzione manicomiale di Pergine Val­ sugana, nella sua progressiva trasfor­ mazione, nel suo rapporto con il ter­ ritorio e con l’evoluzione della comu­ nità locale, promuovendone la memo­ ria e lo studio, per riflettere e per in­ terpretare le dinamiche che hanno condotto nel tempo al suo supera­ mento e per ricordare, a monito per il futuro, la sofferenza e le vite delle donne e degli uomini persi e dimenti­ cati nel passato all’interno delle mura delle istituzioni manicomiali. A que­ sto tema è dedicato questo nuovo nu­ mero di Punto Omega, realizzato con la collaborazione del Museo, in occa­ sione dell’iniziativa “Alla ricerca del­ le menti perdute - Viaggi nell’istitu­ zione manicomiale”.

Remo Andreolli Assessore provinciale alle politiche per la salute

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Il superamento dell’ospedale psichiatrico provinciale di Pergine Valsugana Alfredo Vivaldelli

Le strutture psichiatriche tra storia e prospettive.

Sono stato tentato di titolare que­ sto mio contributo "l’Ospedale psi­ chiatrico provinciale c’è ancora" in reazione alla fretta che colgo nel ten­ tativo si scotomizzare l’esistenza di questa struttura. Mi riferisco ad al­ cuni articoli di giornali quotidiani apparsi in questi ultimi mesi "Dopo 120 anni sparisce il mani­ comio", "Il manicomio non esiste più", "La follia rimossa dalla men­ te: all’ex manicomio vivono anco­ ra, abbandonati e dimenticati qua­ rantatre sudtirolesi". Un altro motivo che mi spinge­ rebbe a sostenere questo titolo è la rapidità con cui si sono occupati gli spazi da sempre riservati ai pazienti per assegnarli ad altri servizi: scuo­ la, Villa Rosa, servizi vari. Se da un lato è da ritenere ragionevole che le amministrazioni si preoccupassero di trovare un idoneo riutilizzo degli spazi lasciati liberi dalla lenta ma progressiva riduzione del ricoverati, dall’altra sarebbe stato forse oppor­ tuno progredire nel rispetto dell’esi­ stente. Invece ora siamo "sfratta­ ti" da luoghi nati apposta per ac­ 4

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cogliere persone ammalate ma nel­ lo stesso tempo scomode e dob­ biamo trovare nuovi luoghi non facili da reperire come si può re­ gistrare anche dai contradditori interventi sui giornali. In questa prima parte del mio in­ tervento mi piacerebbe riproporre pubblicamente il problema di que­ sta realtà che sembra vissuto più come un ingombro che non come un bisogno da soddisfare. Nel tentativo di trovare una spiegazione di questo fenomeno, nella seconda parte af­ fronterò la clinica del mondo psico­ tico e della cronicità psichiatrica e nell’ultima parte approfondirò la questione della difficile avventura della presa in carico da parte degli operatori. I processi di deistituzionalizzazione L’ex Ospedale psichiatrico provin­ ciale ha cominciato la sua opera di deistituzionalizzazione nei pri­ mi anni settanta con la riorganiz­ zazione in “settori”. Non tutti ricordano che in precedenza l’ospedale era organizzato in reparti che ospitavano pazienti suddivisi per qualità e intensità della patologia. Con la “settorializzazione” si intro­ duceva il concetto della territoria­ lizzazione dell’assistenza psichiatri­ ca nel senso che ogni area geografi­ ca del territorio trentino aveva in Ospedale psichiatrico il suo reparto seguito dalla stessa équipe di medi­ ci, assistenti sociali, infermieri e as­ sistenti sanitarie, con il compito di seguire il paziente nel suo percorso clinico sia dentro che fuori dall’Ospe­ dale psichiatrico.

Questa organizzazione, seppure all’epoca molto criticata in Italia, ha permesso una lenta e monitorata ri­ duzione dei ricoveri tanto che la leg­ ge 180 del maggio 1978 non ha vi­ sto l’esodo e l’invasione delle nostre città e paesi da parte degli ex OP (come venivano chiamati in modo piuttosto dispregiativo i pazienti di­ messi) come invece avvenne in altre città d’Italia. Questa legge ha totalmente spo­ stato l’asse dell’intervento sul terri­ torio e in provincia di Trento si sono immediatamente organizzati undici centri di salute mentale con quattro servizi psichiatrici di diagnosi e cura (dall’inizio di quest’anno sono tre per la chiusura del servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Mezzolombar­ do). Dopo il dicembre 1981 in Ospe­ dale psichiatrico non fu più possibi­ le ricoverare, ma erano ancora pre­ senti circa cinquecento persone. Da questo momento l’attenzione dei tecnici operanti sul territorio si concentrò sul cercare nuove tecni­ che e far nascere nuove strutture che rispondessero adeguatamente ai bi­ sogni dei pazienti, delle famiglie e della società prendendo a riferimen­ to le più moderne concezioni ezio­ patogenetiche e di cura della soffe­ renza mentale È stata una ricerca in­ tensa con uno stimolo continuo a studiare, sperimentare, verificare le teorie delle diverse e spesso contrap­ poste scuole di riferimento che ha portato la psichiatria trentina ad alti livelli nel panorama nazionale. Purtroppo anche per gli addetti ai lavori operanti sul territorio, l’Ospedale psichiatrico provinciale Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

cadde nel dimenticatoio tanto che si interruppe quel rapporto tra ospe­ dale e territorio garantito della set­ torializzazione. L’Unità operativa del­ l’ospedale psichiatrico faticava molto a coinvolgere le unità operative ter­ ritoriali su progetti di dimissioni no­ nostante uno stimolo continuo ve­ nisse dal Dipartimento di psichiatria, sollecitato peraltro anche dalle leg­ gi nazionali e dai provvedimenti pro­ vinciali. Nel 2001 dopo una attenta rico­ gnizione da parte di una commissio­ ne del Dipartimento di psichiatria che ha portato alla sistemazione alter­ nativa di alcuni pazienti e in occa­ sione dell’inaugurazione del rinno­ vato reparto "Pandolfi", la popo­ lazione dell'Ospedale psichiatrico, che era ancora di 185 persone, venne distribuita in tre aree: psi­ chiatria, geriatria e disabilità. I pazienti con prevalenti problemi geriatrici vennero collocati nel re­ parto Pandolfi, quelli con proble­ mi di disabilità al Perusini II e III piano e i pazienti con prevalenti problemi psichiatrici vennero sud­ divisi in un reparto più assistito al I piano Perusini e in alcune case famiglia ospitate al reparto Bene­ detti. Nel dicembre 2001, con delibera n. 3356, la Giunta provinciale asse­ gna all'Azienda provinciale per i ser­ vizi sanitari l’obbiettivo di superare entro il 2002 l’Ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana e ricollocare i pazienti in residenze sanitarie assi­ stenziali e strutture psichiatriche. Quando nel febbraio 2002 arrivo a Pergine con l’incarico di direttore dell'Unità operativa 3 di psichiatria, 5

Il superamento dell’ospedale psichiatrico

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tra gli altri, mi confronto con que­ sto obbiettivo enorme non tanto sul piano formale ma piuttosto sul piano culturale. Si lavora su più fronti: con l’Azienda provinciale servizi sanitari, con il personale, con i famigliari, con il Tribunale dell’ammalato, con l’Unità di va­ lutazione multidimensionale, con i pazienti, con i tutori, con il Tri­ bunale civile, con gli uffici ammi­ nistrativi, con i Medici di medicina generale, con i vari gruppi di vo­ lontariato, con il Centro di salute mentale di Pergine e con sporadi­ ci contatti con pochi altri centri di salute mentale, con il tempo. Vi risparmio l’interessante proces­ so che ha portato alla delibera del Direttore generale dell'Azienda pro­ vinciale servizi sanitari n. 1314 del 29 ottobre 2002 con il quale si san­ civa il definitivo superamento del­ l’Ospedale psichiatrico provinciale e la possibilità di parlare legittima­ mente da questo momento di ex Ospedale psichiatrico provinciale. I

pazienti con questa delibera veni­ vano ricollocati in una residenza sanitaria assistenziale, in sette re­ sidenze psichiatriche (le nostre case famiglia) e una residenza sa­ nitaria assistenziale psichiatrica. Vi mostro la consistenza delle nostre strutture con alcuni dati ag­ giornati al primo gennaio 2003 (Tab.1). Le giornate di degenza in ospeda­ le psichiatrico nel periodo 1 genna­ io-31 ottobre 2002, sono state 52.521, così suddivise per provincia di provenienza degli ospiti e sesso (Tab. 2). Le giornate di degenza nelle strutture residenziali nel pe­ riodo 1 novembre-31 dicembre 2002, sono state 10.313, così sud­ divise per provincia di provenien­ za degli ospiti e sesso (Tab 3). La situazione del personale in servizio presso le strutture assisten­ ziali sorte a seguito della chiusura dell'ex Ospedale psichiatrico alla data del 31 dicembre 2002, è la seguente.

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Il superamento dell’ospedale psichiatrico

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La clinica del mondo psicotico e della cronicità Tutto questo per dire che il Distret­ to sanitario dell’Alta Valsugana e l’Unità operativa 3 di psichiatria si stanno occupando ancora di una re­ altà fatta di uomini e donne parti­ colari che troppo presto viene lascia­ ta alla memoria e relegata in luoghi che non sono più quelli abitati per decenni.

Come accennavo all’inizio di que­ sta relazione la facilità con cui si rimuovono o si negano attraverso la sublimazione questi personaggi mi ha fatto riflettere sul significato del­ le reazioni non solo della gente co­ mune ma anche degli addetti ai la­ vori. Per poter mettere un po’ di luce su queste questioni credo che ci venga in aiuto la clinica del mon­

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do della psicosi e della cronicità. Il nucleo originario della psico­ si si colloca nella primissima infan­ zia: il bambino alla nascita entra in una intensa relazione con la madre di mutua seduzione come dice Racamier. All’inizio questa se­ duzione mira a stabilire e perse­ verare un accordo perfetto, senza sfumature, senza tensioni. Questa modalità relazionale è vitale in quanto esclude o quanto meno neutralizza le tensioni che proven­ gono dall’interno e dagli stimoli che arrivano dall’esterno. La ma­ dre e il suo bambino vivono in una profonda ammirazione reciproca, in una relazione di amore incon­ dizionato e acritico, in una fusio­ ne, in un unisono narcisistico che aspira a costruire un unico corpo. In questa fase della vita del bambino e della sua mamma qual­ siasi differenza è foriera di un pe­ ricolo di separazione con il dolore che ne consegue. Con il passare del tempo e con l’aiuto dell’ambiente il bambino scopre il desiderio del­ la esplorazione, della conoscenza e nello stesso tempo la madre si riappropria della sua vita di adul­ ta. È questo processo che mette fine all’incantesimo del narcisismo ideale; il bambino comincia a di­ stogliersi dalla madre indistinta, illusoria e totale nella quale incar­ na la relazione di seduzione narci­ sistica pura e distogliendosene comincia a perderla. Freud, Ferenzi, Winnicott, Raca­ mier, sono alcuni autori che ben hanno descritto il lutto che ognu­ no di noi ha affrontato dovendo rinunciare a questa illusione di on­

nipotenza e di appartenenza tota­ le alla madre per scoprire un og­ getto-madre distinta, che si può investire, che si desidera, che si respinge, che si delimita, che si interiorizza, che si ama e che si odia. Kestemberg afferma la ma­ dre "viene ritrovata come oggetto vero e proprio in quanto viene a poco a poco perduto come ogget­ to di possesso assoluto". Contestualmente alla nascita del­ l’oggetto-madre esterno cominciano a mettersi le basi dell’Io e quindi del senso della propria esistenza È proprio questo evento che i pa­ zienti psicotici non accettano e con­ tro il quale protestano per tutta la vita e con tutte le loro energie in una lotta defatigante e inconsape­ vole. Sassolas afferma che la psicosi è "un macchinario difensivo nel quale si esaurisce tutta l’energia psichica di coloro che rifiutano di esistere perché esistere significa ri­ conoscersi come separati, esiliati per sempre dalla pienezza del nar­ cisismo primario. Limiti, separa­ zione, morte, altrettanti sinonimi per loro, altrettanti volti della stes­ sa condizione inaccettabile: que­ sto maledetto destino che è il no­ stro di aver all’inizio conosciuto la pienezza senza limiti del narcisi­ smo primario alla quale in seguito bisogna continuamente rinuncia­ re. La psicosi rappresenta il rifiuto di vivere questo esilio, il rifiuto di esistere, di avere una identità de­ finita, per non dovere soffrire la tor­ tura quotidiana della separazione sia da un bambino meraviglioso che tutti siamo stati che dalla madre narcisi­ 9

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stica depositaria di questa perfe­ zione perduta". Nella relazione con il mondo il paziente psicotico ripropone questa sua modalità che arriva a noi con una forza spaventosa. Non è quindi la paura fisica che ci tiene lontani da queste persone ma la potenza dolorosa di una relazione simbiotica che inconsciamente intuiamo come minaccia per il nostro equilibrio. Ancora Sassolas dice: “non ingannia­ moci sul motivo che conduce tali pazienti verso di noi: se ci cercano e investono la nostre strutture psichia­ triche è perché la relazione simbio­ tica con un famigliare non si è po­ tuta stabilire in maniera sufficien­ temente stabile per svolgere la sua funzione difensiva ed è per questo che sono alla ricerca di una situa­ zione dello stesso tipo capace di pro­ teggerli contro l’angoscia psicotica di viversi separati, nel loro essere soggetti mortali, finiti. Queste per­ sone si pongono nei nostri confron­ ti con precauzione, con sospetto, troppo passivi, senza grandi richie­ ste proprio perché intuiscono i pun­ ti deboli del proprio funzionamento psichico e cercano di porvi rimedio tenendoci lontani. In questo modo si proteggono dalla fragilità delle loro strutture psichiche suscettibili di andare in frantumi sotto l’effetto delle ferite e degli stimoli intensi che possono nascere dagli imprevisti di ogni relazione”. Ogni relazione umana riattiva, in­ fatti, una serie di stimoli interni e quindi impone di essere presenti alla propria attività mentale intesa come l’intrecciarsi di sogni, desideri, pen­ sieri spontanei, fantasmi, ricordi sen­

timenti, affetti, ecc., ma questo per il paziente psicotico risulta insop­ portabile perché fonte di pericolo e di dolore. Contro questi stimoli interni il paziente si attrezza per annullarli con un dispendio di energie percepito con un senso di sfinimento psichi­ co, di adinamismo mentale la cui intensità dà la misura dell’energia psichica spesa. A noi il contatto con queste persone lascia un senso di povertà di contenuto dell’incontro, di aridità che testimonia il vero e proprio essiccamento della vita psi­ chica così che i pazienti ci appaiono non solo privi di desideri e di pro­ getti ma anche senza identità, senza passato, senza storia, in definitiva senza vita. Spesso il paziente psicotico deve far fronte agli stimoli interni che si presentano sotto forma di allucina­ zioni e deliri che, parassitando il loro pensiero in maniera tirannica, com­ promettono le funzioni dell’Io e il fondo psichico in modo talmente esplosivo da rendere impossibile qualsiasi contatto con il mondo esterno. Il fondo psichico descritto da Cor­ reale partendo dalla psicologia del Sè rappresenta il modo con cui ogni individuo sperimenta, in un certo momento, il proprio senso di coe­ sione, di continuità e di vitalità. Il fondo psichico non è legato a una singola immagine o rappresentazio­ ne ma è invece il prodotto di una trama, di un fitto intreccio di fatto­ ri in larga parte cenestesici, tattili e affettivi che fanno sentire la propria presenza come uno sfondo su cui si collocano gli eventi della vita.

Bruno Caruso, Il coro del manicomio, 1954, particolare.

La crisi psicotica acuta è carat­ terizzata dal fatto che il paziente percepisce un improvviso crollo dell’integrità del suo fondo psichi­ co. Con le parole di Correale: “ciò che normalmente veniva sentito come relativamente fluido, ordina­ to e continuo, comincia invece a essere sentito come spezzato, di­ sordinato e confuso. L’oggetto di­ venta bizzarro, misterioso e inaf­ ferrabile e per quanto ne sia rico­ nosciuta la natura nell'ambito del­ l'uso abituale, sembra acquisire significati misteriosi i quali riman­ dano a mondi oscuri che per la prima volta si manifestano. Nel momento stesso che il fondo su­ bisce massicce trasformazioni, il soggetto si sente diviso in parti, o troppo dilatato o troppo coarta­ to, e il senso stesso del tempo su­ bisce drastiche modificazioni”. Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

Il ricordo di questo doloroso senso di caos e la sensazione che nulla possa tornare come prima, orientano il paziente verso due obbiettivi fondamentali: il primo evitare sistematicamente e conti­ nuativamente ogni situazione traumatica che anche lontanamen­ te rievochi ciò che ha determinato la crisi, il secondo un controllo ossessivo su tutti gli aspetti della vita quotidiana che gli dia la sen­ sazione di una vigilanza distanzia­ ta da tutto ciò che può accadere. Il prezzo di questa operazione è la caduta del senso della prospetti­ va e tutto viene vissuto in una spe­ cie di eterno presente dove il piace­ re deriva esclusivamente dall’intera­ zione con pochi oggetti sempre uguali ai quali il paziente attribu­ isce un senso di saturazione e co­ noscibilità e dai quali si attende 11

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soltanto il messaggio che il mon­ do è circoscritto, chiaro, preciso e privo di incognite. È qui che può aprirsi la strada della cronicità come rappresenta­ zione del crollo della speranza e l’inaridimento delle energie psichi­ che o l’abnorme reinvestimento. La cronicità rappresenta la regressio­ ne rigida a livelli di funzionamen­ to mentale estremamente arcaici e il ritiro desolante degli investi­ menti dalla realtà. Pur di tenere accesa l’ultima fiammella di so­ pravvivenza del Sé, si ritorna alla difesa narcisistica primaria. La cro­ nicità è la mancanza di soggettivi­ tà, l’astoricizzazione della perso­ na, la perdita della progettualità per un’esistenza fissa nella ripeti­ tività, nella staticità, priva di ogni creatività. Questo inquadramento del mondo psicotico e della cronicità rendono forse più comprensibile la difficoltà per chiunque di mantenere una rela­ zione anche superficiale con questi soggetti. Non nella paura, non nello stigma, non nel pregiudizio, non nel­ la vergogna, ma nell’angoscia che trasuda nel contatto con questo mondo dobbiamo cercare il motivo per cui i "matti" venivano (e ven­ gono ancora adesso) esclusi e i ma­ nicomi venivano costruiti nelle pe­ riferie delle città, il motivo per cui del nostro Ospedale psichiatrico pro­ vinciale per anni se ne è parlato come se fosse chiuso e ora si tolgo­ no spazi prima ancora di aver trova­ to le alternative, il motivo per cui i gruppi di volontariato, tanto attivi nelle residenze sanitarie assistenzia­ li, dove i pazienti sono anche più

complessi dal punto di vista clini­ co, hanno rinunciato a collabora­ re su nostri progetti, il motivo per cui i centri di salute mentale terri­ toriali non si impegnano come per altri pazienti a volte anche molto più problematici, il motivo per cui la città tende a cancellare rapida­ mente i segni dell’esistenza del suo ospedale. L'area di intervento dell'operatore psichiatrico In questo contesto si colloca il la­ voro degli operatori delle strutture psichiatriche. Izzo afferma che la cronicità psicotica obbliga il tera­ peuta a modificare la posizione e il modo in cui vede l’incontro e la com­ prensione dell’altro poiché spesso deve fornire a questi pazienti la pri­ ma esperienza di un ambiente vita­ le. In primis il terapeuta si trova a proporre un ambientale attento ad ogni elemento dell’esperienza re­ lazionale, per trasformarla da sem­ plice stereotipo senza qualità vi­ tali e utilizzata per la sopravviven­ za del Sé, in elemento strutturan­ te il Sé. L’intervento terapeutico si carat­ terizza per il tentativo di proporre esperienze significative che da una parte attivino un processo di svilup­ po e dall’altra forniscano sollecita­ zioni in grado di riaprire la possibi­ lità di partecipazione a quell’area vitale che Winnicott chiama “area dell’esperienza culturale”. Perché ciò avvenga è necessario che ogni piccolo gesto che ogni piccolo cambiamento, ogni piccola crea­ zione venga riconosciuta e valo­ rizzata dall’operatore e il tutto

venga restituito al paziente arric­ chito di nuove cariche vitali. Il bagaglio tecnico dell’operatore non è di per sé sufficiente se non viene collocato all’interno di una di­ mensione intersoggettiva. Il pazien­ te, infatti, ha bisogno di esperire una relazione con una persona che gli si ponga come “officina della men­ te”, un’officina nella quale compie­ re quelle operazioni negate dal­ l’ambiente primario. In questo spa­ zio relazionale e su questa perso­ na il paziente deposita alcuni af­ fetti, alcune emozioni, alcuni pen­ sieri, alcuni desideri, ritenuti trop­ po dolorosi da sostenere da soli. L’operatore deve quindi prestare se stesso per vicariare quelli strumen­ ti assenti ma non necessariamen­ te mancanti al paziente, accettan­ do di porsi in aree dello sviluppo molto primitive e di conseguenza molto angoscianti. Gli scopi della cura del paziente psicotico possiamo riassumerli in questo modo: da una parte condurre il paziente a poco a poco alla capa­ cità di sentire i suoi limiti, di espri­ merli senza essere distrutto dall’odio che provoca in lui il riconoscimento della doro esistenza, di dirli invece di negarli come ha fatto finora con il delirio e le allucinazioni o stabi­ lendo relazioni simbiotiche, in altre parole uscire dal mondo rassicuran­ te della psicosi per accettare il lutto primario descritto da Racamier e sen­ tire nascere una propria soggettivi­ tà, una propria identità senza l’ine­ vitabile terrore della separazione e della morte. Dall’altra il delicato ten­ tativo di costruire o ricostruire il fondo psichico inteso come la sen­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

sazione fisica di coesione, continui­ tà e vitalità. In questa impresa l’ope­ ratore deve accettare l’uso che fa di lui il paziente per la continua tessi­ tura di una trama molto delicata e sottile, facilmente soggetta a frat­ ture e lacerazioni. L’operatore con il suo modo di porsi, con la sua com­ petenza e la sua professionalità è responsabile di garantire la continui­ tà e l’esistenza senza sentirsi respon­ sabile anche della trama che invece è del paziente essendo sua e solo sua la sua vita. L’operatore e il servizio quindi devono creare una situazione in cui possa organizzarsi il fondo psichico attraverso una relazione caratteriz­ zata da un senso di calore, continui­ tà, fluidità, vitalità e personalizza­ zione. Il paziente cercherà di stabilire con noi una relazione senza tempo, senza fine, in sintesi una relazione simbiotica. Noi dobbiamo rinuncia­ re a questa chimera di una relazione stupenda, eterna, senza conflitti. Dobbiamo invece strutturare una re­ lazione vissuta dal paziente come affidabile, ma nello stesso tempo come lacunosa, insufficiente, inca­ pace di colmare tutti i suoi limiti e di rispondere subito alle sue attese onnipotenti che attivano facilmente le altrettanto onnipotenti concezio­ ni di una certa psichiatria. Questa struttura deve essere solida per re­ sistere agli sbalzi prodotti dalla sof­ ferenza e dalla collera del paziente di fronte alla nostra incapacità o al nostro rifiuto di svolgere questa funzione simbiotica. Sofferenza e collera che l’operatore deve esse­ re in grado di accogliere per po­ 13

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terla restituire senza la carica di­ struttiva che tanto spaventa il pa­ ziente. Questo modo di offrici ha una alta funzione terapeutica per­ ché smentisce i fantasmi del pa­ ziente di pericolosità della sua stessa vita psichica attraverso il mantenimento della nostra rela­ zione con lui e la persistenza del nostro interessamento per la sua vita psichica, i suoi affetti, i suoi investimenti, i suoi pensieri. Strutturare una situazione in cui calore, fluidità, vitalità e persona­ lizzazione costituiscano gli elemen­ ti per la strutturazione di un fondo psichico aiutano il paziente a creare un senso di famigliarità con il mon­ do esterno. Abbiamo visto come il paziente psicotico tenda a sostituire questo senso con la sterotipia e il ripetersi coattivo degli eventi. Ogni nostro intervento può cadere nella trappola della ripetizione coatta de­ gli eventi, tocca a noi uscire dal tor­ pore della cronicità per fornire un ambiente in cui il ripetersi regolare delle azioni, dando un senso di noto, di riconoscibile e quindi di apparte­ nenza, possa continuamente fornire l’occasione per l’attivazione di pic­ coli traumi-legami, separazioni, fru­ strazioni, distacchi, responsabilità, che in passato hanno rappresentato fattori scatenanti della frammenta­ zione del Sé e che oggi possono in­ vece essere attraversati con l’aiuto degli operatori e del gruppo in un lento processo terapeutico. Conclusione Sono partito dall'osservazione di un costante e diffuso, anche se for­ se inconsapevole, bisogno di ne­

gare l’esistenza dell’Ospedale psi­ chiatrico provinciale. Mi sembra ora più facile comprendere i mec­ canismi inconsci che si attivano in chiunque si incontri anche casual­ mente e per brevi momenti con questi pazienti. Loro ci pongono una richiesta sul piano relazionale specifica: una relazione simbio­ tica in cui esiste solo l’Io onnipo­ tente e l’altro non esiste se non come parte dell’Io deputato a sod­ disfare ogni bisogno prima anco­ ra che sia elaborato come deside­ rio. Noi tutti abbiamo sperimen­ tato nelle prime fasi della nostra vita una esperienza così piena e totale per la quale ognuno nutre una inconsapevole nostalgia e ver­ so la quale ognuno di noi tende­ rebbe se non si conservasse anche l’inconscio ricordo del dolore e della fatica che ha comportato ela­ borazione del lutto primario.

NOTE [*] Il coordinamento della Resi­ denza sanitaria assistenziale è affidato a due medici conven­ zionati con l’Azienda provin­ ciale per i servizi sanitari. Il coordinamento delle residen­ ze psichiatriche è affidato ad un medico del Centro di salu­ te mentale di Pergine

Alfredo Vivaldelli è Direttore dell’Unità Operativa 3 di Psichiatria dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari.

Alla ricerca delle menti perdute: ragioni di un seminario a Trento Lorenzo Toresini

Il passaggio dall’utopia della terapia nell’istituzione alla cura nello scambio sociale e nella collettività. La Mitteleuropa e lo sviluppo della cultura psichiatrica.

La prima domanda da porsi è la se­ guente: perché parlare oggi di ma­ nicomi? È una domanda intrigante poiché viviamo da ventitré anni in era di post-manicomi . Quindi inizio, se mi è consentito, con un flash personale Mi sono laureato a 25 anni e ho ini­ ziato la mia professione di psichia­ tra a Trieste (oggi sono direttore del Dipartimento di salute di Merano). A Trieste, come è noto, venne messo in discussione e venne sciolto il pri­ mo manicomio in Italia dopo l’espe­ rienza di Gorizia. Ho iniziato nel 1971. Nel nostro fervore "taleba­ no" di allora (lo dico evidentemen­ te scherzando) arrivammo ad es­ sere convinti che di quel manico­ mio, allora retto da Franco Basaglia, non sarebbe dovuta rimane­ re pietra su pietra. Credevamo ve­ ramente a questa affermazione e a questo progetto. In quella che al­ lora era una “Istituzione Totale” è avvenuto il decentramento totale delle strutture e delle risorse e, come diceva Franco Basaglia, si è attuato il rovesciamento "come un Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

guanto" dell’ospedale psichiatri­ co. Il personale, tutti i servizi an­ nessi e connessi, la gente che ci stava dentro, tutto con la neces­ saria gradualità e delicatezza, ma anche con l’indispensabile deter­ minazione, venne spostato da den­ tro le mura al territorio. Cosa si sa­ rebbe dovuto fare quindi delle strutture murarie, i diversi padiglio­ ni di quello che man mano stava diventando ex-manicomio, che nel frattempo rimanevano svuotati di sofferenza e dolore? Eravamo con­ vinti all’inizio che si sarebbe do­ vuta attuare una “delenda Cartago”. Quel tipo di pensiero me lo sono portato dietro fino a non moltis­ simi anni fa, quando ho fatto un viaggio allo “Steinhof” di Vienna con un architetto romano, un cer­ to Luggini e un mio carissimo ami­ co: Tommaso Losavio, collega e già direttore del “Santa Maria” di Roma. Andammo a vedere lo Steinhof e poi il prestigioso Bur­ gkhölzli di Zurigo. Premetto la mia convinzione del fatto che quando noi psichiatri re­ stiamo all’interno del nostro ambito professionale rischiamo di impove­ rirci di pensieri e di stimoli, quindi il confronto con altre professionali­ tà e con altri pensieri è sempre mol­ to utile. Ebbene quell’architetto mi convinse di una cosa ovvia, dicen­ domi che i manicomi devono restare come monumenti alla memoria, per riflettere. Di quanto affermo ora mi convinsi ulteriormente ripensando a quanto era successo pochissimi anni prima al muro di Berlino. Il muro di Berlino, come si sa, fu smantellato al 90–95%, però mio figlio quando 15

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si trovò a Berlino andò alla ricerca del muro, perché evidentemente c’è bisogno di tracce, di simboli, di sup­ porti educativi della memoria stori­ ca. Bisogna che il muro resti a mo­ nito degli errori della Storia e a me­ moria delle future generazioni. Ora noi psichiatri abbiamo abbastanza fa­ miliarità con i muri e col problema, meglio con tutta la congerie di pro­ blemi, legati alla simbologia dei muri. Oggi dobbiamo essere fermi nel capire che di muri dobbiamo parlare e per parlare di muri deve esserci la memoria storica di questi ultimi. La memoria storica del manicomio deve rimanere a futuro motivo di rifles­ sione per noi, innanzi tutto sulle ra­ dici, sulla genesi e sul significato della nostra professione, e per il mondo circostante: per riflettere sul senso di quello che significavano quei muri. Non erano muri qualsia­ si, ma erano muri deputati alla se­ parazione tra quanto stava fuori ed era normale (quindi automaticamen­ te era normale solo perché stava fuo­ ri), e di quanto sta dentro di anor­ male, di insensato, di irrazionale (e che diventava tanto più insensato, irrazionale, sragionevole, pericoloso per il semplice fatto che stava den­ tro). Questa è una lezione che io cre­ do ci servirà sempre, ed è bene par­ lare oggi di manicomi. Paradossalmente credo sia sem­ pre più facile parlare di manicomi, anche se non è ancora facilissimo, dato che si tratta pur sempre di un problema ancora in via di supera­ mento. Un superamento che d’al­ tra parte non avrà mai fine: il pro­ blema che Franco Basaglia chiama­

va ironicamente, ma anche molto seriamente, il “fascino discreto del manicomio”, parafrasando un ben noto film: “Il fascino discreto del­ la borghesia di Buñuel”. Io credo che il manicomio abbia un fasci­ no…, un fascino discreto e pro­ fondo. Personalmente io sono nato in un’istituzione, perché mio padre, dopo la fine della guerra, tornato dalla Germania, ebbe un posto in un gerocomio di Venezia, l’ospedale per anziani “San Lorenzo” e i miei ricor­ di infantili, i miei sogni sono perva­ si di questa situazione strutturale in

Bruno Caruso, Il sergente Campanella, disegno acquarellato, 1954.

cui c’erano questi vecchietti che sta­ vano lì (naturalmente io ero il fi­ glio del dottore). La vita istituzio­ nale, la gerarchia, l’ordine, la se­ rializzazione, che poi abbiamo evi­ dentemente combattuto dall’inter­ no nel lungo cammino dentro le istituzioni, cammino che poi ha preso il nome di “deistituzionaliz­ zazione”, in qualche modo affasci­ nano. E in genere affascinano so­ prattutto chi sta al di qua della barriera del potere, più che chi sta al di là. C’è il problema dell’inte­ riorizzazione, della “seduzione” del manicomio, varie sindromi di Stoccolma per cui chi sta al di là poi in realtà si adatta e a volte capita che non voglia essere dimes­ so; tutti problemi che abbiamo conosciuto prima del 1978 e dal 1978 in poi. Alla ricerca delle menti perdute Io credo che valga la pena, in que­ sto filone di pensiero riflettere bre­ vemente su quanto Pinel, espo­ nente-manager della Rivoluzione francese, abbia significato rispet­ to alla razionalizzazione della dea ragione. Com’è noto, nelle catego­ rie universali della dea ragione doveva inscriversi tutto l’esisten­ te; quello che i filosofi dell’Illu­ minismo non sapevano bene dove inscrivere era la "sragione", per­ ché era difficile (ed è difficile an­ che oggi) capire che la "sragione" fa semplicemente parte della vita, per cui non c’è motivo di inscri­ verla in uno spazio particolare. La “sragione”, che è l’ oggetto della storia, delle strutture organizzati­

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ve e amministrative degli ex ma­ nicomi, è immorale, è fuori dell’eti­ ca, ed è fuori dell’etica perché si coniuga con il non produrre. Sia­ mo sul back-ground del pensiero di Max Weber “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”. Il pro­ blema esiste ancora; a tutt'oggi nel mio Servizio psichiatrico di dia­ gnosi e cura, neo inaugurato a Merano, la direzione sanitaria si sorprende del fatto che i soli dieci pazienti che noi abbiamo – perché il reparto è piccolo, e più grande di così non lo vogliamo – stiano tutto il giorno a non far niente, qualcuno anche a fumare. Io, par­ lando con la mia caposala, le ho spiegato che è logico che ci sia lo scandalo del non lavorare, perché è uno scandalo etico. Qui potremmo essere in molti a ritornare sui concetti della “terapia morale”. Era una terapia che io defi­ nisco utopica, ma lo dico oggi, per­ ché ai tempi in cui credevamo di "spargere il sale" sulle mura del manicomio l’ergoterapia istituziona­ le era per noi uno scandalo. Oggi credo che siamo in grado di ripen­ sare abbastanza serenamente a quella che fu la “terapia morale” nell’Otto­ cento; nell’era però in cui non c’era­ no gli psicofarmaci, non c’erano al­ tri sistemi se non la “terapia mora­ le”. L’unico modo di curare i pazienti era quello di riabilitarli, come si di­ rebbe oggi, allora si diceva redimer­ li, rieducarli a concetti morali e at­ traverso percorsi etici. L’esempio, la buona educazione, eventualmente la preghiera, la convivenza tollerante. Il pensiero psichiatrico dell’Ottocen­ to era pervaso da questa concezio­ 17

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ne, concezione che si coniuga con il discorso della “terapia del lavo­ ro”. Dico questo perché spesso (ed è una riflessione che faccio rispet­ to al nostro passato di giovani psichiatri ribelli) in realtà il con­ cetto della cura nell’istituzione era, come già dicevo, un concetto uto­ pico che si coniuga con la “terapia morale”. Era l’unico terreno su cui 100-150 anni fa, nascita del ma­ nicomio di Pergine, ci si poteva muovere. La cosa curiosa è che que­ sta utopia, che non va disprezzata ma rivista, riletta e trasformata, si coniugò con una concezione in fondo autarchica della struttura. La struttura psichiatrica doveva essere in grado sostanzialmente di provvedere a se stessa; c’erano le fabbriche interne, i servizi interni, l’ergoterapia – “lavori forzati” con un sistema di scambio interno che doveva essere libero dall’inquina­ mento del denaro esterno. A Trie­ ste, per esempio, fu scoperta una moneta interna, un gettone, che si usava per gli scambi interni: an­ dare al bar, comprarsi le sigarette, tutto all’interno del muro di cinta. L’ospedale psichiatrico aveva an­ che le galline, i maiali, i servizi ge­ nerali. Una delle conseguenze della scomparsa di questa organizzazio­ ne autarchica, basata sull’ergote­ rapia, fu, ad esempio, il fatto che i parchi belli, ben curati dai pazien­ ti, sono diventati selvaggi. Tempo fa ero al “Santa Maria della Pietà” di Roma e, come a Trieste, questo splendido parco pubblico, è ab­ bandonato perché nessuno ci la­ vora, perché nessuno ha mai pen­

sato di mettere in bilancio un bu­ dget per gestire il parco, perché una volta questo era lavoro gra­ tuito, quindi autarchico. Ma l’uto­ pia della cura in ospedale, con tutti i correlati paradigmi teorici, è un’utopia che fallì, ma un’utopia molto semplice che pur essendo un’utopia era un’utopia totalizza­ ta e alla fine totalitaria. Riparliamo di muri: crollo dei muri e crollo dell’utopia totalita­ ria, era inevitabile che fosse così. Attenzione, non è un crollo avve­ nuto automaticamente perché tale crollo è costato e sta costando ancora molto lavoro. Ma come la storia non si fa mai automatica­ mente, ma solo con la volontà e con l’impegno, così è stato anche per il crollo di quest’altra utopia totalitaria e che noi oggi diciamo antistorica. I muri…, Trieste, come Berlino; ma prima, e non è un caso, ci fu Gorizia, città divisa. A Gorizia (per “caso?”) il muro dell’ospeda­ le psichiatrico faceva parte del confine fra Italia e Jugoslavia, un tempo, fra Italia e Slovenia, oggi. Io credo che in tutto questo di­ segno – il crollo dei muri, il supe­ ramento dei muri, il superamento di un certo tipo di etica, il passag­ gio da un’utopia della cura nell’istituzione alla cura nello scam­ bio sociale e nella collettività – ci sia un’unità interpretativa che al­ lora non capivamo molto bene. Io non pensavo ai muri quando pensa­ vo a Berlino. Oggi, a distanza di non moltissimi anni, credo stia diventan­ do un disegno in qualche modo tra­ scendente le contingenze della Sto­ ria, che riusciamo a leggere con mag­

giore chiarezza di quando la Storia si dipanava fra le nostre stesse dita. L’ultimo concetto che si potreb­ be sviluppare rispetto al tema "Ra­ gioni di un seminario a Trento sui manicomi della Mitteleuropea o dell’Italia asburgica" è il concetto della crisi. Io purtroppo sono un operatore della pratica e non ho tempo per leg­ gere tutti i bei saggi che vengono editi, ma ho letto una recensione sull’Espresso di un saggio di Mas­ simo Cacciari che mi colpì molto. Cacciari collegò lo Steinhof di Vien­ na a Sarajevo come epicentri di una stessa crisi. Questo è un concetto che mi intriga molto, una sorta di sintesi semantica che sono in gra­ do solo di citare. Posso intuire: Sarajevo, dallo sparo del 1914 ad oggi, rappresenta chiaramente l’epicentro della crisi europea sul

piano “macro”, lo Steinhof (che è un ospedale psichiatrico bellissi­ mo, non solo perché è un monu­ mento architettonico straordina­ rio, e quindi ovviamente da con­ servare, ma anche perché c’è intri­ sa una serie di concezioni tra il giuridico, il filosofico, lo psichia­ trico, l’idealistico e l’architettoni­ co) rappresenta la metafora della crisi individuale. Le infinite crisi di individui che vi furono ricoverati dalla data della sua inaugurazio­ ne (1911) ad oggi. Ma anche la crisi di tutte quelle certezze di pen­ siero che retrostanno alla conce­ zione stessa dello Steinhof. Appun­ to l’insieme generoso di pensiero giuridico, filosofico, psichiatrico, idealistico, architettonico e via di­ cendo. Il grande Giuseppe Sinopoli, prematuramente scomparso, è sta-

Bruno Caruso, I veri pazzi sono fuori, disegno acquarellato, 1958. Nella pagina seguente: Bruno Caruso, Riposo, 1955.

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to descritto come il musicista del­ la crisi. Cosa c’entra la Mitteleuropea, l’Italia asburgica, e la psichiatria del Triveneto o del Nord-est con la crisi? La parola crisi deriva dalla parola greca che significa “scelta” o me­ glio “decisione”. Ogni crisi in fondo, e noi lo vediamo nella nostra quo­ tidianità di operatori della pratica psichiatrica, rappresenta in realtà una scelta, e ogni paziente in crisi è una persona che tramite la sua crisi viene messo in condizione di iniziare un percorso per arrivare ad una scelta e se possibile ad una svolta nella propria vita; per que­ sto la crisi va vissuta, perché essa ha un significato immanente alla propria vita. E quindi nessuna cri­ si va decapitata, meno che mai ta­ gliata con scorciatoie tipo l’elet­ troshock o interventi di psicochi­ rurgia. Un anno fa in occasione della crisi del Kosovo lessi sul gior­

nale “Der Spiegel” un articolo dal titolo “Entscheidung”. Questa pa­ rola, in questa bellissima lingua che è il tedesco, contiene in sé un grande significato. “Decisione”, decisione fra due aspetti che de­ vono essere separati-tagliati (Scheidung) e fra di loro, fuori di loro (ent-). La crisi come fatto individuale e la crisi come fatto storico, poli­ tico: la guerra, l’Afghanistan, l’Irak, la Jugoslavia e via dicendo. Prescindendo da tutta la storia della deportazione del 1940 da Pergine nella Germania nazista dei pazienti psichiatrici e portatori di handicap (argomento sul quale è già stato fatto un convegno nel 1995 a Bolzano), le ragioni di un seminario a Trento stanno nel fat­ to che Trento è una delle capitali della Mitteleuropea italiana, è una città che ha portato, come Trieste, come Venezia, come Treviso, il ca­ rico di una cultura psichiatrica le­ gata al tempo e quindi dignitosa, che è sì da rivedere, da riformula­ re (e lo stiamo facendo), ma di grande importanza. In provincia di Bolzano, ad esempio, dove una qualsiasi cultura psichiatrica non c’è, è difficilissimo inserire una cultura nuova, pratiche nuove, aprire un servizio di diagnosi e cura. Una riflessione che ci augu­ riamo possa diventare ricca e pro­ mettente a partire da questo con­ vegno.

Lorenzo Toresini è Primario del Centro di salute mentale di Merano.

La terza utopia Domenico Luciani

Gli ospedali psichiatrici come patrimonio di natura e di memoria.

Volentieri torno, a distanza di anni, su questo tema. Rendendo di­ sponibile il testo che premettevo nel 1998 alla ricerca “Per un at­ lante degli ospedali psichiatrici pubblici in Italia: un censimento geografico, cronologico e tipolo­ gico” curato da Ida Frigo, Federi­ ca Palestino e Francesca Rossi per la Fondazione Benetton studi ricer­ che1. La ricerca, dotata di una carto­ grafia puntuale con 71 casi raccolti con fatica da Teresa Marson e Massi­ mo Rossi, ha mostrato la stupefacen­ te dimensione e la singolare varietà di forme e di figure che costituisco­ no questo universo. La definizione e la costruzione dei luoghi della psichiatria è stata una grande operazione riformista, anzi un’autentica utopia della modernità. Così come è stata una grande opera­ zione riformista, una seconda uto­ pia, uno dei momenti più alti della critica del moderno, il loro supera­ mento voluto da Franco Basaglia. Ho sostenuto e sostengo, che i luoghi che sono stati della psichia­ tria chiedono una “terza riforma” o, se volete, una “terza utopia”. Dopo Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

la riforma istitutiva all’inizio del secolo XX, e dopo la riforma deco­ strut-tiva degli anni settanta del Novecento, la terza riforma si con­ figura come una guida alla transi­ zione/trasformazione verso la commistione sociale, culturale, scientifica. Scadenze aspettative progetti, sui quali sarebbe bene ragionare a fon­ do, si occupano dei luoghi e del loro destino. Ma come dovremmo affrontarla questa terza riforma? Con quali idee guida? È possibile un cambiamento di destinazione d’uso senza perdere l’identità? Si possono trovare nuovi usi economicamente compatibili e socialmente utili? Quali? La “terza riforma” ha il compito di tentare di risolvere un’equazione a molte incognite, di affrontare con­ temporaneamente più fronti, puntan­ do a una strategica “mixità”: a) Il fronte sanitario/assistenziale: a tutt’oggi, in luoghi che non sono più asili, restano ancora, forse sotto altro nome, dei ricoverati. È un fronte assai vario, per den­ sità, per dislocazione geografica, per stratificazione anagrafica e per distribuzione patologica. Occorrerà differenziare “lungo de­ genza» da «bisogno terapeuti-co non rimuovibile”; b) Il fronte del terzo settore: gli ope­ ratori, le imprese sociali e coo­ perative. Si trattava nel 1998 di oltre trentamila persone, secon­ do indagini accreditate, con un patrimonio di professionalità e di sperimentazione emancipativa di­ sponibile a coniugare efficienza e solidarietà, in un terreno fer­ 21

La terza utopia

tile e inventivo di nuova occu­ pazione; c) Il fronte dei luoghi che più da vi­ cino interessa questa ricerca e della loro nuova possibile bellez­ za, della loro ritrovata potenziale utilità. La “necessità” di salva­ guardia e valorizzazione emerge dalla posizione che occupano nel­ la forma delle città, dal ruolo che possono giocare nella loro quali­ tà della vita. Va tenuta ferma la centralità dei segni e dei sedimenti della natura e della memoria (bi­ blioteche, musei del manicomio, archivi e raccolte documentarie). Diverse sono dunque le economiecoinvolte, dall’economia dello stato sociale e della solidarietà (sanità,

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assistnza), all’economia del terzo settore(né pubblico né privato), fino all’ecnomia dei beni culturali (natu­ ra, memoria). La nostra parziale ela­ borazione si muove intorno al­ l’economia dei beni culturali, me­ glio l’economia della cultura. L’ipotesi di lavoro è semplice: i coplessi che hanno ospitato gli ospe­ ali psichiatrici italiani dal 1904 al 1996 non sono volumi e superfici diponibili; questi complessi (manu­ fati, spazi, siti) costituiscono, a tutta evidenza, beni culturali ambientali. La ricognizione compiuta ci porta a concludere che, nella grande mag­ gioranza dei casi, essi si presentano come siti notevoli, come autentici patrimoni culturali: a) patrimoni di natura (ambiti e spazi perti significativi, parchi e giardini); b) patrimoni di memoria (manufat­ ti, biblioteche, musei, archivi); c) patrimoni di presenza umana (ten­ sioni, sperimentazioni, emancipa­ zioni). Non si può affermare che nelle strut­ ture politiche e gestionali responsa­ bili, così come nel senso comune, vi sia stata e vi sia adeguata con­ sapevolezza del valore di natura e di memoria (sedimenti e testimo­ nianze storiche) contenuto in que­ sti luoghi. Essi rappresentano an­ cora oggi qualcosa d’”altro” dalle città in cui sono stati istituiti; i rapporti con le più ampie comuni­ tà esterne sono come sospesi. Non c’è stata, e non c’è (nem­ meno, qualche volta, da parte di chi ha operato e vissuto la speri­ menaione degli ultimi vent’anni), sensibilità adeguata per le cose,

Locazioni e anni di fondazione degli ospedali psichiatrici in Italia (dati su 71 ospedali)

Bruno Caruso, Napoleone, disegno acquarellato, 1955.

per i manufatti, per i giardini, per gli spazi aperti. Non c’è stata, e non sempre oggi c’è, cura convin­ ta dei patrimoni culturali (ambien­ tali, artistici, archivistici, bibliote­ conomici, museali) che pure in questi luoghi sono contenuti. Non c’è stata, e non sempre c’è, iniziativa adeguata. Questi luoghi non sono entrati nel catalogo dei Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

beni meritevoli di impegno pub­ blico per la salvaguardia e la va­ lorizzazione. Come invece è cultu­ ralmente e socialmente utile che sia. Il censimento che abbiamo con­ cluso a fine 1998, è il risultato delle risposte a un questionario in­ formativo inviato tra maggio e lu­ glio 1996, del fitto dialogo con i 23

La terza utopia

responsabili e i tecnici che hanno collaborato e delle revisioni ope­ rate nell’autunno del 1998. Ne è derivato un dossier che cerca di far luce sull’insieme dei 71 comples­ si, che fino al 31 dicembre 1996 costituivano altrettanti ospedali psichiatrici diffusi sul territorio nazionale, e su un numero (non ancora precisato) di succursali, concentrate soprattutto nel Vene­ to e in Friuli. Molti dati mancano, molti sono carenti, altri andrebbe­ ro verificati con sopraluoghi ade­ guati. L’inchiesta puntava a portare l’at­ tenzione sui luoghi di un patrimo­ nio di natura e di memoria di fatto negato, un universo non necessaria­ mente coincidente con i dati pub­ blicati dall’Istituto italiano di medi­ cina sociale o dal Ministero della sanità. Rientrano, infatti, nell’Atlante anche quelle strutture dismesse, ab­

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bandonate, che non ospitano più da anni il cosiddetto “residuo psi­ chiatrico”, qualche volta (non sem­ pre) passate a nuovo uso, “ricon­ vertite”. I dati si riferiscono ai 70 (su 71) ospedali psichiatrici provinciali che hanno risposto al questionario. Per quanto riguarda le succursali sono solo state conteggiate 23 strutture. Un primo elemento che ci pare si­ gnificativo e, per varie ragioni, im­ pressionante, è l’area complessiva occupata dagli ospedali esaminati, circa una decina di milioni di mq. È d’obbligo l’approssimazione perché le risposte sulle superfici non han­ no sempre tenuto conto dell’ azien­ da agraria che faceva parte integrante dell’ospedale. Si devono tuttavia im­ maginare aree per mille ettari, 10 kmq, qualcosa come un grande cen­ tro storico (con una capienza a pie-

Bruno Caruso, La corsa pazza, disegno acquarellato, 1954.

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no regime che può essere calcolata attorno alle 90.000 persone, una media città); è interessante rilevare come questi mille ettari siano in nove casi su dieci situati nei centri o nelle prime periferie delle nostre città, e siano tendenzialmente as­ sai poco costruiti, come appare da un’analisi del rapporto tra super­ ficie coperta e superficie totale dei compendi (11% circa, e solo in cin­ que casi più della metà della super­ ficie è costruita). Di questi, un quarto sono localiz­ zati nei centri urbani, circa due ter­ zi si trovano nelle prime fasce peri­ feriche, e meno del 10% in località extraurbane. La grande maggioranza degli ex ospedali psichiatrici occu­ pano dunque un posto (e possono giocare un ruolo) cruciale nella for­ ma e nella vita delle città. Degli asili fondati su preesisten­ ze (di tipo conventuale, militare, re­ sidenziale, ospedaliero), in totale 33, circa una ventina risente del rappor­ to con la preesistenza al punto da dare vita a commistioni tipologi­ che fra vecchio e nuovo che ab­ biamo definito “ibride”. Gli altri casi sono strutturati indipenden­ temente dalla preesistenza, la qua­ le viene, al più, inglobata o assor­ bita, seguendo gli standard e i cri­ teri dettati dalla moderna edilizia ospedaliera. Ci risulta (ed è questione per noi centrale) che circa il 70% degli ospe­ dali comprendesse, all’epoca della costruzione, ampi compendi di ter­ reno destinati a colonia agricola o laboratori artigianali. Non è stato possibile verificare (per carenza do­ cumentaria, archivistica e cartogra­

fica) quale percentuale di tali spazi permanga all’interno delle aree psi­ chiatriche, ma è certo che la parte più consistente è rimasta in proprie­ tà alle Province o è stata alienata. Quando è passata ai Comuni, è stata riutilizzata o ceduta in comodato, qualche volta abbandonata e, in qualche caso, addirittura “dimenti­ cata” dagli inventari. Emerge, insom­ ma, anche da dati parziali e approssi­ mativi, la dimensione e la stratifica­ zione del patrimonio di natura e di memoria degli ospedali psichiatrici italiani, il loro carattere di grande e denso bene culturale a diffusione nazionale. Tre quarti degli interpel­ lati valutavano i giardini e, in ge­ nerale, gli spazi aperti di conside­ revole pregio naturalistico, a pre­ scindere dalle condizioni di manu­ tenzione, quasi sempre assai pre­ caria, in cui versano. Più di metà degli istituti furono fondati prima del 1904. Nel 1998 il 45% era vincolato, almeno in parte, con la legge 1089/39, mentre sol­ tanto l’11% con la legge 1497/39. Due terzi degli ospedali segnala­ vano, inoltre, la presenza di beni culturali e testimonianze significa­ tive: biblioteche o fondi librari, ar­ chivi, musei, centri di documenta­ zione, raccolte di documenti, raccol­ te di opere elaborate dagli utenti. Sugli archivi, in particolare, vorrei richiamare l’attenzione come su stru­ menti cruciali per ricostruire i ca­ ratteri scientifici, antropologici e culturali di questa porzione rimossa della modernità. Infine, per quanto riguarda l’”uso” degli asili, ritenevamo importante segnalare come, di norma, questi 25

La terza utopia

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luoghi ospitassero attività diver­ se. Se è vero che quasi il 90% era sede di strutture sanitarie “altre” (uffici amministrativi, ospedali ci­ vili, po-liambulaorii, ecc.), è altret­ tanto vero che solo il 20% era esclusivamente “cittadella” sanita­ ria. Un quinto erano sedi universi­ tarie, un quinto sedi scolastiche; la metà accoglievano attività pri­ vate (cooperative sociali, soprat­ tutto), un quarto servizi aperti al pubblico (teatri, impianti sporti­ vi, centri sociali). In generale, dun­ que, i compendi racchiudevano una realtà multiforme ed erano diven­ tati “contenitori”. Sarebbe interes­ sante capire, con opportuni sopraluoghi e verifiche, quanto questi “contenitori” siano stati capaci di sviluppare una vera “commistione” tra i diversi settori della vita so­ ciale che ospitano. Una parte significativa (forse la

metà) degli ex ospedali psichiatrici italiani apparivano ancora in condi­ zioni complessivamente disponibili a programmi di salvaguardia e va­ lorizzazione. Ci era parso dunque di qualche utilità, per tutti coloro che fossero interessati alla salva­ guardia e alla valorizzazione di questi patrimoni culturali e am­ bientali, delineare un promemoria sotto forma di decalo-go schema­ tico. E ci pare di qualche utilità ri­ proporlo nel 2002. 1. Memoria. Questi luoghi non de­ vono perdere la loro identità sto­ rica. È un errore intendere la tra­ sformazione come cambiamento di connotati. Esempio: il muro. Non serve abbatterlo per farlo scomparire (rimozione). All’ori­ gine degli asili, tra l’altro, non era previsto. Bisogna conoscere la “storia del muro”, trasfor­ marlo in un sedimento, in una

Bruno Caruso,

Il canguro azzurro,

disegno

acquarellato,

1958.

A pagina 28:

Bruno Caruso,

Camicia di forza & destinazione neuro, disegno a china, 1968.

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testimonianza, togliendogli ogni carattere di confine. A Tri­ este, nel muro del San Giovan­ ni, abbiamo proposto di aprire dieci porte pedonali, tutte le sette porte storiche e tre nuo­ ve porte; 2. Commistione. Le nuove funzioni vanno commisurate all’identità storica dei siti, bisogna accet­ tare la molteplicità (commistio­ ne, “mixità”). È importante met­ tere insieme quello che c’è, quello che arriva, quello che si immagina possa convivere, quello che si propone arrivi in futuro. Università, centri stu­ di, archivi e musei della prima e della seconda riforma (indispensabili spazi museali/archi­ vistici/biblioteco-nomici), strutture sanitarie, laboratori di arti e mestieri, lavoro intellet­ tuale e lavoro manuale tra loro dialoganti. Gli spazi aperti dell’ex ospedale psichiatrico diventano parchi pubblici, luoghi delle città, aperti, rispettati, curati, frequentati; 3. Accordi di programma. Concordare, tra Enti pubblici (Azienda sa­ nitaria, Provincia, Comune, Regione, ecc.), le destinazioni d’uso dei manufatti, evitando le solu­ zioni monofunzionali (solo uni­ versità, solo ASL, ecc.) per pun­ tare sulla commistione; 4. Convenzioni tra pubblico e privato. Evitare di svendere. Fare piut­ tosto contratti di comodato. Uti­ lizzare formule diverse che ga­ rantiscano dalla deriva dell’abu­ so e da ogni appetito speculativo;

5. Unità gestionale. Affidare ad un’unica giardineria i poteri e i mezzi adeguati alla cura, al rin­ novo e alla manutenzione degli spazi aperti, compresi i percorsi e le soste degli automezzi. 6. Vincoli. Costruire un dispositi­ vo di vincolo con leggi nazio­ nali (1089/1497/431), regionali e provinciali, norme di Prg comunale sull’intero compen­ dio e, ove possibile, anche sul­ l’azienda agraria contigua. Il vincolo non deve immobilizzare, ma pretendere progetti co­ erenti e unitari (bellezza e uti­ lità); 7. Ambiti e contesti. Definire gli ambiti e i contesti del compen­ dio, puntando al recupero delle aziende agrarie (per lo più delle Province), che spesso non rien­ trano nei progetti di trasforma­ zione e di riuso, e di eventuali altri spazi contestuali che siano funzionalmente o percettiva­ mente connessi; 8. Integrità dei luoghi. Proporre os­ servazioni e varianti alle norme generali e locali in funzione della tutela degli ambiti e dei con­ testi, anche per evitare che la mobilità urbana attraversi i compendi; 9. Osservatori. Formare gruppi di lavoro agili, composti di poche personalità dei diversi fronti della sanità, dell’impresa sociale e dei beni culturali, che seguano la fase di accelerato cam­ biamento e coinvolgano i mi­ nisteri pertinenti e i poteri locali con adeguato monitorag­ gio e puntuali suggerimenti; 27

La terza utopia

Così come negli anni settanta sono stati i “matti” a uscire in città oltre il muro, nell’attuale trasforma­ zione in atto è la città che entra fuori nel luogo della psichiatria oltre il muro. È la comunità intera che “esce dentro” con tutte le sue ten­ sioni e le sue diversità. Quello che è stato l’ospedale psichiatrico di­ venta così luogo della città a pie­ no titolo, spazio della comunità, sito civico bello e utile, nuova agorà, nuova piazza, nuovo crocic­ chio necessario della tolleranza e delle relazioni, stazione di inter­ mo-dalità culturale, artistica e spi­ rituale.

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10.Metodo e criteri. Possiamo dun­ que proporre una provvisoria conclusione, affermando che la “terza riforma”, la “terza uto­ pia” pretende un’ipotesi di me­ todo per la definizione dei cri­ teri generali da osservare nella formazione dei progetti di nuo­ vi usi degli immobili, degli spa­ zi aperti, delle aziende agrarie contigue. In estrema sintesi: nella attuale fase di inevitabile modificazione delle figure e delle funzioni degli ex ospedali psichiatrici, gli ambiti di attenzione sanitaria e sociale possono trovare un potente allea­ to proprio nella qualità (potenzia­ le) dei luoghi, nel ruolo (poten­ ziale) che questi si trovano in con­ dizione di ricoprire nella vita e nella forma della città. Senza tra­ volgerne la fisionomia, senza ab­ battere (se non idealmente) muri.

NOTE [1] Revisione del settembre 2002 del testo già pubblicato nel dattiloscritto Per un atlante degli ospedali psichiatrici pub­ blici in Italia: censimento ge­ ografico, cronologico e tipo­ logico al 31 dicembre 1996 (con aggiornamento al 31 ot­ tobre 1998). A cura della Fon­ dazione Benetton studi ricer­ che, stampa 1999.

Domenico Luciani è Direttore della

Fondazione Benetton Studi e ricerche.

Edificazione di un manicomio Gian Piero Sciocchetti

La storia della costruzione dell’ex ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana. Il frutto di una approfondita ricerca d’archivio in un ipertesto.

La ricerca dei disegni progettuali relativi alla costruzione del “Ma­ nicomio provinciale tirolese di Per­ gine1” e di quelli del suo successi­ vo ampliamento. Si è presentata come una ricerca complessa, con­ sistente nella ricostruzione docu­ mentale della storia edilizia del più grande edificio del Trentino e che interessava vari ed inesplorati set­ tori delle attività tecnico-costrut­ tive svolte nella nostra regione quali l’acquisto dei terreni su cui costruirlo2, la sua progettazione di massima, i disegni esecutivi e di cantiere, la progettazione dei pri­ mordiali impianti tecnici3, l’asset­ to urbanistico del territorio pre­ scelto4, la progettazione dei giar­ dini5 e così via, eseguiti nei tren­ ta-cinque anni intercorsi tra il 1879 ed il 1914. Di una documentazione così im­ portante per la storia della psichia­ tria e delle tecnologie usate nella nostra regione, si era persa ogni trac­ cia. Una constatazione questa assai grave se si pensa che tale documen­ tazione riguardava il primo dei gran­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

di edifici costruiti nel Trentino sul finire dell’Ottocento, realizzato a tempo di record da una delle impre­ se trentine più rinomate operanti nel Tirolo e in altri Länder dell’Impero Asburgico. Ben presto mi resi conto che i documenti che cercavamo erano ve­ ramente scomparsi e che nessuno era in grado di suggerirmi in quale ar­ chivio avremmo potuto continuare le ricerche. Decisi di interrompere le ricerche in ambito extra provinciale in quanto capii che la documenta­ zione più interessante – quella ri­ guardante cioè la fase esecutiva dei lavori – avrebbe potuto trovarsi so­ lamente negli archivi della vecchia Contea Principesca del Tirolo e non a Vienna – come qualcuno suggeriva – in quanto la realizzazione del ma­ nicomio riguardava esclusivamente il Land Tirolo e non gli organi cen­ trali dello Stato Asburgico6. Per il prosieguo della ricerca avrei potuto contare solamente su un’in­ teressante e completa documentazio­ ne catastale raccolta nel corso di un’apposita ricerca eseguita, con la solita impeccabile precisione, da Vin­ cenzo Adorno presso l’Ufficio del Li­ bro fondiario7 e l’Ufficio del catasto della Regione autonoma TrentinoAlto Adige e su due libri pubblicati nel 1912 e nel 1981. I documenti disponibili consi­ stevano in una serie di mappe ca­ tastali su cui erano state eviden­ ziate tutte le particelle fondiarie acquistate nel 1879 dal Comune di Pergine per la costruzione del ma­ nicomio (tenuta di Maso San Pie­ tro) e nel 1902 dalla Giunta pro­ vinciale di Innsbruck per l’amplia­ 29

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mento delle strutture esistenti e per la realizzazione della cosiddet­ ta “Colonia agricola”, necessaria per la sperimentazione dell’er-go­ terapia (i terreni confinanti a Nord-Ovest dell’edificio principa­ le del manicomio e quelli della te­ nuta “Alla Costa” di Vigalzano). Completava la documentazione una serie di vecchie mappe catastali ottocentesche su cui risultavano po­ sizionati gli edifici realizzati nel 1879-1881 e che, grazie ai segni con­ venzionali che vi comparivano, per­ mettevano anche di conoscere i tipi di colture presenti su alcune parti­ celle e l’esatta conformazione dei giardini realizzati tra i fabbricati del manicomio. Dei due testi disponibili, il più vecchio, era quello curato da Hein­ rich Schlöss, “Die Irrenpflege in Österreich in Wort und Bild” (“I ma­ nicomi in Austria nelle parole e nel­ le immagini”), pubblicato ad Hal­ le a. S. nel 1912, con particolare riguardo al capitolo relativo al Ma­ nicomio di Pergine, scritto dal dr. Dejaco8 che in quell’anno ne aveva assunto la direzione, dopo avervi tra­ scorso un lungo periodo in qualità di assistente. Dalle notizie contenu­ te nel libro su tutti i manicomi esi­ stenti nella parte austriaca dell’Im­ pero danubiano, dalle illustrazione e dai disegni che vi sono riprodotti e dalla precisa e meticolosa descri­ zione dei vari reparti del manicomio perginese fatta dal dr. Pius Dejaco, è stato possibile ricavarne un nume­ ro elevato di informazioni riguardanti l’organizzazione del manicomio nel periodo compreso tra il 1893 ed il 1912.

Considerando l’importanza del­ la descrizione fatta dal Dejaco per il prosieguo della ricerca, il dr. Giu­ seppe Pantozzi ha tradotto in lin­ gua italiana l’intero capitolo che riguardava il manicomio di Pergi­ ne9, permettendo in tal modo di non perdere alcun particolare del­ la minuziosa descrizione dei sin­ goli reparti os-pedalieri. Il secondo testo disponibile, il più completo ed interessante libro sulla storia del manicomio di Pergine e di Hall era quello importantissimo, ai fini della mia ricerca, di Giuseppe Pantozzi, “Gli spazi della follia: sto­ ria della psichiatria nel Tirolo e nel Trentino 1830-1942”, edito dalla Scuola superiore di servizio sociale di Trento e dal Centro studi Erickson di Gardolo nel 1989. Senza di esso questa mia ricerca non avrebbe po­ tuto essere portata a termine. Dopo aver esaminato attenta­ mente la suddetta documentazio­ ne, decisi di ricapitolare cronolo­ gicamente tutte le notizie di cui fossi venuto a conoscenza, in modo da poterle confrontare tra loro, controllandone l’affidabilità ed integrandole con altri dati ri­ guardanti la realizzazione delle grandi opere pubbliche realizzate nel Trentino nello stesso periodo (1880-1914). Per far ciò mi sarei avvalso della documentazione rac­ colta per la stesura del mio studio sulla costruzione della Ferrovia della Valsugana10 (1884-1886) e di altri interessanti testi editi dall’As­ sociazione amici della storia di Per­ gine11, di cui faccio parte. I risultati così ottenuti sono stati superiori ad ogni aspettativa perché

Bruno Caruso, Ospedale dello Spasimo, particolare, 1954.

mi hanno permesso di farmi un’idea dei costi sostenuti per l’ac­ quisto dei terreni, dei materiali im­ piegati nelle costruzioni, dei costi della mano d’opera, dei sistemi co­ struttivi, dell’onere dei trasporti, della situazione della rete strada­ le, delle condizioni amministrati­ ve che regolavano i contratti di allora e del funzionamento del Catasto e del Libro fondiario au­ stroungarico. Ritenni indispensabile dover fare anche un riferimento alla par­ ticolare situazione che stava attra­ versando la Monarchia danubiana, in quanto in quell’epoca tutti i ter­ ritori appartenenti agli Asburgo stavano attraversando un periodo di profonda trasformazione eco­ nomica12, tributaria13, organizzati­ va e istituzionale14. A ingarbuglia­ re maggiormente le cose fu l’en­ trata in vigore delle leggi che di­ sponevano il cambio della valuta15 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

e l’introduzione del nuovo siste­ ma metrico decimale16. Per quanto riguarda specificamen­ te il Trentino la situazione risultava ancora più grave che altrove in quan­ to a partire dal 1866 le nuove fron­ tiere con l’Italia posero fine ai rap­ porti economici e di buon vicinato con la Lombardia e con il Veneto17. Contemporaneamente, una profonda e grave crisi economica, causata dal­ le avverse condizioni meteorologi­ che e dal diffondersi di malattie del­ la vite e dei bachi da seta, stava at­ tanagliando l’economia trentina ba­ sata prevalentemente sull’agricoltu­ ra di montagna18, sulla produzione enotecnica19 e sulla bachicoltura20. Una volta completate le ricerche preliminari potei dedicarmi al vero scopo del mio studio. Partendo dal­ le mappe catastali d’epoca, fornitemi da Vincenzo Adorno, fui in grado di ricostruire le varie fasi di costru­ zione del manicomio, la relativa di­ sposizione urbanistica dei vari fab­ bricati, le modifiche apportate ad alcuni edifici e la particolare con­ formazione data alle aiuole dei giar­ dini. Contemporaneamente mi dedi­ cai alla riproduzione delle fotogra­ fie d’epoca e a eseguirne di nuove degli stessi particolari che compari­ vano nelle vecchie immagini, risalenti perlopiù al primo decennio del Novecento. Qualche tempo dopo, Anita Pas­ qualeti, esperta in ricerche biblio­ grafiche del nostro gruppo di stu­ dio, mi avvertiva di aver trovato ca­ sualmente presso la Biblioteca co­ munale di Trento, un album foto­ grafico prodotto dal noto fotogra­ fo trentino Untervegher per l’inau­ 31

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gurazione del manicomio pergine­ se, prevista per il 19 settembre 1882 21 . Purtroppo la cerimonia non poté aver luogo per il verifi­ carsi della più grande alluvione verificatasi sul Trentino e in Val­ sugana negli ultimi secoli e per quel motivo, forse, l’album era sta­ to così a lungo dimenticato tra i tanti documenti conservati nella biblioteca. Con le copie delle fotografie ot­ tenute dalla Direzione della biblio­ teca, unitamente alle immagini e alle planimetrie di alcuni fabbricati rea­ lizzati nel 1902-1905, che compaio­ no nei libri di Heinrich Schlöss e di Giuseppe Pantozzi e con le notizie tratte dai testi di Cesare Battisti, di Nino Forenza, di Roberta Grof, di Jole Piva e di Luciano Dellai, potei di­ sporre di un sufficiente repertorio di documenti ricostruire con buona precisione le varie fasi che porta­ rono alla costruzione e ai succes­ sivi ampliamenti del manicomio perginese. Non disponendo di alcuna pla­ nimetria relativa al primo gruppo di fabbricati22, costruiti tra il 1879 ed il 1881, e considerando che quelle disponibili risalivano a non prima del 1970 e che quindi erano assai diverse da quelle originali, mi resi conto che l’unica possibilità di poter disporre di planimetrie più vecchie era quella di rintracciare la documentazione presentata dai proprietari di immobili all’atto della costituzione del Nuovo Ca­ tasto Edilizio Urbano del 1939, documentazione che trovai nell’ar­ chivio dell’Ufficio del Catasto di Pergine e che riguardava tutte le

planimetrie23 rilevate da vari tec­ nici abilitati in occasione del­ l’”Accertamento Generale della Pro­ prietà Immobiliare Urbana" dispo­ sto con Regio Decreto Legge 13 Aprile 1939-XVII n. 652. Con gran­ de soddisfazione potei consultare tutte le piantine dei singoli piani di tutti gli edifici preesistenti al­ l’entrata in vigore della legge e quelle relative ai fabbricati eretti o ristrutturati dopo il 1939 non­ chè a tutte le varianti e modifiche apportate agli edifici fino ai gior­ ni nostri. Grazie alla preziosa collaborazio­ ne del Capufficio del Catasto di Per­ gine e dei suoi collaboratori, nel giro di soli tre giorni potei disporre di tutte le planimetrie che mi interes­ savano. La loro riproduzione com­ portò la suddivisione in più fogli formato UNI A3 per cui furono ne­ cessari alcuni giorni per realizzare i collage necessari per metterle as­ sieme. Purtroppo le planimetrie più vecchie, disegnate su carta mil­ limetrata prodotta nel periodo bellico, ingiallita dal tempo, con profonde piegature dei disegni originali, rendevano le fotocopie assai scure, con linee a volte de­ formate dalle pieghe, oppure par­ ticolarmente sbiadite; l’unico si­ stema per poterne ricavare dei di­ segni di più facile lettura, magari in scala ridotta per poterle consul­ tare senza problemi, consisteva nel ridisegnarle tutte su normale car­ ta da lucidi non millimetrata. Iniziai a disegnare le piante del fabbricato principale risalente al 1879-1880. L’idea fu vincente in quanto sovrapponendo casual­

mente le prime due tavole realiz­ zate potei constatare che le mu­ rature interne degli scantinati non sempre corrispondevano a quelle dei tramezzi del piano superiore, cioè, risultava che alcuni muri di fondazione non servivano a soste­ nere alcun sovraccarico concentra­ to nel piano sovrastante. La stra­ na situazione mi divenne chiara nel disegnare le piante dei piani superiori da cui potei notare che la posizione delle tramezzature

erano tornate a coincidere con le murature portanti esistenti nello scantinato. Era evidente che all’at­ to del rilevamento la situazione era diversa da quella del 1882 e che, nel frattempo, parecchi muri divisori erano stati demoliti. Un’ulteriore sorpresa la ebbi quando, seguendo meticolosamente la descrizione dei vari re­ parti del fabbricato centrale del manicomio, fatta dal dr. Pius Deja­ co, potei constatare che quella

Bruno Caruso, Il mondo alla rovescia, disegno acquarellato, 1958.

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descritta corrispondeva esattamen­ te alla suddivisione interna dei locali dello scantinato. Facendo tesoro dell’esperienza acquisita continuai a disegnare piantine ininterrottamente per circa tre mesi realizzando sessanta plani­ metrie relative a tutti i fabbricati costruiti tra il 1879 ed il 1973 e le relative variazioni apportate a par­ tire dal secondo dopoguerra. Per elaborare e ridisegnare tutte le planimetrie, per raccogliere tutte le notizie necessarie, per riprodurre le immagini ho impiegato circa sei mesi a partire dall’11 settembre del 2000 fino al 21 marzo 2001. Come ho già specificato in precedenza, per facilitare la consultazione, i disegni sono stati ridotti di forma­ to in modo da poterli riprodurre in un comune foglio formato UNI A4. Contraddis-tinguendo ogni locale con un numero progressivo e dotando le plani-metrie di un’apposita legenda è possibile ora conoscere l’uso che se ne fa­ ceva a suo tempo. Purtroppo i di­ segni risultano privi delle varie se­ zioni, delle piante dei sottotetti e dei disegni delle facciate, ma la loro ricostruzione peraltro non ne­ cessaria avrebbe comportato una lunga perdita di tempo. Nel nostro caso, infatti, i disegni approntati sono in grado di far conoscere l’or­ ganizzazione sanitaria dei vari re­ parti, la sistemazione dei servizi generali, le continue modifiche e gli amplia-menti eseguiti per po­ tenziare la capacità ricettiva del manicomio. Oltretutto le varie fotografie d’epoca, tra cui molte inedite, ci per­

mettono di avere una visione d’as­ sieme dell’opera e di tutti i princi­ pali particolari architettonici del mo­ numentale fabbricato principale e dei vari padiglioni costruiti all’ini­ zio del secolo. Nella primavera del 2002, in oc­ casione del mio ultimo sopralluogo all’ex Ospedale psichiatrico le due archiviste che, con certosina pazien­ za e con estrema precisione, stava­ no riordinando l’archivio mi conse­ gnarono due fotocopie degli unici disegni tecnici relativi al manicomio trovati tra l’enorme mole di docu­ menti che stavano ultimando di rior­ dinare. L’importanza del ritrovamento dei due disegni è rilevante in quanto uno di essi ci permette di conoscere le dimensioni e le relative caratteristi­ che delle fondazioni dei piccoli fab­ bricati adibiti a lavanderia, a docce, a camera mortuaria e a magazzini provvisori24, in parte demoliti nei primi anni del Novecento (fig. 1). L’altro ci consente invece di avere la conferma dell’insorgere di proble­ mi sorti per la sistemazione all’in­ terno dell’Istituto delle 20 suore a cui la Provincia aveva affidato, con regolare contratto, gran parte della gestione logistica dell’intero mani­ comio. Secondo le clausole contem­ plate dal contratto stipulato nell’estate del 1881 con la direzione generale delle Suore della Divina Provvidenza di Gorizia25, la Giunta provinciale si era impegnata a met­ tere a disposizione delle suore, ido­ nei locali riservati, in grado di ospi­ tarne eventualmente un numero maggiore. Secondo il contratto, in­ fatti, le venti suore rappresentava­

Figura 1 - 1880-81 Manicomio provinciale tirolese di Pergine Valsugana: studio di massima per la trasformazione del tratto centrale del secondo piano dell’edificio in alloggi per le suore, per il capellano, per i medici assistenti e in due locali da adibito a biblioteca e a cancelleria

no il numero minino di quelle che avrebbero dovuto svolgere la loro attività d’assistenza alle malate, nu­ mero che però sarebbe potuto au­ mentare in qualsiasi momento pre­ via richiesta della Giunta provincia­ le tirolese. Probabilmente tutti que­ sti problemi, poterono essere ri­ solti approfittando della necessi­ tà di dislocare le docce lontano dai locali delle cucine come invece era stato previsto nel progetto inizia­ le26. Come è stato possibile appu­ rare, sul retro del grande edificio manicomiale vennero apposita­ mente realizzati una serie di pic­ coli fabbricati non previsti inizial­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

mente, che permise di risolvere “in qualche modo” tutte le manchevo­ lezze progettuali evidenziate du­ rante i lavori o non approvate dal­ le autorità sanitarie provinciali. Contrariamente ad ogni principio deontologico, la progettazione delle modifiche e dei nuovi fab­ bricati non venne eseguita dal pro­ gettista ing. Josef Huter, bensì dal direttore dei lavori, l’ing. Lindner. Era evidente che i rapporti tra il progettista e l’Ente committente si fossero interrotti, ma i motivi pur­ troppo non li conosciamo. Ad avvalorare tale supposizione ci viene in aiuto il secondo disegno 35

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(fig. 2) in cui compare abbozzato uno studio per la sistemazione del­ l’alloggio delle suore da realizzare al secondo piano del corpo centrale del manicomio. Si tratta di una si­ stemazione di ripiego che evidente­ mente non poteva essere accettata dalle suore: infatti, oltre al poco spa­ zio disponibile e alla cattiva dispo­ sizione interna dei locali, i servizi igienici risultavano essere fuori dagli alloggi usati in comune con altri reparti dell’ospedale. Grazie al ritrovamento di queste due planimetrie è stato possibile completare tutte quelle dei fabbri­ cati realizzati nell’ex Ospedale psi­ chiatrico tra il 1879 e la fine del secolo scorso. Finalmente alla fine di marzo del 2001 riuscii a portare a compimento l’incarico preso. Per rendere meno pesante la relazione sulle attività svolte, che avrei dovuto esporre ai componenti del gruppo di lavoro, approntai una serie di diapositive riproducenti i principali documenti d’epoca integrandole con quelle scattate in occasione dei miei vari sopralluoghi. Conclusi la mia espo­ sizione consegnando alla dott.ssa Grandi due raccoglitori da duecen­ to buste trasparenti, contenenti specchi cronologici, trascrizioni di documenti, riproduzioni di foto­ grafie, disegni esplicativi, cartine, tabelle e soprattutto le planime­ trie del complesso ospedaliero e degli edifici nella loro disposizio­ ne iniziale. Dopo qualche tempo, quando or­ mai avevo ripreso in mano il mio lungo studio sulle difese delle coste mediterranee dalle incursioni turco-

saracene, la dott.ssa Grandi mi tele­ fonò comunicandomi di aver visio­ nato la documentazione che le ave­ vo consegnato e che riteneva oppor­ tuno trasformarla in un ipertesto multimediale a carattere divulgati­ vo. Sul finire dell’estate, quando dopo un lungo periodo d’assenza tornai a Trento, incontrai la dott.ssa Grandi che mi pregò di esporre la mia rela­ zione sul lavoro fatto ad alcuni fun­ zionari della Provincia autonoma di Trento, e successivamente, ai rappre­ sentanti dell’Amministrazione comu­ nale di Pergine e del Comprensorio dell’Alta Valsugana. Mingardi, esperto informatico in occasione di un incontro fu deciso che l’ipertesto uno scopo prettamen­ te divulgativo diretto ai giovani, in grado di far loro conoscere cosa si­ gnificò per i Trentini l’aver ottenuto un ospedale psichiatrico in cui i pro­ pri malati avrebbero potuto con­ siderarsi tra la propria gente, non più costretti ad “emigrare” in ter­ ritori lontani ove l’isolamento sa­ rebbe risultato ancor più accentua­ to dalla diverse usanze e soprat­ tutto dalla diversa lingua. Per po­ ter raggiungere gli obiettivi che ci eravamo preposti sarebbe stato necessario approntare una specie di “menabò” da cui chiunque – non solo gli addetti ai lavori – intera­ gendo tra i vari file contenuti in un CD-ROM potesse seguire un per­ corso da cui trarre tutte le infor­ mazioni che più interessano. Sul finire del mese di aprile 2002 con la dott.ssa Grandi decidemmo di articolare la Storia dell’ex Ospe­ dale psichiatrico di Pergine dalla

sua ideazione alla fine della Gran­ de Guerra27 nei seguenti periodi o “argomenti principali”: 1. Antefatti; 2. il manicomio a Pergine; 3. la costruzione dell’Ospedale psi­ chiatrico; 4. l’inaugurazione; 5. alla ricerca di nuovi spazi; 6. la Grande Guerra; 7. il primo dopoguerra; 8. la costituzione della nuova pro­ vincia della Venezia Tridentina. Ognuno di essi, a sua volta, avrebbe dovuto essere articolato in una se­ rie di “argomenti specifici” riguar­ danti ciascuno degli otto periodi presi in esame. Di conseguenza ogni argomento specifico avrebbe dovu­ to essere descritto succintamente

fornendo le indicazioni necessarie per i successivi approfondimenti co­ stituiti da brevi flash denominati “ar­ gomenti particolareggiati”, che avrebbero costituito il punto di partenza per poter interagire con altri file consistenti in una serie di documenti ancor più particola­ reggiati, basati essenzialmente sulle immagini con relative dida­ scalie e spiegazioni. L’ipertesto sarà dunque composto da: - 8 “argomenti principali”; - 34 “argomenti specifici”; - 120 “argomenti particolareggiati” sotto forma di schede, con ri­ ferimenti alle fonti per un ap­ profondimento dell’argomento; - 6 cartine geografiche;

Figura 2 -1881 Manicomio provinciale tirolese di Pergine Valsugana planimetria delle fondazioni dei piccoli fabbricati realizzati nella zona retrostante il fabbricato centrale

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- 30 tavole di disegno con relati­ ve spiegazioni; - 48 fotografie d’epoca, in parte inedite; - 5 mappe catastali; - 17 tabelle; - fotografie recenti dello stato delle strutture; - trascrizioni di documenti più im­ portanti e difficilmente reperibi­ li; - bibliografia completa sugli argo­ menti. Il CD-ROM sarà probabilmente rea­ lizzato entro la fine del 2003.

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NOTE ]1] Denominazione ufficiale as­ sunta dall’Ospedale psichiatri­ co di Pergine dall’inizio delle attività fino al 1916. Dopo tale data i comandi militari au­ stroungarici preferirono chia­ marlo Ospedale militare di San Pietro o più semplicemente Ospedale di San Pietro. [2] Avvenute in un periodo di transizione compreso tra la formazione del Catasto fon­ diario impostato su base geo­ metrica e particellare (1853), la compilazione dei fogli di possesso fondiario (Grundbe­ sitzbogen) e la costituzione del Libro fondiario (1900). [3] Già nel 1880-1882 furono re­ alizzati alcuni primordiali, ma complessi, impianti tecnici quali quelli di riscaldamento, quello fognante e nel 1903

l’impianto elettrico allacciato ad una delle prime centrali della regione alpina. [4] Consistenti: nell’allontana­ mento dei rivi d’acqua presenti nella zona ove venne eretto il grande fabbricato, lo sposta­ mento del corso del "canale macinante"; l’allacciamento idrico all’acquedotto; la ricer­ ca di nuove sorgenti e la co­ struzione di un nuovo acque­ dotto; l’impianto elettrico che assorbiva gran parte della po­ tenzialità della nuova centra­ le elettrica di Serso; l’installa­ zione di montacarichi; l’im­ pianto di produzione d’acqua calda per le docce e la lavan­ deria; l’impianto telefonico; la realizzazione di una grande cucina dotata di grosse pen­ tole funzionanti a vapore. [5] Il cui progetto fu eseguito dal conte Carlo Lodron ed appro­ vato dalla Giunta provinciale. [6] La legge imperiale 17 febbra­ io 1864, modificando profon­ damente la legislazione pree­ sistente in tema di assistenza ai malati di mente, decentra­ va ogni competenza in mate­ ria ai vari Länder dell’impero austroungarico. [7] L’istituzione del Libro fondia­ rio fu introdotta nel Trentino a seguito dell’entrata in vigo­ re della legge provinciale del Tirolo n. 9 del 17 marzo 1897. L’impianto del libro fondiario

fu eseguita nell’arco di tempo di mezzo secolo ed ebbe ini­ zio a partire dal 1900. Il rile­ vamento dei dati, intrapreso dai funzionari austroungarici, venne continuata dal governo italiano che ne riconobbe la validità, ultimandone l’im­ pianto e mantenendo la vali­ dità nel territorio della regio­ ne Trentino-Alto Adige. [8] Il dottor Pius Dejaco, nato a Cognola di Trento il 24 aprile 1859 da una famiglia di lin­ gua tedesca, prese servizio presso il manicomio di Pergi­ ne nel 1893 in qualità di assi­ stente, fu direttore dello stes­ so manicomio dal 1912 al 1919. [9] DEJACO 1912. Per la traduzio­ ne cfr. più avanti. [10]SCIOCCHETTI 1998. [11]BATTISTI 1987; BATTISTI 1898; FORENZA 1995; FOREN­ ZA 1998; GROFF – PIVA – DEL­ LAI 1985. [12]Generata dalla rivoluzione scoppiata in Ungheria, in Bo­ emia, a Vienna e nel Lombar­ do Veneto (1848-1849), dal­ la guerra contro il Regno di Sardegna (1848-1849), dalla guerra contro i Franco-Pie­ montesi (1859), dalla guerra contro l’Impero Prussiano e il Regno d’Italia (1866) e l’an­ nessione della Bosnia Erzego­ vina (1878). Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

[13]Introduzione del nuovo cata­ sto fondiario impostato su base geometrica e particellare con rilevamento cartografico alla scala 1:2880 eseguita dall’ i.r. Genio Militare (1853­ 1863) e all’introduzione del Libro fondiario (1897), ulti­ mato dopo la Grande Guerra. [14]Causata dalla trasformazione istituzionale della Monarchia Asburgica da Impero d’Austria in Impero d’Austria e Unghe­ ria (1867) che causò la com­ pleta riorganizzazione dell’ap­ parato statale e la riforma del­ le forze armate che vennero suddivise nei seguenti tre eserciti: l’imperiale e regio esercito (comune alle due par­ ti dell’impero), l’imperial-re­ gia Landwehr austriaca e la regia Honved ungherese. [15]Sul finire dell’Ottocento ven­ ne introdotta la corona al po­ sto del fiorino. Per molti anni le due monete continuarono ad avere corso legale che al cambio ufficiale corrisponde­ va ad un fiorino per due coro­ ne, aumentando così il disa­ gio tra la popolazione locale che preferì chiamare soldo il centesimo di corona invece che Heller. [16]La riforma comportò l’abban­ dono di tutti gli antichi siste­ mi di misura riguardanti le lunghezze, i volumi, i liquidi, gli aridi (granaglie) e le su­ perfici del terreno. 39

Edificazione di un manicomio

[17]Vennero, infatti, vietati i rico­ veri dei malati di mente tren­ tini presso i manicomi di Ve­ nezia e di Milano.

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[18]I raccolti risultarono notevol­ mente inferiori a quelli medi a causa dell’imperversare di lunghi periodi di avverse con­ dizioni meteorologiche e alla caduta di valanghe. In occa­ sione dell’entrata in funzione del manicomio di Pergine la direzione fu costretta ad ac­ quistare la paglia nel Veneto in quanto quell’anno in zona non fu possibile acquistare le foglie di granoturco necessa­ rie per la confezione dei ma­ terassi. L’alimentazione basa­ ta essenzialmente sul mais, ti­ pica delle valli meridionali del Trentino, fece aumentare no­ tevolmente il numero dei ma­ lati colpiti dalla pellagra, in­ crementando tangibilmente il numero dei ricoveri in mani­ comio. [19]Negli ultimi tre decenni del­ l’Ottocento i vigneti trentini vennero distrutti dalla fillos­ sera che fece scomparire com­ pletamente alcuni tipi di pre­ giata uva, tra cui la famosissi­ ma uva denominata “goccia­ doro”. [20]Sul finire del secolo XIX il set­ tore della bachicoltura entrò in profonda crisi per la con­ correnza straniera per l’esi­ stenza di una rete ferroviaria assolutamente insufficiente e

dall’imperversare della “pebri­ na”. A risentire maggiormente la crisi del settore fu la stessa Pergine con le sue numerose filande costrette a chiudere l’attività. [21]A causa della disastrosa allu­ vione verificatasi nel Trentino ed in Valsugana la cerimonia inaugurale non poté avveni­ re. Le eccezionali piogge dei giorni precedenti provocaro­ no lo straripamento dell’Adi­ ge del 17 settembre, il crollo della serra di Civezzano e la rottura degli argini del Fersi­ na, che resero impercorribili le strade della zona. La stessa Trento fu inondata unitamen­ te a tutto il fondovalle dalla più grande inondazione mai registrata negli ultimi secoli. I danni furono ingentissimi e le strade furono inagibili per parecchi giorni. [22]I piccoli fabbricati costruiti nel 1881, vennero demoliti in parte dopo il 1905. [23] Sono planimetrie redatte su moduli forniti dagli Uffici pe­ riferici del Catasto su cui sono riportate le piante degli edifi­ ci alla scala 1:200 o 1:400 se­ condo le dimensioni dell’edi­ ficio. In Trentino tali docu­ menti vengono normalmente denominati “catastini”. [24] Si tratta delle due baracche usate per lo stoccaggio del carbone e della legna da ar­

dere e l’altra per la conserva­ zione dei pagliericci e delle foglie di granoturco con cui riempirli. [25]Il numero contrattualmente previsto era di 20 suore, au­ mentabile a richiesta della Giunta provinciale. La Giunta si impegnava inoltre a fornire un appartamento completa­ mente arredato, con cucina e una cappella privata, nonchè un orto per gli usi della men­ sa conventuale; di cedere loro gratuitamente le candele per l’illuminazione, il sapone, la cenere per il bucato, la legna da ardere, un quarto di vino giornalmente e il compenso di 40 fiorini annui. Le suore dal canto loro avrebbero dovuto assicurare il funzionamento della lavanderia (eventual­ mente assumendo due lavan­ daie locali che avrebbero do­ vuto ricevere 80 fiorini all’an­ no) e l’assistenza diretta del­ le malate ricorrendo eventual­ mente ad assumere due ausi­ liarie alle stesse condizioni amministrative di 80 fiorini annui. Con teutonica precisione il contratto prevedeva inoltre che le suore avessero il com­ pito: della gestione della men­ sa degli ammalati e degli in­ fermieri; l’acquisto diretto del­ le derrate alimentari; della compilazione dei menù secon­ do particolari disciplinari da rispettare; di curare il servizio di guardaroba dell’ospedale e Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

delle scorte di magazzino; di garantire la presenza di suore bilingui tra quelle impiegate nella cura delle malate. Come si desume dall’esame delle clausole presenti nel contrat­ to, la Giunta provinciale, ave­ va demandato alle suore tut­ ta l’organizzazione logistica dell’ospedale, comprese le cuoche nelle cucine e quella dell’assistenza nei reparti ri­ servati alle ammalate. Spetta­ va invece al Direttore del ma­ nicomio stabilire se una suo­ ra era idonea o meno a svol­ gere il suo compito specifico e alla sorveglianza sulle atti­ vità svolte. Per contro la cat­ tolicissima amministrazione provinciale dovette sistemare nel migliore dei modi possi­ bili le giovanissime suore giu­ liane, friulane e goriziane che si dimostrarono sempre all’al­ tezza della situazione (cfr. PANTOZZI 1989). [26]Come è rilevabile nel testo della relazione di Dejaco, la di­ slocazione delle docce era pre­ vista nelle immediate vicinan­ ze dei locali della cucina ma tale soluzione non venne ac­ cettata dalla commissione sa­ nitaria provinciale. Da tale pre­ cisazione si riesce a capire il motivo della realizzazione dei due porticati che collegavano il fabbricato centrale con le cucine. Gian Piero Sciocchetti è Generale di Brigata Ris. del Genio Militare. 41

Un luogo per nuove politiche sociali Renzo Anderle

Il progetto per il riuso dell’ex ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana.

È fuori dubbio che la presenza del­ l’Ospedale psichiatrico in Pergine ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della borgata, a partire dal­ la fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri, con ripercussioni sia per quanto concerne l’economia, che per quanto riguarda gli aspetti sociali. L’influenza dell’Ospedale psi­ chiatrico sulla comunità di Pergi­ ne è stata talmente forte da far sì che la stessa borgata fosse identi­ ficata con il manicomio e Pergine definito, non sempre ironicamen­ te, come “il paese dei matti”. Indubbiamente, se ripercorriamo la storia dell’Ospedale psichiatrico, dalla scelta della sua ubicazione in Pergine fino alla legge 180 del 1978, che ne ha decretato di fatto la chiu­ sura, non si può non rilevare come l’Ospedale psichiatrico, con la sua presenza di pazienti, che sono arri­ vati nel momento di maggiore uti­ lizzo della struttura ( nel maggio 1963) a 1775 degenti, e con i suoi 400 addetti, ha assunto dimensioni confrontabili con quelle del centro

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urbano di Pergine. È quindi eviden­ te il peso “demografico” di questa istituzione sulla comunità. Analo­ go discorso vale per quanto con­ cerne le aree dell’Ospedale, che hanno occupato una porzione con­ siderevole del territorio della bor­ gata, in posizione abbastanza cen­ trale, a ridosso del centro storico. Dagli iniziali nove ettari, derivanti dall’acquisto della prima porzione di terreno dal conte Crivelli per la costruzione del padiglione centra­ le, si è arrivati, progressivamente, ad una superficie interessata dal­ la struttura di 251.500 mq, dei quali 13.200 coperti da edifici e 238.300 mq di superfici libere (via­ bilità, campi coltivati, aree bosca­ te). Le figure seguenti danno un’indi­ cazione dell’evoluzione dell’abitato di Pergine nel tempo. La prima (fig. 1) si riferisce alla più antica mappa reperibile negli archivi comunali e risale al 1750. Da questa si possono osservare le ridotte dimensioni del­ l’abitato, che allora contava presu­ mibilmente 2.500 abitanti. A metà Ottocento ritroviamo Per­ gine ampliata intorno al centro sto­ rico, con una popolazione attestata intorno a 3.100 abitanti. Nella se­ conda (fig. 2) non risulta ancora in­ dicato il nuovo Ospedale psichiatri­ co la cui ubicazione risulta sullo sfondo dell’immagine. La scelta della costruzione del nuovo Ospedale psichiatrico è avve­ nuta nel periodo 1875-1877, dopo un lungo e intenso dibattito attra­ verso il quale si è pervenuti, innanzi tutto, alla scelta di realizzare un nuo­ vo Ospedale psichiatrico nell’area

Bruno Caruso, Non riconosce, disegno a matita.

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“italiana” in aggiunta al già ope­ rante Ospedale psichiatrico di Hall, vicino ad Innsbruck. Diversi i co­ muni candidati ad ospitare il nuo­ vo Os-pedale psichiatrico, struttu­ ra che risultava di particolare in­ teresse per le amministrazioni co­ munali, in grado di offrire lavoro a un elevato numero di residenti e capace di operare un forte indot­ to nelle economie locali. La scel­ ta, alla fine, cadde su Pergine e la progettazione dell’edificio fu affi­ data all’ingegnere Karl Lindner, per una struttura capace di ospitare 200 pazienti. La prima pietra fu posata il 20 marzo del 1879, mentre la fine dei lavori è avvenuta il 19 settembre 1882. Interessa rilevare che la con­ clusione dei lavori – e quindi l’aper­ tura dell’Ospedale psichiatrico – è avvenuta nel periodo in cui il Tirolo veniva interessato da fenomeni al­ luvionali di particolare intensità, che hanno coinvolto anche il Comune di Pergine in vari punti del territorio, recando danni e distruzioni. Proprio in relazione a quegli eventi, l’inau­ gurazione del complesso ha subito un ritardo, come pure l’attivazione dell’Ospedale psichiatrico. Ma, nel complesso, i lavori si sono svilup­ pati secondo il programma stabili­ to. La prima struttura riguardava la costruzione del cosiddetto padiglio­ ne centrale dalla classica forma ad E; edificio articolato su tre piani fuo­ ri terra più un piano interrato. Come si è detto, la superficie interessata dalla nuova struttura psichiatrica ri­ guardava inizialmente 90.000 mq; oltre all’edificio, quindi, esistevano

ampie superfici libere, fin dalla pri­ ma concezione della struttura man­ comiale. A partire dal 1926, l’Ospedale psi­ chiatrico si è via via ampliato se­ condo il concetto della struttura “per blocchi isolati”, collegati fra loro da una viabilità interna, ampia e articolata. Nel 1926 entrò in fun­ zione la costruzione nota come “pa­ diglione Osservazione” che consta­ va di 120 posti letto. Nel 1934 è stata completata la costruzione del padi­ glione Valdagni, per le donne, della capienza di 130 posti letto. Nel frat­ tempo, anche il padiglione centrale subiva alcuni ampliamenti per quan­ to concerne la ricettività, al punto che, nel 1934, questa era di 750 po­ sti, per diventare presto di circa 1000 letti. Una città nella città: così si po­ teva definire intorno agli anni qua­ ranta l’Ospedale psichiatrico di Pergine. A separare le due struttu­ re urbanistiche una sorta di corti­ na, in muratura oppure in rete metallica, per isolare i malati di

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mente dalla comunità “sana”. Una città praticamente autonoma, con propri servizi, con un’elevata ca­ pacità di soddisfare l’esigenza pri­ maria dell’alimentazione dei pazien­ ti attraverso la coltura dei fondi agri­ coli messi a disposizione, non solo all’interno dello spazio dell’Ospeda­ le psichiatrico, ma anche nella vici­ na azienda agricola della Costa; una città dotata di servizi, anche moder­ ni, in grado di assolvere alle princi­ pali necessità dei propri residenti che, tra pazienti e personale dipen­ dente, ammontavano a circa 2.000 unità. Occorre citare, accanto alla vera e propria struttura ospedaliera, l’edi­ ficio destinato da ultimo alla scuola per infermieri, il reparto cucina-la­ vanderia, il panificio, i locali per le manutenzioni, il teatro, la chiesa, gli alloggi per le suore, le strutture tec­ nologiche, come l’acquedotto con relativo serbatoio realizzati nel 1884, e le reti di distribuzione, la rete fo­ gnaria, gli impianti per la produzio­ ne e la distribuzione del calore. Di particolare rilevanza architet­ tonica la cappella mortuaria, costruita all’inizio del 1900 in stile liberty e non manomessa nel tempo, struttura che rappresenta un piccolo gioiello e sulla quale sarà utile impostare, nel prossimo futuro, un serio progetto ai fini del recupero e a testimonianza di una tipologia di edifici che hanno trovato scarsa diffusione sul territorio della Provincia di Trento. Tale edificio potrebbe essere utilizzato quale sede di una mostra sul manicomio e come archivio-museo delle numerose docu-mentazioni ancora

esistenti presso l’ex Ospedale psichiatrico. La situazione dell’Ospedale psi­ chiatrico nel periodo della sua più ampia attività è quella riportata nella fig. 4 dalla quale si può cogliere immediatamente l’articolazione del­ la struttura ospedaliera in vari bloc­ chi con i diversi percorsi interni. Per quanto concerne le superfici non occupate dagli edifici e le loro pertinenze, si osserva che circa sei ettari di terreno sono occupati da bosco, mentre la parte coltivata ri­ guardava circa tre ettari di terreno. Tutta la superficie è percorsa da stra­ de o da sentieri che ne rendono pos­ sibile l’accesso praticamente in ogni sua parte. L’ingresso principale è po­ sto sul lato sud-ovest, in prossimità del corpo centrale. Con l’entrata in vigore della leg­ ge 180 si è posto il problema di un riutilizzo delle strutture del­ l’Ospedale psichiatrico che, gra­ dualmente, sarebbero state libera­ te dai pazienti. Analogo discorso valeva per le ampie superfici, par­ te a bosco e parte coltivate. Varie sono state le ipotesi prese in con­ siderazione, non ultima quella che prevedeva la realizzazione di una sede universitaria – una sorta di college – progetto che però non è riuscito a radicarsi ed è pertanto stato abbandonato dopo una bre­ ve, ma animata discussione. Non c’è stata, quindi, un’idea di fondo, sviluppata nel tempo, che ri­ guardasse l’intera superficie a suo tempo destinata ad Ospedale psi­ chiatrico (25 ettari per l’intera su­ perficie) ma l’adozione di una se­ rie di decisioni di utilizzo dei vari

edifici, per diverse attività, in fun­ zione di specifiche esigenze che a mano a mano venivano a manife­ starsi sul territorio. A fronte dell’esigenza di disporre di un idoneo edificio da destinare a scuola media superiore, è stata ope­ rata la scelta di utilizzare, previa ra­ dicale ristrutturazione, il padiglione centrale, riservando pertanto alle attività didattiche la porzione posta più a sud del complesso ospeda­ liero. Tale intervento viene attua­ to per lotti e vedrà il completa­ mento della ristrutturazione del padiglione centrale nel corso dei prossimi 3-4 anni. Il lavoro si com­ pleterà con la realizzazione di un palazzetto dello sport, che sarà utilizzato, oltre che dalla scuola, anche dalla comunità perginese e che sarà realizzato in corrispon­ denza al margine sud-ovest del complesso ospedaliero, a ridosso del nucleo storico del “Tegaz”. Il padiglione “Osservazione” è sta­ to destinato e utilizzato ormai da tempo dalle attività sanitarie, come pure il contiguo padiglione “Perusi­ ni”; che attualmente ospita il repar­ to psichiatrico. Il padiglione “Pan­ dolfi”, costruito nel 1934, è diven­ tato adesso R.S.A. di tipo psichiatri­ co, mentre il padiglione “Valdagni” sarà adibito, tra breve tempo, ad am­ bulatori e a uffici della struttura sa­ nitaria. Un discorso a sé va fatto per quanto concerne il padiglione “Be­ nedetti”, realizzato negli anni cin­ quanta, e che fino a non molto tem­ po fa ospitava il reparto psichia­ trico, mentre attualmente è utiliz­ zato solo in parte per attività sa­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

nitarie. Ebbene, il padiglione “Be­ nedetti”, insieme con altre strut­ ture realizzate in questi ultimi cin­ que anni, verrà adibito a struttura ospedaliera (centro di riabilitazio­ ne), in sostituzione dell’attuale Ospedale Villa Rosa. Da anni si sta lavorando intorno a questo pro­ getto che vedrà il suo completa­ mento nel 2005. Le strutture più decentrate, come Maso San Pietro e Maso Tre Castagni, sono state oggetto di interventi di ristrutturazione (attualmente anco­ ra in corso per quanto concerne due dei tre edifici del Maso Tre Casta­ gni) e destinate a comunità di recu­ pero. Da quanto detto, emerge in ma­ niera abbastanza evidente, che l’in­ tera struttura dell’ex Ospedale psi­ chiatrico sta assumendo una propria precisa fisionomia, con una altret­ tanto precisa destinazione dei vari edifici all’interno del complesso; edifici che sono stati oggetto, o lo saranno a breve, di interventi di ri­ strutturazione o di ampliamento. Ciò che rimane ancora aperto è il discorso relativo all’utilizzo degli spazi liberi intorno ai quali si è svi­ luppato un confronto, in questi ul­ timi anni, con la Provincia, proprie­ taria dell’intero complesso, ai fini di una fruizione di tali spazi da parte della comunità di Pergine. L’obiettivo di fondo è quello di una sorta di “recupero” alla comunità perginese di quest’area che è stata in qualche modo sottratta alla co­ munità stessa nel periodo di funzio­ namento dell’Ospedale psichiatri­ co. Sottratta, ma anche preservata da speculazioni di vario genere. 45

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Con il progetto che si intende realizzare si vuole in qualche modo eliminare, almeno parzialmente, an­ che il muro che ha isolato la strut­ tura ospedaliera dal resto della co­ munità, rendendo tale barriera permeabile in più punti, al fine di consentire un’adeguata fruizione degli spazi dell’ex Ospedale psi­ chiatrico alla comunità stessa. Le coordinate entro le quali il pro­ getto di riutilizzo dell’area dell’ex Ospedale psichiatrico dovrà artico­ larsi possono essere sostanzial­ mente riassunte nel modo seguen­ te:

1. utilizzare i volumi esistenti at­ traverso processi di ristruttura­ zione, limitando gli ampliamen­ ti nei termini già definiti attra­ verso le progettazioni autoriz­ zate; 2. limitare allo stretto necessario la realizzazione di nuovi edifi­ ci; 3. evitare che i viali interni, soprat­ tutto quelli della parte più bassa, vengano interessati dal traffico veicolare. Occorre far sì che ven­ ga costruito un collegamento for­ te tra la struttura ospedaliera in fase di realizzazione (nuovo Vil­ la Rosa) e il centro storico del­

Bruno Caruso, I pazzi del manicomio di Palermo (che mimano la corrida), disegno acquarellato, 1955.

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la città di Pergine, attraverso un percorso protetto. Questo per­ corso deve diventare una sorta di sutura tra la città e l’area del­ l’ex Ospedale psichiatrico, un elemento di collegamento for­ te tra i due spazi urbani, una sorta di canale che consenta un flusso di persone dal centro abitato a questo polmone ver­ de e viceversa, tale da poter essere usufruito in assoluta si­ curezza; 4. gli accessi ai vari edifici devo­ no essere garantiti dalla viabi­ lità periferica (Via San Pietro), con penetrazioni limitate ai di­ versi complessi, dove saranno realizzati parcheggi ad uso de­ gli stessi; 5. il complesso dei percorsi esisten­ ti all’interno delle aree a bosco e delle aree coltivate andrà comple­ tato al fine di creare circuiti per pedoni e per ciclisti, con aree di sosta, nei punti più panoramici e con aree attrezzate a gioco per i bambini; 6. buona parte della superficie at­ tualmente coltivata e affidata in gestione all’Istituto sperimenta­ le per l’agricoltura della Costa, che è opportuno continui a mantene­ re questa funzione, con alcune varianti. In particolare, si riter­ rebbe utile creare una sorta di “Museo delle colture agricole”, at­ traverso il recupero di specie arboree frutticole che stanno scomparendo soppiantate dalle colture intensive. Tutto questo per mantenere la memoria dei sa­ pori della frutta di un tempo. Ciò sarà possibile grazie anche

alla disponibilità della Direzio­ ne dell’Istituto sperimentale dell’agricoltura. È questo un ele­ mento nuovo che potrà carat­ terizzare fortemente una por­ zione del territorio dell’ex Ospe­ dale psichiatrico. Sempre con riferimento alla vege­ tazione, si dovrà tenere conto del­ le specie arboree di particolare in­ teresse e che potranno diventare, nell’ambito di questo progetto di recupero delle aree aperte dell’ex Ospedale psichiatrico, sorta di monumenti vegetali sui quali at­ trarre l’attenzione dei visitatori. Pergine “Città dei bambini” po­ trà trovare, nell’utilizzo di questi ampi spazi, nuovi elementi per rin­ forzare quel concetto di attenzio­ ne nei confronti delle categorie più deboli che è alla base del pro­ getto stesso della “città dei bam­ bini”1 . È un’occasione, questa, che consentirà di dare ulteriore sostan­ za a un progetto che è stato am­ piamente recepito da parte della popolazione e apprezzato per il suo contenuto. Un accenno, infine, ad altri due interventi da realizzarsi all’interno dell’area dell’ex Ospedale psichiatri­ co, la cui attuazione consentirebbe di creare un cordone di saldatura forte con la città. Ci si riferisce alla realizzazione di un parcheggio inter­ rato su due piani a fianco del co­ struendo palazzetto dello sport, che consentirebbe di mettere a disposi­ zione della comunità perginese, re­ sidente nella parte più antica della città, una struttura per il ricovero dei propri automezzi2. Altro intervento riguarda l’ipo­ 47

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tesi di realizzazione di un audito­ rium, costruito per la scuola, ma realizzato in modo tale da poter essere utilizzato anche per l’atti­ vità ricreativo-culturale nel perio­ do estivo. Il sito per collocare que­ sta struttura dovrebbe essere, na­ turalmente, quello delle pertinen­ ze scolastiche e quindi verso la porzione a sud-ovest dell’area dell’ex Ospedale psichiatrico. È un’ipotesi da approfondire e valutare attentamente; certo è che consentirebbe di tradurre in concre­ to – e in maniera forte – il concet­ to di apertura degli spazi dell’ex Ospedale psichiatrico alla comunità e viceversa. La posizione dell’area, a pochi passi dal centro storico, dotata di infrastrutture per par­ cheggio, con a fianco un ampio parco, è quanto di meglio si possa pensare per un’opera di questo genere. Occorre però passare, ades­ so, dal campo delle ipotesi a quel­ lo delle idee tradotte in progetti concreti.

no. Gli elaborati sono stati oggetto di una mostra svoltasi nel mese di maggio 2002 (n.d.r.). [2] Si potrebbero liberare così an­ che le strade, in particolare nelle ore notturne, dai veicoli in sosta, con tutti i benefici che un’operazione di questo genere comporterebbe. Basti pensare a quanto sarebbe age­ volato il lavoro di pulizia delle strade nelle ore notturne oppure lo sgombero della neve e via dicendo.

NOTE [1] Il progetto «città dei bambi­ ni» si riferisce all’iniziativa svi­ luppata dall’amministrazione comunale di Pergine Valsuga­ na in collaborazione con gli architetti del gruppo “Palo­ mar”, che vede la partecipa­ zione di alcune classi scolasti­ che a laboratori di progetta­ zione partecipata con la rac­ colta di idee e proposte su come i bambini immaginereb­ bero la città nella quale vivo-

Renzo Anderle è sindaco di Pergine Valsugana dal maggio 2000.

Il recupero del parco Carmelo Anderle e Fabrizio Fronza

Il Servizio Ripristino e Valorizzazione della Provincia Autonoma di Trento e il suo contributo al recupero del parco dell’ex ospedale psichiatrico di Pergine

Il Servizio Ripristino e Valorizzazione Ambientale della Provincia autonoma di Trento Alla fine degli anni ottanta, in una fase di emergenza occupazionale e ambientale, la Provincia autonoma di Trento avviò un piano strategico la cui importanza, per i suoi risvolti paesaggistici e occupazionali, è sta­ ta in seguito universalmente ricono­ sciuta. Tale esperienza, nata come misu­ ra di emergenza si è in seguito con­ solidata e ha dato origine ad un set­ tore specifico dell’amministrazione pubblica che cura una vasta gamma di interventi sul territorio. L’inserimento del progetto di re­ cupero dell’ex Ospedale psichiatrico di Pergine nel piano del Servizio Ri­ pristino e Valorizzazione Ambienta­ le testimonia la scelta di restituire ad un uso pubblico il compendio del­ l’ex ospedale, valorizzando e riorga­ nizzando gli spazi interni, nel rispet­ to della memoria storica del luogo. La riqualificazione degli spazi in­ terni all’ex Ospedale psichiatrico, Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

e la valorizzazione del sistema del verde consentiranno di restituire il parco alla cittadinanza, recupe­ rando la memoria storica del luo­ go. Il contesto socio-economico in cui è nato il Servizio A metà degli anni ottanta la disoc­ cupazione in Trentino raggiungeva il 10% circa. Dopo il disastro di Sta­ va del 19 luglio 1985, il governo provinciale in piena emergenza ambientale intese rispondere alla duplice domanda di posti di lavo­ ro e di difesa del territorio con un "Progetto speciale". Nel 1986 un primo gruppo di quattrocento ex-disoccupati furo­ no da subito impiegati in opera­ zioni di manutenzione ordinaria del territorio. Superata la fase di emergenza alla fine degli anni ottanta si chiuse l’esperienza del "Progetto specia­ le per l’occupazione attraverso la valorizzazione delle potenzialità turistiche ed ecologico-ambienta­ li" e nacque una nuova struttura dell’amministrazione provinciale, il Servizio Ripristino e Valorizzazio­ ne Ambientale, il cui ruolo è preci­ sato nella Legge provinciale 32. La legge d’istituzione del Servizio La Legge provinciale n. 32/1990 coniuga le esigenze di sostegno occupazionale per particolari fasce deboli di forza lavoro con iniziati­ ve di interesse generale nel com­ parto ambientale e turistico-cultu­ rale: i settori d’intervento com­ prendono la rete dei percorsi turi­ 49

Il recupero del parco

stici e culturali, i manufatti d’in­ teresse culturale, le piste ciclope­ donali, i parchi e i giardini pub­ blici, il consolidamento dei versan­ ti franosi, il recupero dei relitti stradali e la realizzazione di pen­ siline di fermata degli autobus. Gli interventi sul territorio sono gestiti dal Servizio Ripristino e Va­ lorizzazione Ambientale in base a un programma pluriennale approvato dalla Giunta provinciale. Le opere sono ammesse al finan­ ziamento in base a logiche di prio­ rità ed equità territoriale e alle

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proposte dei comuni secondo le previsioni della pianificazione ur­ banistica provinciale subordinata, privilegiando gli interventi dov’è prevalente l’impiego di manodo­ pera e di materiali naturali. Per capire le implicazioni della L.P. 32 è utile conoscere alcuni dati geografici e sociologici della provincia di Trento (tab. 1). I dati evidenziano che dal pun­ to di vista della disoccupazione il Trentino si trova in una posizione privilegiata rispetto al resto della penisola (tab.3).

(Il tasso di attività è calcolato come rapporto tra le persone appartenenti alle forze di lavoro e la popolazione di età superiore ai 15 anni).

Tab. 1 caratteristiche geografiche e demografiche della Provincia Autonoma di Trento (1999).

I soggetti La legge n. 32 impegnava l’ammi­ nistrazione provinciale a trovare occasioni d’impiego nel settore ambientale alle categorie sociali deboli. I primi ad essere assorbiti furono gli ultracinquantenni e le donne ultraquarantacinquenni cui veniva meno la protezione della “cassa integrazione guadagni”. In seguito sono state coinvolte altre categorie: disoccupati, emi­ grati trentini rientrati dal Sud America e dai territori dell’ex Ju­ goslavia. Un’apposita Commissio­ ne provinciale per l’impiego indi­ vidua numero e tipologia dei la­ voratori da impiegare nei vari pro­ getti individuati e gestiti dal Ser­ vizio Ripristino e Valorizzazione Ambientale; la gestione della ma­ nodopera e la fase esecutiva di re­ alizzazione delle opere sono inve­

ce affidate a un consorzio che rag­ gruppa le cooperative presenti sul territorio (tab. 4). Settori d’intervento a) Parchi e giardini storici. Il progetto di recupero e riqualifi­ caione dell’ex Ospedale psichiatri­ co di Pergine rientra nelle tipolo­ gie d’interventi previsti nel piano del Servizio Ripristino e Valorizza­ zione Ambientale ed è assimilabi­ le ad altri interventi in parte già realizzati (Giardino storico di Vil­ la de’ Mersi a Trento, Parco arcidu­ cale ad Arco) o la cui progettazio­ ne è in corso (Parco delle Terme di Levico e Parco delle Terme di Ron­ cegno). Nell’area dell’ex Ospedale psichiatrico di Pergine da due anni sono in corso interventi di manu­ tenzione ordinaria per riqualifica­

Tab. 2 Tassi di disoccupazione comparativi con altre realtà .

Tab.4

Grafico 1

Tab. 3 Tasso di disoccupazione:% di pesone in cerca di occupazione rispetto alla forza lavoro. Fonte: Servizio Statistica P.A.T. annuario generale statistico anno 2000

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re zone degradate e non fruibili dai visitatori. Con le operazioni di diradamento selettivo si riapriran­ no spazi aperti in zone preceden­ temente rimboscate, rendendo così fruibili molti spazi interclusi. È inoltre in corso la fase esecutiva di un progetto che mira al riordi­ no e alla riqualificazione di tutte le aree dell’ex Ospedale psichiatri­ co a cura del Dott. Carmelo Ander­ le. Le linee guida del progetto sono state concordate in numero­ si momenti di confronto e dibatti­ to nell’ambito del gruppo di lavo­ ro sugli ex ospedali psichiatrici di cui fanno parte il Comune di Per­ gine Valsugana, un gruppo di ri­ cerca coordinato dall’Università di Trento con storici, archivisti e ar­ chitetti e il Servizio Ripristino e Va­ lorizzazione Ambientale della Pro­ vincia autonoma di Trento;

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b)Parchi urbani ed extraurbani Sono ormai quasi 150 gli interventi realizzati in varie località del terri­ torio trentino per conto delle ammi­ nistrazioni locali. Molte opere han­ no contribuito a riorganizzare e ri­ qualificare aree marginali quali ex discariche d’inerti, zone incolte o vecchie aree già utilizzate come parchi urbani. Gli interventi com­ prendono parchi urbani, extraur­ bani, fluviali, ricreativi all’aperto, sportivi agonistici e non, oltre a parchi termali e altri ambiti pub­ blici (stazioni ferroviarie, scuole); c) Recupero delle rive dei laghi Gli interventi di recupero rive la­ ghi realizzati a partire dalla fine degli anni ottanta riguardano la

riqualificazione di fasce lago par­ ticolarmente frequentate e sottoposte a carico antropico, con il fine di riqualificare paesaggisticamen­ te zone degradate. Si tratta gene­ ralmente di: - opere di difesa spondale quali scogliere, rimodellamento ecc. - passeggiate circumlacuali, piste ciclabili, passerelle e sentieri - opere d’ingegneria naturalistica per la rinaturalizzazione delle rive - creazione di veri e propri parchi pubblici, riapertura di zone in­ tercluse, lidi per bagnanti. La riqualificazione delle fasce di rispetto dei laghi è in linea con le indicazioni del piano urbanistico provinciale, che individua in detta­ glio le zone soggette ad interventi di riqualificazione paesaggistica. Nel corso di 12 anni di lavori sono stati realizzati significativi interventi sulle sponde di 17 laghi: 7 nuovi bacini sono stati creati ex novo nell’ambito di sistemazioni paesaggisti­ che; d) Piano generale delle piste ciclabili d’interesse provinciale. Il piano generale delle piste ciclopedonali d’interesse provinciale è in avanzata fase di realizzazione: degli oltre 400 Km di progetto sono sta­ ti finora realizzati circa 350 Km di tracciati, utilizzando prevalente­ mente tomi arginali e strade interpoderali. La rete, una volta ultimata, con­ sentirà ai ciclisti di raggiungere i centri principali della provincia di Trento su percorsi dedicati e protetti;

e) Recupero di aree franose ed ex discariche Si tratta di sistemazioni di pendio che sono prevalentemente realizza­ te con le tecniche dell’ingegneria na­ turalistica. Dal 1990 sono stati ultimate le si­ stemazioni di circa 30 scarpate e 26 discariche, per un totale di più di 50 ettari di territorio sistema­ to; f) Aree di sosta e pensiline per la fermata lungo le strade provinciali. Un’attività capillare di ricucitura del territorio, forse la più visibile anche ai non addetti ai lavori, è quella della riqualificazione dei relitti stradali, tratti viari abban­ donati, aree marginali che sono state rese disponibili alla fruizio­ ne pubblica come aree verdi per la sosta. Nel corso di circa 10 anni d’interventi sono stati realizzati circa 230 interventi ormai entrati nel piano di manutenzione ordi­ naria. g) Passeggiate e sentieri turistici e naturalistici. Nel corso degli anni continua il re­ cupero della fitta rete di percorsi pedonali d’interesse culturale ed ambientale. Si recuperano e realiz­ zano ex novo antichi tracciati di montagna, camminamenti della Grande Guerra, percorsi naturali­ stici ed etnografici e viabilità sto­ riche, riscoprendo le tecniche del­ la tradizione: muri a secco, selciati, opere in legname per il conso­ lidamento dei versanti, stacciona­ te; Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

h) Beni culturali minori Capitelli, insegne votive, manufatti che testimoniano la storia del Tren­ tino come segherie ad acqua e vec­ chi mulini, sono stati restaurati e resi visitabili. Nel caso delle segherie e mulini il recupero delle parti in mo­ vimento ha permesso una fruizione a scopo didattico; i) Altro Negli ultimi anni si è consolidata la collaborazione con Arte Sella, Bien­ nale internazionale d’arte e natura che si svolge nei boschi, prati e nel greto del torrente della Val di Sella (Borgo Valsugana). La collaborazio­ ne con artisti di levatura internazio­ nale consiste nell’apporto operativo di risorse per la realizzazione e ma­ nutenzione delle opere. Oltre alle attività più propriamente legate al paesaggio il Servizio Ripri­ stino e Valorizzazione Ambientale fi­ nanzia e coordina: - Attività d’indagine per la ricogni­ zione delle infrastrutture del ser­ vizio idrico; - Custodia di musei e castelli. Scenari attuali e futuri punti critici L’avvento del Servizio Ripristino e Valorizzazione Ambientale ha au­ mentato la sensibilità delle ammi­ nistrazioni locali riguardo alle te­ matiche del paesaggio, scatenan­ do delle "reazioni a catena" in base ad un effetto imitazione che ha avuto ripercussioni su tutto il ter­ ritorio provinciale. Dal punto di vista sociale il caso del Servizio Ripristino e Valorizza­ zione Ambientale è stato citato 53

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come “Esempio di buona prassi nella gestione del fattore età” dalla “Fondazione europea per il mi­ glioramento delle condizioni di vita e del lavoro" nell’ambito del­ la ricerca “lotta alle barriere basa­ te sull’età nel lavoro”, riconosci­ mento che va ben oltre i confini della Provincia di Trento e che per­ mette di dare forza alle strategie per l’occupazione individuate nel corso di diverse legislature. In alcuni casi però sono stati evidenziati i limiti dell’impiego di manoopera non specializzata e/o con problemi di vario genere, tra cui l’assenza di esperienza e qua­ lificazione professionale. Dal pun­ to di vista del mercato del lavoro l’inserimento dei lavoratori ex cas­ sintegrati nel piano dei progetti di ripristino ambientale ha contribu­ ito alla riemersione di forza lavo­ ro dal sommerso. Il piano occupazionale lascia

spazio all’impiego di soggetti de­ gli ex ospedali psichiatrici, molti dei quali sono già stati inseriti in analoghe iniziative per il lavoro “protetto”, come l’Azione 12 del­ l’Agenzia del lavoro. La loro collo­ cazione in uno stabile progetto occupazionale potrebbe costituire un’efficace strategia terapeutica. La riqualificazione del parco dell'ex Ospedale psichiatrico Al fine di riqualificare l’area del parco dell’ex Ospedale psichiatri­ co di Pergine il Comune di Pergine in accordo con il Servizio ripristi­ no e valorizzazione ambientale della Provincia autonoma di Tren­ to, ha formalizzato un incarico a un progettista per la redazione della progettazione preliminare. Nel corso del 2001 è stata concor­ data e presentata una proposta progettuale, redatta in base agli studi e alle valutazioni del grup-

Budget totale (in Euro)

56.754.481,55

di cui

cofinanziati UE finanziati Provincia relativi al piano piste ciclabili amministrati direttamente

7.230.396,59 28.405.129,45 17.043.077,67 3.873.426,74

Budget totale (in Euro)

42.998.652,74

di cui

amministrati direttamente compresi investimenti e attrezzature nonché per la gestione in amministra zione diretta dei Parchi di Levico e Roncegno per il piano piste ciclabili

4.798.093,14

7.734.869,30

Foto 1 - 1882 - La mappa mostra il probabile sedime dell’edificio originario, così come si presentava negli elaborati progettuali; da notare le previsioni di giardini all’italiana sui lati dell’ingresso ed in corrispondenza dell’attuale parcheggio; le aree a prato e a bosco sulla collina e a monte dell’edificio, la viabilità originaria verso Maso San Pietro ed il Castello.

Tab. 5 Informazioni finanziarie 1997-1999

Tab. 6 Informazioni finanziarie 2000-2002

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po di lavoro coordinato dalla prof.ssa Casimira Grandi, docente di Storia sociale presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento, e in base alle esigenze e alle richieste della cittadinanza e delle diverse amministrazioni coinvolte. Studio preliminare per una ricostruzione storica dell’evoluzione del parco dell’ex Ospedale psichiatrico di Pergine. Nel corso dei numerosi incontri che hanno preceduto la stesura del progetto è stata significativa la co­ noscenza del generale Gian Pietro Sciocchetti, il quale, nell’intento di realizzare una storia del manico­ mio di Pergine (“Appunti per un ipertesto sulla storia del manico­ mio di Pergine: l’ospedale psichia­ trico di Pergine Valsugana attraver­

so vecchie immagini fotografiche e la ricostruzione delle planimetrie di vari edifici”), ha saputo racco­ gliere diverse immagini storiche. Di queste alcune sono state utilizza­ te al solo scopo di rinvenire trac­ ce della vegetazione e dell’arredo originario del parco dell'ex Ospe­ dale psichiatrico di Pergine. Nelle pagine successive, con il permesso dell’autore si propone una lettura critica delle stesse con alcune note di commento in dida­ scalia. Le date sono quelle ripor­ tate da Sciocchetti. La carta catastale storica d’impianto. Alla formazione della cartografia catastale si arrivò a partire dalle reti di triangolazione del 1856, per seguire con il rilievo di detta­ glio degli anni 1860. La formazione del patrimonio 55

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Dall’alto: Foto 2 - 1882 – La facciata principale ed il muro di cinta: quest’immagine deve essere anteriore di qualche anno alle due immagini successive in quanto qui siamo in fase di messa a dimora delle piante; il muro di cinta è pressoché pulito: le immagini fanno propendere per un giardino all’italiana che però sembra non collimare con i disegni di progetto?! Foto 3 - 1882 – Da questa foto è possibile notare i probabili giardini «all’italiana» realizzati sia sul lato nord-est sia su quello sud-ovest dell’edificio principale. Nella parte bassa della foto, all’inizio dell’attuale salita per maso San Pietro (campi di bocce) è presente un’area aperta, non boscata.

Dall’alto: Foto 4 -1885-1890 La facciata del nuovo manicomio: qualche anno dopo l’inaugurazione si nota la presenza di vegetazione all’interno del muro, che però non supera l’altezza del primo solaio: le eventuali alberature non si sono ancora affrancate. Foto 5 1885-1890 - Il padiglione centrale è accompagnato da vegetazione, anche arborea che non supera però la quota del solaio del primo piano, se non in parte sul lato sinistro della foto. Sullo sfondo, cioè sulla collina del Tegazzo appaiono solo piante latifoglie a chioma voluminosa (forse castagni?), non si rinvengono conifere.

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Dall’alto: Foto 6 - 1905-1910 Il padiglione Pandolfi con il muro antistante, all’interno del quale non è ancora presente alcuna alberatura. Lo stesso fu costruito negli anni 1903-1905. Foto 7 - 1905-1912 – Attraverso l’ingresso principale si nota il cimale di una conifera (forse un abete rosso) a destra sopra la portina; l’altezza presunta è di 5-6 metri.

Dall’alto: Foto 8 - 1905-1912 Anche qui si può notare la presenza di un filare di conifere, poste con sesto d’impianto abbastanza irregolare davanti alla facciata e lungo il vialone d’ingresso, che raggiungono a malapena il secondo solaio. Foto 9 - 1912 – Di fronte all’edificio della «Portineria vecchia» è presente una conifera (probabile cedro) di dimensioni già elevate, perlomeno pari all’altezza dell’edificio principale (tre piani).

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Dall’alto: Foto 10 - 1912 – Questa immagine da corpo alla conifera vista nella foto precedente si notano infatti alcune grosse conifere sulla destra dell’ingresso principale del padiglione, di cui la prima un cedro, la seconda un abete e poi altre; a sinistra dell’ingresso vediamo svettare l’abete richiamato Foto 11 - 1912 – Da questa immagine presa da Maso San Pietro è facile notare come i presunti giardini «all’italiana» presenti sul lato nord-est siano ormai dominati da uno strato di conifere che raggiunge in altezza il tetto, dell’edificio. Dalla collina sono visibili la piattaforma recintata posta all’incirca in prossimità dell’attuale campo di bocce, la lavorazione a vigneto dell’anfiteatro posto a ridosso della stessa, la piantumazione con latifoglie delle pendici a ridosso dell’acquedotto austriaco. Vegetazione abbondante anche in prossimità dei padiglioni Pandolfi e Perugini.

Dall’alto Foto nr. 12 -1912 – La stessa immagine capovolta, presa dalla piattaforma recintata, mostra Maso San Pietro posto alla sommità di un terrazzamento a vigneto, con qualche latifoglia verso la presa dell’acquedotto ed il bosco di latifoglie a destra della vallecola. Le piante più vicine alla recinzione sembrano essere fruttifere, impalcati ad alberetto. Foto nr. 13 -1912 – Anche questa immagine mostra le aree aperte ed i fruttiferi presenti sulla collina, a monte della cucina.

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Dall’alto: Foto nr. 14 -1912 – Analogamente, a monte dell’obitorio sono presenti alberature latifoglie tipicamente riconducibili a fruttiferi. Nei dintorni dell’edificio mancano i grandi pini neri attualmente presenti. Foto nr. 15 - 1915-1918 – Nel periodo della Grande Guerra l’Ospedale fu trasformato in Ospedale Militare; si nota come cedri ed abeti abbiano già raggiunto altezze di 10-15 m. La foto mostra il lato ovest della proprietà, in particolare lungo via San Pietro in corrispondenza del Padiglione Pandolfi. I Padiglioni Pandolfi e Perusini furono costruiti già a partire dal 1903 anche se inaugurati e denominati nel 1920.

Dall’alto: Foto nr. 16 -1954 – Dalla foto aerea si può notare la quasi completa assenza di bosco sulle superfici della collina, in particolare a monte dell’edificio principale, intorno a Maso San Pietro, a valle dell’acquedotto austriaco, nell’area attualmente agricola; il bosco è relegato alle aree più pendenti poste nord-ovest e per un tratto a monte della piattaforma, ora campo di Bocce. Nel parco sono visibili alberature intorno a tutti gli edifici. Foto nr. 17 - Questa cartolina è probabilmente stata scattata nei primi cinque anni successivi all’inauguazione (1885-1890); si possono notare il viale alberato (ippocastani) lungo Via Tegazzo, gli orti con due pozzi centrali al posto dell’attuale parcheggio, i giardini all’italiana ancora distintamente visibili sui lati sud-ovest e nord-est dell’edificio principale.

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Dall’alto: Foto nr. 18 - Questa foto aerea è collocabile all’incirca nel secondo decennio del secolo scorso (1910-1915); si vedono le alberature che ormai dominano completamente quello che era nato come giardino all’italiana; lungo il viale centrale è presente una doppia quinta arborea che a detta di qualche testimone dovrebbe essere stata costituita da «peri»; sono visibili gli orti verso via Tegazzo ed il recinto del nuovo padiglione costruito tra il 1903-1905, poi chiamato «Perusini». Non è ancora presente l’Osservazione che è del 1920 Foto nr. 19 - Nel primo dopoguerra la vegetazione del parco del manicomio sembra essere lussureggiante: sono cresciute a dismisura le piante intorno al padiglione centrale, quelle lungo il viale centrale, quelle poste a dimora nei fossati, davanti a Perusini e Valdagni; è presente il reparto Osservazione mentre sono spariti parte degli alberi presenti nel cortile centrale alla sinistra dell’edificio Principale; le rive a valle di Maso San Pietro, terrazzate, sono segate e punteggiate da alberi da frutto (1935-1940).

Dall’alto: Foto nr. 20 - Anche (1935-1945) in questa seconda cartolina forse contemporanea alla prece­ dente si può notore come le alberature dei giardini del lato sud-ovest siano ormai coprenti; lo stesso orto lussureggiante nella stagione estiva è dotato di corposi arbusti centrali, forse sempre­ verdi; gli ippocastani di via Tegazzo, pur a forma tondeggiante e regolare (potati?) uguagliano o superano i tetti delle case Le superfici poste a monte del padiglione centrale sono ancora prati­ ve, come peraltro rimarranno fino agli anni sessanta, e sono punteggiate da antichi castagni. Foto nr. 21 - Il padiglione Benedetti fu inaugurato nel 1966; negli anni sessanta furono effettuati numerosi interventi di messa a dimora di specie, in particolare sulla collina, ma anche in prossimità del nuovo edificio; qui si possono notare gli alberetti, a)ancora impalati che potrebbero corrispondere a parte delle 150 Lagestroemie poste a dimora nel 1965.

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cartografico avvenuta negli anni tra il 1853 e il 1861 precedette la determinazione dei redditi dell'im­ posta fondiaria nella seconda metà dell'Ottocento e quindi l'opera di impianto del Libro fondiario ini­ ziato nei primi anni del Novecen­ to e conclusosi nella seconda metà degli anni cinquanta. Numerosi sono i testi, le norma­ tive, le istruzioni e le direttive rac­ colti nei Bollettini Leggi Imperiali asburgici dal 1849 al 1918. Ciò si­ gnifica che il progetto del Mani­ comio di Pergine fu successivo alla redazione della carta catastale e che la stessa rappresenta quindi la situazione della campagna pergi­ nese preesistente alla costruzione di quello che oggi è ancora chia­ mato Padiglione centrale. Osservando la mappa catastale storica si può notare come il bo­ sco occupi i versanti pendenti e rivolti a nord delle pendici del col­ le del castello; in particolare è pre­ sente nel vallone posto a valle del maso San Pietro. Tutte le altre su­ perfici erano occupate quindi o da prati o da coltivi, di diversa quali­ tà, così come rappresentati in ver­ de, in giallo, in rosa. È interessante notare la preesi­ stenza sia del Maso San Pietro sia del Maso Tre Castagni: in prossi­ mità di quest’ultimo è visibile una sorta di croce formata da due viali alberati, con due piazzette, termi­ nale e centrale. Ancora oggi sem­ bra di poter vedere sul terreno le vestigia della piazzetta centrale. Di un certo interesse anche la viabilità storica verso il colle del castello e la posizione del canale

macinante nei suoi due rami. La carta proviene dagli archivi del catasto ed è parte dei Fogli di Map­ pa nr. 3-4 del C.C. di Pergine I. Alcune altre immagini Col prezioso contributo del signor Luciano Dellai sono state rinvenu­ te alcune immagini che sono rile­ vanti per capire l’assetto all’im­ pianto del manicomio di Pergine, in particolare del Padiglione Cen­ trale, e la sua evoluzione nei pri­ mi cinquant'anni del secolo scor­ so. Censimento delle alberature a) Aree pianeggianti - Nel corso della fase d’analisi per la predispo­ sizione del progetto sono stati censiti i soggetti arborei presenti nelle aree pianeggianti, poste a ridosso dei vari padiglioni. Di cia­ scuno è stata segnata la posizione su una planimetria riferita al pia­ no catastale, sono stati individuati genere e specie, è stato misura­ to il diametro a metri 1,30 dal suolo: a ciascuna è stato assegnato infine un indice di “pregio”, nell’ordine decrescente da 1 a 3. L’analisi permette di definire al­ cuni punti fermi: - Numero: numericamente la spe­ cie più rappresentata è sicura­ mente il Cedro deodara, segui­ ta lontanamente dall’Abete ros­ so, dall’Olmo siberiano, dal Pino nero d’Austria; le altre specie presenti si possono considera­ re sporadiche, non sempre co­ munque “esemplari” degni di nota; - Diametro: le piante più grosse

(in rosso nel grafico) sono rap­ presentate in particolare dal Cedro deodara, da pochi Cedri dell’Atlante, dal Pino nero e dal­ l’Abete rosso: notevoli sono inoltre un Tiglio, due Gingko, un Platano, alcuni Abeti rossi. Anche se la correlazione diame­ tro-età non è lineare ma può essere inficiata da specie e po­ sizione e da qualche altro fat­ tore, si può affermare con una certa disinvoltura che questi soggetti appartengono ad im­ pianti effettuati ancora alla fine del secolo scorso (1882-1912). Di questo periodo possono essere anche parte dei soggetti presenti nella fascia blu, in particolare i Ce­ dri atlatica, i Pini neri, forse qual­

che Abete rosso sottoposto. Gli altri soggetti blu si collocano a mio parere negli anni del dopoguerra assieme a qualcuno dei soggetti verdi, quali Cedro deodora, Pino nero, Cedro atlantica, un Gingko. Tutti gli altri soggetti possono essere riconducibili chiaramente agli anni sessanta-settanta, forse di poco valore storico ma con la possibilità, se in buona posizione ed in bune condizioni, di diventa­ re piante esemplari nel prossimo cinquantennio; - Indice di pregio: ai singoli sog­ getti è stato infine attribuito un numero che identifica il pregio del soggetto: è stato attribuito in base ad un’analisi visiva, fat­ ta da diverse posizioni, che tie-

Elenco delle piante da collocare presso i vari padiglioni (1965).

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ne conto delle caratteristiche della specie (longevità, appara­ to radicale, resistenza al gelo, resistenza agli eventi meteori­ ci, ecc.) e della sua ubicazione;

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quest’ultimo parametro è im­ portante perché consente di de­ terminare la possibilità del sog­ getto di svilupparsi nei prossi­ mi decenni e di divenire o con-

Cronologia degli interventi.

tinuare ad essere un "soggetto in esemplare". Ai soggetti mi­ gliori corrisponde un indice "1", ai peggiori un indice “3”.

piante da collocare presso i vari padiglioni:

Area collinare. Nell’area collinare invece sono sta­ te censite, descritte e cartografate le diverse tipologie di bosco pre­ sente; in ognuna di esse sarà poi possibile procedere secondo le in­ dicazioni di progetto con interven­ ti di tipo selvicolturali. Sono stati segnati ed evidenziati i soggetti arborei di maggior pre­ gio e le alberate presenti in que­ ste zone: in cartografia sono con­ traddistinti dalla stessa simbolo­ gia usata per le aree pianeggian­ ti. Il rilievo in questo caso è solo vi­ sivo e non supportato da strumen­ to di precisione. Sarà questa un’operazione che si dovrà effet­ tuare in sede di progetto esecuti­ vo.

a) Area Pianeggiante intorno agli edifici Così come previsto dal progetto, intorno all’Edificio Principale fu­ rono realizzate alcune aiuole ri­ conducibili alle tipologie dei “Giar­ dini all’Italiana”; le geometrie ab­ bastanza rigide vedono l’alternar­ si di vialetti ed aiuole. L’elevata esigenza di manutenzione costan­ te potrà essere colmata dal basso costo della manodopera e/o dal­ l’utilizzo degli stessi pazienti. L’anno 1882 fu anche l’anno di una delle più pesanti alluvioni che nel secolo scorso investirono i ter­ ritori alpini; anche negli anni 1884 e 1885 occorsero altri eventi calamitosi. A partire da queste date l’Impero Austroungarico iniziò una serie di colossali opere di regima­ zione dei torrenti e di consolida­ mento dei versanti, con ingente uso di materiale vivaistico e note­ vole spinta anche all’uso delle co­ nifere; gli stessi cantieri di siste­ mazione si appoggiavano a vivai appositamente creati per far fron­ te alla richiesta ingente di mate­ riale da rimboschimento. È quindi spiegata non solo la disponibilità di materiale vivaistico per tutti gli enti in qualche modo legati al pub­ blico, ma anche la moda che si ven­ ne a creare circa l’impianto di spe­ cie conifere. È molto probabile che anche nelle aiuole (forse al cen­ tro delle stesse) dei cosiddetti Giardini all’Italiana, pur non es­

Notizie utili Il giorno 3 marzo del 1965 il dott. Giordano Castelli, nel quadro dei lavori di assestamento dell’Ospe­ dale psichiatrico di Pergine tra i quali era previsto anche il parzia­ le rinnovamento del parco e la messa a dimora di piante ad altofusto nelle adiacenze del nuovo padiglione (leggasi Ferretti) chie­ deva all’Assessorato regionale al­ l’Economia montana e foreste di Trento: - 20 Abeti rossi - 20 Abeti argentati - 10 Cedri deodara o del libano È sempre del 1965 un elenco di Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

Considerazioni critiche

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sendo le specie adatte, fossero messe a dimora molte conifere: questo spiegherebbe non solo la loro attuale presenza, considerata anche la longevità di alcune di queste specie, ma anche l’apparen­ te irregolarità dell’impianto. Le piante messe a dimora alla fine del secolo scorso crebbero e furono probabilmente integrate da altre, simili per specie e genere, seguendo lo sviluppo urbanistico del complesso manicomiale. Già dal periodo della prima guerra mon­ diale sembrano pressoché spariti i giardini all’italiana, che rimasero forse solo in parte segnati sul ter­ reno. È interessante notare come men­ tre il padiglione centrale fungeva anche da sede di rappresentanza, i due nuovi padiglioni, il Perusini ed il Pandolfi, erano destinati a quelli che erano chiamati "agita­ ti"; questi due edifici erano dotati di un cortile recintato da un muro d’altezza pari a due metri circa ver­ so l’interno. I due nuovi padiglioni furono costruiti negli anni 1903-1905 e probabilmente successiva a tale data è l’epoca di piantumazione degli stessi cortili; vennero inau­ gurati solo dopo la fine della guer­ ra (1920). Nel corso dei decenni sparirono quasi tutte le alberature presenti all’interno del Padiglione Centra­ le, tutte quelle presenti sul fronte sud-ovest, quasi tutte a parte un nucleo residuo lungo la strada sul suo lato nord-est. Ne resistettero alcune di quelle presenti lungo la facciata principale.

Degna di nota è la tradizione di una doppia alberatura sul viale centrale, che pur con alterne vicen­ de ed avvicendamenti di specie, è rimasto fino ai giorni nostri: non sarà l’ultimo l’impianto lungo lo stesso viale di Lagestroemie nel periodo Castelli (complessivamen­ te 150 piante nell’anno 1965). b) Area Collinare Sembra assodato che a partire dal­ l’anno dell’inaugurazione del pri­ mo edificio, la destinazione di qua­ si tutta l’area posta sulla collina, allora non completamente di pro­ prietà, fosse agricola. In partico­ lare un’ampia zona era prativa mentre un’altra consistente fetta era specificamente agricola: era coltivata sulle aree pianeggianti prospicienti maso San Pietro, ter­ razzata a vigneto nell’anfiteatro posto a valle di Maso San Pietro, alberata con piante da frutto scen­ dendo dall’acquedotto austriaco fin quasi all’edificio dell’Obitorio. Sulle "rive" segate e/o pascola­ te a monte dell’edificio principale emergevano vecchi castagni. Solo uno stretto lembo di bosco scen­ deva dalle pendici del colle del ca­ stello per giungere, con esposizio­ ne nord, fino quasi agli attuali cam­ pi di bocce. Pur con l’alternarsi delle coltu­ re, rimase comunque agricola sicu­ ramente fin dopo la seconda guer­ ra mondiale, fino a metà degli anni cinquanta, da quando comin­ ciò una radicale e sistematica opera di rimboschimento delle superfici ex-agricole, non più considerate produttive. È del decennio succes­

Bruno Caruso, L’armadietto pedagogico, disegno acquarellato, 1958.

sivo l’introduzione delle conifere anche sulle superfici a ridosso del padiglione centrale, la comparsa della Douglasia e del Pino Strobo, specie a rapido accrescimento che andarono di moda, per così dire, negli anni sessanta. La cosiddetta Legge Fanfani (prevedeva incen­ tivi per il rimboschimento di su­ perfici nude) promosse molteplici di questi interventi e dalla fine de­ gli anni cinquanta fin dopo la metà degli anni sessanta si sono succe­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

duti anche gli interventi di rimbo­ schimento della collina del castel­ lo, anche dopo la sua vendita da parte del Comune di Pergine al si­ gnor Oss. Furono introdotte so­ prattutto conifere, in particolare Abete rosso, Douglas, Pino strobo hymalaiano. La presenza del dott. Castelli diede nuovo spunto alle attività di giardineria; numerosi furono gli impianti effettuati ne­ gli anni sessanta, anche se sem­ bra verosimile pensare che gli stes­ 71

Il recupero del parco

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si interessassero in particolare il rimboschimento delle aree collina­ ri, non più coltivate. Di quegli anni possono essere tutti gli Abeti ros­ si presenti vicino a Maso Tre Ca­ stagni, molti degli Olmi siberiani, qualche Cedro himalaiano, le Dou­ glasie, i Pini strobi.

da parte dell’Ente manicomio, in particolare in prossimità di Maso San Pietro e Maso Tre Castagni; - affinità storica e contiguità an­ che strutturale dell’area collina­ re con il Parco del Castello.

In sintesi - Presenza di soggetti arborei di valore all’interno del parco pia­ neggiante (Cedrus deodara, Pi­ cea excelsa, Gingko biloba, Ce­ drus atlantica); - tradizione di un viale alberato centrale; - presenza originaria di molti giar­ dini all’italiana all’intorno e den­ tro il Padiglione Centrale; - presenza fino all’anno 1975 dei fossati antistanti i padiglioni Pe­ rusini e Pandolfi; - scarsa valenza storica del muro che delimita il manicomio da via San Pietro: risale agli anni ses­ santa e segue la demolizione del vecchio muro (parte del 1885 e parte del 1930) per allargamen­ to della strada e costruzione della nuova portineria; - bosco originario nella vallecola (solo su versante con esposizio­ ne nord) a monte del campo di bocce; - tradizione agricola e prati-pa­ scoliva su tutta l’area collinare; - tradizione agricola su terrazza­ menti nella vallecola (su versan­ te con esposizione a sud) a mon­ te del campo di bocce; - presenza sull’area collinare di grossi soggetti arborei, antichi e talora preesistenti all’acquisto

a) Valenza storica dell’Ospedale: - restauro degli edifici storici (obitorio, acquedotto, ecc.) - tabellare i vari edifici a ricordo del passato utilizzo; - definizione al suolo delle trac­ ce dei due ‘fossati’; - creazione di un percorso tema­ tico a ricordo dell’attività mani­ comiale; - realizzazione di un archivio sto­ rico presso il Maso Tre Castagni; - creazione di una Casa della me­ moria nel vecchio Obitorio (pic­ colo Museo).

Altre indicazioni progettuali

b) Valenza botanica del Parco: - valorizzazione e tutela di quan­ ti più possibili soggetti arborei di pregio e/o monumentali; - rifacimento di un tratto di giar­ dino all’italiana nei pressi del­ l’attuale edificio scolastico; - ripristino di almeno due strut­ ture coperte tipo ‘Gazebo o Glo­ riet’ nell’area collinare a ricor­ do dei preesistenti e a libera fruizione da parte del pubbli­ co; - tabellare i soggetti arborei di pregio e creazione di un percor­ so tematico ‘botanico’; - realizzazione di un piccolo giar­ dino botanico sulle pendici ter­ razzate esposte a sud della val­

Bruno Caruso, Povero & pazzo, incisione.

lecola a valle di Maso Tre Casta­ gni (ex vigneti). c)Valenza sociale: - ripristino dei manufatti realizzati dai “Malati” all’interno del par­ co; - realizzazione degli interventi per mezzo di operai ex cassaintegrati o disoccupati; - in ricordo e a memoria del­ l’”ergoterapia” la manutenzione futura del parco sarà affidata ad una cooperativa di solidarietà sociale o comunità di recupero (già presenti all’interno della struttura). d) Valenza estetico-paesaggistica: Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

- eliminazione e/o relativo inter­ ramento degli elettrodotti che attraversano il parco. e) Valenza fruizionale: - creazione di un’area giochi per bambini nell’area pianeggiante a supporto dei servizi sanitari; - creazione di un’area giochi per portatori di handicap nell’area pianeggiante a sevizio del nuo­ vo “Villa Rosa”.

Carmelo Anderle e Fabrizio Fronza sono funzionari del Servizio Ripristino e valorizzazione ambientale della Provincia autonoma di Trento. 73

Tracce per una riflessione Casimira Grandi

Gli ospedali psichiatrici come testimonianza per la Storia della scienza e delle istituzioni, ma anche come contenitori di tante storie minimali di vita di uomini e donne.

L’incontro seminariale del gruppo di lavoro Alla ricerca delle menti perdute1 tenutosi il 30 novembre 2001, dedicato a Progetti e rea­ lizzazioni per il riuso degli ex ospe­ dali psichiatrici nei territori italia­ ni appartenuti all’impero asburgi­ co, ha riunito persone con diverse competenze, che, con convinzione, percorrono un comune cammino volto ad affrontare la vergogna di una memoria oggi scomoda per affermare la coscienza storica di un recente passato troppo spesso volutamente dimenticato o banal­ mente male interpretato. Tra i par­ tecipanti non c’era la “boria dei dotti”, per dirla con Vico, non c’era ciarpame ideologico, ma la consapevolezza che derivava dal­ la sicura, documentata, conoscen­ za dei fatti. Il titolo del seminario delinea il centro focale dei lavori nell’impegno per il recupero degli “spazi della fol­ lia”, parafrasando Giuseppe Pantoz­ zi2, funzionale ad un ambito scienti­ fico ampio, che bene si può definire trans-disciplinare, senza una gerar­ 74

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chia di rilevanze, come si desume anche dalla pluralità delle discipli­ ne rappresentate, che trovano un punto di convergenza nella volontà di pervenire ad un riuso degli ex ospedali psichiatrici coerente con le aspettative della società contempo­ ranea, ma senza cancellare la memo­ ria delle passate funzioni. Come ha scritto l’architetto Luciani, sostan­ zialmente, s’indaga seguendo una li­ nea di “intrinseca continuità tra lo studio della storia e la messa in va­ lore dei suoi segni e sedimenti”3. Un proposito non sempre facil­ mente attuabile, perché sono molti gli interessi che gravitano attorno a ciò che rimane di queste istituzioni, le quali oscillano per lo più tra la totale cancellazione di quello che resta del manicomio e l’oblio dell’in­ differenza – un oblio, oserei aggiun­ gere, non di rado strumentale e af­ fatto estraneo alla psichiatria –. Coscienza della storia e vergogna della memoria I contributi presentati al semina­ rio si sono sviluppati nella pro­ spettiva di ciò che dovrebbe esse­ re l’ex istituzione manicomiale nel­ la società contemporanea, suppor­ tando la gracilità delle specificità locali entro la cornice di una co­ mune etica, che pone il ricordo come impedimento al ripetersi di eventi negativi. Affinché questo sia concretamente incisivo è neces­ sario intanto lasciare una traccia visiva di ciò che è stato per espri­ mere compiutamente quello che non si dovrà mai più ripetere. I quadri storici esposti dai parte­ cipanti erano tutti improntati alla

logica di una corretta interpreta­ zione della storia degli ospedali psichiatrici antecedenti la Legge 180, un’obiettività quanto mai ap­ prezzabile in una fase in cui è an­ cora troppo diffusa l’acritica nega­ zione del periodo precedente la ri­ voluzione basagliana. Una negazione che rischia di can­ cellare una memoria, perché è uno scomodo patrimonio di scienza e di sofferenza, che invece abbiamo il dovere civile di tramandare. Questa è, forse, la meta più ambi­ ziosa che si propongono coloro che sono interessati al riuso degli ex ospedali psichiatrici, perché la no­ stra società è pervasa da una preoc­ cupante debolezza etica. Si deve, e si può, ritrovare una morale nell’eti­ cità delle relazioni con il nostro pas­ sato; questo non dovrebbe essere difficile per chi, come gli italiani, può vantare una solida storia. Inol­ tre, non vanno sottovalutate le ostentate certezze o gli eccessi di modellizzazione di coloro che vor­ rebbero ricreare l’accerchiamento intorno ai “matti”, per deprecabili situazioni prodotte da défaillances amministrative, quando non da ir­ risolte paure per ignoranza della realtà contemporanea. L’approccio dato al nodo gordia­ no ex ospedali psichiatrici – col­ locazione degli ex pazienti, in con­ formità alla legislazione in atto e alle relative politiche sociosanita­ rie, presso l’opinione pubblica ma sovente anche presso un pubblico qualificato, non di rado ha porta­ to a valutazioni antitetiche che vanno dalla nostalgia per il pas­ sato istituzionale alla sua assolu­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

ta riprovazione, entrambe, comun­ que, pesantemente influenzate da nostalgiche ideologie politiche e dall’assenza della percezione sto­ rica del fenomeno. Questa peculiare condizione c’induce a ricordare come la storia sia nata sostanzialmente quale ancella della politica: la svolta scientifica si è presentata come indicazione positivis-ta del rispetto dei fatti. Una forma di oggettività che si è imposta come assolutezza entro qualsiasi paradigma ideolo­ gico, che nello specifico del caso in esame, non può disgiungere una logica razionalità dallo sviluppo della cosiddetta società civile. Tut­ te le problematiche che rappresen­ tano i punti dolenti della coscien­ za difficile del nostro tempo, i traumi della nostra esperienza col­ lettiva, con le sue continue ripro­ poste situazionali oggetto di eti­ che diverse (solidaristiche, concor­ renziali, autoritarie) non possono essere disgiunti dalla coscienza storica. Uscire dalla confusione vocian­ te delle testimonianze, dal verba­ lismo manipolato, proponendo dei modelli di prospezione analitica, governati da un sistema di valori non assoluti, ma culturali, storica­ mente specifici, potrebbe rappre­ sentare un momento di reale cre­ scita civile. E la storia degli ex ospedali psichiatrici rappresenta un soggetto ideale per questa esperienza. È una proposta speri­ mentale, “bricoleuse”, continua­ mente innovabile, suscettibile di un’ampia varietà di apporti, ma an­ che, metaforicamente, ricca di un 75

Tracce per una riflessione

orizzonte senza limiti, perché le mura che nascondevano malinte­ se vergogne sono state abbattute da decenni.

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Per un’altra storia “Oltre il muro”, significativo titolo di un incontro organizzato a Roma nel 1999 dalla Fondazione Benetton studi e ricerche, dal Dipartimento po­ litiche di cittadinanza ed economia sociale della CGIL e dall’Istituto na­ zionale di urbanistica, ha stimolato anche in Trentino un’attenta rifles­ sione sull’ex ambiente manicomiale, inteso come sistema culturale e so­ ciale, non tralasciando, peraltro, un approccio di ecologia culturale, che ha come obiettivo la conservazione della molteplicità delle memorie e delle loro forme espressive. L’ospedale psichiatrico trentino era collocato a Pergine, dove ha la­ sciato un’impronta indelebile sul pa­ esaggio con il monumentale padi­ glione centrale attorniato dall’ar­ chitettura minore che si è sedi­ mentata nel tempo, documento visivo del suo passato e della re­ altà territoriale in cui operava. L’edificio principale, inaugurato nel 1882, armoniosamente inseri­ to nello scenario naturale, era un segno del progresso scientifico e sociale dei tempi, che esprimeva la sua identità attraverso l’ine-qui­ vocabile stile dell’architettura sta­ tale asburgica e l’imponente mole che sovrastava le costruzioni del paese. L’istituzione psichiatrica chiusa era una struttura comples­ sa, in cui si sviluppava un micro­ cosmo di relazioni interpersonali in spazi sociali prestabiliti: negli

edifici, nel giardino o nella colo­ nia agricola. Questa situazione raccomanda una proposta analitica complessiva, (cui peraltro non è estranea la tutela ambientale) che il progetto per il riu­ so coerente dell’ex ospedale psichia­ trico di Pergine (inteso quale luogo per nuove politiche sociali e la va­ lorizzazio-ne del suo passato), ha av­ viato attraverso un’ipotesi di riqua­ lificazione del parco nel rispetto del­ le essenze autoctone, ad esempio, in­ serito nel più ampio intervento di ripristino del verde manicomiale. Un progetto la cui positiva ricaduta an­ drà ben oltre le vecchie mura ospe­ daliere. In estrema sintesi, ciò che resta del passato manicomiale è sovente un complesso monumentale, un bene culturale da salvaguardare nel rispet­ to della civiltà che l’ha prodotto e del paesaggio in cui è inserito. Ma qual è l’itinerario per un cor­ retto recupero storico di questo patrimonio? Ricordando Friedrich Nietzsche, potremmo far riferimento ai diver­ si generi di storie, quella “monu­ mentale”, che si esprime attraver­ so le grandi realizzazioni architet­ toniche, manufatti cui si adatta perfettamente il termine “monu­ mento”, etimologicamente relati­ vo a ciò che “va tenuto a mente”, ed una storia minore, dal Nostro definita “antiquaria”, che testimo­ nia la quotidianità delle persone comuni. Un’interpretazione del passato che la Scuola delle Annales, in tem­ pi più recenti, ha distinto in storia degli événements e storia minima­

Dislocazione degli istituti per malati di mente secondo l’elenco seguente (disegno di Gian Piero Sciocchetti)

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SITUAZIONE DEI MANICOMI PUBBLICI IN AUSTRIA NEL 1898

Posti Letto Complessivi: 14.847 degenti

I.

Bassa Austria (Niederösterreich); capacità ricettiva totale 3.683 degenti: 1. Manicomio provinciale della Bassa Austria in Vienna, sistema a corsie, degenti n. 834; 2. Manicomio provinciale della Bassa Austria in Ybbs, sistema a corsie, degenti n. 490;

Tracce per una riflessione

3. Manicomio provinciale della Bassa Austria in Klosterneuburg, sistema a corsie, degenti n. 539;

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4. Manicomio provinciale della Bassa Austria in Kierling- Gugging, filiale di quello di Vienna, sistema a padiglioni, degenti n. 603; 5. Manicomio provinciale della Bassa Austria in Langenloiis, succursale di quello di Vienna, tipo per infettivi, degenti n. 217; 6. Grande colonia agricola provinciale della Bassa Austria in Mauer-Oehling, degenti n. 1.000.

II. Alta Austria (Oberösterreich); capacità ricettiva totale 626 degenti: 7. Manicomio provinciale dell’Austria Superiore in Linz, sistema chiuso, degenti n. 527; 8. Manicomio provinciale dell’Austria Superiore per l’infanzia in Gschwendt, degenti n. 99.

III. Salisburgo (Kronlande Salzburg); capacità ricettiva totale 170 degenti: 9. Istituto psichiatrico salisburghese in Maxglan, sistema a padiglioni, degenti n. 154; 10. Manicomio in Salisburgo, degenti n. 16. IV. Stiria (Steiermark); capacità ricettiva totale 1.285 degenti: 11. Manicomio provinciale stiriano in Feldhof, sistema chiuso, degenti n. 818; 12. Filiale femminile del manicomio provinciale stiriano in Lankowitz, sistema chiuso, degenti n. 135; 13. Filiale maschile del manicomio provinciale stiriano in Kainbach, sistema chiuso, degenti n. 116; 14. Filiale del manicomio stiriano in Hartberg, sistema chiuso, degenti n. 24; 15. Istituto stiriano per malati psichici in Schwabenberg, sistema a corsie, degenti n. 192. V.

Carinzia (Kärnter); capacità ricettiva totale 347 degenti: 16. Manicomio provinciale carinziano in Klagenfurt, sistema a padiglioni, degenti n. 347.

VI. Carniola (Krain); capacità ricettiva totale 202 degenti: 17. Manicomio provinciale della Carniola in Studenc, sistema chiuso, degenti n. 202.

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VII. Litorale (Küstenland); capacità ricettiva totale 279 degenti: 18. Manicomio cittadino in Trieste,

sistema chiuso, degenti n. 93;

19. Sezione di manicomio presso l’ospedale cittadino in Trieste, degenti n. 186. VIII.Gorizia e Gradisca (Görz und Gradisca); capacità ricettiva Totale 192 degenti: 20. Sezione di manicomio maschile presso

l’Ospedale di Gorizia, degenti n. 94;

Tracce per una riflessione

21. Sezione di manicomio femminile presso l’Ospedale di Gorizia, degenti n. 98.

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IX. Tirolo (Tirol); capacità ricettiva totale 558 degenti: 22. Manicomio provinciale tirolese in Hall,

sistema chiuso, degenti n. 338;

23. Manicomio provinciale tirolese in Pergine, sistema chiuso, degenti n. 220. X. Vorarlberg (Vorarlberg); capacità ricettiva totale 147 degenti: 24. Manicomio provinciale di Valduna,

sistema chiuso, 147 degenti.

XI. Boemia (Böhmen); capacità ricettiva totale 4.138 degenti: 25. Manicomio provinciale boemo di Praga, tipo chiuso, degenti n. 1196; 26. Manicomio provinciale boemo di Dobrau, sistema a padiglioni con corsie, degenti n. 1469;

27. Manicomio provinciale boemo di Kosmanos, sistema a padiglioni con corsie, degenti n. 794; 28. Filiale di manicomio provinciale boemo di Ober-Berkowitz, sistema chiuso, degenti n. 396; 29. Filiale di manicomio provinciale boemo di Woporan, sistema chiuso, degenti n. 283. XII. Moravia (Mären); capacità ricettiva totale 1.383 degenti: 30. Manicomio provinciale moravo di Brünn, sistema a corsie con 4 padiglioni, degenti n. 602; 31. Manicomio provinciale moravo di Sternberg, sistema a padiglioni, degenti n. 781. XIII.Slesia (Schlesien); capacità ricettiva totale 781 degenti: 32. Manicomio provinciale slesiano di Troppau, sistema a padiglioni, degenti n. 781. XIV. Galizia (Galizien); capacità ricettiva totale 839 degenti: 33. Sezione psichiatrica dell’Ospedale generale di Cracovia, sistema a corsia, degenti n. 133; 34. Manicomio provinciale galiziano di Kulparkow, sistema a due padiglioni, degenti n. 706. XV. Bucovina (Bukowina); capacità ricettiva totale 101 degenti: 35. Sezione psichiatrica dell’Ospedale generale di Czernowitz, sistema chiuso, degenti n. 101. XVI. Dalmazia (Dalmatien); capacità ricettiva totale 116 degenti: 36. Sezione psichiatrica dell’Ospedale generale di Sebenico, sistema a padiglioni, degenti n. 116.

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Tracce per una riflessione

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le, quella degli esclusi dalla gran­ de storia, che enfatizza l’attenzio­ ne all’esistenziale sullo scenario di un determinato contesto ambien­ tale4. Quale delle due proposte segui­ re? Secondo il pensiero del filoso­ fo tedesco nessuna delle due, per­ ché quella monumentale tralascia molte cose importanti e quella del paesaggio trascura la trama di un tessuto, quale può essere conside­ rato il territorio, che si regge sul­ l’interconnessione di una realtà fatta di tanti elementi; inoltre, quella antiquaria può produrre un eccesso di memoria. Entrambe però possono rallen­ tare, se non impedire, l’incessante precipitare della storia. Queste di­ scriminanti storiche e memoriali sul paesaggio consentono di rece­ pire la ricchezza delle testimonian­ ze sia della grande storia, sia del­ la storia minima. E gli ospedali psichiatrici, spes­ so monumentali edifici circondati da spazi verdi, preservati dalle in­ terferenze – non sempre debite – del mondo esterno da alte mura secolari, rappresentano la storia con la £s maiuscola”, quella della scienza, delle istituzioni e di mol­ to altro ancora, ma sono anche contenitori privilegiati di tante storie minimali, quelle di individui che una sorte malevola ha condot­ to a vivere in quel chiuso recinto, il più delle volte privandoli della speranza, smarrendoli nel vasto territorio delle patologie della mente, estranei al fluire del tem­ po. Il progetto nazionale per il re­

cupero degli archivi psichiatrici, significativamente denominato “Carte da legare”, restituisce al mondo le tracce di tante vite, non più annotazioni nascoste fra le pie­ ghe di relazioni mediche, quasi a negarne l’esistenza, ma elevate a nitide biografie di quella vita “in tono minore” trascorsa nei monu­ mentali edifici, menti ritrovate dai posteri.

NOTE [1] Titolo di sapore proustiano il cui “copyright” appartiene al nostro collaboratore arch. Pa­ olo Botteon. [2] Pantozzi 1989. [3] Luciani 1992: 8. [4] Mastrogregori 1986.

Casimira Grandi è Ricercatrice di Storia economica presso la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Trento. Ha coordinato il gruppo di studio sul “riuso” dell’Ospedale psichiatrico di Pergine.

Un manicomio, una storia, un progetto Rodolfo Taiani

Dalla storia dell’istituto perginese a un progetto di studio e di ricerca, verso il riuso degli spazi e la valorizzazione del patrimonio documentario.

“Alla ricerca delle menti perdute: viaggi nell’istituzione manicomiale” è il titolo di un progetto sulla storia della scienza e dell’assistenza psi­ chiatriche promosso dal Museo sto­ rico in Trento in collaborazione con l’Università degli studi di Trento. Attivo da alcuni anni questo proget­ to, ha raccolto l’adesione di nume­ rosi altri soggetti1 . Nel 2003, venti­ cinquesimo anniversario dell’appro­ vazione della cosiddetta legge Ba­ saglia (la n. 180 del 13 maggio 1978), esso vivrà il suo momento di maggior visibilità. I temi guida sono i luoghi, le persone e le azioni che hanno con­ tribuito nel corso dei secoli, fra il XVIII e il XX, a dar forma a quel variegato universo identificato con il termine di manicomio, ossia una struttura pensata, realizzata e or­ ganizzata con il precipuo scopo di accogliere, custodire e assistere i cosiddetti malati di mente. La prospettiva che anima questo progetto è pertanto la storia di tanti spazi e individui uniti insieme, ma che può assumere ad emblema, per Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

il contesto territoriale di riferimen­ to del progetto stesso, il manicomio di Pergine Valsugana. In questa struttura, aperta nel 1882 e definitivamente chiusa solo nel 2002, sono transitate decine di migliaia di esistenze fra loro diverse nelle vicende personali, ma simili nei percorsi interni all’istituto, nella quotidianità imposta, nell'incontro con gli altri ricoverati, con il perso­ nale medico e paramedico; simili anche nell'incontro/scontro con la comunità ospite esterna la cui dina­ mica si ripropone ancor oggi lì dove è aperto il dibattito sul recupero e il riuso delle strutture dismesse2 . Una sintesi dei principali episodi che hanno segnato la storia dell'ex ospedale psichiatrico di Pergine può pertanto essere un utile modo sia per evidenziare esemplarmente alcune delle numerose e varie dinamiche che hanno contrassegnato la storia di questa come di altre strutture mani­ comiali3, sia per render ragione dei contenuti del progetto stesso. Già nel 1807, in periodo di gover­ no bavaro, si discusse sull'ipotesi di aprire due istituti per il ricovero dei pazzi con sede l'uno ad Innsbruck e l'altro a Trento o Rovereto4. A que­ sta prima proposta, tuttavia, seguì un nulla di fatto. Bisognerà atten­ dere il 1830 prima che alle porte di Innsbruck, ad Hall, venisse inaugu­ rato il primo manicomio provinciale tirolese dove venivano ricoverati an­ che gli infermi provenienti dal Tren­ tino. In precedenza, costoro veniva­ no trasferiti negli ospedali di San Servolo a Venezia, della Senavra a Milano o in altri istituti del Lombar­ do-Veneto, eventualità che fu espres­ 83

Un manicomio, una storia, un progetto

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samente vietata, tuttavia, per i più bisognosi con una circolare del 5 giugno 1835 con la quale il governo del Tirolo comunicava che in avve­ nire i mentecatti poveri del Tirolo non sarebbero più stati “accolti e mantenuti gratuitamente negl'istitu­ ti… del lombardo veneto”, ma per l'appunto in quello di Hall5 . L’apertura di un istituto manico­ miale anche in Trentino fu nuovamen­ te sollecitata, nel 1850, dal medico Francesco Saverio Proch. Costui, in un opuscolo a stampa, argomentava le motivazioni che a suo dire rende­ vano quanto mai urgente la realizza­ zione di una simile opera6. Ci volle­ ro, tuttavia, ancora altri anni di di­ scussione prima che la Dieta tirole­ se giungesse a deliberare, il 12 ot­ tobre 1874, la costruzione di un se­ condo manicomio, collocato nel Ti­ rolo italiano. Veniva così garantita ai sudditi di lingua italiana l'assisten­ za psichiatrica nei territori d'origine e offerta una prima risposta alla cro­ nica carenza di spazio deplorata dalla struttura di Hall. Altri anni ci volle­ ro poi per decidere l'ubicazione del­ l'istituto e per portare a termine i lavori. L'edificio, realizzato a Pergi­ ne Valsugana dall'impresa Scotoni di Trento fra il 1879 e il 1881, fu pro­ gettato dall'ing. Josef Huter se­ condo la consueta pianta edificia­ le a forma di E, che già caratteriz­ zava simili costruzioni in altri par­ ti dell’Impero. Entrato in attività nel 1882, e per la precisione il 19 settembre in piena emergenza alluvioni, il nuovo istituto, pensato per due­ cento posti letto, cominciò, tutta­ via, ben presto a soffrire anch'es­

so di problemi di sovraffollamen­ to, un motivo di costante preoc­ cupazione, che assillerà tutti i di­ rettori che si succedettero alla guida dell'ospedale. Già nel 1894, per recuperare altro spazio, fu colmata la separazione che divideva i reparti dei semi-agitati e agitati da quelli centrali. Si creò così una nuova costruzione di tre piani con stanze pensate dapprima come locali di isolamento, ma più tardi arredate con due o anche tre letti. Pochi anni dopo, sul finire del se­ colo, la direzione del manicomio di Pergine suggerì di procedere ulterior­ mente nell’adeguamento ed amplia­ mento dell'istituto. Uno speciale comitato tecnico nominato nel 1902 dalla Giunta pro­ vinciale verificò le richieste e pro­ pose per Pergine una serie di inter­ venti, successivamente approvati dalla Giunta stessa: la costruzione

Ex Ospedale Psichiatrico di Pergine Valsugana, interno.

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di due nuovi padiglioni da cin­ quanta posti letto ciascuno (deno­ minati dopo la guerra “Gennaro Pandolfi” e “Gaetano Perusini” in onore di due soldati morti “eroi­ camente” in battaglia), l'acquisto del podere Gasperini a Vigalzano per l'apertura di una colonia agri­ cola, alcune nuove sistemazioni e adattamenti al vecchio edificio, una nuova sede per la cucina, la costruzione di una nuova portine­ ria, di un'officina per fabbro e di una camera mortuaria. I lavori, iniziati nel 1903, si conclusero nel 1905. Seguì la Grande Guerra e con essa, nel marzo del 1916, la decisione di destinare l'edificio principale del manicomio ad ospedale militare. Tut­ ti i ricoverati, ad eccezione di alcu­ ni che rimasero presso la colonia agricola, furono così trasferiti in di­ versi istituti dell'Impero: Bohnice, Hall, Klosterneuburg, Kremsier, Mauer-Oehling, Praga, Vienna, Ybbs. L'annessione all'Italia dell'odier­ na regione Trentino-Alto Adige alla conclusione della Grande Guerra, in­ nescò l'iter legislativo del passaggio dell'ospedale psichiatrico, denomi­ nato dal 1920 «Ospedale provincia­ le della Venezia Tridentina», dall'am­ ministrazione austriaca a quella ita­ liana. L'atto finale fu il R.D. 31 gen­ naio 1929, n. 204 con il quale fu decretata, a partire dall'1 luglio 1929, l'estensione alle province an­ nesse al Regno d'Italia della legge italiana sui manicomi del 14 febbra­ io 1904, n. 36 e il rispettivo regola­ mento del 16 agosto 1909, n. 615. Ma un'altra importante novità va se­ gnalata in questa fase di transizio­

ne, che caratterizzerà fortemente tutta la successiva storia del ma­ nicomio perginese: a partire dagli anni del primo dopoguerra comin­ ciarono ad affluire a Pergine an­ che malati altoatesini di lingua tedesca, alcuni dei quali trasferiti dal manicomio di Hall fra il 1923 e il 1925. L'ampliamento del territorio di competenza e la conseguente cresci­ ta dei ricoveri concorsero peraltro a riacutizzare l'annoso problema degli spazi. Per porvi parziale rimedio fu deciso nel 1926 di elevare di un pia­ no le propaggini estreme dei bracci dell'edificio principale. Fu inoltre stipulata una convenzione con la fondazione “Attilio Romani” di Nomi, per il ricovero di cento pazienti “in­ nocui e tranquilli” (dicembre 1922), convenzione che scadrà il 28 febbra­ io 1945. Nell'agosto del 1924 un'apposita commissione reale delineò il proget­ to di massima per un ulteriore svi­ luppo dell'istituto, prevedendo fra le altre cose anche la costruzione di tre nuovi padiglioni. Il primo, denomi­ nato “Osservazione” e situato di fronte all'edificio centrale, fu inau­ gurato nel luglio 1927; la sua ca­ pienza era di circa centoventi posti letto ed era destinato ad ospitare anche il laboratorio scientifico di analisi. Il secondo padiglione, de­ nominato “Valdagni”, fu aperto nel 1934 ed era destinato ad accogliere le donne e i laboratori. Il terzo, che avrebbe dovuto ospitare gli uomini, non fu invece mai realizzato. Alla direzione dell'ospedale psichiatrico di Pergine fu, inoltre, affidata a par­ tire dal 1936 la sorveglianza sulla 85

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“Colonia agricola provinciale per infermi di mente tranquilli” (Land­ wirtschaftliche Siedlung für Geiste­ skranke) istituita con deliberazione del 30 settembre di quell'anno dalla Provincia di Bolzano a Stadio, nel comune di Varena. A conclusione di tutti questi interventi, la ricettività complessiva dell'istituto era salita a settecentocinquanta posti letto. Seguì, in corrispondenza degli anni della seconda guerra mondiale,

un periodo di drammatiche diffi­ coltà: all'incremento della morta­ lità fra i ricoverati per le pessime condizioni di vita, si sommò il dramma di tutti quegli infermi di origine tedesca (299) che, in base all'accordo italo-tedesco sulle op­ zioni del 1939 (legge 21 agosto, n. 1241), furono trasferiti il 26 maggio 1940 verso l'ospedale psi­ chiatrico tedesco di Zwiefalten. Molti di questi furono soppressi

Bruno Caruso, Carnevale in manicomio, disegno acquarellato, 1954.

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all'interno del programma di eli­ minazione sistematica degli indi­ vidui fisicamente e psichicamente menomati voluto dal regime nazi­ sta. (“operazione T4”)7 Negli anni e nei decenni del secondo dopo­ guerra il problema del sovraffol­ lamento assunse dimensioni sem­ pre più critiche. La media giorna­ liera dei degenti giunse anche ai 1600/1700 individui negli anni sessanta. I lavori di riadattamen­ to o ampliamento delle strutture esistenti furono pertanto conti­ nue: nel 1949 fu aperto un nuovo reparto per quaranta malate cro­ niche tranquille al maso Martini; nel 1959 si ricavò dal vecchio fienile un padiglione per lavoratori, denominato «Ferretti»; nel 1966, infine, fu inau­ gurato il nuovo padiglione “Benedet­ ti”. Ma sono anche anni e decenni nei quali iniziarono a svilupparsi quelle istanze sociali che puntava­ no al rinnovamento delle istituzio­ ni psichiatriche, attraverso l'aper­ tura dei manicomi verso l'esterno e la fondazione dei centri di igie­ ne mentale sul territorio. Istanze, in altri termini, che puntavano contemporaneamente sia a una complessiva ridefinizione e ridi­ mensionamento delle funzioni manicomiali, sia a un potenzia­ mento delle strutture di assisten­ za decentrate. Obiettivo finale era quello di realizzare un intervento più mirato ed efficace, capace di rispondere a una crescente e dif­ fusa domanda di cure, al cronico problema di sovraffollamento de­ gli istituti e soprattutto di acco­ gliere anche i nuovi orientamenti

medico-psichiatrici in tema di dia­ gnosi e trattamento dei disturbi mentali. Un primo passo in questa direzio­ ne fu compiuto con la legge 18 mar­ zo 1968, n. 431, la cosiddetta legge Mariotti, che istituì i “centri o servi­ zi di igiene mentale” (§ 3). L'art. 1 stabiliva che l'ospedale psichiatrico doveva essere organizzato in divisio­ ni (da due a cinque) con un massi­ mo di 625 posti letto. Altre novità introdotte da questa legge erano l'ammissione volontaria su richiesta del malato per accertamento diagno­ stico e cura (§ 4) e l'abrogazione dell'art. 604, n. 2, del codice di pro­ cedura penale, che prescriveva l'ob­ bligo di annotare nel casellario giu­ diziario i provvedimenti di ricovero e loro revoca dei malati mentali (§ 11). In provincia di Trento si diede esecuzione al dispositivo di legge nazionale istituendo, con D.P.G.P. del 2 ottobre 1968, n. 297/1560 legisl., il Servizio d'igiene menta­ le. Il raccordo con l'esterno stava diventando così una realtà e fu senz'altro rafforzato da un altro importante cambiamento di poco successivo che interessò l'ospeda­ le psichiatrico. Nei primi anni set­ tanta fu introdotta, infatti, la “set­ torializzazione”, ossia una nuova suddivisione in reparti degli infer­ mi basata non più sulla forma o intensità della malattia, ma sul­ l'area geografica di provenienza. In questo modo si dava priorità al principio della continuità terapeu­ tica fra il trattamento di cura ga­ rantito esternamente e quello di­ spensato internamente alle strut­ 87

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ture di ricovero. Il passo successivo e più rilevan­ te, anche se andrebbero ricordate tante altre tappe intermedie in que­ sto complesso e difficile cammino verso il decentramento dell'assisten­ za psichiatrica, fu la legge 13 mag­ gio 1978, n. 180, nota come “Legge Basaglia”, che ha decretato la chiu­ sura dei manicomi in Italia e nelle province autonome di Trento e di Bolzano (art. 7). Il 17 luglio 1978 furono così bloccate le ammissioni di coatti e volontari non recidivi all'ospeda­ le psichiatrico di Pergine. I recidi­ vi volontari furono ancora accet­ tati, ma solo fino al dicembre 1980, termine poi prorogato fino all'apri­ le 1981. Per i recidivi volontari altoatesini invece il termine ulti­ mo di ammissione fu spostato al dicembre 1981. Dall'1 gennaio 1982 la competenza sul servizio di salute mentale fu trasferito dalla Provincia all'Unità sanitaria loca­ le. Presso l'ospedale psichiatrico rimasero quei malati ancora degen­ ti al momento dell'entrata in vigo­ re della riforma. Perché si completasse la chiusura del manicomio di Pergine occorrerà, però, aspettare quasi un quarto di secolo, l'ottobre del 2002, quando una delibera del Direttore generale dell'Azienda provinciale servizi sanitari, la n. 1314 del 29 ottobre 2002, sancirà il definitivo superamento dell’Ospedale psichiatrico provinciale e la possibilità di parlare legittima­ mente da questo momento di ex Ospedale psichiatrico. Seguendo la traccia di questa sintetica storia del manicomio di

Pergine Valsugana emergono alcu­ ni degli snodi tematici che anima­ no l’intero progetto “Alla ricerca delle menti perdute”: innanzitutto le motivazioni per le quali si giu­ stifica nel tempo l’edificazione di istituti per il trattamento dei ma­ lati mentali, successivamente l'identità sociale dei ricoverati in grado di spiegare il problema del sovraffollamento di cui soffrirono cronicamente queste strutture, an­ cora oltre l'immagine e l'interpre­ tazione della malattia mentale che suggerisce nelle diverse fasi stori­ che atteggiamenti culturali e trat­ tamenti terapeutici diversi, infine, ma l'elenco potrebbe proseguire, la prospettiva di varcare il confine tracciato dall’esperienza manico­ miale per sperimentare nuove for­ me di assistenza. A questi temi strettamente con­ nessi alla funzione dell'istituzione manicomiale si sommano inoltre più ampi interrogativi dettati da singoli episodi: la questione del rapporto fra psichiatria e nazismo8 nel caso dei malati trasferiti in Ger­ mania nel 1940 o il ruolo della psi­ chiatria transculturale nel tratta­ mento di infermi di lingua e cul­ tura diverse, ma internati nella medesima struttura, come a Pergi­ ne pazienti di cultura italiana e cultura tedesca. Per concludere infine con la questione non meno importante del riuso degli ex ospe­ dali psichiatrici che sollecita nei confronti della gestione di questi ampi spazi fisici e culturali una rin­ novata scommessa. Dopo la riforma istitutiva all’ini­ zio del secolo XX – come ricorda

Bruno Caruso, Scizofrenic Jazz Band, disegno acquarellato, 1958.

Domenico Luciani nel suo saggio – “autentica utopia della moder­ nità”, e dopo la riforma decostrut­ tiva degli anni settanta del Nove­ cento, si tratta ora di affermare una terza utopia, che “si configura come una guida alla transizione/ trasformazione del manicomio ver­ so la commistione sociale, cultu­ rale, scientifica”. “Quello che è sta­ to l’ospedale psichiatrico diventa così luogo della città a pieno tito­ lo, spazio della comunità, sito ci­ vico bello e utile, nuova agorà, nuova piazza, nuovo crocicchio ne­ cessario della tolleranza e delle re­ lazioni, stazione di intermodalità culturale, artistica e spirituale”. Sono tutti temi che rapsodicaProvincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

mente trovano spazio nello svol­ gimento del progetto “Alla ricerca delle menti perdute”, che si pro­ pone fra gli obiettivi più immediati non certo evidentemente quello di dare una risposta esaustiva a tut­ te le sollecitazioni qui solo breve­ mente formulate, ma di muovere curiosità e nuovi interessi intorno ad argomenti che spesso restano relegati in un'area etichettata come memoria “scomoda” e come tale da rimuovere o cancellare. Proprio la tragicità di alcuni degli eventi narrati, tuttavia, impone che questo percorso storico venga approfondito e riproposto affin­ ché, secondo uno slogan forse as­ sai logoro, ma sempre efficace, 89

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quanto accaduto non debba più ripetersi. E non solo: in questo modo si ha anche l’ambizione di contribuire ad un filone di ricerca che ha cono­ sciuto in questi ultimi due decen­ ni crescenti attenzioni da parte di numerosi studiosi. Limitandosi al solo panorama italiano, si può senz'altro notare come l'applica­ zione della legge 180 del 1978 abbia in un certo senso stimolato la ricerca e lo studio sugli istituti manicomiali dei quali il provvedi­ mento legislativo aveva decretato la chiusura e in molti casi, purtrop­ po, anche la dispersione e distru­ zione del ricco patrimonio docu­ mentario. La storia dei singoli isti­ tuti è diventata così una sorta di passaggio obbligato sia per rico­ struire le vicende del passato, sia per intervenire a salvaguardia dei giacimenti documentari di rilevan­ te interesse storico in essi deposi­ tati.9 E si tratta di un movimento affat­ to nuovo. Se si guarda, infatti, alla storia della psichiatria in Italia e delle sue pratiche si rimane per lo meno sconcertati dall'assenza fin quasi alla fine degli anni settanta di studi o attenzioni nei confronti di questo settore di ricerca. È una considerazione che svolge Patrizia Guarnieri nel suo saggio bibliogra­ fico, “La storia della psichiatria: un secolo di studi in Italia del 1991”10 ed è un'analisi che si può tranquil­ lamente collegare anche al più ampio disinteresse per la prospet­ tiva storico-sociale che gran parte della storia della medicina ha sem­ pre testimoniato ponendosi in re­

lazione con il proprio passato. Storia a sé stante, interpretata e affrontata solo per gli aspetti più interni alla disciplina, all'evoluzio­ ne dei saperi, delle tecniche e delle scoperte, la storia della psichiatria non ha certo conosciuto maggior fortuna di quella medica più gene­ rale. Solo con lo sviluppo di un spe­ cifico interesse nei confronti del­ la storia sociale della medicina, che in Italia vive un momento im­ portante alla fine degli anni set­ tanta con il convegno del CISO dedicato a temi e metodologie della ricerca in storia della sani­ tà11, si attua una significativa svol­ ta. Anzi proprio la storia della psi­ chiatria è quella che più di altre branche dell'area storico-medica sembra aver saputo cogliere l'im­ portanza dell'apertura di orizzonti che certa prospettiva storiografica più generale sembrava offrire. Tan­ t’è, ad esempio, che lo sguardo di studiosi quali Guglielmo Lützenkir­ chen, oltre a proporre percorsi criti­ ci attraverso la produzione di argo­ mento storico-psichiatrico e storiconeurologico si amplia fino ad inglo­ bare il problema dell'etnopsichiatria, contribuendo con altri autori e con una prefazione esemplare di Alfon­ so Maria Di Nola ad uno studio sul­ l'epilessia, malattia considerata appannaggio della scienza psi­ chiatrica, ma ricca di valenze so­ ciali e significati culturali tali da collocarla ben oltre il ristretto ambito medico-scientifico una di­ versa attenzione, dunque, favorita e sollecitata anche dal nuovo cli­ ma nato dalla riflessione che fin dall'inzio degli anni sessanta insi­

steva sulla necessità di ripensare i manicomi e che condurrà, attraver­ so il primo passaggio della legge Mariotti del 1968, alla cosiddetta riforma Basaglia del 1978. Nel ventaglio di temi che si di­ schiudevano alla nuova storia della sanità, la storia del sapere psichia­ trico e delle sue istituzioni rispon­ deva così non solo alle esigenze co­ noscitive degli storici, ma anche, e soprattutto, di quegli psichiatri indotti dai profondi rivolgimenti che allora toccavano la loro pro­ fessione a ricostruire i processi sociali, politici, scientifici che l'ave­ vano storicamente definita. È in questo itinerario che si vuole collocare pertanto anche il proget­ to “Alla ricerca delle menti perdu­ te” offrendo il suo contributo par­ ticolare alla comprensione della storia della realtà manicomiale. Il programma di eventi che pre­ vedono spettacoli di danza e teatro, rassegne cinematografiche, esposi­ zioni, incontri pubblici e pubblica­ zioni vuole anche essere un tentati­ vo di dare visibilità a un settore di ricerca, che proprio per i temi af­ frontati ha bisogno di confrontarsi con un più vasto pubblico - talvolta da sensibilizzare, talvolta da infor­ mare - e che non deve scontare quella stessa emarginazione di cui soffri­ rono i protagonisti delle vicende narrate.

NOTE [1] Aderiscono attualmente al progetto: Assessorato alla cul­ tura del Comune di Trento, As­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

sociazione Amici della storia di Pergine Valsugana, Cassa rurale di Pergine Valsugana, Centro servizi culturali Santa Chiara, Comune di Pergine, Di­ rezione U.O. 3 di Psichiatria dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento, Gal­ leria civica d’arte contempora­ nea di Trento, Gesellschaft für Psychische GesundheitPsychohygiene Tirol, Museo civico di Riva del Garda, quo­ tidiano «l’Adige», Servizio beni librari e archivistici e Ser­ vizio Programmazione e Ricer­ ca Sanitaria della Provincia au­ tonoma di trento, Sezione Trentino-Alto Adige dell’Asso­ ciazione nazionale archivisti­ ca italiana, Società di studi trentini di scienze storiche, Univ.-Klinik für Psychiatrie In­ nsbruck e Universitätsinsitut für Suchtforschung Frastanz/ Vorarlberg [2] Su queste tematiche è attiva da alcuni anni la Fondazione Benetton studi e ricerche di Treviso che nel 1999 ha diffu­ so a stampa l'interessante pubblicazione a cura di FRIGO – PALESTINO – ROSSI 1998. Più di recente, su questo tema, sono comparsi gli atti di un semi­ nario svoltosi a Trento il 30 novembre 2001 riferito agli ex ospedali psichiatrici nei terri­ tori italiani appartenuti all'Im­ pero asburgico (cfr. GRANDI – TAIANI 2002). [3] Per queste brevi note storiche 91

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mi sono avvalso delle infor­ mazioni esposte da Marina Pasini e Annalisa Pinamonti nell'inventario dell’archivio del Manicomio di Pergine, in corso di pubblicazione presso il Servizio Beni librari e archi­ vistici della Provincia autono­ ma di Trento. Dell'istituzione di Pergine parla diffusamente PANTOZZI 1989.

recenti e a solo titolo esem­ plificativo, si ricorda MORA­ GLIO 2002. [10] Guarnieri 1991. [11] Centro italiano di storia ospi­ taliera 1978. [12] Lützenkirchen 1975. [13] Mal 1981.

[4] Biblioteca comunale di Tren­ to, Archivio Consolare, Atti ci­ vici, ms. 3995. [5] Archivio di stato di Trento, Giu­ dizio distrettuale di Civezzano, Sanità, 1835, cart. n.n. [6] PROCH 1850. [7] A questo episodio ha dedicato un suo studio HINTERHUBER 1995 del quale è prevista per il 2003 l'uscita in traduzione ita­ liana presso le edizioni del Mu­ seo storico in Trento. Si segna­ lano inoltre l'articolo di PANTOZ­ ZI 1996 e gli Atti del convegno Follia e pulizia etnica in Alto Adige: Bolzano 10 marzo 1995 (cfr. PERWANGER – VALLAZZA 1998). [8] Fra le pubblicazioni più recen­ ti si segnalano gli Atti del con­ vegno “Pischiatria e nazismo”: San Servolo, 9 ottobre 1998 (cfr. FONTANARI – TORESINI 2002). [9] Sono numerosi gli studi che hanno proposto la ricostruzio­ ne della storia di singole isti­ tuzioni manicomiali. Fra i più

Rodolfo Taiani è responsabile della Biblioteca presso il Museo Storico in Trento.

Il manicomio provinciale tirolese di Pergine (1912) Pius Dejaco

La traduzione di una relazione scritta nel 1912 dall’allora direttore del manicomio.

Prima fase della costruzione La popolazione del Land Tirolese è bilingue; due terzi di essa (tedesca e ladina) abitano nella parte Nord del Tirolo, l’altra parte è italiana e abita nel Sud. Il confine linguistico è a Salorno, nella Val d’Adige. La parte del Land che sta a Sud di Salorno, con la sua popolazione italofona e prevalentemente contadina, costitu­ isce il bacino di utenza del “Manico­ mio provinciale-Tirolese di Pergine” (così si denomina ufficialmente). I tedeschi e la gran parte dei la­ dini inviano i malati di mente nell’Ospedale psichiatrico di Hall. Il Land Tirol, dunque, possiede, per la sua popolazione aggirantesi su 1.000.000 di abitanti, due ospe­ dali psichiatrici. Ma non fu sempre così. L’Ospe­ dale psichiatrico di Pergine esiste solo da tre decenni, perché, pri­ ma, tutti i malati di mente dove­ vano essere custoditi a Hall, pro­ venendo dai più lontani e remoti paesi. La consapevolezza delle difficol­ tà quasi insormontabili che incon­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

trava il trasporto dei malati di men­ te da così rilevanti lontananze, nelle condizioni ancora manchevoli delle vie di comunicazione, non poteva sfuggire alle autorità competenti. A questi ostacoli di comunicazio­ ne si univano altri ostacoli, che ave­ vano la loro origine nella grande va­ rietà delle peculiarità nazionali e culturali delle due etnie del Land. Anche il cittadino ignaro di cose psichiatriche fu indotto a riflettere se non fosse un controsenso portare un malato di mente (per il tratta­ mento specialistico) in un ambiente che era in aperto contrasto con quel­ lo in cui era nato e cresciuto. La grande diversità della lingua, dei costumi e degli usi, dell’alimen­ tazione e delle condizioni atmosfe­ riche dell’ambiente, in cui il malato di mente veniva ex abrupto a trovar­ si, poteva risolversi solo in un dan­ no per la salute psichica e, quindi, ritardare la possibilità di guarigio­ ne. Nessuna meraviglia se la maggio­ ranza dei malati di mente invece di poter fruire del beneficio di un trat­ tamento specialistico in adatto isti­ tuto piombavano nella cronicità pe­ renne in miseri ricoveri comunali o in ospizi o, addirittura, in una di quelle strutture private che si fanno beffe delle regole igieniche. Che ciò sia accaduto risulta in tut­ ta evidenza dai dati che il “Consi­ glio provinciale di sanità” ha pub­ blicato nel 1873. In Tirolo vi erano, allora, 2.200 malati di mente, dei quali solo 250 potevano essere accolti nel Manico­ mio di Hall. 410 erano in custodia in ospizi e case di ricovero, dislo­ 93

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cati in tutto il Land, mentre 1.540 (dunque il 70% di tutti i malati di mente tirolesi di quel tempo) era­ no in custodia a casa, senza aiuto alcuno dall’esterno. La Giunta del Land e il «Comita­ to dietale per le costruzioni» ave­ vano riconosciuto chiaramente fin dal 1874 quanto, nelle dette con­ dizioni, l’erezione di un Manico­ mio, oppure un notevole amplia­ mento dell’istituto di Hall, fosse urgente e irrinunciabile; perciò i Comuni italiani (avvalendosi di maggiori entrate ricavate da impo­ ste aggiuntive) dovettero accollar­ si un contributo di misura pari alla differenza con quanto già versato dai Comuni tedeschi per la costru­ zione del Manicomio di Hall.

Circa le domande se e dove erigere una costruzione nuova, oppure se solo ampliare l’istituto di Hall: l’orientamento generale della Dieta era che (per motivi sanitari e uma­ nitari e, per certi aspetti, anche fi­ nanziari) la costruzione di un secon­ do Manicomio per la cura e l’assi­ stenza dei malati di mente nel Tiro­ lo italiano fosse da preferire all’am­ pliamento dell’attuale istituto di Hall.

La Dieta decise il 12 ottobre 1874 di erigere il secondo mani­ comio per la cura e l’assistenza dei malati di mente nel Tirolo italia­ no. Gli alti costi, però, erano da sostenersi con mezzi provinciali; va ricordato che i Comuni italiani, quasi senza eccezioni, si erano di­ chiarati pronti a dare contributi volontari per la costruzione di un Manicomio nel loro territorio nel­ la stessa misura in cui i Comuni te­ deschi avevano contribuito per la costruzione di Hall e nei medesimi modi. Fu una significativa dimostrazio­ ne di interesse per un Manicomio proprio. Per la parziale copertura dei costi fu anche coinvolto l’allora esistente “Fondo per le costruzioni di (mera) assistenza sociale di malati di men­ te”, il che ebbe come conseguenza che l’istituto da costruire nella par­ te italiana del Land fu poi concepito non solo come istituto di terapia, ma anche di mera assistenza per incura­ bili. Ora, per poter eseguire la delibe­ razione della Dieta dal 12 ottobre 1874, si doveva, come prima cosa, trovare un luogo adatto, che corri­ spondesse, soprattutto sotto gli aspetti sanitari, economici e finan­ ziari, agli interessi del Land. Le rilevazioni che la Giunta Pro­

vinciale fece fare in tale direzione (con l’aiuto di una commissione specialistica nominata dalla Giun­ ta Provinciale e, su invito rivolto dalla Dieta il 14.5.1875, opportu­ namente integrata) erano di natu­ ra così circostanziata che la Giun­ ta Provinciale il 17.4.1877 fu in grado di decidere definitivamente che (per la erezione di un Manico­ mio nel Tirolo italiano) si doveva comperare il maso San Pietro di Pergine. La Giunta Provincia-le or­ dinò tutte le negoziazioni, proget­ tazioni, ecc. Alla fine la Giunta Provinciale, col contratto dal 18 settembre 1877, comprò il Maso San Pietro per fiori­ ni 26.278 (= 52.556 corone), delle quali il Land ebbe a pagare solo la metà, l’altra metà se l’accollò il Co­ mune di Pergine, il quale, col con­ tratto 19 settembre 1877, si impe­ gnò a: - assumere la metà delle spese di acquisto del terreno; - portare la necessaria quantità di acqua, a sue spese, fino al confi­ ne dell’istituto e a mantenere in efficienza il relativo acquedotto; - cedere gratis al Land un canale di acqua a scopo di lavaggi e irri­ gazioni; - porre a disposizione le cave di pietra comunali per lo sfruttamen­ to gratuito. Dopo che furono elaborati piani (sul­ la base di indicazioni preliminari di una apposita commissione, che sug­ gerivano una capienza di 200 malati di mente), la Giunta Provinciale de­ liberò il 18 ottobre 1878 di: - approvare i contratti col proprie­ tario e col Comune di Pergine; Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

- approvare la costruzione del Manicomio di Pergine secondo i piani stabiliti, con un preven­ tivo di fiorini 308.000 (= 616.000 corone), più una spe­ sa di fiorini 50.000 (= 100.000 corone) per l’arredamento oc­ corrente. Il primo colpo di piccone, per gli scavi, si ebbe il 30.3.1879. Sui lavori di costruzione non bril­ lò una buona stella. Voci su una cat­ tiva conduzione dei lavori (la cui direzione era nelle mani dell’Ufficio tecnico provinciale, mentre l’esecu­ zione era affidata a un impresario) e una cattiva qualità dei materiali im­ piegati, fornirono alla gente molti motivi per svariati e mordaci com­ menti. Le voci giunsero alla Giunta Pro­ vinciale, che si vide costretta ad an­ dare a fondo delle cose e, a fine no­ vembre 1879, ordinò la sospensione dei lavori, già giunti al tetto. All’inizio parve che le perizie di due ingegneri ministeriali confer­ massero le voci, ma puntuali e ac­ curati so-pral-luo-ghi e analisi ria­ bilitarono pienamente sia l’impresa­ rio sia l’ufficio che aveva la direzio­ ne lavori. Conseguenza fu che: - la costruzione poté continuare dopo una sospensione di tre mesi (non contando i tempi in cui i la­ vori furono sospesi, come di con­ sueto, per il freddo invernale); - i danni subiti a causa della so­ spensione dovettero essere rim­ borsati all’impresario. L’edificio, in grezzo, fu terminato nel 1881. Ora si dovevano realizzare i dettagli del progetto ed erigere qual­ 95

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che edificio minore, la cui neces­ sità si era avvertita durante la co­ struzione, come effetto di talune variazioni fatte al piano originale. Così in quell’anno (1881) si eresse una casa da servire come la­ vanderia e bagni (Badehaus). Ver­ so la fine della costruzione (del monoblocco) una “commissione di revisione” aveva ritenuto necessa­ rio tale edificio: nel piano origi­ nale i due detti servizi erano stati infatti previsti inopportunamente vicini alla cucina. Per compiere studi su questo edi­ ficio minore furono inviati a Mona­ co due membri della commissione: l’Ing. Lindner e l’economo designa­ to dell’Ospedale psichiatrico Sig. Delama che poterono visitare im­ pianti di quel tipo. Contemporaneamente veniva pre­ parato l’arredamento del nuovo isti­ tuto. I mobili furono tutti portati da Innsbruck e la fornitura di vesti,

biancheria e lenzuola fu curata dal­ la Casa madre delle Suore di Inn­ sbruck. Nell’estate 1882 l’intera costruzio­ ne era completata, secondo i piani e i programmi. Il 14 agosto di quel 1882 potero­ no trasferirsi dall’Ospedale psichia­ trico di Hall 29 malati di mente tran­ quilli nella «loro» nuova istituzio­ ne. A questi arrivi seguirono (in più scaglioni) 62 malati cronici, italia­ ni, che pure erano stati ospitati a Hall. Questo esodo degli italiani dal­ l’Ospedale psichiatrico tedesco ver­ so quello patrio di Pergine ebbe ter­ mine il 15 settembre 1882 e il nu­ mero totale dei malati di mente tra­ sferiti da Hall fu di 91. Il trasferimento dei malati di mente da Hall a Pergine coincise col catastrofico nubifragio che nella tarda estate 1882 arrecò stra­

ordinarie devastazioni, l’ostacolò, con l’interruzione delle vie di tra­ sporto, l’arrivo dei malati di men­ te. A causa di quel disastro si do­ vette anche ritardare la festosa inaugurazione dell’istituto. I con­ tributi offerti da numerosi invita­ ti alla festa inaugurale furono con­ vogliati su un fondo di beneficen­ za. Dopo la fine dei trasporti dei ma­ lati di mente italiani da Hall si ini­ ziarono (il 19.9.1882) le ammissio­ ni dirette, ma anche queste riguar­ davano, in gran parte, malati di men­ te inguaribili, lungodegenti, già nel reparto psichiatrico dell’Ospedale generale di Trento che a causa della pericolosità sociale furono avviati al nuovo Manicomio di cura. La mensa, la lavanderia e l’assi­ stenza immediata delle malate di mente furono affidate alle suore del­ l’Ordine della divina provvidenza, la cui casa madre è a Cormons; per gli uomini l’assistenza immediata fu af­ fidata a uomini laici. La direzione aveva deciso le nuo­ ve costruzioni degli edifici minori con verbale dal 31.8.1882 n. 300. Ma i lavori non erano ancora finiti e il periodo costruttivo fu prolungato fino al 1884. La causa principale del ritardo fu senza dubbio questa: il primo diret­ tore dell’istituto Dr. Sterz non era ancora stato nominato e, quindi, non era presente nella commissione del­ le costruzioni. Particolari difficoltà presentò la provvista di acqua per l’istituto. Come già detto, il Comune di Per­ gine (con contratto 19.9.1877) si Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

era impegnato col Land: - a provvedere l’istituto sorto nel suo territorio di acqua potabi­ le; - a portare l’acquedotto, a sue spe­ se, fino ai confini dell’istituto e, poi, alla manutenzione. Senonché, quando si approssimò l’apertura dell’istituto, il Comune di­ chiarò di non poter mantenere la promessa di assicurare la detta quan­ tità di acqua senza sacrificare sensi­ bilmente i propri interessi. Di fronte all’inatteso voltafaccia, su un problema tanto vitale, si apri­ rono lunghe trattative, che si con­ clusero con la delibera provinciale del 7.7.1883: era stanziata una cer­ ta somma da destinarsi alle spese per la ricerca di una buona fonte di ac­ qua. I mezzi vennero tratti dal “Fon­ do per costruzioni per malati di men­ te” (della Provincia). Di questa ricerca fu incaricato lo specialista Dr. Ing. Altmann. Le dif­ ficoltà che si frapposero alla solu­ zione del problema furono rilevanti. Presso Busneck (vicino a Canezza) si dovette scavare un profondo poz­ zo, per il cui lavoro fu necessaria una somma imprevista di fiorini 40.000. Quando l’acqua fu trovata il Co­ mune di Pergine fece un’altra pro­ posta: avrebbe costruito a sue spese l’acquedotto e provveduto alla ma­ nutenzione se l’acqua trovata fosse stata messa a disposizione anche della cittadinanza. In pari tempo il Comune si sarebbe impegnato a for­ nire l’istituto con due litri e mez­ zo di acqua al secondo. Il Land accettò. Nel 1884 i la­ vori inerenti al rifornimento di 97

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acqua si conclusero. La tabella seguente offre uno sguardo sulla durata e il costo della costruzione dell’istituto, dell’ac­ quedotto e dell’arredamento:

(*) La somma esatta sarebbe di fiorini 561.170 (c.d.r.)

Dalla porta Est della città di Trento (porta di Aquileia) la stra­ da statale (levandosi gradualmen­ te in larghe serpentine, sulla riva destra del Fersina, inoltrandosi nella profonda forra fra i monti di Civezzano e i monti di Roncogno) porta in Valsu-gana; questa pren­ de inizio dal Rio Silla e si allarga, sempre più, in un rigoglioso, am­ pio fondo valle, al cui limite orien­ tale si trova il paese mercantile di Pergine. Pergine è sovrastata dal suo monte fortificato, da un castello, che risale al tempo dei Longobar­ di, ed è circondata da una corona

di bei monti. Il luogo sorge a 500 m sul l.d.m. e dista 11 km da Trento. Subito ai piedi del monte fortificato si tro­ va il maso San Pietro, sul quale fu eretto l’istituto di cura e di assi­ stenza. Prima, la strada statale provenien­ te da Trento era l’unica possibilità di comunicazione con la Val d’Adige, per cui i malati di mente dovevano essere condotti all’istituto con lun­ ghi e faticosi viaggi, con carrozze. Dal 1896, però, una ferrovia uni­ sce noi con il naturale centro della parte italiana: la città di Trento. Ho detto prima che il Land, per la costruzione del Manicomio, scelse il maso San Pietro e lo comprò. Il ter­ mine “maso” non va inteso nel sen­ so che ci fosse, oltre ad una certa area agricola, anche un cascinale, più o meno grande, che potesse essere conglobato nella grande costruzio­ ne. Il maso San Pietro consisteva solo in campi e prati, ai piedi del monte fortificato, (cioè a Nord del paese e a questo immediatamente adiacen­ te) e, ancora, in un piccolo casta­ gneto, in un piccolo vigneto, entram­ bi sulle basse pendici del monte. Nel punto più alto del terreno vi era una modesta casa rurale, poi gradualmen­ te riassettata e, già dall’inizio del­ l’attività manicomiale utilizzate come alloggio del giardiniere. Così era il maso San Pietro, con un’area di mq 96.000. L’istituto di cura e di assistenza nella sua originaria forma L’istituto fu eretto come monobloc­ co sui campi e prati agricoli, con l’imponente facciata rivolta a

Nord-Ovest, cosicché le corsie po­ ste lungo la facciata e, con esse, la direzione sanitaria e amministra­ tiva, solo in estate erano illumi­ nate dai raggi del sole, mentre nella maggior parte dell’anno si doveva rinunciare ad essi. Dal tratto centrale del palazzo, nel quale sono ospitate le direzioni sa­ nitaria e amministrativa, con la an­ nessa sala delle feste e, sopra, la cap­ pella e l’ufficio economale, si dipar­ tivano due bracci, a sinistra e a de­ stra, che, poi, piegavano ad angolo retto, e formavano due ali, che cor­ revano verso i terreni retrostanti, verso il monte.

Queste due ali contenevano, subito oltre il tratto centrale: - l’ala sinistra: gli uomini malati di mente; - l’ala destra: le donne. Il tratto centrale e le ali formano una E coricata e abbracciano gli edi­ fici minori manicomiali, cosicché in quell’area, limitata e ben proporzio­ nata, c’è tutto l’istituto, con tutto il necessario. La costruzione ha un pianoter­ ra e due piani superiori, con ecce­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

zione delle due case (solo in un secondo tempo unite alle ali estre­ me) che erano vicine e collegate, ma ancora non unite, e servivano da “reparti per agitati”. Questi reparti per agitati avevano solo piano terra e primo piano.

Nel Tratto Centrale (TC): - Al piano terra, subito a sinistra dell’entrata, c’era l’alloggio del portiere, a destra, i magazzini (più tardi l’alloggio del capo-in­ fermiere). Più verso l’interno c’era­ no una stanza per i visitatori e, nella parte opposta, una sala per biliardi, ancor oggi adibita a tale scopo. Nel mezzo, la bella sala delle feste, che, però, oggi, dopo il considerevole sviluppo dell’Isti­ tuto e dopo l’aumento delle pre­ senze di malati di mente, si pale­ sa troppo piccola; - Al primo piano, a sinistra si tro­ vano i locali direzionali ammini­ strativi, a destra, lo studio del di­ rettore sanitario e quello dei medici e, proprio sopra la sala delle feste, la cappella, costrui­ ta in stile «basilica». Eguali a 99

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quelle che conducono al primo piano, altre scale doppie e mol­ to larghe, portano; - Al secondo piano, dove, a sini­ stra c’è l’alloggio del medico as­ sistente e del cappellano, a de­ stra l’alloggio delle suore. [Omissis] Si pensava di facilitare alle suore infermiere un agevole diretto acces­ so dal loro alloggio alla cappella. Però questo programma presto cad­ de, perché i locali destinati ad al­ loggio delle suore furono tramutati in alloggio del direttore; originaria­ mente, secondo il programma fissa­ to dalla commissione, il direttore avrebbe dovuto abitare a Pergine, fuori dell’istituto. Si era provveduto per l’alloggio del medico assistente, all’interno. Solo più tardi si è aggiun­ to quello del direttore, mentre il se­ condo assistente dovette abitare sempre fuori. Attualmente solo il direttore abi­ ta in istituto. Dal tratto centrale, ora descritto, si dipartivano, verso sinistra e verso destra, le ali orizzontali destinate ai malati di mente.

Al piano terra vi era il primo Repar­ to, che serviva come reparto accet­ tazione (proposi io questa destina­ zione, quando presi servizio come giovane assistente). Sopra, al primo piano, c’era il ter­

zo Reparto, riservato ai malati la­ voranti. Al secondo piano c’era il quinto Reparto, un reparto, allo­ ra, modesto, quanto alle presen­ ze. Questi (tre) reparti consisteva­ no ognuno in due vaste sale-dor­ mitorio, nelle quali c’erano, per lavarsi, attrezzature lignee, muni­ te di bacili di porcellana ribaltabi­ li. In mezzo alle due sale-dormitorio stava la stanza dell’infermiere. Inoltre, il reparto-tipo (modulo) aveva anche una stanza per malati fisici con due letti e una stanza di isolamento con persiane di legno, chiudibili dall’interno. All’angolo (punto di incontro fra l’ala orizzontale e l’ala verticale) c’era la sala soggiorno. Tutti questi locali guardano verso l’esterno del­ l’edificio; verso l’interno corre, lun­ go tutto il reparto, un corridoio, munito di numerose finestre (corri­ doio che, nei pressi della sala di sog­ giorno funge anche da soggiorno dei malati di mente).

Nei tre piani delle ali verticali vi era­ no i Reparti secondo, quarto, sesto. Il secondo era, allora, per i “sudi­ ci”; il sesto per i cronici. Questi reparti erano strutturati in modo diverso dagli altri.

Avevano due dormitori, con la stanza dell’infermiere frapposta, più avanti il soggiorno e due stanze di isolamento, ma, anche un cuci­ nino e un’area per l’ascensore (un ascensore a mano, usato per le vi­ vande). Ma questo modo di trasfe­ rire le vivande si dimostrò compli­ cato, non pratico e anche perico­ loso; non fu più usato, smontato e ceduto ai “magazzini agricoli” di Innsbruck. L’area lasciata libera e il cucinino furono trasformati in camere per in­ fermieri.

Dal secondo Reparto (piano ter­ ra) una passerella in legno, coper­ ta, conduceva alle case vicine, in cui erano i reparti per agitati. Reparti per agitati: i due fabbri­ cati avevano un solo piano superio­ re e ospitavano due reparti: settimo Reparto e ottavo Reparto. Essi contenevano una stanza per infermieri, un piccolo locale con fon­ tanelle che serviva per lavarsi, e sette locali di isolamento in fila, che da­ vano al reparto un aspetto tipicamen­ te carcerario. Le sette celle del piano terra ave­ vano finestre chiudibili, con per­ siane in legno, piccole, poste in alto. Le celle del primo piano, inve­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

ce, erano munite di finestre di grandezza normale. Le finestre di tutti i reparti per malati di mente erano assicurate con inferriate, i pavimenti dei cor­ ridoi erano in lastre di cemento. Nei dormitori vi erano pavimenti in legno dolce, solo i pavimenti del­ le stanze di isolamento erano in la­ rice. In tutti i piani l’acquedotto ar­ rivava, ma non agli inizi, perché l’istituto dovette affrontare gros­ si problemi a proposito di approv­ vigionamento di acqua. Straordinariamente primitivo era il modo di costruire le toilette e i pozzi neri, ecc.. Le toilette in legno, in legno i sedili e anche le condutture. [Omissis] Le finestre, opportunamente numerose, nei lunghi corridoi e

nelle corsie, che, data la presenza di inferriate, potevano rimanere spesso aperte, assicuravano (insie­ me con un sistema di condutture di areazione incorporate nei muri) la ventilazione di tutti i locali. La Ditta di Monaco Sugg & Kai­ 101

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ser aveva istallato nei reparti un impianto di riscaldamento, che, però, si limitava alle corsie e ai soggiorni, mentre i corridoi di tutti i reparti erano esclusi da tali im­ pianti. Il motivo di ciò: la commissione di costruzione aveva l’idea che Per­ gine fosse favorita da un caldo cli­ ma meridionale e, per ciò, i corridoi che (ad eccezione dei reparti donne, più o meno esposti al sole) non ab­ bisognavano di un riscaldamento. Sulle conseguenze di tale errata idea dirò più avanti. I focolari (in cui si accendeva il fuoco, n.d.tr.), con sedici corpi ri­ scaldanti, erano posti nel sotterra­ neo, ma non (non erano in un posto unico): erano separati in tre parti, le quali erano accessibili dai reparti dei malati di mente (primo, terzo), eccetto per quella che stava sotto l’amministrazione. Il tratto centrale, invece, era ri­ scaldato con stufe in ferro Sugg & Kaiser, più tardi sostituite con stufe Küstermann. L’illuminazione era in tutti i re­ parti esclusivamente alimentata a petrolio. L’ala di mezzo Dal tratto centrale (primo piano) si dipartivano due passaggi coper­ ti che conducevano all’ala di mez­ zo (ospitante la cucina, l’alloggio delle suore, l’ufficio della superio­ ra, ecc.): 1) dal lato che guarda i reparti ma­ schili il passaggio porta al posto in cui vengono consegnati i pasti per gli uomini; 2) dal lato che guarda i reparti fem­

minili il passaggio porta al po­ sto di consegna dei pasti per le donne, nonché verso la cucina e le annesse dispense e, anco­ ra, verso il refettorio delle suo­ re.

Nella cucina c’era, nel mezzo, un va­ sto focolare; a destra un grosso pen­ tolone per le zuppe, incorporato in una stufa e, vicino, un grosso paiolo per la polenta. Sempre al primo piano dell’ala di mezzo, vicino alla cucina, si trovava una mensa per inservienti e un uffi­ cio per la superiora; inoltre una la­ vanderia, un ambiente refrigerato per il latte, un laboratorio per la pa­ sta, con relativa macchina a mano, e sale per il pranzo. Dall’atrio della cucina un collega­ mento conduceva al palcoscenico della sala delle feste (al piano ter­ ra) e una scala al piano superiore, che serviva da alloggio delle suore. In questo piano una grossa sala, nel mezzo, era trasformata in cappella privata delle suore. Al piano terra dell’ala di mezzo dal vano scale si arrivava a una cantinetta sotterra­ nea e a un magazzino di frutta e ver­ dura. Una vera cantina non esisteva. Lo spazio circondato dal palazzo (una E rovesciata) è rettangolare e costituisce un cortile interno; c’era­ no (e ci sono) quelle costruzioni che erano necessarie all’esercizio delle

attività ospedaliere. Il lungo e rettangolare edificio serviva bene a ospitare i bagni. Nel primo progetto i bagni erano previ­ sti in locali vicini alla cucina. Ma, ancor prima della fine dei la­ vori, si pensò di non collocarli là; la commissione di revisione, nel 1881, stabilì l’incompatibilità di vicinanza fra cucina e bagni, per motivi igie­ nici; per cui fu deciso di erigere (in separata sede) un edificio per la lavanderia e per i bagni (il “Ba­ dehaus”), per il costo di fiorini 23.024. - Lavanderia. A piano terra si tro­ vava la grande lavanderia per i vestiari, ecc., col solito sistema a mano, con diverse vasche in ce­ mento. L’acqua calda era portata da una caldaia sita in un piccolo locale annesso. - Bagni. In quest’ultimo locale una seconda caldaia per acqua calda riforniva i bagni per i malati di mente a mezzo di un semplice tubo che giungeva fino alle va­ sche da bagno. Il cosiddetto “reparto bagni” consi­ steva in più cabine con vasche in la­ miera. L’afflusso di acqua fredda si ave­ va a mezzo di condutture che corre­ vano sotto il pavimento, dove c’era un pozzetto che era collegato con l’acquedotto. L’apertura e chiusura dell’acqua fredda si effettuava tramite una chia­ ve che azionava (bloccava o sbloc­ cava) il pozzetto sotterraneo. I bagni servivano solo alla pulizia personale dei malati di mente. Con quali scomodità avveniva il trasferi­ mento dei malati di mente dai re­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

parti, attraverso il cortile fino al “Badehaus”, specie in pieno inver­ no, lo lascio immaginare. Al piano terra (insieme alla lavan­ deria e ai bagni n.d.tr.) si trovano anche un apparecchio di disinfezio­ ne tipo Thursfield e un’officina per falegname. Al piano superiore c’era la stireria, l’essiccatoio (alimentato con aria calda da una stufa Sugg & Kaiser); più oltre un magazzino e le camere da letto del giardiniere e del­ le lavandaie. Dietro al “Badehaus” un piccolo edificetto rettangolare aveva, nel mezzo, il locale obitorio e la sala necroscopica. A sinistra e a destra dell’obitorio: due fienili. Alte mura, con un solo grande portone, cingevano il grande com­ prensorio rettangolare, entro il qua­ le si svolgeva tutta la vita ospeda­ liera. Avanti, a sinistra e a destra l’isti­ tuto era circondato (per solo tre lati) da giardini per i malati di mente o da cortili. In fondo, presso il monte, i disa­ dorni giardini degli agitati, dotati di porticati; più in avanti (adornati da aiuole e cespugli) i giardini dei se­ miagitati e dei tranquilli, non colle­ gati fra loro, solo aventi in comune l’uscita dei reparti. Fra il giardino delle donne e l’abitato di Pergine, intercalato un orto. Tutti i giardini erano circondati da muri alti tre metri. Così appariva l’istituto di Pergi­ ne, quando fu aperto nel 1882. Ebbene, del suo primitivo aspetto (che corrispondeva allo sfarzo dei gusti dominanti in psichiatria tren­ 103

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ta anni fa, ai modi e alle maniere del trattamento dei malati di men­ te) non è rimasta che la forma ester­ na, mentre l’interno, col passare de­ gli anni, è del tutto mutato. Uomini nuovi vennero e anda­ rono, ma, a tutti un pensiero fu comune: adeguare l’istituto allo stato della scienza in genere, ai progressi della psichiatria in par­ ticolare. Questo processo di adeguamento muove i primi passi subito dopo l’ini­ zio dell’attività, e non ha mai avu­ to fine. Modifiche Ho già accennato alla storia del­ l’acquedotto. È memorabile che, nel “periodo senza acqua”, il Land costruì un ac­ quedotto provvisorio dalla località Ciomba, ai piedi del Monte Orno; senonché all’acqua mancò la sufficiente pressione: i piani superiori rimasero senza, non si poté rifornirli. Molto forte si fece sentire la man­ canza di cantine.

Il Land decise di ricavare una cantina (almeno) sotto il TC, me­ diante scavi condotti in economia. Ma non furono poche le diffi­ coltà incontrate anche in questo lavoro: c’era da lottare col fatto che i muri maestri del palazzo erano troppo poco profondi, si dovette rinforzarli con cemento e poi ini­ ziare lo scavo per la cantina Disagi e disturbi venivano dal fatto che i focolari del riscaldamento era­ no situati in tre parti diverse dei lo­ cali sotterranei, accessibili solo dai reparti primo e secondo, oltre che dal TC. Per evitare che il personale addet­ to al riscaldamento e i malati di men­ te che aiutavano dovessero attraver­ sare spesso altri reparti, i passaggi verso i sotterranei furono unificati. La più grossa delle modificazioni riguardò il riscaldamento (1890). Fino ad allora i lunghi e spaziosi cor­ ridoi, sui quali davano tutte le stan­ ze, non erano riscaldati. Era inevitabile che a ognuna del­ le innumerevoli aperture di porta

(in un manicomio sono inevitabi­ li) i locali riscaldati non mantenes­ sero un sufficiente calore; oltretut­ to, i caloriferi, all’interno delle corsie, si dimostravano insoddisfa­ centi; venivano surriscaldati oltre misura per cercare di mantenere la temperatura necessaria e, questi, andavano spesso in tilt. Allora tutti i caloriferi (sistema Sugg & Kaiser) furono tolti e adot­ tato un sistema di riscaldamento nuovo, che coinvolgeva anche i cor­ ridoi. Al posto dei vecchi sedici furo­ no istallati dieci nuovi corpi ra­ dianti della Ditta Porta di Torino e furono anche istallate nuove con­ dotte d’aria. Il precedente era un sistema a cir­ colazione (cioè veniva riscaldata l’aria già usata e viziata): il nuovo riscaldamento era ad aria presa fuo­ ri, sempre nuova e pura, e scaldata. L’anno 1893 portò una grande no­ vità in tema di illuminazione e, in­ sieme, un significativo miglioramen­ to della sicurezza anti-incendio: fu istallata in quell’anno a cura del Co­ mune l’illuminazione elettrica. Il Comune di Pergine fu uno dei primi a costruire una centrale elettrica. Da tale centrale, in Serso, l’istituto ri­ cevette la forza per la luce e, più tardi, per un motore collegato all’es­ siccatoio nella lavanderia. Non si può tacere che, nel corso degli anni, col valido aiuto dei ma­ lati di mente lavoranti, i fondi agra­ ri dell’istituto furono mutati taluni, e molto migliorati altri. Così, il vigneto che è sotto il maso San Pietro fu riassettato e reso frut­ tifero; nel prato fu allestito un om­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

broso parco e i campi grandi furo­ no migliorati e resi produttivi. Il nuovo tratto di congiunzio­ ne. Nell’anno 1894 fu fatta una co­ struzione che va ricordata, non per la sua dimensione, ma per altri motivi: modificò non poco il qua­ dro dell’istituto. Il vuoto fra il reparto semi-agita­ ti e quello degli agitati fu riempito con una costruzione alta tre piani, che aumentò di tredici stanze l’isti­ tuto, già alle prese con la mancanza di spazio. Dapprima furono pensate come stanze di isolamento e, a tal fine, arredate; più tardi, sotto la spinta del sovraffollamento sempre più forte, furono arredate con due e anche tre letti. In questi locali furo­ no posti i primi pavimenti in legno di faggio dell’istituto. Le finestre, inferriate come ovun­ que, le persiane chiudibili dall’inter­ no e le finestrelle sopra le porte, in alto, per le lampade elettriche: da­ vano al complesso l’impronta di un padiglione di isolamento. Le spese per questi lavori ammon­ tarono a fiorini 70.000 (= 140.000 corone). Le celle di isolamento, in fila, dei reparti per agitati (settimo) e (otta­ vo) furono aumentate con due nuo­ ve celle, sicché si ebbe una lunga fila di nove celle. Con ciò il primo periodo costrut­ tivo ebbe definitivamente fine: ad eccezione di modifiche minime non venne più costruito nulla. Il tempo di totale assenza di ulteriori lavori durò dieci anni. L’inerzia fece sentire ben presto le conseguenze negative. Anche se, come dimostrano le statistiche, il 105

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numero dei malati di mente non crebbe in assoluto, la mancanza di spazio si fece tuttavia sentire, per cui la direzione fu costretta a re­ spingere molte domande di am­ missione. Il sovraffollamento si ebbe soprat­ tutto a causa del folto gruppo di in­ curabili che (nonostante l’art. 23 del­ lo statuto dell’istituto) non poteva­ no essere dimessi dall’istituto, per­ ché i Comuni (con tutti i mezzi lega­ li loro offerti) resistevano alla di­ missione dei loro malati di mente, anche se non pericolosi per la citta­ dinanza. In realtà la non-pericolosità di un malato di mente è concetto molto relativo, perché un malato di men­

te comunemente non pericoloso, in un altro ambiente (e sotto l’in­ flusso di circostanze spesso anche futili) può diventare pericoloso. Perciò varie voci si levarono di autorità sanitarie (sia dal punto di vista igienico che psichiatrico) con­ tro l’eccessivo affollamento. In base ai primitivi calcoli del 1877 la capacità dell’istituto fu ri­ tenuta sufficiente in 200 malati di mente; erano calcoli fatti in base al dato statistico seguente: 579 malati di mente su 352.000 abitanti. Senonché: già nel primo anno quel numero fu superato; e tuttavia le condizioni di spazio consentirono un aumento nella capienza, in via di fatto, che fu sfruttato a seconda del bisogno; nel novembre 1884 si ebbe la punta massima di presenze: 250. Tenendo conto di queste richieste di ammissione, la capacità ufficiale, attraverso piccole modificazioni in terne, fu portata a 240. La i. r. Luogotenenza (d’intesa col Consiglio provinciale di sanità) il 24.5.1886 comunicò alla Giunta Pro­ vinciale che l’aumento a 240 era ra­ tificato, ma ulteriori esuberi non sa­ rebbero stati ammessi. Con ordinanza 10.6.1892 la Giun­ ta Provinciale ribadì l’esplicito di­ vieto di superare il limite di 240. È bene che, nonostante inizialmen­ te fissata a 200, la normale capien­ za sia stata aumentata a 240 (130 uomini) (110 donne). È evidente che sarebbe stato im­ possibile mantenere rigorosamente il limite prestabilito.

NOTA BIOGRAFICA Pius Dejaco (consigliere aulico) nacque a Cognola di Trento il 25 gennaio 1859 da una famiglia di lingua tedesca. Si distinse molto come studente all’Università di Vienna, per cui ottenne la laurea “sub auspiciis imperatoris”, riser­ vata ai giovani di eccezionale pre­ parazione. Nel luglio 1893, in qua­ lità di assistente volontario, entrò a far parte dell’équipe del dott. Aurel Zlatarovich, direttore del Ma­ nicomio provinciale tirolese di Per­ gine, divenendo assistente effet­ tivo del primario in data 20 otto­ bre del 1893. Tra il 1912 ed il 1919 ricoprì la carica di direttore del Manicomio perginese.

Lasciata la direzione al trentino dott. Guido Garbini (1873-1923), dopo la fine della prima guerra mondiale, si ritirò a Bressanone con la moglie Elvira Fontanari e i cinque figli, e là aprì una clinica privata nella Villa Sabiona, alla confluenza della Rienza nell’Isar­ co. Uno dei figli, Valerius, sarà sin­ daco di Bressanone dal 1952 al 1968. Pius Dejaco morì a Bressanone il 29 aprile 1925.

NOTE [1] Il numero delle stanze indica­ to nel testo è errato, il nume­ ro esatto deve intendersi 12 e non 13.

Libera traduzione dal tedesco a cura di Giuseppe Pantozzi (DEJACO 1912). Le parole in corsivo rendono le parti di testo sottolineate nell’originale. I disegni che corredano il testo sono stati elaborati da Gian Piero Sciocchetti. Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

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Il Manicomio di Pergine, istituto interprovinciale Giuseppe Pantozzi

Cultura e collaborazione interetnica nella storia dell’ospedale perginese

La riflessione che è stata fatta sul­ l’ospedale di Pergine dal gruppo di studio coordinato da Casimira Gran­ di e Rodolfo Taiani. Quella istituzio­ ne è stata analizzata da tutti i punti di vista (medico, sociale, economi­ co, architettonico). Il presente scritto intende consi­ derare le cose da punti di vista che sono accessori, in relazione a un ospedale, ma non privi di interesse: si tratta in particolare le norme le­ gislative e delle norme contrattuali, relative alla presenza di bolzanini nei reparti ospedalieri. Ebbene, da questi angoli visuali, l’ospedale appare come una istitu­ zione strumentale delle due provin­ ce di Trento e Bolzano. Un regio de­ creto del 15 marzo 1928 dichiarava un diritto di proprietà di Trento sul complesso ospedaliero e un diritto di utilizzazione di Bolzano. E dun­ que, sotto l’aspetto del fine istitu­ zionale, l’ospedale era interprovin­ ciale. In altre parole: di fronte alle prestazioni assistenziali le due pro­ vince avevano eguali titoli e diritti, derivanti da un unico atto, costi­ 108

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tuente lo statuto dell’ospedale. Questa situazione di "parità nell’utilizzo" corrispondeva alle leg­ gi concernenti i rapporti fra pro­ vince quando una di esse (nel no­ stro caso: Bolzano) nasceva dalla divisione territoriale dell’altra (nel nostro caso: Trento). Non conosco bene i motivi per i quali quella divisione (avvenuta nel 1928) sia stata piuttosto contenzio­ sa e quali influssi abbia avuto quel­ la contesa sui vari rami amministra­ tivi, ma so che la direzione ospeda­ liera ebbe sempre una tendenza a ri­ muovere l’idea della compartecipa­ zione assistenziale. Mi spiego: la natura duplice del­ l’ospedale non apparve mai nella de­ nominazione ufficiale, non fu mai citata nelle stampe o relazioni, non era nota, per conseguenza, ai medi­ ci, agli infermieri; men che meno al pubblico; era celata sotto una cap­ pa di silenzio. Esisteva anche un atto di natura esecutiva: una convenzione del no­ vembre 1928, destinata a regolare i rapporti concreti sorgenti dalla co­ mune utilizzazione. Ma non fu ela­ borata dalle segreterie giuridiche o assistenziali delle due province, ben­ sì dalle due ragionerie: una scrittu­ ra in cui si parlava di conti, di ren­ diconti, di contabilità e di fatture; non si citava una sola volta il mala­ to, non i suoi rapporti con la fami­ glia, non l’apporto del servizio so­ ciale del paese di origine, ecc. Insomma: dei cento rapporti, de­ licati, che sorgevano dalla comune presenza, venivano regolati soltan­ to quelli legati al bilancio. Ebbene: negli anni sessanta si pen­

Ex Ospedale Psichiatrico di Pergine Valsugana, interno.

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sò, a Bolzano, che occorreva pre­ vedere, in una rinnovata conven­ zione, una forma di contatti perio­ dici, uno scambio costante di in­ formazioni, un accesso agevolato dei familiari, ecc., Occorreva, in altri termini, avvi­ cinare l’ospedale alla parte più set­ tentrionale del suo hinterland; oc­ correva applicare al manicomio quel­ lo spirito di servizio sociale, che ve­ niva teorizzato a Trento, in quei tem­ pi, più che in altre parti d’Italia. Pergine reagì con cortesia, ma non accettò: volle che fosse mantenuta la convenzione del 1928, inalterata. Oppose una tenace volontà di con­ servare quella convenzione. E que­ sta opposizione sorprese i bolzani­ ni. Tutta la storia dei rapporti fra le due popolazioni, intorno al proble­ ma psichiatrico, era una storia di collaborazione e di intesa. Dal 1830 al 1882 i malati trentini erano accolti nel manicomio di Hall presso Innsbruck: era disagevole il trasporto, eccessiva la lontananza da casa, diverso l’ambiente antropico, ma l’accoglienza ed il trattamento erano cordiali e soddisfacenti. Nel 1882 fu aperto l’ospedale di Pergine e la coordinazione con Hall fu buona: un continuo scambio di informazioni, esperienze, documen­ ti (per esempio: le relazioni annuali del direttore di Pergine erano stu­ diate e conservate in perfetto ordi­ ne nell’archivio di Hall; e là sono tuttora reperibili). Pergine nacque con uno spirito di collaborazione, che il governo di In­ nsbruck favorì in più forme. Non va dimenticato che il primo

atto del primo direttore fu quello di invitare tutti i medici del Tren­ tino; egli li guidò a visitare l’ospe­ dale e invocò la loro costante col­ laborazione. Né va dimenticato che, essendo assessore Paul von Sternbach, nel go­ verno di Innsbruck (nel primo de­ cennio del Novecento), Pergine fu al­ l’avanguardia di una psichiatria di­ namica ed aperta. Egli invitò a Per­ gine Andrea Verga, il massimo psi­ chiatra italiano, ed Heinrich KraftEbing, il massimo psichiatra austria­ co. Andò a visitare Tamburini a Reg­ gio Emilia, istaurò rapporti di ami­ cizia con lui (si potrebbe parlare di gemellaggio). Il giovane assessore introdusse a Pergine la metodologia ergote­ rapica, seguendo i criteri emiliani, piegò alla nuova metodologia la struttura generale dell’ospedale, creando nuovi padiglioni nel com­ 109

Il manicomio di Pergine, istituto interprovinciale

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plesso ospedaliero e una ammire­ vole colonia agricola in Vigalzano. Spalancò le porte alla cultura. Fece un aperto elogio dei direttori degli ospedali psichiatrici italiani, nella seduta dietale del 5 novembre 1903: "…quei direttori, … sono diventati famosi, ben oltre i con­ fini di quel regno…". Vi fu un periodo aureo, dunque, in cui Pergine fu il centro interme­ dio fra la psichiatria italiana e la mitteleuropa: il periodo in cui le mura, intorno all’ospedale, ostaco­ lavano il passo ai curiosi ed agli sfac­ cendati, non alle idee, non alle in­ novazioni. Anche dopo la prima guerra mon­ diale, divenuto Pergine ospedale in­ teretnico, in quanto deputato ad ospitare malati del Trentino e del­ l’Alto Adige, ed interprovinciale, in quanto collegato alle funzioni assi­ stenziali delle due provincie, la vec­ chia intesa continuò, sostanzialmen­ te; non vi sono state lamentele dei bolzanini verso Pergine (salvo gli aspetti negativi derivanti dalla poli­ tica che dominava in quegli anni), così come non vi erano state lamen­ tele dei trentini verso Hall (salvo i disagi oggettivamente derivanti dalla lontananza). Perfino la nota "deportazione" di malati bolzanini in Germania, avvenuta nel 1940, svela, a ben osservare, le tracce della tradizio­ nale sintonia: perché, se è vero che Pergine, sotto il tallone del rude governo che aveva deciso quell’infelice ”Transport”, aveva omesso di compier taluni suoi do­ veri, è anche vero che gli infermieri perginesi avevano le lacrime agli

occhi quando videro partire i ma­ lati, e le suore perginesi vissero quella partenza con una loro in­ tensa sofferenza. Sorprendente e antistorico, dun­ que, negli anni sessanta il rifiuto di Pergine a una rinnovata conven­ zione. La spiegazione non fu data, allora, ed è difficile ipotizzarla ora. Di certo influì, in qualche mi­ sura, la natura che Pergine aveva tratto dalle leggi sui manicomi del 1904, entrata in vigore, nel Tren­ tino, nel 1929 (quella legge, gui­ data dalle teorie positivistiche ed organiciste, aveva portato l’ospe­ dale a trasformarsi nella fortezza che tendeva ai suoi due fini: la conservazione e l’isolamento). Ma fu determinante, a mio pa­ rere, il timore di coloro, i quali, al­ l’interno dell’ospedale (dopo la co­ stituzione liberale del 1948 e dopo il progresso straordinario, sul pia­ no scientifico, della psicologia) percepivano l’equilibrio precario in cui l’ospedale sopravviveva: un quid novi, anche minimo, avrebbe potuto determinarne il crollo. Negli anni settanta Bolzano deci­ se di costruire un sistema psichia­ trico proprio: alcuni centri di pre­ venzione e alcuni luoghi di cura re­ sidenziale o semiresidenziale, sparsi sul territorio. Propose a Trento, nuovamente, un aggiorna­ mento della convenzione del 1928, che consentisse di inviare a Pergi­ ne propri allievi-infermieri, affin­ ché svolgessero un periodo di ti­ rocinio in quei padiglioni che ospi­ tavano malati altoatesini. Successivamente Bolzano avreb­ be, gradualmente, ritirato quegli

infermieri, divenuti esperti, insie­ me con i relativi malati, assegnan­ doli alle varie strutture nuove, che il proprio programma prevedeva. Era un piano non del tutto nuovo, di cui si era parlato già nel 1966, e Trento l'aveva sostenuto ancor più che Bolzano, perché vi aveva visto, per più aspetti, un suo cointeresse. Ma questa volta pervenne un ri­ fiuto (22 novembre 1972): man mano che l'idea abolizionista si dif­ fondeva il meccanismo manico­ miale si chiudeva sempre più a ogni idea di innovazione. Si riteneva, oltre il muro, che il problema della psichiatria in ge­ nerale, il suo sviluppo nella regio­ ne, non riguardassero il manico­ mio regionale: il meccanismo era programmato per una sola funzio­ ne originaria: la custodia (e quel­ la cura che la custodia consentis­ se). È interessante notare che il re­ gio decreto del 1928, che ho ri­

cordato prima, relativo alla ripar­ tizione patrimoniale fra le due pro­ vincie, disponeva non solo su Per­ gine, ma anche sull’Istituto d’as­ sistenza infantile di Riva: quell’isti­ tuto veniva suddiviso in due par­ ti; divenne, dunque, "interprovin­ ciale" e fu amministrato da Tren­ to; ma una commissione pariteti­ ca decideva sui temi più importan­ ti; e riunioni bilaterali erano in­ dette, periodicamente, per recipro­ che informazioni sull’istituto e sul­ l’assistenza minorile in generale; riunioni svolte sempre in un clima molto amichevole e proficuo. Ciò dimostra che i rapporti, ben diversi, che intercorsero in relazio­ ne a Pergine, avevano origine solo dalle ideologie psichiatriche, del tutto prive di elasticità, che sta­ vano alla base delle leggi, di quel­ le vecchie e di quelle nuove. Ma debbo subito aggiungere che quei due o tre episodi, di cui

Bruno Caruso, Annotazioni nell’album del manicomio, disegni colorati, particolare, 1953-1960. A pagina 112: Bruno Caruso, Manicomio, disegno a china.

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Il manicomio di Pergine, istituto interprovinciale

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ho parlato ai fini di completezza storica, non intaccano, oggi, il giu­ dizio che va espresso sull’ospeda­ le, nel suo complesso, nel suo se­ colo di vita. Quel palazzo ospedaliero, che, negli studi citati all’inizio, è detto "monumentale", è un monumento alla sofferta storia della medicina psichiatrica, alla sofferenza di tanti malati, ma anche un monumento alla cultura interetnica, all’intesa fra nazioni diverse. E queste cose meritano il nostro rispetto e richiedono il dovere del­ la nostra memoria.

NOTE [1] Il progetto dell’edificio prin­ cipale della colonia di Vigal­

zano, ospitante i malati, i la­ boratori e gli stabulari, fu af­ fidato al celebre architetto perginese Eduino Maoro; e ciò spiega l’eleganza delle linee e la razionalità funzionale di quella costruzione. E dimostra anche l’importanza che Stern­ bach assegnava all’istituzione ergoterapica.

Giuseppe Pantozzi ha diretto il Dipartimento della sanità e dell’assistenza sociale della Provincia autonoma di Bolzano.

Gli infermieri di Pergine. Cento anni di storia Valerio Fontanari

L’infermiere psichiatrico da “guardiano dei matti” ad operatore sanitario, con specifiche competenze anche nella relazione con il paziente.

Cenni di storia dell’assitenza psichiatrica nel corso del XIX secolo Nella storia della psichiatria si par­ la poco degli infermieri. Questo ar­ ticolo si propone di raccontare la storia dell’Ospedale psichiatrico di Pergine attraverso una descrizio­ ne del lavoro infermieristico. Gli infermieri psichiatrici in pas­ sato hanno svolto soprattutto fun­ zioni di servi e di custodi. La prima descrizione esistente parla dei “guar­ diani dei matti”, come di persone analfabete, ignoranti e brutali, pro­ venienti dalle classi più basse, temute dai medici e dagli ammalati. Si sa anche che per meglio svol­ gere funzioni repressive e custodia­ listiche venivano scelti in base alla loro robusta corporatura. Nel contesto storico del XIX se­ colo è significativo che, a fianco del­ la figura di Pinel (che già sul finire del Settecento in Francia tolse le catene ai folli), permanga il ricordo di un sorvegliante eccezionale per l'epoca, Jean Battiste Pussin, precur­ sore dei principi del trattamento Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

morale dei pazienti e del regime umano nei reparti. Ancora più signi­ ficativo il fatto che fosse un ex-pa­ ziente cosicchè meno distante era il rapporto tra paziente e personale d'assistenza. Alla sua morte il suo posto come sorvegliante alla “Salpetriere” ven­ ne preso dai medici, da Esquirol in particolare, quasi per una riappro­ priazione di quelle funzioni perico­ losamente scivolate nelle mani de­ gli infermieri guardiani, che così ri­ schiavano di diventare figure di con­ correnza ai medici. Esquirol teorizzò l'importanza del ruolo di “domestico” per la figura a contatto con il malato: doveva esse­ re sempre insieme al paziente (in­ ternato insieme agli alienati), non lasciarli mai soli, non avere forma­ zione, ubbidire ciecamente al medi­ co, uomo di fatica e guardia del cor­ po del medico. In quest'epoca quindi i custodi dei matti erano isolati e molto subalter­ ni ai medici, e nel contempo molto vicini ai pazienti, insieme ai quali condividevano in negativo molte li­ mitazioni: come loro avevano l'ob­ bligo dell'internato come i pazienti e non potevano dormire fuori dalle mura dell'istituto, non potevano spo­ sarsi, non potevano disporre di sé in maniera autonoma, avevano una di­ visa che li marchiava. Come in tutte le istituzioni chiuse e totali, ai fini della custodia i guardiani diventa­ vano a loro volta carcerieri. Tutto questo era evidentemente mantenu­ to da un sistema gerarchico di pre­ mi e punizioni. Nello stesso tempo avevano am­ pio spazio d'azione e possibilità di 113

Gli infermieri di Pergine. Cento anni di storia

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rivalsa sui pazienti a loro assegnati: ordinavano a loro piacere ba­ gni e docciature, immersioni im­ provvise e violente, rinchiudeva­ no e incatenavano gli ammalati a capriccio senza farne regolare rap­ porto, facevano passare per men­ zognero quel paziente che avesse riferito ai superiori dei maltratta­ menti subiti, ecc. Questo modello è stato preminen­ te in tutta l'Europa del XIX secolo. La nascita dell’ospedale psichiatrico di Pergine All’interno dell’impero austrounga­ rico nacque nel 1882 il manico­ mio di Pergine, accogliendo circa duecento pazienti provenienti da Hall con un organico di 16 infer­ mieri che purtroppo non rimase mai stabile. Gli infermieri erano assunti dalla Direzione dell'istituto, e prima della loro assunzione definitiva dovevano superare un periodo di prova di 14 giorni. Dopo dieci anni di servizio potevano licenziarsi e avevano diritto a una pensione minima. Evidentemente molti dei giovani perginesi non sostenevano i ritmi e gli impegni di questa nuova profes­ sione: infatti, nel 1883 abbandona­ rono in sei e ne furono assunti altri sette, nel 1884 abbandonarono in nove sostituiti da altri nove, e me­ diamente nei primi dieci anni il ri­ cambio fu del 40-50%. Il problema dell’alto tournover infermieristico veniva visto come fenomeno preoc­ cupante dalla Direzione dell'Ospeda­ le, che poteva però contare sul con­ tributo stabile delle infermiere suo­ re: si trattò di un gruppo di diciotto

unità rimaste continuativamente nel tempo. Non c'era distinzione di compiti tra infermieri maschi e le suore; l'uni­ co invece che aveva un ruolo diver­ so e particolarmente di riguardo era il capo infermieri, che ebbe un ruo­ lo essenziale nell'avvio dell'ospeda­ le, e fu gratificato con un alloggio privato per lui e la sua famiglia al­ l'interno dell'ospedale, al pari del Direttore. Il Direttore era ben cosciente de­ gli effetti che gli infermieri provo­ cavano sui pazienti, sia in positivo che in negativo, e verificava le atti­ tudini e la serietà di ogni singolo candidato infermiere, prima della sua assunzione. È riportato anche che era difficile trovare personale all'altezza del compito. Il lavoro degli infermieri era re­ golato da apposite istruzioni,con compiti essenzialmente di custodia, cura e sicurezza degli ammalati. Ogni paziente veniva affidato a un infermiere che doveva fungere da padre. Per il gruppo di amma­ lati che aveva in carico, ogni in­ fermiere doveva curare l'igiene personale, l'alimentazione, il rifa­ cimento dei letti, la pulizia dell'am­ biente, l'assunzione dei farmaci, l'osservazione del comportamento e la preparazione per la visita me­ dica. Era vietata all'infermiere ogni at­ tività che non fosse l'assistenza di­ retta al malato. Erano inoltre sorve­ gliati da una specie di ronda interna formata dagli stessi infermieri, che aveva anche il compito di ispeziona­ re tutti i locali dell'istituto. Nel dicembre 1882 venne appro­

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vato un regolamento di servizio per gli infermieri composto da 56 articoli. In base a tale regolamen­ to gli infermieri dovevano essere: «creanzati, sobri, costumati, cor­ tesi, ordinati, puliti, ben pettinati, intelligenti, fedeli, onesti, sin­ ceri, veritieri». Dovevano: “tolle­ rarsi a vicenda, stimolarsi l'un l'al­ tro, trattarsi con urbanità, affida­ bilità e benevolenza, riferire ai Superiori le contravvenzioni com­ messe dai colleghi, provvedere alla propria pulizia corporale, lavorare insieme agli ammalati, procedere con economia, considerare l'Isti­ tuto come una grande famiglia, andare d'accordo e cooperare”. Dovevano inoltre rispettare gli ammalati, trattarli con riguardo, pa­ zienza e benevolenza anche se erano scortesi, violenti o impulsivi, dimo­ strare cortesia, non deriderli né chia­ marli pazzi, matti, ecc. Veniva inol­ tre specificato di non dare del «tu» ai pazienti; di cercare “con tutta bon­ tà di far cadere il discorso quando il paziente esponeva le sue idee false o deliranti”; di non intervenire con la camicia di forza senza il parere del medico di sorveglianza; veniva­ no inoltre proibiti e puniti interven­ ti aggressivi o punizioni basate sul privare l'ammalato di cibo o di ta­ bacco. Veniva imposto il segreto pro­ fessionale e veniva raccomandato l'ascolto del paziente per poi riferi­ re al medico. Si tratta di un regolamento molto dettagliato, che definisce accurata­ mente le mansioni degli infermieri: se ne può dedurre che il loro ruolo era privo di autonomia, e che essi erano gli intermediari tra pazien­

te e medico; si nota anche che, a fianco dello specifico e necessario ruolo di sorveglianza, si comincia­ vano a intravedere e incoraggiare elementi per un corretto e positi­ vo rapporto umano fra infermiere e paziente. Nei primi anni del secolo XX si procedette in questa direzione, con ulteriori norme interne e regolamenti che favorivano la dimissione e la ria­ bilitazione dei pazienti. Il passaggio di Pergine dalla giurisdizione austriaca alla giurisdizione italiana Nel 1904 in Italia fu approvata la “Legge sui manicomi e gli alienati”, completata da un Regolamento del 1909: questa legge rappresenta il primo tentativo italiano di regolare l'accesso al manicomio e le condi­ zioni di vita all'interno. A parte al­ cuni aspetti sulla formazione, la legge non portare novità per quan­ to riguarda gli infermieri. Anche dopo questa legge, infatti, il tipo di lavoro richiesto era poco diverso da quello del personale di servizio domestico: lavoro permanen­ te con pochi giorni di riposo al mese; alloggio sul posto di lavoro, in ca­ mere come quelle dei pazienti o ad­ dirittura nelle stesse camerate; pa­ ghe minime; ancora nel 1934 chi si sposava veniva licenziato. Era compito degli infermieri far rispettare le rigide regole istituzio­ nali, controllare e contenere i com­ portamenti disturbati dei pazienti; le funzioni di assistenza erano desti­ nate soprattutto a evitare che i pa­ zienti disturbassero i medici. Il rapporto medico/infermiere

A pag. 115: Bruno Caruso, Clochard, disegno acquarellato, 1998, particolare.

era basato soprattutto sull'autori­ tà gerarchica: il medico ordinava e l'infermiere doveva eseguire sen­ za discutere. La stessa autorità ca­ ratterizzava il rapporto tra infer­ miere e paziente, tranne alcuni casi legati all'iniziativa personale. L'Ospedale psichiatrico di Pergine era nel territorio dell'Impero au­ stroungarico, e beneficiava di leggi e regolamenti più avanzati rispetto alle leggi ialiane. Nel 1935 circa, diciasette anni dopo la guerra, si completò l'italia­ nizzazione dell'Ospedale psichiatri­ co e caddero definitivamente i re­ golamenti austriaci: per la qualità dell’assitenza e per la categoria in­ fermieristica fu un salto indietro. Nel 1940 i familiari dei pazienti ricoverati dovettero dichiarare la loro madrelingua di appartenenza e quelli che optarono per la lingua tedesca furono deportati in Germania. Gli infermieri, che acompagnarono i pa­ zienti con una tradotta partita da Pergine, raccontano che all’arrivo a destinazione in Germania, i pazienti furono ospitati in un caseggiato e gli infermieri in un locale attiguo. Durante la notte si sentivano dei la­ menti e si potevano riconoscere i sin­ goli pazienti dalle loro grida: poi non si sentì più niente. Al mattino suc­ cessivo quando gli infermieri ripar­ tirono per il ritorno a Pergine, si ac­ corsero che il gruppo di pazienti era ridotto a meno della metà. Dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni sessanta Le terapie Le terapie più antiche consistevano

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in bagni caldi alternati a freddi, o avvolgimenti in lenzuola bagnate, contenimento fisico mediante cami­ cia di forza, nastri ai polsi e alle ca­ viglie, o corsetti, isolamento in cel­ le, nelle quali il pagliericcio per dor­ mire veniva cambiato una volta alla settimana. Il pagliericcio era com­ posto da un’alga marina essicata che aveva la caratteristica di polverizzar­ si, e quindi era una sostanza adatta per prevenire il tentativo di suici­ dio. L'infermiere, nel caso dell'isola­ mento, doveva controllare ogni quar­ to d'ora il paziente, attraverso un apposito spioncino posto sulla por­ ta della cella. In situazioni di violenza improv­ visa del paziente, gli infermieri do­ vevano bloccarlo con la forza, per poi fissarlo al letto. Molte volte si interveniva con la modalità del «co­ macio», che consisteva nel buttare un lenzuolo sulla testa del paziente, in modo da coprire faccia e collo, cogliendolo di sorpresa da dietro. Le estremità del lenzuolo, tenute in mano dagli infermieri, venivano ve­ locemente arrotolate in modo da for­ mare un cappio intorno al collo che veniva stretto a comprimere le giu­ gulari finchè il paziente sveniva. Gli ammalati dormivano nudi e l'infermiere doveva controllare tut­ te le sere il vestiario, per escludere la presenza di corpi contundenti. Porte, finestre, luce e acqua erano chiuse a chiave e l'infermiere ne era il responsabile. Le posate, le forbici e altro materiale di ferro o di vetro veniva contato scrupolosamente a ogni cambio di turno e, se risultava mancante anche di una sola unità, 117

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si doveva rovistare e mandare al­ l'aria il reparto finché non veniva trovato l'oggetto smarrito. Fino all’inizio degli anni sessanta gli infermieri prestavano assistenza alle nuove terapie convulsivanti: malario-terapia, insulino-terapia ed elettroschok. La malario-terapia, che è la più antica tra le terapie, si basava sul creare al paziente degli stati febbri­ li molto alti, intervallati a periodi di febbre bassa, allo scopo di creare spossatezza e quindi sedazione. Il plasmodio della malaria viene tra­ smesso dalla zanzara anofele, presen­ te nelle zone molto calde, ma anche l’uomo è un terreno fertile di coltu­ ra per tenerlo vivo. Quando non c’era­ no trattamenti terapeutici da fare, ma occorreva tener in vita il plasmo­ dio, questo veniva inoculato su pa­ zienti scelti a scopo punitivo. L’insulino-terapia (scoperta nel 1932) procurava un effetto convul­ sivante attraverso uno squilibrio metabolico ottenuto mediante l’inie­ zione per via endovenosa di alte dosi di insulina. Veniva provocata una crisi ipoglicemica, con movimenti tonico-clonici, che si doveva neutra­ lizzare con perfusione venosa di glu­ cosio. Ogni ciclo di trattamento, con un “coma” al giorno, variava da ven­ ti a quaranta giorni e comportava un notevole aumento ponderale del pa­ ziente. La stanza adibita a questo tratta­ mento (“camerone”) aveva dodici letti e quando i pazienti incomincia­ vano ad entrare in coma, si doveva intervenire a iniettare il glucosio a rotazione su tutti in rapida succes­ sione. Il lavoro veniva svolto da due

infermieri, di cui uno teneva il braccio del paziente che presenta­ va le contrazioni, e l’altro “spara­ va” in vena il flacone di glucosio. Si trattava di un intervento infer­ mieristico molto faticoso fisica­ mente e di grave responsabilità per la sopravvivenza del paziente. L’elettroschock (scoperto nel 1938 da Cerletti) consiste in una scarica elettrica di un particolare voltaggio allo scopo di scatenare nel paziente convulsioni tonico-cloniche. In cer­ te cliniche viene riconosciuto ancor oggi come un intervento terapeuti­ co valido e viene eseguito sul pa­ ziente in anestesia totale. A Pergine si è praticato fino alla metà degli anni settanta, con il paziente vigile perché non esisteva un servizio di anestesia. Inoltre veniva praticato nei corridoi, sotto gli occhi degli altri pazienti. L’assistenza avveniva con quattro infermieri che blocca­ vano il paziente appoggiandosi con tutto il peso del proprio corpo sui quattro arti e rispettive articolazio­ ni del paziente stesso. Al paziente veniva messa una fascia arrotolata fra i denti, per prevenire il morso della lingua. Durante la scarica elet­ trica, il corpo del paziente si irrigi­ diva e faceva un salto di 15/20 cen­ timetri circa, potendo alzare da ter­ ra tutti e quattro gli infermieri. Que­ sto trattamento poteva procurare fratture e lussazioni al paziente. L'uso degli psicofarmaci, succes­ sivo agli anni cinquanta, ha rappre­ sentato un cambiamento radicale, sia perché essendoci delle “medicine”, la psichiatria si avvicinava alle altre specialità mediche, sia perché la se­ dazione dei pazienti permetteva di­

versi interventi assistenziali. Si comincia a parlare di «cure morali» per intendere un insieme di attenzioni umanitarie che venivano prestate agli ammalati, nella convin­ zione che un clima più umano aves­ se ripercussioni positive sulla salu­ te mentale degli alienati. All’interno dell’Ospedale veniva proiettato un film alla settimana, venivano organizzate delle gite di reparto, a fine anno veniva organiz­ zato il ballo per i pazienti nel teatro con musica e allegria sia per i pa­ zienti che per il personale. L’Ospedale psichiatrico di Pergi­ ne alla fine degli anni sessanta ospitava circa duemila pazienti. Come tutte le istituzioni totali ave­ va un regime autarchico, cioè do­ veva provvedere a tutte le neces­ sità della vita quotidiana. All’inter­ no dell’Ospedale c’era quindi un forno per il pane, una lavanderia, un laboratorio tessile che produ­

ceva la tela per tutte le necessità, un materassaio, il calzolaio, la fa­ legnameria, ecc., dove lavoravano pazienti sorvegliati da infermieri, e operai. Il fatto di appartenere a queste squadre di lavoro consen­ tiva agli infermieri di imparare mestieri artigianali. A due chilometri dall’Ospedale si trovava la colonia agricola “La Co­ sta”. La colonia rappresentava un’azienda agricola e zootecnica, molto avanzata rispetto alle aziende dell’epoca, destinata a produrre il fabbisogno alimentare di tutto il complesso ospedaliero, pazienti e operatori. Serviva inoltre come stru­ mento di “ergoterapia” per i pa­ zienti che stavano meglio, prima del loro eventuale re-inserimento in famiglia. Alcuni infermieri in servizio presso la colonia erano deputati, oltre che all’assistenza dei pazienti, al lavoro di agricol­ tura e di allevamento del bestia-

Ex Ospedale Psichiatrico di Pergine Valsugana, interno.

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me, insieme ai pazienti. Nella Colonia c’era anche il ma­ cello, da cui poi le mezzene degli animali venivano portate nella ma­ celleria dell’ospedale, situata presso le cucine. La gestione doveva essere piuttosto allegra perché si racconta che arrivavano due mezzene dello stesso animale con due code o sen­ za coda addirittura, e non si giusti­ ficava come potevano appartenere ad un solo animale. Era abitudine conclamata fino a metà degli anni settanta che le colf dei medici dell’Ospedale psichiatri­ co si recassero il sabato mattina alla macelleria dell’ospedale per fornirsi dei migliori tagli di carne. In gene­ rale anche alcuni infermieri poteva­ no trarre vantaggio da un sistema di favoritismi e benefici nella gestione dei beni dell’Ospedale. L’”ergoterapia” prevedeva inoltre la partecipazione dei pazienti a squa­

dre interne, per lavori all’interno dei reparti, e a squadre esterne per lavori in campagna e nei parchi. Per i pazienti, essere inseriti nell’”ergoterapia” era più gratificante che stare rinchiusi in reparto, per­ ché percepivano un minimo salario (all’inizio degli anni settanta, rispet­ tivamente cento lire per le squadre interne e duecento lire per quelle esterne), e perché avevano qual­ che privilegio di autonomia che sfociava anche in piccoli spazi di potere. Come in tutte le istituzioni chiuse, gli spazi di potere all’inter­ no dell’istituzione erano creati sia da gruppi di pazienti che da grup­ pi di operatori. Caratteristiche contrattuali del lavoro infermieristico Fino alla prima metà degli anni ses­ santa, il Direttore aveva ancora po­ tere assoluto su tutto, e poteva li­ cenziare o assumere a suo piacimen­ to. Prima dell'assunzione definitiva, il personale infermieristico veniva assunto per periodi iniziali di 15 giorni e poi di due mesi, con suc­ cessivi licenziamenti per periodi più o meno lunghi a seconda delle esi­ genze della direzione. Non potevano essere assunti i co­ siddetti “casi doppi”, cioè poteva es­ sere occupata una sola persona per ogni nucleo familiare. La motiva­ zione di questa regola va cercata nei bisogni della comunità locale perginese, che viveva l'ospedale non tanto come struttura di cura per i pazienti psichiatrici, quanto come importante e sicura risorsa occupazionale, e pretendeva un'equa distribuzione fra tutte le

famiglie di quei posti di lavoro privilegiati rispetto alle altre atti­ vità lavorative, prevalentemente agricole. I turni di lavoro erano di una set­ timana di servizio e una di riposo, fino al 1945 circa, poi, fino al 1963, di 24 ore di servizio e 24 di riposo, con quindici giorni di ferie all'an­ no. Nel turno delle 24 ore tutto il personale del reparto lavorava dalle 7,15 alle 20, alle 20 il turno si divideva in due gruppi che fa­ cevano la prima e la seconda ve­ glia. Quelli della prima veglia con­ tinuavano fino all’una di notte, e quelli della seconda veglia lavora­ vano dall’una alle 7,15 del matti­ no, finché arrivava il cambio. Men­ tre era di turno il gruppo della prima veglia, il gruppo della se­ conda veglia poteva dormire, e vi­ ceversa. Dormivano comunque nel piano soprastante al reparto, pronti a intervenire immediata­ mente in caso di urgenza. La divisa per gli uomini consi­ steva in un lungo camice a righine, cravatta, cappello e mazzo di chiavi alla cinta; per le donne, una divisa quasi monacale con vesta­ glia e cuffia bianche. La carriera prevedeva quattro tap­ pe: infermiere di terza classe; infer­ miere di seconda classe; infermiere scelto; capo sala. Dopo la nomina a capo sala si poteva anche aspirare alla nomina di vice ispettore fino al vertice massimo di ispettore. Il passaggio veniva definito attraver­ so le note di qualifica (insufficien­ te, sufficiente, buono, distinto, ottimo) che il medico responsabi­ le del reparto attribuiva annual­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

mente ad ogni infermiere. Questo giudizio veniva ricavato dalle ri­ sposte a domande tipo: puntuale, non puntuale, puntualissimo, e, con la stessa declinazione, veloce, cordiale, ubbidiente, ecc. Questo sistema (mantenuto fino al 1978) era evidentemente in­ fluenzato da personalismi e clien­ telismi, e testimonia l'ampia discre­ zionalità dei medici sulla carriera infermieristica. Gli anni settanta: i movimenti di deistituzionalizzazione Dalla metà degli anni sessanta in poi, attraverso la pratica della psi­ cofarmacologia e sotto l'influsso di contributi scientifici, culturali e sociali che caratterizzarono quel periodo fecondo, fu possibile il superamento degli ospedali psi­ chiatrici, che può essere circoscrit­ to tra la legge del 1968 e quella del 1978, la rivoluzionaria 180. Questo processo si concluse nel­ lo stesso anno 1978 con la legge di riforma sanitaria 833: la psichia­ tria entrava a tutti gli effetti nel Sistema sanitario nazionale. I grossi fermenti innovativi nella psichiatria arrivarono dopo gli anni sessanta, sotto l'influsso della espe­ rienza francese del settore, e di una cultura sociale ed antipsichiatrica che assunse in Italia una rilevanza particolare come movimento antiistituzionale. Nel momento in cui si mettevano in crisi i principi dell'”istituzione totale” e dell’assistenza repressiva ed emarginante, si cominciarono a met­ tere in luce le potenzialità e le con­ traddizioni della categoria infer­ 121

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mieristica che, all'interno del ma­ nicomio, era collocata su un gra­ dino appena superiore a quella dei pazienti. Erano i primi momenti storici in cui si cominciava a parlare di “equi­ pe”. Significativo è, un articolo del 1968 di Pancheri, che per la prima volta dà una definizione totalmen­ te nuova del ruolo dell'infermiere psichiatrico, distinguendone tre compiti: tecnico, umano, sociale, a loro volta così articolati: - compiti tecnici: cure personali ai malati; assistenza prima, durante e dopo elettroshok e insulinote­ rapia; preparazione dello strumen­ tario e assistenza al medico du­ rante narcoanalisi, lombare, ecc.; somministrazione di farmaci; - compiti umani: scelta dell'atteg­ giamento terapeutico, aiutare il malato nell'accettare le terapie, migliorare le relazioni interperso­ nali del malato, osservare il com­ portamento del paziente; - compiti sociali: sorvegliare il la­ voro collettivo in ergoterapia, sor­ vegliare gli svaghi. Si trattava cioè di funzioni che con­ cernevano il malato direttamente (funzioni tecniche di base e specia­ listiche), ed indirettamente (organiz­ zazione dell'ambiente terapeutico e supervisione del personale di assi­ stenza non specialistico). La legge 431 del 1968 (la cosid­ detta “legge Mariotti”) istituisce la possibilità del ricovero volontario e dell’ attività extraospedaliera. Si in­ comincia anche in Trentino ad usci­ re dal manicomio; nascono i dispen­ sari di igiene mentale sul territorio,

che consistevano in ambulatori fun­ zionanti per qualche mezza giornata alla settimana. L’attività territoriale era svolta dai medici dell’Ospedale con l’assistenza di qualche infermiere di Pergine e successivamente con le assistenti sanitarie. Gli infermieri, che erano infermieri generici psi­ chiatrici, potevano lavorare solamen­ te in psichiatria. Dal 1972 (anno della mitica espe­ rienza di Gorizia) al 1978 (anno del­ la legge 180), le esperienze di aper­ tura degli ospedali psichiatrici si moltiplicano su tutto il territorio nazionale, ma il manicomio di Per­ gine non era ancora pronto. Si pensi che in quel periodo ven­ ne istituito un servizio di infermieri «guardia parchi» per controllare il traffico di alcolici attraverso la rete di recinzione dell’ospedale e per con­ trollare eventuali incontri fra cop­ piette di pazienti nel vasto parco dell’ospedale. Il gruppo era compo­ sto di otto infermieri che avevano ognuno il proprio territorio da con­ trollare. Questo è un esempio di come si era lontani dalle ideologie di liberalizzazione del paziente psi­ chiatrico, ma mostra anche come al­ l’interno dell’Ospedale fosse permes­ sa una certa libertà di movimento. Nel 1974 furono inseriti i tiroci­ nanti psicologi, provenienti dalla Facoltà di psicologia di Padova, che, insieme a un folto gruppo di psichia­ tri giovani, hanno dato una grossa spinta alla deistituzionalizzazione e all’apertura verso l’esterno dell’Ospe­ dale psichiatrico di Pergine. Si co­ minciava a respirare un forte clima innovativo. Nel clima di innovazione che si

Ex Ospedale Psichiatrico di Pergine Valsugana.

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stava sviluppando, si è attivato an­ che un gruppo di circa trenta infer­ mieri, stimolati dal Direttore, che sono anche andati in visita a Trieste e hanno avuto un incontro di con­ fronto con il professor Basaglia. Que­ sto gruppo di infermieri ha costitui­ to un nucleo di operatori più moti­ vati a proporre un cambiamento isti­ tuzionale, che si è poi concluso nel maggio del 1978, quando sono usciti dall’Ospedale psichiatrico per aprire i servizi ospedalieri sul territorio. La maggioranza del personale in­ fermieristico però era abbastanza contraria all’uscita lavorativa sul ter­ ritorio, per paura del cambiamento da una parte e per il rischio di per­ dere il lavoro vicino a casa dall’al­ tra. Nal 1973 nasceva il giornalino in­ terno “All’ombra del Tegaz” redatto da un gruppo di pazienti coordinati da due infermieri e da una assisten­ te sanitaria, ma questa esperienza, che dava voce per la prima volta ai pazienti, si esauriva nel 1975 circa. Nel 1975 veniva aperto un servi­ zio riabilitativo chiamato «Tempo Libero». In questo spazio i pazienti avevano la possibilità di esercita­ re attività espressive mediante la manipolazione di materiali e attra­ verso il disegno e la pittura. Nel 1975 ci fu anche il primo soggiorno al mare di due gruppi di venticinque pazienti, accompa­ gnati da sei operatori per ogni gruppo. L’esperienza si è dimostra­ ta molto valida, tanto è vero che si è sempre ripetuta anche negli anni successivi. Per coinvolgere la cittadinanza di Pergine nella realtà di un ospedale

psichiatrico in via di trasformazio­ ne, si organizzarono alcune manife­ stazioni, come il passaggio del cor­ teo carnevalesco nei parchi del­ l’Ospedale, concerti bandistici, spet­ tacoli di filodrammatiche, mostre ecc. A poco a poco la cittadinanza di Pergine ha conosciuto la realtà del­ l’Ospedale psichiatrico e i pazienti hanno incominciato ad uscire nel­ la città, prima accompagnati, e poi anche da soli. Nel 1977 venne organizzato dal “Tempo Libero”, all’interno del pro­ gramma carnevalesco, una messa in scena del “bruciare il manicomio”. Su un enorme mucchio di neve da­ vanti alle cucine furono disposti i padiglioni dell’ospedale, ricavati da scatoloni dipinti, che i pazienti con gli infermieri del “Tempo Li­ 123

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bero” bruciarono in segno di dei­ stituzionalizzazione e di apertura. Come segno di conservazione e di mantenimento, invece, gli infer­ mieri dei reparti accorrevano con gli estintori. Il conflitto, inscenato nel clima carnevalesco, ha avuto comunque ripercussioni anche nella vita lavo­ rativa quotidiana, aumentando la tensione e lo scontro tra operatori innovativi e conservatori. Il nuovo regolamento per il personale di assistenza La Provincia autonoma di Trento nel 1977 elaborò il “Regolamento speciale per il Servizio di salute mentale”, che è rimasto in vigore fine alla metà degli anni novanta. Per il personale infermieristico il regolamentro individuava le se­ guenti fasce di carriera: ispettore, viceispettori, caposala e infermie­ ri. Nell'art. 42 vengono elencate le mansioni degli infermieri: - eseguono la terapia indicata dai medici; - prestano l'assistenza negli esami clinici e terapie speciali; - svolgono azioni di pronto soc­ corso infermieristico; - osservano il comportamento del disturbato mentale racco­ gliendo le notizie sui rapporti familiari e ambientali; - svolgono compiti generali di as­ sistenza e di intervento ai fini di un buon andamento del reparto per quanto riguarda sia gli aspetti igienici che gli aspetti personali e sociali, con partico­ lare riferimento alle attività psi­

coterapiche individuali e di gruppo; - contribuiscono ad attuare e svi­ luppare, unitamente agli altri ope­ ratori, ogni iniziativa rivolta al mi­ glioramento delle condizioni di vita e di graduale recupero sociale del disturbato mentale, sia nell'ospedale che nell'ambiente. Stava ormai avvenendo un grosso cambiamento nel modo di conside­ rare l'infermiere psichiatrico: non più solo custode, non più braccio de­ stro del medico soltanto, ma ope­ ratore con competenza propria e specifica nella relazione con il pa­ ziente. Negli anni settanta, periodo di grandi profonde trasformazioni isti­ tuzionali, gli infermieri psichiatrici hanno comunque vissuto una grave crisi di identità e di ruolo e sono stati spesso al centro della conflit­ tualità istituzionale. A volte sono stati mitizzati come strumenti fondamentali per un nuo­ vo agire psichiatrico, altre volte al contrario sono stati visti come le forze conservatrici e omeostatiche che si opponevano alla ”rivoluzio­ ne” psichiatrica. Sicuramente gli infermieri psi­ chiatrici hanno vissuto intensa­ mente sia gli entusiasmi di un la­ voro nuovo che le incertezze di cambiamenti non prevedibili; a volte sono stati artefici di situa­ zioni di assistenza più avanzate e creative, a volte si sono arroccati su funzioni di custodia più repres­ siva. La legge 180 del 1978: la separazione tra servizi

di salute mentale e Ospedale psichiatrico La legge 180 prevedeva che ogni Unità sanitaria locale dovesse garan­ tire nei nuovi servizi il proprio per­ sonale infermieristico. In realtà, sul territorio provinciale, il servizio di assistenza nei Servizi ospedalieri isti­ tuiti a Borgo, a Trento, a Mezzolom­ bardo e a Arco, fu espletato, al­ l’inizio, dal personale che prove­ niva dall'Ospedale psichiatrico, con la conseguenza che le figure infermieristiche più motivate si sono proiettate sui servizi territo­ riali a scapito dei pazienti che ri­ manevano ricoverati in manicomio. In questo modo si trovarono per la prima volta a lavorare fian­ co a fianco negli ospedali di zona infermieri psichiatrici e professio­ nali, con contratti, funzioni e re­ tribuzioni diverse, che si omoge­ neizzarono nel 1882 con il passag­ gio del personale infermieristico di Pergine dalla Provincia alle unità sanitarie locali. Gli infermieri psichiatrici di Per­ gine restarono sempre legati alla Unità sanitaria locale C 4, ed erano parzialmente prestati alle altre Uni­ tà sanitarie locali; nel 1987 rien­ trarono tutti in Ospedale psichia­ trico, mentre nei servizi ospedalieri venivano inseriti infermieri profes­ sionali e non, senza precedenti esperienze psichiatriche. Mentre i Servizi di salute men­ tale territoriali crescono e si dota­ no di nuove strutture per rispon­ dere ai bisogni della popolazione, l’Ospedale psichiatrico, detto “re­ siduo manicomiale”, rimane in at­ tesa di un progetto di «riconver­ Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

sione» che solo nel 2003 inizierà la sua attuazione. La formazione degli infermieri A conclusione di questa breve ras­ segna storica sembra utile accenna­ re alla formazione degli infermieri. La legge italiana del 1904 preve­ deva che in ogni ospedale psichia­ trico dovevano essere attivati corsi per la specifica preparazione teori­ co-pratica degli infermieri. Tuttavia, lo scarso interesse culturale e socia­ le, l'organizzazione del lavoro, il sa­ pere medico, la volontà politica stes­ sa di inserire una classe infermie­ ristica poco preparata cultural­ mente, sono stati un freno all'or­ ganizzazione di questi corsi. Anche dal punto di vista istitu­ zionale, questi corsi con esami fina­ li, erano della durata più varia, a partire da un anno a tre mesi (cor­ si minimi per un totale di cento­ venti ore), secondo il fabbisogno del momento di infermieri. Si pensi che a Pergine nel 1970 fu fatto un corso serale di due ore per cinque giorni la settimana che durò tre mesi. Dal 1976 la formazione infermie­ ristica prevede solo le scuole regio­ nali per infermiere professionale, e quindi non vengono più istituiti corsi per infermieri psichiatrici e generici. Dal 1994 pende avvio di concerto fra il Ministero della Sanità e il Mi­ nistero dell’Uuniversità, un percor­ so universitario di preparazione alla professione infermieristica, che viene ad assumere un'imposta­ zione scientifica specifica. Dall'anno scorso, come era pre­ 125

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visto dai profili professionali del 1994, è stato attivato in alcune università un master post-laurea per infermieri in assitenza al pa­ ziente psichiatrico. Questa figura in provincia di Trento era già stata prevista, attraverso un corso di

specializzazione attuato una volta nel 1987 e poi nel 1997, che ha formato circa cinquanta infermie­ ri. Una nuova figura professionale, che si sta inserendo nei servizi di salute mentale e che affianca l’in­

Bruno Caruso, Contro l’uso della camicia di forza negli ospedali psichiatrici.

fermiere, è il terapista della riabi­ litazione psichiatrica. Anche que­ sto professionista ha una forma­ zione di tipo universitario con particolare preparazione nel settore della riabilitazione. Anche il Servizio di salute mentale di Pergine si avvale di questi professionisti. L’istituzione di questi nuovi corsi di laurea evidenzia come all’infer­ miere che lavora in psichiatria non sia più richiesto solo… una corpo­ ratura robusta, ma una formazione accurata e specialistica.

tedesco, ma anche quello di altri paesi europei. In tal senso si è re­ gistrato negli ultimi due decenni un crescente interesse storiogra­ fico nei confronti di questi temi di cui sono testimonianza, solo a ti­ tolo esemplificativo, i testi di CALAMANDREI 1983, DONAHUE 1991 e SIRONI 1991.

NOTE Molti particolari raccontati nell’ar­ ticolo derivano dalla mia esperien­ za di infermiere a Pergine dal 1970 e da quella di Silvia Lorenzini, mia madre, infermiera a Pergine dal 1936 al 1973. Ho inoltre utilizza­ to i seguenti testi: BASAGLIA 1968, DE GIROLAMO – CAPPIELLO 1985, GOFFMANN 1968, MARZI – BOLO­ GNANI 1987, PANCHERI 1969, PANTOZZI 1989, SCHWING 1988 e ZANI – RAVENNA – NICOLI 1984. Evidentemente il presente contri­ buto non ha la pretesa di affron­ tare il tema della storia del ruolo dell'infermiere psichiatrico in tut­ te le sue componenti, ma solo di offrire alcuni spunti di lettura re­ lativamente alla vicenda di una funzione all'interno del manicomio di Pergine Valsugana. Uno studio più approfondito non può prescindere in alcun modo da una più ampia visione del feno­ mento che prenda in considerazio­ ne non solo il contesto italiano o Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 12/13

Valerio Fontanari è I.P. specializzato in assistenza psichiatrica - Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari e professore a contratto del Corso di laurea tecnico della riabilitazione psichiatrica, Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Verona. 127

SCHEDA 1

Il riuso organico dell’ex ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana Proposte per un piano tra politica culturale e imprenditorialità

La riflessione sviluppata nel corso degli anni dal gruppo di lavoro che ha seguito il progetto “Alla ricerca delle menti perdu­ te”, e della quale gli studi ospitati in que­ sto numero della rivista offrono parziale testimonianza, ha permesso di elaborare un articolato piano al quale affidare il rag­ giungimento dell'obiettivo di un riuso or­ ganico dell'ex ospedale psichiatrico di Per­ gine Valsugana. In questa sede si presenta l'articolazio­ ne di questo itinerario, in forma di sem­ plice scheda, proponendola come una sor­ ta di promemoria dei diversi passaggi sui quali il gruppo stesso ritiene sia opportu­ no insistere per recuperare concretamen­ te ad un fine di utilità pubblica quanto è stato individuato nel corso della ricerca e, in alcuni casi, trasferito anche in precisi progetti. 1. I settori di intervento 1. Il “Contenitore” fisico, alias recupero del parco; 2. La memoria; 2.1 Allestimento di una casa della me­ moria; 2.2 Valorizzazione dell'archivio storico ai fini della conservazione e fruizione con attenzione anche per l'importante biblioteca scientifica a corredo. 2. Alcune prospettive di attività derivanti dalla memoria (cartacea e orale) 1. Psichiatria perginese tra Austria e Ita­ lia (la psichiatria transnazionale come mar­ catore forte); 1.1 I medici; 1.2 Gli infermieri; 128

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1.3 Le suore e i cappellani; 2. Analisi sociale dell’utenza; 3. Topografia dell’utenza; 4. Storia dell’edilizia manicomiale; 5. Storia delle colonie agricole (ergotera­ pia e scelte virtuose); 6. Operazione T4 (crimini nazisti contro i malati psichici e i disabili); 7. La fine dell’”istituzione totale”. 3. Attività innovative nel quadro di un coe­ rente riuso 1. Corsi di terapia ortoculturale; 2. Creazione di un “cybercafe” nel parco, aperto ad interni ed esterni; 3. La cultura nella/della follia (mostre di pittura, musicoterapia transculturale, at­ tività artistiche collegate a manifestazio­ ni a carattere permanente). 4. Enti collaborativi potenziali 1. Comune di Pergine; 2. Associazione nazionale archivisti-sezio­ ne Trentino-Alto Adige; 3. Azienda Provinciale per i Servizi Sanita­ ri; 4. Istituto agrario di S. Michele all'Adige; 5. Museo storico in Trento; 6. Provincia autonoma di Trento; 7. Università degli studi di Trento; 8. Associazioni di familiari dei “malati psi­ chiatrici”.

Gruppo di lavoro: Roberta Arcaini, Casimira Grandi, Anita Pasqualetti, Vincenzo Adorno, Paolo Botteon, Rodolfo Taiani, Gian Piero Sciocchetti, Ermanno Arreghini, Carmelo Anderle

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SCHEDA 2

Bibliografia

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