Dove Andrà A Finire L'economia Dei Ricchi

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Dove andrà a finire l’economia dei ricchi

domenico de simone

DOVE ANDRA’ A FINIRE L’ECONOMIA DEI RICCHI? DA CRASSO A BILL GATES

edizioni Malatempora

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Dove andrà a finire l’economia dei ricchi

Edizioni Malatempora prima edizione aprile 2001

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Dove andrà a finire l’economia dei ricchi

SOMMARIO INTRODUZIONE................................................................................5

I. DALLA VECCHIA ALLA NUOVA ECONOMIA.....12 1. La nascita dell’economia ................................................................12 2. L’economia della casa......................................................................19 3. La fabbrica.......................................................................................25 4. Lo Stato.............................................................................................32 5. L’economia del debito.....................................................................40 6. La finanza del debito.......................................................................46 7. Lo scenario prossimo venturo.........................................................49

II. LA NUOVA ECONOMIA ......................................52 1. La smaterializzazione della produzione.........................................62 2. Il potere e Internet...........................................................................67 3. La globalizzazione dell’informazione.............................................71 4. La funzione sociale della ricchezza.................................................75 5. Internet e l’economia.......................................................................77 6. La rivoluzione della nuova economia.............................................81 7. Filosofia della nuova economia.......................................................89 8. Proprietà e accesso...........................................................................95 9. Il denaro e la nuova economia........................................................99 10. Conclusioni...................................................................................105

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Ai miei Maestri

INTRODUZIONE

C’era una volta un mercante molto abile ed intraprendente. Da qualche tempo, però, i suoi affari languivano, e nonostante fosse già ricco, egli era profondamente insoddisfatto. Si sa che i mercanti sono un po’ avidi e che per seguire i propri desideri elaborano idee molto particolari, a volte davvero eccentriche. Ma quella che balzò alla mente del nostro mercante superò davvero ogni immaginazione. Egli decise, infatti, di regalare a chiunque gliele chiedesse le proprie mercanzie. Molti pensarono che fosse impazzito ed avesse deciso di andare in rovina. Altri crederono ad una conversione improvvisa e levarono lodi al Signore. Tutti parlavano del mercante che distribuiva gratuitamente i propri prodotti e molti clienti si affollarono davanti ai suoi negozi per riuscire ad ottenere qualcosa prima che il mercante fallisse, dato che tutti ne avevano pronosticato l’imminente bancarotta. Si dovettero ricredere in molti, nel vedere che gli affari del nostro mercante avevano ricominciato a correre come un tempo e con gli affari anche i suoi utili. In questo modo, tra lo stupore generale, egli divenne molto ricco, ancora più di prima. Esauriti i suoi concittadini, ormai carichi di tutte le sue mercanzie, il nostro eroe pensò di andare a cercare nuovi clienti che fossero disposti a prendere i suoi prodotti senza dover pagare nulla. A questo scopo, mandò lettere e messaggeri in numerose città e contrade, fece pubblicare bandi, armò delle navi per diffondere la notizia oltremare. Tutto ciò costò molto denaro che egli però spese volentieri dato che in questo modo diventava sempre più ricco. Nel frattempo, seguendo il suo esempio, anche gli altri mercanti, suoi concorrenti, si erano messi a distribuire gratis le proprie mercanzie, tranne quelli che non riuscivano proprio a comprendere per quale via si potesse diventare così ricchi facendo una cosa apparentemente così insensata. La curiosità, più che l’avidità, spinse il nostro mercante a pagare la gente perché prendesse le sue mercanzie, offrendo sempre di più affinché tutti prendessero le merci presso i suoi magazzini piuttosto che dai suoi concorrenti. Nemmeno questo riuscì a far diminuire le sue ricchezze,

che divennero smisurate al punto che egli poté ritirarsi dagli affari e vivere da nababbo per il resto dei suoi giorni. Fino a pochi anni fa, questa storia non l’avreste letta nemmeno in una raccolta pubblicata dal più ortodosso dei surrealisti, tanto sembra priva di senso. Nella nostra mente è talmente radicata l’idea che la ricchezza nasca dalla vendita di beni, che per secoli non abbiamo nemmeno immaginato che si potesse diventare ricchi regalando qualcosa. Ciò non significa che l’umanità non abbia coltivato la generosità come distribuzione gratuita di beni materiali e spirituali, ma commercio e gratuità sono sempre stati visti antitetici come il diavolo e l’acqua santa. Questo solo fino a pochi anni fa. In questa storia, solo apparentemente strampalata, è in realtà contenuto il segreto di quella che chiamiamo la nuova economia. Che cosa è successo? Gli uomini sono improvvisamente diventati buoni e generosi ed hanno deciso di condividere le proprie ricchezze con i propri simili meno fortunati? Ovviamente no, dato che la molla che spinge a distribuire gratis i propri prodotti è sempre il desiderio di arricchirsi. Però si è rotto un tabù. Per essere un ricco mercante non è più necessario dover rassomigliare a quei sordidi personaggi che da Arpagone a Paperon de’ Paperoni riconosciamo in molte persone ricche. Non solo, ma il mercante che voglia diventare ricco dovrà essere generoso e distribuire gratuitamente le proprie mercanzie, altrimenti i suoi concorrenti lo buttano fuori del mercato e allora addio sogni di ricchezza. Ciò significa che tra qualche tempo potremo avere a disposizione ciò che ci occorre senza doverlo pagare? La risposta è sì. Come vedremo, la nuova economia ha come effetto la distribuzione gratuita di una quantità crescente di prodotti, mentre la produzione si smaterializza e la quota di beni prodotti dalla vecchia economia, che pure cresce in termini assoluti, si riduce in misura proporzionale al totale del prodotto. All’inizio del ‘900 la ricchezza di una nazione si misurava in termini di grano e di acciaio prodotto. Il primo serviva per dare da mangiare al popolo, il secondo per fare la guerra. I servizi erano attività assolutamente marginali (se escludiamo dai servizi le attività militari che solo la stupidità dell’economia contemporanea riesce a far entrare nel computo del PIL) che coinvolgevano una frazione irrisoria della po-

polazione produttiva. Tra dieci anni, il 90% della produzione sarà di servizi e di questi una parte rilevante saranno le attività di intrattenimento multimediale. Gli americani dicono che è servizio tutto ciò che non ti cade dalle mani quando è stato appena prodotto, immagine che indica in maniera efficace la differenza tra la produzione materiale e quella immateriale. Ebbene, entro dieci anni la quasi totalità delle attività di produzione sarà immateriale, e tutto il resto, alimentare, automobili, case, autostrade, computer, giocattoli, vestiti, insomma tutto quello che vi viene in mente si possa fabbricare e tenere in mano, non occuperà più del 10% del totale della produzione nazionale1. Dovremo fare uno sforzo straordinario per comprendere fino in fondo la portata di questa rivoluzione. Fino a pochi decenni fa, l’idea che una società di un paese straniero potesse possedere un’industria strategica come quella dell’acciaio sarebbe stata impensabile. Torniamo agli anni Trenta: ve l’immaginate cosa sarebbe accaduto se una società giapponese o tedesca avesse tentato l’acquisto della U.S. Steel? O anche quali reazioni avrebbe suscitato lo stesso tentativo operato da una società russa fino agli anni Settanta? Ebbene la U.S. Steel, un tempo orgoglio dell’industria americana, è fallita da parecchi anni e parte dei suoi stabilimenti è stata acquistata da un gruppo giapponese che possiede una particolare tecnologia che massimizza la flessibilità della produzione nel settore. A parte qualche rimpianto nostalgico, nessuno ha sollevato obiezioni all’operazione, dato che lo stesso concetto di interesse nazionale alla produzione è divenuto privo di significato nella società della produzione globale. Ovviamente, nessuno considererebbe un attentato all’integrità della nazione una scalata straniera a Mediaset o alla Telecom, per fare l’esempio di due grandi aziende del nuovo settore, anzi in molti ci metterebbero la firma se avvenisse! La produzione si sta modificando in maniera talmente radicale che abbiamo bisogno di un nuovo paradigma concettuale per poterne comprendere la natura e per poter capire in che maniera essa incida sulla nostra libertà e sulla capacità di scelta. Dobbiamo abbandonare il concetto di ricchezza come di una torta che si divide. In realtà quest’idea non è più vera da molti anni anche se continua ad essere usata per la traduzione politica delle scelte economiche. A maggior ragione è divenuta falsa in 1

La previsione si riferisce agli USA, ma è evidentemente estendibile in una diversa misura temporale a tutti i paesi dell’occidente.

un contesto di produzione immateriale, nel quale cioè, quello che conta sono le idee e le capacità personali dei produttori. Se può avere apparentemente un senso impadronirsi di uno stabilimento per la produzione di acciaio o delle terre dove si produce il grano, l’esproprio di una società che produce idee (dal software al cinema, dalle consulenze al finanziario) si riduce nella dissoluzione dell’azienda e del suo effettivo valore. La General Motors ha in bilancio beni per 200 miliardi di dollari, mentre nella Microsoft gli stessi beni arrivano si e no a venti miliardi. Eppure, alla Borsa di NY il rapporto è invertito: la Microsoft capitalizza dieci volte più della General Motors, nonostante abbia nel suo patrimonio un decimo dei beni di quella. Qualche anno fa una grande banca decise di acquistare una SIM, una società di intermediazione finanziaria particolarmente attiva e redditizia. La pagò un sacco di soldi, ma non si garantì sulla permanenza del personale al suo interno. Morale della storia: dopo l’acquisto, la maggior parte del personale diede le dimissioni e andò a fare un’altra SIM. La banca si ritrovò con una scatola vuota che aveva pagato a caro prezzo e non produceva più nulla. Nonostante non abbia più senso, continuiamo a pensare alla giustizia sociale in termini di divisione della produzione. Dobbiamo imparare a considerarla in termini di moltiplicazione. La capacità produttiva dei paesi dell’occidente è ormai illimitata, nel senso che è in grado di produrre tutti i beni materiali che occorrono per una vita più che dignitosa nonché una quantità illimitata di beni immateriali. Non solo, ma la produzione di quei beni materiali diviene sempre meno rilevante in relazione al totale del prodotto, e nel giro di qualche decennio ne diventerà una frazione decimale. Allo stesso tempo la produzione immateriale si inoltra sempre di più nella logica della distribuzione gratuita, per le ragioni che scopriremo nel libro ridisegnando in altri contesti le aree del profitto. Perché il processo possa proseguire, è inevitabile che si giunga all’instaurazione del reddito di cittadinanza, che consiste nella distribuzione egualitaria del necessario per condurre una vita dignitosa. E’ inevitabile, sia perché esso rappresenta la distribuzione di una quota sempre meno rilevante di prodotto, sia perché non è possibile produrre alcunché se non ci si libera della necessità e, nella prospettiva della produzione illimitata tutti devono diventare produttori (di idee).

Quando ciò accadrà è difficile stabilirlo, e fare previsioni sui tempi di realizzazione di una innovazione radicale, di una vera e propria rivoluzione come questa, è davvero una scommessa. Gli esperti avevano previsto che il “progetto Genoma”, la mappatura del DNA umano, potesse essere realizzato in un tempo compreso tra dieci e vent’anni dal suo inizio. Invece, ce ne sono voluti solo due, e altre strabilianti scoperte hanno caratterizzato l’inizio di questo nuovo millennio. Possiamo però ragionevolmente ipotizzare che non occorrerà molto tempo e che nel giro di un paio di generazioni l’umanità avrà relazioni economiche del tutto diverse da quelle cui siamo avvezzi. Fino a che le relazioni economiche non cesseranno del tutto, per la semplice ragione che non saranno più necessarie. Non sarebbe la prima volta, nella storia dell’umanità, che delle relazioni o degli oggetti assolutamente comuni tra gli uomini e parte integrante del loro bagaglio culturale, o addirittura strumento della loro vita quotidiana, cessano per aver esaurito la propria funzione. Pensate alla schiavitù ed a quanto essa fosse radicata nel vivere quotidiano delle società antiche, o alle lampade a petrolio che solo fino a pochi decenni fa illuminavano la maggior parte delle case dei nostri avi. Però, mentre possiamo dire che tra la schiavitù ed il lavoro salariato c’è una continuità assimilabile a quella che intercorre tra una lucerna ed una lampadina, tra la nuova e la vecchia economia c’è la radicale frattura che nasce dalla filosofia del tutto nuova che si sta imponendo nel nostro mondo. E già, perché le filosofie, in barba ai filosofi che si illudono di dominarle o di esserne gli autori, nascono e si diffondono indipendentemente da essi, anzi il più delle volte loro malgrado. Tornando all’esempio di prima, mentre sia la schiavitù che il rapporto di lavoro salariato si svolgono nell’ambito di una relazione di potere, e la lucerna e la lampadina fanno entrambe luce, tra una relazione commerciale tradizionale ed una nell’ambito della nuova economia non c’è proprio alcun rapporto. In realtà non potremmo nemmeno chiamarle relazioni commerciali, termine che ci riporta nell’ambito della vecchia economia, ma come vedete il linguaggio ancora non ci supporta a sufficienza nella definizione di queste nuove relazioni. Ma come è possibile che la storia che vi ho raccontato all’inizio abbia un senso e che questa rivoluzione possa avvenire?

E pensare che la maggior parte della gente confonde la nuova economia con l’exploit della borsa o con la diffusione di Internet, mentre altri ne negano persino l’esistenza. Il fatto è che di fronte alle trasformazioni epocali, come questa che stiamo vivendo, siamo del tutto privi degli strumenti necessari per coglierne la portata. E’ come se pensassimo di poter misurare la radioattività senza un contatore geiger. Un’area fortemente radioattiva non presenta in apparenza alcuna differenza rispetto ad una che non lo è. Che però in quella zona ci sia un pericolo mortale o una grande opportunità è questione che solo strumenti adatti e comportamenti conseguenti possono risolvere. Noi siamo privi di questi strumenti e dobbiamo costruirli se non vogliamo correre inconsapevolmente un rischio mortale o perdere la più grande opportunità che si sia mai presentata all’umanità dall’invenzione della ruota in poi. La nuova economia rappresenta questa grande opportunità per l’umanità intera, ma nasconde in eguale misura pericoli mortali. Come sempre nella storia, saranno le nostre capacità a trasformare in utile ciò che è potenzialmente pericoloso. Non è questa la sede per entrare nel millenario dibattito sull’esistenza di un progresso nella storia e di un fine per l’umanità. Non c’è dubbio, però, che il mondo privo di rapporti commerciali che la nuova economia prefigura, è un mondo potenzialmente migliore dell’attuale, in cui tutto è mercificato. Ma come si fa a pensare, in una società in cui tutto è rapportato al denaro, che entro un tempo ragionevolmente breve si possa passare ad una società che si fonda su rapporti diversi da quelli commerciali? Dovete pensare che la storia che vi ho raccontato all’inizio è già vera, anche se solo in parte e non per tutte le merci. Non vi è dubbio che il suo insegnamento sarà applicabile ad un numero crescente di merci ed in un tempo esponenzialmente sempre più breve. Per capire come ciò possa accadere dovrete avere la pazienza di seguire fino in fondo il filo di questo libro. Incontreremo delle difficoltà per liberarci dei pregiudizi che ci accompagnano nella comprensione profonda degli eventi che andremo ad esaminare, dato che tutti noi siamo ostinatamente tradizionalisti ed è difficile intendere tesi che si muovono in un terreno assolutamente nuovo. Però le cose, in fondo, non sono affatto così difficili come siamo indotti a credere. Come ho gia scritto altrove, l’economia è una disciplina resa difficile dalla necessità di

non farne comprendere il funzionamento che, in sé è perfettamente comprensibile. Per giungere alle ragioni che ci porteranno alla fine dell’economia, dovremo prima esplorare quelle che hanno indotto l’umanità a crearla ed a farla crescere in misura così invadente nella nostra esistenza. Solo ripercorrendo questo tratto di strada del pensiero umano conosceremo la via che ci porta nel nuovo mondo, in cui nulla sarà più economico, anche se continueranno ad esistere ricchi e ricchissimi ma in un’accezione talmente diversa rispetto a quella che intendiamo oggi che ce ne risulterà grande meraviglia. Paul Bairoch scrisse alla fine degli anni Sessanta questa frase che conclude il mio libro sul reddito di cittadinanza: "In rapporto alle società tradizionali lo scarto nel livello medio di vita2 è dell'ordine di 15 a 1 per i paesi europei occidentali e di 30 a 1 per gli USA. Dall'Egitto di Ramsete I alla Francia di Luigi XIV probabilmente lo scarto è stato solo dell'ordine di 2 a 1, e tra l'uomo di Neanderthal e l'Egitto dei Faraoni è stato nello stesso modo dell'ordine di 2 a 1. Ora dalla società tradizionale a quella degli Stati Uniti d'oggi ci sono due secoli e mezzo, da Ramsete I a Luigi XIV trenta secoli, e dall'uomo di Neanderthal a Ramsete I più di trecento cinquanta secoli, il che mette in rilievo certe fantastiche accelerazioni del tempo di cui si è giustamente parlato". Possiamo aggiungere che dalla società di Bairoch a quella di oggi lo scarto è aumentato ancora di dieci volte o forse di più, anche se la qualità della vita negli anni ’60 era forse migliore di quello di oggi, ma questa è un’altra questione. Si sono così generate le condizioni per la Grande Rivoluzione della Nuova Economia.

2

Per scarto nel livelli medio di vita Bairoch intende il tenore di vita in senso assoluto, vale a dire non solo la quantità di beni di cui una famiglia può disporre, ma anche la comodità della vita, il livello delle abitazioni, la facilità delle relazioni sociali, il funzionamento ei servizi e la loro accessibilità eccetera eccetera [N. d. T.]

I.

1.

DALLA VECCHIA ALLA NUOVA ECONOMIA

La nascita dell’economia

Non è vero che l’economia sia sempre esistita e che sia connaturata con la società umana. Per lungo tempo gli uomini hanno vissuto in una società in cui non esistevano né denaro, né scambi commerciali e nemmeno produzione di beni. La società dei cacciatori raccoglitori era composta da persone che vivevano di caccia e dei frutti che venivano raccolti dai membri della comunità per tutti i suoi membri. Il valore delle cose era dato dalla loro utilità immediata: un frutto al mattino valeva come una preda a mezzogiorno ed un giaciglio la sera. Le comunità tribali che vivevano allora sulla terra non avevano necessità di scambiarsi alcunché dato che avevano a disposizione tutto ciò di cui avevano bisogno. Fu il bisogno, forse per l’aumento della popolazione, forse per cambiamenti climatici che ridussero l’estensione delle zone dove fosse possibile praticare caccia e raccolta, che spinse gli uomini ad abbandonare le antiche pratiche e dedicarsi all’agricoltura. Altre tribù divennero nomadi e continuarono a praticare caccia e raccolta cui affiancarono l’allevamento del bestiame. Nelle loro peregrinazioni stagionali alla ricerca di pascoli per i propri animali, i nomadi ebbero occasione di imbattersi nei villaggi degli agricoltori. A volte ne nascevano razzie, poiché spesso la pratica della caccia veniva interpretata in maniera estensiva. Altre volte, soprattutto se i villaggi degli agricoltori erano sufficientemente difesi ed organizzati, il confronto diventava improvvisamente più civile ed il desiderio delle cose altrui doveva necessariamente passare per l’offerta delle proprie cose. Probabilmente, all’interno delle comunità agricole, così come nelle tribù nomadi, non c’era ancora nessuna attività economica, poiché le relazioni tra le persone erano dominate dai vincoli di sangue per i quali, ancora fino a poco tempo fa, lo svolgersi dei rapporti prescindeva dalla loro rilevanza economica. Nella vita della tribù i rapporti non si fondavano sulla valutazione economica delle prestazioni di

ciascuno dei suoi membri. Questa relativa indifferenza dei rapporti di sangue alla valutazione economica si è perpetuata fino ai nostri giorni nelle famiglie. Non è incongruo pensare che la crisi di questa istituzione sia legata in parte rilevante alla progressiva estensione della necessità di dare senso economico alle attività di ciascuno, con tutte le conseguenze che questo comporta in termini di mancanza di amore, di generosità e di spontaneità nei rapporti. Ma come vedremo il problema è temporaneo ed è legato all’invadenza dell’economia nella società civile. Ovviamente non possiamo dimenticare che quello che usciva dalla porta rientrava spesso dalla finestra. Per secoli, infatti, il luogo deputato ai delitti commessi in nome dell’avidità e della sete di guadagno, soprattutto per le eredità, è stata proprio la famiglia più che la società civile. Ma è solo da qualche decennio che si pensa alla famiglia come generatrice di interessi economici per le attività che vi vengono svolte. Questa nuova concezione ha prodotto istituti giuridici come la società familiare, le rivendicazioni, in alcuni paesi coronate da successo, di salario per le casalinghe, diversi riconoscimenti economici per le attività prestate dai figli nelle attività dei genitori, in fattispecie legali tipiche. Dicevamo che nelle antiche tribù non c’era alcuna attività economica e, finché queste tribù erano nomadi, non c’era neppure alcuna potenziale rivendicazione economica, dato che i beni da ereditare erano così scarsi e di poco momento da non suscitare le brame di nessuno. Ben altri delitti venivano allora commessi in nome del potere, ma questa non è certo una novità e da allora ad oggi le cose non sono molto cambiate. E’ probabile che inizialmente gli scambi con le comunità di agricoltori che non si facevano rapinare, fossero essenzialmente fondati sul baratto. I nomadi avevano pelli di animali, latte e carne da offrire in cambio dei prodotti agricoli di cui gli agricoltori avevano eccedenza. Per molti secoli, però, le eccedenze furono scarse ed occasionali, così come gli incontri. Solo l’aumento della popolazione e le nuove tecniche introdotte nella coltivazione dei campi, resero le scorte suscettibili di diventare oggetto di scambio più che riserva per i tempi di magra che erano sempre in agguato. Le comunità agricole cominciarono a farsi la guerra tra loro e con la guerra arrivò anche lo scambio commerciale, che in fondo ne è una variante in alcuni casi meno onerosa. Invece di impadronirsi dei beni altrui, rischiando la sconfitta e comunque la perdita di molti membri della comunità, l’offerta in cambio di beni prodotti in sovrappiù dalla propria comunità era certamente più vantaggiosa.

Il presupposto dello scambio economico è, quindi, la produzione in sovrappiù che consente di disporre di beni da offrire in cambio. A quel punto si poneva il problema della valutazione da dare ai beni che venivano scambiati. Quante pecore erano necessarie per ottenere cento moggi di grano? Molti secoli più tardi gli uomini che indagarono il problema lo trattarono sotto forma della teoria del valore, che pervase le opere della maggior parte degli economisti da Smith fino a Schumpeter. Un aspetto del problema è la differenza tra valore d’uso e valore di scambio. Il primo si riferisce ad un rapporto soggettivo con il bene: la foto della persona amata può avere un valore elevatissimo per chi ama e pressoché nullo per tutti gli altri. Il secondo definisce un valore oggettivo del bene, riferito a sue qualità intrinseche. La cosa curiosa è che ci sono beni che hanno un enorme valore d’uso e nessun valore di scambio e viceversa, come l’aria e l’oro. Senza la prima non si vive, eppure respirare non costa nulla. Il secondo non serve a nulla, ma sin dai tempi più remoti è stato considerato un bene preziosissimo. Questa distinzione tra valore d’uso e valore di scambio, fece nascere l’idea che si potesse costruire una teoria del valore intrinseco, concetto riferibile al solo valore di scambio e che nasce proprio dalla contrapposizione tra valore d’uso e valore di scambio. La teoria del valore ha dominato le pagine dei testi di economia per quasi due secoli. Poi, ci si rese conto che distinguere tra prezzi e valore era un’operazione sostanzialmente priva di senso e che la ricerca del valore intrinseco somigliava a quella del Santo Graal. I nostri progenitori ignorarono l’esistenza della teoria del valore e, ciononostante, continuarono a scambiare capre con cavalli, vino con pelli fissandone le quantità a seconda della propria forza e della maggiore o minore disponibilità di capre, pelli, cavalli e grano. In un anno di carestia, erano in pochi disposti a rinunciare a parte delle scorte alimentari per ottenere beni importanti ma non essenziali per la sopravvivenza, ed allora il valore del grano saliva vertiginosamente. In anni di abbondanza, invece, scendeva con altrettanta velocità. Ci furono dei coraggiosi che intrapresero la via degli scambi commerciali di propria iniziativa tra le comunità di appartenenza e quelle vicine più pacifiche, lucrando così una differenza sullo scambio e sui rischi connessi al viaggio da entrambe le parti. A scanso di equivoci, in genere i mercanti giravano in carovane ben numerose ed armate. Questo non li esimeva affatto dal rischio di essere assaliti e depre-

dati del carico soprattutto lontani dalle rotte conosciute, dove i pericoli erano indubbiamente maggiori, ma i guadagni si moltiplicavano. In pochi, infatti, erano disposti a mettere a repentaglio la propria vita ed i propri beni per raggiungere un popolo in possesso di una merce rara e molto desiderata presso la propria comunità. Avventurieri di molte comunità si gettarono in questa nuova impresa, sperando di arricchirsi magari con un solo rischiosissimo viaggio verso terre sconosciute. La molla che spinse uomini leggendari come Gilgamesh e Giasone3, fino a Marco Polo e poi a Magellano a scoprire terre nuove, fu il desiderio di arricchirsi con la scoperta di mitici tesori e popoli arrendevoli e pieni di ricchezze. Cristoforo Colombo, voleva trovare un via per le Indie più breve e meno rischiosa di quella sperimentata tra mille peripezie da Marco Polo. Quando tornò dalle Americhe fu osannato per le ricchezze che ci si attendeva venissero da quelle terre, e poi fu vilipeso e maltrattato quando quelle ricchezze sembrarono essersi dissolte. Sta di fatto che con i mercanti iniziò quella grande epopea di viaggi e di scoperte che favorì i contatti di popoli e culture molto diverse e distanti tra loro. La crescita demografica suggerì e spesso rese necessaria la fuoriuscita di gruppi consistenti di membri delle comunità verso altre terre, dove vennero fondate delle altre comunità. I Greci colonizzarono in questo modo tutto l’Egeo e le coste della Turchia, dove stabilirono numerose colonie e si scontrarono con i Troiani per la supremazia sul territorio. I Fenici dedicarono la maggior parte delle proprie attività a mercanteggiare le merci prodotte in Africa ed Asia con quelle dei popoli del nord, Etruschi e Celti. Qualche secolo più tardi, una loro colonia, Cartagine, ebbe serie divergenze in materia commerciale con Roma, che per il commercio aveva scelto la via della conquista territoriale o della costituzione di accordi in cui stava sempre in maggioranza. Le divergenze portarono nel volgere di meno di un secolo alla distruzione di Cartagine ed al trionfo del nuovo modello di sviluppo economico elaborato dai Romani che poi ne estesero l’applicazione a tutto il mondo allora conosciuto. 3

L’ipotesi più accreditata è che le eroiche imprese di Gilgamesh avessero come obiettivo il legno di cedro necessario per le costruzioni, al quale peraltro, si fa ampio riferimento nel poema (cfr. N. K. Sandars (a cura di) L’epopea di Gilgamesh, Adelphi, MI, 1986), mentre è comunemente accettato che il “vello d’oro” tanto ambito da Giasone e compagni era la tecnica di estrazione dell’oro dai fiumi adottata dalle popolazioni della Colchide, che usavano allo scopo pelli di capra. Recentemente un archeologo ha sostenuto, con una certa autorevolezza, che l’uso delle pelli di capra per l’estrazione dell’oro fosse stata adottata precedentemente dagli Egiziani.

Ovviamente, più i viaggi erano impegnativi e verso terre sconosciute più era difficile portare con sé merci di grande volume e scarso valore, come greggi o generi alimentari. I metalli preziosi, di cui allora c’era grande scarsità ed erano graditi a tutti, furono le merci che i mercanti preferibilmente portavano con sé. Una sacca d’oro era facilmente nascondibile sotto le vesti e conteneva un grande valore. L’oro, oltretutto, era gradito alla maggior parte dei popoli del mondo di allora, che ne conoscevano ed apprezzavano le qualità per la facilità con cui poteva esser manipolato per la creazione di gioielli. Per queste ragioni i mercanti cominciarono a portare preferibilmente con sé, come merce di scambio, oro ed altri metalli preziosi, argento e rame, con cui potevano acquistare ogni genere di merce da rivendere poi in patria. La generale accettazione presso tutti i popoli, trasformò i metalli preziosi più comunemente usati per questo scopo in denaro, che divenne moneta quando sui pezzi d’oro qualcuno pensò di apporvi il proprio sigillo per garantirne il peso. I mercanti, infatti, fissavano la valutazione delle merci in quantità di metallo che pesavano al momento dello scambio. Alcuni mercanti pensarono di certificare il peso dei pezzi di metallo apponendovi il proprio sigillo con la garanzia del peso, ma ben presto questa funzione fu assunta dallo Stato che offriva maggiori garanzie (si fa’ per dire), di un mercante privato in merito alla corrispondenza del peso con il conio, salvo poi a cominciare a barare più del peggiore dei mercanti quando avevano necessità di coprire le proprie spese e non avevano entrate sufficienti.4. La moneta semplificava di molto gli scambi commerciali consentendo di fissare con ragionevole certezza il prezzo di ogni cosa potesse essere scambiata, senza dover ricorrere alle operazioni di pesatura e di verifica della qualità delle merci scambiate. E considerando che nel frattempo gli scambi si erano moltiplicati in misura esponenziale, l’intro4 … ad un certo punto, le monete cominciarono a contenere una quantità di oro o altro metallo prezioso diversa da quella indicata sul facciale. Le monete in genere sono costituite da una lega di diversi metalli dato che l'oro e l'argento sono troppo teneri perché stiano da soli e rischiano di rovinarsi al primo urto. Ovviamente, i commercianti non erano così sciocchi da non accorgersi di questo trucco usato dallo Stato, e così controllavano quanto metallo prezioso vi fosse nella moneta aumentando i prezzi in conseguenza. Per darvi un'idea delle dimensioni del fenomeno, l'aes all'epoca delle guerre puniche era fatto da 1/3 di chilo di rame; cento cinquant'anni dopo, all'epoca di Cicerone e Sallustio, era una moneta di poco più di trenta grammi di rame, e ce ne volevano due e mezzo per cambiare un sesterzio d'argento. Altri cento anni più tardi, all'epoca di Caligola, era ridotto ad una monetina di qualche grammo, e ce ne volevano quattro per ottenere un sesterzio di rame! D. de Simone Un Milione al mese a tutti: Subito! Ed. Malatempora Roma 1999 pag. 21-22

duzione della moneta fu vista come un’innovazione necessaria e benefica per il commercio. Non dobbiamo pensare che con la nascita della moneta sia mutata la natura dello scambio, che baratto era e tale rimaneva anche se a fare da tramite c’era un pezzo di metallo variamente istoriato. La leggenda di Mida, che ebbe esaudito il proprio desiderio di trasformare in oro tutto ciò che toccava, e sarebbe morto di fame se Dioniso non l’avesse provvidenzialmente liberato da quel tristissimo dono, sta a dimostrare che l’oro in sé non ha alcun valore concreto se non viene accettato per lo scambio da nessuno, e che se ne possono possedere quantità illimitate e parimenti morire di fame. La crescita delle comunità favorì anche l’estensione degli scambi al suo interno, mediante l’utilizzo degli stessi strumenti, baratto e moneta, usati dai mercanti nelle loro peregrinazioni. Le tribù si ingrandivano e per difendersi meglio si alleavano tra di loro creando comunità sempre più grandi. Roma nacque così, con un accordo tra tribù, prima in lotta tra di loro e poi alleate contro vicini minacciosi. Le tribù romane (si chiamarono così quelle comunità fino quasi alla fondazione dell’impero) commerciavano tra loro e con i vicini le poche cose che riuscivano a produrre in sovrappiù, ma soprattutto le ricchezze che conquistavano durante le guerre annualmente condotte contro i vicini. La principale ragione per cui i Romani, dopo la cacciata degli Etruschi, scelsero un ordinamento politico con due consoli, fu che uno dei due era deputato alle operazioni belliche che si svolgevano dalla primavera all’autunno, e l’altro alla cura delle faccende della città. Le operazioni di guerra erano, ovviamente, di gran lunga più importanti dello sbrigare le questioni di casa, che spesso di risolvevano nel dirimere liti tra vicini per i confini finché non furono istituite magistrature minori che si occuparono di queste faccende, e pertanto il console che aveva il comando dell’esercito era quello di maggior prestigio ed autorità tra i due. Solo in casi eccezionali i due consoli effettuavano una doppia leva per armare due legioni. Con la crescita della repubblica, però, gli affari militari assorbirono interamente i consoli, che si dedicarono esclusivamente alle operazioni di guerra. La guerra era notevolmente più redditizia di qualunque altra attività che allora poteva essere intrapresa. Poiché non solo rendeva il bottino derivante dallo spoglio delle città conquistate e dalle razzie nei campi del nemico, ma soprattutto forniva la materia prima per l’esecuzione delle attività usuali, ovvero gli schiavi.

Nell’antichità era naturale che il vincitore riducesse in schiavitù i vinti. La storia è piena di esempi di popoli interi ridotti in schiavitù, dagli ebrei deportati in Egitto alle tribù africane deportate in America, ma nell’antichità la cattura di schiavi costituiva la principale fonte di reddito di intere popolazioni ed era la ragione principale che spingeva i regnanti ad organizzare le guerre. Alessandro Magno, prima di intraprendere la conquista dell’Asia, per trovare i fondi necessari a finanziare la sua campagna militare, e tenere buoni i greci in sua assenza, conquistò Tebe e vendette come schiavi ben 30.000 dei 36.000 abitanti della città. Giulio Cesare, nei nove anni di campagna in Gallia fece oltre un milione di prigionieri che vennero venduti come schiavi a Roma ed ai popoli vicini. I tributi imposti ai popoli non rendevano nemmeno una minima parte di quello che si ricavava dalla vendita di schiavi. Se pensiamo che a tutta la Gallia Cesare impose un tributo annuo di 40 milioni di sesterzi, che in nove anni portò a Roma 360 milioni, mentre dalla vendita degli schiavi, nello stesso periodo, egli ricavò almeno tre volte tanto considerando una media di 1200 sesterzi per schiavo. In realtà gli schiavi, soprattutto quelli destinati al sollazzo sessuale dei nobili romani, nonché quelli colti e di buon estrazione, costavano molto di più in considerazione del fatto che i romani non badavano a spese per soddisfare le proprie esigenze. Racconta Svetonio, che Augusto si vergognava di dichiarare quanto spendesse per certi schiavi di cui si invaghiva, arrivando al punto da nascondere i relativi conti ai propri collaboratori più stretti. La riduzione dell’uomo in schiavitù non è una pratica di un passato lontano ed ormai dimenticato. Durante il medioevo la cattura di schiavi e la loro vendita in oriente come in occidente era pratica diffusissima. Così le imprese corsare dei Saraceni sulle coste d’Italia, avevano l’obiettivo della cattura di schiavi, e nel 904 d.c. pirati turchi assaltarono Tessalonica facendo schiavi i trentamila abitanti superstiti 5. Venezia fondò le sue fortune sulla cattura di schiavi slavi che poi rivendeva ai turchi o ai bizantini. Lo stesso termine schiavo viene da una corruzione dialettale del termine slavo che stava appunto ad indicare l’origine dei prigionieri venduti ai turchi. Olandesi, Portoghesi ed Inglesi costruirono fortune enormi trafficando in schiavi dall’Africa e dall’estremo oriente verso l’America, dove ce n’era una gran richiesta. Ancora oggi, la tratta delle prostitute in occidente è un’attività estremamente redditizia e, a quanto pare, difficile da stroncare. 5

Giovanni Cameniate, De Thessalonica capta, in Bisanzio nella sua letteratura, Garzanti Editore S.p.A., Mi, 1984.

2.

L’economia della casa

Sono state formulate molte ipotesi sulla nascita delle città e probabilmente sono tutte, in parte vere. Che siano sorte intorno ad un santuario, o in un luogo più facilmente difendibile ovvero intorno ad un’area dove d’abitudine i mercanti si incontravano tra loro per evitare reciproche sorprese, sta di fatto che le città svilupparono rapidamente e divennero centri di scambi commerciali anche intensi, dati i mezzi di comunicazione nonché la quantità e qualità dei beni allora prodotti dall’umanità. La famiglia dei tempi antichi era molto diversa da quella di oggi. Anzitutto, era di gran lunga più numerosa poiché comprendeva tutti o quasi i gradi di parentela che si succedevano nelle generazioni, nonché gli schiavi ed i clienti di ciascun membro influente della famiglia. Ad un certo punto della storia di Roma, alcune famiglie avevano raggiunto una dimensione tale da essere in grado di mettere in campo da sole un piccolo esercito6. Gli schiavi erano gli abitanti più numerosi della casa. Nonostante le continue rivolte e le non infrequenti uccisioni di padroni (cui seguiva lo sterminio di tutti gli schiavi della casa), la pratica di tenere schiavi per tutti gli usi crebbe continuamente al punto che essi divennero la grande maggioranza della popolazione nelle campagne e parte cospicua nelle città. La gestione della famiglia, date le sue dimensioni, era essenzialmente autarchica. Gli schiavi provvedevano alle attività necessarie al sostentamento dei membri, alla produzione del vasellame, dei vestiti e delle altre utilità necessarie alla casa. Effettuavano anche le manutenzioni della casa e provvedevano alla costruzione di nuovi edifici. Lo spazio per scambi commerciali e per una gestione economica della famiglia, era quindi limitato all’acquisto degli schiavi e dei prodotti agricoli che venivano da altre parti d’Italia o dall’estero. Era molto stimato il vino dell’Africa, ad esempio e com’è noto le opere d’arte greca, per le quali i romani non badavano a spese. I romani, così come i greci e la maggior parte dei popoli dell’antichità che avevano conservato la propria libertà non lavoravano, nel senso che facevano svolgere tutte le man6

La famiglia Fabia, una delle più antiche di Roma fu in grado di schierare un esercito sotto le mura di Veio, dove perse trecento uomini durante l’assedio della città.

sioni più faticose agli schiavi. Non lavoravano né i ricchi né i poveri: i primi avevano enormi ricchezze a propria disposizione7 e i poveri, cacciati dalle campagne a causa dell’estensione del latifondo e della mancata riforma agraria, vivevano in città, alla corte dei potenti e sostentati dalle numerose distribuzioni di grano che i generali vittoriosi e poi gli imperatori elargivano con sempre maggiore frequenza. Vivevano anche di debiti, rischiando molto, poiché allora per debiti si finiva per diventare schiavi. Periodicamente, il Senato o il potente di turno assumeva un provvedimento di remissione parziale dei debiti, consentendo a questa plebe disperata di respirare per un po’ di tempo8. D’altra parte i potenti non potevano nemmeno permettersi il lusso che la disperazione della plebe crescesse troppo per il pericolo di esplosioni di rivolte che nella Roma repubblicana portarono alle guerre civili, e pure durante l’impero non erano infrequenti. Quelli che lavoravano erano gli schiavi che attendevano a tutte le attività necessarie a mandare avanti la società a tutti i livelli. Si occupavano della produzione agricola nei grandi latifondi, dell’estrazione dei minerali, erano impiegati nelle fabbriche di stoffe di vasellame e di metalli, dei servizi domestici, dipendevano da loro persino gli spettacoli ed il divertimento, sia nei giochi circensi sia nel sollazzo individuale con gli schiavi e le schiave del sesso. A volte anche la cultura era gestita dagli schiavi. Dopo la conquista della Grecia, Roma era affollata di retori, storici e filosofi greci di ogni scuola tra cui il più noto è Polibio consigliere degli Scipioni, fatto ostaggio nonostante fosse schierato contro i Macedoni nella guerra con Roma. Oltre che a causa di una guerra perduta, si diventava schiavi anche per debiti o per scelta. Eh già, perché chi non sapeva come sbarcare il lunario e non aveva amicizie tra i potenti che potessero accoglierlo come cliente, proponeva se stesso in vendita a qualcuno che gli garantisse la sopravvivenza in cambio di una prestazione di lavoro. E’ vero che si perdeva la libertà, ma almeno si aveva da mangiare, un alloggio ed una relativa tranquillità, dato che l’alternativa principale era di arruolarsi nell’esercito con una ferma di vent’anni e andare a morire per fare l’impero. Diventare schiavi per debiti era molto facile a Roma dati 7

Cicerone ci ricorda (De Off. II, 73) che ai suoi tempi, tutta la ricchezza di Roma era in mano a poco più di duemila persone. 8 All’epoca di Cesare c’erano a Roma 320.000 persone che vivevano del sussidio della “lex frumentaria”. Cesare ridusse i debiti del 75% e ridusse anche il numero dei sussidiati a 150.000, cercando di favorire il reinserimento nelle campagne degli esclusi. In pratica, viveva di sussidi tutta la popolazione non schiava di Roma, se pensiamo che allora gli schiavi in città erano oltre 600.000 e gli abitanti di Roma non superavano il milione.

i tassi di interesse che venivano praticati ai debitori. Cicerone considerava equo un tasso annuo del 12%, che pure era altissimo, ma era praticamente una mosca bianca, dato che Bruto, lo specchio di virtù uccisore del liberticida Cesare, chiedeva ai propri usurati interessi del 48%9, e in genere venivano pretesi anche interessi più alti10. La presenza di tutti questi disperati favoriva rivolte di ogni tipo e fu una delle principali cause delle guerre civili che dai Gracchi ad Augusto sconvolsero la vita di Roma. Molti padroni cominciarono a cointeressare i propri schiavi al lavoro, per mezzo dell’accantonamento di una somma, detta “peculium” con la quale potevano riscattarsi dopo un certo periodo. Altri preferirono liberarli concedendo loro una specie di partecipazione ai prodotti del lavoro, purché continuassero a restare legati alla terra. Crasso divenne proverbialmente ricco istruendo schiavi ed affittandoli a chi ne avesse bisogno11. La pratica della cointeressenza coatta fu adottata definitivamente da Teodosio, qualche secolo più tardi, con l’istituzione della servitù della gleba, ovvero dell’obbligo per il contadino e la sua discendenza, di rimanere a coltivare la terra rendendo al padrone di essa una parte consistente del prodotto. L’idea piacque molto, dato che risolveva numerosi problemi anche di carattere religioso legati alla schiavitù, e fu adottata praticamente in tutta Europa dove sopravvisse fino ai nostri giorni12. Il modello di sviluppo economico romano diventava sempre meno efficace mano a mano che i territori da conquistare erano sempre più lontani. Questo costrinse gli imperatori a cercare altre strade per alimentare le casse dello Stato sempre più vuote. Dall’imposizione di tasse fino alla truffa sulle monete, gli imperatori che si susseguirono alla guida di Roma escogitarono ogni sistema per poter affrontare le immense spese che comportava la gestione di confini così vasti e il mantenimento della macchina burocratica necessaria ad un buon funzionamento della struttura. Com’è noto, i trucchi non funzionarono e l’impero romano cadde per le ripetute invasioni di barbari, spesso chiamati a gran voce dalle popolazioni locali che non ne potevano più delle vessazioni dei funzionari imperiali. Nel frattempo, commerci e produzione erano pressoché cessati dato il gran 9

Cicerone (ad Att. Lib. V ep. 21; Lib. VI, ep. I, II, III) ci ricorda che Bruto era creditore di Salamina di Rodi per tramite dei suoi agenti Scaptio e Macinio. 10 Soprattutto dopo che con la Lex Gabinia de versura del 68 a.c. fu vietata l’esportazione dell’oro dall’Italia, gli interessi sui prestiti alle città delle province lievitarono enormemente, fino oltre l’80%. 11 Pratica non molto dissimile dal moderno lavoro in affitto. 12 In Russia la servitù della gleba fu abolita solo dalla rivoluzione d’ottobre.

disordine e le difficoltà ad intraprendere viaggi anche brevi nei territori dell’impero. Ciascuno provvedeva a mantenere se stesso e la banda paralegale che gli assicurava la protezione contro le altre bande vicine. Insomma niente di molto diverso da quello che accade oggi nel mezzogiorno d’Italia, dove diverse bande criminali si contendono il controllo del territorio vessando i cittadini che lavorano, mentre lo Stato finanzia i criminali attraverso leggi speciali e vessa anch’esso i cittadini con un sistema fiscale iniquo. Il sistema feudale nacque così praticamente in tutt’Europa. Il re del popolo invasore, e poi l’imperatore del Sacro Romano Impero, affidavano ai propri compagni13 più fidati la difesa di una parte del territorio dandogli carta bianca sulla gestione degli affari locali. Ovviamente questa carta bianca comprendeva il diritto di razziare il territorio e di imporre tasse ed altre gabelle alle popolazioni locali, tenute nello stato di servi della gleba. In molti si ribellarono e cominciarono a riunirsi in comunità di liberi, i Comuni, in cui i vari mestieri erano gestiti da corporazioni ed il governo locale era eletto più o meno democraticamente. Lo scontro tra feudatari e comunardi diede vita ad un epico conflitto che caratterizzò tutto il medioevo fino al rinascimento. All’economia essenzialmente autarchica del feudo, si contrapponeva quella dei traffici commerciali che i comunardi avevano ripreso sia per proprio conto sia per conto terzi. Leonardo Pisano detto Fibonacci, il matematico del ‘200 apprese la matematica perché il padre era funzionario della Repubblica presso gli arabi, dove seguiva i trasporti di merci tra l’Africa e la Provenza che erano affidati alla flotta pisana. Venezia divenne una grande potenza per la capacità dei suoi mercanti di arrivare nei luoghi più lontani e della sua flotta di adattarsi alle situazioni più imprevedibili14. Nel Rinascimento l’esperienza dei comuni fu soffocata dalla nascita delle signorie, favorita dalla dissoluzione del Sacro Romano Impero e dalla necessità di una difesa organica contro il pericolo costituito dai Turchi, che arrivarono 13

In latino “comites” da cui Conti e Contee. Nel 1200 la flotta veneziana fu ingaggiata per 85000 marchi d’argento da Papa Innocenzo III per trasportare i partecipanti all’ennesima crociata in Terra Santa. Sennonché, il sacro esercito non aveva i quattrini per pagare, e così i veneziani, guidati dall’ultranovantenne Dandolo, proposero un arrangiamento: la conquista di Zara e dell’Istria per conto di Venezia in cambio del prezzo pattuito. Mentre attendevano a queste faccende, Alessio il giovane, figlio di Isacco II Angelo, deposto dal fratello Alessio III, pretendente al trono di Bisanzio, chiese l’aiuto dei crociati e dei veneziani per essere rimesso sul trono, promettendo a sua volta il pagamento degli 85000 marchi, nonché un contingente di 10.000 soldati per la crociata, se l’impresa avesse avuto buon esito. Nonostante la scomunica del Papa, i crociati ed i veneziani partirono alla conquista di Bisanzio, dove, nel 1203, cacciarono l’usurpatore e rimisero sul trono Alessio e suo padre. Questi però si rifiutarono di pagare la somma pattuita, ed allora crociati e veneziani decisero di esigere il pagamento per proprio conto assalendo Costantinopoli e saccheggiandola. 14

ad assediare Vienna, suscitando grande angoscia in tutto l’occidente. In Germania, dove il problema non era costituito dai Turchi, il sistema feudale e quello comunardo convissero tra varie vicissitudini, fino all’unificazione prussiana, mentre il Russia il feudalesimo dominò fino alla rivoluzione comunista. Nel frattempo, la scoperta dell’America diede un nuovo grande impulso ai commerci ed ai viaggi, con tutto il loro retaggio di vessazioni e rapine più o meno istituzionalizzate. La Compagnia delle Indie fu costituita in Inghilterra grazie ai fondi portati da Francis Drake, il corsaro nero che li aveva sottratti assalendo i galeoni spagnoli di ritorno dalle americhe. L’oro americano, comunque ottenuto, fu essenziale per l’accumulazione originaria di capitale sufficiente a consentire la prima industrializzazione, che la nuova concezione del mondo fisico elaborata da Newton riuscì a suscitare. Durante tutto il diciottesimo secolo sorsero in Inghilterra le prime fabbriche grazie all’elaborazione delle tecniche ed alle scoperte che l’approccio positivista generava. Ma fu solo nell’800 che l’industrializzazione cominciò a svilupparsi al punto da incidere in maniera determinante sulla vita di tutti. Fino allora, le energie degli uomini erano state indirizzate pressoché esclusivamente all’attività agricola necessaria per procurare cibo sufficiente alla sopravvivenza ai produttori ed ai pochi privilegiati che vivevano in mezzo agli agi e alle ricchezze. Tutti questi addetti, spesso non erano sufficienti a garantire la sopravvivenza di tutta la popolazione. Nel 1816 ci fu in Europa una gravissima carestia, cagionata – e si è scoperto solo recentemente – dall’esplosione del vulcano Tambura nell’isola di Java, che con le sue ceneri oscurò letteralmente il cielo. Fu chiamato l’anno senza estate. Il grano e gli altri cereali non crebbero in tutto il continente e l’inverno fu durissimo. Morirono alcuni milioni di persone ed altrettanti milioni riportarono danni gravissimi per la denutrizione patita. Tranne pochi fortunati, tutti i popoli d’Europa soffrirono duramente per quella carestia. La scena non era nuova nel vecchio continente. Le carestie si alternavano con le epidemie – di peste o di colera – nel decimare la popolazione. Lo stesso avveniva in Africa o in America, anche se nel nuovo mondo le grandi estensioni e la scarsità della popolazione rendevano le ristrettezze meno drammatiche. Il sovrappiù della produzione era in genere destinato allo scambio per i prodotti di lusso di cui potevano godere solo i potenti. La grande maggioranza della popolazione era costituita da contadini che facevano fatica ad ottenere dalla terra

quel poco che serviva loro per sopravvivere, oltre al molto delle varie decime cui erano assoggettati.

3.

La fabbrica

Le fabbriche dell’antichità, fino al settecento, altro non erano che un insieme più corposo di artigiani senza che vi fosse alcuna divisione del lavoro al loro interno. Oltretutto, erano pochi gli oggetti che potevano essere sottoposti a procedimenti di tipo industriale: nell’antica Roma l’industria più consistente era quella edilizia che, com’è noto produce beni non trasportabili. I trasporti, le strade erano pressoché inesistenti, ed i pochi viaggiatori erano davvero degli avventurosi. In questo modo gli orizzonti culturali rimanevano chiusi e limitati allo stretto ambito in cui si viveva. In molti paesi si vedevano stranieri solo in caso di guerra, e non si trattava in genere di incontri amichevoli. Fino alla fine dell’80015, la maggior parte della gente incontrava in tutta la sua vita non più di duecento persone, in genere dello stesso paese o di qualche paese vicino. Un viaggio in città, magari distante solo qualche decina di chilometri dal villaggio, era considerato un evento memorabile e comunque non scevro di pericoli. Il razzismo, la paura del diverso, dell’estraneo, trova in questo contesto la sua radice. Lo straniero portava la guerra o le malattie: nella migliore delle ipotesi era un mercante pronto a truffare approfittando dell’ingenuità degli abitanti del villaggio. Con l’inizio della rivoluzione industriale, la vita, le abitudini, i comportamenti della maggior parte degli uomini mutano radicalmente. Le strade avventurose e disastrate del commercio tra paesi lontani, divengono l’abitudine e la necessità per la crescita delle nuove imprese, che per la prima volta nella storia producono un sovrappiù di abbondanza. Con l’introduzione delle macchine nelle attività industriali, la produttività degli artigiani cresce enormemente. In molte fabbriche non c’è più nemmeno necessità di particolari abilità per confezionare il prodotto e quindi la manodopera artigianale viene sostituita da apprendisti e poi da personale generico che costa meno degli artigiani specializzati degli esordi dell’industrializzazione. Migliaia di contadini lasciarono le campagne per andare a cercare un posto di lavoro in fabbrica. Altre migliaia di bambini vennero ingaggiati per il loro costo irrisorio e la ra15

Rifkin J., L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori Editore, Mi, 2000

pidità nell’esecuzione di particolari attività manuali richieste dalle nuove macchine. Il trattamento inumano e lo sfruttamento brutale cui venivano sottoposti questi esseri umani, spesso costretti a lavorare per sedici ore il giorno per un piatto di minestra, fecero nascere idee socialiste e di riscatto sociale contemporaneamente in tutti i paesi dove l’industrializzazione stava prendendo piede. Certe idee balzane sulla condizione degli operai e sui salari fecero il resto16. Il fermento intellettuale che le idee di Newton e Galileo avevano generato nel mondo della scienza e della filosofia, trovava largo riscontro nella società dove, all’ammirazione per le nuove tecniche produttive si univa il ribrezzo degli spiriti più sensibili per le inumane condizioni in cui erano tenuti i primi lavoratori. Allo stesso tempo ci si cominciò a chiedere se ci fossero delle ragioni alla base della determinazione dei prezzi dei beni diverse dal puro arbitrio del produttore, e se questi prezzi non fossero in qualche modo legati al valore intrinseco dei beni. La domanda aveva una duplice valenza. Da una parte, infatti, elaborare una teoria astratta del valore poteva significare avere uno strumento utile per conoscere, in qualunque momento, il prezzo equo di un qualsiasi bene e quindi massimizzare i profitti dell’impresa che l’avesse utilizzata. Dall’altra, l’indagine sul valore era un modo per comprenderne il processo di formazione e l’effettivo contributo degli elementi del processo di produzione: il capitale ed il lavoro. Si poteva anche comprendere, per quella via, in che modo fossero ridistribuiti i prodotti e quale potesse essere la sorte delle eccedenze della produzione. Nascono, così, le teorie sul valore, e la diversità degli obiettivi dei ricercatori genera non poca confusione. Per Marx ed i marxisti, infatti, le teorie sul valore sono tutte teorie sul plusvalore, ovvero sulla proprietà che ha il processo di produzione di lasciare al termine un sovrappiù di cui generalmente si impadronisce il capitalista. Per cui il termine plusvalore finisce per indicare due cose diverse e, in un certo senso, antitetiche. Vale a dire, sia ciò che avanza al termine del processo di produzione, sia il valore aggiunto da uno dei fattori della produzione ai beni prodotti. Per Marx, il plusvalore è la quantità di valore che viene aggiunto al bene prodotto dall’attività del lavoratore, quantità che 16

William Petty, uno dei precursori della teoria economica che per altre sue intuizioni fu apprezzato pure da Marx, sostenne che i lavoratori non devono mai ricevere più del salario di sussistenza “poiché se ricevessero il doppio lavorerebbero la metà”! In J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Boringhieri, Mi, 1972, pag. 64 e in C Marx, Storia delle teorie economiche vol I, Einaudi, To, 1971 pag. 16

è maggiore del salario pagato all’operaio, mentre per gli economisti borghesi il plusvalore è il valore aggiunto al bene alla fine del processo di produzione. Per Marx, l’accrescimento di valore al termine del processo di produzione è dovuta all’estorsione del plusvalore che è sempre indotta dal processo di produzione capitalistico. Per gli economisti borghesi, l’accrescimento del valore è frutto di qualità intrinseche al capitale che ha la capacità di moltiplicarsi e di crescere di valore. In altri termini, per gli economisti borghesi il plusvalore lo si desume dal prezzo per differenza con i costi di produzione. Per Marx, invece, l’appropriazione del plusvalore da parte del capitalista c’è sempre, poiché è insita all’interno del processo di produzione. Con la conseguenza, che i teorici del marxismo hanno sempre avuto gravi problemi ad escogitare un meccanismo che trasformasse i valori in prezzi, fino al punto di dover gettare la spugna e rinunziare a quest’aspetto della teoria. D’altra parte è assolutamente evidente come per il marxismo una teoria del valore centrata sull’appropriazione del plusvalore da parte del capitale fosse essenziale per dimostrare l’universalità del processo di sfruttamento nel modo di produzione capitalistico. Solo dimostrando che lo sfruttamento era l’essenza del processo di produzione, poteva prendere corpo un’alternativa che negasse questo sfruttamento e che si risolvesse in un sistema superiore, in cui nel processo di produzione lo sfruttamento fosse abolito17. La diatriba parte da lontano. Per Quesnay ed i fisiocratici, la terra è l’unico effettivamente produttivo dei fattori di produzione – terra, lavoro e capitale –. Per Adam Smith, che per la verità era alla ricerca di una teoria dei prezzi e non del valore, il valore aggiunto è dato dal lavoro. Egli distingue pure tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, cosa che fece grande scandalo ai suoi tempi, dato che metteva sullo stesso piano magistrati, soldati, insegnanti, politici e servitori, suscitando l’ira di molti suoi contemporanei e le 17

Non è questa la sede per entrare nei dettagli di una diatriba che ha prodotto migliaia di pagine di discussioni accanite, e per lo più inutili. Marx critica in maniera minuziosa sia la teoria del valore lavoro di Smith che quella di Ricardo, alla quale peraltro fa esplicito riferimento. E’ noto che c’è una grave contraddizione tra l’elaborazione teorica del primo libro del capitale e quella del terzo libro, contraddizione messa in evidenza da numerosi teorici, soprattutto Bohm Bawker, ed in una certa misura definita da Ladislaus Von Bortkiewicz in due suoi noti saggi (Calcolo del valore e calcolo del prezzo nel sistema marxiano, e Per una rettifica della costruzione teorica di Marx, in La teoria economica di Marx ed altri saggi, Einaudi, To, 1971, con un’ampia prefazione di Luca Meldolesi). E’ anche chiaro che Marx non aveva interesse a trovare uno strumento pratico per la trasformazione dei valori in prezzi, a differenza di Smith e Ricardo, bensì intendeva dimostrare la validità concreta della sua teoria dello sfruttamento, correlando i differenti livelli di plusvalore ai diversi livelli di prezzi, cosa che, come dimostra Von Bortkiewicz è perfettamente fattibile.

esilaranti repliche di molti intellettuali difensori delle classi dominanti. La distinzione tra lavoro produttivo ed improduttivo è essenziale nel marxismo poiché viene utilizzata al fine di individuare le classi potenzialmente rivoluzionarie, che sono solo quelle che effettuano un lavoro produttivo il cui plusvalore viene sottratto dal capitalismo. Per questa ragione gli operai di una fabbrica ed i contadini sono potenzialmente rivoluzionari, mentre i camerieri del principe e i soldati non lo sono. Con la crescita dell’industria e l’estensione a tutte le attività umane delle pratiche industriali, i lavoratori avrebbero subito uno sfruttamento crescente e tutte le classi sociali, si sarebbero ridotte al livello di povertà del proletariato, la cui unica ricchezza consisteva nel fare figli da mandare a lavorare in fabbrica. Alla fine, sarebbero rimaste due sole classi, una massa di proletari sempre più poveri ed un gruppo di capitalisti dotati di ricchezze immense. L’idea rivoluzionaria diventa, quindi, la proprietà sociale dei mezzi di produzione che è l’unico modo per ridistribuire il plusvalore prodotto comunque all’interno del processo produttivo. Abbiamo visto che la teoria del valore nasce dalla distinzione tra valore d’uso e valore di scambio e da una pretesa contrapposizione di questi due concetti. In questa ottica è evidente che nascesse l’idea dell’esistenza di una teoria del valore intrinseco e che tale valore potesse avere una propria consistenza obiettiva che lo differenziasse dal mero desiderio personale, mutabile per ogni tipo di bene. D’altra parte i primi economisti si trovarono ad analizzare un nascente mondo della produzione in cui questa era costituita essenzialmente da beni materiali, ed era ovvio che identificassero la ricchezza con il possesso di beni materiali. La distinzione tra lavoro produttivo ed improduttivo nasce, appunto, da questa considerazione. Dalla teoria del valore viene anche un’altra diffusa considerazione, e cioè che il mercato sia di per sé una specie di truffa. Infatti, se esistono i valori oggettivi dei beni ed esiste un sistema per tradurre tali valori in prezzi, ogni differenza di prezzo tra beni dello stesso valore è frutto solo della mancata conoscenza del relativo valore intrinseco. Ignoranza di cui approfittano i mercanti per vendere beni a prezzi maggiori del loro valore. In un sistema economico giusto, tutti i prezzi si allineerebbero ai valori e le differenze di prezzo non esisterebbero più, facendo venire meno la necessità del mercato. Di conseguenza, per costruire una società giusta è necessario abolire il mercato come luogo di scambio dei

beni. La teoria del valore incontrava qualche difficoltà a spiegare alcuni casi particolari in cui il valore di scambio poteva cambiare in maniera repentina a seconda delle circostanze, negando in questo modo la sua oggettività. “Il mio regno per un cavallo” era uno di questi casi, ma si sa che le eccezioni confermano la regola. Un problema più complesso veniva dalle difficoltà di tradurre i valori in prezzi, operazione che Von Bortkiewicz dimostrò essere possibile partendo però dalla conoscenza dei prezzi (il che la rendeva del tutto inutile). Di fronte a questi problemi, qualcuno18 pensò di poter costruire una teoria del valore partendo dal valore d’uso e facendo nascere, così, la teoria dell’utilità marginale. Questa teoria si fonda sulla considerazione, in sé banale, che il desiderio di un bene diminuisce man mano che se ne acquistano quote crescenti, e che il massimo di soddisfazione si ottiene distribuendo in maniera uniforme le risorse di cui si dispone tra i differenti beni. In sé la teoria marginale, definita anche legge di soddisfazione dei bisogni, è fortemente discutibile e fu pesantemente criticata. Ma intanto metteva l’accento sugli aspetti psicologici delle scelte economiche e, soprattutto, rendeva evidente il ruolo decisivo per lo studio dei fatti economici della domanda di beni. Ai fini della teoria del valore, però, il concetto di utilità marginale non diceva nulla e questo apparve intollerabile alla maggior parte degli economisti e dei teorici del tempo. Dall’analisi marginale alla teoria della domanda il passo fu breve, ed ancora più breve fu quello dell’applicazione della teoria marginale anche all’analisi dell’offerta. La produzione di qualsiasi bene intermedio era intesa come una componente della domanda del bene finale. Questo artificio consentiva di utilizzare la teoria marginale anche per l’analisi dell’offerta e quindi per lo studio dell’intero ciclo economico. Appariva evidente che, in questa ottica, le deduzioni sul valore intrinseco della produzione fossero del tutto inutili ai fini della comprensione del fenomeno. Soprattutto, la teoria del valore non era in grado di fornire una spiegazione soddisfacente e praticamente utilizzabile relativamente alla formazione dei prezzi. Al contrario, il concetto di utilità marginale rendeva uno strumento utile sia per capire come si formava la domanda, sia come doveva essere correlata ad essa l’offerta di beni. Lasciando da parte tutti i problemi teorici che la teoria del valore comportava, all’inizio del secolo scorso ci si rese 18

Il primo a formulare i principi dell’analisi marginale fu D. Bernoulli nel 1731, ma l’elaborazione teorica fu effettuata da Jevons e dalla scuola austriaca. Successivamente Walras ne assunse gli aspetti caratterizzanti per elaborare la sua teoria del ciclo economico.

conto che la logica dei prezzi poteva essere compresa solo in termini statistici, poiché solo dal quel punto di vista avevano rilevanza i gusti e le scelte di milioni di persone apparentemente indipendenti le une dalle altre. La conseguenza fu la nascita della macroeconomia, ovvero dell’economia che studia le relazioni tra i grandi aggregati che compongono le attività economiche nel loro complesso. Non che gli economisti classici ignorassero i grandi aggregati nelle loro analisi, ma il loro interesse era rivolto prevalentemente alla comprensione profonda dell’economia. In Marx, così come in Smith e Ricardo, l’analisi economica non è mai disgiunta da una visione filosofica e sociale degli eventi analizzati. I marginalisti, invece, mettevano sullo stesso piano formazione dei salari e della rendita, il che era per la maggior parte degli economisti classici inaccettabile sial dal punto di vista della teoria economica che, soprattutto, dal punto di vista etico e sociale. La teoria marginale, ad ogni modo, spostò i riflettori dalla teoria del valore mostrandone la sostanziale inutilità ai fini dell’analisi economica. Esaurita la sua funzione di fondamento dell’analisi economica, si affievolì anche il supporto da essa fornito alla teoria dello sfruttamento: nel senso che non c’è bisogno di alcuna particolare elaborazione teorica per comprendere che il lavoro per la necessità comporta l’asservimento e lo sfruttamento delle persone. Anzi, centrando l’attenzione sul processo di produzione, e considerando il lavoro un valore in sé, la teoria del valore finisce per nascondere i meccanismi che generano lo sfruttamento. Ci si illude, insomma, che appropriandosi dei mezzi di produzione il lavoro possa diventare libero. Cosa che è vera finché i mezzi di produzione sono gli strumenti dell’artigiano, ma diventa pericolosamente illusoria quando quei mezzi diventano di proprietà collettiva, poiché in quel caso, il vero problema, ovvero il potere di chi gestisce i mezzi di produzione, non viene nemmeno sfiorato. Nella nostra società la maggior parte delle aziende è costituita da società per azioni i cui Azionisti sono centinaia di migliaia di anonimi ed in genere piccolissimi investitori. In molte di esse la maggior parte dei dipendenti sono azionisti della società, ma questo non cambia in nulla la loro condizione di asserviti e di sfruttati. Con la stessa logica di andare a cercare lo sfruttamento solo se la proprietà dei mezzi di produzione è del capitalista, si considera perfettamente normale che lo Stato faccia lavorare la gente a ottocentocinquantamila lire al mese nell’ambito di quella truffa legalizzata costituita dai lavori socialmente utili. Se la stessa operazione la facesse un imprenditore privato si scatenerebbe (giustamente) la protesta di piazza. Ma dato che lo fa lo Stato, e

per di più per delle attività che vengono definite “socialmente utili”, allora non solo lo sfruttamento diventa lecito, ma viene sollecitato e promosso in ogni modo da sindacati e partiti. In realtà non c’è libertà nel lavoro finché non c’è possibilità di scegliere il lavoro. Ogni cittadino deve cioè esser messo in grado di essere libero dalla schiavitù del lavoro per la necessità di procurarsi il necessario per vivere. Questo è possibile, se solo si ripartissero le risorse in maniera più equa e più logica. Non solo perché è giusto che l’umanità sia liberata dalla schiavitù del lavoro, ma anche perché questo, come vedremo, è necessario per evitare la crisi finanziaria cui questo sistema ci sta portando. E questa possibilità di scelta è data solo nell’ambito di un sistema che si fondi sul reddito di cittadinanza19.

19

Cfr. il mio libro Un milione al mese a tutti: subito! Ed. Malatempora, Roma, 1999, nel quale dimostro la fattibilità del reddito di cittadinanza nell’attuale quadro economico e finanziario del nostro paese.

4.

Lo Stato

Fin dalla loro nascita gli Stati hanno avuto una presenza importante e, a volte, anche invadente, nell’economia. Gli Stati dell’antichità erano molto diversi da quelli odierni, anche se avevano la medesima funzione di regolare con il loro potere la vita dei cittadini. In genere essi si identificavano con un principe o un imperatore, e la divisione dei poteri non era un principio fondante ma scaturiva a volte dalla lotta politica. Anche le società democratiche in realtà erano delle oligarchie, dato che la grande maggioranza della popolazione, schiavi, donne, liberti e poveri, non avevano alcuna possibilità di esprimere la propria opinione20. Era prerogativa degli Stati battere moneta e soprattutto eseguire le grandi opere pubbliche che diedero impulso alle attività commerciali e di produzione agricola. Le grandi opere idriche dei Babilonesi, le Piramidi egizie, le strade e gli acquedotti Romani, furono tutte realizzate con mezzi procurati dagli Stati, che allora si identificavano con il Re o il Faraone ovvero, a Roma, con l’oligarchia del Senato. Chiunque abbia dimestichezza con l’edilizia sa che il costo maggiore di una costruzione è rappresentato dalla manodopera e dal terreno. Anche allora non era molto diverso, ma la manodopera era abbondante ed a costi irrisori, data l’enorme quantità di schiavi che una società potente aveva a disposizione, e le aree edificabili erano tutte di proprietà del principe. Solo durante il periodo delle guerre civili alcuni privati poterono con propri mezzi finanziare grandi opere pubbliche. Pompeo fece costruire a proprie spese un grande teatro vicino alla casa della sua cortigiana preferita, Flora, di cui ancora si riconosce la struttura nei pressi di Campo de’ Fiori21. Ma furono pochi i privati in grado di eseguire a proprie spese opere pubbliche e quei pochi, in genere disponevano a proprio piacimento dei fondi pubblici o erano all’apogeo della propria potenza. Lo Stato, poi, interveniva negli affari economici risolvendo le controversie legali, per mezzo del 20

Ci sarebbe molto da dire sulla democraticità e sulla formazione del consenso nella nostra società, ma certo prendere ad esempio di democrazia l’antica Atene, in cui gli aventi diritto al voto erano si e no il dieci per cento della popolazione sembra davvero eccessivo. 21 Il cui nome originario deriva da “Campus Florae” ovvero il giardino della casa di Flora. Solo nel medio evo divenne il mercato dei fiori che oggi conosciamo, forse per derivazione dal nome della sua antica padrona. Flora è anche il nome sacrale di Roma. (Cfr. G. Baracconi, Spettacoli nell’antica Roma, ed. Gattopardo, Roma, 1972, e A. Cattabiani, Simboli, miti e misteri di Roma, Newton Compton, Roma, 1990).

proprio apparato giudiziario, oppure distribuendo ai cittadini le terre conquistate ad altri popoli. In momenti particolari, il principe o l’imperatore interveniva per calmierare i prezzi di beni essenziali come il grano, con provvedimenti in genere destinati all’insuccesso più completo. Qualche guerra o qualche rivolta risolvevano in genere la situazione. La fonte del denaro necessario ad affrontare le spese dello Stato, veniva essenzialmente dalle conquiste territoriali ed i conseguenti bottini di guerra, dai tributi imposti ai popoli assoggettati ed in parte minima dalle imposte sui redditi agricoli e sui commerci. Quando i proventi dei tributi diminuirono e le spese aumentarono, ovviamente, la pretesa fiscale dello Stato si fece più pressante cagionando, come sempre accade, impoverimento generale nelle popolazioni tartassate dal fisco. La maggior parte delle rivolte e delle rivoluzioni che hanno caratterizzato la storia dell’umanità fino alla metà dell’800, trovano radici in qualche misura fiscale particolarmente odiosa alla popolazione. La stessa rivoluzione americana nacque da una rivolta contro la tassa sul tè imposta dagli inglesi ai coloni. Lo Stato banchiere, imprenditore, erogatore dei servizi più disparati e soprattutto idrovora fiscale nasce solo con la rivoluzione francese e la nascita dello stato borghese. Le nuove funzioni dello Stato, che cominciano ad emergere in alcuni paesi, come l’Inghilterra, già dalla metà del diciassettesimo secolo, hanno l’obiettivo di creare le condizioni per lo sviluppo industriale. C’era necessità di un collettore di grandi risorse per le opere pubbliche indispensabili allo sviluppo dei commerci, senza i quali le merci prodotte dai nuovi stabilimenti industriali sarebbero rimaste invendute, o meglio non sarebbero nemmeno state prodotte. Si sono così costruite strade e ferrovie e poi reti elettriche, dighe ed opere di irrigazione. Abbiamo già visto che le risorse principali venivano inizialmente dall’oro e dall’argento delle miniere americane. Altro strumento di crescita del sistema fu il debito pubblico che accompagnò la nascita delle banche moderne. Le Banche sopperivano alla mancanza di liquidità temporanea degli Stati prestando denaro in cambio di titoli di debito, che poi, esattamente come avviene oggi, utilizzavano come denaro. La pratica di autorizzare le banche ad emettere banconote che poi venivano prestate allo Stato che le aveva autorizzata dietro il pagamento di un interesse, fu inaugurata in Inghilterra già durante il diciottesimo secolo22. Successi22

Cfr. K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1974 VIII edizione, cap. 33

vamente, anche gli altri paesi si adeguarono a questa pratica finché, intorno agli anni Trenta, il diritto di stampare moneta non divenne nuovamente prerogativa esclusiva dello Stato. La stampa delle banconote, però, non esaurisce la creazione di denaro, ed anzi ne costituisce una parte irrisoria. E’ attraverso il meccanismo del debito che le banche continuano a creare denaro che viene coperto dall’emissione di titoli del debito da parte dello Stato. Questi titoli vengono poi acquistati dalle banche con il denaro da esse stesse creato e posti a carico dei cittadini per mezzo del sistema fiscale. E’ questa la ragione per cui il debito pubblico di tutti gli Stati del mondo, a partire dal dopoguerra in poi, è sempre aumentato e con esso la pressione fiscale. L’indebitamento ed i sacrifici dei cittadini vanno ad alimentare il sistema finanziario che cresce a discapito dell’economia reale generando continue tensioni inflazionistiche che vengono controllate a fatica solo frenando lo sviluppo economico, ovvero la creazione di ricchezza reale, e tenendo buona parte del mondo sotto il ricatto della leva finanziaria23. La presenza dello Stato nell’economia diventa invadente dopo la crisi del 1929 e la diffusione delle idee di Keynes tra gli economisti. Contemporaneamente, l’esperienza degli stati comunisti che esponevano risultati strabilianti con il loro sistema di produzione favorì la diffusione dell’idea che l’intervento dello Stato nell’economia fosse necessario non solo in caso di difficoltà ma sempre e comunque. Si scoprì dopo che i risultati strabilianti dei paesi dell’est europeo erano dovuti in parte ad errori di calcolo, in parte alle condizioni drammatiche di partenza in cui versavano quei paesi24, nei quali il programma di industrializzazione forzato dava comunque dei frutti, ed in parte al fatto che la produzione non aveva mercato, e quindi la capacità produttiva e la crescita del sistema, non risentivano della legge della domanda e dell’offerta. Con la conseguenza, però, che per la gente molta parte di quella produzione era inutilizzabile, perché non richiesta, ma pensata dal funzionario di partito sempre in funzione di scelte politiche o ideologiche.. Nei paesi europei non comunisti questa politica di intervento sempre più massiccio dello Stato nell’economia prese la forma degli innumerevoli provvedimenti di nazionalizzazione che furono adottati per quelle produzioni definite di interesse nazionale. Allo stesso tempo lo Stato interveniva direttamente nel processo economico. In Italia, attraverso 23

Cfr. D. de Simone Un milione al mese a tutti: subito! Malatempora, Roma, 1999. 24 Se il PIL di un paese passa da 100 a 110, la crescita è del 10%. Un paese che produce 1000 e passa a 1020, crea il doppio della ricchezza dell’altro, ma il suo tasso di crescita è del 2%. La lettura dei dati in termini percentuali deve tener conto di questa distorsione ottica.

istituti come l’IRI che promuovevano sia attività di interesse nazionale, come autostrade e stabilimenti chimici, sia attività imprenditoriali vere e proprie, come alimentari, elettronica e comunicazioni. La presenza dello Stato nell’economia si è fatta sempre più evidente nell’ambito finanziario, sia per il riacquistato ruolo di unico emittente di banconote, sia per la massiccia presenza di banche nazionalizzate o di diretta emanazione statale, sia per la crescente pressione fiscale sulle attività dei cittadini. Fino al primo dopoguerra, com’è noto, il livello di fiscalizzazione delle attività economiche era relativamente modesto, e fino alla crisi del 1929 l’emissione di banconote era ancora prerogativa delle banche a fronte delle riserve aurifere in loro possesso. Dopo la seconda guerra mondiale, la pressione fiscale è andata crescendo in maniera esponenziale non solo in Italia ma in tutti i paesi del mondo. La crescita della pressione fiscale è dipesa da diversi fattori. Certamente determinante è statala scelta di costruire lo stato sociale, in un sistema finanziario in cui il denaro necessario per erogare i servizi veniva creato per mezzo del debito. Questo debito, come vedremo dopo, ha in pochi anni, del tutto oscurato le ragioni per le quali era stato creato, poiché il meccanismo degli interessi e quello della creazione di denaro da parte delle banche hanno assorbito la maggior parte delle risorse originariamente destinate alla solidarietà. Di fatto, per mezzo dell’indebitamento dello Stato, buona parte delle risorse sottratte ai cittadini, per ragioni di presunta solidarietà sociale, erano invece distribuite in forma di interessi sul debito e di finanziamenti a chi possedeva le chiavi di accesso al sistema bancario. Di conseguenza, l’asservimento dei lavoratori, che faticosamente per mezzo delle lotte sindacali e del sacrificio di molti, negli anni settanta era stato per lo meno tenuto sotto controllo ed in molti casi ridotto, è ritornato ad essere totale ed intollerabile come nella metà dell’ottocento. Con la differenza che, allora il padrone era un privato capitalista nei confronti del quale c’erano strumenti di lotta e di rivolta, mentre ora il padrone è uno Stato che falsamente rappresenta le sue pretese come necessarie per la solidarietà sociale. Questo vero e proprio regime, in cui lo strumento per l’esercizio del potere è rappresentato dal sistema fiscale, sottrae risorse ed energie al lavoro per alimentare un sistema finanziario che ha ormai perduto l’originaria funzione di supporto e di stimolo delle attività imprenditoriali. Il sistema finanziario ha perduto, a dire il vero, anche ogni contatto con la realtà, dato che oggi il 96% di tutti i movimenti fi-

nanziari del mondo sono riferiti ad attività speculative e solo il rimanente è relativo ad attività di produzione. E’ la folle conseguenza di un sistema che si fonda su un debito che cresce in misura esponenziale e che nessuno pagherà mai, per la semplice ragione che è impossibile pagarlo. E’ impossibile che gli Stati ripaghino il debito pubblico e d’altra parte i titoli da essi emessi svolgono da tempo una funzione monetaria e quindi non avrebbe senso sottrarli al circuito finanziario. E’ impossibile che molti paesi del terzo mondo ripaghino il loro debito estero poiché non hanno, né ragionevolmente avranno in futuro, le risorse necessarie per pagarlo, neppure se i rispettivi popoli decidessero di non mangiare e di non consumare nulla per decenni. Se oltretutto non mangiassero e non consumassero nulla, oltre a morire di inedia, non creerebbero alcuna ricchezza, dato che il consumo è essenziale perché un sistema di produzione possa funzionare. La necessità della presenza dello Stato nell’economia fu messa in evidenza da Keynes, che mise in forma teorica le ragioni che rendevano necessario in determinate circostanze l’intervento pubblico. Keynes fece compiere all’analisi economica il salto definitivo verso la macroeconomia. Gli aggregati presenti nella sua analisi, oltre alla domanda e all’offerta, sono il livello dell’occupazione, la quantità di moneta in circolazione e il reddito nazionale. Questi aggregati sono espressi dalle tre grandi funzioni che semplificano l’analisi economica, ovvero la funzione del consumo, la funzione dell’investimento e la funzione della preferenza per la liquidità. Keynes costruisce la sua analisi nell’ambito della teoria dell’equilibrio elaborata dagli economisti che lo precedettero, da Marshall a Walras, che avevano cercato di spiegare le ragioni delle crisi cicliche che investivano il sistema economico periodicamente. A merito di Keynes, va ascritta la comprensione dei legami profondi tra domanda ed offerta e di queste con il livello dell’occupazione. A suo demerito, non aver fatto il possibile per evitare la sequela di interventi pubblici nell’economia che la sua teoria giustificava solo in determinate circostanze, ma che le ambizioni e le ipocrisie della politica assunsero come necessari sempre. Ancora a suo demerito va ascritta la sconfitta nel disegno del nuovo sistema monetario che uscì dagli accordi di Bretton Woods. Non che egli avesse alcun peso politico, ma con la sua presenza avallò la scelta di un sistema che lasciava campo libero al sistema bancario nel condizionare pesantemente la vita e le libertà dei popoli.

Avesse difeso con maggior vigore i suoi Bancor a interesse negativo, e denunciato il sottile inganno che la conversione indiretta implicava, e che certamente aveva compreso fino in fondo, avrebbe compiuto la sua missione fino in fondo. Ma i suoi legami con il potere gli impedirono di essere coerente. Ne seguì un’interpretazione delle sue teorie che seguiva alla lettera i paradossi e le incongruenze insite nel sistema da lui disegnato e trascurava deliberatamente le cose serie. La teoria del moltiplicatore e il monetarismo sono entrambe figlie di Keynes. Così come, paradossalmente, la presenza dello Stato ed il liberalismo sfrenato in economia sono entrambi riconducibili al suo pensiero25. L’intervento dello Stato era giustificato dalla necessità di assumere provvedimenti sufficienti per riavviare il sistema economico durante le crisi cicliche e per tenere sotto controllo il livello occupazionale. Dall’utilizzo della leva fiscale, il concetto di intervento dello Stato venne esteso ad ogni tipo di attività, comprese quelle propriamente imprenditoriali, e fino all’istituzione di quel mostro giuridico-economico che risponde al nome di S.p.A. pubblica26. Il liberalismo trovava le sue motivazioni nella sostanziale contrapposizione tra la teoria keynesiana e quella marxista, che forniva ai cultori del capitalismo lo strumento teorico per dare fiato alle proprie esigenze. Per la verità, Schumpeter e altri keynesiani “di sinistra” trovarono molti punti in comune tra i due pensatori, ma è innegabile che keynesismo e marxismo abbiano opposte vedute. Con Keynes e la nascita della macroeconomia, si mette da parte la teoria del valore e la ricerca dei valori intrinseci ai beni e si comincia a ragionare in termini di domanda ed offerta. Tutti gli elementi del ciclo economico vengono letti in questi termini, anche quelli che comportano conseguenze drammatiche per milioni di persone,come il tasso di disoccupazione. Tradotti in termini matematici, in grafici ed equazioni, i dati dell’economia diventano, per così dire, asettici, dei semplici numeri da manipolare secondo le regole della logi25

Sulle incongruenze delle teoria di Keynes, sui Bancor e sulla teoria del moltiplicatore, cfr D. de Simone Un milione al mese a tutti subito! op cit. e l’ampia bibliografia ivi riportata. 26 La GEPI era una di queste società, nata per salvaguardare l’occupazione dei dipendenti di aziende in crisi. In situazioni di crisi di settore o di singole aziende,la GEPI interveniva per salvaguardare il personale (mettendolo in cassa integrazione) e per riconvertire alla produttività lo stabilimento risanandolo e rivendendolo a privati interessati. La forma di S.p.A. era necessaria per evitare tutti i legami ed i controlli dell’intervento pubblico, dato che un’attività del genere richiedeva rapidità di decisione e mezzi finanziari considerevoli. Per anni la GEPI ha presentato bilanci in rosso per qualche migliaio di miliardi l’anno, ed in praticasi limitava a mantenere in cassa integrazione decine di migliaia di ex dipendenti delle aziende in crisi.

ca e della matematica. Gli esseri umani, con tutto il loro carico di gioie e dolori, semplicemente scompaiono. In Italia, l’aumento di un punto percentuale del tasso di disoccupazione, significa che 200.000 persone hanno perso il lavoro e con esso la possibilità di far vivere decentemente le proprie famiglie, ovvero in media altre 700.000 persone. Allo stesso tempo, i modelli non ci dicono nulla su come viene distribuita la ricchezza che risulta prodotta. Se una persona possiede mille miliardi e novecentonovantanove nulla, in media avranno un miliardo ciascuna. Per la verità questi dati emergono da altri modelli ed altre statistiche, ma nella scelta delle decisioni di macroeconomia, la distribuzione della ricchezza non è affatto considerata. Ciò che conta è il puro dato statistico, dal quale si evinca che la produzione abbia avuto un incremento. Un esempio divertente di questa stortura nel calcolo di un Totem come il PIL, è data da questo fatto che si è recentissimamente verificato negli USA. Sappiamo che il PIL è composto, tra l’altro, dal saldo della bilancia dei pagamenti, ovvero dalla somma algebrica delle esportazioni, con il segno positivo meno le importazioni. Ebbene, se si verifica un forte calo delle importazioni, per effetto di una crisi, che evidentemente si riflette in minori consumi, il PIL cresce, poiché quel saldo si sposterà decisamente verso il positivo. L’effetto sarà, quindi, di un’apparente crescita della ricchezza, che però produce (relativo) impoverimento tra la gente. Allora cerchiamo di capire quali incongruenze si nascondano dietro la realizzazione dei modelli di equilibrio e quali conseguenze aberranti essi comportino. Il livello dei prezzi dipende da quattro variabili: 1) i costi di produzione, 2) la domanda, 3) l'offerta e 4) la quantità di moneta in circolazione. Dobbiamo considerare che, per ragioni storiche, la variabile costi tende a diminuire mentre la variabile quantità di moneta tende ad aumentare, entrambe con andamento non lineare ma con direzionalità costante. Anche le altre due variabili principali, domanda ed offerta, tendono storicamente ad aumentare in relazione diretta l'una con l'altra. La teoria dell'equilibrio descrive l'andamento dinamico delle quattro variabili e la loro relazione con altre due variabili, il tasso di disoccupazione ed i profitti che dipendono nel loro insieme dalle variabili considerate e, a loro volta, ne determinano l'andamento. Nelle condizioni ideali, il tasso di occupazione è costante, costi e profitti diminuiscono, offerta e domanda crescono in parallelo e la quantità di moneta cresce meno del tasso di

riduzione dei costi27. Da decenni la crescita del sistema è assicurata dal controllo di queste variabili effettuata dall'intervento dei governi su costi, occupazione ed offerta, e delle autorità monetarie sulla quantità di moneta. Profitti e domanda sono determinati di conseguenza dal mercato. In questo bel quadretto, si spiegano gli interventi delle banche centrali sui tassi di interesse, che determinano la quantità di moneta creata, le preoccupazioni sulla riduzione del tasso di occupazione o su una sua eccessiva crescita, la necessità di rallentare la crescita (id est la produzione) per evitare squilibri con la domanda o di tenere a freno i consumi per non esercitare pressioni sui prezzi, eccetera, eccetera. I tassi di crescita dei paesi occidentali ed in misura diversa, del mondo intero negli ultimi tre decenni, danno lustro ed affidabilità al modello. Ci sono però alcune cose che questo modello non dice e che falsificano l'intero ragionamento.

27

Questo per l’ovvia ragione di non indurre la massa monetaria ad esercitare una pressione sui prezzi che genererebbe un aumento dei costi e, quindi, inflazione.

5.

L’economia del debito

La prima cosa che non ci dice, è che il presupposto della crescita è un indebitamento crescente del sistema, sotto forma d’indebitamento privato (famiglie ed imprese) e pubblico (stato ed enti pubblici). La questione coinvolge sia l'equilibrio del sistema sia la natura stessa del potere. In altri termini, la variabile quantità di moneta, che dal modello appare neutra, nasconde una distribuzione ineguale delle risorse finanziarie che incide in maniera determinante sia sulla qualità che sulla misura della domanda complessiva. Immaginate che qualcuno vi proponga un lavoro, una casa ed anche i soldi per mangiare e per gli svaghi. Ne sareste felicissimi, credo. Dopodiché scoprite che i soldi che vi da per il vostro lavoro sono meno di quelli che vi servono per vivere, per cui ogni mese vi indebitate un po’ di più e su questo debito pagate anche interessi che aumentano il vostro indebitamento. E’ ragionevole ritenere che la vostra felicità scomparirebbe immediatamente? Un film degli anni settanta proponeva un tema simile ambientato in una piantagione del sud degli Stati Uniti. Il protagonista, vedovo con due figli piccoli, è alla ricerca di un lavoro e di una sistemazione decente. Capita in un’azienda agricola dove cercano dei lavoranti. Gli viene proposto uno stipendio di mille dollari al mese (incredibilmente alto), la casa, l’alimentazione, la macchina, gli svaghi e la scuola per i figli. Lui trova le condizioni che gli vengono proposte straordinariamente soddisfacenti, e si mette alacremente al lavoro. Per la verità, la casa è una stamberga invivibile, l’automobile uno scassone inguidabile, il mangiare fa schifo e gli svaghi sono inesistenti, ma non si può andare troppo per il sottile nella sua situazione. Alla fine del mese la sorpresina. Eh già, perché quando va a ritirare lo stipendio. dopo un mese di duro lavoro, gli viene detto che al suo stipendio di mille dollari devono essere detratti 600 dollari per l’alloggio, 400 dollari per il vitto ed altri 400 dollari per la macchina, le bevande e gli svaghi (il whisky era un po’ caro). Insomma, dopo un mese di duro lavoro, non solo non aveva guadagnato nulla ma era debitore in totale di 400 dollari. Nel film, come era prevedibile, la questione è finita a pistolettate. Nel mondo sta accadendo la stessa cosa, ma stranamente

nessuno se ne lamenta. Il debito pubblico dello Stato aumenta ogni anno in termini assoluti. Ciò che si riduce e su cui si interviene, è il deficit pubblico, che è uno degli elementi che determina il tasso di crescita del debito28. All’aumento della massa finanziaria per mezzo dell’indebitamento, corrisponde un impoverimento della popolazione e non un suo arricchimento. In effetti, nel mondo occidentale, si sta verificando una crescita dell’impoverimento degli strati di popolazione tradizionalmente poveri, e l’ingresso nella fascia di povertà anche di settori della classe media. Infatti, l’aumento della massa finanziaria, comporta un incremento in termini assoluti degli interessi che sono pagati su tale massa, dato che le emissioni monetarie avvengono, in pratica, solo per il tramite del meccanismo di creazione di denaro da parte delle banche. In altre parole, più si produce con il lavoro e più ci si indebita verso il sistema finanziario che, invece di essere di stimolo per le attività produttive, per le dimensioni che ha raggiunto è diventato una palla al piede del sistema economico. Per questa ragione, chi non possiede strumenti finanziari, e vive solo di lavoro, diventa necessariamente più povero, mentre chi possiede strumenti finanziari diventa allo stesso tempo più ricco. Un esempio illuminante del vicolo cieco in cui si è cacciato il sistema, è dato dal particolare meccanismo di emissione di titoli di debito in deficit pubblico. In pratica, il deficit pubblico consiste nella quantità di denaro necessaria per coprire le spese dello Stato che non sono assicurate dai ricavi della fiscalità complessiva. Le emissioni in deficit pubblico devono essere commisurate al prodotto interno lordo. Per gli accordi di Maastricht, il requisito essenziale per entrare nell’ambito della moneta unica è che il deficit pubblico non superi annualmente il 3% del PIL. Negli anni passati questa percentuale è stata anche molto più alta, fino ad oltre il 12% in momenti di gravi difficoltà per lo Stato italiano. La perversione consiste nel fatto che tali emissioni vengono calcolate sulla base di quanto prodotto dai cittadini, ma non vengono erogate a favore di coloro che con il proprio lavoro ne hanno consentito l’emissione. Al contrario, vengono poste a loro carico. Infatti, le emissioni in deficit pubblico vanno ad aggravare il debito pubblico e questo si scarica prima o poi sulla fiscalità ordinaria. Con l’assurda conseguenza che più si produce e più ci si 28

Il debito pubblico è la somma dei debiti dello Stato e degli Enti pubblici non economici. Il deficit pubblico è l’importo che deve essere annualmente finanziato per coprire il disavanzo dei conti dello Stato, disavanzo che nasce da un eccesso di spesa rispetto alle entrate ordinarie.

indebita in termini assoluti. In effetti, il debito pubblico dello Stato italiano ha raggiunto nel 2000 la rispettabile cifra di 2.500.000 miliardi. Per fare fronte a questa cifra spaventosa, gli italiani dovrebbero lavorare per oltre dieci anni senza tenere nulla per sé, vale a dire senza mangiare senza bere, senza tempo libero, senza fare figli, stando attenti persino a respirare. Capite qual è l’assurdo? Che un gruppo di signori, ignoti ma non tanto, che detiene la maggior parte di questa ricchezza finanziaria non solo usufruisce di ricchezze spaventose, ma soprattutto ha il potere di decidere della vita e della morte di intere popolazioni sulle quali esercita il potere per mezzo del debito. Il meccanismo si risolve in una sottrazione di ricchezza alla popolazione che non usufruisce di ritorni dal mondo della finanza. E questo, ovviamente, aumenta il divario tra ricchi e poveri. La seconda cosa che il modello nasconde, è che per mantenere la crescita del sistema, è necessario un tasso di fiscalizzazione crescente, ovvero, in alternativa, un indebitamento pubblico crescente. Anche se cercano di spacciarlo per un sintomo di ricchezza, l’aumento delle tasse comporta da sempre una diminuzione della ricchezza soprattutto per le classi più povere. Vi faccio un esempio concreto. Una mia giovane amica con cui ogni tanto condivido i viaggi da pendolare, lavora come impiegata presso un’agenzia di viaggi romana. Com’è noto, è fortunata ad avere un lavoro di questi tempi. Per otto ore di lavoro che diventano dieci e più sommando i tempi del pendolarismo, guadagna, lorde in busta, 2.400.000 il mese, che si riducono ad un milione e mezzo per effetto delle varie ritenute. E’innegabile che sia un buono stipendio, dati i tempi, però lei fatica ad arrivare alla fine del mese, pur spendendo solo lo stretto indispensabile per vivere. Vorrebbe sposarsi, ma il fidanzato guadagna più o meno come lei e in due hanno difficoltà a mettere da parte qualche soldo per la festa, il viaggio di nozze, i mobili, la cucina e magari pensare di fare qualche figlio. Figuriamoci per comprare casa! Riflettendo sulle tasse, lei ha fatto questo ragionamento. Il mio stipendio lordo è di 2.400.000 lire, che è quanto il mio datore di lavoro spende, ma a me arriva in tasca solo un milione e mezzo. Non ho però finito con ciò di pagare tasse, dato che qualunque cosa acquisti, dalla benzina ai vestiti, dal pane alla luce elettrica, anche se mi è strettamente indispensabile per vivere e lavorare, è a sua volta gravata di tasse, e non certo

in misura irrisoria. Con l’Iva al 20% praticamente su tutto e le altre tasse ed accise sulla produzione e sul lavoro, il prezzo di ogni bene è formato per almeno il 50% da tasse, dato che com’è noto le imprese scaricano sui prezzi le tasse che pagano. La mia amica conclude che il suo stipendio è quindi gravato da tasse per oltre il 70%. Se la volete leggere in termini temporali, lei lavora per lo Stato da gennaio fino a settembre inoltrato, e tutto ciò solo per avere il diritto di ottenere lo stretto necessario per vivere. Se volesse comprare casa, dovrebbe indebitarsi, accendendo un mutuo con una banca e gravandosi dei relativi interessi che ne diminuirebbero ulteriormente il tenore di vita già ai limiti della povertà. Per colmo d’ironia, questa ragazza è considerata nel comune modo di sentire, una persona fortunata! All’estremo opposto, vediamo quello che può accadere ad una persona che abbia duecento milioni da investire e che sia disposto a perderli senza subire gravi conseguenze. Duecento milioni è una cifra relativamente modesta su un mercato, come quello italiano, in cui ogni giorno si trattano cinquemila miliardi di lire e ancora di più su quello americano, dove ogni giorno le azioni trattate assommano a quattro milioni di miliardi di lire. Il nostro investitore fa le sue brave considerazioni e poi sceglie di investire su un titolo che gli sembra buono. Ne acquista cento azioni a cento dollari, spendendo circa 23 milioni. Il giorno dopo, il titolo in questione scende violentemente del 20%. Non è una follia, è quello che accade quotidianamente a centinaia di titoli sul mercato americano. A fine seduta il nostro investitore acquista duecento azioni a 80 dollari, spendendo altri 36 milioni. Il giorno successivo, però il titolo continua a scendere, e ancora nella percentuale record del 20%. I tecnici di borsa direbbero che il titolo si trova in una situazione di ipervenduto. Il nostro non si perde d’animo e acquista adesso 400 azioni a 64 dollari l’una, spendendo 58 milioni. In totale il nostro ha investito 118.680.000 lire e possiede adesso 700 azioni del titolo. E’ altamente probabile che a questo punto il titolo risalga con altrettanta violenza, anche se in genere si attesta al di sotto del livello da cui è partita la discesa. E’ sufficiente che il titolo del nostro investitore arrivi a 85 dollari perché lui guadagni in pochi giorni, sull’intero investimento 18 milioni, ovvero proprio lo stipendio che la mia amica pendolare riceve per un anno di lavoro.

E se il titolo dovesse scendere ancora, il nostro è pronto ad effettuare nuove mediazioni al ribasso. Se poi il titolo dovesse crollare i casi sono due: o è la fine del capitalismo finanziario, e allora i soldi non servono più a nessuno, né all’investitore né all’impiegata, o la scelta del titolo era clamorosamente sbagliata ed allora, incassate le perdite, il giochetto si può ripetere su altri titoli. D’altra parte avevamo presupposto che per fare questa attività è necessario disporre di denari che si è disposti a perdere. Se poi il titolo che il nostro ha acquistato all’inizio della storia sale, invece di scendere, allora lui dopo un po’ vende ed incassa, passando ad un’altra operazione. Non crediate che siano pochi fortunati a fare questa attività. Nel mondo occidentale, sono ormai decine di milioni le persone che svolgono attività di borsa per proprio conto dalla quale traggono proventi maggiori di quelli che ricevono dal lavoro. Il 70% delle famiglie americane ha denari in titoli o fondi di investimento che hanno avuto una redditività media superiore al 20% negli ultimi cinque anni. Insomma cento milioni ne rendono venti l’anno, senza far nulla e con le tasse pagate. Ah già, le tasse. Sapete quanto paga di tasse il nostro investitore sui diciotto milioni che ha guadagnato con il giochetto di cui parlavamo prima? Una cedolare secca del 12,5% e senza dover fare né dichiarazioni né gli altri complicati calcoli richiesti dalla normale dichiarazione dei redditi, dato che fa tutto la SIM attraverso la quale passano obbligatoriamente le operazioni di borsa. Da quanto avete letto, potete dedurre che più denaro avete meno rischi correte di perderlo, dato che potete mediare al ribasso molte volte e, soprattutto, diversificare il rischio su un numero elevato di titoli recuperando altrove le perdite che avete subito con alcuni di essi. E vi viene in soccorso la statistica, per la quale negli ultimi 30 anni la redditività dei titoli in borsa è stata in media del 16% netto l’anno. Applicandola al nostro esempio di chi possiede duecento milioni, questi ne ricaverebbe ben trentadue l’anno, tasse pagate ed escludendo l’inflazione. Vale a dire, quasi il doppio di quello che riceve la mia amica per le sue otto ore di lavoro oltre alle due o tre di trasporto. Un vecchio detto popolare sostiene che i soldi vanno a chi già ce li ha e questo meccanismo di funzionamento della borsa ne è appunto una riprova. In altri termini, ciò che produce ricchezza è l’attività finanziaria che cresce a tassi compresi tra tre e quattro volte quelli dell’economia reale. C’è, però, un piccolo particolare spesso dimenticato

quando si parla di queste cose. Il particolare è che la ricchezza finanziaria non produce nulla, se non pezzi di carta e adesso bytes di memoria sui computer. Perciò, chi si è arricchito per il tramite della finanza, deve togliere ricchezza a coloro che questa ricchezza l’hanno prodotta con il proprio lavoro. Non solo. Se la ricchezza finanziaria continua a crescere a tassi superiori a quelli di crescita della ricchezza reale, alla fine ci saranno un’infinità di pezzi di carta che gireranno sempre più velocemente tra la gente ed a valori sempre più variabili. Eh già, perché più aumenta la quantità di mezzi finanziari, più cresce la loro velocità di circolazione e maggiori diventano le oscillazioni tra i prezzi. L’enorme massa di strumenti finanziari si risolve in una definitiva perdita di correlazione tra il prezzo delle azioni o il valore nominale dei titoli, e l’effettiva attività delle aziende. I prezzi dei titoli, come di qualunque altro bene che sta sul mercato, dipendono dalla domanda e dall’offerta. Poiché la crescita degli strumenti finanziari è maggiore della crescita della produzione, le transazioni relative agli stessi strumenti finanziari finiscono per diventare preponderanti nel sistema economico, e questa preponderanza tende a crescere in misura esponenziale, dato che essa stessa diventa uno strumento finanziario. Alla base di questa riflessione è il dato della continua nascita di nuovi strumenti finanziari, soprattutto derivati dai principali, che ha caratterizzato le attività finanziarie dell’ultimo decennio. Ma questa crescita dell’area finanziaria avviene a discapito della produzione economica che è gravata da un indebitamento crescente dal quale non può liberarsi se non per mezzo di una distruzione di buona parte della massa finanziaria. Oltretutto, alla crescita degli strumenti finanziari non si accompagna una loro distribuzione equa, o quantomeno, non tanto squilibrata. In conseguenza di questo squilibrio, la domanda non riesce a crescere in maniera congrua, poiché comunque le innovazioni tecnologiche hanno portato nuova linfa nella produzione. Come nel 1929, quando il mondo sperimentò le delizie della crisi di sovrapproduzione, anche oggi ci si trova di fronte allo stesso pericolo. Allora, come oggi, le innovazioni tecnologiche spinsero la produzione a livelli mai raggiunti prima. Allora, come oggi, la distribuzione delle risorse finanziarie era ineguale. Ne seguì un’improvvisa caduta della domanda ed una profonda crisi dalla quale i paesi occidentali uscirono solo nel dopoguerra. Uno dei primi a trovare una soluzione al problema della

debolezza della domanda fu Henry Ford, che pure, nei primi tempi della crisi, aveva reagito con ottusa durezza alle proteste ed alle iniziative degli operai e del sindacato contro la chiusura degli stabilimenti di produzione. Prima della crisi, la produzione della Ford era rivolta soprattutto ad una fascia di acquirenti medio alta, dati i prezzi delle automobili prodotte dall’azienda. Ford pensò di introdurre modifiche ai modelli ed al ciclo di produzione tali da abbassarne in maniera consistente il prezzo di produzione ed allo stesso tempo alzare enormemente la quantità di unità prodotte, cosicché fosse possibile vendere le automobili ad un pubblico più ampio, compresi gli stessi operai della sua fabbrica. Nel 1935 lanciò l’obiettivo di produrre un milione di automobili in quell’anno, e finalmente, dopo tanti anni di recessione, assunse molti nuovi operai, cui propose di acquistare l’automobile a rate. Nacque in questo modo empirico l’economia fondata sul debito al consumo, dato che l’esempio di Ford fu ben presto seguito dalla maggior parte dei proprietari delle altre aziende. Soprattutto nel dopoguerra, milioni di famiglie americane, così come milioni di famiglie europee, furono indotte ad acquistare ogni sorta di beni di consumo utilizzando i crediti che venivano erogati da Banche, finanziarie o dalle stesse aziende di produzione. 6.

La finanza del debito

L’economia fondata sul debito ci sta portando verso una nuova crisi, poiché appare sempre più chiaro che questo debito non solo non potrà mai essere pagato, ma che esso cresce in misura maggiore dell’economia reale. Com'è noto, in tutti i tempi ed a tutte le latitudini, un eccesso di massa monetaria rispetto alla quantità dei beni in circolazione produce inflazione. Lo strumento tradizionalmente usato per ridurre la crescita della massa monetaria, è il rialzo dei tassi di interesse, che genera una contrazione del credito. Le banche, infatti, creano denaro per mezzo della concessioni di linee di credito a imprese, famiglie ed enti pubblici. A questa massa monetaria creata dalla banche si aggiunge la massa dei titoli di credito creati dallo Stato a fronte del debito pubblico e per la copertura delle politiche di deficit pubblico, nonché quella creata dai privati per mezzo di obbligazioni o titoli (c'è anche da considerare la circolazione semi illecita, quale quella degli assegni postdatati, cambiali, tratte e ricevute bancarie).

Si tratta di strumenti finanziari che hanno un'origine diversa, ma da tempo tutti questi strumenti svolgono una funzione monetaria checché ne dicano l'Istat e la Banca d'Italia. Essi sono, infatti, crediti inesigibili nei confronti di soggetti istituzionali o privati la cui esistenza è giustificata dalla circolazione e basta. A questi strumenti, dobbiamo aggiungere sia le azioni, la cui funzione monetaria è sempre più rilevante, sia i derivati la cui elasticità ne consente l'uso monetario in determinate circostanze. Sui derivati gira la favola che essi siano un giochino a somma zero, nel senso che le Clearing Houses29 aprono sempre posizioni equivalenti ma di segno opposto. Si tratta, appunto di una favola, dato che com'è noto, l'apertura delle posizioni avviene sul margine e non sul sottostante e quindi, in caso di forte direzionalità in un senso o nell'altro, l'effetto leva genera squilibri pesanti nei conti. La chiusura forzata di posizioni indurrebbe crisi di panico non dissimili da quelle vissute dalle banche fino al 1932. E, a proposito di derivati, le opzioni, che non hanno posizioni put in corrispondenza, non sono certo strumenti finanziari a somma zero. Le dimensioni del fenomeno ci chiariscono i termini della faccenda. Le banconote in circolazione in Italia sono oltre 50 miliardi di euro. I depositi bancari a vista e breve sommano oltre 2.600 miliardi, più o meno come i titoli del debito pubblico. Aggiungendo i titoli emessi da enti pubblici, regioni e comuni, il debito pubblico complessivo dovrebbe attestarsi intorno ai 1.800 miliardi di euro. Azioni ed obbligazioni di società quotate sommano circa 1.000 miliardi, mentre i titoli ed obbligazioni emessi dai privati (dagli assegni postdatati alle ricevute bancarie) sommavano oltre 1.500 miliardi nel 1998. La maggior parte degli economisti consideravano fino a qualche anno fa', che i derivati ammontassero a circa il 50% di tutti gli altri strumenti finanziari, percentuale che a me sembra un po' bassa, ma che, se presa per buona, porta la somma totale della carta in circolazione in Italia a circa 8.000 miliardi (la mia stima per il 2000 è di oltre 9.000, con un picco a marzo di circa 9.500). Ah, dimenticavo le riserve di oro ed altri preziosi, che attualmente sono di poco superiori ai 24 miliardi di euro, ovvero circa lo 0,25% del totale dei pezzi di carta, alla faccia della convertibilità stampata sulle nostre banconote! E' proprio l'inesigibilità (nel senso dell'inconvertibilità) degli strumenti finanziari (se non tra loro) che ci induce a 29

Le Clearing Houses sono le stanze di compensazione dei prodotti derivati. Il loro compito consiste nel verificare la corrispondenza di posizioni in attivo con le posizioni in passivo su qualunque titolo trattato.

ritenere che tutti svolgano la stessa funzione, che si risolve alla fine in una funzione monetaria dalla maggiore o minore elasticità. Nel senso che non posso andare a comprare con i BOT le sigarette, ma certo ci compro un appartamento. D'altra parte, se porto da un notaio un camion di 20 tonnellate di monetine da cento per pagare 200 milioni di lire per un appartamento, è presumibile che riaprano un manicomio per rinchiudermi dentro. Sempre più spesso, per l'acquisto di aziende, società quotate in borsa e non emettono proprie azioni fissando il rapporto di concambio con quelle dell’azienda acquistata. In questo caso le azioni svolgono una funzione monetaria né più né meno dei BOT o degli assegni circolari. A fronte di questa montagna di carta, il popolo italiano produce più o meno 1000 miliardi, ovvero il Prodotto Interno Lordo. Sul conteggio del PIL ci sono un'infinità di obiezioni, ma adesso prendiamo per buono il dato, depurandolo dalle attività finanziarie che incidono sul PIL per circa 150 miliardi. In altri termini, la carta in circolazione è circa tra 9 e 11 volte la produzione nazionale. Non solo: mentre infatti, il PIL cresce ad un tasso medio inferiore al 2%, la massa finanziaria cresce al tasso decisamente superiore di oltre il 6%. Da questo diverso tasso di crescita discendono le preoccupazioni sull'inflazione e le politiche di tassi alti che, però, abbiamo constatato non risolvere il problema, dato che il tasso di crescita della massa è maggiore di quello dell'economia reale, per di più depressa per via dell'alta redditività delle obbligazioni (pubbliche e private). Una politica di bassi tassi di interesse nemmeno risolve il problema, dato che produce un aumento della massa monetaria creata dal sistema bancario in misura comunque maggiore del tasso di crescita dell'economia. Alla fine questa montagna di carta collasserà su sé stessa bruciando di colpo tutta la ricchezza virtuale e non che essa rappresenta. E' questo lo scenario che viene comunemente indicato come lo scoppio della bolla speculativa, che precipiterà di colpo nel momento in cui sarà stato raggiunto il limite dell'indebitamento del sistema.

7.

Lo scenario prossimo venturo

Questa analisi descrive in linea generale un sistema economico che cresce sul debito, qual è quello che si è venuto determinando dal 15 agosto 1971, data in cui Nixon proclamò l'abrogazione unilaterale degli accordi di Bretton Woods. Quegli accordi prevedevano la convertibilità di tutte le monete nel dollaro e la convertibilità di questo nell'oro. Prevedevano, anche, l'istituzione del FMI come strumento per il controllo e l'intervento finanziario diretto al sostegno dei livelli dei cambi decisi nell'ambito politico. Com'era presumibile, il FMI ha svolto un ruolo politico essenziale per il mantenimento degli assetti di potere usciti da Yalta, mentre la sostanza del potere, all'interno dei singoli paesi, era determinata dalla gestione del credito nei confronti di pubblico e privato. Qual è il rischio in questa situazione? Che all’improvviso, l’impossibilità di far crescere ulteriormente l’economia sul debito, ovvero le difficoltà della gente comune e delle imprese, nonché degli Stati, di contrarre altri debiti determini una brusca caduta della domanda, proprio in un momento in cui il sistema, spinto verso nuovi livelli di produttività dalle attività della nuova economia, ne ha più bisogno. I tassi di crescita presupposti dalle produzioni della nuova economia sono formidabili. Con tutti i freni che la politica monetarista di Greenspan ha imposto agli USA negli ultimi anni a colpi di rialzi dei tassi di interesse, l’economia americana è cresciuta ad un tasso superiore al 5% all’anno, alla faccia dei menagramo che ritenevano illusorio un tasso del 4%. Questo è potuto accadere per le peculiari caratteristiche delle produzioni della nuova economia di cui parleremo in seguito. Resta il fatto che il monetarismo, figlio di questo sistema di gestione della ricchezza finanziaria, ha necessità di ridurre i tassi di crescita dato che altrimenti il sistema rischia di generare un’inflazione incontrollabile. Le cause di questa inflazione sono dovute alla crescita della massa finanziaria maggiore di quella dell’economia, ed abbiamo visto che non c’è modo di arrestarla, né alzando né abbassando i tassi di interesse. In entrambi i casi, infatti, la massa finanziaria continua a crescere o per il verso del debito pubblico o per quello del debito privato. Questi elencati di seguito sono, in sintesi, i punti deboli del sistema: 1) La crescita del debito pubblico non è più tollerabi-

le, anche se è continuata imperterrita negli ultimi dieci anni 2) Il livello di indebitamento delle famiglie sta spingendo fasce crescenti di popolazione in condizioni di povertà in tutti i paesi occidentali, USA compresi, il che rende, tra l'altro, ridicole certe cifre sull'occupazione e la crescita economica. 3) L'incremento esponenziale dell'immigrazione, ovvero di gente alla ricerca di condizioni accettabili di vita (non sanno quello che trovano qui), indice dell'impoverimento crescente nel terzo mondo. 4) L'estrema volatilità dei mercati finanziari, nonché l'estrema sensibilità dell'economia reale alle manovre sui tassi (la caduta del PIL USA nell’ultimo semestre del 2000 dal +5.4% di giugno allo 0.9% di dicembre è estremamente significativa). 5) L'enorme potenzialità produttiva della new economy a fronte della quale c'è una domanda sempre più debole, ai limiti della recessione. In questo contesto una crisi improvvisa di sovrapproduzione diventa probabile. 6) L'assoluta mancanza di chiarezza tra economisti, politici, operatori finanziari e banche centrali sulla gravità della situazione e sui rimedi possibili. Chi mette in guardia sui pericoli viene tacciato, nella migliore delle ipotesi, di essere uno iettatore, come accadde nel 1929 a Paul Warburg e Roger Babson. Dal lato dei politici, non mi stancherò mai di ricordare le ottimistiche previsioni di crescita e sviluppo formulate dal Presidente americano Coolidge nel suo discorso sullo stato dell'Unione del dicembre 1928, a pochi mesi dal crollo30. I segnali che stanno giungendo da tutto il mondo sono di un rallentamento delle attività dell’economia reale e di un aumento della povertà in tutto il mondo, mentre i PIL continuano a salire in alcuni paesi in maniera consistente. E’ chiaro che si tratta di segnali contraddittori, poiché alla crescita del PIL dovrebbe corrispondere un miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Ma così non è, per la semplice ragione che quell’incremento del PIL tiene conto di attività finanziarie che, non solo non miglio30

Il Presidente americano Coolidge, nel suo messaggio al popolo americano sullo stato dell'Unione, alla fine del 1928, scriveva testualmente: "Nessun Congresso degli Stati Uniti si era mai trovato di fronte, esaminando lo stato dell'Unione, a prospettive più rosee di quelle che si annunciano in questo momento. Sul piano interno c'è tranquillità e soddisfazione… e una serie di record di anni prosperi". J. Kenneth Galbraith, The Great crash, 1929, Houghton Mifflin Co., Boston 1972 In D. De Simone, Un milione il mese a tutti: Subito! op.cit. pag. 11

rano la vita della gente, ma al contrario ne determinano un aumento della povertà. I segnali, peraltro ci dicono che la soluzione giusta, oltre che da un punto di vista etico anche da un punto di vista di mera convenienza economica, è quella di una maggiore distribuzione della ricchezza finanziaria e di una sua omogeneizzazione con la crescita dell’economia reale al fine di evitarne l’esplosione. L’unico strumento che ci consente di effettuare una manovra del genere è quello fiscale. In altri termini è necessario ridurre le tasse sulle attività dell’economia reale e spostare il peso fiscale sull’economia finanziaria. Allo stesso tempo, è necessario distribuire ricchezza finanziaria in maniera equa, riconsiderando il ruolo di essa nell’economia. Date le proporzioni tra le attività finanziarie e quelle dell’economia reale, lo spostamento può avvenire in tempi relativamente brevi ed in maniera pressoché indolore31. Ho ipotizzato che in cinque anni si possono detassare completamente le attività economiche e spostare tutte le imposte sulle attività finanziarie senza provocare crolli dei mercati azionari né fughe di capitali dai paesi che adottassero provvedimenti del genere. Una considerazione finale. Anche nel 1929, nessuno pensava che gente come Charles Mitchell o Richard Whitney o Ivan Kreuger o Goldman e Sachs, si facessero scippare il giocattolo dalle mani. Chi erano costoro? Appunto i Gates, i Colaninno, i Whiteman, i Soru dell'epoca. Purtroppo non è andata così. Il giocattolo si è rotto. E le dichiarazioni di un economista famoso ed indubbiamente capace come Irving Fisher, che nell'autunno del 1929, pochi giorni prima del crollo, disse testualmente; "I corsi delle azioni hanno raggiunto quello che sembra un livello permanentemente elevato" ci spiegano perché la caduta fu così dura.

31

cfr D. de Simone Un milione al mese a tutti subito! op cit.

II.

LA NUOVA ECONOMIA

La vecchia economia è cresciuta, quindi, raggiungendo l’equilibrio del sistema per mezzo della creazione di debito. Ne è derivato un sistema in cui le leve del potere sono state detenute saldamente da coloro che hanno gestito il potere finanziario, che hanno potuto per mezzo dei meccanismi del debito determinare la sorte di nazioni intere. Prima degli anni Trenta, era essenziale possedere l’oro necessario alle emissioni monetarie per gestire il potere finanziario, anche se già allora l’emissione di titoli di credito svolgeva una funzione di trasferimento di ricchezza dalla popolazione produttiva al mondo della finanza. Dopo la crisi del ’29, la creazione di denaro e di strumenti finanziari necessari per la crescita del sistema fu garantita dalla conversione indiretta. Solo il dollaro era convertibile in oro e tutte le altre monete erano convertibili in dollari secondo un sistema di cambi strettamente sorvegliato dal Fondo Monetario Internazionale che era stato costituito essenzialmente con fondi inglesi ed americani. Era ovvio che il FMI svolgesse un compito di gestione del potere finanziario per conto delle potenze che l’avevano costituito, imponendo le proprie politiche a tutti i paesi del mondo occidentale, pena l’esclusione dal circuito degli scambi. Era anche chiaro che i rapporti di cambio venivano determinati in modo tale da risultare più convenienti per le nazioni che controllavano il Fondo, ed in particolare modo per le loro bilance di pagamento. Nel frattempo la convertibilità del dollaro nell’oro e la formale equivalenza dei due, fece sì che la maggior parte dei paesi del mondo adottassero come valuta di riserva appunto il dollaro. Galbraith32 calcola che alla fine degli anni Sessanta, l’ottanta per cento delle riserve valutarie di tutti i paesi del mondo fossero costituite appunto da dollari. Com’è noto, il sistema di conversione indiretta saltò nel momento in cui i paesi arabi, stanchi del predominio anglosassone in materia finanziaria, pretesero i pagamenti del petrolio in oro e non più in dollari. La conversione si rivelò un bluff, poiché già allora tutto l’oro del mondo copriva solo una minima parte dei dollari in circolazione. Almeno si chiarì che il sistema finanziario era passato dall’oro e dai suoi equivalenti, alla 32

K Galbraith, Soldi, Rizzoli Editore, Mi, 1997

carta e ai suoi equivalenti segni elettronici. Questo cambiamento segna un passaggio epocale, anche se allora la cosa passò quasi inosservata e ancora oggi quasi nessuno gli attribuisce l’importanza che effettivamente ha. Per comprendere la portata del cambiamento vi riporto una storia originariamente formulata da Joan e Richard Sweeney33 e raccontata da Paul Krugman nel suo libro Economisti per caso. “Durante gli anni Settanta gli Sweeney erano membri di una cooperativa di baby-sitter: un gruppo di giovani coppie, la maggior parte delle quali lavorava a Capitol Hill, e che avevano concordato di svolgere il ruolo di baby-sitter ciascuno ai figli degli altri su una base di rotazione. Un gruppo del genere, non appena i suoi membri superano un certo numero, richiede un sistema che assicuri che ciascuna coppia faccia la sua parte. Questa particolare cooperativa si affidava a un sistema di cedole: ai membri venivano forniti dei coupon del valore di un’ora di baby-sitteraggio. Quando una coppia usciva la sera, dava un congruo numero di coupon ai baby-sitter, che li avrebbero spesi a loro volta in qualche altra occasione. Come si può notare questo è un sistema autocontrollato: nel tempo ciascuna coppia avrebbe fornito necessariamente tante ore di baby-sitteraggio quante ne avesse ricevute. Ora, se ci pensate, un sistema come questo richiede che ci siano un certo numero di cedole in circolazione. Una coppia può aver bisogno di uscire parecchie volte di seguito, e non essere in grado di trovare il tempo (o l’opportunità) di fare da baby-sitter e guadagnare più coupon nel frattempo. Inoltre, una coppia può non riuscire a programmare con sicurezza il tempo libero, trovando un ulteriore incentivo a tenere a disposizione una riserva di cedole. Così in media, perché la cooperativa di baby-sitter funzioni in modo adeguato, esiste la necessità di avere un certo numero di coupon per ogni coppia. Non voglio scendere nei complicati dettagli di come erano emesse le cedole. E sufficiente dire che dopo poco tempo la cooperativa giunse in una situazione in cui non c’erano abbastanza coupon in circolazione. Questo ebbe alcuni effetti notevoli. Le coppie divennero riluttanti a uscire di sera, in quanto una coppia tipica non disponeva di una riserva sufficiente di coupon, ed era ansiosa di conservare quelli in suo possesso per un’occasione importante. Al fine di costituire una riserva, cercavano occasioni extra di 33

Joan and Richard Sweeney, Monetary Theory and the Great Capitol Hill Baby-sitting Coop Controversy., in Paul Krugman, Economisti per caso, Garzanti libri S.p.A., MI, 2000, pagg.92-94

baby-sitteraggio, ma solo la decisione di una coppia di uscire poteva creare per un’altra coppia l’opportunità di prestare il servizio, così le opportunità di guadagnare coupon divennero sempre più difficili da trovare e le coppie divennero sempre più riluttanti a spendere la propria riserva per uscire. Alla fine la cooperativa era costituita prevalentemente da coppie che sedevano accigliate a casa loro, poco propense a uscire fino a quando non avessero un quantitativo maggiore di coupon, ma impossibilitate a guadagnare più coupon in quanto nessun altro usciva. In breve tale gestione della cooperativa aveva condotto alla recessione. Molti dei membri della cooperativa erano avvocati, così fu difficile agli economisti del gruppo convincerli che il problema era essenzialmente monetario. Al contrario, la reazione iniziale degli amministratori della cooperativa fu di trattare il problema come qualcosa che potesse essere risolto da una regolamentazione: per esempio, essi cercarono di stabilire regole che richiedessero a ciascuna coppia di uscire almeno due volte al mese. Fu tuttavia la posizione degli economisti a prevalere, e così furono distribuiti più coupon. Il risultato fu sorprendente: con una maggiore riserva di cedole, le coppie divennero più propense ad uscire, il che rese più facile trovare opportunità per fare da baby-sitter, il che rese le persone ancora più desiderosi di uscire, e così via. Il PLB, ossia, il prodotto interno lordo della Baby-sitting Co. (misurato in unità di bambini accuditi) aumentò. Ovviamente la cooperativa giunse a una fase di eccesso, emettendo troppi coupon. Questo portò nuovi problemi, e incipienti segni di inflazione…”. Fin qui il racconto di Paul Krugman. Il sistema della cooperativa dei Baby-sitter, descrive in maniera semplificata un sistema economico e rende l’idea dell’importanza delle manovre monetarie nell’economia contemporanea. In altri termini, il Governatore della Banca centrale è quello che regola la quantità di cedole nel sistema, e che quindi è in grado di far ripartire un sistema che si trovi in una situazione di recessione. Diceva Krugman che un eccesso di cedole comporta problemi di inflazione e nuovi problemi. Che tipo di problemi? Immaginate che ogni coppia abbia un eccesso di coupon rispetto a quelli che prevede di utilizzare ragionevolmente in un tempo relativamente lungo. Poiché è presupposto che la distribuzione dei coupon tra le coppie sia paritetica, poche coppie sarebbero disposte a fare Baby-sitting, mentre chiedono di poter uscire utilizzando le prestazioni degli al-

tri. Quindi i coupon diventerebbero lo stesso poco utilizzabili, anche se per ragioni opposte a quelle prima individuate. Quelli che hanno impellente necessità di uscire, potrebbero essere disposti a spendere più coupon per ottenere la prestazione di cui hanno bisogno, diciamo che potrebbero dare due coupon per un’ora di baby-sitteraggio invece che uno. In questo modo nel sistema è apparsa l’inflazione. Tutti quelli che vogliono la prestazione dovranno pagare sempre di più per ottenerla, finché di nuovo, i coupon si rivelano essere troppo pochi, ai nuovi valori, per mandare avanti il sistema. Dopo l’inflazione, la stagnazione e di nuovo la recessione. Di qui la necessità dell’emissione di nuovi coupon e così via di seguito, con i coupon che perdono progressivamente di valore ed il loro numero che aumenta in maniera esponenziale La conseguenza è che il sistema per stare in equilibrio deve avere una quantità di moneta sufficiente. Vale a dire né troppa né troppo poca, ma adeguata alla capacità produttiva del sistema. Ora, quale sia questo livello non è certo facile determinarlo. Sappiamo quali sono i sintomi che però accompagnano la recessione e l’inflazione. Nella prima c’è una forte caduta della domanda e della produzione. Questa caduta è spesso preceduta da un peggioramento del sentiment degli operatori del mercato. Insomma, se molte coppie annunciassero che prevedono di uscire di meno, potremmo immaginare di utilizzare degli strumenti monetari per invogliarle ad uscire di più, appunto distribuendo più cedole. Nella seconda, invece, assisteremmo ad un repentino aumento dei prezzi, segno inequivocabile di un eccesso di moneta sul mercato. In questo caso potremmo cercare di ridurre la creazione di moneta, ma sarebbe preferibile anticipare l’esplosione dell’inflazione regolando in maniera intelligente l’offerta di moneta. Infatti, il rischio di una riduzione dell’offerta di moneta è quello di frenare in maniera eccessiva la produzione. Quindi, per quanto possa sembrare strano, è più semplice far ripartire un sistema in cui c’è poca liquidità, di uno in cui la liquidità è in eccesso. Nel primo è sufficiente un’iniezione di mezzi monetari per ottenere un immediato (o quasi) beneficio. Nel secondo, sono necessarie manovre di stretta del credito che, non solo si riflettono sulla quantità di moneta in circolazione, ma hanno effetti negativi anche sulla produzione. E’ quindi più difficile riuscire a capire quale sia il livello di equilibrio del sistema quando questo è in una fase di inflazione, con la conseguenza che le autorità monetarie ed economiche stanno ben attente a tutti i segnali di in-

flazione più che a quelli di recessione. Insomma, è meglio un po’ di recessione per scarsità di moneta, dalla quale si viene fuori con manovre semplici ed in tempi relativamente brevi, che un’inflazione dalla quale non si sa né come né quando uscire. Krugman non è entrato nei dettagli dell’emissione di cedole poiché, in effetti, ai fini dell’esempio di cui parla, questo particolare è relativamente ininfluente. In realtà, rispetto a quello che accade nel mondo economico reale, l’economia della Baby-sitting Co. presenta delle differenze essenziali. Nella cooperativa di baby-sitter, infatti, la moneta creata viene distribuita tra tutti i partecipanti in maniera paritetica. Nell’economia reale, invece, la creazione della moneta avviene a debito dei partecipanti. Mi si obietterà che in fondo, anche nella cooperativa la distribuzione delle cedole non è indolore, dato che ciascuna di esse rappresenta un’ora di futuro babysitteraggio che sarà effettuato da una coppia di soci, così come l’emissione di denaro rappresenta la quantità di lavoro che sarà effettuata in futuro nella società. Il fatto è che, per quanto riguarda la distribuzione, è profondamente diverso se le cedole vengono inizialmente distribuite gratis o se per ottenerle si deve pagare qualcosa. E quello che non funziona nell’attuale situazione dell’economia finanziaria è proprio che la distribuzione delle cedole non è affatto gratuita. Infatti, la creazione di denaro avviene sempre a debito di qualcuno, debito che si somma a quello costituito dalle future attività che potranno essere acquistate con lo stesso denaro. Finché vigeva un sistema monetario fondato sull’oro o sui metalli preziosi, l’emissione di banconote avveniva sulla garanzia della restituzione di un bene fisicamente esistente ed individuato. Dopo l’abrogazione degli accordi di Bretton Woods, invece, l’emissione di denaro avviene per mezzo della concessione di prestiti da parte del sistema finanziario a cittadini, imprese e Stati. Questo meccanismo ha, di fatto, attribuito alle banche il diritto di battere moneta che solo formalmente è ancora in capo allo Stato. Abbiamo già rilevato che, infatti, le banconote in circolazione e stampate dalla zecca di Stato sono una frazione infinitesimale del totale degli strumenti finanziari in circolazione nel sistema. La maggior parte di questi strumenti, che pure vengono comunemente usati per l’effettuazione dei pagamenti, è costituita da titoli del debito pubblico, titoli del debito privato e da titoli bancari, sotto forma di documenti cartacei o segni elettronici. Di conseguenza, il totale dei depositi bancari assomma, ad oltre 25 volte il totale del denaro fisicamente circolante nel paese.

Le banche, quindi, emettono moneta sotto forma di prestiti che generano gli ulteriori strumenti necessari per la crescita del sistema. Le conseguenze di questo sistema di creazione di denaro sono essenzialmente due. La prima è che il sistema cresce solo se sale l’indebitamento complessivo degli operatori, vale a dire, famiglie, imprese e Stati. La seconda è che nel sistema l’inflazione è endemica, dato che la massa monetaria è sempre maggiore delle attività che vengono svolte e che essa deve remunerare. E’ sufficiente, infatti, un rallentamento della crescita economica perché la massa monetaria esistente si riveli sovrabbondante rispetto alle esigenze dell’economia. Questa situazione viene definita con il termine tecnico, coniato negli anni Settanta, di stagflazione, ovvero di inflazione unita alla stagnazione economica. E’ a questa distorsione del sistema che sono dovute le grandi ondate di inflazione che hanno caratterizzato tutti gli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Per questa ragione le banche centrali devono adottare prioritariamente politiche di rigido controllo dell’inflazione, poiché con l’inflazione il sistema tende a divenire ingovernabile. Il controllo della quantità di massa monetaria avviene per mezzo di uno strumento indiretto, ovvero il tasso di interesse, che è determinato dalle banche centrali. Un alto tasso di interesse rende più costoso il denaro, e quindi scoraggerà le imprese e i cittadini dal ricorrere ad ulteriore credito, mentre un basso tasso di interesse ha l’effetto opposto. Ovviamente per sentire gli effetti della cura, occorre del tempo che è tanto minore quanto è più immateriale la produzione. Questo per la banale ragione che per iniziare, o ampliare, una qualsiasi produzione materiale, è necessario costruire o ammodernare uno stabilimento, assumere il personale, iniziare la produzione e venderla. Solo dopo tutto ciò si vedranno gli effetti della manovra finanziaria. Nelle produzioni immateriali, invece, i tempi di realizzazione del prodotto, dopo il finanziamento sono molto più brevi, perché le attività materiali da portare a compimento per ottenere il prodotto sul mercato sono pochissime. Di conseguenza, più il complesso delle attività si sposta sul piano immateriale, più rapida diventa la reazione alle manovre monetarie. La maggiore rapidità, non significa affatto una maggiore efficacia. Anzi, più il sistema si indebita, più le manovre monetarie divengono inefficaci al fine del controllo del sistema. Infatti, la reazione degli operatori sarà possibile solo sul-

la loro residua capacità di indebitamento, e questa, per definizione, tende a colmarsi con il passare del tempo. Occorrono, quindi, oscillazioni sempre più ampie sulla forbice dei tassi al fine di ottenere risposte significative da parte degli operatori economici. Queste manovre, però tendono ad aumentare l’instabilità del sistema finanziario, ed a generare inflazione, per via della crescente creazione di denaro da parte delle banche. L’altra differenza essenziale con il circolo delle baby sitter, è che nell’economia reale il prelievo fiscale svolge un ruolo essenziale, e non solo per ragioni quantitative. Negli ultimi trent’anni, infatti, la pressione fiscale è cresciuta in tutto il mondo occidentale a livelli elevatissimi e mai conosciuti prima. Ciononostante, il debito pubblico degli Stati del mondo è parimenti cresciuto a livelli mai sperimentati prima. Il prelievo fiscale è cresciuto parallelamente al debito pubblico anche per la necessità di dover far fronte con un mezzo di pagamento diverso dal denaro di cui gli Stati non disponevano agli interessi maturati sui titoli in scadenza. Ciò ha comportato che circa un terzo dell’attuale prelievo fiscale sia destinato al pagamento di interessi sul debito pubblico, e che questo sia attualmente costituito, per buona parte, da titoli emessi a fronte di interessi scaduti. Di fatto, i titoli del debito pubblico sono stati utilizzati come strumento monetario, dapprima dagli Stati e poi anche dai privati che ne sono venuti in possesso, mentre prima erano essenzialmente rappresentativi di risparmio. Per mezzo dell’emissione di titoli, quindi, lo Stato ha di fatto emesso moneta, e attraverso il prelievo fiscale ne ha gravato il costo dell’emissione sui cittadini e sulle imprese. Questa moneta, come abbiamo compreso dalle vicissitudini della cooperativa delle baby sitter, è essenziale per il funzionamento del sistema. Invero, ad oggi, in uno Stato come l’Italia (ma il rapporto è simile in tutti gli Stati del mondo), un terzo degli strumenti finanziari in circolazione ed usati comunemente come moneta, è costituito da titoli del debito pubblico. La necessità di una massa monetaria di dimensioni adeguate alle attività dell’economia, comporta che la crescita economica deve essere accompagnata da un indebitamento crescente dei cittadini e delle imprese, ovvero esattamente ciò che si è verificato negli ultimi trent’anni. Comporta, inoltre, che non ha senso ogni progetto di riduzione o di azzeramento del debito pubblico. Sia perché, di fatto, questo progetto sarebbe irrealizzabile, a meno che i titoli del debito pubblico non fossero sostituiti da altri strumenti monetari, sia perché la scomparsa dei titoli corrispondenti alla porzio-

ne di debito soddisfatta comporterebbe una contrazione della massa monetaria sostenibile solo in fasi di recessione. Questa singolare situazione di espansione legata al debito ha un punto debole nel limite, sempre più prossimo, dell’indebitamento complessivo del sistema economico. Questo limite in alcuni settori è già stato raggiunto e superato. Per esempio, tutti i paesi occidentali stanno da qualche tempo sperimentando l’impossibilità di fare crescere ulteriormente il debito pubblico per la copertura degli oneri che derivano dal sistema pensionistico. In Italia, come in Giappone, in Francia come in Germania, con maggiore o minore gravità, il sistema pensionistico è in crisi a causa della diminuzione della popolazione attiva e dell’allungamento della vita media. In Italia e in Giappone la situazione è resa ancora più pesante dallo storno di molte risorse riscosse per gli oneri pensionistici verso altri settori della spesa pubblica, in primis la spesa per l’assistenza e per il sostegno temporaneo delle imprese e dei lavoratori nelle fasi di riconversione o di crisi di settore. Le soluzioni proposte per affrontare il problema puntano essenzialmente alla riduzione della spesa, o attraverso la riduzione dell’emolumento, o attraverso l’allungamento del periodo di lavoro. Entrambe queste soluzioni sono palliativi che allungano i tempi della crisi ma non la risolvono. Entrambe chiedono ulteriori sacrifici a gente che ha lavorato una vita, o peggio gli chiedono di continuare a fare gli schiavi per molto tempo ancora, per vivere in pace gli ultimi ipotetici anni della vita. Entrambe si fondano sull’etica del lavoro e negano il diritto fondamentale dell’uomo, il diritto alla vita, che invece oggi siamo in grado di poter garantire a tutti, se solo si ripartisse in maniera appena più equa la ricchezza finanziaria. Anche gli investimenti pubblici non sono più sostenibili per mezzo dell’indebitamento. Di fatto, i grandi investimenti da circa dieci anni sono stati abbandonati dagli Stati nelle mani dei privati, a causa della mancanza dei fondi necessari per poterli realizzare. Ciò comporta, tra l’altro, l’impossibilità di seguire politiche keynesiane di stimolo dell’economia. Il problema pressante per tutti gli Stati del mondo, negli ultimi dieci anni, è stato quello di ridurre all’osso il deficit pubblico e cercare di ridurre il debito pubblico in proporzione al PIL, ad una percentuale ragionevole. Impresa difficile, dato che la riduzione della spesa pubblica in un sistema economico drogato proprio dall’intervento dello Stato nell’economia, ha inciso in maniera considerevole sulla contrazione della crescita del PIL che tutti gli Stati occidentali hanno sperimentato a partire dagli anni

’90. Gli Stati Uniti hanno, invece adottato una politica di decisa privatizzazione e di riduzione della spesa pubblica tagliando un numero enorme di posti di lavoro e devolvendo le relative funzioni alle imprese private. Ciò ha comportato indubbi benefici sui conti pubblici, dato che da qualche anno il deficit di bilancio si è rovesciato in avanzo di bilancio, ma conseguenze nefaste sul piano della solidarietà e della distribuzione della ricchezza del paese. Gli USA, peraltro, sono sempre un caso a parte, sia per il fatto che la loro moneta domina i mercati finanziari e svolge un ruolo insostituibile nelle bilance di pagamento di quasi tutti i paesi del mondo, sia perché quel paese è in posizione dominante per ragioni politiche e per potenza economica. Gli effetti più perversi del peso che ha sullo sviluppo economico il debito pubblico li ha sperimentati proprio negli ultimi dieci anni il Giappone. In questo paese il debito pubblico ha superato il 130% del PIL: il problema delle pensioni è divenuto all’improvviso pesantissimo, il sistema finanziario ha vissuto una crisi gravissima che è culminata con un crollo della borsa di Tokyo che ha ridotto la capitalizzazione dei titoli quotati ad un quarto di dieci anni fa. L’economia oscilla tra recessione e stagnazione e non ci sono affatto possibilità di poter eseguire manovre monetarie efficaci per far uscire il paese dalla crisi, dato che i tassi di interesse sono estremamente bassi, e anzi, a più riprese sono stati ridotti anche a zero. D’altra parte, non era possibile una politica di stretta monetaria in un’economia in forte rallentamento, e con poco margine di manovra, il taglio dei tassi si è rivelato uno strumento assolutamente inadeguato. Peraltro, non ci sono altre manovre possibili, al di fuori di quelle monetarie, poiché abbiamo visto che la spesa pubblica non è incrementabile dato l’eccessivo livello raggiunto dal debito pubblico. Il Giappone rappresenta l’incubo delle economie occidentali. Incubo che nell’ultimo anno ha generato i fantasmi del crollo delle borse che, dopo i fasti dell’inizio del 2000, si sono avvitate in una caduta che sembra senza fine. Insieme alla caduta delle borse si è verificata una frenata drastica della produzione. Negli Stati Uniti, questa caduta si è materializzata con una riduzione della crescita del PIL dal 5.6% di giugno allo 0.9% di dicembre. Che cosa è successo di tanto grave da bloccare in questo modo la crescita dell’economia americana? E’ possibile che da questa crisi venga fuori una recessione mondiale ed una “giapponizzazione” dell’economia del mondo? Per rispondere a questa domanda dobbiamo cercare di com-

prendere meglio che cosa sia la nuova economia e come essa abbia inciso sull’economia in generale.

1.

La smaterializzazione della produzione

All’epoca di Smith e di Ricardo le analisi economiche si facevano in base alla produzione materiale dei beni essenziali per garantire la sussistenza. Le discussioni dell’epoca vertevano sul concetto se fosse più produttiva la terra, il lavoro o il capitale (che comprava entrambi). Il lavoro era distinto in lavoro produttivo e improduttivo. In quest’ultima categoria rientravano tutte le professioni intellettuali. Per due secoli si continuò a calcolare la produzione in termini di grano, di acciaio e di oro. A fronte della produzione c’erano i servizi, che nel frattempo avevano assunto un ruolo importante, anche se sempre minoritario nell’economia. Si discusse a lungo se e in quale maniera i servizi dovessero entrare nel computo della produzione. Alla fine, data l’importanza che essi avevano assunto (basti pensare al peso crescente della burocrazia nell’economia), si trovò un escamotage per far rientrare anche le attività che non producono direttamente beni nel concetto di produzione. Per le attività dello Stato, si assunse come criterio la spesa affrontata, con la conseguenza che molti costi assolutamente improduttivi finirono per entrare nel concetto di produzione. Per le attività private, fu adottato il criterio dell’onere fiscale per quantificarne l’incidenza sull’economia. Dagli anni Settanta in poi, il concetto di produzione nazionale fu sostituito da quello di Prodotto Interno Lordo, che spostava l’accento dalla produzione di beni materiali, al calcolo delle attività di una nazione. Concetto che ha ben poco di scientifico e di matematico, ma molto di politico. Infatti, per poter dare rilievo a queste attività, occorre che esse abbiano un prezzo, che cioè siano misurabili. Il che esclude dal novero delle attività di un paese, negandogli obiettivamente rilevanza, tutte quelle attività che non hanno prezzo, dal lavoro casalingo fino alla solidarietà, dal consiglio gratuito, fino all’amore. Mi si obietterà che queste attività non hanno rilevanza economica proprio perché non hanno prezzo. E’ vero, ma allo stesso tempo il fatto di considerare rilevanti solo le attività che hanno un prezzo, fa’ sì che tutte le attività mirino ad ottenere un prezzo, appunto per essere considerate tali.

In altri termini, l’idea stessa di PIL, non solo riflette la mercificazione della società, ma in una certa misura la genera, la accompagna, la impone. Di qui la tendenza a tradurre in denaro l’amore, il lavoro casalingo, la solidarietà e persino l’amicizia. Tutto tende ad avere un prezzo, tutto può essere pagato e comprato. E’ attraverso questi strumenti che il capitalismo succhia il sangue agli esseri umani e li trasforma in merci. D’altra parte, provate ad immaginare una società in cui non si faccia attività di pulizia nelle case, non si faccia l’amore e non ci sia nemmeno un poco di solidarietà e di amicizia. Vi sembrerebbe possibile? Potrebbe una società del genere esistere e, se esistesse, potrebbe produrre alcunché? Ecco, il lavoro casalingo, l’amore, la solidarietà sono il presupposto necessario perché la produzione sia possibile. In realtà, nella società della mercificazione, esse divengono le attività subordinate a quelle della produzione, con la conseguenza che esse sembrano avere rilevanza solo in quanto mercificate. Ma in questo modo, in quanto mercificate esse perdono la propria natura, si svuotano di ogni contenuto. Le attività che non producono beni tangibili fisicamente sono le attività immateriali. Nel cui computo rientrano, in sostanza, tutti i servizi e le attività intellettuali, e anche quelle attività in cui la componente materiale è trascurabile rispetto al prezzo del prodotto. I programmi per computer, ad esempio, hanno bisogno di un supporto materiale per avere esistenza fisica, ma il costo di questo è irrisorio rispetto al costo del prodotto finito. Le attività immateriali, quindi, che anche agli inizi degli anni settanta, costituivano solo una parte minoritaria della produzione, hanno assunto un ruolo sempre più rilevante nell’economia, al punto che, adesso, esse rappresentano in tutto l’occidente, la parte maggioritaria della produzione. In Italia attualmente “i servizi” sono oltre il 60% della produzione nazionale ed è prevedibile che questa proporzione incrementi notevolmente nei prossimi anni. Sia perché la produzione di molti beni materiali ha dei limiti fisici evidenti, sia perché l’espansione economica da alcuni anni riguarda solo i settori della produzione immateriale. Quali sono i limiti fisici delle produzioni materiali? Risolto, almeno in occidente, il problema della nutrizione, non appare possibile incrementare la produzione di generi alimentari se non nei limiti fisiologici dell’aumento della popolazione. Questo, forse, spingerà la produzione di cibi meno schifosi, spingerà il profitto a battere altre strade per riprodursi, diverse dalla qualità infima ad alto valore aggiunto.

Allo stesso tempo, la produzione di case, di automobili, di elettrodomestici sconta un rallentamento anch’esso fisiologico, dovuto alle stesse ragioni. Oltre a questi ci sono i problemi legati alle difficoltà di fare fronte alla richiesta crescente di energia che la produzione materiale richiede. L’inquinamento che comporta l’utilizzo dei derivati del petrolio e del nucleare, e la mancata realizzazione di serie politiche per l’utilizzo di energie alternative sta costituendo un serio limite al soddisfacimento del fabbisogno di energia, né, al momento, è stata individuata una fonte energetica alternativa sufficiente. D’altra parte, anche qui ragioni di potere inducono la ricerca a non considerare seriamente le possibili alternative al petrolio ed al nucleare, il cui controllo determina la posizione dominante dei paesi occidentali nei confronti degli altri. Solo uno sforzo collettivo di enormi dimensioni potrebbe farci uscire da quest’impasse in cui il sistema di produzione dell’energia si è cacciato. Prima o poi, il petrolio non sarà più utilizzabile in maniera crescente per produrre energia, e il nucleare sta cagionando troppi problemi in tutto il mondo, per essere incrementato ulteriormente. Allora sarà necessario ricorrere in maniera massiccia alle fonti energetiche alternative (dall’eolico alle celle d’idrogeno) oppure perseguire qualcos’altro, come l’energia nucleare fredda, sempre che si riesca a capire che cosa sia e come funzioni. I limiti fisici allo sviluppo economico, cui negli anni Settanta si annetteva enorme importanza per preconizzare un futuro medioevo per l’umanità, non hanno invece alcuna incidenza sullo sviluppo della produzione immateriale che ha necessità solo di una quantità minima di energia per poter essere prodotta in misura pressoché illimitata. La produzione immateriale consiste essenzialmente in informazione e nella sua distribuzione attraverso una rete che si sta diffondendo in tutto il mondo. Rispetto all’antichità, quando la trasmissione di un ordine dell’imperatore da Roma alla provincia più remota richiedeva l’utilizzo di un numero enorme di uomini, e quindi un dispendio enorme di energie, ma anche rispetto a soli vent’anni fa, quando una lettera dagli USA impiegava almeno una settimana ad arrivare in Europa, e richiedeva mezzi di trasporto ed attività umane complesse e faticose. Oggi, con Internet, una qualsiasi comunicazione arriva da una parte all’altra del globo in tempo reale, utilizzando una quantità di energia assolutamente irrisoria. Parole, immagini, musica viaggiano in quantità illimitata e senza fatica rag-

giungendo ogni angolo del mondo, ogni persona in grado di avere l’accesso a Internet34. La crescita della quantità di energia disponibile per la produzione, quindi, non è più un elemento decisivo per lo sviluppo della società. Allo stesso tempo, la produzione di beni materiali perde importanza rispetto a quella di beni immateriali, nel senso che questi raggiungono, in proporzione al totale del prodotto, una percentuale crescente nel tempo. Una previsione citata da Rifkin35 sostiene che nel primo decennio del nuovo millennio la produzione immateriale arriverà a rappresentare il 90% del totale del prodotto interno degli Stati Uniti. Non so valutare la fondatezza di questa previsione. Ciò che è certo è che già ora l’immateriale occupa una quota superiore al 50% del totale del prodotto e che il suo tasso di crescita è enormemente maggiore di quello della produzione materiale che incontra, appunto, i limiti di cui parlavamo sopra. L’informazione che si fa prodotto, va intesa ovviamente nel senso più ampio del termine. Informazione è tutto ciò che è possibile comunicare. Di conseguenza, ogni prodotto dell’ingegno umano è informazione, dalla notizia della agenzia di stampa, al comunicato commerciale, al poema eroico, alla progettazione di un sistema di distribuzione mondiale di qualsivoglia prodotto. Qui la new economy si innerva nella vecchia e la rende enormemente più veloce ed accessibile. Lo spostamento della produzione verso l’immateriale, comporta la necessità di un enorme sforzo di produzione di idee di tutta l’umanità, poiché dalla produzione intelligente discende la possibilità stessa della sopravvivenza degli uomini. Allo stesso tempo, questo sforzo collettivo enorme è fortemente limitato dal fatto che senza la libertà di pensiero non è possibile produrre alcunché di originale. Senza pensiero originale, sotto l’assillo del profitto immediato, le possibilità di liberazione si riducono, il sistema finisce su strade senza speranza, nel vicolo cieco della riproduzione della morte invece che della ricerca della vita. Il transgenico è un esempio di questa corsa alla follia, in terra, in mare, in cielo, il rischio di inquinare di morte l’intero mondo è enorme36. 34

L’accesso alla rete, come vedremo, non è un problema insormontabile, anzi con il tempo, il costo dell’accesso diviene sempre più accessibile, e la tecnologia risolve anche il problema culturale dell’uso degli strumenti. 35 Rifkin J., L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori Editore, Mi, 2000 pag. 115. “Oggi, il comparto dei servizi impiega più del 77% della forza lavoro americana, contribuisce per il 75% al valore aggiunto dell’economia degli Stati Uniti e per più della metà al valore aggiunto dell’economia mondiale.” Ibidem, pag. 151. 36 Una forte denuncia dei pericoli dell’uso distorto delle biotecnologie cfr. Marco Caponera, Transgenico No, Editore Malatempora, Roma, 2000

2.

Il potere e Internet

La libertà di pensiero presuppone l’educazione alla libertà e la sua pratica concreta. Il sistema economico ha un enorme bisogno di produzione originale, ma non è in grado di ottenerla finché i produttori consumatori, vivono in condizioni che ne impediscono la libera espressione delle loro capacità creative. In altri termini, senza la libertà dei popoli, non solo dal giogo delle tirannie politiche, ma soprattutto dall’oppressione della necessità economica e, quindi, dal predominio del potere finanziario, non è possibile alcuna produzione originale e creativa. In questo senso deve essere letta la frantumazione e la sostanziale reductio ad absurdum della politica negli ultimi trent’anni. Dopo la grande stagione vissuta alla fine degli anni Sessanta, la politica si è progressivamente svuotata dei suoi contenuti, travolta dalla mercificazione generale della società. Gli ideali di cui era portatrice si sono rivelati impotenti ad arginare il processo di economicizzazione della società. Alla fine, ci si è accorti che non ci sono più ideali che rendano chiara e netta la distinzione tra gli schieramenti contrapposti. In Italia, la contrapposizione tra gli schieramenti politici verte, ormai, solo su questioni marginali o di mera facciata, a parte il richiamo, sempre più vuoto di contenuti, agli ideali che hanno contraddistinto gli schieramenti in passato. L’essenziale però non cambia né da una parte né dall’altra. Sulla politica fiscale, su quella monetaria, su quella economica, sia la destra che la sinistra dicono sostanzialmente le stesse cose. Insomma, la battaglia per la liberazione della società è arrivata ad una nuova fase. La contrapposizione non è più all’interno del mondo della politica, tra concezioni diverse della società e diversi modi di gestire il potere. La contrapposizione effettiva è tra i partigiani del potere e i suoi avversari, tra chi ritiene che si debba ancora gestire la società per mezzo del potere, e chi del potere, della prevaricazione, della violenza che esso induce non ne può più. Questa nuova lettura del problema del potere, discende direttamente dal predominio sempre più marcato della produzione immateriale su quella materiale. Com’è noto, la conoscenza tempestiva ed il controllo delle informazioni sono sempre stati gli elementi decisivi per la gestione del potere. La produzione delle informazioni, il

loro rigido controllo ideologico, e la loro diffusione persuasiva, hanno caratterizzato tutti i regimi, compresi quelli sedicenti democratici dal dopoguerra in poi. L’avvento di Internet, e quindi di un’informazione istantaneamente accessibile a tutti, e che può essere prodotta da tutti, praticamente senza oneri economici di rilievo, cambia completamente il quadro della natura del potere. Infatti, la possibilità di immediata verifica, la facilità della sua produzione, non consentono più il controllo dell’informazione che i regimi fondati sul potere hanno sempre detenuto, e mettono la gente in condizione di vedere che, alla fine, il re della comunicazione e del potere è nudo. Di fronte alla possibilità di essere del tutto smascherato, il potere ha reagito con una produzione spaventosa di informazioni e di immagini, per lo più prive di qualsiasi contenuto. Nel marasma generale, c’è la possibilità che la gente abbia nausea della comunicazione e la smetta di cercare informazioni e soprattutto di produrle. E’ il colpo di coda del potere, che però non è in grado di fermare la rivoluzione che nasce dalla connettività globale. Internet è il primo prodotto di questa rivoluzione. Internet nasce anarchica, libertaria e totalizzante. Attraverso di essa è possibile mettere in comunicazione tutto il globo, è possibile una comunicazione senza mediazioni e senza limiti. Quello che prima era filtrato dal potere politico, e poi dal potere mediatico, attraverso Internet arriva direttamente dalla fonte senza alcun intermediario. Tutti gli strumenti produttori di convenzioni sociali, la cui funzione ultima era quella della riproduzione delle forme di gestione del potere, sono travolti dalla assoluta libertà di Internet. Non a caso, dal mondo politico, si levano voci sempre più preoccupate che reclamano il suo controllo. Il potere cerca di far valere le sue ragioni anche sul terreno a lui assolutamente nemico della assoluta libertà. Ogni tanto, parte qualche campagna di stampa che mostra tutti i pericoli della connettività, inventandoli anche laddove non ci sono, allo scopo di evitare che la gente possa accedervi libera da pregiudizi e senza la guida paterna di chi dice di volerti tutelare. Già, ma come si fa a controllare Internet? Non è possibile fare leggi di portata nazionale, dato che la allocazione fisica delle informazioni e la loro fonte sono facilmente trasferibili in qualunque posto del mondo, praticamente senza costi. Occorrerebbe quindi un accordo di tutti i paesi del mondo affinché una norma che vieta qualcosa possa essere efficace davvero. Insomma, o si entra nell’ottica del governo mondiale che tutto vede e tutto controlla, oppu-

re per i controllori non c’è salvezza. Ci sarà sempre un qualche angolo del mondo in cui ciò che essi vogliono vietare sarà consentito, e da lì quelle informazioni e quelle attività si possono diffondere istantaneamente in tutto il mondo senza che nessuno possa impedirlo. Non vale nemmeno coprirle con il rumore di fondo della massa enorme di inutilità con cui il potere mediatico cerca di ottenebrare le coscienze, poiché i computer sono in grado, se istruiti con un minimo di logica, di selezionare tra le migliaia di notizie inutili proprio quelle che cerchiamo e che ci sono più gradite. Insomma, per il potere non c’è salvezza, a meno che non voglia arrivare a distruggere Internet e sostituirlo con le intranet, ovvero con le reti che connettono tra di loro siti controllati all’origine e solo quelli. Ma non sembra essere questa la strada che ha preso il mondo, anzi, la diffusione di Internet diventa sempre più ampia mettendo in crisi vecchie gerarchie, relazioni stratificate e le strutture più solide di potere. L’ultimo tentativo in Italia della politica per cercare di controllare Internet è stata una legge, giunta al termine di una martellante campagna di stampa sui pericoli di Internet, per cui l’informazione in rete deve essere comunque regolamentata come l’informazione su carta stampata, con il direttore responsabile, le autorizzazioni amministrative, i controlli fiscali eccetera eccetera. Il tentativo è stupido ed inutile, ed avrà come conseguenza solo che alcuni provider italiani saranno costretti a chiudere i battenti. La legge presuppone, in pratica, che tutti i siti Internet debbano avere un direttore responsabile ed assoggettarsi al regime di repressione fiscale per mezzo del quale il sistema controlla la società. Infatti tutti i siti Internet, comprese le home pages più innocenti, fanno informazione periodica. Ovviamente, i nostri illuminati legislatori, dicono che non è quella l’interpretazione della legge, che essa si applicherà solo a quei siti che operano come i giornali di carta stampata. Ma intanto, la legge è lì e c’è da scommettere, che se domani da una home page venisse fuori qualcosa di non gradito al potere il sito potrebbe essere chiuso e i suoi autori arrestati e perseguiti in base alla legge. Questi tentativi sono stupidi e maldestri, poiché è sufficiente che i siti si spostino in un altro paese perché essa cessi di essere efficace. E gestire un sito Internet presso un provider italiano o americano o anche australiano è esattamente la stessa cosa, dato

che si fa sempre tutto da casa senza alcun bisogno di contattare fisicamente il provider. Insomma, alla fine l’effetto della legge sarà che ci saranno meno siti “.it” e più siti “.com” o altri suffissi che indicano indirizzi posti fuori dall’Italia. Vi chiederete come sia possibile che una legge così stupida sia stata approvata, se è sufficiente questa banalità per eluderla. Il fatto è che è difficile comprendere fino in fondo la portata di una rivoluzione come quella che preannuncia Internet. E i nostri politici, non solo non l’hanno capita, ma non hanno nemmeno gli strumenti per capirla, dato che il loro modo di pensare è tuttora determinato dalla logica del potere, nel quale sono nati e dal quale sono alimentati. Per loro, dunque, è senz’altro possibile che un atto di imperio possa vietare qualcosa. Non si rendono conto, che esiste uno spazio in cui i loro atti d’imperio sono privi di significato e che questo spazio finirà per essere occupato da tutte le attività umane più creative ed interessanti.

3.

La globalizzazione dell’informazione

L’informazione che caratterizza l’era della produzione immateriale deve essere intesa nel modo più ampio possibile. Attraverso Internet e le nuove tecnologie è possibile controllare a distanza qualunque cosa, e lo sviluppo della tecnologia renderà sempre più semplici queste operazioni. Il controllo a distanza consente di operare anche nella produzione di beni materiali da qualunque angolo del globo, senza doversi necessariamente spostare per effettuare un’operazione. Questo comporta una virtuale estrema mobilità, e la sostanziale inapplicabilità degli schemi classici ai rapporti di lavoro. Anche l’inapplicabilità delle garanzie che nei paesi occidentali le classi lavoratrici hanno ottenuto dopo due secoli di battaglie, poiché diventerà estremamente semplice parcellizzare fino alla singola unità lavoratrice il processo di produzione, recuperando mano d’opera da quei paesi dove le garanzie non sono applicate o lo sono a costi e oneri minori. In altri termini, la globalizzazione dell’economia che Internet induce comporta il pericolo, del tutto attuale, di una recrudescenza dello sfruttamento e della prevaricazione nei confronti delle classi lavoratrici. La risposta a questo pericolo, però, non può essere difensiva, non è combattendo o cercando di impedire la globalizzazione che è possibile risolvere il problema. Questo, sia perché il processo è irreversibile, sia perché, come abbiamo visto, la connettività globale contiene in sé elementi di forza dirompente per la rottura della logica del potere e della prevaricazione. Internet è libertà e soprattutto, non è controllabile se non da una dittatura ferrea ed omogenea in tutto il mondo. La via naturale sembrerebbe quella di riuscire ad estendere in tutto il mondo le garanzie che i lavoratori hanno ottenuto in occidente, ma sembra una via difficilmente praticabile. Perché quelle garanzie sono in discussione e vengono accantonate anche in occidente, e perché i processi di industrializzazione dei paesi terzi non passano necessariamente attraverso il fabbrichismo, e quindi non è affatto detto che si possa individuare un soggetto sociale in grado di prendere coscienza della propria condizione di sfruttamento e di organizzarsi di conseguenza. Anzi le nuove tecnologie rendono estremamente flessibile il processo di produzione, e oltretutto, non è affatto necessario che anche i paesi terzi, per il loro sviluppo, debbano passare

per il predominio della produzione materiale e poi la sua progressiva riduzione. In altri termini, come sta accadendo in India ad esempio, il processo di produzione salta direttamente nell’immateriale, creando delle isole di relativo apparente benessere ma di sostanziale sfruttamento. D’altra parte, se in occidente siamo in grado di mettere in discussione la logica dell’etica del lavoro, l’architrave su cui si fonda il meccanismo di sfruttamento nell’era moderna, la stessa cosa è possibile e necessaria anche in tutto il resto del mondo. Insomma, la lotta non potrà esser limitata alla ricerca di condizioni di lavoro migliori, alla contrapposizione, tutta difensiva, allo sfruttamento in questa o quella produzione, in questo o quel paese. Anche perché non è possibile combattere contro la ristrutturazione e l’automazione della produzione, i licenziamenti di massa, l’invasione delle nuove tecnologie. Combatterle, significa impegnarsi in una battaglia di retroguardia, del vecchio contro il nuovo. Si rischia, oltretutto, com’è già successo in innumerevoli occasioni, di contrapporre quelli che hanno un lavoro e che vogliono difenderlo a tutti i costi, anche contro l’evidenza dell’impossibilità che esso prosegua, a quelli che il lavoro non ce l’hanno e che non hanno alcuna ragione per essere solidali con chi, rispetto a loro, appare come un privilegiato. Insomma, nella società in cui il lavoro tradizionale scompare, non ha davvero senso volerlo difendere a tutti i costi. Noi non dobbiamo combattere per il diritto di essere schiavi, ma per quello di essere umani. Per questo, la battaglia per il reddito di cittadinanza universale, diventa l’unica che possa unire lavoratori e non lavoratori, che possa rappresentare la speranza per tutta l’umanità di uscire dalla logica dello sfruttamento e della prevaricazione, che possa prefigurare una società senza la mercificazione dell’esistenza. Solo se il valore primario diventa la vita e l’umanità di ciascuno, è possibile battere il potere che trasforma tutto in merce, compresa la vita umana. E la battaglia deve esser condotta per il diritto di tutti gli esseri umani, poiché una battaglia per la libertà non può partire stabilendo delle esclusioni. Tutti gli esseri umani hanno il diritto ad un’esistenza libera e dignitosa, e questo diritto deve essere garantito indipendentemente dalla condizione sociale di ciascuno e in ogni parte del globo. Perché l’eguaglianza deve esser intesa come la possibilità che tutti abbiano pari opportunità, non come la castrazione delle differenze. Poiché ciò che conta, alla fine, è che ciascun essere umano abbia la possibilità di perseguire il suo obiettivo, qualunque esso sia.

Per questa ragione, il reddito di cittadinanza deve essere dato a tutti gli esseri umani, anche a quelli, per capirci, che non saprebbero che farsene del reddito di cittadinanza. Ma deve essere chiaro che il reddito di cittadinanza non è una concessione, non è assistenzialismo, non è un modo per dare l’elemosina a chi non ha nulla in nome della carità. Questo è lo scopo, alla fine, di tutte le forme di sostegno alla disoccupazione o alla povertà che sono attualmente in vigore in numerosi paesi europei. E’ la logica dell’assistenza e del pietismo che calpesta la dignità, poiché costringe chi la chiede ad ammettere di esser un fallito, poiché non riesce a trovare una collocazione stabile in questa società. E’ il paradosso della società fondata sull’etica del lavoro, per cui chi non ha lavoro non ha l’essere, non ha la dignità, non è niente. Insomma chi non è schiavo, perché reclama per sé la propria dignità non ha diritto di esistere in questa società, che ha paradossalmente elevato la schiavitù del bisogno a massimo valore. Non è sufficiente piegarsi a fare lo schiavo per poter sopravvivere, è necessario esserne contenti, anelare quella condizione, desiderarla al di là di ogni altra cosa. In cima ai pensieri della gente c’è il lavoro, e poi l’amore, l’amicizia, la bellezza, la felicità, la pace. Per primo viene un lavoro, con cui si può essere qualcuno, ovvero la quantità di soldi che quel lavoro ti dà e che ti consente di sentirti vivo. Questa logica perversa, in cui lo schiavo diventa il modello di vita e la morte il fine dell’esistenza, può e deve essere rovesciata. Dobbiamo batterci per il diritto all’esistenza, per il diritto di fare quello che vogliamo per renderci umani, anche per il diritto di non fare niente di produttivo o che questa società considera produttivo. Perché non è la produzione il fine dell’umanità, e non può essere nemmeno quello della società. Che deve fare in modo che tutti i suoi membri abbiano la possibilità di scegliere quello che ritengono meglio per la loro vita, senza costrizioni, senza ricatti, senza violenze e senza prevaricazioni. Abbiamo mostrato che è possibile in questa società la liberazione dal lavoro per mezzo dell’erogazione del reddito di cittadinanza. Abbiamo anche mostrato che ciò non solo è possibile, ma anche necessario, poiché la produzione immateriale che sta crescendo nella società in maniera straordinaria, ha necessità per potersi attuare compiutamente, di tutte le risorse che gli esseri umani possono esprimere, e che solo nella libertà dal bisogno possono esprimere. La creatività non si compra al mercato, né si produce in fabbrica. Esseri sbattuti all’alba su un treno metropolitano,

verso un lavoro alienante e ripetitivo, e poi risbattuti per poche ore di riposo e stordimento in quegli alveari che chiamiamo presuntuosamente case, con al massimo la prospettiva dell’effimero paradiso artificiale del weekend, paradiso senza colori e senza speranza, non possono esprimere alcuna creatività37. La storia ci ha insegnato che, tranne rare eccezioni, i creativi provenivano sempre dalle classi agiate. Questo per la banalissima ragione che uno spirito creativo ha necessità di essere libero di esprimersi, e se è costretto ad un lavoro massacrante non potrà mai farlo.

37

Cfr. Vaneigem R. Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni, ed. Malatempora, Roma, 1999

4.

La funzione sociale della ricchezza

Sotto un altro profilo, dobbiamo renderci conto che la ricchezza svolge una funzione sociale. Poiché senza la accumulazione del capitale e la raccolta di risorse sufficienti per fare le grandi imprese, non si produce nulla di costruttivo. Non ha senso né combattere l’accumulazione del capitale né battersi perché il capitale accumulato sia gestito “collettivamente”. La storia ci ha dimostrato che la gestione collettiva del capitale genera forme più brutali e stupide di oppressione, e non è scritto da nessuna parte che la qualità degli individui consista nella capacità di gestire il capitale. Il problema, allora, è riuscire ad interrompere la relazione stretta che è intercorsa per secoli tra il possesso del capitale ed il potere. Il fatto che alcuni uomini abbiano maggiori capacità di altri nella gestione dei capitali, è un fatto che deve essere in qualche modo messo al servizio dell’umanità. La maniera per fare ciò è semplice. E’ sufficiente, infatti, spostare la tassazione sui capitali finanziari e allo stesso tempo, istituire il reddito di cittadinanza universale. In questo modo, il capitale finanziario finirà nelle mani di chi è in grado di farlo crescere, altrimenti, in tempi relativamente brevi, le imposte provvedono alla ridistribuzione equa del capitale alla gente sotto forma di reddito di cittadinanza. Le fortune insolenti, quelle per eredità o ricevute senza alcun merito, quelle illegali, sarebbero tutte destinate ad essere smantellate in tempi relativamente rapidi se non usate per la costruzione o la produzione di qualcosa che è utile o gradito, poiché altrimenti andrebbe subito fuori mercato. Bill Gates non sta simpatico a molti, compreso chi scrive che, ogni volta che Windows si impalla, il che accade spesso, gli rivolge pensieri non proprio gentili. Non c’è dubbio, però, che la sua estrema abilità è stata di grande utilità per tutti, dato che senza la Microsoft, staremmo ancora nella logica dei prezzi e della costruzione dei computer della IBM. Se negli ultimi vent’anni il rapporto prezzo/prestazioni dei computer è migliorato di duecentomila volte, lo dobbiamo a Bill Gates ed al suo modo rivoluzionario di architettare i pc, non certo alla IBM o alle altre grandi case di informatica che agli inizi degli anni ’80 dominavano il mercato. Solo il sistema, a metà tra il gratuito e il pagamento di un prezzo basso, che il sistema operativo Dos e poi Windows ha generato, ha consentito la diffusione dei computer che abbiamo oggi e la conseguente diffusione di Internet.

Bill Gates ha accumulato capitali per qualche milione di miliardi di lire, oltre ad una fortuna personale di oltre duecentomila miliardi di lire. Con questa montagna di denaro, continua progettare nuove frontiere, nuove tecnologie nuove conquiste. La sua fortuna personale l’ha conferita in una fondazione per la tutela dell’arte. D’altra parte che cosa ci fa di quella montagna di soldi se non perseguire il suo progetto, le sue idee, le sue ambizioni? Dalle nove del mattino fino a tarda sera sta rintanato nel suo ufficio a lavorare. E’ il primo ad entrare in azienda e l’ultimo ad uscire. Molti suoi dipendenti si sono arricchiti lavorando per la Microsoft, e ciononostante continuano a lavorarci duro senza limiti di orario solo perché credono in quello che fanno. Questo non significa affatto che siano “liberi” dallo asservimento alla logica del capitale, che è la logica della mercificazione. Quella libertà è possibile solo se, alla base, ciascun essere umano ha la possibilità di scegliere in piena libertà come vivere, dove indirizzare le proprie energie e la propria creatività. Certo che, però, rispetto all’abbrutimento del lavoro alienato in fabbrica, è tutta un’altra cosa la partecipazione e la condivisione consapevole degli obiettivi di un progetto.

5.

Internet e l’economia

Tramite Internet, non solo le informazioni vengono diffuse in maniera incontrollabile, ma anche in maniera pressoché gratuita. La gratuità di Internet, per la verità, è stata assoluta fin dall’inizio, poiché essa rifletteva lo spirito solidaristico e comunitario dei pionieri della rete. Una delle ragioni per la nascita degli hackers, è proprio la lotta contro ogni forma di commercializzazione all’interno della rete stessa. Poi sono entrate le grandi compagnie che hanno dapprima cercato di farsi delle proprie reti commerciali a pagamento, poi visto che nessuno aveva alcun interesse ad entrare in una rete a pagamento per prendere qualche prodotto, quando poteva avere molto di più gratuitamente da Internet, si sono tutti riversati nella grande rete. Anche Bill Gates, nel 1996, pensò di fare la propria rete, facendo precipitosamente marcia indietro quando, dopo un anno di sforzi pubblicitari enormi, aveva ottenuto solo qualche migliaio di abbonati. D’altra parte, la gratuità di Internet e delle informazioni che ci circolano dentro si può benissimo sostenere sia per mezzo della pubblicità, sia per gli indubbi vantaggi che la rete offre al tradizionale commercio. Anche se recentemente gli iniziali entusiasmi per le sorti di Internet sembrano svaniti, non c’è dubbio che, rispetto al tradizionale modo di gestire il commercio e l’informazione, la collocazione su Internet comporta notevoli vantaggi. Il commercio tradizionale, infatti, riduce notevolmente sia i costi di struttura che quelli di intermediazione. L’acquisto dei prodotti può essere effettuato dal consumatore direttamente da casa, senza limiti di orario, poiché i computer non chiudono e non riposano, e la consegna a casa è certamente un vantaggio per il consumatore e non rappresenta un onere eccessivo per le imprese, dato il risparmio sugli altri costi. Insomma, è probabile che la maggior parte delle attività commerciali tradizionali si spostino con relativa celerità sul net, causando una vera rivoluzione sociale, dato che costringerebbero in pratica alla chiusura centinaia di migliaia di tradizionali esercizi commerciali. Un esempio, per capire la portata di questa rivoluzione, è dato da quello che potrà accadere nel mondo dell’editoria e della vendita di libri. Amazon.com è la più grande libreria virtuale del mondo, con oltre tre milioni di titoli in magazzino e migliaia di transazioni al giorno. Presso il suo negozio virtuale, è possibile comprare libri con uno sconto tra il 10 e il 20% ed averli a casa nel giro di qualche giorno. Se si

compra più di un libro si risparmia rispetto alla tradizionale libreria, poiché le spese di spedizione incidono poco su ciascuna unità acquistata e oltretutto si ricevono i libri senza muoversi di casa. Certo, questo non è sufficiente perché la gente rinunci al piacere di sfogliare il libro o all’abitudine inveterata di acquistarli all’ultimo momento se devono fare un regalo. Infatti, Amazon.com e le altre case di vendita di libri online, soddisfano appena poco più del 2% della vendita di libri negli USA. Come dire le vecchie abitudini sono dure a morire. E poi uno sconto di pochi punti rispetto al prezzo di copertina è irrisorio e non compensa l’abitudine al libraio di fiducia, che ti indirizza, ti consiglia e ti aiuta nella scelta di un libro. Ma certo le cose potrebbero cambiare se invece dei negozi virtuali, fossero gli stessi editori a vendere i libri in rete, e ancora di più se fossero gli autori, come da qualche tempo accade sempre più spesso. Infatti, l’editore è in grado di offrire le opere dei propri autori in rete ad un prezzo ben minore di quello di copertina, dato che da questo prezzo ricava al massimo il 40%. Il rimanente 60% va, infatti, al distributore e al rivenditore. Ora, nel momento in cui la diffusione di Internet si sarà consolidata e, soprattutto, la velocità di trasmissione avrà superato la lentezza e la congestione attuale, consentendo l’interattività anche vocale e di immediata fruizione con i venditori, è probabile che alcuni editori decidano di fare il salto di qualità puntando decisamente sulla rete e cominciando a vendere i propri prodotti a prezzi decisamente più bassi della concorrenza. Questo provocherà una corsa alla rete di fronte alla quale, quella vissuta finora sarà considerata un niente. Lo stesso potrà accadere negli altri settori del commercio, non appena i produttori si metteranno a vendere i propri prodotti in rete, saltando i tradizionali canali di distribuzione e di vendita. Insomma, il B2C38 è tutt’altro che morto, anzi non è nemmeno ancora cominciato seriamente. L’attuale velocità di trasmissione rende faticoso e relativamente complesso l’accesso al commercio tramite Internet, ma con la rete a fibre ottiche e con i progressi che si profilano nella trasmissione senza fili, a partire dall’UMTS, le cose potranno cambiare in maniera radicale. Sotto il profilo dell’impatto con il commercio tradizionale, quindi, Internet rappresenta l’occasione per una notevole riduzione dei prezzi, con conseguenti benefici per i consumatori ma inevitabili ripercussioni sul piano del38

Ovvero il “business to consumer”, come gli americani chiamano la diffusione della vendita tramite Internet.

l’occupazione e della struttura stessa del commercio. La grande diffusione di Internet è stata dovuta essenzialmente alla gratuità delle informazioni che si possono trovare in rete, ed al costo relativamente basso dell’accesso. Questo costo tende a diminuire, anche se recentemente, c’è stata una battuta d’arresto sul piano della riduzione dei costi per l’accesso, che era arrivata fino quasi alla gratuità. Certamente, la concorrenza tra le compagnie per l’offerta di comunicazione telefonica e di connessione a Internet ha comportato un notevole beneficio per l’utenza, che si è vista sommergere da offerte di prezzi davvero bassi rispetto a quelli praticati dalle compagnie nazionalizzate in tutta Europa fino a qualche anno fa. D’altra parte è abbastanza chiaro quale sia il vantaggio di poter offrire connettività a prezzi stracciati per le aziende del settore. Tutto il mondo dovrà stare in rete nel giro di qualche anno, e più veloce è il processo di trasferimento delle attività sulla rete, maggiori sono i profitti che possono derivare dalla vendita di servizi e dalla pubblicità che viene diffusa tramite Internet. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il veicolo attraverso il quale si è enormemente diffusa la televisione privata in tutto il mondo, e in Italia a partire dagli anni ’80, è proprio la pubblicità. A parte qualche emittente che ha vissuto sulle vendite dirette, per la TV privata nessuno ha mai pagato il canone né ha mai dovuto pagare alcunché per fruirne dei servizi. Questi, infatti, erano pagati tramite la vendita di spazi pubblicitari tra una trasmissione e l’altra e all’interno della stessa trasmissione. Lo stesso tipo di meccanismo, favorisce la diffusione delle attività economiche su Internet, dopo i tentativi falliti di trasformare la rete in una struttura con aree a pagamento per l’accesso a determinati servizi. Alcuni quotidiani americani, per esempio, tra il 1997 ed il 1998, dopo aver lanciato la propria versione online ed aver acquisito qualche centinaio di migliaia di utenti, che ricevevano volentieri la versione telematica del quotidiano, hanno provato a trasformarla in un servizio a pagamento, anche se irrisorio rispetto al prezzo del quotidiano in edicola. Il numero degli abbonati è sceso drasticamente a poche migliaia di utenti, cosicché gli editori hanno dovuto precipitosamente fare marcia indietro e ritornare all’originaria gratuità. D’altra parte, la pubblicità è certamente in grado di coprire i costi e lasciare un buon margine di utile nella gestione di un giornale telematico, considerato che i maggiori costi di un qualunque giornale su carta sono dati appunto dalla carta e dalla distribuzione, che incidono per oltre i due terzi sul prezzo al pubblico.

Così come le TV private possono trasmettere notizie e permettersi redazioni corpose in tutto il mondo (si pensi alla CNN ed ai suoi réportage dall’Iraq o dalla Bosnia), non appena il giornalismo ondine avrà raggiunto una qualità e velocità di trasmissione soddisfacente, anche queste testate saranno in grado di offrire servizi competitivi gratuitamente. La televisione, dal canto suo, si appresta a passare in blocco su Internet, in quella prospettiva di fusione della trasmissione di informazioni che unificherà il telefono, la televisione, e Internet. Le ragioni di questa fusione sono dovute essenzialmente alla superiorità della connettività di Internet rispetto alla trasmissione tradizionale. Cosa che, non solo consente di indirizzare con maggiore efficacia le scelte degli utenti, ma soprattutto modifica in maniera radicale il rapporto tra fornitore del servizio e utente, trasformando quest’ultimo in soggetto attivo da mero spettatore passivo. La differenza è sostanziale, ed incide direttamente sulla natura stessa dei rapporti che chiamiamo economici, avviandoli verso un’evoluzione che lascia prefigurare la fine dell’economia.

6.

La rivoluzione della nuova economia

Nel rapporto economico classico, così come si è configurato storicamente dall’inizio fino ai giorni nostri, i soggetti essenziali per la costituzione di un rapporto economico sono sempre stati due: un venditore ed un acquirente. Altri soggetti potevano intervenire, e anche pesantemente nel rapporto, però non avevano autonomamente alcuna funzione. La compravendita di un campo di grano come di un’abitazione, di una spada come di un pezzo di stoffa, non ha senso senza la presenza dei due soggetti, uno che vende e un altro che compra. In numerose epoche storiche, e naturalmente ancora adesso, per la compravendita di determinati beni occorre l’intermediazione di alcuni soggetti (ad esempio, per poter comprare efficacemente una casa occorre andare dal notaio, o per comprare le azioni in borsa è necessario rivolgersi ad una SIM, intermediario autorizzato ad effettuare queste transazioni). Poi lo Stato interviene spesso ad imporre tasse, controlli ed altre sue prescrizioni sulle transazioni tra privati. Però né gli intermediari, né lo Stato svolgono alcun ruolo autonomo rispetto al rapporto economico fondamentale, che è appunto la compravendita di un bene, ovvero quello che definisce il mercato. Essi possono intervenire solo e soltanto se due soggetti si mettono d’accordo per comprare e vendere qualcosa. Naturalmente i due soggetti possono essere due gruppi di soggetti, cosa che non cambia i termini della questione. A mediare tra i due soggetti protagonisti del rapporto c’è necessariamente il prezzo. Che può essere rappresentato da una somma di denaro, da un calcolo ideale di convenienza, da un qualunque prodotto. Il prezzo è la misura tra i due soggetti del rapporto economico. Il rapporto economico è, quindi, caratterizzato dalla bilateralità che è presente in tutte le forme in cui si è storicamente determinata l’economia. La pubblicità, ovvero l’attività necessaria per far conoscere la qualità e la disponibilità dei prodotti che si intendono vendere, è anch’essa, evidentemente, un accessorio del rapporto economico. E’ un’attività tipica del venditore, ed è rivolta al maggior numero possibile di soggetti potenziali acquirenti. Con la diffusione dei media, la situazione è cambiata radicalmente, e la pubblicità, da accessorio del rapporto economico, ne è diventato elemento costitutivo. Se storicamente il rapporto economico si è dipanato attraverso la relazione di due soggetti, dei quali il venditore for-

niva il proprio prodotto o i propri servizi in cambio di un prezzo ad un soggetto, acquirente o utente, ben determinato, con l’avvento della pubblicità di massa il rapporto muta radicalmente. Perché quell’acquirente svanisce fino a scomparire e la relazione si stabilisce tra il venditore del servizio o dell’utilità ed un altro venditore di beni che, dall’attività del primo trae una propria utilità. La scomparsa degli acquirenti, trasformati in utenti indistinti, innominati e, soprattutto, a titolo gratuito dei servizi del venditore, trasforma in maniera radicale l’originario rapporto economico. Poiché da una relazione a due, questo si trasforma in una relazione tra un soggetto ed una pluralità indistinta, relazione che non è costituita dalla cessione di un servizio a fronte di un pagamento, ma dalla possibilità che questo servizio sia usufruito. In altri termini, quello che era l’acquirente, con i suoi obblighi, tra cui essenziale quello di pagare un prezzo, si trasforma in un soggetto che non ha nessun obbligo, e ciononostante il servizio gli viene offerto lo stesso, sulla potenzialità della resa pubblicitaria di un servizio gratuito. Potenzialità che, com’è noto non costituisce alcun obbligo per l’acquirente, che può tranquillamente rifiutarsi di scontare le conseguenze della relazione tra fornitore del servizio e altro venditore, senza che per questo gli sia tolta la possibilità di ottenere il servizio stesso. In altri termini, non c’è alcun obbligo per l’acquirente né di acquistare i prodotti che vengono pubblicizzati e nemmeno di guardare la pubblicità che viene trasmessa dal media. Lo zapping tra i programmi, quando passa la pubblicità è una delle pratiche più diffuse tra la gente, eppure non comporta alcuna sanzione per l’utente. Insomma, dal tradizionale rapporto a due soggetti, caratterizzato da uno scambio a fronte di un prezzo, lo sviluppo della pubblicità ha indotto un diverso rapporto, in cui uno dei due soggetti della relazione economica scompare come agente del rapporto e diventa mero destinatario di un offerta di un servizio gratuito. Il costo di questo servizio è sostenuto da altri produttori di servizi o di beni, i quali non pretendono neanche essi che i destinatari delle loro iniziative facciano qualcosa o assumano degli obblighi di alcuna natura, ma fondano le proprie iniziative sulla speranza, peraltro più che fondata, che la massa dei destinatari del messaggio pubblicitario reagisca con gli acquisti alla diffusione dei messaggi. Questa reazione, però non costituisce alcun obbligo per gli acquirenti. Questa peculiarità ci fa intendere bene la differenza che passa tra il nuovo rapporto costituito tra i media e gli acqui-

renti, e le offerte pubblicitarie che “regalano” qualcosa a fronte dell’acquisto di un bene. Queste, infatti, si risolvono in uno sconto sul prezzo del bene che viene effettivamente venduto. Nel caso dei media, invece, assistiamo ad una vera e propria trasformazione del rapporto economico in un’altra cosa, la cui caratteristica è data dall’offerta gratuita di servizi, a fronte della quale gli “acquirenti” non hanno alcun obbligo. Nessuno gli impedisce, infatti, di rifiutare l’offerta di immagini pubblicitarie cambiando canale al momento giusto o semplicemente andandosi a prendere un caffè. E se è vero che la pubblicità dispiega lo stesso i suoi effetti, anche se il destinatario è distratto, è anche vero che la coscienza di questo fenomeno fa sì che ci si possa sottrarre più facilmente all’impulso di seguire il suggerimento pubblicitario. Insomma, l’irruzione della logica della pubblicità nella produzione, determina le condizioni per le quali i beni possono essere ceduti gratuitamente, senza che il produttore ne soffra, ma anzi rendendolo molto più ricco di quanto non sarebbe stato se avesse offerto gli stessi servizi a pagamento. La ragione di questa esplosione della pubblicità come motore dell’economia è semplice. In presenza della possibilità di un incremento dell’offerta di beni, era necessario incrementare la domanda in maniera proporzionale. Ora questo era possibile solo attraverso massicce campagne pubblicitarie che hanno trovato un naturale veicolo nei media televisivi. Allo stesso tempo, la crescente domanda di pubblicità ha reso possibile un forte sviluppo degli stessi media che, offrendo gratuitamente i propri prodotti, hanno raggiunto facilmente strati sempre più ampi di popolazione ed incrementato in maniera esponenziale i propri guadagni. Il nuovo rapporto che si è costituito vede, da una parte un soggetto che produce e dall’altra una massa indistinta e passiva di potenziali fruitori di quell’offerta. L’utente non può interagire con l’offerta del bene che gli viene proposta se non rifiutandola, o prendendone solo una parte, ma la sua figura è meramente passiva. L’avvento di Internet modifica di nuovo questo inedito schema. Infatti, su Internet il destinatario può interagire con l’offerente per indirizzare l’offerta che gli viene proposta e per modificarla se lo ritiene opportuno. Il fondamento dell’economia su Internet è essenzialmente anch’esso gratuito. Internet, per la verità, nasce proprio come scambio di informazioni di tutto con tutti, su qualsiasi argomento, da qualsiasi paese, in qualunque lingua. Abbiamo visto che i tentativi di trasformare Internet in una

rete a pagamento sono miseramente naufragati nella metà degli anni ’90, quando la Microsoft fu costretta a chiudere la propria rete e ripensare le proprie strategie relativamente ad Internet. Anche quelli che si sono messi a fornire informazioni a pagamento, hanno dovuto fare retromarcia e continuare il proprio servizio gratuitamente, pena l’esclusione dalla rete. Alle informazioni, nella rete si aggiunsero ben presto anche i programmi, che venivano offerti in gran quantità, sia shareware che freeware, vale a dire sia dietro pagamento di una somma a piacere dell’utilizzatore che completamente gratis. Ovviamente, lo scaricare un programma shareware senza pagare non comportava alcuna sanzione, ma non era considerato un gesto leale da parte degli internauti perché rendeva difficile la prosecuzione dell’elaborazione dei programmi. La gran parte di questi programmi, giochi, programmi di scrittura, antivirus e utilità varie, erano compatibili con il sistema operativo DOS che era alla base del funzionamento dei programmi della Microsoft. Gli altri sistemi operativi, come quello della Apple, ad esempio, che certamente funzionava meglio del DOS, non erano però praticati a causa del linguaggio troppo complesso per i programmatori dilettanti e appassionati del net, che, quindi, non erano in grado di costruire prodotti compatibili. Per questa ragione, nonostante dal punto di vista qualitativo, DOS e poi Windows fossero certamente inferiori a Apple, il sistema della Microsoft si diffuse in maniera esponenziale, mentre Apple rimase circoscritta essenzialmente ad un nutrito gruppo di appassionati. Il segreto della Microsoft, è quindi consistito nella facile operatività sui suoi programmi, che consentiva una larga diffusione dei servizi offerti gratuitamente su Internet ed obbligava chi volesse usufruire dei programmi gratuiti ad acquistare il suo sistema operativo. Questa particolare configurazione delle prestazioni di servizio indotte da Internet, costituisce un’ulteriore novità rispetto al sistema di diffusione gratuita in cui gli utilizzatori sono dei soggetti puramente passivi. La novità consiste nel fatto che su Internet, gli utilizzatori cominciano ad interagire con chi offre il servizio e anche tra loro. La principale novità della trasmissione dei dati e delle informazioni su Internet è, infatti, proprio data dall’interattività. Caratteristica che consente ad entrambi i soggetti del rapporto di essere soggetti attivi. Trasferita sul piano economico, questa interattività ha determinato la produzione di milioni di programmi, che hanno a

loro volta determinato la grande diffusione della rete nel mondo. L’ulteriore sviluppo di questa interattività è dato dai sistemi “Open source”, ovvero i sistemi operativi cui chiunque abbia la capacità di farlo, può aggiungere qualcosa, una caratteristica, una funzione, un’estensione. Sia gratuitamente che secondo la logica shareware, ovvero il pagamento del piccolo obolo a piacimento dell’utente. L’open source si sta diffondendo a macchia d’olio su Internet e certamente rappresenta una grande novità, soprattutto perché modifica la struttura del rapporto economico. In esso, infatti, i consumatori diventano a pieno titolo produttori, stabilendo un rapporto di scambio intrecciato che comporta una crescita esponenziale ed un’utilità reciproca. In questo contesto, diventa difficile distinguere appieno tra produttori e consumatori. Indipendentemente dalle dimensioni, i consumatori sono anche produttori e i produttori sono anche consumatori in un intreccio che diventa sempre più inestricabile e che genera le condizioni per una grande rivoluzione. Un prodotto come Windows, non viene prodotto interamente dalla Microsoft, nonostante questa sia la più grande società del mondo, ma è composto dal software realizzato da decine di diverse aziende. Nell’”ambiente windows”, girano centinaia di migliaia di programmi elaborati in tutte le lingue del mondo da centinaia di migliaia di piccoli produttori che sono anche consumatori degli stessi prodotti. Il sistema cresce in maniera esponenziale proprio perché questa massa di produttori consumatori opera in maniera così intensa. E i risultati si vedono. Il computer è diventato uno strumento indispensabile in tutte le case, la connettività ad Internet è anch’essa praticamente indispensabile, tutti i più diffusi servizi si stanno spostando sulla rete dove possono essere distribuiti a costi decisamente minori e con una resa notevolmente maggiore. L’Internet Banking si sta diffondendo a macchia d’olio anche in Italia, e i TOL, ovvero i Trading On Line, che consentono di operare in borsa e sul mercato finanziario da casa, stanno cambiando radicalmente la composizione sociale degli operatori finanziari. Fino a qualche anno fa, infatti, questi erano in tutto il mondo poche decine di migliaia di pagatissimi professionisti specializzati. Oggi, l’operatività di borsa e sul mercato finanziario viene effettuata in tutto il mondo già da qualche milione di traders, attraverso gli strumenti telematici ed a costi decisa-

mente inferiori a quelli di prima39. Questa situazione sta cambiando in maniera radicale anche l’approccio e la stessa operatività di borsa, dato che l’irruzione di un gran numero di operatori, anche se con piccole quote ci capitale ciascuno, aumenta la volatilità dei mercati in maniera esponenziale e cambia i tradizionali rapporti di forza sul mercato finanziario. Questo evento non è senza conseguenze nel nuovo assetto dell’economia mondiale. Oltre ai sistemi operativi, anche i giochi elettronici si sono da qualche tempo avviati verso la crescita nell’interattività totale. E presto la stessa cosa accadrà agli spettacoli ed all’intrattenimento in genere. Nei giochi e nell’intrattenimento in genere, l’interattività e la possibilità di aggiungere, semplicemente giocando, nuove dimensioni al gioco preferito guadagnandoci pure sopra, sono destinate ad un grande sviluppo, per la semplice ragione che rendono il tutto molto più interessante e divertente. E soprattutto mettono il sistema in condizione di crescere in maniera indefinita, fondandosi sullo scambio e la creatività degli utenti, che in questo modo diventano anche produttori di un prodotto che consumano e che contribuiscono a creare. Napster è un esempio di come le nuove tecnologie e la logica dello scambio possono incidere in maniera determinate sui vecchi rapporti economici. Nonostante il diktat imposto dalle autorità americane a tutela del copyright, la apparente vittoria delle case discografiche si sta rivelando una vittoria di Pirro. Poiché non solo Napster continua a vivere e solo una parte dei file musicali che vengono scambiati sono assoggettati ad un pagamento che è comunque di gran lunga inferiore a quello necessario per l’acquisto di un disco, ma stanno sorgendo in tutto il web altre “Napster” che non si assoggettano alla legge del mercato e proseguono nella distribuzione gratuita dei files musicali attraverso lo scambio tra i membri della comunità. Questo fenomeno trasformerà in maniera radicale la logica stessa del copyright, fino a farla scomparire. La maggior parte dei costi di questo sistema è retto dalla pubblicità, attualmente. E anche nel prossimo futuro la pubblicità produrrà il maggiore sforzo per sostenere il sistema. D’altra parte maggiore è la dimensione dei fenomeni, minore può esser il prezzo unitario per ciascun utente, e di conseguenza maggiori possono essere i guadagni per chi opera nel settore. Allo stesso tempo, questo meccanismo attira 39

Da dieci a venti volte di meno. Al tradizionale borsino ogni acquisto veniva gravato di una percentuale che oscillava tra lo 0,75 e l’1,5% del prezzo pagato. Oggi un TOL medio non costa più dello 0,1% del prezzo, ma moltissimi applicano commissioni fisse molto basse, da 5 a 10 euro per operazione indipendentemente dal valore dell’operazione.

sempre più utenti–produttori verso il prodotto che è in grado di assicurargli guadagni cospicui semplicemente tirando fuori un’idea che piace alla gente. Allo stesso modo, l’interattività finirà per coinvolgere la maggior parte delle attività intellettuali, soprattutto perché la diffusione capillare della conoscenza induce necessariamente alla interazione per la produzione di elaborati soddisfacenti. Questa situazione sta già cambiando in maniera radicale la geografia del lavoro. Da una schiacciante preponderanza di lavoratori dipendenti, siamo passati da qualche tempo, ad una preponderanza di lavoratori autonomi. E mentre le attività di produzione materiale si automatizzano sempre di più, espellendo manodopera dalle fabbriche, anche gli Stati riducono in maniera drastica la burocrazia, perché non sono più in grado di sostenerne i costi, e le aziende di servizi tendono anche esse ad organizzarsi con strutture che gestiscono il lavoro autonomo, più che ad assumere nuovo personale dipendente. In altri termini scompare l’organizzazione gerarchica del lavoro e delle funzioni, e con essa scompare la maggiore fonte di riproduzione del potere. La parola d’ordine della politica è diventata che il lavoro occorre inventarselo, dato che non c’è più nessuno o quasi in grado di darlo, com’era accaduto ai tempi dell’industrializ-zazione di massa. I lavoratori autonomi, sono tutti produttori e consumatori principalmente di attività immateriali, dato che qualunque attività autonoma ha necessità del complesso contesto determinato dall’insieme delle altre per potersi esprimere compiutamente, e spesso anche per avere un senso. Solo dieci anni fa non era nemmeno possibile immaginare molti profili professionali che oggi occupano milioni di persone in tutto il mondo. E non possiamo certo prevedere quali saranno le nuove professioni che sorgeranno da qui ai prossimi dieci anni. Per secoli, le attività umane sono state legate essenzialmente all’agricoltura ed all’esercito, con pochi e privilegiati intellettuali che si occupavano di pensare, scrivere, governare, educare, decidere per tutti. L’industrializzazione ha diviso gli uomini in contadini, operai e soldati, sempre guidati da quel piccolo nucleo di intellettuali che hanno fatto, in bene e in male, la storia del mondo. La nuova rivoluzione che sta sconvolgendo l’economia, ha creato migliaia di diverse attività talmente scoordinate tra loro che è difficile accorparle se non utilizzando categorie del tutto arbitrarie, o utilizzando la dizione affatto generica di lavoratori dei servizi che non dice assolutamente nulla.

Per la prima volta nella storia dell’umanità, è impossibile identificare le classi sociali per l’attività che svolge, oltre che per il censo. Svanisce l’antica abitudine del potere di inquadrare gli uomini in schemi predefiniti di attività per poterli controllare meglio. Scompare una delle forme tipiche dell’esercizio del potere: la gerarchia, la collocazione on un gruppo funzionale agli interessi del potere, della produzione.

7.

Filosofia della nuova economia

Ciò che caratterizza la nuova economia, è quindi il fatto che per la prima volta nella storia scompare uno dei termini del rapporto economico. Che, insomma, questo non ha più come presupposto necessario un venditore ed un acquirente predeterminati, intorno ai quali si muove tutto il sistema. Una parte crescente della produzione deve essere ceduta a titolo gratuito, a utenti innominati che, a loro volta, tendono a diventare anch’essi produttori contribuendo a generare un rapporto tra più parti. La costituzione di questo rapporto plurilaterale non è però, condizione necessaria per l’instaurazione dei nuovi rapporti economici, poiché l’offerta è sempre e necessariamente rivolta ad un pubblico indistinto ed anonimo di utenti. In altri termini, mentre nell’ambito della vecchia economia, l’individuazione dei soggetti del rapporto era essenziale per lo svolgersi di esso, adesso questa predeterminazione non è affatto necessaria. L’offerta di servizi avviene sulla probabilità che il servizio abbia una resa economica, non sulla certezza di questa resa. Queste considerazioni riflettono il cambiamento radicale del modo stesso di intendere l’economia. Questo cambiamento nasce dal progresso tecnologico e dalla marginalizzazione dei consumi. Mi spiego meglio. Nell’economia originaria, le probabilità che una parte del prodotto non venisse consumata, erano irrisorie e dipendevano più da perdite che da eventi di mercato. Insomma, in una situazione in cui la domanda è sempre maggiore dell’offerta, quale quella che si è verificata fino all’era della produzione di massa, le possibilità che un prodotto anche di cattiva qualità rimanesse invenduto erano comunque scarse. L’industrializzazione e la produzione di massa cambiano la situazione. Vengono immessi sul mercato prodotti di sempre minore utilità marginale rispetto ai bisogni della popolazione. La stessa produzione alimentare, con la soluzione del problema della fame nei paesi dell’Occidente, si marginalizza e l’ampia scelta tra i prodotti fa sì che alcuni di essi rimangano invenduti. Il fenomeno è molto più evidente con le produzioni di beni non di prima necessità e con le produzioni immateriali. In questo modo la pubblicità assume un ruolo essenziale per garantire la vendita del prodotto sul mercato, fino al punto che essa assume il ruolo principale nella determinazione del rapporto economico.

Allo stesso tempo, si è determinata la massificazione dei consumi e della produzione. Più è elevata la produzione, più basso può essere il costo unitario del prodotto, e maggiore diventa la necessità di una campagna pubblicitaria efficace per la diffusione la più ampia possibile di questa produzione. La pubblicità diventa quindi un elemento della produzione, generando a sua volta un enorme apparato di produzione di servizi che essa stessa sostiene allo scopo di diffondere meglio i propri prodotti. E’ ovvio che scopo della produzione è sempre il profitto e la vendita, ma già da questo punto comincia a verificarsi il cambiamento. L’ingresso della pubblicità come agente principale e motore del commercio, modifica il rapporto economico fondamentale. L’apparenza è che, mai come in questo momento, il denaro e la produzione abbiano avuto un ruolo preminente nella società, ma in questo dominio sono contenuti gli elementi per il suo superamento. Il momento critico successivo, è dato dalla smaterializzazione della produzione, che da una parte aumenta la necessità del ruolo preminente della pubblicità nella produzione, e dall’altra consente la cessione gratuita di una parte sempre più consistente di prodotto, poiché i costi di produzione si riducono notevolmente. In altri termini si assiste al fenomeno che una quota crescente della produzione di beni finisce nell’area della cessione gratuita, e la sua produzione è giustificata e sorretta dalla cessione onerosa di una o poche componenti di quella complessa produzione. Nella produzione immateriale questo fenomeno è chiarissimo. L’abbiamo individuato, ad esempio, nel processo di produzione di software, dove una parte vieppiù minore della produzione è a pagamento, mentre la parte maggiore è offerta gratuitamente. Contemporaneamente, il denaro si smaterializza anch’esso e perde ogni contatto con la fisicità di un qualunque bene. Tende cioè a diventare essenzialmente strumento di misura. In questo quadro, il momento successivo è rappresentato dalla parcellizzazione della produzione immateriale e dalla partecipazione degli utenti consumatori alla produzione. I prodotti, sfuggono dall’ambiente circoscritto della fabbrica e del campo, e anche da quello più articolato ma sempre della stessa natura della collaborazione tra diverse fabbriche per la produzione di prodotti sofisticati. Nel senso che il rapporto che si configura esula dalla logica della divisione del lavoro, che è comunque organizzata da un centro. La parcellizzazione della produzione indotta dalla nuova economia, non conosce né quante persone parteciperanno,

né come, alla configurazione finale del prodotto. Tanto meno ne conosce l’identità fisica. In realtà non si può parlare, in alcuni casi, nemmeno di prodotto finale, com’è evidente nel caso dell’open source, e comunque dei programmi software, la cui utilizzabilità è garantita anche in corso d’opera. A maggior ragione il discorso vale per i giochi interattivi, per l’intrattenimento, per la diffusione di musica e per le produzioni intellettuali in genere, dove non è nemmeno necessaria una generica appartenenza al novero degli esperti di computer per partecipare alla produzione. Questa partecipazione in genere non è remunerata, o lo è in misura molto mediata, vale a dire che la partecipazione consente di utilizzare il prodotto ad un livello tale che rende possibile un utile molto elevato se si raggiungono determinati obiettivi. In altri termini, il produttore-consumatore, attraverso l’abilità che acquista utilizzando e contribuendo alla creazione del prodotto, acquista anche la possibilità di creare qualche cosa di originale che gli potrebbe rendere un grande utile. Insomma una specie di partecipazione alla lotteria, in cui l‘estrazione del numero giusto dipende anche dalla nostra abilità e dalla fortuna di riuscire ad una soluzione di gradimento di molti altri utenti. Occasionalmente, infatti, certe risultanze del prodotto riescono ad ottenere un prezzo sul mercato, generando, spesso, guadagni molto elevati. Per esempio, un programma shareware di largo interesse che venga immesso il rete al prezzo pressoché simbolico di un dollaro (poco più di duemila lire), acquistato da un milione di persone, genererebbe ai suoi inventori un milione di dollari, vale a dire un paio di miliardi di lire. Ma la maggior parte di questa produzione, esula dalla logica del profitto immediato, e si inserisce in un contesto del tutto nuovo dello scambio e del profitto mediato dalla possibilità di poter cedere la propria professionalità e le proprie idee. In altri termini, se non si comportassero in questo modo, i produttori di idee non avrebbero la possibilità di ricavare alcun utile dalla propria attività, né potrebbero farsi conoscere da un pubblico sufficientemente vasto da giustificare la propria produzione. Con il suo contributo, il produttore-consumatore può usufruire del prodotto di migliaia di altri anonimi produttori–consumatori dai quali riceve il loro prodotto. Questa situazione, disegna un contesto nel quale la produzione non si divide, ma si moltiplica e la ricchezza consiste proprio nella moltiplicazione esponenziale della produzione che deriva dallo scambio gratuito. Questo nuovo indirizzo della produzione nell’ambito del software, tende a riprodursi in tutte le aree della produzione

immateriale che, come abbiamo visto, vanno dall’intrattenimento alla progettazione, dalle attività professionali a quelle intellettuali in genere. Quale dimensione può occupare nel mondo dell’economia questa nuova maniera di produrre? Abbiamo visto che la produzione immateriale rappresenta, già da qualche tempo, la maggior parte della produzione, ed è chiaro che questo discorso ha un senso solo nell’ambito della produzione immateriale, anzi meglio nell’ambito della produzione della nuova economia di cui definisce la struttura. La vecchia economia continuerà per molto tempo a rispondere alla vecchia logica del profitto e del rapporto bilaterale, sostenendo peraltro, anche il nuovo mondo per un lungo periodo. La pubblicità, infatti, si fonda sulla compravendita di beni e senza quella cesserebbe di colpo. Però, in proporzione al totale del prodotto, la vecchia economia sta cedendo progressivamente terreno e si calcola che nel giro di dieci anni essa rappresenterà, nel suo complesso, solo il 10% del Prodotto Interno Lordo dei paesi occidentali. Anche se occorressero vent’anni per arrivare a questa proporzione, e tale previsione si rivelasse completamente sbagliata, la situazione non cambierebbe. La produzione di beni materiali è destinata ad incidere sempre meno sul totale del prodotto di un paese avanzato. La conseguenza è che le aree di gratuità sono destinate ad incrementare in maniera esponenziale, e ad occupare la maggior parte dello spazio della produzione. Non è una grande novità nella storia dell’umanità. Solo cento anni fa, la maggior parte della popolazione dei paesi occidentali viveva in campagna facendo il contadino e ricavando, dalla propria attività, il minimo indispensabile per sopravvivere e a volte nemmeno quello. La novità consiste nel fatto che l’intero mondo della produzione si sta trasferendo sul piano virtuale, che gli stessi mezzi di scambio sono virtuali e che questo ci consente di prefigurare la fine dell’economia come attività preminente per gli uomini. In questo contesto, la tecnica ci può fornire gli strumenti per virtualizzare anche la produzione di beni materiali, ovvero di quei beni che sono necessari alla sopravvivenza fisica. Il biotech decente, non quello per il profitto, prefigura un mondo in cui la produzione alimentare possa essere suffi-

ciente e a poco prezzo non solo per i paesi occidentali ma per tutto il mondo. Ci prefigura un mondo in cui in cui non ci siano più malattie e la vita diventi molto più lunga. La tecnica in sé è neutra. E’ il potere che la rende odiosa, che la fa percepire come un pericolo, usandola solo per generare il profitto. Messa al servizio dell’umanità essa diventa, al contrario, uno strumento straordinario per la liberazione. La trasmissione a distanza, ci prefigura un mondo in cui anche il trasferimento di cose materiali può avvenire senza costi e in quantità illimitate. Non è un futuro molto lontano se siamo già in grado di trasferire un virus da una parte all’altra del mondo senza dover usare un mezzo di trasporto, ma semplicemente riproducendo il suo stato quantico40. Ma a prescindere dal futuribile, sul quale non possiamo certo fondare le speranze per un nuovo mondo, già oggi e, a maggior ragione nel breve volgere di qualche decennio, è possibile che la produzione destinata alla sopravvivenza, ovvero i beni materiali che dobbiamo necessariamente consumare per mantenerci in vita, siano distribuiti equamente e gratuitamente tra tutti. L’istituzione del reddito di cittadinanza comporta, attualmente in Italia, la distribuzione di circa il 25% del Prodotto Interno Lordo del paese. Questa distribuzione avverrebbe di fatto relativamente ai beni di prima necessità e di largo consumo. Inoltre, il reddito di cittadinanza costituirebbe uno stimolo potente per gli incrementi di produzione, sia perché libererebbe una quantità enorme di energie intellettuali che sono essenziali per la produzione immateriale, sia perché genererebbe una domanda forte ed in continua crescita. Relegando la logica del profitto al termine di un processo di produzione che per sua natura tende ad essere senza fine, il profitto tende a scomparire e di fatto gli uomini si liberano dell’economia. Lo stesso denaro, come strumento di misura, diventa assolutamente neutro e cessa di svolgere la sua funzione di generatore di potere e di disuguaglianze. Alla fine il denaro non sarà più necessario. Quando sarà perfettamente virtuale e esclusivamente uno strumento di misurazione ci si renderà conto che, solo come tale, è del tutto superfluo. In fondo al tunnel del bisogno e della necessità si vede la luce della liberazione dell’umanità. Luce che è la creatività, lo scambio senza corrispettivo, la produzione senza fine di lucro. Non occorrerà molto tempo perché ciò si verifichi. 40

A Innsbruck nel 1998 è stato trasferito a distanza un fotone, e gli scienziati si apprestano ad effettuare la stessa operazione per una struttura molto più complessa come un virus. Non siamo ancora in grado di teorizzare il trasferimento di corpi più complessi di un virus, ma cominciamo a saperne abbastanza sulla struttura della materia per immaginare che questo evento non sia troppo lontano.

Occorrerà però liberarsi del potere come strumento di regolazione dei rapporti tra gli uomini, poiché è nel potere che il profitto trova il suo naturale presupposto. Ma abbiamo visto come il potere stia declinando in tutto il mondo e come, soprattutto, esso non trovi alcuno spazio nel mondo virtuale, come qui non possa incidere né esser efficace.

8.

Proprietà e accesso

La via che ha preso l’economia definisce in maniera del tutto diversa il tradizionale rapporto degli uomini con le cose. Non è più, infatti, necessario né conveniente, avere la proprietà dei mezzi di produzione e dei prodotti finiti non consumabili ma è certamente più utile poterne usufruire secondo la necessità. Questo diverso rapporto con le cose, non muta la sostanza del tradizionale rapporto economico, poiché l’accesso ai beni non è altro che una modalità di estrinsecazione della proprietà. Anzi, è la stessa proprietà che si definisce come una limitazione all’accesso ai beni di cui qualcuno si è impadronito. Insomma, non c’è alcuna differenza essenziale tra la proprietà e l’accesso, poiché questo altro non è che una modalità di estrinsecazione della proprietà. Però è indubbio che una cosa è dover pagare per la proprietà di un bene, altra per il suo uso temporaneo. La possibilità di accedere a pagamento ai beni, ci consente di disporre di un numero ben maggiore di strumenti che possiamo utilizzare secondo la necessità. Inoltre, la proprietà definisce un rapporto perenne con le cose, mentre l’uso esclude ogni complicazione sul piano affettivo. Chi è proprietario tende a conservare la cosa al di là della sua effettiva utilizzabilità, poiché ha instaurato con quella cosa una relazione diretta, in cui cioè riflette la sua personalità. Al contrario, una relazione temporanea con il bene, per il tempo necessario al suo utilizzo, non crea alcun tipo di relazione affettiva e nessuna dipendenza. Nel mondo occidentale, la rottura dell’idea di proprietà come essenziale per il rapporto con le cose, è iniziata con l’elaborazione della figura giuridica del leasing, elaborata soprattutto per l’esercizio dell’impresa e per legare alla produttività delle macchine il pagamento del bene. Lo scopo era evidentemente quello di vendere più macchine attraverso una forma atipica di indebitamento, che non gravava nemmeno sui conti dell’azienda. L’importo del leasing, infatti, non è considerato un debito, così come il bene acquisito non è considerato nell’attivo patrimoniale, poiché esso resta di proprietà della società concedente. Dalle macchine per l’esercizio dell’impresa, il leasing si è rapidamente esteso ad ogni tipo di bene che non sia immediatamente consumabile, comprese le case e le aziende. Nell’immateriale, il concetto si è poi raffinato ed esteso.

Per Rifkin41 è probabile la nascita di grandi multinazionali dell’accesso che daranno nel mondo fisico la disponibilità di ogni tipo di bene e nel virtuale controlleranno l’accesso a tutto Internet, disegnando una nuova forma di potere. In realtà l’accesso ad Internet, che era relativamente oneroso fino a pochi anni fa, sta diventando sempre meno costoso ed è offerto gratuitamente da molti provider. Certamente il costo per l’accesso, che non dobbiamo dimenticare in Europa e soprattutto in Italia, era molto elevato fino a soli tre o quattro anni fa, è sceso precipitosamente ed oggi è inferiore di almeno i tre quarti del prezzo di allora. Tutti coloro che hanno provato a creare reti a pagamento, come abbiamo visto, hanno dovuto fare rapidamente marcia indietro. Internet e la creazione di informazioni sono essenzialmente gratuiti, e tali resteranno nonostante gli sforzi di molti di assoggettare la rete alla logica del profitto e del potere. La gratuità sostanziale di Internet e la progressiva riduzione del costo dell’accesso ci riconducono alle considerazioni che abbiamo formulato nel capitolo precedente, e non all’ipotesi della creazione di una nuova forma di potere forte nel mondo. In realtà, nella storia dell’umanità, il potere si è sempre fondato su un forte controllo sull’informazione, sia sulla sua produzione che sull’accesso ad essa. Questo controllo è stato esercitato nelle forme più varie. Dal renderla sacra e riservata a pochi eletti, al renderne difficoltoso l’accesso, sino al bombardamento mediatico che, nella versione nazi-bolscevica consisteva essenzialmente di propaganda diretta. In quella pseudo-democratica odierna, molto vicina alle pratiche di Goebbels o del bolscevismo42., consiste nella sublimazione del nulla, l’importante è che la gente non abbia la possibilità di trasmettere notizie o informazioni in contrasto con la verità del regime Sostenere che ora, attraverso Internet, si stiano creando i presupposti per un largo controllo dell’informazione, significa dimenticare sia quello che è accaduto nei tremila anni passati, sia che attraverso Internet non c’è modo di controllare alcunché, come abbiamo visto sopra, nemmeno attraverso il bombardamento del nulla cui in potere neo-mediatico ci ha sottoposti in questi ultimi anni. Non dobbiamo farci ingannare nemmeno dal progetto della Microsoft e di altre multinazionali dell’hi tech, di integrare i sistemi di comunicazione in un unico modello flessibile e di fornire accesso e gestione dei dati dietro il pagamento di un fee periodico. L’obiettivo del progetto è di rendere compati41

Rifkin J., L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori Editore, Mi, 2000 42 Cfr Noam Chomsky, Atti di aggressione e controllo, Troppa editore, Mi, 2000, pag. 152 e segg.

bili tutti i sistemi di comunicazione e conservazione dati, dal pc di casa, al portatile, a quello della macchina, al telefonino in tutte le sue varianti, al satellitare. In questo progetto, la Microsoft si è alleata con la Qualcomm e con Palm, le grandi multinazionali americane leader mondiali rispettivamente nei telefonini e nei portatili, per lo sviluppo di XML, il linguaggio evoluto dall’HTML che consentirà di integrare tutte le diverse componenti e metterle in grado di dialogare tra loro e costruire “.Net”, il nuovo esercizio di accesso e conservazione dati integrato. L’evoluzione del linguaggio di comunicazione, consentirà anche di non avere più necessità di strumenti sempre all’avanguardia per l’accesso alle informazioni ed ai programmi più evoluti, poiché sia le informazioni che i programmi sarebbero presso il server centrale di “.Net”. In pratica si noleggerebbero sia gli strumenti di comunicazione, vale a dire l’evoluzione dei programmi, sia la gestione dei dati che lo spazio per la loro collocazione fisica, e il tutto sarebbe accessibile anche da un ferro da stiro, purché in grado di connettersi a Internet. Ho calcolato che la somma dei fatturati attuali delle società che mi risultano coinvolte nel progetto “.Net”, quintuplicherebbe se un miliardo di persone fossero disposte a pagare un dollaro al giorno per utilizzare il servizio. Ovviamente senza considerare le altre attività che Microsoft, Qualcomm, Palm e le altre conducono già da ora. Insomma, un grande business per tutti, sia per le società che si sono lanciate nel progetto sia per gli utenti, perché la possibilità di utilizzare un simile servizio ad un costo pari alla metà di quello che si spende oggi per il miglior contratto flat di solo telefono in circolazione sarebbe davvero un bel risparmio. Da un altro lato, l’idea puzza un po’ di Grande Fratello, dato che comunque, tutte le informazioni che ci riguardano sarebbero presso il server di “.Net”, a disposizione di chi volesse usarle per propri perversi fini. Ma questa, credo, è solo l’apparenza. Già oggi, le nostre informazioni sono a disposizione del potere politico e poliziesco dei paesi del mondo, che sanno perfettamente tutto quello che gli occorre sia su di noi che sulle nostre attività. Sia per ragioni fiscali che burocratiche, infatti, siamo tenuti a fornire tutti i nostri dati per ottenere anche il più banale certificato, e li dobbiamo fornire non ad un privato ma proprio a chi è deputato istituzionalmente al controllo politico e ideologico. Istituzioni che sono perfettamente in grado di conoscere anche ciò che volessimo tenere riservato e segreto, grazie ad una tecnologia che consente di fotografare un francobollo da un satellite, o di ascoltare una conversazione

da chilometri di distanza. D’altra parte, mentre è chiara la ragione che spinge un potere politico a cedere alla tentazione di utilizzare anche illegalmente le informazioni di cui è in possesso, non vedo per quale ragione un gruppo come “.Net”, e gli altri che seguiranno, debba essere colto dagli stessi pruriti. Con la conseguenza che, se per caso si dovessero scoprire trame oscure in danno degli utenti, tutto il progetto crollerebbe per il trasferimento in massa degli utenti verso la concorrenza. Insomma, il Grande Fratello presuppone sempre un potere politico mondiale che controlli in maniera ferrea le informazioni, da chiunque siano detenute. Vale a dire che il pericolo non è nella Microsoft, né in Qualcomm o nella Seat, ma nei progetti della politica di sottoporre a controllo le informazioni e la loro gestione. A parte il fatto che non è scritto da nessuna parte che per la gestione di informazioni riservate e per la loro diffusione su Internet si debba necessariamente utilizzare il server del grande fratello. Echelon, il sistema di ascolto mondiale delle conversazioni al telefono e su Internet, organizzato dall’Intelligence e dalla Cia in Inghilterra, non è stata inventata né dalla Microsoft né da alcuna altra grande compagnia multimediale del mondo, ma dalla politica. Quella sporca politica che ancora ragiona secondo le logiche degli anni ’50 e che non esita a proiettare sugli altri i propri sporchi pensieri e le proprie sporche voglie di potere. Come appunto hanno tentato di fare con Internet, accusando di tutte le loro nefandezze il mondo della libertà. Ecco, questa è diventata la politica. Alla fine non ci saranno guardiani sulle porte di Internet più severi di quelli che ci sono stati finora. Anzi i guardiani sono sempre più piccoli, soli e distratti. Se basta un nonnulla per eludere il loro tentativi di controllo, significa anche che come guardiani non sono un gran che. Se pensiamo a quello che combinavano le SS, l’OVRA, il KGB e la CIA ai tempi in cui pure pensare era pericoloso, questi guardiani dei nostri tempi ci sembrano le caricature di pietra di quelli.

9.

Il denaro e la nuova economia

Questa evoluzione non esclude, per ora, che tutte le attività vengano misurate in denaro. Anzi l’impressione che si ricava comparando il sistema attuale a quello di vent’anni fa è che il denaro è sempre più misura di tutto, e che la sua presenza, non solo è invadente e spesso intollerabile, ma che non è nemmeno immaginabile un sistema che possa farne a meno. A maggior ragione, se ritorniamo agli anni Trenta o a quelli del secondo dopoguerra, quando in tutta Europa le attività basate sul denaro erano relativamente scarse rispetto al totale delle attività. La maggior parte dei contadini, ad esempio, aveva un rapporto solo occasionale con il denaro, e ancora nel primo dopoguerra i contadini rappresentavano la maggioranza della popolazione. Sulla scorta di queste considerazioni, Keynes poteva sostenere che una qualsiasi imposta sul denaro sarebbe stata facilmente elusa per mezzo dell’utilizzo di equivalenti monetari, com’era accaduto subito dopo la rivoluzione americana nella maggior parte degli stati dell’Unione, quando il dollaro, stampato in quantità enormi per finanziare l’esercito dei ribelli, fu sostituito dal tabacco il cui prezzo era certamente più stabile. D’altra parte allora il denaro cartaceo aveva un rapporto diretto con l’oro o l’argento, il cui “valore” era sempre relativamente stabile. Ora la situazione è completamente cambiata. La moneta cartacea non ha più alcuna relazione con i beni preziosi, ma solo con la montagna di debiti su cui è cresciuta e da cui è creata. Pensare di poterla sostituire con qualsiasi tipologia di beni è semplicemente impossibile. Il baratto svolge ancora una funzione per certe grandi transazioni, in cui il denaro funge da misura, ma in realtà le parti si scambiano solo beni e semmai un piccolo – relativamente all’importo della transazione – conguaglio in denaro. Ma il denaro ha assunto la funzione di strumento di misura talmente importante che è diventato impossibile farne a meno. Chiunque, oggi, utilizza banconote e carte di credito più volte in un giorno. Il gesto è divenuto talmente abituale che non ci facciamo più nemmeno caso. Provate a pensare che accadrebbe se andassimo a fare la spesa senza utilizzare il denaro. Potremmo cedere i nostri prodotti, dato che la maggior parte delle persone svolge un lavoro autonomo e produce da sé i beni che poi vende in modo da ricavare il denaro necessario per vivere. Vado al bar e prendo un caffè. Come lo pago? E le sigarette dal ta-

baccaio, o la benzina, o il cacciavite, o i biscotti, il latte e le mille cose che tutti i giorni acquistiamo utilizzando il denaro? La maggior parte di noi non potrebbe spezzare la propria attività in unità così piccole da rendere possibile il pagamento delle cose di utilità quotidiana, mentre per le cose di maggior valore, si porrebbe il problema inverso, vale a dire che l’attività di molti non sarebbe in grado di far fronte al pagamento di un bene come un’autovettura, per esempio. Si potrebbe, quindi, pensare ad un sistema di credito. Vado dal tabaccaio, gli fornisco un servizio che misuriamo in unità di prodotto che egli vende, e lo stesso varrebbe per il bar, il supermercato, l’affitto eccetera. Per l’automobile il credito dovrebbe essermi fatto dal venditore. Il sistema economico funziona esattamente così, vale a dire che si fonda sul credito, solo che questo credito è a monte, e ci consente, nella maggior parte dei casi, di assolvere i nostri debiti con il pagamento in contanti. Senza il denaro, quindi, gli scambi sarebbero molto difficoltosi, e tutta la società e l’economia farebbero un salto indietro nel tempo e nella storia. Anche il denaro, che è essenziale per farci vivere, ci viene fornito a credito, ma si tratta di un credito oneroso a vantaggio di chi si è arrogato il diritto di prenderne di fatto il monopolio. Mentre se scambiassimo i nostri prodotti con gli altri utilizzando una qualunque unità di misura, l’onere per il credito che ci verrebbe fatto per l’acquisto dei beni sarebbe di gran lunga minore, e certamente non considererebbe lo stesso strumento di misura come una componente del prezzo. Al contrario, nel sistema capitalistico finanziario, è proprio lo strumento di misura ad essere assoggettato alla logica del credito. Dobbiamo dedurre da queste considerazioni che non è possibile pensare una società senza denaro? Non necessariamente, anzi, proprio questa invadenza del denaro in tutti gli aspetti della vita ci deve fare riflettere sul fatto che la sua predominanza prepara un cambiamento radicale. Il denaro è di fatto già diventato virtuale, e quel poco che resta contenuto in strumenti fisicamente individuati, ovvero la carta e le monete metalliche è destinato a scomparire in breve tempo. In Europa era prevista per il 2003 l’abolizione della moneta cartacea, ma questa riforma è stata rinviata per ora sine die, soprattutto per l’impossibilità di realizzarla senza stravolgere l’intero sistema fiscale. Ho sostenuto che non è possibile eliminare fisicamente la moneta cartacea in circolazione perché, in quel caso, tutta l’evasione fiscale

verrebbe alla luce e questo sistema ha necessità dell’evasione fiscale per andare avanti. Solo una radicale riforma del sistema di prelievo fiscale, potrebbe rendere indolore il passaggio ad un sistema di pagamento virtuale, la cui introduzione, peraltro, non è più procrastinabile. Il denaro è quindi destinato a diventare una pura virtualità, manifestando in pieno la sua funzione di strumento di misura e perdendo ogni concreto riferimento ad una fisicità determinata, peraltro, già oggi, estremamente labile. Allo stesso tempo, mentre emerge con sempre maggiore chiarezza la funzione di misura della ricchezza che ha il denaro, si riduce la sua utilizzabilità come strumento di appropriazione della ricchezza. Abbiamo visto che c’è una tendenza alla riduzione dei tassi di interesse in tutto il mondo, con il limite del Giappone che li ha ridotti fino a zero, nel tentativo di far ripartire la propria economia soffocata da una domanda di beni estremamente debole. Lo stesso fenomeno si sta verificando in tutti i paesi occidentali, mentre nei paesi terzi, il FMI impone ancora politiche di tassi elevati, con il ricatto della svalutazione rispetto alle monete più forti. In questo modo si genera un trasferimento di ricchezza dai paesi poveri a quelli più ricchi. E’ comunque un fatto che i tassi di interesse tendono a contrarsi. Le ragioni di questo fenomeno sono dovute sia all’eccessivo indebitamento del sistema, indebitamento che non è risolvibile, dato che la crescita stessa del sistema dipende da esso, sia ai pericoli di inflazione che abbiamo visto essere sempre presenti nel sistema ed essere temuti più della recessione dalle autorità monetarie. In un’economia in cui il debito avesse raggiunto la sua massima espansione i tassi di interesse dovrebbero essere necessariamente pari a zero, a causa dell’impossibilità per i debitori di incrementare il proprio indebitamento. Il fenomeno della caduta del tasso di interesse era stato notato già da Smith, e Marx ne aveva tratto la legge della caduta tendenziale del tasso di profitto, che egli legava all’effetto congiunto della concorrenza tra capitalisti e della crescita della ricchezza, che induceva i capitalisti a pagare meno per il capitale necessario agli ulteriori incrementi della produzione. Interpretata alla luce della critica del sistema finanziario, la caduta del saggio di interesse assume una connotazione più chiara e precisa. Essa esprime, cioè, sia la caduta tendenziale del saggio di profitto del processo di produzione capitalistico che il raggiungimento del limite estremo dell’espansione finanziaria.

Nel momento in cui il tasso di interesse fosse pari a zero in tutto il mondo produttivo, si genererebbero le condizioni per una trasformazione radicale del ruolo del denaro. Questo, infatti, cesserebbe di essere lo strumento principale per l’appropriazione della ricchezza e servirebbe solo a misurarla. Nemmeno il tasso zero sarebbe sufficiente a portare il sistema economico in una situazione di equilibrio. Infatti, tutta la ricchezza prodotta apparirebbe sotto forma di debito, e quindi nel potere del creditore che, abbiamo visto, è il sistema finanziario nel suo complesso. Inoltre, il livello dei tassi non incide sulla distribuzione della ricchezza, e, infine, il sistema economico resterebbe paralizzato dalla progressiva carenza di strumenti monetari sufficienti per andare avanti. In altri termini, senza la creazione di moneta da parte del sistema finanziario, l’economia si bloccherebbe e cadrebbe in una recessione senz’altra via d’uscita, che quella della distruzione di una quantità di ricchezza sufficiente ad innestare un nuovo ciclo di ricostruzione. Insomma una guerra, che per la potenza delle armi e per la stupidità degli uomini che le detengono, potrebbe essere davvero letale per tutta l’umanità. E’ questo l’apparente vicolo cieco in cui si è cacciato il sistema. Il denaro, così com’è generato e distribuito ora, appare indispensabile al sistema. In effetti, esso lo è solo come strumento di misura, così come il metro è essenziale perché si possa misurare una qualunque cosa. Ma quando lo strumento bara sulla misura, o ancora peggio, misura in maniera diseguale le stesse quantità (perché questo alla fine è l’effetto perverso degli interessi sul denaro), ecco che si genera una funzione che non solo non è necessaria all’economia, ma crea ingiustizia, disuguaglianze, privilegi e oltretutto porta l’intero sistema economico al disastro. La tendenza dei tassi di interesse verso lo zero, per l’impossibilità del sistema economico di sostenere ulteriori quote di indebitamento, restituisce al denaro in sé la funzione che gli è propria di strumento di misura della ricchezza. E’ chiaro che una situazione di questo genere renderebbe necessario il ripensamento di tutto il sistema di distribuzione e di creazione del denaro, così come la rifondazione del sistema bancario. Sotto questo profilo, le banche di tutto il mondo stanno già da tempo operando verso una riconsiderazione del proprio ruolo nei termini di banche di affari. In altri termini le banche intervengono per finanziare imprese in cui credono partecipando direttamente al capitale di esercizio. In questo modo il sistema bancario ritorna all’originaria funzione di

mediatore tra l’impresa ed il capitale che esse raccolgono tra il pubblico. Le SIM sono lo strumento attraverso il quale le banche trasformeranno in maniera decisa la propria attività in questa direzione. Contemporaneamente l’intero sistema bancario si sta spostando su Internet, sia perché questo consente una notevole riduzione di costi, sia perché la virtualizzazione del rapporto con il cliente corrisponde alla virtualizzazione del rapporto bancario in sé e del denaro. Insomma, gli spazi di profittabilità del sistema bancario tendono a spostarsi verso la partecipazione all’impresa, mentre la tradizionale intermediazione del denaro ad interesse è destinata a ridursi progressivamente fino a scomparire. Ciò significa che, contemporaneamente, si riduce l’attuale capacità del sistema di generare nuovo denaro, che come abbiamo visto, proviene in massima parte proprio dalla concessione di prestiti effettuata dal sistema bancario. Sappiamo che la rarefazione della massa monetaria genera in un sistema economico depressione, che le autorità monetarie combattono con la riduzione dei tassi di interesse proprio allo scopo di favorire al massimo il processo di creazione di moneta da parte del sistema bancario. Ora, in un sistema con i tassi intorno allo zero, questa manovra non è praticabile. È questa la principale ragione della crisi, dal punto di vista finanziario, del Giappone. L’impossibilità di creare nuova moneta, il limite raggiunto dal sistema pubblico nell’indebitamento, l’impossibilità di ulteriore crescita dell’indebitamento privato, ha indotto in quel sistema una crisi che appare insolubile, nonostante tutti gli sforzi del FMI, e la sostanziale forza dell’economia giapponese che, non dobbiamo dimenticare, ha dominato la scena economica mondiale per oltre trent’anni. La crisi del sistema finanziario ha indotto la crisi del sistema produttivo, e questa ha innescato l’ulteriore crisi della borsa di Tokyo e, a catena, di quelle dei paesi asiatici che al Giappone facevano riferimento. L’indice della borsa di Tokyo è caduto, in dieci anni, del 75%, vale a dire che ha perso i tre quarti della propria capitalizzazione. La caduta delle borse asiatiche ha spinto ulteriormente la ribasso la spirale negativa in cui si è cacciata quell’economia. Infatti, i consumatori non hanno potuto utilizzare i proventi delle rendite di borsa che avevano sospinto i consumi negli anni precedenti la crisi. In conclusione, la crisi giapponese appare senza soluzione alcuna. Non ci sono manovre monetarie per stimolare consumi ed investimenti, non c’è possibilità di trarre ulteriori stimoli né dall’indebitamento pubblico né da quello privato,

non si riesce a stimolare in maniera significativa né la domanda né l’offerta di beni. Di conseguenza, la produzione langue anche nell’economia immateriale che pure avrebbe ampi margini di crescita, i consumi non crescono, ampi stati della popolazione sono passati da una situazione di benessere ad uno stato di disagio economico ed altri a una condizione di povertà. La crisi politica che tormenta il Giappone è una conseguenza e non una causa della crisi. In realtà una soluzione c’è, ed è anche relativamente semplice. Ma praticarla, significherebbe dare un colpo mortale al potere della finanza e riformare profondamente la società giapponese. La soluzione è quella che ho prospettato nel mio libro “Un Milione al mese a tutti: subito!”43, nel quale sostengo la necessità di istituire contemporaneamente sia un prelievo fiscale sulla ricchezza finanziaria, sia il reddito di cittadinanza universale. Di fatto, il prelievo fiscale sulla ricchezza finanziaria si traduce in una prosecuzione della politica di stimolo monetario per mezzo dell’utilizzazione dei tassi negativi. Questo prelievo non si deve aggiungere a quello della fiscalità ordinaria ma deve sostituirlo integralmente. Il prelievo fiscale sulla ricchezza finanziaria è la via per riportare ad equità il sistema fiscale, poiché fa pagare le tasse a chi ha davvero la ricchezza e non strangola il lavoro e l produzione. E’ sempre stato giusto che chi ha più ricchezze debba pagare più tasse, ma questo principio di giustizia sostanziale è sempre stato combattuto con varie armi da chi possiede le ricchezze. L’ultimo strumento usato dal potere per questa distorsione della giustizia, è il moderno sistema fiscale. Nel quale, come abbiamo visto, le tasse vengono usate per tenere schiavi i cittadini, per costringerli a lavorare per lo Stato-padrone e per i suoi burattinai, coloro che detengono il sistema finanziario. La riforma fiscale è, quindi, il primo passo per la liberazione degli uomini dalla schiavitù moderna del lavoro per la necessità e dal ricatto del debito e del potere che lo detiene. Allo stesso tempo, la riforma fiscale, libera le energie della società poiché consente alla ricchezza di finire nelle mani di quelli che sanno utilizzarla in maniera positiva e produttiva per tutta l’umanità. Ho ipotizzato nel mio libro sopra citato, un’imposta sui mezzi finanziari, del 4% all’anno, ed un’altra imposta dello 0,1% sulla circolazione dei mezzi finanziari. Queste due sole imposte possono sostituire tutto l’attuale sistema fiscale, poiché genererebbero gli stessi introiti di quello L’automaticità di un simile sistema fiscale, comporterebbe 43

D. de Simone Un milione al mese a tutti: subito! Malatempora, Roma, 1999.

che non sarebbe di fatto possibile l’evasione fiscale, e che tutti i ricchi pagherebbero in proporzione alle proprie ricchezze le tasse necessarie sia a mandare avanti la cosa pubblica sia alla solidarietà sociale. Contemporaneamente, è possibile ricavare, dallo stesso prelievo, le somme sufficienti per erogare a tutti il reddito di cittadinanza. Reddito che è liberatorio, poiché toglie gli esseri umani dalla schiavitù della necessità e ne libera le energie intellettuali che sono essenziali perché la nuova economia possa attuarsi compiutamente. Reddito che è giusto, perché tutti gli esseri umani hanno il diritto di vivere e di contribuire secondo le proprie capacita alla crescita della società e di se stessi, partendo da condizioni di uguaglianza sostanziale. Reddito che è efficace perché consente al sistema di autoalimentare la produzione sostenendo in maniera ragionevole la domanda. Questo è essenziale, poiché le nuove forse produttive hanno estremo bisogno di una domanda forte e in crescita, che l’economia del debito non riesce più a garantire.

10.

Conclusioni

Il nostro mercante impazzito, quello che per primo ha scoperto che regalando diventava più ricco, ha con questo gesto apparentemente egoista, contribuito a creare le condizioni per il più grande cambiamento della storia dell’umanità. Turner, Maxwell, Gates, gli altri mille imprenditori che nel mondo si sono gettati nei media ed hanno scoperto che era possibile fare televisione gratis, distribuire informazione di qualità senza far pagare canoni di abbonamento a chicchessia, ma che tutto si poteva sostenere sulla pubblicità e poteva crescere in maniera esponenziale con quella. Gates, che ha scoperto che fare un sistema operativo facile da copiare e da modificare avrebbe generato le energie produttive di migliaia e poi di milioni di persone che hanno

creato il più complesso sistema di pensieri applicati ed integrati che si sia mai visto sulla faccia della terra. E siamo solo all’inizio, perché Internet è appena nata: in fondo il World Wide Web ha aperto gli occhi sul mondo solo nel 1993. Internet e le nuove tecnologie stanno trasformando il mondo, e la nuova economia riflette il senso e la direzione di questa trasformazione. La virtualizzazione della produzione, il denaro virtuale, la logica della gratuità, l’affievolimento del concetto di proprietà e della sua importanza nel mondo dell’economia, la trasformazione radicale del rapporto economico basilare con la scomparsa dell’acquirente e la sua trasformazione in utente di un servizio, sono questi gli elementi che caratterizzano questa fase di passaggio da un mondo ad un altro. E si tratta proprio di un cambiamento epocale, dato che per la prima volta nella sua storia, una parte dell’umanità vede come prospettiva concreta la liberazione dal bisogno, non come un’aspirazione ideale, ma come una necessità del sistema. E’ un cambiamento epocale perché per la prima volta il potere in sé, nelle sue diverse forme di potere sull’informazione, di politica, di potere militare, di potere sulle coscienze, vede messa in discussione il proprio fondamento e la propria ragione d’essere. E si scopre che il re è nudo e che soprattutto è disarmato. La battaglia per tutta l’umanità si gioca e si vince qui. Nello scontro tra le forze della libertà e quelle del capitale finanziario e dei loro alleati, politica in primo luogo. Poiché dovrebbe esser chiaro a questo punto, che ogni progetto di riforma politica contiene abbastanza logica di potere al suo interno da condurre al fallimento ogni idea di libertà e di eguaglianza. La globalizzazione nell’eguaglianza e Internet sono lo strumento principale nella lotta contro il vecchio della logica politica e del potere. La posta in gioco nella battaglia è la fine dell’economia e del potere, la liberazione dal bisogno e dal lavoro per la necessità di tutta l’umanità, l’abbandono per sempre della logica della schiavitù per fame, la crescita spirituale e morale di tutti gli esseri umani. Le forze che stanno cambiando il mondo volteggiano ancora leggere sopra di noi, come le ninfe di Mallarmé: Ces nymphes, je les veux perpétuer. Si clair, Leur incarnat léger, qu'il voltige dans l'air

Assoupi de sommeils touffus. Aimai-je un rêve?44 Le loro carni diverranno sempre più vive, la loro danza più vorticosa, l’amore per il sogno sempre più forte. Lo amiamo questo sogno. Lo realizzeremo questo sogno.

44

Quelle ninfe, le voglio perpetuare. Chiare così le loro carni lievi Che nell'aria volteggiano assopita Di selvatici sonni. Forse amai un sogno? Da S. Mallarmé, L’aprés-midi d’un faune.

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