Giuseppe Antonio Borgese E Il Romanzo Rubè

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GIUSEPPE ANTONIO BORGESE E IL ROMANZO RUBÈ LA VITA Nasce in provincia di Palermo nel 1882 e si iscrive alla facoltà dell’Università di Palermo. Nel 1903 discute la sua tesi di laurea che due anni dopo, con il favore di Benedetto Croce, viene pubblicata con titolo: Storia della critica romantica in Italia. Insegna a Milano. Pubblicherà un saggio intitolato Gabriele D’Annunzio (1909) sul grande personaggio. Borgese riconosce romanzieri siciliani come Verga, Capuana e De Robertis e fa notare come gli altri intellettuali fossero principalmente poeti da riviste (La Voce, La Ronda). Avviene la rottura con Benedetto Croce che gli rimproverava un’eccessiva animosità di giudizio. Borgese decide di dedicarsi ad una scrittura creativa e nello stesso tempo di esercitarsi come critico. Questo lo porta ad affermare una raccolta di saggi intitolata Tempo di edificare scritti tra 1920-21; egli vuole imprimere una svolta perché il genere romanzesco negli anni ‘20 era assente, fatta eccezione per Svevo e Pirandello, però entrambi non erano presi in considerazione dai critici. “È venuto per me già da tempo, il tempo di edificare, di essere pienamente qual è il mio dovere di esser, scrivendo i libri d’arte e di storia che ho promesso a me stesso, e lasciando ai critici il nuovo compito di giudicare alla loro volta.” Borgese pubblica Rubè nel 1921. Per non venire a compromessi con il fascismo nel 1931 si trasferisce in America, una sorta di esilio volontario durante il quale si dedica all’insegnamento dall’Università della California quella di Chicago. Nel 1937 pubblica il suo primo scritto in americano Goliath, the march of fascism. Torna a Firenze e muore in Italia a Fiesolo il 1952. STORIA RICORRENTE DURANTE LA VITA DELL’AUTORE Nell’ottobre del 1931 viene emanata l’esposizione per cui i docenti devono firmare l’obbligo di obbedienza al regime fascista (di 1200 professori 12 non firmarono). Molti firmarono per non perdere il lavoro e quando a Borgese gli fanno sapere di ciò, 3 anni dopo, rifiuta e rimane negli Stati Uniti. Molti elementi hanno oscurato la sua figura come i dissensi con Croce e l’avvento del fascismo ed è per questo che uno dei più gradi romanzieri del ‘900 si perde nell’oblio. Quando nel ‘47 torna in Italia è mal visto anche dai comunisti, perché dopotutto non si era mai dichiarato. ACCENNI ALLE OPERE Golia la marcia del fascismo: con questa opera si scaglierà contro l’editto Mussolini e i dogmi del totalitarismo. La dimensione è politica-culturale Tempo di edificare: saggi che illuminano ciò che egli riteneva per romanzo. Il titolo ha una connotazione personale, poiché è il tempo che Borgese inizi a scrivere romanzi; e una generale, in quanto in Italia è importante che si ricomincino a scrivere romanzi e si abbandoni il frammentismo. Borgese puntò su Tozzi considerandolo “uno dei primi edificatori” (opere: Con gli occhi chiusi, Il Podere, Tre croci) e lo introdusse agli ambienti letterari. In questo saggio si dichiara contro frammentismo (La Voce) e prosa d’arte (La Ronda), inoltre fa notare che in Italia non esistono romanzieri alla Dostoevskij e alla Tolstoj, ma era stata di grande rilievo l’opera romanzesca di Verga che Borgese riprende staccandosi dalla materia personale e legandosi al romanzo realistico oggettivo e non autobiografico. Rubè: Borgese racconta la storia emblematica di un intellettuale italiano che passa dall’interventismo a una presa di coscienza, egli incarna l’uomo che per ardore partì volontario ma al suo ritorno non riesce ad inserirsi nella società. Tutto accade senza una logica ed è dominato dal caso. Filippo Rubè assomiglia ai personaggi di Tozzi, degli inetti, coloro che pur agendo non riescono a vedere gli effetti di una decisione o son troppo passivi per prenderle.

Rubè è un uomo con una logica spietata, un perpetuo fuoco oratorio e la fiducia d’esser capace di fare grandi cose. Tuttavia le sue ambizioni non sono mai soddisfatte, il protagonista è trascinato da eventi fortuiti. Nel romanzo psicologico la crisi di Rubè è comune a tutta una generazione di giovani intellettuali che hanno vissuto tra neutralismo ed interventismo, l’esperienza della prima guerra mondiale, la fase postbellica, l’avvento del fascismo. La trama: Rubè accesso interventista decide di arruolarsi volontario, allo scoppiare della guerra. Conosce Eugenia, la figlia del maggiore Berti, giovane di una bellezza "lineare come una vergine preraffaellita conciliatrice del sonno e della morte". La guerra lo fa entrare in crisi e confessa i suoi timori a Eugenia Berti, che diventerà sua moglie. Viene ferito e trascorre a Roma il periodo di convalescenza. Accetta di sposarsi a Parigi dove conosce la bella Celestina Lambert, moglie di un generale. Si trasferisce a Milano e trova un lavoro, ma viene licenziato. Una fortunata vincita al gioco sembra tirarlo fuori dai problemi economici. Il desiderio di evadere dalla quotidianità lo porta ad abbandonare la moglie in cinta e partire per Parigi con un amico. Questi però non si presenta all’appuntamento e Filippo, ormai già sul treno, scende a Stresa sul Lago Maggiore dove incontra Celestina. Tra i due incomincia una relazione che si conclude tragicamente, con la morte per annegamento della donna. Rubè è sospettato d’omicidio ma viene dichiarato dal magistrato innocente. Si rivolge a un prete perché egli si ritiene colpevole e la nevrosi e il delirio si fanno più prepotenti. Muore a Bologna durante una manifestazione schiacciato da una carica di cavalleria. Questo è il ritratto di un uomo mancato, che non riesce a realizzare né a soffocare le ambizioni. Lo stesso protagonista sa che questa condizione riguarda l’intera generazione borghese: “Io appartengo a quella infelicissima borghesia intellettuale e provinciale, storta dall’educazione del tutto o nulla, viziata dal gusto delle ascensioni definitive donde si contemplano i panorami. Abbiamo le mani senza calli e coi tendini fiacchi, non sappiamo stringere né una verga né una spada, e sappiamo stringere solamente il vuoto”. La sua esistenza precaria oscilla tra insicurezza economica e fallimenti sentimentali. CITAZIONI E RIFLESSIONI Parte prima I Intelligenza e ambizioni del protagonista. “Aveva […] una logica da spaccare il capello in quattro, un fuoco oratorio che consumava le argomentazioni avversarie fino all’osso e una certa fiducia d’esser capace di grandi cose, postagli in cuore dal padre […]”. Federico parla della guerra, dell’eccitazione e dell’infatuazione verso essa. “ [la guerra] ora che è certa, un po’ tutti, anche senza confessarlo, desiderano che scoppi presto per assistere allo spettacolo. […] [si] sollecita col desiderio la catastrofe.” Interventismo senza ideale. “Si buttò nella propaganda interventista […] Rubè non era iscritto a nessun partito”. Federico si dichiara neutrale. “Dobbiamo aspettare al nostro posto per far poi quello che ci comanderanno di fare”. II Tramestio ai precordi e confusione sentimentale. “Egli deduceva, il corpo sano e l’anima malata.” “La vigna dei suoi sentimenti, delle amicizie, degli amori gli appariva devastata dalla fillossera.” Elogi della guerra “Anche s’io sono un uomo comune, la guerra mi solleva.” “La guerra […] gli appariva sempre più mirabile nella sua divina necessità e nel suo purificante splendore”.

III “Chinandosi sul passato, sporgendosi sul futuro si vedeva dentro impallidire come uno che s’affaccia a cercare la propria immagine al fondo di un pozzo”. Angoscia e tremolio dell’animo per il colpo di cannone, affiora la paura. “Ma che strepito, eh, ieri sera? Da far tremare”. Arroganza autoritaria. “Vai a casa tua, vai da tua moglie, vai al diavolo, vai dove vuoi, levati di tra i piedi”. Un cedimento di nervi. “Ma Rubè si sentiva pervaso dalla collera […] Uscire di sé! Si ripeteva una parola: la febbre la febbre, e presentiva la febbre, l’invocava, la pregustava, come un’assoluzione e un rimedio”. Confessa la paura ad Eugenia. “Io non sono coraggioso. Sono forse codardo. E non ho pietà nemmeno di me stesso”. IV Autoinganno. “Allora rimembrava casi precedenti della sua vita, in cui aveva dato prova di coraggio, e, costruendo una arringa in tutta regola, si persuadeva di non esser mai stato codardo […]”. Pensiero impuro verso Eugenia. “se morisse, sparirebbe la sola persona che conosca la mia vergogna”. “per essere sicuro di lei dovrei possedere un suo segreto che valesse il mio, dovrei per esempio farla mia amante”. Eugenia, donna che richiama al lutto. “La bellezza di Eugenia non aveva odore di gioia, faceva trasalire come un presentimento di lutto.” Mary emblema d’amore e beatitudine. “Ma tutte le immagini presenti e passate impallidivano davanti al ricordo di Mary, della donna i cui occhi neri morati lucevano come stelle dietro la vetta”. “Poco dopo gli sembrò che una stretta nuvola rosea navigasse pel cielo, ed era Mary, […] nella cara donna che non sapeva far sua gli apparivano quasi simultaneamente le immagini di una doppia, irraggiungibile beatitudine: della serenità dinanzi alla morte e della certezza di se dentro l’amore”. “Nessuna è bella come Miss Mary”. V Il bacio con Eugenia. “Volevo capire a quella donna un segreto che fosse uguale al mio. Ora lo ho. Ho un bacio che è stato metà elemosina e metà vendetta, come il soldo che si lascia cadere dal terzo piano al musicante di strada.” Mistero cosmico dell’esistenza. “per quasi tutto il genere umano la morte e l’immortalità sono materia di debole e rara curiosità, certo più presenti che non siano alle piante ed hai bruti, ma lontane, nebulose, così poco contemplate come il contadino contempla il paesaggio”. Visione della guerra attraverso similitudini silvestri. L’autore dimostra di padroneggiare, oltre che la prosa, anche la poesia. “Il boato corale ed ottuso delle batterie più lontane non somigliava alle acque e al vento dentro il castagneto? La mitragliatrice simulava la gaiezza presuntuosa delle ranocchie nelle sere di luna, e qualche secca fucilata gli rammentava il secco battere del picchio”. “Ciò ch’era appassionante era la guerra soltanto, per se considerata”. Il vuoto e futile motivo. “Si bruciavano tutti quegli esplosivi, si versava tutto quel sangue per stabilire in che lingua i ragazzini di quella scuola dovessero imparare a leggere e a scrivere”.

VI Vergogna e soggezione. “«Non abbiamo bisogno di turisti, non abbiamo bisogno di dilettanti.» Scoperto nel suo segreto, si sentì tutta frizzare di vergogna la pelle.” Rubè incontra un capro espiatorio su cui scaricare il panico che aveva frenato “Egli si volse trasalendo; e vide un ubriaco che […] gli andava incontro […] e il terrore represso […] lo senti prorompere come una cataratta. «Se fai un altro passo ti sparo»”. Parte seconda VII L’oppressione della coscienza prima di dormire “Si domandava se quella sua imprecisione di memoria non fosse la causa della sua inettitudine alla felicità e del sentirsi sempre distaccato e sazio”. “Ci siamo non l’amo. Se l’amassi, mi ricorderei com’è fatta”. Inizia una relazione epistolare, Eugenia chiede a Filippo che plachi l’introspezione… “La gente ti loda spesso ma si dice: ma che ha con quell’aria di cospiratore? […] tu ti distruggi stando sempre a sorvegliarti l’anima con l’intelletto”. …e l’ardore patriottico. “La patria non meriterebbe il nostro amore […] Questo elogio che fai alla guerra per la guerra non mi capacita”. Anche eugenia ammira Mary per la sua solarità e professionalità “Mary è forse la più esperta infermiera del reparto, ha gli occhi luminosi e non mostra di soffrire […]” Consapevolezza dell’inettitudine della borghesia intellettuale. “Capisco che non ho forze bastanti per le mie ambizioni, eppure non posso soffocare, eppure non posso le ambizioni. Io poi appartengo a quella infelicissima borghesia intellettuale provinciale, sorta dall’educazione del tutto o nulla, viziata dal gusto delle ascensioni definitive donde si contemplano i panorami. Abbiamo le mani senza calli e coi tendini fiacchi; non sappiamo stringere né una vanga né una spada; e sappiamo stringere solamente il vuoto”. VIII La vitalità di Mary. “«Mary!» Essa entrò con quel rapido fruscio di colomba con cui pareva entrasse sempre aria fresca”. Similitudine con Anna Karénina di Tolstoj, la realtà è deformata dallo stato d’animo di Anna. “Una signora mostruosa con lo sgonfio […] E il marito e la moglie sembravano ad Anna ripugnanti”. (Baldi, Giusso, dal testo alla storia dalla storia al testo, vol. E, paravia, p. 365) “Egli sostò al ristorante della stazione […] scrutò una o due facce dei viaggiatori che sedevano hai tavolini circostanti. Com’erano brutti! Anch’egli per la prima volta della sua vita si sentì brutto e sconfitto.” Rubè esalta la guerra e ritiene che nel XX secolo tutti dovrebbero uccidere un uomo ma non riesce a sparare e dà il compito ad un altro soldato. “Bastava alzare il moschetto per freddarlo. Ma uccidere non era affar suo, si sentì l’avambraccio stranamente debilitato e pesante. «Sparagli! Diodato! Sparagli!»” Rubè ferito. “Il proiettile gli aveva traversato da parte a parte un polmone […] e le resistenze di organismo provato più che altro da malattie d’immaginazione e di nervi diedero in pochi giorni risultati rari”. “Partii per l’assalto con la convinzione e col desiderio d’esser ferito […] Come vedi ci sono riuscito.” IX Instabilità e depressione di Federico per la mutilazione. “Egli la scostò senza violenza, e tenendole una mano sulla spalla le disse che l’amore è un cavallo che ha bisogno di quattro gambe per trottare a regola”. “«C’è di peggio che perdere una gamba» […] «Per esempio» ribatté la madre con una voce così acuta che anch’essa udendosi, si giudicò scorretta «perdere la testa»”

Guerra e pensieri sardonici che possano sanare la paura di Filippo. “«La guerra risanerà il mondo perché cauterizza le coscienze scrupolose e malate». Si figurava, sorridendo fra se, che il proiettile di mitragliatrice, perforandogli il torace avesse trovato sulla traiettoria quella sua coscienza madida, fiacca, suppurante di rimorsi e di timori e l’avesse asciugata ed arsa”. X Tramestio ai precordi. “«Mi dica la verità, avvocato Rubè. È vero o non è vero che lei è innamorato morto di Eugenia Berti?» «Io», rispose Filippo per improntitudine, ma subito dopo si domandò se per caso non avesse imbroccato la verità, «io non sono mai stato innamorato morto di nessuno.»” Celestina Lambert. “Perfetta bellezza no. Per uno che cercasse una testa da Madonna o, meglio ancora, da altorilievo sepolcrale, non c’era paragone fra Eugenia e la signora Lambert. […] L’insieme della sua fisionomia era luminoso come un tesoro […].” XI Eugenia è per rube morbosa ossessione della morte. “Eugenia non aveva nulla da dire perché era un angelo davvero, ma un angelo della morte, lugubre, noiosa, insopportabile, noiosa, lugubre”. XII Parte terza XIII Rubè in collera perché non trova un appartamento a Milano pur essendo un veterano di guerra. “Sono un combattente, io; mi hanno bucato un polmone, perdio. […] E che abbiano trovato posto quei luridi mercanti, con la pancia che balla e il portafoglio che fa bitorzolo sulla giacca […] E io no! Bella maniera porca d’accogliere i salvatori della civiltà occidentale”. Vittoria mutilata “il dopo guerra sarà una depressione tremenda […] e ci sono sciagurati anche in casa nostra che ci vogliono defraudare dei frutti della vittoria”. Malanimo e gretta. “«Fammi… un figlio». «Oilà», fece lui ridacchiando «è proprio il regalo più costoso quello che mi domandi».” XIV XV Cattiveria. “«Ma, Pippo, te l’ho già detto […] Suppongo di esser madre.» «Andiamo! Le nausee dopo un mese e mezzo al massimo! Impossibile! Sarà stato lo spirito santo.» […] «Che intendi dire? Che dici scellerato?»” I fasci di combattimento si danno all'azione macchiandosi di crimini e calunnie, Filippo li appoggia. “«Abbiamo affumicato il covo del serpente. Incendiato l’Avanti! Non esce più. » «Peccato!» «Peccato?» «Sì, avrei voluto esserci anch’io»”. Compaiono le figure degli arditi. “Aveva visto Garlandi con la giacca d’ardito, con la camicia nera.” XVI Inizia una crisi d’identità (parallelismo con il Fu Mattia Pascal). “Scrisse, invece del suo nome Filippo Burè, badando sempre di parlar di fame e di sonno per giustificarsi se mai l’“errore” venisse scoperto.” Garlanti strumento interposto dal caso. “Garlanti era stato uno strumento un po’ sudicio della provvidenza o della fortuna, uno spioncello predestinato a indicargli la porticina segreta da cui si prende per stratagemma la rocca della buona ventura.”

XVII Pensiero di subir sfortune. “A ben riflettere, egli non aveva avuto che due colpi di fortuna in quasi trentacinque anni di vita; il primo era stato la buona ferita alla battaglia degli Altipiani, il secondo era questa vincita al gioco. Allora restava ancora largamente creditore della sorte.” XVIII Filippo accecato dalla gelosia e dalla voglia di possedere Celestina. “L’uomo era balzato da terra con la voglia di sangue che non aveva mai sentita in battaglia.” Problemi all’orizzonte. “Ma fu puro caso se dimenticò di riempire il serbatoio della benzina”. Filippo e Celestina in balia di ciò che più grande di loro, la tempesta; come lo sono i pescatori nel romanzo I Malavoglia di Verga. “Appena finito di dire così, quando furono avviluppati dalla nuvola veloce, che si rovesciò sulla barca a secchi”. Apatia e silenzio dell’accusato del presunto delitto passionale. “«L’avete uccisa?» Egli non rispose, ma vibrò tutto sopra un calcagno.” Parte quarta XIX Il destino l’aveva salvato. “Per impazzire si sapeva troppo ragionare; per morire volontariamente, oltre tutto, si riconosceva troppo sfortunato. Come la burrasca gli aveva capovolto la barca al punto giusto perché Celestina morisse ma egli fosse scagliato sulla spiaggia, sardonicamente sopravvissuto […].” Guerra e prigionia permettono a Filippo di staccarsi dalla vita, poiché spesso egli è incapace di vivere. “La prigionia equivaleva in certo modo a ciò ch’egli sperava in altri tempi fossero il servizio militare e la guerra: una esenzione per ordine superiore dall’obbligo di prendere decisioni nella vita quotidiana, una soluzione sociale dei problemi che l’individuo sa affrontare.” XX Rubè è sorpreso d’esser stato dichiarato innocente e si rivolge a padre Mariani per il giudizio divino “La giustizia degli uomini m’assolve […] Allora io mi domando se esiste una giustizia di Dio. […] Ho ucciso la signora Celestina Lambert in due modi con l’intenzione e col fatto.” “«ed io la sbatto, come… come… come un uovo marcio, contro le pietre» […] Il pianto in cui proruppe fu alto, squillante, d’ira contro il destino non di pietà.” Immagina la cruda e orrenda morte del figlio per distrazione sua, egli sa che sarà incapace di tirarlo su. “E il bambino, baf!, sbatte sul lastrico della strada. […] E schizza fuori il cervello.” Ateismo e malattia in un monologo interiore “Primo: io non ho mai creduto in altro Dio che nella fortuna, in altro paradiso che nel paradiso terrestre. Verissimo. Secondo: io sono un malato […] il mio feticcio, la Fortuna, melo sono foggiato nel mio cervello […] io non ho che cercato: il piacere, il denaro, il successo. […] Come adulatore della fortuna sono piuttosto eccezionale. Così sfortunato da fare compassione […] Allora io sono un disgraziato una vittima un essere da far pietà.” La crisi dell’intellettuale “Per spegnere questa mia coscienza ci vuole la morte. […] Lasciamo stare i proiettori, le solite esagerazioni. Il fatto è che sono un intellettuale. Un in-tel-let-tua-le. Una cosa orribile, un mostro con due gambe, con due braccia e un cervello che mulina a vuoto.” Suicidio. “«Ucciditi!» Una parola. E se poi non mi riesce? Il filo si rompe, la rivoltella fa cilecca. Niente, niente m’è riuscito, mai.” Delirio. “Su, tavolino, parla e dimmi di dove Celestina ha copiato quei quattro versi”.

Giustificazione. “E come! Non ho mai voluto ammazzare nessuno, e portavo la pistola scarica, portavo. Per questo poi ho affogato una donna nel lago. Perché, nel secolo ventesimo, chi non ha ammazzato nessuno, ne convenga, che uomo è?” Crisi d’identità. “Perché il curioso è che io non so più come mi chiamo: Filippo Rubè, Filippo Burè, Filippo Morello. Filippo sempre, però: don Felipe”. XXI La vitalità di Mary si sta sciupando vivendo con Federico mutilato. “Mary […] era tutta vestita di bianco, ma non quel bianco lucente che la faceva apparire in altri tempi come una vela sullo sfondo di Santa Maria degli Angeli”. Federico illustra come, sia gli interventisti che i neutralisti fossero in errore. “Voialtri interventisti volevate forzare la storia, nel tempo stesso in cui proclamavate che la volontà della storia portava ineluttabilmente alla guerra. […] Noi neutralisti, al contrario, volevamo vivere l’inevitabile e lottare contro l’ineluttabile. […] Volevamo far soffrire il prossimo, e soprattutto non volevamo soffrire noi stessi”. Vittoria impalpabile. “I vincitori stessi si domandano se valesse la pena di vincere”. Filippo mostra cattiveria nei confronti di Federico che per la sua mutilazione era un antisociale. “Vedo che ti occupi molto di politica […] Ti porti deputato?” Federico addolorato. “Ora ho perduto la mia bambina. Così ho capito che nulla è mio.” Federico si rivolge a Filippo. “A furia di martellarti con la logica ti sei fatto a pezzi. […] La vita non è allegra ma è meno complicata, meno torbida di come tu te la figuri”. XXII Il nome. “Che cos’è questa cifra stampata a fuoco sulla mia carne? Questo marchio? Non avere nome! sparire!” Pensiero di buttarsi sotto le ruote del treno come Anna Karénina. “La locomotiva avanzava, lucida, splendida, con la sua solita fascinazione; o salire, viaggiare, darsi in preda all’arbitrio di una guida sconosciuta, o lasciarsi rapire da quel vento e buttarsi di traverso sotto le ruote.” XIII Consapevolezza d’essere in balia dal caso. “Se io non ho creduto nella mia vita ad altro che alla Fortuna, è giusto che sia il caso a decidere. Ha deciso in prima istanza sulle scogliere di San Maurizio, decise in appello a Bologna”. La crisi dell’intellettuale del ventesimo secolo. “Ma chi mi prende? ma che mestiere so fare? se sono un buono a nulla! se sono un intellettuale!” Filippo passivo ed ignavo. “e gli dicevano: «Grida viva Lenin». Lui diceva: «viva Lenin, viva la Russia!»” “Uno gli mise in mano uno straccio rosso, e lui l’impugnò. Un altro […] gli mise in mano uno straccio nero”. XXIV “Ma questo era il suo destino, di arrivare troppo tardi. Sempre, in ogni cosa.” La fazione rossa e la nera. “La fazione bolscevica tentava di annoverare Filippo Rubè fra i suoi martiri, sebbene gli desse qualche imbarazzo quel particolare dei troppi danari trovati in tasca. L’altra fazione [diceva:] Filippo Rubè, un immacolato cittadino, un glorioso combattente, s’era sentito avvampare dal disgusto e […] s’era scagliato solo in mezzo e contro la folla.” Eugenia aveva la sua opinione sull’accaduto “Filippo è naufragato nella folla”.

Anche Eugenia si sente in colpa per la morte di Filippo, dato ch’ella non aveva telegrafato a Bologna come lui aveva chiesto “Io non avrò mai più pace nella mia vita”. Federico placa la disperazione di Eugenia. “credete ch’egli sia una vittima del caso? Filippo era un uomo distrutto”. Analogia con Anna Karénina l’ultimo barlume di coscienza “«Dove sono? che faccio? perché?» […] E la candela con quale ella leggeva il libro pieno di ansie, di inganni, di dolore di male, s’infiammò d’una luce più vivida che non mai, le illuminò tutto quello che prima era nelle tenebre, scoppiettò, cominciò a oscurarsi e si spense per sempre.” (Baldi, Giusso, dal testo alla storia dalla storia al testo, vol. E, paravia, p. 365) “Tutta la notte e la massima parte di quel giorno Filippo aveva giaciuto con la coscienza cupa e deserta. Ma poi, nel fondo più cupo de quella coscienza […] s’era accesso un lumicino. […] Quell’assurda fatica di vivere che non era stata altro che se non la fatica di non morire”. CONTESTO STORICO NEL LIBRO: LA PRIMA GUERRA MONDIALE Allo scoppio della guerra nel 1914 l’Italia aveva dichiarato ufficialmente una posizione di neutralità. Ma nel 1915 il ministro Sidney Sonnino firma in segreto il patto di Londra con il quale ottenne la fiducia dell’intesa. La situazione interna era scossa da due fazioni opposte: interventisti e neutralisti. All’interventismo facevano bandiera comune: i democratici, tra cui lo storico Gaetano Salvemini che sperava in un miglioramento delle condizioni del meridione se i braccianti avessero indossato la divisa; gli irredentisti trentini con Cesare Battisti, il quale vestì i panni dell’esercito italiano anche se era austriaco e vide nella guerra l’occasione che il Trentino fosse ammesso all’Italia; i gruppi nazionalisti di estrema desta capeggiati da Gabriele D’Annunzio che celebrava la grandezza della guerra come l’ardore della primavera dell’uomo; e i fuoriusciti dal partito socialista tra i quali spiccava Mussolini che inneggiò alla guerra a favore dell’incremento produttivo, che lo riguardava in quanto direttore del giornale Avanti! I gruppi nazionalisti indussero numerose manifestazioni, da ricordare le radiose giornate, anche il re era a favore dell’intervento, dunque il parlamento finì per dare i pieni poteri a Salandra e il 24 maggio 1915 l’Italia dichiara guerra all’Austria. Sul fronte interno tutta la nazione era coinvolta nella produzione massiccia, scompaiono i sindacati e le industrie si convertono per fornire equipaggiamenti agli eserciti. Sul fronte esterno il generale Luigi Cadorna fa avanzare le truppe, tra il giugno e il dicembre del 1915 hanno luogo le quattro battaglie dell’Isonzo che determinano perdite grandissime per l’esercito italiano. Gli austriaci capeggiati dal generale Conrad colpiscono l’esercito italiano con una spedizione punitiva per indebolirne le pressioni. La situazione dell’esercito italiano è pesantemente negativa con schemi militari fallimentari e nell’aria aleggia un senso di disfattismo. La difesa del Piave viene affidata ai veterani e hai giovanissimi “soldatini” della classe 1899. Il 24 ottobre 1917 gli austriaci con “La disfatta di Caporetto” scatenano una potente controffensiva spezzando il fronte. L’Austria però è sempre più stremata per le offensive delle potenze dell’Intesa, ora appoggiate dagli Stati Uniti, e con il subentro del generale Armando Diaz gli italiani sfondano il fronte austriaco a Vittorio Veneto ed entrano a Trento. Nel 1918 l’Austria firma l’armistizio di Villa Giusti con cui le armi tacciono ed Austria e Germania diventano repubbliche. Il dopoguerra porta a difficoltà sociali: • i reduci della guerra sono amareggiati e si trovavano a disagio nel nuovo ambiente lavorativo; • nasce un sentimento di frustrazione dovuto al fatto che l’Italia non aveva ottenuto i territori previsti dal Patto di Londra e questo sfocia nel mito della vittoria mutilata; • si plasmano tendenze autoritarie ed antidemocratiche;



sorge il partito d’azione fascista con il programma di San Sepolcro, e un gruppo di fascisti incendiano e saccheggiano la sede dell’Avanti!.

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