Nota su Eco, Huizinga e l’esametro finale de Il nome della rosa Marco Trainito A proposito del celebre esametro finale de Il nome della rosa, stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, tratto dal De contemptu mundi di Bernardo Morliacense (XII secolo), la medievalista Chiara Frugoni è intervenuta su «Repubblica» del 23 novembre 2009 (p. 38) con un articolo, intitolato «C’è un refuso sotto», in cui si presentano come novità, ovvero come fatti poco noti, se non addirittura ingiustamente taciuti, sostanzialmente due cose: 1) Eco ha trovato l’esametro di Bernardo ne L’autunno del Medioevo (1919) di Johan Huizinga, e si è fidato troppo; 2) in realtà la forma usata da Eco, mutuata da Huizinga, che a sua volta si basava su una vecchia e inattendibile edizione del 1872 del testo di Bernardo, è un’erronea trascrizione dell’originale, che suona stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus. Questa lezione effettivamente pare più coerente con il contesto dell’ubi sunt, perché, come nota anche la Frugoni, i versi precedenti chiedono dove siano finiti, tra gli altri, Cesare, Mario, Fabrizio incurante dell’oro, Paolo con la sua morte onorevole e i suoi gesti memorabili, Cicerone con la sua oratoria, Catone con la sua pace per i cittadini e la sua ira per i ribelli, Attilio Regolo, Romolo e infine Remo. È abbastanza naturale, quindi, supporre che la chiusura spettasse a “Roma”, e non a un’imprecisata “rosa”, che in quella lista sarebbe un po’ un’intrusa. Tuttavia la Frugoni riconosce che la sua scoperta è già stata anticipata molti anni fa nell’articolo Adso’s closing line in “The name of the rose” di Ronald Pepin (in «American notes and queries», maggio-giugno 1986, pp. 151-152), lo stesso che nel 1991 ha pubblicato una nuova edizione critica del testo di Bernardo riportante come più pertinente la fino ad allora ignorata
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o sottovalutata variante “Roma” in alcuni manoscritti. E dunque? Ecco la conclusione della Frugoni: «Poiché sono stati scritti tanti articoli sul significato di Il nome della rosa, romanzo meritatamente celebre, mi pare sia giusto sottolineare che quel titolo, così attraente ed enigmatico, nasca da una cattiva edizione di un poema medievale, dalla poca perspicacia del primo editore del De Contemptu mundi (…). L’articolo di Ronald Pepin ha avuto una sorte ingrata, peggiore dei “nomina nuda tenemus”, giacché è stato totalmente ignorato: per questo miè parso giusto ricordarlo con il rilievo che gli è dovuto». Ora, qui è opportuno fare delle precisazioni, perché la Frugoni sembra piuttosto fuori strada. Intanto, è vero che Eco con ogni probabilità ha citato l’esametro di seconda mano, usando appunto l’undicesimo capitolo de L’autunno del Medioevo di Huizinga, dedicato all’immagine della morte nel Medioevo. Il fatto però è noto da tempo nella letteratura sul romanzo, e ormai viene dato per scontato (si veda, ad esempio, Franco Forchetti, Il segno e la rosa. I segreti della narrativa di Umberto Eco, Castelvecchi, Roma 2005, p. 181), al punto che lo si trova citato persino in qualche forum di lettori on line. Se si vuole, una prova ulteriore è costituita dal fatto che all’inizio delle Postille del 1983, quando rivela la fonte dell’esametro, Eco cita di nuovo (questa volta in originale) anche il famoso verso sulle nevi “d’antan” di Villon, esattamente come fa Huizinga subito dopo la citazione delle due strofe di Bernardo all’inizio dell’undicesimo capitolo de L’autunno del Medioevo. Ma non è un mistero che sin da giovane Eco frequentava quell’opera di Huizinga, e non solo in quanto medievalista: sua, infatti, è l’introduzione all’edizione italiana Einaudi del 1973 di Homo ludens, altra opera famosa di Huizinga, e in tale introduzione L’autunno del Medioevo è ovviamente citato (il saggio è ora in Sugli specchi e altri saggi e si intitola “Huizinga e il gioco”), così come è citato per ben tre volte nel cap. 8 di Dall’albero al labirinto, in parte risalente addirittura a un saggio del 1961. Inoltre, non è vero che il saggio
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del 1986 di Pepin su rosa/Roma sia stato “totalmente ignorato”, perché, pur senza citarlo esplicitamente, ne ha parlato addirittura lo stesso Eco pochi anni dopo la sua uscita: si vedano infatti I limiti dell'interpretazione, Bompiani, Milano 1990, § 3.1.4., p. 118, e Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano 1995, p. 94 (i passi sono quasi identici), dove Eco ironizza sul fatto che se avesse conosciuto la variante quando scriveva il romanzo avrebbe potuto intitolarlo Il nome di Roma, dando così la stura a tutta una serie di interpretazioni fasciste! Per non dire del fatto che, come si può verificare con una rapida ricerca su Google, il saggio di Pepin è citato non solo in diversi studi a stampa su Il nome della rosa, ma persino nella voce in inglese di Wikipedia sul romanzo, in relazione proprio alla questione rosa/Roma (ed è curioso osservare che, almeno fino alla data del 24 novembre 2009, tale riferimento manca nelle analoghe voci di Wikipedia in italiano, francese, tedesco e spagnolo). Non c’è niente di particolarmente sorprendente nel fatto che Eco sia rimasto colpito dal verso di Bernardo leggendo Huizinga, e se avesse letto il passo direttamente nell’edizione del 1872 del De contemptu mundi o in quella del 1929 (che menziona la variante “Roma”), non sarebbe cambiato granché, perché, come egli stesso ha ammesso, quello che lo attirava era non solo il sapore nominalistico del verso, ma anche il misteriosissimo riferimento alla rosa primigenia (che nessuno, nemmeno Platone, sa cos’è, mentre tutti sanno grosso modo cosa si intende con l’espressione “antica Roma”). Ma c’è di più. Se si prende l’ultima pagina del romanzo, in particolare laddove si legge: «Est ubi gloria nunc Babylonia? Dove sono le nevi di un tempo? La terra danza la danza di Macabré», si vede che qui, in tre frasi, ci sono ben tre citazioni diverse: la prima è sempre tratta da Bernardo (I, 933), ed è il primo verso della prima delle due strofe del De contemptu mundi citate da Huizinga (l’ultimo verso della seconda strofa, I, 952, è proprio quello sulla “rosa”); la seconda è ovviamente tratta da Villon e la terza è tratta dal verso “Je fis de Macabré la dance”
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del poeta francese del XIV secolo Jean Le Fèvre. Ebbene, anche la terza citazione si trova nell’undicesimo capitolo del libro di Huizinga (poco oltre la citazione dei passi di Bernardo e Villon: cfr. ediz. Newton Compton 1992, rispettivamente pp. 163, 164 e 168-169), che quindi Eco saccheggiava molto più di quanto la Frugoni non sospetti.
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