Limbaj Si Strategie Comunicativa.moda.it

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IL LINGUAGGIO E LE STRATEGIE COMUNICATIVE DELLA MODA DI CLAUDIA GRAZIANI IL LINGUAGGIO E LE STRATEGIE COMUNICATIVE DELLA MODA DI CLAUDIA GRAZIANI CAPITOLO 0 INTRODUZIONE 0.1 La moda: un concetto multiforme e interdisciplinare Molto è stato detto e scritto sulla moda. Ne hanno dissertato letterati, poeti, sociologi, psicologi ed economisti . Ne parlano consumatori, giornalisti, negozianti, creativi, manager e imprenditori. Eppure, come ogni argomento sfuggente che tuttavia tocchi la sensibilità e il gusto di ogni individuo, sembra che tutto e il contrario di tutto si possa ancora dire. Si afferma che è un argomento futile, oppure serissimo, che la moda è quella delle sfilate e delle riviste, oppure solo quella dei convegni istituzionali; si dice che non esiste se non nella fantasia di chi la crea, che chiunque può costruirsi la propria. È difficile fornire una definizione del concetto di moda, anche perché non esiste al riguardo un'interpretazione oggettiva e univoca. Secondo il Grande dizionario Garzanti la moda è "l'usanza più o meno mutevole che, diventando gusto prevalente, si impone nelle abitudini, nei modi di vivere, nelle forme del vestire" . Il fatto che il vestire rappresenti solo uno degli ambiti di significatività della moda è confermato da Devoto, secondo il quale "La moda è un principio universale, uno degli elementi della civiltà e del costume sociale, che interessa non solo il corpo ma anche tutti i mezzi di espressione di cui l'uomo dispone" . [Saviolo e Testa, 2000: 5] Risalendo alla radice etimologica del termine, moda deriverebbe dal latino aureo mos, nei diversi e correlabili significati di: a) usanza, costume, abitudine, tradizione; b) legge, regola, norma; c) buoni costumi, moralità. Un'altra ipotesi farebbe derivare il termine da modus, nei significati di: a) misura, limite, norma; b) modo, maniera, genere; c) criterio o modalità regolativa di scelte. Dall'insieme di tali significati si evince che il gusto, benché espressione di un orientamento individuale, deve comunque confrontarsi con un sistema di regolamentazione sociale, che definisce ciò che in ogni periodo e luogo può essere considerato di moda. Non sembrerebbe quindi casuale una supposta sovrapposizione etimologica tra "moda" e "moderno", a sottolineare la dimensione evolutiva e istituzionale del gusto. A conferma di tale matrice vi sono le espressioni francese, inglese e tedesca mode, che derivano dal celtico mod o modd, con lo stesso significato latino di mos: usanza, costume, foggia. Complessità e fascino del fenomeno moda hanno consentito di studiarlo da vari punti di vista. Una prima prospettiva di analisi è quella della sociologia, che cerca di rilevare soprattutto i meccanismi e le dinamiche sociali che consentono l'affermazione e la successiva diffusione delle varie mode. I contributi di Veblen [1994] e Simmel [1957], ad esempio, si inquadrano entrambi nel filone che riconosce l'importanza dei processi di differenziazione sociale (distinzione, imitazione-affermazione, differenziazione: trickle down theory, "gocciolamento verso il basso") o della "differenziazione di classe": nella moda si verifica il convergere di un'esigenza di differenziazione individuale e di uguaglianza sociale, e ciò presuppone appunto una mobilità tra classi. Le discipline sociologiche si mostrano comunque tutte piuttosto carenti nello spiegare, al di là dei processi di diffusione sociale, significati e contenuti della moda: che cosa significhino,

per esempio, il ritorno a certe lunghezze, o l'alternarsi di determinati colori, il successo di alcune scelte o il fallimento di altre. Un primo tentativo per spiegare anche i contenuti della moda è rappresentato dagli studi psicologici, che pongono di norma al centro delle interpretazioni la competizione sessuale. In particolare Flugel approfondisce il tema del conflitto decorazionepudore: l'abito si carica degli equivalenti culturali del sesso, che ne perpetuano la competitività in campo sociale quanto a potere, ricchezza, autorità. In questa prospettiva, l'emulazione tra i sessi è vista come una chiave per spiegare le tendenze di moda. Successivamente sono prevalsi approcci più interdisciplinari. Tra questi, è da rilevare il contributo di Konig , che distingue una prima dimensione del fenomeno, di tipo antropologico, in cui evidenzia l'importanza dell'istinto del nuovo e della curiosità, anche se da un punto di vista sociologico, per spiegare il cambiamento e la diffusione, ammette la rilevanza delle teorie dell'imitazione-distinzione. Ma con la produzione industriale di massa e redditi più elevati anche nelle classi inferiori, lo schema trickle-down perde di validità, in quanto si determina una diffusione dei fenomeni di moda anche orizzontale, o addirittura dal basso verso l'alto. Si afferma così la teoria denominata trickle across, che evidenzia i limiti dei precedenti presupposti riduzionistici, per i quali centrale era quasi esclusivamente il concetto di status symbol (imitazione, differenziazione) e serve a dare una prima spiegazione del perché, al di là del fatto dinamico, alcuni contenuti di abbigliamento vengono creati, diffusi e distrutti. In tempi più recenti la moda è stato oggetto di attenzione anche da parte della semiotica, che ha visto la necessità di comprenderne significati e processi che, sul piano dei contenuti, legano i consumatori ai produttori, ai distributori e all'editoria. Il nostro contributo intende appunto analizzare il fenomeno della moda secondo la prospettiva semiotica, seguendo l'evoluzione degli studi e delle riflessioni sviluppati nell'ambito di questa disciplina. Riteniamo di poter considerare la moda come il sistema di significazione per eccellenza, in grado di veicolare numerosi significati legati all'identità personale e all'appartenenza socio-culturale di ogni individuo. D'altra parte, la dimensione comunicativa della moda, anche nelle sue apparenti negazioni ("l'abito non fa il monaco", ma evidentemente lo comunica), è sempre stata evidente. (1)Pascal considerò la moda come un fenomeno istintivamente buono se in accordo con un gusto e con un modello naturale di piacere. Kant, al contrario, vide la fonte della moda in un gusto corrotto dal desiderio di un continuo cambiamento. Anche F. Hegel la considerò come una forma mobile di vanità da cui è assente il gusto o la ricerca del bello. Invece Charles Baudelaire nella contingenza stessa della moda intravide un'aspirazione e una tensione al bello, congiunta a un elemento transitorio e relativo. L'analisi di Baudelaire fu esplicitamente ripresa da Walter Benjamin, che definì la moda "l'eterno ritorno del nuovo". (2)Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana, Garzanti, 1993. (3)G. Devoto, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, 1995. (4)J.C. Flugel, The psycology of Clothes, Hogarth Press, New York, 1930. (5)R. Konig, Potere della moda, Liguori, Napoli, 1976. 0.2 Da Barthes alla sociosemiotca: continuità o rottura? Il "pioniere" di questi studi è senza dubbio Roland Barthes, al cui contributo è dedicato l'intero primo capitolo. È proprio grazie a lui che il fenomeno della moda comincia a essere concepito come un meccanismo di significazione esemplare, che racchiude al suo interno diversi aspetti degni di interesse. Il Sistema della Moda [1967a] può essere visto come il "capostipite" degli studi semiotici sulla moda: da questo momento in poi nessuno studioso che vorrà analizzare questo fenomeno potrà esimersi da un confronto con Barthes. Il suo assunto di partenza consiste nell'applicazione agli studi sul costume di alcune categorie proprie della linguistica saussuriana (langue/parole, sincronia/diacronia, significante/significato). Questa analogia gli consente di postulare una prospettiva disciplinare unitaria per lo studio della lingua e del vestito: dato che entrambi rappresentano dei sistemi di significazione, questa prospettiva unitaria non può che essere fornita dalla semiologia.

Nel momento in cui Barthes si appresta a un'analisi semiologica del vestito, incontra però evidenti difficoltà procedurali, che lo portano a compiere una "scelta tattica": restringere la sua analisi a un sottoinsieme particolare all'interno dell'universo-moda, ossia la moda scritta presente nelle riviste, nell'ambito della quale è possibile "veder funzionare la significazione, per così dire, al rallentatore, nella scomposizione dei suoi tempi." [Barthes, 1959: 83] Si arriva così all'analisi strutturale delle riviste di moda che è alla base del Sistema [1967a]. La sua intuizione principale è che, nell'ambito di queste riviste, la significazione di moda è completamente affidata alle didascalie. Il vestito, in quanto oggetto reale, viene preso a carico da un secondo sistema, che è quello linguistico: quest'ultimo, sottoforma di una nomeclatura, "nomina" ciò che nell'abito costituisce la significazione specifica della moda, evidenziando i particolari su cui la lettrice dovrà soffermarsi. Attraverso il suo articolato percorso, Barthes arriva così a sostenere la primarietà della lingua, che ha un ruolo decisivo per la determinazione di ciò che in una certa stagione viene considerato alla moda, in quanto ancora dei significati espliciti ai significanti vestimentari. Non bisogna però interpretare in modo "riduttivo" questa presa di posizione di Barthes. Egli, infatti, come sottolinea Marrone [1995], non studia soltanto il linguaggio della moda lasciando da parte l'eventuale moda reale: comprende piuttosto che la moda non è nient'altro che un sistema di significazione, è l'attribuzione di un senso e di un valore specifici a un oggetto di per sé "inerte". È dunque consapevole del fatto che la moda oscilla tra la concretezza degli oggetti vestimentari e i discorsi che si possono fare su di essi. La moda, scopre Barthes dopo diverse esplorazioni, è una curiosa entità che trae la propria essenza dall'interstizio tra le parole e le cose: non propriamente linguistica, essa non può fare a meno del discorso per affermarsi; non propriamente reale, essa non può al contempo prescindere da un qualche aggancio ontologico. La Moda si produce e si sostiene solo nel processo di trasformazione, o di traduzione, che dal mondo porta alla lingua e da quest'ultima torna al mondo." [ibid.: 143] È proprio nel passaggio che dall'insensato porta al sensibile, e da questo al sensato, che la moda affonda le proprie radici e costruisce le proprie retoriche. I vestiti generano delle interpretazioni, interpretazioni che a loro volta modificano i vestiti stessi (trasformandoli in abiti alla moda), influenzando in questo modo i gusti e le abitudini delle persone. Partendo da questa consapevolezza, si può scorgere una qualche continuità tra le assunzioni di Barthes e i successivi studi condotti in un'ottica sociosemiotica. Ciò non significa ovviamente negare che l'emergere di questa prospettiva abbia segnato un punto di svolta determinante nello studio della moda e, più in generale, di tutti quei fenomeni di significazione a forte caratterizzazione sociale. In quest'ottica, la moda e tutte le pratiche a essa connesse vengono considerate come dei testi, ognuno con propri codici, regole e grammatiche, che rimandano a specifici significati sociali (che possono andare dall'identità personale, all'appartenenza socioculturale, alla contestazione delle regole sociali). Nell'ambito della nostra società, poi, questi testi vengono "presi a carico" dai giornali, dalla televisione, dal cinema, dalla pubblicità, che li raccontano e che rappresentano, a loro volta, testi con propri specifici linguaggi. Siamo dunque di fronte a testi che traducono altri testi, discorsi che traducono altri discorsi, linguaggi che traducono altri linguaggi. In questa dinamica, ciò che diviene interessante è proprio la complessa rete di relazioni attraverso cui i fenomeni sociali vengono raccontati da altri testi che, a loro volta, li modificano, incidendo nella loro costruzione: tali scambi reciproci costituiscono in definitiva le significazioni sociali che interessano la sociosemiotica. Come vedremo nel secondo capitolo, l'affermazione della prospettiva sociosemiotica permette di osservare "sotto una nuova luce" tutti gli elementi e i meccanismi caratteristici del sistema moda. In questo senso, riteniamo esemplare il contributo di Floch [1995], che analizza il total look di Coco Chanel come un discorso, soffermandosi sulle sue dimensioni figurativa e plastica. Alla fine della sua analisi, ritiene poi utile andare ad analizzare gli scritti di Chanel, per individuare anche nei suoi discorsi verbali le caratteristiche del suo discorso plastico: è proprio grazie ai

continui rimandi tra i vestiti creati dalla stilista e i testi da essa scritti che si generano le significazioni di moda. La prospettiva sociosemiotica permette dunque di analizzare il fenomeno della moda considerando tutti i tipi di discorso che si distribuiscono al suo interno. Ma permette anche di analizzare le varie modalità attraverso cui la moda e la società si correlano, influenzandosi reciprocamente. Una delle ragioni che rendono la moda così interessante è proprio la sua capacità di riflettere gli umori fondamentali della vita sociale. Come spiegare la svolta della fine degli anni sessanta meglio che con i jeans, le romantiche mantelle e le barbe degli studenti rivoluzionari e le gonne a fiori e gli zoccoli delle femministe? Come raccontare gli ottanta esibizionisti meglio che con qualche abito shock di Versace o con l'eccesso beffardo di Moschino e di Lacroix? [Volli, 1998: 21] I cambiamenti sociali intervenuti negli ultimi decenni hanno così lasciato una traccia indelebile nel sistema moda, che non è più in grado di imporre delle oscillazioni omogenee dei gusti. Diversi autori, per descrivere la situazione attuale, parlano di un passaggio dalla moda agli stili: i consumatori non sono più posti di fronte a un globale cambiamento "stagionale", bensì a un dispiegamento in parallelo di stili diversi. Questa "moda come stili" va contro l'idea stessa di moda, strettamente legata alla novità, al cambiamento, all'obsolescenza. Possiamo proclamare dunque la fine della moda? Secondo il nostro parere non lo si può fare, a patto però di estendere il concetto stesso di moda. In passato questo concetto era associato solo all'abbigliamento, e in particolare al segmento più qualificato dell'abbigliamento femminile: l'alta moda e, più di recente, il prêt-à-porter. Negli ultimi decenni, invece, si è diffuso a segmenti di consumo sempre più estesi: pelletteria e calzature, profumi e cosmetica, occhiali, oggettistica, mobili e complementi d'arredo, fino a comprendere località meta di viaggi e specie di animali domestici. Qualcuno afferma che oggi si possa in qualche misura parlare di moda persino in settori molto lontani dalla dimensione estetica e del gusto, come l'informatica, la ricerca scientifica, la giurisprudenza. Se si vuole avere una visione completa di questo fenomeno, dunque, non ci si può arrestare all'analisi dei cambiamenti ciclici introdotti nel settore dell'abbigliamento. La sua influenza va infatti ben oltre questo campo, interessando i mutamenti culturali e sociali di ogni genere. È proprio in virtù di questa consapevolezza che abbiamo ritenuto utile dare spazio ad alcuni dei lavori che, coerentemente con la prospettiva sociosemiotica, hanno cercato di analizzare i nessi che intercorrono tra l'abbigliamento - o, più precisamente, tra la comunicazione vestimentaria - e i processi di costruzione delle identità individuali e sociali. Particolarmente interessante appare, a questo proposito, il contributo di Landowski [1995], che concepisce la moda come una procedura di produzione e di gestione delle identità collettive, mediante la regolazione dei tempi sociali e la segmentazione dello spazio sociale. Questo gli consente di svincolare il concetto di moda dal settore dell'abbigliamento, assumendolo come un fenomeno che riguarda tutti gli aspetti della società e che influisce anche nella sfera politica. Altri studiosi si pongono in questa ottica: Grandi [1995] si interroga in merito all'influenza che le caratteristiche della nostra era postmoderna esercitano sull'efficacia normativa della moda; Tropea [1995] e Polhemus [1995] riflettono sulle subculture, sottolineando la centralità dello stile nell'affermazione della loro identità. 0.3 L'approccio semiotico alla comunicazione di moda Per completare la nostra "panoramica" sul fenomeno moda, abbiamo ritenuto opportuno dedicare il terzo capitolo alla comunicazione di moda, soffermandoci in particolare sui meccanismi di informazione e di influenza di cui si avvalgono - in maniera volontaria e organizzata - le imprese di moda. La comunicazione rappresenta senza dubbio un fattore discriminante per il buon funzionamento e per il successo di queste imprese: esse devono dunque imparare a gestirla in modo appropriato, sfruttandone a pieno le potenzialità. Il nostro contributo intende appunto mettere un po' d'ordine nel "campo sconfinato" della comunicazione di moda, ponendo alcuni

paletti che possano servire da guida agli analisti, ma anche alle imprese stesse che si trovano a confrontarsi con le problematiche a essa connesse. Dopo un excursus sull'evoluzione che la comunicazione di moda ha avuto nel tempo e sulle prospettive che si intravedono per il futuro, intendiamo dunque fornire una presentazione dei principali strumenti di comunicazione a cui le imprese possono ricorrere, evidenziandone le potenzialità e i limiti, ed eventualmente suggerendone le strategie di impiego più adeguate. È bene che ogni azienda abbia ben chiaro che, per far sì che le sue azioni comunicative siano efficaci e raggiungano gli obiettivi a cui mirano, deve adottare un concetto allargato di comunicazione. Nella comunicazione oggi non rientrano più solo la pubblicità o le pubbliche relazioni. La stessa pubblicità (sia su carta sia televisiva) non ha più un'anima razionale ("informare e convincere") bensì emozionale ("sedurre"). Comunicare significa lavorare con le nuove tecnologie (da Internet ai videogiochi) e soprattutto esprimere la filosofia della propria azienda in ogni modo, non solo tramite la letteratura aziendale, ma anche con le proprie vetrine, il direct marketing, il customer service, ecc. La marca va creata, gestita, sostenuta e protetta: per un'azienda di moda essa rappresenta ben più che un semplice logo, evoca un'atmosfera, un valore aggiunto che non va mai trascurato. Questo insieme di fattori tangibili, che attraggono il consumatore e ne assicurano la fedeltà, ha un peso economico non indifferente, rappresenta una vera e propria arma contro i concorrenti ed è vitale per la crescita (se non addirittura per la sopravvivenza) dell'azienda. È necessario dunque guardare alla comunicazione come a un processo che attraversa trasversalmente tutta l'azienda e che si manifesta in una serie di messaggi, che hanno una rilevanza autonoma ma che rappresentano al tempo stesso dei tasselli di un progetto più grande, che può essere definito come comunicazione integrata. Si tratta di un disegno strategico in base a cui tutte le azioni comunicative vengono portate avanti con la consapevolezza che l'estrema articolazione dei mezzi utilizzati e l'interconnessione degli effetti della comunicazione sui vari pubblici richiedono una visione unitaria e complessiva della comunicazione. Ciò comporta l'uso sinergico e scientifico di tutti i mezzi finalizzati alla conquista di un determinato obiettivo. Comunicare in modo integrato è una necessità strategica soprattutto nel caso di una marca che deve veicolare valori intangibili legati a un progetto di vita: "una marca non può essere descritta, ma il marchio che la indica è un compressore di elementi che veicolano un progetto." [Saviolo e Testa, 2000: 243]

CAPITOLO 1 BARTHES: LA MODA COME SISTEMA DI SIGNIFICAZIONE Barthes: la moda come sistema di significazione Il precursore degli studi sulla moda in ambito semiotico è senza dubbio Roland Barthes. Anche se la sua fama in proposito è legata al Sistema della Moda [1967a], al fenomeno generale del vestito lo studioso ha dedicato una serie di scritti, apparsi tra il 1955 e il 1967, che lo hanno portato gradualmente all'elaborazione della teoria sviluppata poi nella sua opera maggiore(1). 1.1 Una metodologia per lo studio del vestito: la linguistica saussuriana La prima tappa del suo percorso consiste in un'analisi accurata degli studi storici e sociologici relativi al "vestito" condotti fino a quel momento [Barthes, 1957b]. Questi lavori presentano per lui una carenza molto grave, in quanto trascurano la prospettiva istituzionale: in nessuno di essi il costume viene realmente inteso come sistema, ossia come "una struttura i cui elementi, di per sé privi di valore, risultano significanti solo in quanto legati da un insieme di norme collettive." [ibid.: 65] In quanto sistema, esso comprende tutte le norme che - giustificando, tollerando, interdicendo, obbligando - regolano l'assortimento degli indumenti su un concreto individuo che li indossa, colto nella sua natura sociale e storica. Ad esempio, i primi soldati romani che si sono messi sulle spalle una copertura di lana lo facevano semplicemente per proteggersi dalla pioggia; ma non appena la materia, la forma e l'uso di questo indumento sono stati regolamentati da un gruppo sociale definito, esso si è integrato nel sistema ed è diventato costume. Ciò che fonda il costume è dunque l'appropriazione di una forma o di un uso da parte della società, mediante alcune regole di fabbricazione. Gli storici e i sociologi devono quindi interessarsi, secondo Barthes, al modo in cui l'indumento individuale si inserisce in un sistema formale e normativo, descrivendolo al livello della società e in termini di istituzione. Lasciate da parte le spiegazioni relative alle forme estetiche e alle motivazioni psicologiche, occorre dunque "inventariare, coordinare e spiegare le regole di assortimento o di uso, le costrizioni e le interdizioni, le licenze e le deroghe." [ibid.: 65] È proprio questo impianto normativo a rappresentare un veicolo di significazione. Per superare le evidenti difficoltà incontrate dagli studiosi, Barthes effettua allora un parallelo tra il linguaggio e il vestito: così come il vestito, anche il linguaggio è nello stesso tempo sistema e storia, atto individuale e istituzione collettiva. Entrambi rappresentano delle strutture complete, costituite da una rete funzionale di norme e di forme, dove la trasformazione di un semplice elemento può modificare tutto l'insieme: si tratta dunque di equilibri sempre in movimento, di istituzioni in divenire. Date queste analogie, Barthes ritiene che la linguistica, una disciplina ormai consolidata, può fornire alcuni schemi, materiali e termini di riflessione per superare l'impasse in cui si trovano gli studi sociologici relativi al costume; in particolare, egli propone l'applicazione di alcune categorie metodologiche proprie della linguistica saussuriana [Saussure, 1916]. (1) Si tratta dei seguenti articoli: Les maladies du costume de théâtre [1955], Histoire et sociologie du vêtement [1957], Langage et vêtement [1959], Le bleu est à la mode cette année [1960], Pour una sociologie du vêtement [1960], Des joyaux aux bijoux [1961], Le dandysme et la mode [1962], La mode et les sciences humaines [1966], Le match Chanel-Courrèges [1967], sparsi in diverse riviste di storia e sociologia e adesso riuniti nel primo volume delle Oeuvres complètes barthesiane [Seuil, Paris, 1993]. Tranne il primo, leggibile nella sola edizione francese degli Essais critiques [Seuil, Paris, 1964], tutti gli altri sono presenti in traduzione italiana nel volume Scritti [1998], con i titoli: Storia e sociologia del vestito, Il linguaggio del vestito, Quest'anno è di moda il blu, Il fenomeno vestimentario, Dal gioiello al bijoux, La fine del dandismo, Tempo e ritmi dell'abbigliamento, Il match Chanel-Courrèges. 1.1.1 Langue/parole

Saussure, nel suo Corso di linguistica generale [1916], afferma che il linguaggio umano può essere studiato sotto due aspetti: quello della langue (aspetto formale e sociale) e quello della parole (aspetto concreto e individuale). Lo stesso ragionamento, secondo Barthes, può essere applicato anche al vestito: […] riguardo al vestito sembra estremamente utile distinguere analogamente una realtà, che proponiamo di chiamare "costume", corrispondente alla langue di Saussure, e una seconda realtà, che proponiamo di chiamare "abbigliamento", corrispondente alla parole di Saussure. La prima è una realtà istituzionale, essenzialmente sociale, indipendente dall'individuo, una sorta di riserva sistematica, normativa, all'interno della quale il singolo organizza la propria tenuta; la seconda è una realtà individuale, vero e proprio atto del "vestirsi", attraverso il quale l'individuo attualizza su di sé l'istituzione generale del costume. Costume e abbigliamento formano un insieme generico, al quale proponiamo di riservare ormai il nome di "vestito" (corrispondente al linguaggio di Saussure). [Barthes, 1957b: 66] I fenomeni di abbigliamento sono dunque costituiti dal modo in cui gli individui indossano il costume che viene loro proposto dal gruppo sociale di appartenenza. Fra questi rientrano le dimensioni individuali del vestito, il grado di usura, di disordine o di sporcizia, le carenze parziali di indumenti, le carenze d'uso (come i bottoni non abbottonati o le maniche non infilate), i vestiti improvvisati, la scelta dei colori (ad eccezione dei colori ritualizzati come nelle uniformi, in caso di lutto o di matrimonio), le derivazioni circostanziali di impiego di un indumento, i gesti d'uso tipici dell'indossatore. Questi elementi possono essere analizzati nei loro risvolti morfologici, psicologici o circostanziali, ma sono irrilevanti in uno studio di tipo sociologico. Oggetto specifico della ricerca sociologica o storica sono invece i fenomeni di costume: le forme, le sostanze e i colori ritualizzati, gli usi fissi, i gesti stereotipati, la distribuzione regolare degli elementi accessori (bottoni, tasche, ecc.), i sistemi apparenti (le "tenute"), le congruenze e le incompatibilità degli indumenti fra loro, il gioco regolato degli indumenti interni e di quelli esterni, i fenomeni di abbigliamento ricostituiti artificialmente per scopi significativi (costumi di teatro e di cinema). Mentre dall'abbigliamento si possono dedurre poche informazioni, il costume è fortemente significativo: in particolare esso notifica la relazione che intercorre tra l'individuo e il suo gruppo. Questa distinzione non è rigida, in quanto fra il vestito istituzionale e il vestito indossato ci sono continui scambi: fenomeni di costume possono diventare fenomeni di abbigliamento (è il caso della moda femminile, che propone ogni anno dei modelli che poi si diffondono nell'abbigliamento), così come fenomeni di abbigliamento possono diventare fenomeni di costume (questo succede ogni volta che gli usi individuali vengono ripresi collettivamente per imitazione). Non mancano poi casi in cui è difficile stabilire questa distinzione: "la larghezza delle spalle, per esempio, è un fenomeno di abbigliamento quando corrisponde esattamente all'anatomia dell'individuo che indossa un certo indumento; è un fenomeno di costume quando la sua dimensione è prescritta da un gruppo a titolo di moda." [ibid.: 67-68] La moda rappresenta sempre un fenomeno di costume: a volte essa è elaborata artificialmente da alcuni specialisti (l'alta sartoria), altre volte si costituisce attraverso la propagazione su scala collettiva di un semplice fenomeno di abbigliamento. L'opinione pubblica crede in una mitologia della creazione libera, rappresentandosi la moda come "un fenomeno capriccioso, dovuto alla capacità inventiva di qualche sarto […] che sfugge a ogni sistema e a ogni regola." [Barthes, 1966: 112] Ma Barthes fa cadere questo mito, sostenendo che la produzione di "vestiti di moda" risente di costrizioni sociali che trascendono le scelte e l'inventiva del singolo creatore. Parallelamente, nega anche che l'individuo che, giorno dopo giorno, decide cosa indossare operi esclusivamente sulla base di gusti personali: le sue scelte sono infatti dettate da codici estetici e sociali, forse inconsapevoli, ma comunque costrittivi. 1.1.2 Sincronia/diacronia

Come nella lingua è possibile distinguere un piano sincronico (o sistematico) e un piano diacronico (o processuale), anche il vestito può essere studiato sia in quanto inserito in un sistema sincronico, fatto di relazioni e di opposizioni, sia dal punto di vista del suo divenire nel tempo. A questo proposito, Barthes [1957b: 69-70] ritiene opportuno proporre due precauzioni metodologiche: in primo luogo, è necessario "ammorbidire" la nozione di sistema, concependo le strutture più in termini di tendenze che in termini di rigorosi equilibri; inoltre, per spiegare il divenire delle forme vestimentarie, bisogna prima censire tutti i fattori interni al sistema e poi passare a quelli esterni. Diversi studi sono stati dedicati alla "temporalità" del vestito. In particolare Barthes, nell'articolo La mode et les sciences humaines, cita quello di Kroeber [Barthes, 1966: 113-114], che ha analizzato il vestito femminile da sera, nell'arco di circa tre secoli, basandosi su riproduzioni di incisioni. Dopo aver ridotto questo vestito a un certo numero di tratti (lunghezza e ampiezza della gonna, ampiezza e profondità della scollatura, altezza della vita), egli sostiene che, se si osserva la moda sulla scala della storia, essa appare come un fenomeno profondamente regolare. L'abbigliamento femminile è sottoposto a un'oscillazione periodica, in cui le forme raggiungono i termini estremi delle loro variazioni ogni cinquant'anni. Dunque, "se, in dato momento, le gonne sono lunghe al massimo grado, cinquant'anni più tardi esse saranno corte al massimo grado; così, le gonne ritorneranno lunghe cinquant'anni dopo essere state corte e cento anni dopo essere state lunghe." [ibid.: 113] Inoltre Kroeber fa notare come la moda è un sistema particolare, che sembra sfuggire al determinismo della storia: avvenimenti di grande portata, come la Rivoluzione francese, hanno tutt'al più accelerato o rallentato debolmente certi cambiamenti, senza però compromettere la regolarità delle oscillazioni sul lungo periodo. Barthes sostiene che il fenomeno generale del vestito conosce tre tempi. Quello più lungo è dato dalle forme archetipe del vestito che contraddistinguono una determinata civiltà: è il caso del kimono in Giappone, del poncho in Messico, e così via. A un livello intermedio si situano variazioni regolari come quelle di cui parla Kroeber. Infine, c'è il tempo, estremamente breve, delle "micromode", caratteristico della nostra civiltà occidentale, dove la moda cambia in linea di principio ogni anno [ibid.: 115]. È proprio questa "microdiacronia" annuale che interessa maggiormente lo studioso. In un articolo apparso nel 1962, Le dandysme et la mode, Barthes attribuisce la fine del dandismo alla società moderna, che ha sottoposto l'innovazione vestimentaria a una durata perfettamente regolare, "sufficientemente lenta da poter essere seguita, sufficientemente veloce da accelerare i ritmi di acquisto" [Barthes, 1962: 111]. Ogni anno la moda distrugge quello che aveva adorato e adora quello che distruggerà. La motivazione è ovviamente di tipo economico: occorre infatti accelerare il rinnovamento del vestire, troppo lento se dipendesse dalla sola usura(2). Più il ritmo d'acquisto supera il ritmo di usura, più forte è l'assoggettamento alla moda. (2)Barthes afferma che, relativamente all'indumento portato, la moda si può definire mediante il rapporto tra due ritmi: "un ritmo di usura (u), costituito dal tempo naturale di rinnovamento di un capo o di un corredo, sul piano esclusivo dei bisogni materiali; e un ritmo di acquisto (a), costituito dal tempo che separa due acquisti dello stesso capo e dello stesso corredo. La moda reale è, se si vuole a/u. Se u=a, se l'indumento si acquista in quanto si usa, non c'è moda; se u>a, se l'indumento si consuma più di quanto non si acquisti, c'è pauperizzazione; se a>u, se si compra più che consumare, c'è moda." [Barthes, 1967a: 301-302] 1.1.3 Significante/significato In ogni indumento è possibile distinguere delle forme (il tipo di manica o di tessuto, il colore, la lunghezza della gonna) a cui corrispondono particolari concetti (la giovanilità, il lutto, la classe di provenienza), ossia dei significanti che rinviano a determinati significati. È piuttosto complicato discernere ciò che, all'interno del costume, significa: esso è infatti una sorta di testo senza fine in cui bisogna cercare di delimitare le unità significative [Barthes, 1959: 81]. La

significazione del costume, in linea di principio, non ha nulla a che vedere con il capo d'abbigliamento concepito nella sua unicità: solitamente essa viene affidata a un minuscolo dettaglio (lo scollo, l'impuntura), oppure a un insieme sintagmatico più complesso (la "tenuta"). Dunque la semiologia del vestito non è di ordine lessicale, ma sintattico: l'unità significativa non va cercata negli indumenti finiti, isolati, ma "in vere e proprie funzioni, opposizioni, distinzioni o congruenze, del tutto analoghe alle unità della fonologia." [ibid.: 82] Per estrarre dal continuum vestimentario le unità effettivamente significative, occorre quindi sottoporlo a una serie di prove di commutazione(3). Per quanto riguarda il significato, un certo costume può rimandare a concetti apparentemente psicologici o sociopsicologici, come la rispettabilità, la giovanilità, l'intellettualità, il lutto. Ma Barthes afferma che, al di là di queste sfumature, sostanzialmente l'indumento veicola un solo significato principale, ovvero "il grado di integrazione dell'individuo nella società in cui vive." [Barthes, 1957b: 72] Si può dire dunque che il vestito è una sorta di "modello sociale", uno specchio dei comportamenti collettivi prevedibili, ed è proprio a questo livello che esso diviene significante. (3) Data una struttura, la prova di commutazione consiste nel farne variare artificialmente un termine e nell'osservare se questa variazione provoca un mutamento nella lettura o nell'uso di questa struttura. 1.2 Dalla socio-semiologia del costume alla semiologia delle riviste di moda Queste osservazioni portano Barthes a individuare tra il sistema linguistico e il sistema della moda delle analogie che vanno al di là dell'esigenza contingente di trasferire una griglia metodologica già consolidata (quella della linguistica saussuriana) in un campo di studi ancora carente sotto questo punto di vista (quello della sociologia del costume). Marrone, nella sua "Introduzione" all'opera barthesiana Scritti [1998], sottolinea il ragionamento che, a partire da queste analogie, spinge lo studioso ad adottare una nuova prospettiva disciplinare per lo studio del vestito: Entrambi i sistemi poggiano su forme e procedure comuni (langue/parole, sintagma/paradigma, significante/significato, sincronia/diacronia, ecc.): abbisognano pertanto di un punto di vista comune che ne studi somiglianze e differenze. Ora, un tale punto di vista non può che essere quello del livello di pertinenza che ne permette una comparazione coerente: la significazione; sia la lingua sia il vestito sono sistemi di significazione; ecco dunque l'esigenza di una prospettiva disciplinare unitaria che li comprenda entrambi: quella della semiologia come metodologia delle scienze sociali. [Marrone, 1998: XXXI] Dunque indossare un vestito è fondamentalmente un atto di significazione. Ciò porta Barthes a rivedere un punto di vista tradizionale, in base a cui l'uomo ha inventato il vestito sulla base di tre motivazioni: la protezione (contro le intemperie), il pudore (per nascondere la propria nudità), l'ornamento (per farsi notare). A prescindere da queste motivazioni, che hanno comunque una loro validità, l'uomo si è vestito essenzialmente per esercitare la propria attività significante. In quanto atto di significazione, il "vestirsi" costituisce dunque un atto profondamente sociale, che ha senso solo se inserito in una dialettica fra individui all'interno di una collettività. Partito da una ricerca di tipo storico e sociologico sul costume, Barthes approda così a una nuova disciplina, la semiologia, da lui intesa come una metodologia della ricerca sociale. Egli ritiene che la semiologia sia una teoria necessaria al sociologo in quanto, prima ancora di definire che cos'è un segno e come funziona, essa svela l'esistenza del segno, nonostante tutti gli sforzi compiuti nella nostra società di massa per nasconderlo. Fra queste due discipline c'è un legame molto forte: "Agli occhi di Barthes non può esserci sociologia senza semiologia e, viceversa, semiologia senza sociologia: se l'oggetto della ricerca sociologica sono i processi sociali in quanto segni e discorsi, l'oggetto della ricerca semiologica sono i segni e i discorsi in quanto processi sociali." [Marrone, 1998: XXIX] L'edificazione della semiologia nasce così dalla

consapevolezza del carattere strutturato e significativo degli eventi sociali, come anche del carattere sociale dei sistemi e dei processi semiotici. Nel momento in cui Barthes si appresta a questa analisi semiologica del vestito, incontra però evidenti difficoltà procedurali. Essendo la semiologia del vestito di ordine sintattico e non lessicale [cfr. § 1.1.3.], occorre sottoporre il "continuum vestimentario" a una serie di prove di commutazione che permettano di estrapolare da esso le unità effettivamente significative. Così, per esempio, se cambiando il colore dell'abito si produce una modificazione anche nel suo significato, in quest'abito la categoria cromatica rappresenta un veicolo di significazione; se invece questa variazione di colore non provoca un'analoga variazione di significato, la categoria cromatica risulta ridondante e quindi bisognerà ricercare un altro elemento che produce la significazione. Ma questa sorta di censimento degli elementi significanti dell'indumento si dimostra estremamente complesso, proprio in virtù della natura sintattica del linguaggio vestimentario: "il significato viene dato sempre mediante i significanti "in atto"; la significazione è un tutto indissolubile che tende a svanire nel momento stesso in cui la si divide." [Barthes, 1959: 82] E, seppure si riuscisse a elaborare un inventario di forme significanti, non si riuscirebbe in ogni caso a ottenere un analogo inventario dei significati, considerando il carattere non conforme dei due piani (ritagliando un piano non è detto che si ritagli anche l'altro). Simili ostacoli avrebbero potuto bloccare il suo studio, ma Barthes trova un espediente per sfuggire a questa impasse, restringendo l'analisi a un oggetto particolare: Esiste però un indumento artificiale nel quale i significati sono a priori separati dai significanti: è il vestito di moda, quello che viene proposto sotto forma grafica o descrittiva nei giornali e nei periodici. In questo caso, il significato è dato esplicitamente, anteriormente persino al significante; viene nominato (un abito d'autunno, un tailleur delle cinque pomeridiane ecc.); è come se ci trovassimo a leggere un testo molto complesso, costituito da norme sottili, ma del quale si avrebbe al contempo la fortuna di possedere la chiave: la moda scritta o grafica conduce felicemente il semiologo a uno stato lessicale dei segni vestimentari. Forse, si tratta di una lingua elaborata, di una logotecnica i cui significati sono largamente irreali, onirici. Ma non importa, poiché ciò che in essa si ricerca è innanzitutto un campo sufficientemente grossolano, sufficientemente truccato grazie al quale risulta possibile veder funzionare la significazione, per così dire, al rallentatore, nella scomposizione dei suoi tempi. La semiologia della moda stampata deve permettere di eliminare onestamente un'ipotesi temibile che imbarazza ogni semiologia di primo grado: l'oggettivazione indotta dei significati. Al contrario, essendo la moda scritta un sistema semiologico di secondo grado, diviene non soltanto legittimo ma anche necessario separare il significato dal significante, e dotare il significato del peso stesso di un oggetto. In altri termini, riprendendo una definizione che ho abbozzato in uno scritto precedente4, la moda stampata funziona, semiologicamente parlando, come una vera e propria mitologia del vestito; dato che al suo interno il significato vestimentario viene oggettivato, solidificato, la moda è mitica. Mi sembra pertanto che questa mitologia del vestito (ma si potrebbe dire anche la sua utopia) debba essere la prima tappa di una linguistica vestimentaria. [ibid.: 82-83] Dunque Barthes restringe la sua analisi a un sottoinsieme particolare all'interno dell'universomoda, ossia la moda scritta presente nelle riviste. Ciò gli consente di procedere a un'analisi accurata dei segni vestimentari, in grado di delimitarne con sicurezza i significanti e i corrispondenti significati. Questo ragionamento viene poi sviluppato in Le bleu est à la mode cette année, un articolo comparso nel 1960 che presenta in nuce il lavoro che verrà svolto nel Sistema. La rivista di moda, nel momento in cui mostra un capo vestimentario, instaura una relazione elementare di significazione tra un concetto e una forma. Quando si legge in una rivista che l'accessorio fa la primavera, che questo tailleur ha un aspetto giovane e morbido, che quest'anno è di moda il blu, è evidente come ci siano da una parte l'accessorio, questo tailleur, il blu che "stanno per" la primavera, la giovinezza, la moda di quest'anno. Si tratta in ogni caso di semplici relazioni tra un significante e un significato. Negli altri sistemi di comunicazione, solitamente, non c'è un'esplicitazione contemporanea dei significanti e dei significati: vengono semplicemente

veicolati una serie di significanti senza nominare i loro significati. Questo vale, ad esempio, per la lingua: quando pronunciamo un discorso, emettiamo esclusivamente una serie di parole, senza fornire il senso di ognuna di loro. Questi significati potranno essere decifrati solo se si conosce la lingua e il suo lessico. Nel caso del vestito descritto nelle riviste di moda, invece, l'analista viene agevolato, in quanto vengono forniti, contestualmente, i significanti e i rispettivi significati: è come se gli si offrisse un testo congiunto con il suo lessico. Siamo comunque di fronte a un sistema duplice, in quanto i significanti appartengono a un ordine fisico, che è il continuum vestimentario, il frammento di spazio corporale occupato dall'indumento (un tailleur, una piega, una clip, dei bottoni dorati), mentre i significati sono veicolati mediante un ordine scritto (romantica, disinvolta, cocktail, campagna, sci, ragazza). Dunque il significante e il significato del vestito di moda non appartengono allo stesso linguaggio: abbiamo da una parte le forme vestimentarie (linguaggio) e dall'altra la letteratura di moda (metalinguaggio). Ciò porta Barthes a prevedere una doppia descrizione: "Lo studio dei significati (per esempio, del mondo utopico che essi suggeriscono) riguarda una mitologia generale della moda. Lo studio dei significanti vestimentari, al contrario, riguarda una semiologia nel senso stretto del termine." [Barthes, 1960b: 89] All'interno delle riviste di moda, osserva Barthes, la significazione di moda è completamente affidata alle didascalie. A veicolare il senso sociale di un vestito non è la riproduzione fotografica dell'abito, né tanto meno l'abito effettivamente indossato; "a farlo è soltanto l'enunciato verbale che, posto in fondo alla pagina della rivista, suggerisce alla lettrice che cosa deve guardare, qual è il dettaglio che, variando di anno in anno, fa sì che un indumento sia più o meno alla moda." [Marrone, 1998: XXI] Questa osservazione porta Barthes a effettuare un vero e proprio "ribaltamento" dell'idea saussuriana in base a cui la linguistica è parte di una disciplina più ampia, la semiologia. Egli arriva a sostenere, invece, che è la semiologia a dipendere da una più vasta linguistica5. Questo perché nella nostra attuale società di massa è sempre la nominazione linguistica che veicola la significazione: nel caso della moda, ad esempio, l'indumento, per significare, ha bisogno di una parola che lo descriva, lo commenti, ne nomini significanti e significati, in modo da costituire un vero sistema di senso. Dunque, per analizzare i modi di funzionamento dei sistemi semiologici, occorre sempre ricondurli entro le griglie metodologiche della linguistica.. Per evitare il sorgere di equivoci in merito a questa affermazione, Marrone [1998] ritiene necessario fare due precisazioni. In primo luogo sottolinea che, quando Barthes afferma che la semiologia è parte della linguistica, non si riferisce alla linguistica tradizionale, ma a una sorta di "translinguistica o linguistica del discorso", che non studia sistemi semiotici di "primo grado" come la lingua, la gestualità o l'immagine, ma sistemi di "secondo grado" come la moda, la pubblicità, il teatro. La moda, ad esempio, si serve della lingua (un linguaggio già esistente, che rappresenta un sistema semiotico di primo grado) per costruire discorsi a sé stanti, veicolando significati suoi propri. Dunque la trans-linguistica è un'analisi dei discorsi che si compiono attraverso la lingua, ma che usano regole ed elementi costitutivi diversi da essa. È solo in questo senso che si può affermare che la semiotica è parte della linguistica. La seconda precisazione fatta da Marrone è che l'affermazione di Barthes vale solo se si tiene conto del fatto che il suo ambito di osservazione è la nascente società di massa. È solo nella società del suo tempo che la presenza della verbalità risulta essere sempre necessaria, in quanto la cultura di massa, per tenere sotto controllo i propri messaggi, affida alla lingua verbale il compito di ancorare ogni possibile senso al solo segno linguistico. Lo stesso non varrebbe se riferito ad altre civiltà e altre epoche. (4) Si tratta di "Il mito oggi", in Barthes [1957a] (5) Barthes espone questa sua teoria in "Eléments de sémiologie", Communication, 4, 1964 [trad. it. Elementi di semiologia, Einaudi, Torino,1966] 1.3 Il Sistema della Moda: un'analisi strutturale delle riviste di moda

Tutte le riflessioni maturate negli anni passati sfociano infine nella stesura del Sistema della Moda [1967a], che ha avuto diverse fasi di redazione: iniziato intorno al 1957, e dunque in epoca pre-hjelmsleviana, il libro vive dieci anni di ripensamenti e di revisioni. Comunque, superate le difficoltà incontrate nella sua elaborazione, alla fine viene fuori un'opera che è la sintesi di tutti gli studi di Barthes sull'argomento e che rappresenta un prezioso contributo per la disciplina semiotica. Nella Premessa Barthes chiarisce subito qual è l'oggetto della sua ricerca e il suo proposito scientifico. Dopo aver dichiarato di voler effettuare un'analisi strutturale dell'indumento femminile descritto nelle riviste di moda, ritiene doveroso evidenziare il suo distacco dalla semiologia di orientamento saussuriano, considerandola in qualche modo già "datata": "rispetto alla nuova arte intellettuale che sta sbocciando questo libro forma una sorta di vetrata un po' ingenua; vi si leggeranno, spero, non le certezze di una dottrina, e neanche le conclusioni invariabili di una ricerca, ma piuttosto le credenze, le tentazioni, le prove di un apprendistato: di qui sta il suo senso e quindi, forse, la sua utilità." [ibid.: XIV] Nel momento in cui si decide di andare a esaminare una rivista di moda, ci si trova davanti a tre diversi "indumenti" che, pur rimandando alla stessa realtà (l'abito portato quel dato giorno da una determinata donna), fanno capo ognuno a una struttura diversa: 1. Indumento-immagine: è quello che viene presentato in fotografia o in disegno e che appartiene a una struttura plastica; 2. Indumento scritto: è quello che viene descritto, trasformato in linguaggio (ad esempio, l'abito fotografato a destra diventa: cintura di cuoio al di sopra della vita, con una rosa appuntata, su un abito morbido in shetland) e che rimanda a una struttura verbale; 3. Indumento reale: questo indumento, anche se rappresenta il modello che guida l'informazione trasmessa dai primi due, fa capo a una terza struttura, che è di tipo tecnologico (le unità di questa struttura rappresentano gli atti di fabbricazione materializzati: una cucitura è dunque ciò che è stato cucito, un taglio ciò che è stato tagliato). A questo punto Barthes effettua un ragionamento per stabilire quali di questi tre indumenti analizzare. Senza dubbio l'indumento "rappresentato", attraverso l'immagine o la parola, offre un vantaggio dal punto di vista metodologico: "l'indumento "stampato" presenta all'analista quello che le lingue umane rifiutano al linguista: una sincronia pura; la sincronia di Moda muta di colpo ogni anno, ma nel corso di questo anno è assolutamente stabile; se si sceglie l'indumento della rivista, è quindi possibile lavorare su un testo di Moda senza doverlo ritagliare artificialmente, come il linguista è costretto a fare nel groviglio dei messaggi." [ibid.: 10] A questo punto non resta che da scegliere tra l'indumento-immagine e quello scritto. Mentre l'indumento reale esiste in funzione di finalità pratiche, come la protezione, il pudore e l'ornamento, queste scompaiono nel passaggio all'indumento "rappresentato" (invece che per proteggere, coprire e ornare, esso tutt'al più esiste per significare la protezione, il pudore e l'ornamento). Tuttavia, l'indumentoimmagine non è totalmente privo di funzioni pratiche o estetiche, in virtù della sua plasticità. Non resta dunque che l'indumento scritto, il quale non è ingombrato da alcuna funzione parassitaria, ma è costruito esclusivamente in vista di una significazione: "se il giornale descrive un certo indumento con la parola, è unicamente per diffondere un'informazione, il cui contenuto è la Moda; si può dire che l'essere dell'indumento scritto sia interamente nel suo senso" [ibid.: 11]. Ed è proprio la struttura verbale, e dunque la moda scritta, quella che Barthes sceglie di esplorare. Torniamo qui al discorso relativo alla primarietà della lingua e all'affermazione di Barthes secondo cui la semiologia è parte di una più ampia linguistica [cfr. § 1.2.]. Nel momento in cui ci si appresta ad analizzare la moda, la scrittura appare costitutiva. Questa scrittura, questa profusione di parole che la moda interpone tra l'oggetto e il suo utente, non è però "innocente", in quanto la sua motivazione è prettamente economica. Per evitare che gli indumenti vengano comprati (e prodotti) solo in base ai tempi, lenti, della loro usura, "è necessario stendere davanti all'oggetto un velo di immagini, di ragioni, di sensi, elaborare intorno a esso una sostanza mediata, di ordine aperitivo, insomma creare un simulacro dell'oggetto reale, sostituendo al

tempo greve dell'usura un tempo sovrano, libero di distruggersi da solo in un atto di potlatch annuale." Dunque la sostanza del nostro immaginario collettivo, costruito con un proposito commerciale, è essenzialmente intelligibile: "non è l'oggetto, è il nome che fa desiderare, non è il sogno, è il senso che fa vendere." [ibid.: XVI] All'interno di una rivista, la parola, rispetto all'immagine, ricopre delle funzioni specifiche. In particolare, Barthes ne evidenzia tre: 1. la parola immobilizza la percezione dell'abito, fissando il livello di lettura a un certo livello di intelligibilità (il tessuto, la cintura, l'accessorio); 2. permette di dare delle informazioni che la fotografia dà imperfettamente o non dà affatto (ad esempio, chiarendo il colore dell'abito se la fotografia è grigia, nominando un dettaglio inaccessibile alla vista, svelando un elemento nascosto, come il dietro di un abito); 3. estrae dalla fotografia dell'indumento certi elementi per enfatizzarli e affermarne il valore (si noti lo scollo bordato di uno sbieco). Sostanzialmente, tutte queste funzioni mirano allo stesso fine, ossia manifestare una certa essenza dell'indumento di moda, essenza che coincide con la moda stessa: "l'indumentoimmagine può certo essere alla Moda (lo è già per definizione), ma non può essere direttamente la Moda: la sua materialità, la sua stessa totalità, la sua evidenza, in certo modo, fanno della Moda che esso rappresenta un predicato e non un'essenza; questo abito, che mi viene rappresentato (e non descritto), può ben essere tutt'altro che alla Moda; può essere caldo, bizzarro, simpatico, pudico, protettore, ecc., prima di essere alla Moda; al contrario, questo stesso abito, descritto, non può essere che la Moda stessa; nessuna funzione, nessun accidente vengono a ostacolare l'evidenza del suo essere, poiché funzioni e accidenti, quando sono notati, procedono essi stessi da una intenzione dichiarata di Moda." [ibid.: 19-20] 1.3.1 Classificazione degli enunciati di moda Dunque Barthes si è rivolto alle riviste di moda e, al loro interno, ha scelto di analizzare la moda scritta. A questo punto non gli rimane che stabilire il modo in cui strutturare la sua analisi. Il modello operativo da cui egli parte è mutuato dalla linguistica: si tratta della prova di commutazione. Questa consente, attraverso successive approssimazioni, di definire le unità strutturali dell'indumento scritto, ossia i più piccoli frammenti di sostanza che veicolano la significazione; nello stesso tempo, l'osservazione di ciò che varia congiuntamente permette di redigere un inventario generale delle variazioni concomitanti, per determinare nell'insieme della struttura un certo numero di classi commutative. Al termine di questa analisi approfondita, Barthes scopre che gli enunciati verbali delle riviste possono essere ricondotti a due insiemi: (i) Insieme A: Indumento/Mondo In questo insieme rientrano tutti quegli enunciati in cui il giornale mette in rapporto un indumento reale e una circostanza empirica del mondo, assegnando all'indumento una certa funzione o, più vagamente, una certa convenienza. Quando si leggono enunciati del tipo l'accessorio fa la primavera, di pomeriggio si impongono le increspature, questo cappello è giovane perché lascia libera la fronte, queste scarpe sono ideali per camminare, viene instaurata una relazione tra determinati tratti vestimentari (l'accessorio, le increspature, questo cappello, queste scarpe) e i corrispondenti tratti caratteriali (giovane) o circostanziali (primavera, pomeriggio, camminare). In definitiva, compaiono sempre due termini: da un lato l'indumento (significante) e dall'altro il mondo (significato). (ii) Insieme B: Indumento/[Moda] In questo insieme rientrano tutti quegli enunciati in cui il giornale descrive semplicemente l'indumento, senza metterlo in correlazione con caratteri o circostanze prese dal mondo: bolero corto, vita alla vita, per l'insieme in shetland, giacca pari collo, maniche al gomito e due tasche tagliate nella gonna; una giacca-camiciola tutta abbottonata sul dietro, collo annodato come una minuscola sciarpa. Per analizzare la struttura di enunciati di questo tipo, Barthes sottolinea che è bene tener presente il fatto che ogni descrizione di un indumento ha come fine quello di

manifestare e trasmettere la moda. Dunque anche in questi enunciati compare una correlazione tra due termini: l'indumento funge da significante al significato-moda. Quest'ultimo, però, non è quasi mai enunciato, ma resta implicito. In definitiva, tutti gli enunciati presenti in una rivista funzionano come dei sistemi di significazione, composti da un significante materiale, che è l'indumento, e da un significato immateriale, che può essere il mondo o la moda: l'unione di questi termini dà vita a un segno. "Per esempio, tutta la frase: gli imprimés trionfano alle Corse costituirà un segno, di cui gli imprimés saranno il significante (vestimentario), e le Corse il significato (mondano); giaccacamiciola tutta abbottonata sul dietro, collo annodato come una minuscola sciarpa sarà il significante del significato implicito (alla Moda) e anche, di conseguenza, un segno completo, come le parole nella lingua." [ibid.: 28] 1.3.2 I sistemi dell'indumento scritto Barthes, a questo punto, procede a descrivere "quella che si potrebbe chiamare la "geologia" dell'indumento scritto, e […] precisare il numero e la natura dei sistemi che esso mobilita." [ibid.: 36] Egli ritiene che, all'interno della struttura delle riviste, si instauri sempre una sovrapposizione gerarchica tra diversi livelli di senso, ognuno dei quali fa capo a un codice specifico. Per individuare questi livelli, ritiene però opportuno analizzare distintamente i sistemi dell'insieme A e quelli dell'insieme B, in quanto differiscono tra loro. (i) Sistemi dell'insieme A Si prenda un enunciato a significato esplicito (mondano): gli imprimés trionfano alle Corse. È possibile individuarvi due sistemi significanti. Il primo è rappresentato dal codice vestimentario reale, che mette in rapporto un indumento reale e una circostanza empirica del mondo: "se mi spostassi (almeno quel dato anno) ad Auteuil, vedrei, senza aver bisogno di ricorrere al linguaggio, che vi è equivalenza tra il numero degli imprimés e la festività delle Corse; questa equivalenza è evidentemente quella che fonda tutto l'enunciato di Moda, poiché è vissuta come anteriore al linguaggio e i suoi elementi sono supposti come reali, non parlati." [ibid.: 37] Il secondo sistema informativo è il codice vestimentario scritto o sistema terminologico, che denota la realtà del mondo e dell'indumento sottoforma di una nomeclatura, nominando ciò che nell'abito costituisce la significazione specifica della moda: nel giornale non si vedono né gli imprimés, né le Corse, ma entrambe vengono rappresentati attraverso un elemento verbale, preso dalla lingua. Questo sistema terminologico funziona, nei confronti del codice vestimentario, come un metalinguaggio(6): esso infatti assume come significato il sistema reale e lo dota di un insieme di significanti di carattere descrittivo. Oltre a quello reale e a quello terminologico, nell'enunciato compaiono poi altri due sistemi. È innanzitutto ovvio che l'equivalenza tra gli imprimés e le Corse è data (ossia scritta) solo nella misura in cui ostenta, e quindi significa, la moda. La notazione stessa dell'equivalenza scritta fra l'indumento e il mondo diventa così il significante di un terzo sistema, il cui significato è la moda: si tratta della connotazione di Moda, tramite la quale la moda connota il rapporto tra gli imprimés e le Corse, semplicemente denotato al livello del sistema terminologico. Infine, l'insieme di questi tre sistemi comporta un ultimo significato di ordine ideologico, che è la rappresentazione che il giornale si fa o vuol dare del mondo e della Moda (e il cui significante è l'enunciato di moda nella sua completezza): "la fraseologia del giornale costituisce un messaggio connotante, destinato a trasmettere una certa visione del mondo; chiameremo quindi questo quarto e ultimo sistema, sistema retorico." [ibid.: 39] In definitiva, sono quattro i sistemi significanti che si possono reperire in ogni enunciato a significato esplicito (mondano): 1. codice vestimentario reale; 2. codice vestimentario scritto o sistema terminologico; 3. connotazione di Moda;

4. sistema retorico. I primi due appartengono al piano della denotazione, gli altri al piano della connotazione. (ii) Sistemi dell'insieme B Si prenda un enunciato a significato implicito (la moda): ogni donna accorci la gonna fin sotto al ginocchio, adotti i carreaux fondus e cammini in scarpette bicolori. Anche in questo caso è possibile individuare un primo codice vestimentario reale, analogo a quello degli insiemi A, ma con la differenza che il significato è ora, in maniera immediata, la moda. Questo primo sistema, all'interno del giornale, è poi preso a carico da un codice vestimentario scritto. Quello che in questi enunciati scompare è la connotazione di Moda, in quanto la moda rappresenta già il significato, implicito, del sistema 2. Dal codice vestimentario scritto si passa così direttamente al sistema retorico. Dunque gli enunciati dell'insieme B comportano solo tre sistemi: 1. codice vestimentario reale; 2. codice vestimentario scritto o sistema terminologico; 3. sistema retorico. Il piano della connotazione comprende ora solo il terzo sistema. La principale differenza tra i due insiemi è, evidentemente, relativa al fatto che la moda rappresenta un valore connotato nell'insieme A e un valore denotato nell'insieme B. Ora la Moda è un valore arbitrario; nel caso degli insiemi B, il sistema generale si dà a vedere di conseguenza come un sistema arbitrario, o se si preferisce apertamente culturale; nel caso degli insiemi A, al contrario, l'arbitrarietà di Moda diventa surrettizia e il sistema generale si dà a vedere come naturale, poiché l'abbigliamento non ha più l'aspetto di un segno ma di una funzione. Descrivere: una giacca-camiciola tutta abbottonata sul dietro, ecc., è fondare un segno; affermare che l'imprimé trionfa alle Corse, è mascherare il segno sotto le apparenze di un'affinità fra il mondo e l'abbigliamento, vale a dire di una natura. [ibid.: 42] Tenendo presente che la connotazione di moda (sistema 3 dell'insieme A) è completamente parassitaria rispetto al codice vestimentario scritto e dunque non può essere sottoposta a un'analisi indipendente, Barthes afferma che il sistema della moda è costituito da tre livelli teoricamente accessibili all'analisi: quello reale, quello terminologico e quello retorico. In linea di principio, allora, si dovrebbero elaborare tre inventari. Ma, poiché l'inventario del sistema terminologico si confonderebbe con quello della lingua, Barthes decide di procedere solo a due inventari: quello del codice vestimentario e quello del sistema retorico. (6)È stato in particolare Hjelmslev ad affrontare il problema posto dalla coincidenza di due sistemi semantici in un solo enunciato. Se il sistema primario costituisce il piano dell'espressione del sistema secondario, (ERC)RC, il sistema 1 corrisponde al piano della denotazione e il sistema 2 al piano della connotazione. Se invece il sistema primario costituisce il piano del contenuto del sistema secondario, ER(ERC), il sistema 1 corrisponde allora al piano del linguaggio-oggetto, il sistema 2 al piano della metalinguaggio. "Secondo Hjelmslev, i metalinguaggi sono delle operazioni, formano la maggior parte dei linguaggi scientifici, il cui ruolo è quello di fornire a un sistema reale, colto come significato, un sistema di significanti originali, di natura descrittiva. Di fronte ai metalinguaggi, le connotazioni impregnano i linguaggi largamente sociali, in cui un primo messaggio o messaggio letterale serve da supporto a un senso secondo, di ordine in generale affettivo o ideologico; i fenomeni di connotazione hanno certamente una grande importanza, ancora misconosciuta, in tutti i linguaggi di cultura e in special modo in letteratura." [Barthes, 1967a: 31] 1.3.2.1 Il codice vestimentario Il significante del codice vestimentario è rappresentato dagli enunciati presenti nel giornale. Barthes cerca di rintracciare in questi enunciati una forma costante, ricorrendo ancora una volta alla prova di commutazione. Dopo un'accurata analisi, arriva alla conclusione che, in qualunque

enunciato significante, è possibile individuare tre elementi: un oggetto preso di mira dalla significazione, un supporto della significazione e un terzo elemento, la variante. Si prenda il seguente enunciato: cardigan sportivo o elegante secondo che il collo sia aperto o chiuso. Il cardigan rappresenta l'oggetto che riceve la significazione, il collo è il supporto che sostiene la significazione e la chiusura (alternativa aperto/chiuso) è la variante che la costituisce. Dunque la significazione segue una sorta di itinerario: parte da un'alternativa (aperto/chiuso), attraversa un elemento parziale (il collo) e arriva a toccare l'indumento (il cardigan). Questa unità significante, derivante dall'unione di un oggetto, un supporto e una variante, è definita da Barthes matrice. Gli oggetti e i supporti sono di natura materiale, rappresentano frammenti di spazio vestimentario, mentre la variante è immateriale, in quanto è costituita da opposizioni di tratti pertinenti (presenza/assenza, aperto/chiuso/semiaperto) e rappresenta una riserva di virtualità, di cui solo un termine è attualizzato nell'indumento (si può dire che la variante rappresenta il punto del sistema che affiora al livello del sintagma). Barthes procede dunque all'elaborazione di due inventari: 1. un inventario, comune per gli oggetti e i supporti, che coincide con l'inventario delle specie e dei generi degli indumenti (ad esempio, del genere scarpe fanno parte le specie babbucce, ballerine, stivali, stivaletti, scarpe, scarpette, mocassini, pianelle, polacchette, Richelieu, sandali, -sport); 2. un inventario delle varianti, distinte in due categorie: le varianti di essenza, che modificano i loro supporti in modo predicativo (abito lungo, blouse leggera, tunica con spacchi), e le varianti di relazione, che indicano una certa collocazione del supporto in relazione con un campo o con altri supporti (due collane, abito abbottonato a destra, blouse infilata nella gonna) . Dopo aver scomposto la struttura del significante, Barthes va ad analizzare quella del significato. A questo proposito occorre riprendere la distinzione fatta precedentemente fra gli enunciati dell'insieme A e quelli dell'insieme B [cfr. § 1.3.1.]. Nell'insieme A, contrariamente a quanto accade nella lingua, il significato dispone di un'espressione propria (estate, week-end, passeggiata), che è formata dalla stessa sostanza del significante (si tratta in entrambe i casi di parole). Nell'insieme B, invece, il significato (la moda), non dispone di un'espressione propria, ma, come avviene nella lingua, è dato contemporaneamente al significante. Dopo aver tentato di intraprendere un'analisi dei significati, Barthes è costretto a prendere atto del fatto che il sistema dei significati della moda è estremamente instabile e sfugge a ogni tentativo di razionalizzazione. Questo perché "il senso finale dell'enunciato non è al livello del codice vestimentario (neanche nella sua versione terminologica), ma al livello del sistema retorico7; ora, anche nel caso degli insiemi A […] il primo dei due sistemi retorici che questi insiemi comportano ha come significato globale la Moda in sé: poco importa in fondo che la flanella significhi indifferentemente la sera o il mattino, poiché il segno così costituito ha la Moda come vero significato." [ibid.: 212] L'unione del significante e del significato dà vita al segno vestimentario. Barthes analizza questo segno sotto due punti di vista: (i) Arbitrarietà Saussure, nel suo Corso di linguistica generale, fa una breve notazione sulla moda, la cui arbitrarietà, a differenza di quella illimitata del linguaggio, sarebbe limitata dalle "condizioni dettate dal corpo umano." [Saussure, 1916: 94] Barthes rovescia questa affermazione, dichiarando che il segno linguistico non è arbitrario, in quanto, una volta stabilita l'equivalenza tra un significante e un significato, nessuno vi si può sottrarre, se vuole fare un uso pieno del sistema della lingua: i parlanti hanno sui segni linguistici una libertà al limite combinatoria, ma non inventiva. Per Barthes è invece il segno di moda a essere relativamente arbitrario, in quanto "è elaborato ogni anno, non dalla massa degli utenti […] ma da una istanza ristretta, che è il fashion-group, o anche forse, nel caso della Moda scritta, la redazione del giornale; […] ciò che denuncia l'arbitrarietà del segno di Moda è appunto il fatto che è sottratto al tempo: la Moda non evolve, cambia: il suo lessico è nuovo ogni anno." [Barthes, 1967a: 217] (ii) Motivazione

Nel codice vestimentario il problema della motivazione del segno si pone diversamente a seconda che il significato sia mondano o di moda. Quando il significato è mondano (gli imprimés trionfano alle Corse; l'accessorio fa la primavera) il segno di moda è sempre motivato: il motivo del rapporto di significazione può essere una funzione utilitaria o l'imitazione di un modello estetico o culturale. Negli insiemi a significato implicito (la moda), invece, il segno è sempre immotivato, poiché non esiste una sostanza della moda a cui l'indumento possa conformarsi per analogia o affinità. Si potrebbe dire che questo segno è "tautologico", in quanto la moda non è mai nient'altro che il vestito alla moda. (7) Cfr. § 1.3.2.2.

IL LINGUAGGIO E LE STRATEGIE COMUNICATIVE DELLA MODA DI CLAUDIA GRAZIANI CAPITOLO 2 LA SVOLTA SEMIOTICA 2.1 I presupposti teorici della sociosemiotica Negli ultimi anni sono intervenute profonde trasformazioni nei processi comunicativi e, di conseguenza, nelle dinamiche sociali e nei rapporti intersoggettivi. Di fronte a questo nuovo scenario, si è manifestata l'esigenza di un superamento dei tradizionali paradigmi di ricerca sulla società e sulla significazione. È evidente che questioni come le modalità di consumo, i nuovi valori politici, i flussi informativi, gli effetti dei nuovi media - solo per citarne alcune interessano contestualmente le analisi sociologiche e quelle semiotiche. Si rende allora necessario superare la distinzione fra le due discipline, fra i loro metodi e i loro oggetti di studio, e affrontare questioni di questo genere con un approccio unitario: è questa la sfida della sociosemiotica, che si propone di analizzare i fenomeni sociali da un punto di vista semiotico. In Italia, lo studioso che ha maggiormente contribuito alla diffusione della sociosemiotica è Gianfranco Marrone: in Corpi sociali [2001], dopo una panoramica sulle basi teoriche di questa prospettiva, egli ne propone alcune applicazioni nel campo della moda, della televisione, del giornalismo, della pubblicità, della politica e della spazialità. L'obiettivo è quello di "mostrare come alcuni temi di tradizionale interesse sociologico […] possano essere efficacemente studiati a partire dai comprovati modelli che, lavorando su altri oggetti d'analisi, la semiotica ha costruito nel corso della sua storia." [ibid.: X]

Marrone fa, a questo proposito, una riflessione: la significazione, che è l'oggetto di studio della semiotica, è senza dubbio un fenomeno sociale. Essa, infatti, non si manifesta "nel vuoto", ma all'interno dei sistemi socio-culturali in cui gli individui vivono, agiscono, parlano. Questo lo porta a prospettare, in linea di principio, una corrispondenza tra la semiotica generale e la sociosemiotica: se l'oggetto di studio della semiotica è la significazione e la significazione rappresenta un fenomeno sociale, allora la semiotica è a tutti gli effetti una sociosemiotica. L'esigenza di una sociosemiotica come sezione relativamente autonoma della semiotica generale si è avvertita perché gli studi del passato hanno concentrato la loro attenzione sul versante filosofico-linguistico della semiotica, trascurando quello metodologico-empirico. Dunque "la sociosemiotica non è la branca della semiotica che s'interessa ai fatti sociali, o quanto meno non è solo questo: essa è soprattutto un gesto teorico che intende costruire quell'anello mancante tra filosofia del linguaggio e analisi dei fenomeni sociali di cui da più parti s'avverte l'esigenza." [ibid.: XIV] Per definire l'oggetto di studio della sociosemiotica, Marrone la distingue da un'altra prospettiva, quella della sociolinguistica: quest'ultima studia i nessi tra il linguaggio e la società, considerando il linguaggio come un sottoinsieme della società, qualcosa che essa contiene al suo interno. Al contrario, la significazione non rappresenta un sottoinsieme della società, ma vi si sovrappone: qualsiasi fenomeno sociale è inserito infatti in un universo articolato di senso. Dunque il problema non è più quello di capire i modi in cui la società influenza il linguaggio e, a sua volta, viene influenzata da questo (come fa la sociolinguistica), "ma semmai di comprendere i modi in cui la società entra in relazione con se stessa, si pensa, si rappresenta, si riflette attraverso i testi, i racconti che essa produce al suo interno." [ibid.: XVI] In definitiva, la sociosemiotica studia i fenomeni sociali (moda, politica, pubblicità, ecc.) come meccanismi di significazione, come universi articolati di senso. Marrone fa poi una seconda precisazione. L'obiettivo della sociosemiotica non è quello di rivolgere lo sguardo su alcuni oggetti tradizionalmente studiati dalla sociologia: più che una metodologia sociologica, essa può essere intesa come una sorta di "sociologia critica". "Semioticamente, infatti, il sociale non è un dato empirico bruto di cui svelare le leggi più o meno nascoste, ma un effetto di senso costruito di cui occorre individuare le procedure che lo hanno posto in essere." [ibid.: XVI-XVII] Dunque la sociosemiotica studia i fenomeni sociali non come qualcosa di evidente, immediato, "naturale", ma come oggetti costruiti, focalizzandosi sull'insieme dei discorsi e delle pratiche che intervengono nella loro costruzione e trasformazione. In questa prospettiva, la società e la cultura vengono considerate come insiemi organici di testi, ognuno con un linguaggio e una strategia specifici, che si traducono tra loro e, mediante questa incessante operazione di traduzione, si costruiscono. E così la moda, la politica, l'economia, le nuove tecnologie, rappresentano dei testi, ognuno con propri codici, regole e grammatiche; nell'ambito della nostra società, questi testi vengono raccontati dai giornali, dalla televisione, dal cinema, dalla pubblicità, che sono a loro volta dei testi con propri specifici linguaggi. Consideriamo, per esempio, la moda reale che viene descritta nei giornali. Questo meccanismo non è unidirezionale: il giornale, nel momento in cui rappresenta la moda, la influenza e la modifica. Quello che diviene interessante è proprio questo gioco reciproco, la complessa rete di relazioni attraverso cui i fenomeni sociali vengono raccontati da altri testi che, a loro volta, incidono nella costruzione di questi fenomeni. Tutto ciò fa cadere l'idea secondo cui ci sono da una parte gli eventi reali, oggettivi, e dall'altra i discorsi su questi eventi, le loro rappresentazioni. C'è invece una costruzione continua, reciproca, che crea le significazioni sociali. Quella di testo è dunque una nozione chiave all'interno della sociosemiotica. Marrone definisce il testo come "un conglomerato di senso complesso e stratificato, coerente nelle sue varie parti e coeso come un tutto." [ibid.: XX] Qualsiasi costrutto culturale che può essere articolato in un piano dell'espressione e un piano del contenuto rappresenta un sistema di significazione rilevante sul piano sociale e, quindi, può essere inteso come testo. Testi possono essere un articolo di giornale, un annuncio pubblicitario, un comizio politico, ma anche un intero quotidiano, un

telegiornale, una campagna pubblicitaria, uno scontro tra forze politiche, l'articolazione spaziale di una stazione metropolitana. Altro concetto fondamentale è quello di discorso. "Laddove il testo va considerato nel suo doppio piano dell'espressione e del contenuto, per il discorso il piano dell'espressione è relativamente indifferente." [ibid.: XXIV] Il discorso indica dunque solo l'organizzazione e i criteri di produzione del contenuto, indipendentemente dalle unità di manifestazione. Un discorso pubblicitario, ad esempio, è un processo generale con i suoi temi, le sue configurazioni, i suoi particolari modi di usare lo spazio, il tempo e gli attori: questo discorso può manifestarsi, a livello espressivo, attraverso diverse strutture testuali (uno spot televisivo, un annuncio a stampa, un comunicato radiofonico). Anche se distinti teoricamente, i testi e i discorsi si sovrappongono continuamente: "un testo manifesta un genere discorsivo, ora adeguandosi a esso ora ri-generandolo; un genere, a sua volta, non dipende da tassonomie sociali rigide, fissate una volta e per tutte, ma da modelli sociali in continua trasformazione e in perenne traduzione reciproca." [ibid.: XXVII] 2.2 La moda come discorso La moda rappresenta senza dubbio un campo di studio privilegiato per la sociosemiotica, in quanto si configura come una realtà complessa, che comporta un'interazione fra linguaggio, oggetti concreti e corpi. In questa prospettiva, il fenomeno della moda viene analizzato non più, come faceva Barthes [cfr. § 1], solamente attraverso lo studio del linguaggio verbale utilizzato, ma relativamente a tutti i tipi di discorso che si distribuiscono al suo interno. 2.2.1. Marrone: una rilettura del Sistema della Moda Chiunque si occupi di moda non può esimersi da un confronto col Sistema della Moda [Barthes, 1967a]. Svariati sono i difetti e i limiti che, nel corso del tempo, sono stati riscontrati in quest'opera: una visione ingenua del segno come semplice equivalenza, una forte sottomissione del visivo al verbale, una mancata considerazione delle strutture profonde della significazione, l'omissione di fenomeni fondamentali come la capillare diffusione sociale delle tendenze e la divizzazione degli stilisti e delle modelle. Ma, al di là delle critiche e delle polemiche, sarebbe utile rileggere attentamente il testo: ne verrebbe fuori un'opera ricca di analisi minuziose e accurate, punteggiata da una gran quantità di notazioni semiotiche, linguistiche, sociologiche, etiche ed estetiche, un'opera il cui valore è, tutt'oggi, innegabile. Una tale "rilettura" del Sistema della Moda è stata proposta da Marrone [1995]: ciò gli ha permesso di fare chiarezza su alcuni equivoci suscitati dalle riflessioni di Barthes e di sgomberare il campo dai diversi luoghi comuni che continuano a circolare intorno alla sua opera. Marrone ci tiene innanzitutto a confutare un'accusa che è stata più volte rivolta a Barthes, ossia il suo presunto "disprezzo" verso l'immagine e la plasticità, così come verso gli oggetti e i comportamenti della vita quotidiana. Egli, sottolinea, considera la moda come una curiosa entità, la cui essenza si pone nell'interstizio "tra le parole e le cose": non propriamente linguistica, non può prescindere dal discorso per affermarsi; non propriamente reale, ha comunque bisogno di un qualche aggancio ontologico. Essa è frutto, dunque, di un processo di trasformazione che dal mondo porta alla lingua e da questa torna al mondo. Le restrizioni che poi Barthes pone alla sua analisi non vanno intese come "accademiche" delimitazioni di campo, ma come la messa a fuoco di un punto privilegiato di osservazione. Infatti "Barthes non studia soltanto il linguaggio della Moda, lasciando da parte l'eventuale Moda reale: comprende semmai che la Moda non è altro che un sistema di significazione, è l'attribuzione di un senso e di un valore specifici a un oggetto di per sé inerte." [ibid.: 144] Circoscrivendo la sua analisi alle riviste di moda e, al loro interno, alla sola moda scritta, egli riconosce l'oggetto specifico della significazione vestimentaria a partire da cui, generalmente, la moda trova i suoi punti di articolazione: è infatti solo grazie alle

didascalie presenti nelle riviste che l'abito, spogliato dalla sua funzionalità ed esteticità, viene investito dalla significazione. Il conseguente "ribaltamento di Saussure" - per cui la semiologia è parte della linguistica [cfr. § 1.2.] - è funzionale a una peculiare concezione della semiologia: questa disciplina non consiste né nello studio dei segni verbali, né in quello dei segni non verbali, ma deve essere intesa come "lo studio dei diversi tipi di discorso che si distribuiscono nella società a seconda dei diversi modi in cui la lingua prende in carico, al suo interno, porzioni del mondo naturale." [ibid.: 145] La moda va dunque studiata nel suo essere verbale - la moda descritta nelle riviste - al fine di strutturare quello specifico discorso che, sovrapponendosi alla lingua, dà vita a un universo semantico particolare e (relativamente) autonomo. Contro chi imputa a Barthes una sorta di "sudditanza" nei confronti della linguistica, Marrone sottolinea come tutto il Sistema è percorso da notazioni sulle differenze che intercorrono tra la struttura della lingua e il sistema della moda. L'autonomia della semiologia dalla linguistica è testimoniata, tra le altre cose, dall'apertura e dalla dinamicità del sistema della moda: quest'ultimo può essere inteso, sottolinea Marrone, anche e soprattutto come un processo di trasformazione che parte da una significazione già data (quella del codice reale), passa attraverso una nominazione terminologica (quella della lingua), giunge fino alla ideologizzazione (quella della retorica) e torna infine all'abito (che ora però è un abito pseudo-reale, interamente costruito da questo processo e trasformato in un abito alla moda). I poli estremi di questo processo sono rappresentati infatti dai termini alla moda e fuori moda. In virtù di questa operazione di risemantizzazione e di valorizzazione dell'oggetto di partenza, la moda può essere intesa come un processo di natura estetica, che deriva dal superamento di un'esperienza esclusivamente fenomenologica dell'oggetto-moda e che si basa su una sua "riconfigurazione semiotica" che dal banale e dall'insignificante porta al senso. L'esteticità […] non coincide in senso stretto né con l'abito dato né con la sua significazione, ma si coglie, nello scorcio di un attimo, nel transito dalla cosa al suo senso, in quella operazione di presa in carico del reale nella lingua che, come abbiamo detto, Barthes si preoccupa di mettere a fuoco. […] Il senso "tocca a distanza" gli oggetti che elegge a significanti di Moda, li coglie "per il tempo di una parola": e in questo tocco, in questa saisie abbagliante ed evanescente è possibile intravedere il processo estetico della Moda. L'evento estetico è questo movimento che, come una grazia, dona un nuovo senso all'oggetto per riprenderselo in qualsiasi momento. [ibid.: 150-151] 2.2.2. L'intramontabile total look di Coco Chanel Sulla moda intesa come discorso si sofferma anche Jean-Marie Floch [1995], che analizza il total look di Coco Chanel in quanto discorso vestimentario. Ciò lo porta a prendere le distanze dagli studi semiotici precedenti, in particolare quelli di Barthes e di Greimas, i quali, ritenendo che il senso passasse sempre attraverso la nominazione linguistica, studiavano i sistemi di significazione non verbali solo a partire dalla loro "lessicalizzazione". Floch dichiara di non essere interessato ai discorsi sulla moda (ossia ai metadiscorsi, come il vocabolario giornalistico della moda o il sistema lessicale dei professionisti della moda), ma di voler analizzare il discorso della moda. Egli si sofferma innanzitutto sulla dimensione semiotica figurativa del total look di Chanel. Passa così in rassegna i capi d'abbigliamento e gli accessori inventati dalla stilista e che ne costituiscono, in qualche modo, i segni di identificazione: la marinara, il jersey, il cardigan e i completi in maglia, i pantaloni, il vestito nero, il blazer con i bottoni dorati, il berretto da marinaio, il tweed, i gioielli fantasia, il tailleur in tweed profilato, la cintura dorata, la scarpetta con la punta nera, la borsa impunturata con la catena dorata, il fiocco. Inquadrando storicamente l'apparizione di queste invenzioni, si può constatare come Chanel abbia rigettato sistematicamente i tratti più caratteristici della moda femminile dell'epoca. La stilista rifiuta infatti tutto ciò che non risponde a una precisa funzionalità dell'abbigliamento, che deve essere pratico e confortevole, per consentire alle donne di camminare, lavorare e muoversi liberamente.

Chanel rifiuta di fare delle tasche così piccole che le mani non possano infilarcisi; sopprime i bottoni puramente decorativi ("Non fate mai un bottone senza asole!"). Vigila a che le gonne a portafoglio permettano alle gambe il passo libero e considera che "il giro spalla non è mai abbastanza largo". Per favorire ancor più la libertà del corpo, Chanel accorcerà le gonne, sceglierà il crêpe per la sua duttilità, inventerà la borsa a tracolla e farà sempre in modo "che la schiena abbia un gioco di almeno dieci centimetri: bisogna potersi chinare, giocare a golf, infilarsi le scarpe, bisogna quindi prendere le misure della cliente con le braccia incrociate…". [ibid.: 130] Il primo contenuto narrativo del suo look, dal punto di vista figurativo, è dunque la conquista di una libertà individuale, frutto della modernità. Lo stesso Barthes [1967b], analizzando lo stile di Chanel, aveva evidenziato che esso "corrisponde a quel momento abbastanza breve della nostra storia […] in cui una minoranza di donne ha avuto accesso finalmente al lavoro, all'indipendenza sociale." [ibid.: 120] La seconda componente del contenuto della semiotica figurativa del look di Chanel è rappresentata da una particolare visione della femminilità, esaltata per paradosso. La silhouette è infatti costruita a partire da segni appartenenti a universi estranei alla moda femminile dell'epoca, ossia il lavoro (jersey, marinara, gilet rigato) e l'abbigliamento maschile (berretto, pantaloni, cravatta, capelli corti). Ma questi segni fungono da significanti che rimandano a significati opposti, quali la femminilità e il lusso. Grazie a questo gioco di inversione di significanti e significati, Chanel vuole affermare una definizione originale dell'identità femminile, che è esclusivamente sua. Il total look di Chanel non è però soltanto costituito da questi segni d'identificazione, ma è anche, concretamente, una silhouette, "una forma sensibile che si dispiega nello spazio e che lo sguardo percorre." [Floch, 1995: 132] Questa silhouette offre a chi la osserva la possibilità di distinguere chiaramente le diverse parti che la compongono, apprezzandone ciascuna separatamente. Passando all'esame della dimensione plastica, ovvero sensibile, del total look, Floch ne mette in risalto alcune caratteristiche principali. Innanzitutto questo look produce l'effetto di una chiusura della forma generale: questo effetto è assicurato dalla punta nera delle scarpe, che permette di distaccare la silhouette dal terreno, e, sul versante opposto, dalla pettinatura nettamente disegnata. Una seconda caratteristica è il predominio delle linee (bordature dei tailleur, disegni dei colletti, cinture, pieghe precise, tessuti stampati), che funzionano come un contorno, assicurando il taglio della silhouette e il suo posizionamento nello spazio. Questa silhouette presenta anche delle "masse", costituite per lo più dai gioielli (braccialetti, collane, spille, orecchini), che però non ne compromettono mai la linearità generale. Infine, il look di Chanel è contraddistinto da una sua propria luce, generata dai particolari giochi di colore e dalle materie utilizzate. A partire dalla distinzione della visione classica e barocca effettuata dallo storico e teorico dell'arte Heinrich Wölfflin1, Floch sottolinea che le caratteristiche formali, topologiche e cromatiche individuate nel look di Chanel corrispondono senza dubbio a una "visione classica". Nello stesso tempo, è possibile individuarvi anche alcuni elementi tipicamente "barocchi" (masse, intrecci, chiarori effimeri), la cui presenza non compromette però l'ordine classico della silhouette nel suo complesso. È come se questi elementi avessero il compito di esaltare, per contrasto, la classicità del look di Chanel, caratteristica che era stata evidenziata dallo stesso Barthes in contrapposizione al "futurismo" di Courrèges: "Chanel […] evita alla moda di sconfinare nella barbarie e la colma di tutti i valori dell'ordine classico: ragione, naturalezza, permanenza, gusto di piacere e non di stupire." [Barthes, 1967b: 118] L'estetica classica genera, in Chanel, un'"etica del mantenimento", che rappresenta un vero e proprio progetto di vita. Questa etica, che si manifesta mediante le figure gestuali del portamento della testa, delle spalle dritte e della schiena eretta, potrebbe essere erroneamente intesa come una sorta di negazione della libertà. Al contrario, lo stile di Chanel è contraddistinto da una complementarità molto

particolare tra la libertà ed il mantenimento: la libertà si realizza nella dimensione figurativa del look, mentre il mantenimento è manifestato da quella plastica. Abbiamo visto come Floch ha individuato l'etica del mantenimento attraverso un'analisi del look creato da Chanel e, dunque, a partire dal suo discorso "non verbale". Coerentemente con una prospettiva sociosemiotica, sente poi l'esigenza di andare a leggere gli scritti di Chanel (interviste, precetti, confidenze), per ritrovare questa stessa etica anche nel suo discorso verbale: quest'ultimo può infatti essere considerato come il "prolungamento" del suo discorso plastico. In particolare, egli analizza un articolo scritto da Gabrielle Chanel, apparso nel 1936 nella Revue des sports et du monde. In questo articolo intitolato "Quando la moda illustra la storia", Chanel sviluppa le ragioni della sua simpatia e della sua ammirazione per "le donne che vissero nell'epoca che va da Francesco I a Luigi XIII", sentimenti provati alla sola vista dei ritratti del tempo - ritratti che Chanel descrive come netti, acuti, diretti. Che cosa scrive o che cosa immagina Chanel di queste donne? Si meraviglia della loro "forza", del loro "carattere", della loro "volontà di presenza". Poi assicura che queste donne, "nonostante la loro personalità più forte che in ogni altra epoca" avevano preso coscienza di dover "perpetuare, mantenere, esaltare la razza in ciò che ha di forte nel presente e di ricco per l'avvenire…" prima di ritornare, a più riprese, sulla loro forza, la loro dignità, e di concludere sulla "precisa e sensibile armonia che univa da allora tutte le grandi opere del lusso nel medesimo tempo". [Floch, 1995: 161-162] Questo articolo documenta chiaramente la visione classica di Chanel e la sua etica del mantenimento. È proprio grazie ai continui rimandi tra i vestiti creati dalla stilista e i testi da essa scritti che si generano le significazioni di moda. L'ultimo interrogativo che Floch si pone è relativo al carattere "intramontabile" del look di Chanel. Questa sorta di estraneità al tempo dipende dalle sue modalità di produzione: esso rappresenta infatti il risultato di un vero e proprio bricolage2, ossia un lavoro di combinazione e di adattamento di segni di origini ed epoche diverse. Lo sfruttamento e la messa in co-presenza di questi segni sospende la differenza temporale che essi manifestano. Mentre la moda può "passare di moda" perché è una questione di segni, il look è intramontabile: esso rappresenta infatti una struttura sensibile e intelleggibile, elaborata a spese dei segni, prescindendo cioè dalle loro caratteristiche storiche e dal loro uso originario. È in questi termini, secondo Floch, che occorre spiegare il carattere intramontabile del look di Chanel. Le sue creazioni contestano l'idea stessa di moda, "la cosa stessa che nega la moda, la durata, viene trasformata da Chanel in qualità preziosa." [Barthes, 1967b: 119]. 1 H. Wölfflin, Principes fondamentaux de l'histoire de l'art, éd. Gérard Monfort, Brionne, 1984 [tr. it. Concetti fondamentali della storia dell'arte, Longanesi, Milano, 1984] 2Il primo a utilizzare questo termine è stato Claude Lévi-Strauss, affermando che "la cultura spesso funziona come il bricolage, cioè ogni società usa per i suoi usi e costumi, per le sue credenze e leggi sociali, i materiali che ha a disposizione, che trova già fatti intorno, in altre zone della vita sociale o in altre società vicine; quindi li assortisce come può e come sa, dato che il sistema è indifferente ai materiali di cui è composto e bada solo alle differenze che è in grado di istituire fra loro." [Volli, 1998: 14] 2.3 Il passaggio dalla moda agli stili 2.3.1 Le trasformazioni nelle strategie degli stilisti Oltre alle analisi che interessano il sistema della moda nel suo complesso, sono molte quelle che invece si concentrano su uno dei vari soggetti che agiscono al suo interno (produttori, distributori, venditori finali, mass media, consumatori). In particolare, numerosi studi sono stati dedicati agli stilisti, una figura chiave il cui operato si colloca "a monte" del processo di moda. Wargnier [1995], a partire da un corpus ben definito di testi, ha riflettuto sulle diverse strategie che gli stilisti utilizzano per affermare la propria posizione all'interno dell'universo moda. In base al rapporto che essi instaurano col tempo, è possibile distinguere due atteggiamenti opposti: quello della permanenza, che concepisce il tempo come durata (continuità) e quello del

rinnovamento, che concepisce il tempo come perpetuo nuovo inizio (discontinuità). Questa opposizione iniziale può essere completata con l'introduzione di due termini contraddittori rispetto ai primi: la rottura (il contraddittorio della permanenza) e la tradizione (il contraddittorio della novità). Si ottiene così una configurazione a quattro posizioni, che è possibile disporre sul quadrato semiotico: Questo schema permette anche di osservare come l'atteggiamento adottato dagli stilisti o dalle marche può evolvere nel corso della loro esistenza. Il primo obiettivo di un nuovo talento è, senza dubbio, quello di farsi conoscere, suscitando l'interesse dei media e ritagliandosi un posto tra le marche già affermate. Per riuscirci, deve dimostrare una profonda capacità innovatrice, proponendo un proprio linguaggio stilistico che lo distingua da tutti coloro che lo hanno preceduto. Il suo atteggiamento è dunque quello della rottura, dell'avanguardia: valorizza ciò che è nuovo e rompe definitivamente con il passato. Uno stilista che rientra a pieno titolo in questa categoria è Courrèges, la cui qualità di innovatore assoluto era già stata riconosciuta da Barthes [1967b]. Quando i giornalisti entrarono nell'universo bianco, rigido, da convento spagnolo, che era allora l'appartamento dove Corrèges presentava la sua collezione, fu uno choc. Bianco assoluto: bianche le tende, bianchi i cuscini delle sedie austere, bianchi i tappeti, bianchi i muri, il soffitto, i fiori. E quando, al suono dello jerk, alcune creature temerarie con gli stivali bianchi, con gli occhiali di celluloide e dei berretti militari, avanzarono sulla passerella bianca, … fu la rivoluzione." [Wargnier, 1995: 211-212] Dopo aver ottenuto un primo riconoscimento, lo stilista deve operare meno per attirare l'attenzione e più per conservarla, mantenendo, stagione dopo stagione, un interesse sempre vivo. Per testimoniare, di volta in volta, la sua capacità creativa, deve fare della sua collezione il momento centrale della stagione. Il sistema della moda viene così organizzato in base a una logica di discontinuità temporale (rinnovamento): le sfilate a scadenza semestrale, le tendenze, i saldi, e così via. A un certo stadio del suo percorso di maturazione, una marca può anche stancarsi di combattere solo sul fronte del presente, rifiutando la logica del "nuovo per il nuovo". Per negare questa discontinuità temporale, viene allora valorizzata la tradizione, ossia il capitale di notorietà, di immagine e di stile costituito dagli anni trascorsi: si effettua così una sorta di riattualizzazione, di riabilitazione degli elementi del patrimonio passato. Questo atteggiamento può dar vita a due strategie distinte: - il presente si rivolge interamente al passato per acquisire, in questo modo, maggiore credibilità: è il caso di Ralph Lauren, che "alimenta tutto il suo stile con i riferimenti alla Nuova Inghilterra della prima metà del secolo, e alle radici anglosassoni." [ibid.: 213] - il passato si rimette al gusto del momento: è il caso di Hermès, che "riadatta il mantello del cocchiere o la redingote del proprio patrimonio passato." [ibid.: 213] A questo punto, sicura della sua legittimità e della sua notorietà, la marca non deve far altro che "entrare a pieno titolo nel patrimonio atemporale degli ineliminabili della storia" (permanenza) [ibid.: 221]. Il tempo che passa e l'umore variabile dei media non la intaccano più, perché essa è diventata ormai un'Istituzione, passando all'atemporalità, all'"al di fuori del tempo". Le stagioni che si susseguono non sono segnate da reali differenze e novità, ma diventano l'occasione per proporre semplici variazioni su uno stile che è riconosciuto dal pubblico e difeso gelosamente dalla maison. Quest'ultima è interessata ormai solo alla creazione dei musei, alla clientela dei "grandi" del mondo, agli onori dovuti ai grandi maestri più che alle belle collezioni. Questo discorso della permanenza, secondo Wargnier, è stato adottato dalla maison Saint Laurent, che è arrivata a tenere mostre nei musei internazionali, e da Chanel, che, come abbiamo sottolineato in precedenza [cfr. § 2.2.2.], contrappone il suo stile "chic" (lunga durata) al "nuovo" e alla moda in generale.

Fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, nelle società occidentali, si evidenziano alcuni cambiamenti che influiscono profondamente su tutti i settori merceologici, e in particolare su quello dell'abbigliamento. Bucci [1995] riflette su questa situazione per capire come le trasformazioni in atto si ripercuotono sulle strategie adottate dagli stilisti. A partire dalla metà degli anni Ottanta si evidenzia una "saturazione quantitativa": nei Paesi ricchi i mercati non crescono più, in quanto i bisogni sono saturati. Chi vuole imporre nuovi prodotti deve necessariamente far leva sui loro aspetti immateriali, mostrando un valore aggiunto di tipo estetico e in termini di servizio. Infatti i consumatori, dando per scontato che i prodotti siano equivalenti dal punto di vista delle qualità intrinseche e funzionali, scelgono ormai sulla base dell'aspetto estetico, l'unico in grado di differenziare i prodotti. Questo fenomeno, ovviamente, ha il massimo sviluppo proprio nella moda: si ha infatti un boom nei consumi di abbigliamento. A questo punto, fra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, si manifesta una seconda saturazione, questa volta di tipo qualitativo, semiotico, che riguarda dunque i segni di comunicazione, estetici e immateriali. Il bombardamento continuo di forme, immagini, colori e novità crea nel consumatore quello che Bucci definisce un "rifiuto visivo". Questa situazione coinvolge innanzitutto la moda, il settore all'interno del quale la differenziazione aveva maggiormente fatto leva sulla novità estetica: questa viene in qualche modo "data per scontata" e perde la sua rilevanza. Di fronte a un consumatore saturo della moda e del nuovo, il panorama dell'offerta si avvia a un radicale cambiamento: i trend setters cercano di individuare un proprio stile peculiare, che li distingua dagli altri, introducendo poi delle varianti stagionali che non compromettono però la personalità e la riconoscibilità di questo stile. Gli stilisti e i vari marchi, quindi, "lavorano verso una definizione d'identità, di un racconto, di una narrazione che tende a creare uno spazio preciso nell'immaginario del consumatore." [ibid.: 225] I consumatori sono così posti di fronte non più a un globale cambiamento "stagionale", bensì a un dispiegamento in parallelo di stili diversi. Questa "moda come stili" va contro l'idea stessa di moda, strettamente legata alla novità, al cambiamento, all'obsolescenza: si evidenziano infatti un certo numero di stili, ognuno dei quali muta molto lentamente nel corso del tempo. Bucci sottolinea però che questo passaggio dalla "moda" agli "stili" riguarda solo i leader del settore (venti-trenta griffes o marchi a livello mondiale), gli unici portatori di un proprio stile e di una propria personalità e gli unici in grado di proporre effettivamente qualcosa di diverso che raccolga consensi fra il pubblico. Il rischio a cui si va incontro in una situazione del genere, però, è legato alla riduzione del rinnovamento e della sperimentazione: è necessario allora sviluppare, contemporaneamente, una continuità nello stile e un'evoluzione espressiva. In questa prospettiva, lo stile va inteso come una vera e propria "ricerca personale", grazie alla quale gli stilisti effettuano una profonda esplorazione delle proprie capacità inventive e della propria, inconfondibile, identità: l'esito di ogni ricerca personale corrisponderà, probabilmente, ai diversi atteggiamenti e sentimenti propri anche del consumatore. Fra i leader mondiali del momento, Bucci cita quattro designers italiani: Armani, Ferrè, Versace e Gigli. I loro stili si differenziano nettamente e ognuno "esprime" qualcosa di più profondo del bello, del gradevole, del "bon ton". Le immagini a cui rimandano sono delle "immagini/maschere", che comunicano in modo totale e con cui i consumatori si identificano. Bucci propone anche una definizione verbale delle diverse identità (pur essendo consapevole dell'inadeguatezza di una classificazione esclusivamente razionale): - Armani: il classico/attuale, l'eleganza minimalista, la parità dei sessi, il post-femminismo; - Ferré: l'importanza, la sicurezza, l'imponenza, l'eleganza progettata; - Versace: la vistosità sensuale, il gioco sexy, il corpo aggressivo; - Gigli: l'interiorità, i legami psicologici, la notte, il sogno, la fiaba. [ibid.: 228] L'obiettivo di questa "moda di stili" è quello di raggiungere un nuovo posizionamento relativo non a uno spazio fisico, ma a uno spazio mentale: non ci si va a posizionare presso target

specifici (la donna x di y anni, con questa o quella caratteristica), ma nell'immaginario dell'individuo. Questi, infatti, rifiuta di ricoprire il ruolo del consumatore passivo, in quanto vuole essere egli stesso l'interprete di sé, dei propri stati d'animo e delle proprie esigenze. Anche Grandi [1995], riflettendo sulle strategie di posizionamento adottate dagli stilisti, afferma che ognuno di loro cerca di differenziarsi dagli altri sulla base di "variabili valoriali", che vengono comunicate all'esterno attraverso il sistema dei mass media. In una situazione del genere lo stilista assume un ruolo sociale che trascende quello di creatore di forme, diventando un vero e proprio "personaggio del sistema massmediatico". La presentazione di ogni nuova collezione viene trasformata in un vero e proprio evento che, adottando le logiche proprie dello spettacolo e dei mass-media, sia in grado di fare notizia. .2.3.2 La fine della moda (?) Le trasformazioni intervenute in questi ultimi anni inducono a porsi la seguente domanda: si può proclamare, oggi, la fine della moda? Se si guarda al secolo che si sta concludendo, esso può essere senza dubbio definito come "il secolo della moda" [Volli, 1998: 8], segnato dalle grandi oscillazioni pilotate dalle personalità di grandi sarti, couturier e stilisti. La moda è stata insomma sinonimo di modernità. La modernità ha ora lasciato il passo al postmodernismo, segnato dalla caduta delle ideologie, dalla perdita del senso della storia, dal pluralismo, dalla mescolanza di localismo e globalizzazione. Volli ritiene che la principale vittima di questo clima sia proprio la moda: L'omogeneità delle grandi ondate di moda veniva dall'imitazione collettiva, questa derivava dal prestigio sociale o professionale dei modelli imitati. Ma come tutto ciò si può riprodurre oggi quando non vi è una chiara struttura sociale, quando il prestigio e l'influenza sono distribuiti fra presentatrici televisive e stilisti, calciatori e uomini d'affari, gruppi marginali e potentati politici? Come stabilire il legame fra tempo e gusto che sta alla base dei cambiamenti della moda, quando i diversi tempi sociali sono singolarmente fuori sincrono? Come imporre un'unica lingua del gusto in mezzo a rivendicazioni etniche, localismi, ventate di nostalgia e di futurismo? [ibid.: 9] Il risultato di questa situazione, come sottolinea anche Bucci [cfr. § 2.3.1.], è il passaggio dalla moda agli stili: l'abbigliamento non risponde più alle tendenze di moda, ma è condizionato dallo stile, dalla rivendicazione di identità peculiari, distinte tra loro. Il consumatore, nel decidere cosa indossare e, prima ancora, cosa acquistare, attinge a una sorta di "supermercato degli stili", dove le proposte sono molteplici, confuse, ambigue. Se dunque il Novecento può essere definito come il secolo della moda, il prossimo sarà il secolo dello stile, o meglio, degli stili "immobili in sé, definiti per contrasto […] ma mobili addosso ai consumatori, disposti a infiniti travestimenti, capricci, giochi." [ibid.: 10] Volli riflette poi su un altro aspetto che contraddistingue la nostra società: da qualche tempo, nell'ambito delle mode - non solo vestimentarie - sembra evidenziarsi una prevalenza dei comportamenti "anarchici" su quelli regolari. Ma questa è solo una nostra illusione: noi crediamo di vivere in una società più libera, dove predominano i comportamenti anomali e devianti e nessun comando è più percepibile (neppure quello della moda). Osservando con maggiore attenzione, si può dubitare che la situazione sia effettivamente questa: anche se la moda come sistema industriale ha perso molto del suo potere e i comportamenti sono più diversificati rispetto al passato, bisogna considerare che questo avviene comunque all'interno di un'area culturale estremamente omogenea, dove le differenze sono annullate. Noi crediamo di essere liberi, perché non vediamo le barriere trasparenti in cui siamo rinchiusi, non ci rendiamo conto della forza costrittiva e delle immobilità delle regole cui obbediamo. O meglio: le vediamo quando siamo messi di fronte alle diversità culturali (per esempio quella degli immigrati che vivono fra di noi in condizioni di inferiorità) ma non siamo in grado di riconoscere questi comportamenti come alternativi ai nostri, ce li descriviamo come barbari, primitivi, bizzarri o semplicemente inesistenti. [ibid.: 28] Anche se stiamo uscendo dal sistema delle mode, siamo comunque avviati verso il "regime dell'uniformità". Questa nuova situazione in cui ci troviamo a vivere è etichettata da Volli col

termine casual: sono scomparse le ondate di cambiamento che caratterizzano la moda classica ed è caduta anche la funzione semiotica dell'abbigliamento, in quanto segnaletico dello status e della condizione sociale degli individui. L'abbigliamento è diventato, appunto, casuale: "anche indumenti che in certi momenti della loro storia sono stati portatori di valori importanti, come i jeans o le tute sportive, li perdono completamente diventando elementi di un abbigliamento che, per essere casuale, è buono per tutte le età, per entrambi i generi, per tutti i paesi". Ovviamente, all'interno del monotipo casual, si possono riscontrare anche delle differenze, legate alle griffes, al cambiamento delle forme e dei colori, all'esplodere momentaneo di micromode, agli sviluppi tecnici. Ma, sostanzialmente, "il casual è immobile, indifferente ai significati, indifferenziato, pratico. Sarà questo il futuro planetario dell'abbigliamento?" [ibid.: 29] 2.4 Moda e cambiamento sociale 2.4.1 Il ruolo della moda nei processi di costruzione delle identità Se si vuole avere una visione completa del fenomeno-moda, non ci si può arrestare all'analisi dei cambiamenti ciclici introdotti nel settore dell'abbigliamento. La sua influenza va infatti ben oltre questo campo, interessando i mutamenti culturali e sociali di ogni genere. In virtù di questa consapevolezza, molti dei lavori condotti secondo una prospettiva sociosemiotica hanno cercato di analizzare il nesso che intercorre tra la comunicazione vestimentaria e i processi di costruzione delle identità individuali e sociali. Riflettendo sui cambiamenti introdotti dalla moda, Landowski [1995] distingue due diversi tipi di discorsi sul cambiamento. Da un lato, ci sono quelli che si muovono nella sfera del consumo: in questo ambito, le innovazioni che si vogliono imporre non hanno bisogno di alcuna giustificazione. Ciò che è di moda in un determinato anno non deve essere migliore di quello che era di moda l'anno precedente, ma deve essere semplicemente differente. Dall'altro lato, troviamo i discorsi che si manifestano nella sfera politica. In questo caso non si possono proporre dei cambiamenti che non abbiano alla base delle solide e obiettive giustificazioni (la corruzione del sistema, la perdita di fiducia, la crisi dell'economia). Le persone, solitamente, ritengono che i discorsi politici siano sempre legati a congiunture precise e, se propongono dei cambiamenti, è perché le circostanze li impongono. Tuttavia, Landowski ritiene che queste ragioni "oggettive" che vengono invocate per giustificare i provvedimenti che, di volta in volta, si adottano, abbiano una funzione di razionalizzazione che nasconde una logica più profonda, legata all'avvicendarsi delle "mode". Egli riscontra in queste due modalità del cambiamento, che si è soliti contrapporre, un unico principio di funzionamento. Entrambe rappresentano delle procedure di produzione e di gestione delle identità collettive, mediante la regolazione dei tempi sociali. La moda, infatti, offre agli individui una certa sensazione del tempo: tutti coloro che aderiscono ai suoi decreti sentono di appartenere a pieno titolo al proprio tempo. Essa rappresenta anche un fattore di segmentazione e di articolazione dello spazio sociale, in quanto rende manifeste e valorizza le differenze fra gli ambienti, le classi, le generazioni. In questo quadro "il seguire una moda, vale a dire l'adottare individualmente segni esteriori con l'aiuto dei quali il tal gruppo o il tal determinato ambiente declina figurativamente (o momentaneamente) la sua identità, è come minimo suggerire che si appartiene all'ambiente in questione e, attraverso ciò, sia indicare che si assume il fatto di appartenervi - se questo è il caso -, sia nel caso contrario, dare a vedere che ci piacerebbe almeno far credere di essere qualcuno che "ne fa parte"." [ibid.: 35] La moda va dunque concepita come un processo interattivo di invenzione e di produzione delle identità. Nel far questo, essa mette in atto un "gioco delle opposizioni sdoppiate", in base a cui l'identità di un gruppo si costituisce e si solidifica non solo in opposizione, sincronicamente, agli altri, ma anche, diacronicamente, a se stesso: ciò che è di moda qui e ora si oppone sia a quello che qui era di moda ieri e lo sarà domani, sia a quello che ora è di moda in altri luoghi.

All'interno della società, le mode non sono però imposte, unilateralmente, da un'istanza superiore ed esterna, ma si costituiscono sempre attraverso negoziazioni, ripetizioni e accumulazioni: esse si creano infatti a partire da processi di interazione e di auto-regolazione estremamente complessi. Dunque "la moda […] produce delle identità non interamente date in anticipo ma che si definiscono al ritmo stesso in cui ogni moda specifica si fa." [Ceriani e Grandi, 1995b: 13] Landowski chiude la sua riflessione evidenziando due paradossi che è possibile riscontrare nei cambiamenti introdotti dalla moda. Innanzitutto la moda, rinnovando di volta in volta le forme degli oggetti e i codici di comportamento, fa accettare dei cambiamenti oggettivi. Contestualmente, però, essa provoca anche dei cambiamenti nei soggetti stessi, che, nel seguirla, adottano nuovi punti di vista sugli oggetti, sui comportamenti e, in definitiva, su se stessi. Saranno così portati a cambiare le loro abitudini e i loro criteri di giudizio, aderendo ai valori che, in quel momento, sono in voga. Una seconda ambivalenza è relativa al fatto che la moda esalta il presenta ma, nello stesso tempo, lo banalizza. Proponendo incessantemente il nuovo e introducendo delle "discontinuità", la moda scandisce euforicamente il corso del tempo e rompe la quotidianità, presentandosi come festa, libertà, apertura, promessa. Parallelamente, però, definendo ciò che "si fa", essa diventa un momento referenziale molto forte, si dà come norma comune, mezzo di riconoscimento, normalità in relazione alla quale tutto si confonde: diventa così convenzione, ripetizione, insomma, la forma stessa della quotidianità più stabile. Anche Grandi [1995] affronta il tema della moda dal punto di vista del cambiamento sociale a essa connesso: in particolare, si interroga sulle modalità attraverso cui si attua l'efficacia normativa della moda nei confronti degli atteggiamenti e dei comportamenti dei singoli individui. Ovviamente l'influenza del sistema Moda si estende a svariati territori del sociale e dunque la sua efficacia normativa offre diversi livelli di analisi: fra tutti quelli possibili, Grandi sceglie di soffermarsi sui quattro che considera più rilevanti. Innanzitutto, la moda definisce i canoni del gusto in base ai quali si costruisce l'esperienza estetica degli individui, stabilendo, ad esempio, le regole di assemblaggio e assortimento dei capi di abbigliamento. La moda contribuisce inoltre alla definizione di determinati stili di vita, mettendo in atto un processo di costruzione del senso e del sé che si attua mediante continue negoziazioni portate avanti dai consumatori. Un terzo livello di analisi per verificare l'efficacia normativa della moda fa riferimento all'adozione di una logica di marketing sintagmatica, il cui obiettivo è comprendere il "sistema di consumo" a cui ogni prodotto appartiene. Alla base di questo approccio c'è l'idea di Trudi K. Ward, che "considera i bisogni dei fruitori nei termini di quello che definisce il loro sistema globale di consumo, qui inteso come il modo in cui il consumatore di un bene porta a termine l'obiettivo complessivo di quella cosa, qualsiasi essa sia, che sta tentando di realizzare allorché usa un prodotto." [ibid.: 62] Un ultimo livello è relativo al ruolo che la moda ricopre nel processo di definizione delle regole della socialità e delle interazioni personali. Questo livello, in cui rientrano sia gli aspetti emotivi e passionali che le modalità di socializzazione, ha a che fare con i processi di definizione delle identità. Fatte questa premesse, Grandi riflette sulle caratteristiche proprie della nostra "era postmoderna", per valutare se e in che misura queste influenzino l'efficacia normativa della moda. Il primo tratto che contraddistingue la postmodernità è l'indeterminatezza e la grande fluidità delle categorie che, fino a oggi, erano considerate centrali nella definizione dell'identità, ossia l'età, il genere sessuale, la bellezza fisica, la classe e la razza. Ciò influisce profondamente sull'efficacia dei codici vestimentari, che hanno sempre fatto perno su opposizioni binarie tipiche della modernità (maschile/femminile, gioventù/vecchiaia, classe bassa/classe alta). Tra tutte le ambivalenze d'identità sperimentate nella nostra società, quella che colpisce maggiormente è senza dubbio la perdita della differenziazione sessuale, fenomeno che ha suscitato l'interesse di vari studiosi [cfr. § 2.5.]. Questa indeterminatezza nella caratterizzazione delle identità è poi accompagnata da una sostanziale frammentazione dell'identità stessa. Le cause di questo fenomeno sono essenzialmente due: innanzitutto ogni individuo, nel corso della sua vita, si trova a ricoprire molti e diversi ruoli a cui sono legate altrettante aspettative; inoltre egli è, per così dire, "bombardato" da una serie di comunicazioni e sollecitazioni di vario genere, provenienti da

fonti molto diverse tra loro. Negato il valore di categorie quali il genere e la razza, e negata la possibilità di un'omogeneità e unitarietà dell'identità, per definire il sé è necessario allora disporre di ulteriori elementi qualificativi. Secondo Grandi, la soggettività si definisce oggi a livello delle pratiche sociali e culturali in cui il sé si performa e che costituiscono la sua esperienza storicizzata (lo studioso propone di utilizzare, a questo proposito, la categoria di posizione). Un altro elemento che gioca un ruolo chiave nella definizione di questa soggettività è la variabile contestuale. A fronte di queste identità singole sempre più frammentate e instabili, nella nostra società compaiono anche le identità apparentemente ben definite e stabili delle minoranze culturali, etniche o di altro tipo. Nei processi di autorappresentazione o di definizione dell'identità che coinvolgono queste subculture ricopre un ruolo fondamentale l'apparenza dello stile, che permette di distinguere chiaramente i membri interni da quelli esterni. . 2.4.2 Le subculture: un equilibrio tra autenticità e apparenza Negli ultimi anni il ruolo giocato dalle subculture all'interno della società e nel campo della moda è stato indagato da numerose ricerche, soprattutto nell'ambito dei Cultural Studies. A partire da una ricerca pluridisciplinare condotta nel 1992, nel corso della quale alcuni ricercatori hanno vissuto all'interno di diversi gruppi urbani come inviati speciali, Fabio Tropea [1995] ha svolto una riflessione sul fenomeno delle sottoculture giovanili, le cosiddette tribù urbane. Il tratto comune che si riscontra in questi gruppi è il disprezzo verso tutto ciò che proviene dalla cultura dominante (anche se a volte, fa notare Tropea, ciò si rivela più che altro una dichiarazione di principi, mentre nella pratica si evidenziano continue contaminazioni tra la Moda e l'Alternativa). L'imperativo costante è comunque quello di mostrare l'identità del gruppo all'esterno, di rendere il suo rifiuto il più possibile visibile, mediante una vera e propria "cultura della visibilità e dell'esibizione." [ibid.: 95] In quest'ottica, il modo di vestire rappresenta un elemento profondamente significativo, in grado di fornire informazioni sulle caratteristiche di un gruppo e degli individui che ne fanno parte: dal look si può desumere, ad esempio, il grado di identificazione di un individuo con il gruppo e il livello gerarchico raggiunto al suo interno. La tribù che riconosce maggiore importanza e riserva più cure all'aspetto esterno è senza dubbio quella degli Skinhead, a cui Tropea rivolge un'attenzione particolare. Attraverso il loro aspetto, gli Skin vogliono essere sempre riconoscibili e imporre un certo rispetto verso la loro immagine e ciò che essa significa. "Citiamo testualmente: "Che sappiano subito chi siamo e cosa vogliamo" o "quando entri in un bar, sai che tutti ti rispetteranno… certo, è paura, ma è soprattutto rispetto per una immagine che lo impone"." [ibid.: 100] La decenza del loro modo di vestire ha un accento quasi militare, è un ideale comune a tutta la tribù e un imperativo etico. Nella lotta dello Skin, che è soprattutto una lotta contro la sporcizia (sia fisica che morale), l'uniforme deve assicurare anche una funzionalità ottimale: "tutti i particolari sono stati pensati per offrire buone prestazioni nell'attività catartica degli Skin: scontri, pestaggi, raid notturni. Dalla testa rapata che non offre presa all'avversario, al giubbotto liscio, i jeans comodi e gli scarponi con punta d'acciaio, tutto nell'uniforme skin si dà come una "felice" coincidenza di aspetti estetici e funzionali, con risultati soddisfacenti sul piano pratico come su quello simbolico." [ibid.: 101] Di tutti i particolari che formano l'immagine skin, la testa rasata ha una rilevanza primaria3: la rasatura rappresenta una scelta radicale, una sorta di "atto iniziatico" nella carriera del giovane: …quando ti tagli i capelli a zero per la prima volta è una bomba di piacere, ti sorprende il risultato ma anche non averlo fatto prima: lo skin nasce là, in questo primo taglio, anche se prima devi avere una certa, diciamo, "vocazione" per compiere quel salto. (conversazione personale) [ibid.: 101] Abbiamo visto precedentemente come una delle caratteristiche che contraddistingue tutte le tribù urbane è il rifiuto di ciò che proviene dalla cultura dominante. Sotto questo punto di vista gli Skinhead rappresentano un'eccezione, in quanto il loro rapporto con la società dei consumi e con le mode ufficiali è molto più complesso e sofisticato. Gli Skin non sono in lotta con l'attualità: la

loro immagine, più che un'antitesi, può essere concepita come la manifestazione estrema di una diffusa tendenza generale. Andando in giro per le grandi città si possono infatti vedere moltissimi giovani con la testa rasata, che indossano giubbotti lisci senza colletto e grosse scarpe, con o senza rinforzo metallico, ma ciò non implica necessariamente il loro coinvolgimento col gruppo degli Skin. Un altro punto essenziale è relativo alla suddivisione della macrotribù degli Skin in una complessa rete di sottogruppi, ognuno dei quali rivendica il diritto di rappresentare l'"autenticità skin", anche in contrapposizione con gli altri. Questi "nemici interni" sono considerati estremamente pericolosi perché possono "rubare" l'identità ufficiale del gruppo, proiettando all'esterno un'immagine sbagliata. Quella della visibilità è infatti una preoccupazione costante tra gli Skin, che dimostrano una straordinaria attenzione e sensibilità mediale: estremamente esibizionisti, sviluppano un'affinità e una sorta di deferenza nei confronti della società dello spettacolo e cercano una complicità con chiunque possa contribuire alla diffusione della loro immagine. Tropea dà un'interessante spiegazione in merito a questa affinità degli Skinhead con l'attualità, i mass media e la moda: […] il disagio di vivere in una società eccessivamente (audio) visiva che colpisce in ugual modo tutti gli individui ma in special modo le fasce più giovani, è risolto dallo Skin giocando da una parte al gioco dei grandi, imponendo con l'immagine rispetto per l'immagine. La via d'uscita sociale da questo universo protovirtuale è certo dura: il gruppo propone (e agisce) con un reattivo eccesso di fisicità, salta con la tattilità forzata e il contatto violento, il guado dell'immagine straripante, tanto nelle aggressioni ai nemici come nelle occasioni ludiche: un pestaggio o la celebrazione di un gol allo stadio sono entrambe, senza grosse differenze di fondo, delle buone occasioni per supplire a quell'assenza di contatti tipica della cultura del look." [ibid.: 107] L'attitudine bellicosa e violenta alla base dello spirito skin ha comunque bisogno, per scaricarsi, di un nemico esterno, che, per convogliare l'energia globale del gruppo, deve essere specularmente antitetico a esso. Nella società esiste una figura che simboleggia tutto ciò che gli Skin detestano, ossia l'anarchia, la mancanza di disciplina, la trasandatezza, la sporcizia e la mancanza di igiene: si tratta del Punk. L'antitesi tra questi due gruppi è evidente innanzitutto a livello figurativo: la pulizia e la cura dell'immagine skin si oppongono alla sporcizia e all'assenza di cura dei Punk (testa rasata/cresta, polo/maglietta-canottiera, giubbetto nuovo e lucido/giubbotto di cuoio vecchio e opaco, jeans di marca/jeans vecchi, scarpone nuovi e lucidi/scarponi riutilizzati). Oltre a queste opposizioni si evidenziano anche altre contrarietà tematiche ricorrenti: regolarità vs irregolarità anarchica, solidarietà e cameratismo vs culto individualista. Sul versante modale, gli Skin fanno quello che non si deve (cioè minacciare, insultare, picchiare), mentre i Punk non fanno quello che si deve (ad esempio lavarsi, vestirsi correttamente, lavorare). A livello valoriale, quanto detto in precedenza rispecchia l'opposizione basilare tra l'integrità skin e la frammentazione punk: "se il Punk rappresenta l'individuo, la scheggia che resta dopo l'esplosione del sociale, la tribù skin si rappresenta come il gruppo avanguardista di una società futura, non perché abbia un progetto definito ma perché combatte contro i presunti mali del presente." [ibid.: 106] Sul movimento punk si sofferma Polhemus [1995], il quale sostiene che il suo avvento, nel 1976, ha segnato un punto di svolta nella storia delle subculture, dando avvio alla cosiddetta "era postsubculturale". Prima di questa data c'era stato un proliferare di subculture, ognuna con una propria definita identità, con un forte senso di appartenenza e di impegno sociale. Oggi si riscontra invece una sostanziale ambiguità e promiscuità, realizzata all'interno di un metaforico supermercato degli stili, dove "tutte le tribù stilistiche di ieri sono poste sugli scaffali come scatole di zuppa istantanea." [ibid.: 119] Dagli stili delle subculture del passato vengono prelevati singoli elementi distintivi, stilisticamente e ideologicamente incompatibili tra loro, che, attraverso la loro combinazione, generano un nuovo significato (o meglio, un meta-significato). Questa "contaminazione" ha comunque un obiettivo ben preciso: le subculture oggi esistenti tendono a mettere da parte le differenze per affrontare un pericolo comune, rappresentato dai

mass media e dal sistema della moda, che congiurano per trasformare le subculture in stereotipi spettacolarmente massmediatizzati. Dunque, come nel passato, anche oggi la spinta subculturale è motivata da una ricerca di autenticità. 3 Lo stesso appellativo Skinhead deriva dalla visibilità della pelle (skin) del cranio (head). 2.5 La moda e il corpo Per completare la nostra riflessione sulla moda, è necessario trattare un'altra questione fondamentale: quella del rapporto tra la moda e il corpo. Barthes sostiene che è il vestito a rendere significante il corpo: esso lo fa esistere, lo valorizza dandolo a vedere o ricoprendolo, in una parola, lo semantizza. Il vestito, insomma, non nasconde, non mostra, non opprime, ma comunica dei significati insieme al corpo. Ad esempio, sottolinea Barthes [1967b: 12], gli abiti corti non denudano le gambe, ma veicolano l'idea di un'audacia, significano la volontà di darsi, insomma, raccontano una storia. I rapporti che intercorrono tra vestito e corpo sono evidentemente molto complessi: Se ne ricava che, per Barthes, il corpo non è un'entità naturale che preesiste al vestito, il quale poi ne mette in evidenza alcuni aspetti a scapito di altri. Possedendo una sua storia e una sua geografia, il corpo si mette in relazione con la moda in maniere talvolta molto complesse, costruendo al tempo stesso la sua immagine e la sua dissoluzione. Se il corpo è "rivestito", lo è nel senso letterale del termine, ossia vestito di nuovo: la moda cioè, coprendo il corpo, lo pone come entità naturale dal quale prendere le distanze e al contempo rivelarlo. Se la moda racconta delle storie, esse sono sempre, nei riguardi del corpo, delle specie di miti di fondazione, narrazioni che, culturalmente, pongono una Natura al di là di esse." [Marrone, 2001: 25] Partendo da queste premesse, Barthes nel Sistema [1967a] si pone poi un'altra domanda: quale corpo l'indumento di moda deve significare? La moda risolve il passaggio dal corpo astratto al corpo reale delle lettrici in tre modi. 1. La moda propone un corpo ideale incarnato, che è quello della covergirl: si tratta di una forma pura, astratta, di un corpo, cioè, che non appartiene a nessuno e che rimanda all'indumento in sé. In questo caso l'indumento non ha il compito di rendere significante un corpo con particolari caratteristiche (rotondo, slanciato, minuto, ecc.), ma si serve di questo "corpo assoluto" per significare se stesso nella sua generalità. 2. Viene decretato ogni anno che determinati corpi - e non altri - sono alla moda (avete quest'anno la testa alla Moda? Sì se il vostro viso è piccolo, se i lineamenti sono fini, se il giro di testa non supera i 55 cm, ecc.). 3. Vengono proposti degli indumenti in grado di trasformare il corpo reale, arrivando a farlo coincidere con il corpo ideale di moda. Promettendo di allungare, gonfiare, assottigliare, ingrossare, diminuire, affinare, la moda sostiene di poter imporre a qualsiasi corpo reale la struttura da lei postulata, ossia la "Moda di quest'anno". Queste tre soluzioni hanno un "valore strutturale" diverso: nella covergirl viene fornita una struttura sganciata dall'evento (Saussure direbbe una langue senza parole); nel "corpo alla Moda" la struttura e l'evento coincidono, anche se all'interno di un arco temporale limitato (un anno); nel "corpo trasformato" l'evento viene completamente assoggettato alla struttura attraverso la confezione dell'abito. Comunque, in tutti e tre i casi si può riscontrare una costrizione strutturale: il corpo viene preso a carico da un sistema intelligibile di segni, in modo da attuare una "dissoluzione del sensibile nel significante." [ibid.: 262] Al di là della complessità dei rapporti che instaura con gli indumenti e, più in generale, con la moda, il corpo può anche essere analizzato autonomamente, al fine di individuarne le caratteristiche principali e capire come queste evolvono nel corso del tempo. Lo stesso Barthes [1982] si interroga in merito al corpo moderno, cercando di delinearne i tratti fondamentali. Una sua prima caratteristica è la sostanziale perdita della differenziazione sessuale. Nell'aspetto e nell'abbigliamento i segni di opposizione tra i due sessi vanno sempre più perdendo peso: "barbe e baffi sono ormai estinti, la capigliatura maschile si è molto allungata e si è fatta più ordinata e

seduttiva, gli uomini hanno preso orecchini, colori e altri costumi una volta solo femminili; e in cambio molti indumenti maschili sono stati conquistati dalle donne." [Volli, 1998: 58] Si parla spesso di una "femminilizzazione" della nostra società, in quanto gli uomini hanno rinunciato a molti dei caratteri che sottolineavano il loro predominio e hanno cominciato ad adottare ornamenti, oggetti e colori che, fino a poco tempo fa, li avrebbero immediatamente fatti etichettare come "effemminati". Ma nello stesso tempo si evidenzia anche una sorta di mascolinizzazione delle donne: queste, assumendo gusti e costumi dell'altro sesso, segnalano la loro voglia di autonomia, di forza e di durezza. Il risultato è una certa ambiguità e mescolanza, sempre più evidente nel costume (si pensi a indumenti unisex come la tuta da jogging, la T-shirt, gli scarponcini, i jeans). Un altro tratto peculiare dei "nostri tempi", individuato da Barthes [1982] e poi evidenziato anche da Volli [1998], è una sorta di rimozione sociale del corpo vecchio. È come se la nostra società tolleri solo i corpi giovani (Barthes definisce questo fenomeno "razzismo giovane"): ogni volta che il corpo viene rappresentato o messo in scena, esso è sempre e comunque giovane. Volli parla di una tendenza della nostra società verso l'"adolescenza prolungata". Sul piano estetico, infatti, l'adolescenza è per tutti l'età di riferimento: ciò è evidente nella prevalenza di musiche, balli, ritrovi e abiti provenienti dal mondo giovanile. Collegato a quello del corpo giovane, si è affermato anche il mito del corpo magro. Il corpo magro è assimilato a un corpo giovane, la magrezza è un segno garantito di giovinezza, da cui lo straordinario sviluppo delle tecniche di dimagrimento, la straordinaria preoccupazione e ossessione che rappresenta nel mondo attuale il desiderio di dimagrire, come dire di mantenere il proprio corpo nel suo stato mitico di giovinezza: è in realtà il desiderio di immortalità. Esiste un vero e proprio mito della cura dimagrante che coinvolge veramente tutti, uomini e donne insieme, che comincia molto presto, ben prima della vecchiaia, e che prova che il corpo moderno si vuole massicciamente, collettivamente, miticamente un corpo magro e giovane. [Barthes, 1978: 130] Fra i vari mezzi di diffusione e di elaborazione di questo nuovo corpo umano, un ruolo fondamentale è svolto dalla pubblicità. Essa mette sempre in scena dei corpi giovani e, anche se è obbligata a utilizzare dei corpi non più molto giovani, questi sono comunque sempre sani ed energici, resi tali dai prodotti di bellezza, alimentari o igienici pubblicizzati. Nella nostra società, in definitiva, si è affermata una sorta di nuova centralità del corpo, a fronte di un universo dominato da tecnologie che, solitamente, portano a proclamare la scomparsa del corpo come sostanza. Si tratta comunque del trionfo di un corpo particolare, "un corpo sano e attivo, sportivo e curato, un corpo magari un po' desessualizzato, ma portato con orgoglio e libertà. Un corpo che fa jogging, che frequenta le discoteche e le spiagge, un corpo depilato, lisciato, deodorato, allenato. […] Esso rifiuta il mistero, è orgoglioso di sé, della sua forma, del suo apparire in pubblico. È disposto a giocare e a scherzare con tutto, salvo che col suo benessere. Non ha vergogna, non ha paura, non ha difetti (finché la natura e le cure lo aiutano)." [Volli, 1998: 39-40] Non esiste dunque un corpo umano naturale, in quanto esso è sottoposto a continue manipolazioni che, da un lato, lo "addomesticano", rendendolo conforme alle prescrizioni sociali, e, dall'altro, permettono di personalizzarlo, rendendolo individuale. Attraverso le modifiche apportate al nostro corpo, dunque, ci sforziamo di essere diversi dagli altri, in particolare da quelli che sentiamo estranei (per ragioni generazionali, sociali o etniche), ma nello stesso tempo di rispettare le regole del gruppo per sentirci simili a quelli che ci circondano, in un'incessante dialettica tra imitazione e differenziazione. A proposito di queste pratiche di manipolazione del corpo, Codeluppi [1995] utilizza il concetto di "corpo flusso". Si tratta di un corpo fisico che è stato, per così dire, "contaminato" dalla legge della variabilità che costituisce l'essenza della moda. Sono svariati gli strumenti che permettono questa continua modificazione e trasformazione: si pensi all'attività fisica, al culturismo, alle protesi, alla chirurgia plastica, ai tatuaggi, ai cosmetici. Sostanzialmente, il "corpo flusso" rappresenta uno stato di variazione

permanente del corpo, un corpo "senza confini e identità fisse, che si confonde con l'esterno e stabilisce con esso un flusso ininterrotto di scambio." [ibid.: 85] Tra le varie modalità di manipolazione del corpo, una pratica che coinvolge un numero sempre crescente di persone sono le alterazioni permanenti. Grandi [1995] propone una classificazione dei consumatori di tali pratiche in virtù delle diverse motivazioni che possono essere alla base dei loro comportamenti. 1. I fashion victim della chirurgia plastica sono quelli che percepiscono i canoni di bellezza veicolati dai mass media come imperativi di moda a cui sottostare. Adottandoli come modelli da imitare, essi ritengono di poter risolvere i loro problemi di autorappresentazione. In questa tipologia rientrano due categorie: i fashion victim interculturali, che, assunto come modello il canone di bellezza occidentale bianco, arrivano a schiarirsi la pelle o a modificarsi il taglio degli occhi; i fashion victim intraculturali, che si modellano parti del corpo - labbra, seno, glutei - per imitare i modelli proposti dai mass media. 2. I postmoderni comprendono coloro che, a partire dall'attuale indeterminatezza e soggettività della categoria dell'età, eliminano i segni del tempo dal loro corpo. "Al corpo della modernità, che invecchia secondo il ritmo della progressione anagrafica, succede il corpo della postmodernità, che si adegua a una identità sempre più soggettivamente interpretata." [ibid.: 71] 3. I depressi postmoderni sono quelli che, in situazioni di forte disagio psicologico, ricorrono alla chirurgia plastica come una sorta di "pratica antidepressiva". 4. I corpi cibernetici derivano dalle potenzialità manipolatorie delle nuove tecnologie. Tra queste, emblematico è il caso del morphing, su cui si sofferma anche Codeluppi [1995]. Si tratta di una sofisticata tecnologia di trattamento digitale delle immagini che crea una condizione di metamorfosi permanente del corpo, producendo un'ampia gamma di frames intermedi che consentono di passare con continuità dall'immagine di un corpo all'immagine di un qualsiasi altro corpo. Svariati esempi di utilizzo del morphing provengono dal cinema: si pensi al film Terminator 2 - Il giorno del giudizio, dove il terminator è di una trasformabilità assoluta e assume indifferentemente le sembianze di una piastrella del pavimento o di un qualsiasi corpo umano. Dopo che il corpo ha riacquistato, nel postmoderno, un proprio peso, questa metamorfosi senza fine sembra, ancora una volta, negarlo. Il corpo non è però annullato, ma reso assolutamente fluido e malleabile, in grado di assumere qualsiasi sembianza. 5. I subculturali comprendono coloro che si sottopongono a particolari decorazioni del corpo, decorazioni che cercano una propria legittimazione come forme artistiche: in questi casi il corpo, assunto come superficie desemantizzata, viene sottoposto a un processo di valorizzazione in grado di risemantizzarlo. Rientra in questa categoria il tatuaggio, una moda che inizialmente riguardava solo gli emarginati (ladri, prostitute, marinai, soldati). Per questa sua origine "maledetta" e per il suo carattere di segno permanente sul corpo è stato poi oggetto di ricorrenti ondate di moda, soprattutto tra i giovani. Il tatuaggio consente di segnarsi definitivamente sul corpo una scelta, un'emozione, un momento importante della propria vita. La motivazione può essere la volontà di differenziarsi, di scandalizzare, di mostrare il proprio distacco dai genitori e dalla società degli adulti. Un'altra pratica sempre più diffusa è quella del piercing. Volli [1998] si sofferma su questo fenomeno, riflettendo sulle motivazioni alla base della sua diffusione. Inizialmente queste decorazioni erano finalizzate a sfidare il perbenismo, a scandalizzare, perfino a spaventare la gente comune. Oggi però questa spiegazione non basta più e per capire il fenomeno è necessario scavare più in profondità. La pelle rappresenta una sorta di barriera tra l'io e il mondo: perforarla vuol dire ferirsi, compromettere la propria integrità, aprirsi a una possibile invasione dall'esterno. Questi ornamenti simboleggiano quindi una certa fragilità: del resto, nella nostra società, essi sono tipicamente femminili, a lungo considerati disonorevoli per un uomo. Nello stesso tempo, però, portare addosso del metallo e ostentare delle mutilazioni è un costume che in molte società è riservato ai guerrieri. Si tratta, in questo caso, non più di debolezza ma, al contrario, di mutilazioni che testimoniano il piacere della violenza e il disinteresse per il dolore. I due

significati non sono comunque del tutto contraddittori: in entrambi i casi "si può leggere una volontà, più o meno esplicita consapevole e sviluppata, di turbare, di coinvolgere, di suggerire il sentimento che il corpo è una presenza non neutra, aggressiva o passiva, accogliente o violenta, comunque carnale." [ibid.: 69]

IL LINGUAGGIO E LE STRATEGIE COMUNICATIVE DELLA MODA DI CLAUDIA GRAZIANI CAPITOLO 3 LA COMUNICAZIONE DI MODA 3.1 La comunicazione attraverso l'abbigliamento Prima di trattare il tema più complesso della comunicazione di moda, Volli [1998] ritiene opportuno interrogarsi sulla comunicazione di cui ogni persona si fa portatrice tramite il proprio abbigliamento. Per far luce su questo fenomeno, egli cerca innanzitutto di individuare l'unità d'analisi relativa all'abbigliamento. Ogni singolo individuo è fornito di una sorta di "dizionario" per le sue significazioni vestimentarie: si tratta del guardaroba, che comprende tutti gli indumenti di cui egli dispone. All'interno del guardaroba è possibile individuare una struttura sintagmatica e una paradigmatica: innanzitutto, esso è organizzato per categorie che strutturano l'asse sintagmatico dell'abbigliamento (pantaloni, giacche, camicie, gonne); inoltre, per ognuna di queste categorie - limitatamente alle possibilità economiche e culturali del proprietario - il guardaroba presenta l'intero repertorio paradigmatico (per quanto riguarda le camicie, ad esempio, ci saranno camicie di seta, di cotone, bianche, a righe, a tinta unita, con le maniche lunghe e corte, e così via). L'insieme degli indumenti è poi distinto anche in base alle possibili "occasioni contestuali": ci saranno così indumenti da sera e da giorno, da lavoro e da tempo libero, da estate e da inverno. È probabile che queste divisioni per funzioni sintagmatiche e per occasioni contestuali si traducano anche, materialmente, nella ripartizione dei capi in cassetti e armadi diversi. In questa organizzazione generale l'influenza della moda non è molto rilevante: è impensabile, infatti, che una persona suddivida materialmente i suoi indumenti in relazione alla loro "stagione" o alla loro "firma" (non si troverà quindi un cassetto "Armani" o un armadio "autunno-inverno 1997"). Tutt'al più, le oscillazioni delle mode potranno provocare una riclassificazione degli indumenti (ad esempio, da "elegante" a "comune") o anche la loro uscita dal guardaroba. Ci sarà poi una frazione del pubblico particolarmente sensibile alla moda che rifornirà il proprio guardaroba in relazione ai suoi decreti annuali, privilegiando gli indumenti recenti. Posto che il guardaroba costituisce il repertorio, o meglio, lo "sfondo paradigmatico" dell'abbigliamento individuale, la sua espressione è rappresentata dal singolo e concreto abbigliamento che una persona indossa in una certa occasione: è proprio a questo livello che si realizza la comunicazione. Oggetto dell'analisi deve essere dunque il processo di comunicazione

sistematico e regolare che si esprime in ogni singolo atto di abbigliamento. "Bisognerebbe, in concreto, poter chiarire quale sia il significato di un certo completo scuro con camicia oxford e cravatta di seta a righe larghe e mocassini neri, o di jeans, T-shirt azzurra e scarpe da ginnastica o di un abito da sera di seta rosso, molto scollato […]: è chiaro che il primo abbigliamento parla di un maschio adulto e professionale; il secondo, unisex, è giovanile e sportivo; il terzo è femminile e elegante." [ibid.: 118] È sbagliato però pensare che l'individuazione della significazione veicolata da ogni atto di abbigliamento sia sempre un compito facile. Sono svariate le difficoltà che, di volta in volta, possono presentarsi. Innanzitutto, è molto difficile effettuare delle prove di commutazione per valutare il contributo di ogni singolo capo di abbigliamento al significato vestimentario complessivo. Se la cravatta regimental del primo esempio è sostituita da una a piccoli pois, cosa cambia? Dipende. Se il colore è quello giusto, forse l'abbigliamento diviene un po' più formale. Ma in altre circostanze potrebbe trattarsi al contrario di un alleggerimento (se per esempio il colore è più vivace), o addirittura di un "errore", se per esempio i pois sono troppo grandi. C'è stato un momento nella storia italiana in cui i piccoli pois potevano assumere un significato politico, per l'accostamento all'uso di un personaggio pubblico (Silvio Berlusconi). E nel caso dell'abbigliamento sportivo, possiamo stabilire che cosa cambia se la maglietta diventa una polo, il colore passa da azzurro a verde, i jeans si trasformano in pantaloni di cotone beige? [ibid.: 118119] In certi momenti e in certi ambienti alcuni determinati elementi possono essere significativi, alludendo, ad esempio, all'inclusione nell'uno o nell'altro gruppo. Ma, generalmente, non è semplice individuare gli oggetti portatori di un significato minimo (l'equivalente dei morfemi linguistici), quelli che organizzano l'espressione (l'equivalente dei fonemi), le loro caratteristiche che segnalano differenze (l'equivalente dei tratti distintivi). È ovvio dunque che, per l'abbigliamento, non è proponibile una gerarchia di tipo linguistico. Un problema ulteriore, e forse ancora più delicato, sta nel fatto che, a parte le occasioni d'uso, non è affatto semplice stabilire quali possono essere i significati dei vari abbigliamenti. […] un abito femminile bianco piuttosto lussuoso e tradizionale significherebbe "sposa", uno smoking "prima alla Scala" o - molto lontano dal primo significato - "cameriere", una maglietta a righe nere e azzurre, sopra dei pantaloncini neri e scarpe con tacchetti, vorrebbe dire "Inter": ma solo perché di fatto le spose portano abiti bianchi, i camerieri e i frequentatori dell'opera vestono in smoking, i calciatori dell'Inter usano la divisa nerazzurra. È chiaro che siamo in un circolo vizioso. Ma oltre a questi riferimenti incrociati, per cui l'uso rimanda all'abbigliamento e viceversa, troviamo molto poco: generalità sullo stile, vaghe significazioni parassite: l'abito bianco può richiamarci la giovinezza e la grazia, lo smoking l'eleganza e la ricchezza; ma in un ambito esclusivamente connotativo. [ibid.: 119] A partire da queste riflessioni, Volli nega la possibilità di applicare un criterio puramente strutturalista alla comunicazione vestimentaria e cerca così di elaborare una spiegazione meno esigente, ma comunque valida e ben definita. Chi comunica con l'abito intende soprattutto "suscitare sentimenti" e "porre l'animo in una disposizione particolare". In virtù di questa affermazione, si potrebbe spiegare il fenomeno come una forma di sex-appeal. Ma Volli individua in questa modalità di comunicazione due elementi rilevanti, entrambi presenti agli interlocutori: l'effetto cercato e l'intenzione di ottenerlo. È proprio questa intenzione che la differenzia dal puro funzionamento fisiologico del sex-appeal. Per l'abbigliamento, dunque, non può valere la concezione della comunicazione intesa come "dire qualcosa". Al posto di questo "qualcosa" (che è difficile da definire e forse non esiste nemmeno), c'è un effetto per cui "ciascuno si porta in giro, con la propria immagine, un'etichetta che lo definisce agli occhi degli altri e di se stesso." [ibid.: 121] Vestirsi, in questo senso, significa esercitare un'azione: perché questa azione sia "semiotica" è necessario che il suo effetto sia ricercato, che non si tratti di un puro caso.

Seguendo questa traccia, Volli propone un abbozzo di definizione della comunicazione dell'abbigliamento, individuandone le caratteristiche distintive. Si tratta di una comunicazione corporea [cfr. § 2.5], fortemente autoreferenziale, con forti caratteri fatici, che esercita un'azione sugli interlocutori mostrando di essere volontaria, che si rivolge a un'ampia audience (e non a un singolo interlocutore), strutturata su un asse paradigmatico e uno sintagmatico, con contenuti prevalentemente connessi agli usi e alle categorie sociali, seduttiva. Quest'ultima caratteristica è forse la più rilevante: la comunicazione dell'abbigliamento è essenzialmente seduttiva e ricorsiva. Si tratta di una comunicazione povera di contenuti, in cui i codici sono sacrificati al fattore del contatto. C'è infatti un Emittente che realizza un Contatto per inviare un Messaggio a un Destinatario; "ma questo Messaggio consiste nel Contatto, è fatto di visibilità dello stesso Emittente, con cui il Destinatario è invitato implicitamente a entrare a sua volta in Contatto. Se lo farà potrà assimilarsi, diventare come lo stesso Emittente, avere la stessa capacità di Contatto." [ibid.: 122] In questo circuito è decisiva la forma del Messaggio, che deve rispecchiare i valori visivi (espressivi) dell'Emittente in modo abbastanza evidente da imporre il Contatto. Perché ciò avvenga, l'Emittente deve essere in grado di riconoscersi interamente nei suoi valori, essendo "seduttivo rispetto a se stesso": solo in questo modo nel Destinatario può nascere un desiderio di assimilazione. Anche se fornito di un repertorio sintagmatico e paradigmatico realizzato materialmente nel guardaroba, l'abbigliamento ha dunque un carattere comunicativo abbastanza elementare e primitivo. Si tratta sostanzialmente, secondo Volli, di una "forma di comunicazione ostensivoseduttiva che attira l'attenzione - come abbiamo visto secondo diverse modalità - sull'Emittente (colui che è abbigliato)." [ibid.: 125] 3.2 La moda: una forma di comunicazione seduttiva Dopo essersi interrogato sui meccanismi comunicativi insiti nell'atto di abbigliamento, Volli allarga il suo sguardo alla moda in generale. I fenomeni di moda hanno un carattere naturalmente comunicativo: il loro processo di diffusione sociale dipende infatti da numerosi scambi di informazioni e da regolazioni reciproche fra le persone. Egli però non intende analizzare i modi più o meno individuali, inconsapevoli e variabili storicamente - con cui le persone comunicano mediante il loro modo di vestire. Ciò che gli interessa è invece il modo in cui oggi, nel nostro paese, il sistema industriale della moda comunica in maniera volontaria e organizzata. Procede dunque all'analisi del flusso di informazione e di influenza che viene prodotto consapevolmente e sistematicamente dalla moda, intesa in questo caso come sistema di produzione industrialmente organizzato. La comunicazione rappresenta senza dubbio l'aspetto essenziale del sistema produttivo della moda, il cui corretto funzionamento è appunto assicurato dalla "capacità di comunicare autorevolmente a vaste masse di pubblico scelte di gusto variabili." [ibid.: 126] Occorre essere in grado di svelare al cliente le tendenze future e le scelte di gusto a cui deve conformarsi, di convincerlo in merito al loro valore (svalorizzando le scelte passate o quelle della concorrenza), di conoscere infine le sue reazioni e le sue scelte all'interno del ventaglio delle offerte, in maniera tale da potersi confrontare in seguito con le tendenze reali del mercato. Secondo i modelli sociologici tradizionali [Veblen, 1994; Simmel, 1957] la comunicazione di moda si configura come un semplice passaggio di informazione, in cui il meccanismo essenziale è quello dell'imitazione. Ad esempio, il modello a goccia concepisce la società come una sorta di piramide, dove le mode derivano dall'alto per "gocciolamento". Di tanto in tanto, al vertice della società si impone una regola del gusto: questo può avvenire per svariate ragioni, tra le quali assume un ruolo rilevante la volontà di distinzione. La nuova moda, una volta lanciata, scende progressivamente fino a penetrare nei livelli più bassi della società. Nel corso di questo processo, ciò che può essere stato esteticamente innovativo agli inizi si diluisce a mano a mano che, per venire incontro alle esigenze di un mercato più ampio, subisce un processo di massificazione, diventando ordinario. Ma quando l'élite si accorge che i gusti da essa introdotti sono stati assimilati dalle classi inferiori, perdendo così il loro ruolo di differenziazione, inventa un'altra

norma per differenziarsi. Si innesca così un nuovo processo di emulazione dal basso e il gioco ricomincia da capo. Secondo questa prospettiva, dunque, la moda si produce, dinamicamente, attraverso una continua dialettica tra differenziazione e imitazione. Se mai le cose sono andate così, è evidente che questo modello appare troppo semplicistico per spiegare la situazione attuale. Noi viviamo in una società estremamente complessa e concorrenziale, tale da non poter essere più efficacemente rappresentata in termini gerarchici o piramidali. Una società in cui "i luoghi di alta visibilità sociale non sono più tanto i centri di gravità del potere politico ed economico quanto le elités senza potere, i divi del cinema, del teatro, della televisione, dello sport." [ibid.: 127] Volli ritiene che, per spiegare il funzionamento attuale della moda, un modello più plausibile si può trarre dai fenomeni di contagio. Il presupposto è che in ogni unità culturale (fogge, colori, disegni degli abiti) vi è un'implicita spinta a riprodursi, espandendo gradualmente il proprio bacino di utenza. Le mode derivano da impulsi che possono nascere ovunque all'interno del corpo sociale, e in particolare nei settori produttivi specializzati (come l'industria dell'abbigliamento). La loro diffusione avviene poi in modo orizzontale, mediante una sorta di tacita votazione espressa dalle persone mediante il loro abbigliamento. Ognuno di noi, quindi, adeguandosi o meno a un certo costume o a una certa moda, contribuisce a farla espandere o a frenarla. Questo funzionamento per contagio ha reso sempre più rilevante e critica l'organizzazione dei flussi di informazione e di suggestione. Ovviamente, il meccanismo comunicativo che una simile situazione richiede è molto più complicato e ricco di quello contemplato dal modello a goccia, in quanto non si tratta più di una semplice emulazione passiva di modelli provenienti da un luogo sociale prestabilito. Al posto di questa imitazione gerarchica entra in gioco una forma di fascino, che "deve essere in grado di esercitare una forza attrattiva sufficiente a indurre alla propria riproduzione" [ibid.: 128]. Questo fascino può essere casuale, come nel caso delle mode spontanee, oppure organizzato dal sistema stesso della moda: a suscitarlo concorrono svariati elementi, come le funzioni espressive, le ricerche formali, la capacità conativa e seduttiva, le forze passionali, i riferimenti sessuali. In definitiva, la comunicazione proveniente dal sistema della moda e destinata al consumatore finale (quella che in questa sede ci interessa esaminare) deve innanzitutto piacergli, sedurlo, apparirgli desiderabile e quindi indurlo all'atto di acquisto. Questo ci consente di stabilire un parallelo tra il meccanismo comunicativo utilizzato dalla moda per propagare se stessa e l'uso che il consumatore fa dei propri indumenti. Abbiamo già riflettuto sul fatto che le persone, attraverso il loro modo di vestire, cercano di autodefinirsi e di esercitare un'azione passionale sull'interlocutore (per sedurlo, per ottenere rispetto, per manipolarne il giudizio) [cfr. § 3.1.]. Analogamente, la moda si trova a dover manipolare il suo pubblico per indurlo ad adottare certi gusti, a riconoscere certi valori estetici, a essere sedotto da certi prodotti. A questo proposito, Volli sottolinea che, così come l'abbigliamento, anche la moda "non ha un prevalente contenuto referenziale o metacomunicativo, anch'essa in cambio è ostensiva e seduttiva: agisce su chi la segue (chiede di essere seguita e imitata) e comunica questa sua "intenzione"." [ibid. 125] Più precisamente, egli parla di "comunicazione seduttiva di secondo grado". Di qui la sua capacità di regolazione e di organizzazione di un campo di comportamenti che ne definiscono la natura, ma anche la possibilità di cambiare campo di applicazione, per esempio dall'abbigliamento alla cucina o agli sport, senza modificare troppo il suo funzionamento. 3.3 Il percorso evolutivo della comunicazione di moda Quella della comunicazione di moda è una storia recente. Fino agli anni Sessanta, infatti, l'unico strumento utilizzato erano le sfilate, intese ancora come una semplice occasione di vendita, e non come un evento mediatico di ampia portata come avviene oggi. È negli anni Settanta, con l'inizio del processo di democratizzazione della moda, che per la prima volta ci si pone il problema di non rivolgersi solo a un pubblico di addetti ai lavori. Ed è negli anni Ottanta, con l'avvento del fenomeno della griffe, che le marche della moda escono allo scoperto invadendo l'immaginario collettivo.

3.3.1 La comunicazione di prodotto Durante gli anni Ottanta la "neonata" comunicazione di moda viene gestita secondo un approccio che Saviolo e Testa [2000] definiscono trial and error: si individua una strada, se ne sperimenta la percorribilità e, se non soddisfa le aspettative, si cambia rotta per poi tentare un percorso diverso. Paradossalmente le aziende di moda, che dovrebbero esprimere un grandissimo potenziale di creatività e differenziazione, risultano incapaci di qualunque rottura rispetto alle regole del gioco dominanti nel settore, e ciò a causa di un fattore preciso: l'enfasi posta sul prodotto. La comunicazione di prodotto di questi anni discende dalla centralità della figura dello stilista, che solitamente decide in assoluta autonomia non solo in merito al prodotto, ma anche alla strategia comunicativa. Questo stato di cose comporta una grande limitazione nella scelta degli strumenti di comunicazione, con il risultato che viene spesso attribuito alla sfilata e, come sua derivazione, al catalogo, un ruolo del tutto dominante. La forte relazione tra comunicazione e prodotto nella moda ha una serie di implicazioni [ibid.: 269-271]. Un primo effetto è l'assenza di un concetto forte e ben definito di comunicazione. Per colmare questa lacuna, le varie marche imboccano la facile scorciatoia della comunicazione di immagine: "le campagne comunicazionali avviate con gli anni del boom del made in Italy hanno consapevolmente scelto di non articolare e proporre promesse coerenti, obiettivi specifici e posizionamenti distintivi dei relativi prodotti o marchi, per perseguire invece un'immagine in molti casi dai contorni assolutamente poco chiari." [ibid.: 269] Questa moda "che non comunica" diventa allora convenzionale - soprattutto nel caso delle griffe - sia a livello di messaggio trasmesso che di mezzo scelto per trasmettere questo messaggio. Dal punto di vista del mezzo, colpisce l'affollamento sugli stessi strumenti e media: gli stessi fotografi, le stesse top model, la scelta della carta stampata, la sfilata come apice della comunicazione, che ripete all'infinito la stessa scena con gli stessi attori. Relativamente al messaggio, ovunque si vedono immagini sfuocate, o comunque decontestualizzate e patinate, di modelle fredde, inaccessibili, imbronciate, aggressive, in un certo senso "antimoda" perché sempre uguali nella distanza che mettono in scena rispetto alla gente comune. Ciò concorre a trasmettere l'immagine di un mondo di "pochi eletti", tipico della haute couture e dell'immaginario di lusso che essa rappresenta, senza distinzioni fra le varie marche. Tutto è inesorabilmente uguale e conformato a ribaditi schemi estetici: la riconoscibilità dei diversi stilisti è praticamente annullata. Infine, l'impressione diffusa è che la comunicazione nella moda sia essenzialmente autoreferenziale. Effettivamente, i suoi referenti non sono quasi mai i consumatori finali, ma gli opinion leader: non bisogna però confondere lo strumento (quale l'opinion leader dovrebbe essere: per esempio la famosa cantante rock che diventa testimonial di una griffe indossandola durante il concerto) con il destinatario (che è in ogni caso chi effettivamente acquista il capo). Il rischio che si corre è che il valore aggiunto non dichiarato sia esplicito soltanto all'interno di un gruppo ristretto che riesce a capirlo. 3.3.2 Dalla comunicazione d'immagine alla comunicazione di immaginari Se l'inefficienza e l'inefficacia comunicativa possono essere scusate negli anni Ottanta, il periodo d'oro della moda made in Italy, quando la ricettività del mercato rende tutto sommato semplice e poco costoso comunicare, nel decennio successivo la situazione cambia radicalmente: la contrazione dei consumi, il numero più elevato di concorrenti, la maggiore specializzazione e frammentazione del comparto della comunicazione, l'emergere di nuovi canali, come Internet, rendono sempre più difficile e costoso comunicare la moda, mentre per giustificare una marca è sempre più necessario farlo. Gli anni Novanta sono caratterizzati anche da alcune trasformazioni interne al sistema moda, che portano all'affermazione di nuovi attori e nuove logiche competitive: - il pronto moda impone la necessità di confrontarsi con il consumatore finale in maniera più rapida e diretta; - l'affermazione della distribuzione diretta, diventata ormai punto nevralgico di comunicazione per il sistema moda, impone strategie di marca coerenti;

- "esplodono" nuovi segmenti che comunicano molto, come l'actiwear - che da prodotto specializzato diventa adatto a tutte le occasioni proprio grazie alla comunicazione (il famosissimo swoosh della Nike è da solo al contempo sinonimo del marchio e richiamo immediato allo sport) - e l'intimo - che rappresenta uno dei più importanti fenomeni di costume, protagonista anche dell'abbigliamento esterno; - anche nella fascia di prodotti intermedi e a monte (si pensi alle fibre) inizia una rivoluzione nella comunicazione, non più orientata in senso business to business1, ma alla creazione di richiesta direttamente dal consumatore finale; - il livello minimo di investimento necessario per farsi sentire sul mercato si alza sempre di più. A fronte di aziende che operano nello sportwear e che investono decine di miliardi nella comunicazione, con una pianificazione anche televisiva, il mondo della griffe, o dei marchi aspiranti tali, è composto da aziende il cui fatturato spesso non supera le decine di miliardi, per cui l'investimento in comunicazione è spesso molto più elevato in senso relativo che in senso assoluto. Ne consegue che pochi sono i marchi in grado di superare la cosiddetta "soglia del rumore": essere al di sotto di questa soglia vuol dire non bucare l'attenzione o, in altre parole, rischiare di gettare via il denaro investito. A fronte di un mercato sempre più difficile, caratterizzato da una continua nascita e scomparsa di marche, dove anche il futuro della griffe può essere messo in discussione, non ci si può più permettere di essere indifferenziati. È quindi necessario essere creativi, capaci di evolvere velocemente in sintonia con sensibilità latenti non solo nel prodotto, ma anche nell'approccio alla comunicazione. In questo senso, viene premiato chi osa rompere le regole del gioco: si prendano i casi di Diesel e Calvin Klein "che, proponendo due mondi completamente diversi rispettivamente l'ironia e l'ambiguità sessuale - sono divenuti fenomeni, studiati nei manuali di marketing, proprio grazie alla forza e alla connotazione dei messaggi delle loro campagne pubblicitarie." [ibid.: 273] Al di là dei casi più significativi, comunque, si evidenzia un generale tentativo di intraprendere strade diverse: viene promossa la sponsorship sportiva e artistica, si avviano esperienze di co-marketing, compaiono alcuni timidi accenni di comunicazione istituzionale, si sviluppa una maggiore consapevolezza della necessità di una comunicazione integrata Alla fine degli anni Novanta l'enfasi sul prodotto viene meno, tanto che c'è chi lamenta l'estremizzazione della tendenza opposta, per cui nei redazionali l'abito sparisce inghiottito dal contesto. In particolare, si notano due orientamenti: da un lato, soprattutto per gli accessori, si presenta ancora il prodotto fisico in modo poco descrittivo, dall'altro si utilizzano immagini solo evocative che, nella loro vaghezza, spesso non qualificano né giustificano la scelta. Se prima nel mirino erano il dettaglio o l'attributo del prodotto, ora prevalgono le suggestioni: la messa a fuoco non è più sul vestito della modella ma sull'ambientazione in cui questo dovrebbe essere sfoggiato. Il codice di comunicazione prevalente sembra essere quello di suggerire piuttosto che mostrare, evocando una sensazione o un'emozione, per cui l'abito, la calzatura, l'accessorio sono apparizioni fugaci, se non del tutto assenti. Addirittura, nelle vetrine di molte griffe prestigiose, non si vedono più abiti o accessori, ma la loro fotografia, a testimonianza di quanto stretto sia ormai il legame tra oggetto e immagine. Il problema è che, anche in questo caso, si rischia di restare nell'ambito della comunicazione di immagine: se l'atmosfera è uguale per tutti, il messaggio continua a non passare, esattamente come nel passato. Indubbiamente, la comunicazione della moda negli anni Novanta è caratterizzata dallo sforzo di passare da una comunicazione di prodotto a una comunicazione di identità di marca. Secondo Saviolo e Testa il completamento di questo processo, che nella maggior parte dei casi deve però ancora iniziare, vede le imprese spostarsi verso il terreno più complesso, ricco ma potenzialmente scivoloso della comunicazione di immaginario. L'azienda, una volta poste le basi della propria identità, e quindi riconoscibilità e autogiustificazione nei confronti del consumatore finale, deve comunicare attraverso il proprio mondo di riferimento. Rispetto all'immagine, quello dell'immaginario è un concetto più vasto e pervasivo, perché supera le tradizionali segmentazioni per occasioni d'uso e stili di vita, proponendo l'identità della

marca come chiave di lettura trasversale del modo in cui le persone vivono i diversi momenti della loro esistenza. Nella comunicazione, lavorare sull'immaginario significa partire non dall'area del bisogno ma da quella del desiderio. Si tratta di una sfida più difficile, che è possibile vincere solo se si riesce a fare in modo che il consumatore si identifichi nel protagonista di una storia: perché ciò avvenga, la marca deve poter raccontare storie pertinenti, credibili e coerenti. Questa credibilità si guadagna con il tempo solo se i codici di comunicazione sono permanenti. È quindi necessario che oggetto della comunicazione sia la marca: all'identità stilistica deve corrispondere un'identità di immagine, basata su codici di comunicazione riconoscibili, in quanto distintivi di una marca (la Sicilia di Dolce & Gabbana, l'ironia di Diesel, il richiamo alla Magna Grecia di Versace, il grido antifashion di Moschino). Nessun immaginario, tuttavia, può essere credibile se non trova corrispondenza nel prodotto. Sotto questo profilo, la comunicazione dovrebbe, almeno in parte, diventare informazione: le valenze stilistiche, funzionali, qualitative e distintive devono essere comunicate perché creano differenziazione e aiutano il consumatore a farsi più evoluto. Per capire a fondo i caratteri di questa comunicazione di immaginario, nessuna spiegazione può essere tanto efficace quanto un esempio tratto dalla realtà. Particolarmente interessante appare quello fornito da Saviolo e Testa: Hermès Hermès ha una storia (nasce in una bottega a Parigi nel lontano 1843, oggi in azienda c'è la sesta generazione): uno degli asset aziendali, perciò, è proprio il fattore tempo. Tempo che è scritto nella mission: realizzare un prodotto di altissimo livello qualitativo attraverso procedimenti di natura artigianale, senza cedimenti al mercato (per far bene un prodotto ci vuole tempo). Il tentativo di Hermès è quello di innovare senza mai rinunciare ai valori della tradizione, che diventano i temi della comunicazione. Per esempio, lo stile mercantile che ha sempre caratterizzato la storia di Hermès ha portato, nella comunicazione, allo sviluppo del tema etnico legato al viaggio (con l'head line: "Hermès, solo bagaglio l'eleganza"). L'immaginario di Hermès è elitario, quasi aristocratico: rifugge dall'uso ovvio del logo aziendale come strumento di comunicazione, utilizzandolo solo come signature (come un autore firma un'opera d'arte), con la conseguenza che i prodotti non sono mai marcati all'esterno e che nel visual di campagna il marchio è stato nel tempo sempre più estromesso. I codici di comunicazione sono il colore arancio (una scelta casuale, dovuta all'esaurimento in tempo di guerra della tradizionale carta da pacchi color cuoio, poi concettualizzata), il balduc (il nastro con cui si chiudono i pacchetti) e il tema che ogni anno si propone il gruppo attorno al quale ruota tutto il sistema di comunicazione e in parte produttivo. Oltre al tema del viaggio, particolarmente significativo è stato quello dell'albero, simbolo per eccellenza della crescita, con le radici che rappresentano il passato e le fronde che tendono al futuro: l'immagine era quella di una foglia con una goccia d'acqua, al di sotto della quale si intravedeva il balduc (la natura sa essere essenziale, Hermès è essenziale per natura). Nel 1999 è stato scelto il tema del sogno: cominciato con un recupero forte del codice cromatico con i prodotti flou sullo sfondo arancione è diventato nel secondo semestre "Hermès, messaggero di sogni", con l'immagine di un piede alato che richiama Ermes, il messaggero degli dei il cui compito era fare da trait d'union con il mondo degli uomini. [ibid.: 275-276] 1 Il termine business to business indica la comunicazione esterna indirizzata ai clienti intermedi e ai fornitori. Per una trattazione più approfondita, cfr. § 3.4. 3.4 Una proposta di classificazione Volli [1998: 129-135] propone di organizzare i vari momenti comunicativi della moda in una sorta di "diagramma di flusso", in base a cui la comunicazione d'impresa può essere articolata su due livelli: (i) Comunicazione interna

Si tratta di una circolazione di informazioni interna al sistema, o alla filiera, che ne consente l'armonizzazione produttiva pur nel frequente cambiamento dei prodotti. Questo flusso informativo può procedere in due direzioni: da monte a valle (dai produttori di filati, a quelli di tessuti, ai confezionatori) o da valle a monte (con la richiesta da parte dei responsabili del prodotto destinato ai consumatori finali di semilavorati che rispondano a certe qualità, siano realizzabili in certi colori, ecc.). Ovviamente, l'esistenza e la funzionalità della filiera comunicativa dipendono dall'efficienza della filiera produttiva. A questo proposito, Volli evidenzia come "l'unità della filiera produttiva nazionale, e la sua collocazione frequente in limitati distretti di territorio, tradizionalmente votati a certe produzioni (lana, cotone, seta, pelle, filati, ecc.) non è stato, per il sistema moda italiano, solo un vantaggio logistico, ma anche un'importante, e spesso inavvertita risorsa comunicativa e dunque culturale, che oggi appare in un certo senso minacciata." [ibid.: 129] Solitamente questa comunicazione interna al sistema avviene in via informale, anche se esistono tutta una serie di strumenti appositi (comitati e quaderni di tendenza, istituti previsionali, proiezioni di tendenza). Il flusso informativo interno alla filiera, sottolinea Volli, non si configura solo come un flusso verticale che unisce il singolo fornitore con il singolo operatore di semilavorati e così via fino alla confezione finale, ma è inevitabilmente anche orizzontale. Questa comunicazione, infatti, comporta scambi, più o meno diretti, fra operatori dello stesso stadio. Ad esempio, basta pensare al modo in cui i prontisti riproducono e diffondono, quasi in modo parassitario, le tendenze degli stilisti principali. Nella storia dell'alta moda, fino a un certo punto (indicativamente, la fine degli anni Cinquanta), i principali produttori erano in grado di raggiungere una coerenza sufficiente perché i consumatori fossero in grado di identificare delle tendenze. Questo risultato derivava certamente da una maggiore omogeneità culturale, da un numero assai minore di produttori e di clienti, ma anche dalla presenza di personalità carismatiche in grado di egemonizzare via via tutto il mondo della moda. Oggi si può rilevare un'assenza di comunicazione orizzontale: non esiste più coerenza nelle tendenze e nemmeno c'è interesse a ricreare una sorta di omogeneità stilistica. Il risultato di questa situazione è un certo indebolimento del sistema moda, o almeno della sua presa rispetto al cambiamento. Le tendenze sono state rimpiazzate dagli "stili", derivanti da diversi percorsi di ricerca individuali [cfr. § 2.3.]. Il tracciato complessivo dei cambiamenti introdotti dai diversi stili appare del tutto casuale, e a volte anche contraddittorio, col risultato di un notevole affievolimento dell'effetto di obbligo e di obsolescenza estetica che ha da sempre caratterizzato la moda. (ii) Comunicazione esterna La comunicazione esterna al sistema industriale, indirizzata al mercato, è sicuramente quella più specifica del sistema moda. Essa è destinata, in ultima istanza, all'universo dei consumatori finali. Ma tale comunicazione non è sempre diretta: spesso essa funziona secondo una logica a più stadi, mirando a informare e a influenzare dei soggetti specializzati e autorevoli, che a loro volta informeranno e influenzeranno il pubblico generale. Questo modo di funzionamento non può non ricordare, a chi si occupa di comunicazioni di massa, la classica teoria dei "two steps of communication" e degli "opinion leaders", formulata dalla sociologia americana e in particolare da Paul Lazersfeld negli anni quaranta a proposito della propaganda politica e della pubblicità. Il collegamento non è affatto casuale. Infatti le scelte politiche e commerciali sono sovente oggetto di fenomeni di moda, e, come si è visto, spesso i fatti di moda si riducono all'imitazione di persone o di fonti considerate autorevoli. Concretamente, oggi si tratta della stampa e della televisione, di certi personaggi famosi, e di quelle "persone astratte" che sono le griffes e in un certo senso anche gli stilisti. [ibid.: 131] Volli propone un'ulteriore suddivisione del percorso comunicativo rivolto all'esterno, distinguendo tra: - tell-in, che comprende i flussi informativi indirizzati ai canali distributivi e che puntano, anche se indirettamente, a influenzare il consumo e l'acquisto (cataloghi, fiere, giornali specializzati, sfilate, relazioni pubbliche);

- tell-out, che indica la comunicazione rivolta al pubblico generico dei consumatori finali (pubblicità, articoli di stampa, trasmissioni televisive, vetrine). Questa distinzione è utilizzata nel marketing stesso, dove si parla di comunicazione business to business (verso i clienti intermedi e i fornitori) e business to consumer (verso il consumatore finale). Se pensiamo alla filiera della comunicazione come a un sistema di attività e ruoli con un'unica finalità (il soddisfacimento del consumatore finale), la distinzione fra comunicazione interna e comunicazione esterna (tell-in o tell-out) si fa meno netta. Sempre più spesso si parla infatti di comunicazione integrata, che si realizza quando "qualsiasi azione di comunicazione viene decisa e compiuta avendo ben presente che l'estrema articolazione degli strumenti utilizzati per comunicare e l'interconnessione degli effetti della comunicazione sui vari pubblici rendono necessaria una visione unitaria e complessiva della comunicazione"2. La comunicazione integrata fa perciò riferimento a un disegno strategico che prevede l'uso sinergico e scientifico di tutti i mezzi utili ad arrivare alla conquista di un determinato obiettivo: essa comprende tanto l'area della comunicazione interna quanto quella della comunicazione esterna. Oltre a queste comunicazioni provenienti dal sistema industriale della moda, vi sono poi varie forme di comunicazione interne al consumo, nell'ambito delle quali l'informazione passa per imitazione, attraverso il "bocca a bocca". Si pensi al fenomeno delle mode di strada, o marginali, oppure ai personaggi pubblici che vengono imitati senza che ci sia una forma di sponsorizzazione intenzionale. Col passar del tempo questa zona di autoregolazione e di comunicazione non regolata è diventata sempre più importante. Addirittura, Volli sostiene che "la vera comunicazione della moda passa di qui." [ibid.: 135] 3.5 Gli strumenti Gli strumenti a servizio della comunicazione di moda sono moltissimi, in quanto ogni azione e ogni manifestazione di un'impresa è in senso lato una forma di comunicazione (dalla lettera agli azionisti alla scelta della sede). Una possibile classificazione degli strumenti, che tiene conto di quelli principalmente utilizzati, è la seguente: - strumenti di comunicazione stagionale (sfilate, media, cataloghi, fiere); - strumenti di comunicazione istituzionale (marca, sede, negozi, sponsorizzazioni, magazine aziendali) - strumenti di comunicazione relazionale (sito web, direct marketing, marketing relazionale, mailing, eventi). [Saviolo e Testa, 2000] Strumenti di comunicazione stagionale Cataloghi Rappresentano lo strumento di comunicazione più tradizionale nella moda, inizialmente utilizzato soprattutto nel rapporto tra confezionisti e distribuzione per l'illustrazione sistematica delle collezioni. Oggi il moltiplicarsi dei contatti tra i diversi soggetti della filiera, i costi relativi alla stampa e, soprattutto, l'avvento di Internet hanno fatto perdere ai cataloghi parte della loro centralità. Alla classica distribuzione dei cataloghi nel punto vendita le aziende sempre più spesso sostituiscono forme di direct marketing, che combinano l'invio dei cataloghi ai clienti, prima dell'uscita della collezione, con inviti personalizzati in occasioni particolari (i saldi, la presentazione delle nuove collezioni, le animazioni sul punto vendita, le ricorrenze personali). Il catalogo di moda è caratterizzato da una grande versatilità: distribuito dalle case produttrici per lo più ai negozianti - che solitamente lo mettono a disposizione dei clienti nel punto vendita - o, più raramente, spedito per posta o venduto in edicola, esso può assumere varie forme. È difficile dunque identificarlo con chiarezza, perché variano non solo le sue modalità di distribuzione o di impostazione grafica, ma anche i confini che lo separano da altri generi, da altri strumenti di

comunicazione di moda come la rivista, la lista nei punti vendita, la foto da esporre nel negozio. Al di là delle varianti, comunque, è possibile individuare alcune caratteristiche proprie di un catalogo e che lo fanno identificare come tale: - presenta i modelli di una stagione (primavera-estate o autunno-inverno) - non ha in sé una vera valenza commerciale; - non comprende, in linea di massima, vere e proprie rubriche scritte o commenti molto articolati ai capi illustrati. Maria Pia Pozzato, in un suo saggio pubblicato nel 1995, ha tentato di offrire un modello operativo per analizzare i cataloghi di moda. Prima di procedere all'analisi del singolo testo, è necessario secondo lei descrivere ciò che sta a monte dell'ideazione e della realizzazione del prodotto, secondo l'ottica di una "semiotica delle situazioni"3. Anche se gli scopi comunicativi possono variare da prodotto a prodotto, è possibile comunque individuare alcune costanti. Essa considera, da un lato, gli scopi dell'enunciatore (far vedere il capo vestimentario, dare istruzioni per il suo uso, valorizzarlo in senso sociale, ecc.), dall'altro, gli ambiti di valorizzazione del capo vestimentario (rapporti con il corpo, funzionalità, ecc.). Per quanto riguarda il rapporto fra abito e schema corporeo, l'enunciatore (termine utilizzato per indicare il catalogo) dovrà porsi diversi problemi: l'enfasi, sul corpo o sul vestito, creata dall'immagine; il rapporto di adeguazione funzionale tra vestito e corpo (sottolineando per esempio con le immagini il buon taglio del capo, la sua indossabilità, ecc.); l'attribuzione di qualità estetiche al corpo attraverso il vestito e viceversa. Il parametro del rapporto tra corpo e vestito assume un'importanza fondamentale nella selezione delle immagini del catalogo di moda e comporta una complessa serie di scelte non banali: si può procedere, ad esempio, in direzione di un'armonizzazione dell'elemento corporeo con quello vestimentario, oppure alla costruzione di elementi conflittuali tra corpo e vestito. Qualunque scelta si compia, occorre tener conto anche di altri due parametri fondamentali: la funzionalità e la simbolìa dell'abito. Un vestito è funzionale quando permette una buona dinamica e facilita i compiti pratici; non lo è, invece, quando costituisce un impedimento e conferisce alla persona un aspetto rigido. Secondo il parametro della simbolìa, un abito può veicolare dei contenuti, contribuendo alla definizione di un'identità personale o collettiva, oppure, nel caso contrario, può risultare anonimo, simbolicamente "piatto". Tutti questi valori possono articolarsi fra loro in modo ricco e variabile: "il capo grunge più dismesso, può risultare di cattivo taglio ma comodo; il capo da gran sera, può risultare di gran taglio, individualizzante in senso sociale ma estremamente d'impaccio dal punto di vista funzionale." [Pozzato, 1995: 258] Quello che deve essere chiaro è che le caratteristiche intrinseche e oggettive di un capo o di una collezione determinano solo in parte la valorizzazione complessiva che può essere data attraverso un servizio fotografico o la progettazione di un intero catalogo: le scelte tecniche e di contenuto sono infatti governate da un "progetto generale di valorizzazione". Dopo aver fatto luce sulla "situazione pragmatica" che c'è a monte della creazione di un catalogo di moda, si può passare alla descrizione dell'oggetto. Dato che i cataloghi sono in genere una giustapposizione di foto, la Pozzato propone una tripartizione dell'immagine di moda su tre livelli: (i) Presentazione del prodotto Bisogna innanzitutto valutare in che misura la singola immagine o l'intero catalogo siano "centrati" sul prodotto vestimentario. È possibile, cosa sempre più frequente, che il vestito sia un aspetto in qualche modo marginale rispetto all'organizzazione discorsiva generale: in questo caso si ha una forma di valorizzazione indiretta, che non ha più a che fare con problemi come il rapporto vestito/corpo o la funzionalità del vestito. Si troveranno invece altri elementi in grado di valorizzare il marchio o il produttore, anche se appartenenti a diversi campi semantici. Il caso più eclatante è rappresentato, senza dubbio, dalle campagne Benetton realizzate da Oliviero Toscani, dove i vestiti non compaiono affatto, lasciando il posto a problematiche sociali come l'AIDS, il razzismo, la fame del mondo, verso le quali la marca vuole mostrare una particolare sensibilità. (ii) Organizzazione narrativa del testo

La complessità narrativa di un'immagine di moda ha, come "grado zero", un capo non indossato fotografato su sfondo neutro o assente. Già se il capo viene indossato, alle sue caratteristiche si affiancano tutte le "infinite determinazioni semantico-narrative insite nella tipologia dei modelli (sesso, razza, fascia di età, grado di celebrità, caratteristiche fisiche) e della loro gestualità." [ibid.: 263] Per quanto riguarda i gesti, la loro intenzionalità comunicativa contribuisce in modo decisivo al "tenore" generale della comunicazione visiva. Oltre a far indossare il vestito a un modello in carne e ossa, si possono anche introdurre, nell'articolazione narrativa dell'immagine, degli sfondi, da quelli appena distinguibili fino ad arrivare a scene naturali, cittadine o domestiche più nitide. Possono esserci poi elementi cronologici, stagionali e climatici, o addirittura la messa in scena di interazioni tra due o più modelli, solitamente finalizzate a istruire in merito all'uso sociale del capo. Il massimo grado di articolazione narrativa è costituito dalla presenza di veri e propri intrecci, magari supportati anche da brevi testi scritti. In linea di massima, il grado di articolazione narrativa dei cataloghi aumenta all'aumentare dell'importanza del parametro di simbolìa del capo vestimentario o in relazione alla necessità di illustrarne dettagliatamente i contesti d'uso. (iii) Strategie comunicative Su questo livello di analisi si collocano tutti gli elementi di un'immagine o di un catalogo di moda che rimandano al "rapporto comunicativo fra il suo enunciatore e il suo enunciatario" e al "contesto di enunciazione-produzione": i riferimenti al redattore e al lettore del catalogo, ma anche al produttore e al fruitore del capo vestimentario. Si possono così trovare, in un catalogo, rimandi al processo di produzione del capo vestimentario (telai, sartorie, fasi intermedie della confezione) o del catalogo stesso (bozzetti, cavi e attrezzi da sala di posa). Con particolari accorgimenti dell'inquadratura fotografica si può anche fare in modo che le figure dei modelli istituiscano un rapporto diretto con il lettore (il lettore-modello, che va distinto dal fruitoremodello). Ovviamente la valenza espressiva di scelte di questo tipo non può che essere valutata caso per caso: "è solo nel contesto generale di valorizzazione di un capo vestimentario che si possono interpretare correttamente gli effetti di senso di una certa inquadratura, del nitore o del mosso delle immagini, del risalto dato alla figura dello stilista, o addirittura di una particolare aspettualizzazione temporale." [ibid.: 267-268] Tenuto conto di ciò, è chiaro che, dopo aver individuato i vari parametri e livelli distintivi, è necessario fare un lavoro di "sincretizzazione". Il catalogo è infatti un tout de signification, il cui significato generale e i cui effetti comunicativi sono valutabili solo attraverso l'orchestrazione generale di tutti i livelli e di tutti i parametri. Sfilate Le sfilate rappresentano lo strumento più importante, soprattutto perché, per lungo tempo, la comunicazione della moda si è sostanzialmente identificata con la comunicazione di prodotto. Si tratta di un evento comunicativo molto particolare, che funziona come tutte le altre forme di comunicazione seduttiva: "un oggetto è presentato direttamente e con un contesto adeguato a un pubblico di destinatari/compratori, nel tentativo di generare un'assimilazione di valori e una (con)fusione di soggetti. Il destinatario/compratore/sedotto viene in un certo senso introiettato al discorso dell'emittente/venditore/seduttore, assume i valori di lui come propri e fa quel che è previsto." [Volli, 1998: 116] Questa funzione originaria oggi è del tutto cambiata: il pubblico che assiste alle sfilate, infatti, non è più costituito dai consumatori finali, bensì da venditori secondari o da altri comunicatori (giornalisti, televisioni, ecc.). La sfilata è diventata dunque un evento comunicativo "finzionale" e "fittizio", strutturato in modo che i diversi comunicatori presenti possano parlarne a un pubblico molto più largo ("comunicazione amplificata"). Essa si configura come un vero e proprio spettacolo, in cui spesso si ricorre a stravaganze e "bizzarrie" per generare scandalo e, di conseguenza, suscitare interesse. Per questo capita di frequente che i capi in passerella non siano quelli che poi si troveranno in vendita: essi costituiscono piuttosto l'"exemplum di un gusto", che

deve essere il più esasperato possibile. L'obiettivo è una sorta di pubblicità istituzionale del marchio, che sfrutti a pieno l'effetto notizia. Una possibile classificazione delle varie modalità di organizzare una sfilata è stata proposta da Wargnier in un saggio del 1995. Abbiamo già preso in considerazione il suo contributo parlando delle diverse strategie adottate dagli stilisti [cfr. 2.3.1.]: egli infatti individua quattro possibili atteggiamenti che possono essere alla base del loro operato (permanenza, rinnovamento, tradizione, rottura). A ognuno di questi atteggiamenti corrisponde poi una determinata tipologia di sfilata: (i) Sfilata rituale (permanenza) Nel caso in cui una marca o uno stilista siano entrati a pieno titolo nella Storia della moda, la sfilata ha più l'aria di un rito istituzionale che di una presentazione di novità. Tutto rinvia a un effetto di atemporalità: il rito è immutabile (organizzazione del sitting, scelta della sala, giorno e ora di presentazione); il contesto è spesso carico di storia (saloni dei grand hotel, musei); cast, trucco e acconciatura sono studiati per trasmettere un'immagine di "eterno femminile", non soggetto alle stagioni e teoricamente internazionale; la musica e la regia rispettano una procedura codificata (passaggio delle modelle una per volta, con una musica d'atmosfera, ed eventualmente una voce che annuncia il numero dei modelli). (ii) Evento (rottura) A questo tipo di sfilata ricorrono gli stilisti "anticonformisti", che vogliono dimostrare la loro capacità innovatrice. Tutto è studiato con l'obiettivo di suscitare interesse attraverso la sorpresa, creando un "evento" che irrompe nel flusso regolare delle presentazioni delle collezioni. Si scelgono così i luoghi più incongrui (locali notturni, sale cinematografiche, appartamenti privati, garage, terreni incolti); vengono fatti inviti "bizzarri" e sitting inusuali; il cast, il trucco, l'acconciatura e la regia cercano di creare una rottura totale rispetto alle presentazioni vigenti. (iii) Show stagionale (rinnovamento) Per valorizzare le collezioni di ogni nuova stagione, la sfilata acquista ampio respiro, integrando tutti gli elementi tipici di uno show stagionale. Modelle, trucchi, pettinature, musica e luci concorrono a produrre una presentazione specifica per la nuova moda proposta, leggibile e comprensibile dal pubblico al quale è destinata (opinion leader, media, artisti, dive dello showbusiness). La sfilata diventa un'occasione per misurarsi con gli altri concorrenti della moda e posizionarsi come leader di tendenza. Ogni parametro dello show concorre così a provare tale leadership, essendo esso stesso portatore di novità: nuove modelle, nuove musiche, nuovi trucchi e pettinature diverse di stagione in stagione. Solitamente, comunque, nell'insieme di questi tratti innovativi, sarà possibile individuare sul lungo termine un certo numero di elementi ricorrenti da una sfilata all'altra, che provano l'esistenza di uno stile specifico. (iv) Sfilata professionale (tradizione) Questo tipo di sfilata è funzionale a un'evoluzione progressiva della marca o dello stile attraverso il tempo, piuttosto che alla stagionalità. L'obiettivo è infatti quello di valorizzare l'esistenza di un patrimonio legato alla propria tradizione. Di conseguenza, la "presentazione" si fa il più possibile da parte di fronte alla collezione stessa: la sfilata ha una regia discreta, che non ricorre ad alcun effetto speciale Fiere Rappresentano il momento di incontro per eccellenza tra gli attori del settore che operano ai vari stadi della filiera. Venuta meno l'originaria funzione di vendita, le fiere costituiscono ormai uno strumento di pura comunicazione business to business [cfr. § 3.4.]. È chiaro però che quelle più importanti, grazie all'eco sulla stampa e a una serie di eventi connessi, fungono anche da strumento di promozione nei confronti del consumatore finale. Quotidiani e periodici La stampa è il media per eccellenza del sistema moda, quello che assorbe la maggior parte degli investimenti pubblicitari. La comunicazione che gli industriali e gli stilisti intrattengono con la

stampa è finalizzata essenzialmente a una seconda comunicazione, che i destinatari di quella (i giornalisti) dovranno svolgere a proposito dei suoi emittenti (stilisti, industria della moda): anche in questo caso si può parlare dunque di "comunicazione amplificata". Spesso si verifica un complesso gioco di complicità tra le diverse parti: è infatti interesse comune del sistema moda e del giornale che il secondo stadio della comunicazione amplificata - quella che va dal mezzo di comunicazione di massa al pubblico - abbia la maggiore risonanza possibile. Proprio per curare i rapporti con la stampa, le imprese di moda si dotano solitamente di un ufficio stampa, con il compito di interagire con i giornalisti in vista della pubblicazione di un testo relativo a un prodotto, una collezione o anche all'andamento economico dell'azienda stessa. È fondamentale che chi lavora nell'ufficio stampa sia in grado di trasmettere un messaggio coerente con la filosofia dell'azienda che rappresenta. Naturalmente, questa coerenza con l'identità di marca non sussiste solo a livello di messaggio ma anche di mezzo e di contesto. "La carta del comunicato stampa di una griffe sarà ultrapatinata, mentre si utilizzerà una carta ecologica qualora il marchio sia più giovanile e trasgressivo. Nell'ufficio stampa di una jeanseria gli addetti stampa hanno un comportamento molto informale, diversamente da quanto accade nel rapporto con le clienti arabe nel caso di una maison francese." [Saviolo e Testa, 2000: 252] Per quanto riguarda l'utilizzo della stampa come veicolo pubblicitario, è bene che le aziende di moda abbiano ben chiare le caratteristiche peculiari e i limiti dei vari strumenti disponibili. I quotidiani sono uno strumento di comunicazione con una forte funzione sociale, per via della loro valenza informativa. Utilizzarli per le inserzioni comporta tutta una serie di vantaggi, come la tempestività, la grande copertura, la certezza del target (lettori fedeli) e l'autorevolezza della testata: tutti questi elementi si ripercuotono sulla credibilità del messaggio. Bisogna però considerare anche alcuni svantaggi, tra cui la mancanza di selettività e la minore resa dell'immagine. I periodici, rispetto ai quotidiani, offrono una maggiore specializzazione: ogni rivista ha infatti un'audience preselezionata rispetto al suo contenuto (pubblico prevalentemente maschile vs target femminile, pubblico più scolarizzato e ad alto reddito vs pubblico più popolare). È proprio questa selettività che li rende uno dei media prediletti dal sistema moda, che, insieme al settore della cosmetica, detiene quasi il monopolio delle riviste femminili. Altri vantaggi offerti dai periodici sono il colore e la migliore riproduzione grafica delle immagini. Lo svantaggio è riconducibile all'eccessivo affollamento, dovuto anche al meccanismo di scambio tra pubblicità e redazionali, che trasforma le riviste in una sorta di interminabili cataloghi pubblicitari. Inoltre, è da annoverare una sorta di omologazione progressiva, a livello di target e di contenuti, della maggior parte delle riviste femminili, mentre per gli uomini manca ancora un canale di comunicazione per la moda non specializzato. Relativamente ai periodici, è interessante considerare un'analisi che Lucretia Escudero Chauvel e Coline Klapisch [1995] hanno condotto su Marie Claire, una delle riviste femminile più importanti al mondo, mettendo a confronto diverse edizioni nazionali (Italia, Gran Bretagna, Francia, Germania e Spagna). Esse si interrogano, in particolare, sul ruolo che la donna e la moda rivestono al suo interno. Come nella maggior parte delle riviste femminili, la rubrica moda occupa un posto fondamentale (quasi un terzo del giornale). Ciò che la caratterizza è la presenza di una donna fortemente identificata dalla sua specificità: si tratta di una sorta di "eterno femminile", che varia di paese in paese. Al di là delle differenze, è comunque possibile individuare alcuni elementi trasversali: la ricerca estetica è molto spinta e compare sempre una dimensione narrativa. In rapporto alla moda, il "contratto di lettura"4 di Marie Claire, che ha una forma estremamente stabile, si fonda su tre criteri di unificazione discorsiva: - l'editoriale è presentato come una presa di parola ufficiale della rivista, in cui si lascia piena libertà alla lettrice di "passeggiare" attraverso la moda; - i dossier sono organizzati per tematiche. "I servizi di moda sono sempre inseriti in viaggi in cui la nota esotica permette di definire un contesto, una narrazione con attori e vestiti. In questa costruzione si disegna una teoria del soggetto femminile fondata sull'esaltazione dell'io, sull'intimità e la presentazione dei sentimenti." [ibid.: 246];

- le rubriche relative al consumo della moda permettono di evidenziare l'aspetto di servizio della rivista (guide, prezzi, ecc.). Al fine di rendere ancora più stabile il contratto di lettura, nell'organizzazione testuale compaiono tre dimensioni enunciative: - la dimensione informativa, che, mettendo in vetrina la moda, la presenta come attualità, come scoperta, come evento; - la dimensione diegetica, in cui la moda svela un momento preciso della storia della donna rappresentata, fissando un istante all'interno di questo racconto; - la dimensione soggettiva, in cui la moda accompagna uno stato d'animo, sorprendendo la donna in un istante di intimità. Al di là dei tratti comuni che contraddistinguono l'identità peculiare di Marie Claire, ogni edizione nazionale si pone di fronte alla moda da una precisa prospettiva e propone un modello di femminilità differente. Le specificità dei vari paesi sono evidenti soprattutto a livello tematico. (i) Italia In Italia la modella, molto utilizzata, stabilisce una relazione con la lettrice (attraverso lo sguardo) e con l'ambiente che la circonda. L'abito che indossa è infatti sempre armonizzato con la scenografia: "la donna con l'abito dai motivi floreali è inserita in un campo fiorito, la donna con l'abito di seta grezza e di colore bronzo si appoggia su di una roccia illuminata dal sole." [ibid.: 248] La narrazione messa in scena è sempre ancorata a una realtà condivisa con il lettore e, dunque, plausibile. La moda è concepita come accordo e continuità tra intimità ed esteriorità, tra individuo e sociale, tra natura e cultura. Non è mai bizzarra e punta sempre all'armonia. Per quanto riguarda la costruzione del soggetto femminile, viene veicolato un io unico dalle molteplici sfaccettature: la donna romantica, con una profonda interiorità. (ii) Gran Bretagna La modella è rappresentata come un personaggio reale: è sempre inserita all'interno di uno stile di vita (la segretaria, l'esploratrice) e recita una serie di ruoli. La moda, in questo caso, è concepita come una forma di adattamento culturale, che permette un'esplicitazione della griglia sociale: viene sempre scelto un ruolo ben preciso, che è quello più adeguato al contesto. In questo processo di adattamento dell'individuo alla norma sociale, la femminilità diviene apparenza. (iii) Francia La modella è solo un supporto per la moda: essa si annulla fino a divenire inesistente, di fronte all'enfasi sull'atmosfera generale. L'obiettivo è quello di far apparire la personalità senza tuttavia focalizzarsi sulla persona: non c'è infatti alcuna identificazione tra la modella e la lettrice. L'estetica scelta è astratta e strutturata, l'accento è posto sul valore dell'accessorio e l'assenza di praticità: la rivista di moda, infatti, è un sistema a sé stante, senza alcun legame con la moda di strada, quella accessibile e abbordabile. Per quanto riguarda la costruzione del soggetto femminile, la donna rappresentata è seduttrice e narcisista, è quasi "una scultura da contemplare". (iv) Germania La modella rappresenta una rottura, sia nei confronti dell'ambiente (si può vedere, ad esempio, una donna vestita come un uomo in cucina), sia nei confronti dell'abito che indossa. Lo stile è sempre provocatorio ed eccessivo, quasi a voler esemplificare i rapporti conflittuali che le donne tedesche hanno con se stesse e con il loro ruolo sociale. La moda si relaziona con l'attualità, con il quotidiano, anche se si tratta sempre di un quotidiano rivisto. L'effetto discorsivo corrisponde alla valorizzazione di un io complesso, che può supportare diversi atteggiamenti simultanei, di una donna cioè in divenire. (v) Spagna Nell'edizione spagnola predomina il racconto, con uno stile narrativo di "secondo grado": le storie, cioè, vengono raccontate per essere lette in quanto tali, senza mascherarle dietro una parvenza di realtà. Il personaggio rappresenta un ideale, l'abito è il principale motore dell'azione e la donna si riduce a pretesto per la scenografia. La moda proposta è dunque in netta

discontinuità con il reale: appare come la costruzione di un mondo parallelo a quello quotidiano. Di fronte alla valorizzazione dei personaggi, l'io scompare. Riviste specializzate Le riviste specializzate costituiscono un importante strumento di comunicazione business to business: permettono dunque di veicolare un maggior numero di informazioni sottraendo la comunicazione dall'area della sola suggestione. Il problema è che, in Italia, non esistono ancora delle modalità di comunicazione peculiari verso il settore, e quindi non c'è differenza tra le immagini usate per la vendita al trade e quelle usate per la vendita al consumatore finale. Il risultato è che, anche nei confronti del pubblico degli addetti ai lavori, si continua a utilizzare un linguaggio esclusivamente emozionale, quando invece sarebbe più opportuno fornire informazioni tecnico-qualitative sul prodotto. Televisione La televisione mette in scena veri e propri spettacoli, in cui la moda viene tradotta in un formato facilmente comunicabile: si pensi alle manifestazioni che apparentemente hanno la forma delle sfilate, ma che, sostanzialmente, non sono altro che spettacoli promozionali. Generalmente, comunque, le trasmissioni che la televisione dedica alla moda sono sempre caratterizzate da un taglio di costume. Come mezzo più strettamente pubblicitario, invece, essa è utilizzata prettamente dalle aziende che producono per il mercato di massa (profumi, sportswear), mentre le griffes preferiscono rivolgersi altrove, considerando la televisione troppo dispersiva. Un altro aspetto interessante da rilevare è l'influenza esercitata sul pubblico dai personaggi televisivi che indossano determinati abiti a titolo promozionale. Affissioni Rappresentano un mezzo di grande impatto e, in alcuni casi, addirittura di arredo urbano. A paragone del costo di un'inserzione su un quotidiano nazionale risultano decisamente più convenienti e di maggiore impatto (seppure circoscritto localmente). Questa è la ragione per cui, soprattutto nel caso degli accessori (borse, scarpe, profumi, occhiali), si stanno diffondendo sempre di più. Strumenti multimediali: video e cd-rom Anche se, teoricamente, il settore moda costituisce il luogo ideale per una rappresentazione multimediale, sono ancora poche le aziende che si sono spinte al di là del classico video promozionale (dove, generalmente, si assemblano la ripresa della sfilata con una panoramica sulla produzione e le immagini del back-stage e della campagna di stampa) da proiettare sul punto vendita. In questo caso, l'obiettivo principale è rinnovare la comunicazione nel momento in cui la collezione arriva in negozio, per trasmettere efficacemente la filosofia della collezione al consumatore finale. I video possono comunque essere utilizzati anche in molti altri modi: possono circolare nelle fiere di settore, essere utilizzati nelle convention o all'interno dell'azienda stessa, possono servire per parlare direttamente al consumatore finale. Progressivamente, si sta ampliando anche l'utilizzo dei cd-rom, i cui maggiori pregi sono l'interattività e la multimedialità: permettono infatti di soffermarsi sulle informazioni più interessanti, di "zoomare" su alcuni particolari, di arrivare immediatamente alle informazioni ricercate. A fronte di tutte queste potenzialità, alcune aziende di moda hanno già sostituito il tradizionale catalogo con un cd-rom. 3.5.1 Strumenti di comunicazione istituzionale Marca La marca rappresenta uno dei più potenti dispositivi a cui ricorrono i beni industrali di consumo di massa, compreso l'abbigliamento. Volli [1998] ne identifica cinque funzioni principali:

- Funzione di identificazione: la marca individua il prodotto dal punto di vista delle sue caratteristiche principali. - Funzione di orientamento: la marca, strutturando la sua offerta, aiuta il cliente a orientarsi. - Funzione di garanzia: la marca rappresenta un impegno pubblico di qualità e prestazione. - Funzione di personalizzazione: c'è spesso una correlazione tra la scelta di certe marche e l'ambiente sociale del consumatore. - Funzione ludica: corrisponde al piacere provato dal consumatore nel fare acquisti. Da un punto di vista semiotico, quello della marca può essere visto come un caso di enunciazione delegata. "L'emittente empirico della comunicazione, che è il soggetto che effettivamente costruisce o mette in circolazione il prodotto […] proietta nel prodotto stesso e nella comunicazione che lo riguarda (per esempio la pubblicità) un emittente delegato, cui attribuisce determinate caratteristiche." [ibid.: 137] Tutti gli elementi comunicativi utilizzati dalla marca devono quindi contribuire, coerentemente e attivamente, a questo processo di impersonificazione. Alla costruzione della marca come emittente delegato corrisponde spesso l'identificazione di un destinatario delegato cui rivolgersi, che può o meno corrispondere al destinatario empirico che effettivamente acquista il prodotto. Per capire meglio il funzionamento di tutto questo dispositivo, riportiamo lo schema costruito da Volli. Come emerge chiaramente da questo schema, la marca, l'oggetto e il target rappresentano, dal punto di vista comunicativo, degli elementi interni al messaggio oggettuale, dei simulacri, cioè, delle realtà concrete a essi corrispondenti. Relativamente alle marche, è necessario fare una distinzione fra quelle forti e quelle deboli. Le marche forti sono quelle il cui emittente delegato ha una potente identità comunicativa (si pensi a Nike): la loro comunicazione non si esaurisce nei messaggi oggettuali, ma sfrutta anche altri supporti, come la pubblicità, che contribuiscono alla costruzione dello spessore semantico necessario. La costruzione della marca è senza dubbio un'impresa senza fine, che ha bisogno di continue conferme e che vede sovrapporsi una comunicazione oggettuale e una "metalinguistica e persuasiva". Nel mondo all'abbigliamento, accanto alla marca, si trova anche un fenomeno simile, ma che presenta interessanti peculiarità: si tratta della griffe, ovvero la firma stilistica (Versace, Armani, Valentino, Ferrè). Il funzionamento della griffe rispecchia per molti tratti quello della marca. Anche la griffe, nelle sue comunicazioni commerciali, individua un emittente delegato e determina implicitamente il proprio target, scommettendo su una diffusione connessa alla sua immagine. Un altro elemento in comune con la marca è dato dal fatto che anche la griffe si differenzia rispetto ai capi debolmente marchiati per il suo forte impatto comunicativo, indipendente dal messaggio oggettuale. A fronte di queste affinità, Volli ritiene però opportuno evidenziare i tratti che permettono di distinguere una marca da una griffe. Una prima, sostanziale, differenza è la seguente: mentre le marche sono dei soggetti comunicativi a cui vengono ascritti una serie di caratteri, ma comunque sempre astratti e impersonali, le griffes tendono a essere attribuite a persone vere e proprie, in carne e ossa, che si fanno vedere in pubblico e di cui si conoscono i gusti, così come le storie private e personali. In questo senso, la griffe è vista come una sorta di firma apposta sul prodotto, che lo autentica legandolo al valore di una certa persona. Un'ulteriore contrapposizione può essere ravvisata nella "struttura del campo degli oggetti". La marca tradizionale propone un numero limitato di prodotti diversi, relativamente stabili e in teoria sempre disponibili per qualunque cliente. La griffe, invece, offre prodotti più variabili e numerosi, che si organizzano in collezioni, sono disponibili solo per il tempo limitato di una stagione e non sono confezionati "in serie". Pur nella continua variazione dei prodotti, la griffe deve comunque assicurare una continuità di stile, per essere sempre riconoscibile e identificabile. È così possibile individuare, in ogni sua iniziativa comunicativa, un principio di variazione (la moda vera e propria) e un principio di continuità (lo stile)5. Ciò che garantisce la continuità nella variazione è il gusto personale dello stilista.

Per avere un'immagine adeguata della griffe, si può riprendere lo schema comunicativo costruito per la marca. Bisogna solamente tener conto del fatto che non si tratta più di singoli messaggi oggettuali, ma di una serie aperta di messaggi unificati dalla presenza dell'emittente delegato. Inoltre, questo emittente deve essere visto come una figura fortemente antropomorfa, un attore che si crea all'interno dei dispositivi di comunicazione. Non si può parlare di griffe senza considerare un punto cruciale, che è l'uso che il consumatore ne fa. La griffe, che a un primo livello rappresenta - come la marca - lo strumento di garanzia che il produttore offre al consumatore, diventa per quest'ultimo un mezzo di comunicazione ulteriore, per fornire garanzie su di sé a chi lo circonda. Questo scambio di ruoli, per cui l'abito, oggetto dello scambio economico fra produttore e cliente, diventa strumento di comunicazione fra cliente e il suo mondo, è la caratteristica peculiare dell'abbigliamento, anche al di là dei fenomeni di moda: divise, uniformi, insegne di ruolo, varie manipolazioni del corpo e dei suoi accessori ecc. hanno da sempre questa utilità sociale. […] Rispetto a questa situazione generale, la griffe presenta la specificità di un impatto più qualitativo e flou, che può trasmettere valori più generali e vari: un uniforme militare o una tonaca descrivono in maniera non ambigua un generale o un prete; un abito firmato è meno preciso e referenziale, ma più largamente evocativo. [ibid.: 145] Per questa sua funzione "sociale", la griffe non può identificarsi semplicemente con una firma, ma ha bisogno anche di una coerenza stilistica che la sorregga e la renda plausibile. Da un punto di vista semiotico, lo stile rappresenta una sorta di grammatica, un apparato generativo che sfocia nella produzione di determinati testi (certi abiti e non altri). Questa grammatica individua innanzitutto dei valori caratteristici di una certa impostazione stilistica. Questi possono essere complessi, relativi a un certo sfondo antropologico, a un certo modo di definire i ruoli sessuali, il senso del vestire, la gerarchia delle circostanze che rendono "adatto" un abito; ma possono anche essere più specifici, formulando ad esempio delle ipotesi sull'età e lo statuto socioeconomico del target prescelto, oppure proponendosi per un uso sportivo piuttosto che elegante. Una volta individuati, questi valori devono naturalmente essere trasposti mediante un linguaggio plastico, diventando scelte di linee, di colori, di tessuti, ecc. Questa considerazione ci permette di tornare sul concetto di gusto, che ora possiamo definire come "la capacità dello stilista di rendere figurativi i valori fondamentali della griffe". Volli conclude la sua riflessione affermando che il valore fondamentale della griffe è rappresentato dal contratto grammaticale che essa instaura tra il produttore e il consumatore. Benché concepito unilateralmente, questo contratto deve essere comunque bilaterale e reciproco, in quanto non potrà mai andare a buon fine (nel senso che non ci potrà essere scambio comunicazionale) se non viene preso in carico dal suo destinatario. In questo modo, "il rapporto con la marca si presenta come un racconto in cui un Destinante interpella un Destinatario, il quale apporta, se lo desidera, il suo contributo all'esecuzione del programma, che riceve così la sanzione del Destinatario stesso." [Ceriani, 2001: 65] È infatti il consumatore quello che deve essere coerente nella presentazione della propria immagine: l'industria dell'abbigliamento si limita a fornirgli gli strumenti materiali per comporre il suo messaggio. Tornando sul concetto generale di marca, riteniamo interessante considerare le riflessioni di Giulia Ceriani [2001] in merito alla rilevanza del nome e del logo delle marche. La scelta del nome è un'operazione decisiva, in quanto esso rappresenta il primo fattore che permette di identificare una marca. Deve rimandare sinteticamente ai valori della marca e parlare chiaramente al destinatario ideale, rendendolo partecipe dell'universo di marca, o quantomeno suscitare in lui la voglia di parteciparvi. In base alle loro implicazioni semantiche, è possibile distinguere vari tipi di nomi: - nomi propri (nome della marca, del proprietario, del destinatario ideale); - nomi denotativi, che evocano una caratteristica del prodotto; - nomi connotativi, che associano degli universi semantici altri rispetto alla marca.

"In tutti i casi, il nome è da intendersi come un veicolo di senso, responsabile dell'identificazione immediata dei core values della marca, che diventano così riconoscibili e praticabili." [ibid.: 31] Il logo rappresenta la "messa in scena" del nome della marca: in esso sono condensati, per mezzo di elementi formali, i tratti pertinenti della marca. Nella strutturazione di ogni logo la Ceriani individua un'opposizione costante tra figurativo e astratto. Questa opposizione va vista come una scala graduata su cui si situerà un'immagine: se l'immagine imita il mondo reale si porrà sul piano figurativo, se invece i suoi tratti non riprendono le figure del mondo si situerà sul piano astratto. È evidente che la scelta di situarsi a un'estremità piuttosto che a un'altra determina un diverso tipo di relazione con il destinatario-tipo del messaggio, al quale si richiede un maggiore sforzo cognitivo nel caso di un segno astratto. Per quanto riguarda l'integrazione del logo con la componente verbale, esso può essere analogico (quando c'è una contiguità sostanziale col nome della marca), connotativo (è il caso del logo di Nike, "in cui il segno visivo basta ormai a intrattenere un patto implicito molto interessante con il suo destinatario, il quale sa a chi si riferisce quel piccolo tratto orientato" [ibid.: 32]), oppure costituito esclusivamente dalla tipografia del nome senza disegni aggiuntivi. In quest'ultimo caso, per analizzare l'identità visiva del logo, bisogna tenere in considerazione tutta una serie di aspetti, come la famiglia dei caratteri tipografici, la giustezza e lo spessore dei font, l'eventuale presenza di tratteggi e ombreggiature, il fatto che il nome sembri manoscritto o dattiloscritto. Addentrarci in questo discorso ci porterebbe sicuramente fuori dall'obiettivo della nostra analisi, che consiste in una panoramica generale sulla comunicazione di moda e sugli strumenti a sua disposizione. Punto vendita Il punto vendita è diventato un elemento decisivo all'interno del "communication mix" delle aziende. La sua accresciuta importanza come momento di contatto è da attribuirsi a un cambiamento del rapporto tra l'impresa e il consumatore: da una dimensione sostanzialmente economica di scambio, si è passati a una relazione multidimensionale - nel senso che è ormai necessario anche un coinvolgimento emotivo e cognitivo - e bidirezionale - in quanto oggi il consumatore è in grado di esprimere una propria capacità progettuale. "Per questo motivo alcuni sociologi, tra i quali Morace, parlano sempre più di "societing" piuttosto che di marketing, e di friendship anche nei confronti dei consumatori, il cui coinvolgimento con l'impresa non avviene più a un livello solo razionale, ma si pone piuttosto in un'ottica di scontro-confronto-incontro tra due mondi." [Saviolo e Testa, 2000: 260] Il punto vendita rappresenta il teatro in cui si mette in scena la strategia di una marca, l'ambiente per eccellenza per trasferire un'atmosfera, il luogo dove l'esperienza di consumo è a 360 gradi. Al suo interno tutti i sensi sono coinvolti e il percorso del destinatario "ideale" coincide con i movimenti e le esperienze fisiche del cliente reale che visita il negozio. Sono dunque molteplici i codici in gioco: la vetrina, l'insegna, l'ingresso, la concatenazione dei locali, il merchandising, il design degli arredi, i materiali con cui sono realizzati, le luci, i manichini, le cabine di prova, i colori, e così via. Per valutare l'apporto e il senso di tutti questi elementi costitutivi, è necessario far appello alla semiotica dello spazio, che costituisce "un punto di vista sull'unità spaziale […], rispetto al quale il punto vendita appare come un "testo sincretico" - in cui agiscono diversi codici -, che interviene nell'investimento di senso della marca/del prodotto con ripercussioni determinanti sulla creazione del mondo immaginario di riferimento." [Ceriani, 2001: 35] Il contributo di senso apportato dallo spazio è ancora anteriore, in quanto esso comincia a livello della localizzazione scelta all'interno della città (zone commerciali o residenziali). Una volta scelta una determinata zona, la strada stessa in cui si posiziona il negozio propone poi una sintassi particolare, dovuta alla contiguità di negozi diversi. È comunque sul punto vendita che si concentrano le più sottili strategie di marketing. La spazializzazione corrisponde, di fatto, all'enunciazione di un discorso attraverso alcuni significanti spaziali. Parallelamente alla localizzazione spaziale, essa investe di proprietà spaziali anche le relazioni tra i soggetti (toccare, sentire, vedere), connotando lo spazio

da un punto di vista cognitivo. L'identità visiva della marca acquisisce così una dimensione pragmatica che va di pari passo con una dimensione cognitiva. Volli [1998] riflette sulle funzioni peculiari del negozio di abbigliamento, che "dev'essere insieme chiuso e segreto ma anche aperto e pubblico, deve mostrare e nascondere assieme, esercitare contemporaneamente il pudore e la seduzione, il segreto e il richiamo." [ibid.: 65] Questa dialettica tra discrezione e pubblicità è alla base della natura del negozio esclusivo e l'equilibrio tra questi due termini è importante per valutare la qualità di un negozio. Ogni negozio "di classe" fa ai suoi clienti quello che essi fanno al mondo, cioè sedurre, compiacere, attrarre, ma anche affermare la propria autonomia e il proprio stato. Esso, del resto, vende proprio gli strumenti che gli esseri umani usano per realizzare questa aspirazione: "gli abiti e gli accessori che servono per costruire un corpo artificiale, una superficie simbolica e seduttiva dentro cui sentirsi a proprio agio e in cui riflettersi." [ibid.: 66] Questi meccanismi di seduzione valgono non solo per gli abiti, ma anche per i negozi che li vendono: in essi è in gioco la personalità di chi vende, di chi compra, degli abiti che circolano fra i loro banconi. Un contributo che riteniamo particolarmente rilevante per individuare tutte le variabili da considerare nell'analisi di un punto vendita è quello di Patrick Hetzel [1995]. Egli riflette innanzitutto sui cambiamenti intervenuti negli ultimi anni nel settore dell'intimo femminile. Al di là delle tendenze quantitative, emergono alcune interessanti notazioni di carattere "qualitativo": ad esempio, viene fuori che i clienti, nell'acquistare prodotti di intimo, non amano più chiedere consiglio al personale del punto vendita. Questo atteggiamento si spiega con la crescita dell'individualismo: ognuno vuole decidere liberamente dei propri acquisti, senza l'intervento di terzi. Inoltre, la molteplicità dell'offerta spinge le consumatrici a informarsi preventivamente e dunque, quando esse entrano in un negozio, hanno già le idee chiare in merito a cosa acquistare. È cambiata anche la modalità di interazione tra cliente e prodotto: si è passati da una logica funzionale del prodotto di intimo a una logica prettamente edonistica. Si può parlare di un "approccio fenomenologico" al consumo dei prodotti di intimo, in quanto il loro acquisto non implica solo la soddisfazione dei propri bisogni, ma contribuisce ad accumulare esperienze, vissuti, sensazioni. Dopo questa panoramica generale, Hetzel passa all'analisi di un particolare concetto di distribuzione che è riuscito ad adeguarsi perfettamente alle tendenze in atto: Baiser Sauvage, un'insegna che conta oggi nove negozi, di cui cinque di intimo, tre profumerie e uno misto (è su quest'ultimo che viene maggiormente concentrata l'attenzione). Dopo attente ricerche sulle tendenze di mercato, il gruppo Fournier ha deciso di lanciare una marca a libero servizio, nei cui punti vendita le clienti potessero servirsi da sole, senza l'intervento di venditori. Inoltre si è pensato di associare l'intimo e la profumeria, indirizzando l'offerta a un target ben identificato: quello delle "décalées", categoria che comprende le donne di 30-40 anni, "moderne, indipendenti, attive, desiderose di viaggi e di sorprese e aperte verso l'esterno." [ibid.: 284] Baiser Sauvage è un distributore: la sua identità è dunque fondata sul punto vendita. Questa identità ruota su alcuni aspetti fondamentali: - la scelta, garantita dal vasto assortimento; - la presenza di grandi marche, chiaramente riconoscibili e localizzabili; - la libertà, in quanto i prodotti sono accessibili senza l'intervento delle venditrici (libero servizio); - la tranquillità, una condizione fondamentale per fare scelte importanti, in particolar modo se inerenti la seduzione; - l'accoglienza, che permette di compiere i propri acquisti in un luogo piacevole; - il consiglio, che è rilevante soprattutto per i prodotti cosmetici e per gli acquisti non personali; - la prova, che rappresenta un'esigenza irrinunciabile per le clienti. Il design ambientale alla base della progettazione del punto vendita è coerente con le tematiche che l'azienda cerca di diffondere presso la clientela. Benché il negozio sia stato concepito per soddisfare il core target delle "decalées", la disposizione spaziale e le situazioni d'acquisto mostrano diversi percorsi possibili. Hetzel cerca

di illustrare i diversi percorsi di lettura del negozio da parte della clientela in funzione delle differenti situazioni d'acquisto. Possono esserci persone che, guardando le vetrine mentre passeggiano per la città, attratte da qualcosa o per semplice curiosità, sono spinte a entrare, senza alcuna intenzione di acquisto. La loro visita può concludersi con un non acquisto o con un acquisto di impulso. In questo caso l'attrazione estetica del negozio contribuisce direttamente all'aumento del fatturato: il design ha così un impatto economico. Ci sono poi i cosiddetti habitués del luogo che, prima o dopo un'eventuale passeggiata rituale, si dirigono direttamente al reparto scelto per acquistare il prodotto e passano infine per le casse. In questo caso la venditrice interviene poco o non interviene affatto. Diverso è il caso in cui il cliente ha ben chiaro il prodotto che vuole acquistare, ma non ne conosce la collocazione all'interno del negozio: gli sarà allora necessaria una passeggiata per individuarne i vari reparti. In questo caso l'aiuto della venditrice può essere utile per trovare più velocemente il prodotto desiderato. L'ultimo percorso di lettura è quello delle persone che, pur avendo intenzione di acquistare qualcosa, non hanno ancora chiaro su che prodotto indirizzarsi. In questa situazione la "deambulazione" per i reparti è fondamentale per identificare i diversi prodotti in grado di soddisfare il proprio bisogno, fare confronti fra questi e, infine, compiere una scelta. Il consiglio della venditrice assume allora maggiore rilevanza, per avere suggerimenti o rassicurazioni. I percorsi di lettura dei clienti possono essere analizzati anche in funzione della disposizione spaziale. Lo spazio del negozio è diviso in diversi reparti, in funzione delle famiglie e delle sotto-famiglie dei prodotti presentati. A questi reparti si affiancano altre tre zone: la zona relax, la zona casse e la zona camerini. Al piano terra le casse sono raggruppate in un unico spazio in fondo al negozio (e non, come avviene di solito, all'uscita): questa dislocazione obbliga il cliente a percorrere tutto il piano terra e, dopo il pagamento, a effettuare il cammino inverso. Al primo piano la cassa è situata in cima alle scale, e dunque in un passaggio obbligato. Considerati tutti questi possibili percorsi di lettura del punto vendita, appare chiaro che "anche se in partenza il target era ristretto, il luogo di vendita è più tollerante, e permette di accogliere una clientela più vasta, fatto che rappresenta una carta vincente per il punto vendita soprattutto in termini di fatturato." [ibid.: 296] Sponsorship artistica È sempre più frequente l'accostamento del mondo della moda con l'arte e, in senso lato, con tutto ciò che fa cultura: ogni griffe si occupa a vario titolo - da semplice sponsor fino a curatore dell'allestimento - dell'organizzazione di eventi artistici. Alcune case di moda hanno addirittura creato spazi appositi, come la fondazione Prada o il Marino alla Scala di Trussardi a Milano, che ospitano mostre di artisti all'avanguardia, spesso tra le più significative del cartellone milanese. Il connubio tra arte e moda è senza dubbio controverso. Si tratta infatti di due mondi che condividono il codice della sensibilità estetica, ma che si riferiscono ad ambiti temporali diversi: mentre le collezioni si "bruciano" a ogni stagione, l'arte è "immortale". C'è dunque un motivo ben preciso che spinge gli stilisti a organizzare mostre o a patrocinare la restaurazione di opere artistiche importanti: l'arte può offrire alla moda una legittimazione estetica e culturale, restituendo credibilità a un mondo spesso percepito come vacuo e ingiustamente costoso. La sponsorship artistica implica anche un binomio tra moda e musica. "Gianni Versace, amico, collaboratore e consulente dei grandi della musica pop contemporanea, ha affermato che negli ultimi dieci anni "sono state le rock star a dare l'immagine più forte e moderna, sostituendo completamente gli attori, in primo piano ai tempi d'oro di Hollywood"." [Saviolo e Testa, 2000: 261] Soprattutto nel jeanswear e nello sportswear, sono sempre di più le aziende che sponsorizzano i tour dei cantanti o i maxiconcerti. Magazine aziendali Più mirati rispetto ai cataloghi, i magazine aziendali possono essere un importante strumento di fidelizzazione, a patto che siano originali nei modi di coinvolgere attivamente le lettrici. Saviolo

e Testa [2000] riportano come caso esemplare di utilizzo di questo strumento quello di Elena Mirò: Elena Mirò, marca del gruppo Vestebene-Miroglio indirizzata a donne dalla taglia 46 in su, ha colmato un vuoto editoriale con il magazine Le taglie del sorriso; mancava, infatti, una rivista che raccontasse la moda in maniera decolpevolizzante, mostrando che ci sono possibilità per tutte le corporature. Tale iniziativa ha riscosso un grandissimo successo: nel 1999 ben 150.000 copie della rivista vengono spedite direttamente al domicilio delle clienti e altre 150.000 sono distribuite all'interno delle boutique e dei corner Elena Mirò. La trasformazione da catalogo aziendale a rivista femminile vera e propria è avvenuta grazie a una serie di iniziative originali improntate alla partecipazione: le lettrici sono state coinvolte nella gestione della rivista; hanno scritto articoli, lettere (è prevista la realizzazione di un libro di racconti ironici scritti dalle clienti sul tema della "ciccia in più"), hanno proposto argomenti di discussione e, addirittura, posato per l'obiettivo del fotografo come "trop model" per un giorno. Nell'autunno del 1998 Vestebene ha lanciato la prima agenzia di modelle oversize italiana "Ciao magre" come il famoso head line, che oggi soddisfa anche richieste di aziende concorrenti. [ibid.: 261-262] 3.5.3 Strumenti di comunicazione relazionale Internet Attualmente l'utilizzo di Internet da parte del sistema moda è ancora agli esordi. Eppure in questo ambito Internet può trovare svariate applicazioni, sia nei rapporti col consumatore finale (business to consumer), sia per le attività business to business. Nel primo caso, l'obiettivo dovrebbe essere quello di aumentare la portata della comunicazione, "democratizzandone" l'accesso, ma anche permettendo all'azienda di sintonizzarsi meglio sui propri consumatori. La comunicazione business to business dovrebbe invece servire a rendere più efficienti i rapporti all'interno della filiera produttiva e distributiva. Nei confronti dei consumatori finali, Internet viene utilizzato dalle aziende di moda nei seguenti modi: - come strumento di comunicazione per mostrare le collezioni, dare informazioni circa la loro reperibilità, informare sulla storia dell'azienda e sulle iniziative in cantiere; Mercoledì 29 settembre 1999, in contemporanea con il défilé per Milano collezioni, per la prima volta una sfilata di moda italiana è stata trasmessa in diretta su Internet. Collegandosi al sito di Krizia è stato possibile vedere in tutto il mondo l'intera collezione primavera-estate 2000, preceduta da un'intervista alla stilista. In tutte le boutique di Krizia sono stati predisposti maxischermi per consentire ai clienti di seguire la sfilata, o comunque di farlo nei due giorni successivi, con il conseguente vantaggio, per i buyer, di non dover venire in Italia. Rispetto alle novecento persone che normalmente avrebbero avuto accesso alla sfilata, tenendo conto dei fusi orari e della capacità della rete, le stime sono di un collegamento di quindicimila persone al minuto, per un totale, durante la diretta, di centocinquanta-duecentomila accessi. [Saviolo e Testa, 2000: 262-263] - per la vendita diretta dei prodotti; - per la raccolta di informazioni sui propri consumatori; - per lo sviluppo delle collezioni grazie a opinioni, consigli e contributi dei "navigatori"; - come mezzo di intrattenimento, presentando articoli tratti da riviste internazionali, curiosità su fatti e personaggi, pagine dedicate allo spettacolo, finestre sul mondo della moda e sulle tendenze musicali, i locali e i principali eventi della notte, giochi, test e sondaggi interattivi. Molti sono stati i problemi legati al tentativo da parte delle imprese di moda di utilizzare Internet per parlare direttamente ai propri consumatori. Il maggiore è legato alla difficoltà di comunicare in una maniera "Internet oriented", evitando quindi di trasporre in rete la brochure o il catalogo aziendale. Anche se il materiale è appositamente studiato per Internet, bisogna poi aggiornarlo

costantemente. Solo se si offrono informazioni interessanti, utili e rinnovate continuamente è possibile conquistare e mantenere nel tempo l'attenzione dei navigatori della rete. Per quanto riguarda la possibilità di usare Internet come uno strumento di vendita di prodotti di abbigliamento, sono indispensabili due requisiti: la fiducia del consumatore nei confronti dell'azienda deve essere consolidata; il prodotto deve essere standardizzato e già testato dal consumatore. Il prêt-à-porter italiano appare quindi svantaggiato rispetto al prodotto casualwear americano. Per lo meno all'inizio, dunque, le griffes venderanno on-line soprattutto gli accessori. Di fronte a questo scenario, si intravedono a breve termine maggiori possibilità di sviluppo delle reti business to business ad accesso protetto. Le reti Intranet vengono utilizzate per rendere più veloce e pervasivo il processo di comunicazione e di diffusione della conoscenza tra i membri dell'organizzazione; le Extranet permettono di aumentare la circolazione delle informazioni all'interno della filiera, con l'obiettivo di soddisfare un consumatore sempre più informato e complesso. In questo senso, è possibile considerare Internet come una forma organizzativa in grado di accumulare conoscenze e renderle disponibili agli attori della filiera, in una logica di coinvolgimento tra produzione e punti vendita che permette lo sfruttamento di sinergie. Co-marketing Per molti rappresenta la strada del futuro: "tanti gli esempi, da Absolut Gucci (la collezione che Tom Ford, direttore creativo di Gucci, ha realizzato in collaborazione con Absolut Vodka) ai programmi di promozione congiunta tra aziende dell'intimo e del settore della cosmesi" [Saviolo e Testa, 2000: 267]. La sua rilevanza è evidente soprattutto nel settore del retail: riunendo prodotti di categorie merceologiche diverse ma accomunati da contenuti emozionali vicini è possibile trasferire più facilmente un mondo di riferimento. Un esempio di co-marketing applicato al punto vendita l'abbiamo già considerato parlando di Baiser Sauvage [cfr. § 3.5.2.], dove è possibile acquistare, nello stesso tempo, prodotti di intimo e di profumeria. Alla base di questa formula c'è un'accurata ricerca sulle tendenze del mercato, da cui è venuto fuori che l'intimo e la profumeria sono settori globalmente in crescita, i cui prodotti sono sovra-consumati, in proporzioni identiche, da una determinata categoria di donne: le cosiddette décalées, donne tra i trenta e i quarant'anni, moderne, indipendenti, attive e aperte verso l'esterno. Si tratta di una clientela profondamente "edonista", ben disposta a trovare in uno stesso luogo tutti i prodotti inerenti la seduzione: collants, calze, lingerie, profumeria e cosmesi. 2 R. Fiocca (a cura di), La comunicazione integrata nelle aziende, Egea, 1994 [op. cit. in Saviolo e Testa, 2000: 242] 3 Il termine, proposto da Eric Landowski, sta a indicare il tentativo di recuperare alla semiotica narrativa il contesto pragmatico dell'enunciazione. 4 Il contratto di lettura indica i legami specifici costruiti con il lettore, i dispositivi discorsivi e le strategie discorsive messe in gioco. 5 Per una trattazione più articolata delle questioni legate al rapporto tra moda e stile, cfr. § 2.3. 3.6 Analisi di un caso: il catalogo Miss Sixty Dopo questa carrellata sugli strumenti di comunicazione a disposizione delle aziende di moda, andiamo ora a prendere in considerazione un caso concreto, analizzando il catalogo della collezione autunno/inverno 2003/04 della Miss Sixty, una linea di abbigliamento femminile indirizzata a un target prettamente giovanile, che fa capo al gruppo Sixty6. Nella nostra analisi cercheremo di seguire il modello operativo proposto da Pozzato [1995] di cui abbiamo già parlato precedentemente [cfr. § 3.5.1.]. Partiamo dalle sue caratteristiche tecniche e oggettive. Si tratta di un catalogo rilegato, realizzato in carta plastificata e pensato per essere distribuito nei punti vendita. Sulla copertina [fig. 8], oltre all'indicazione del marchio e della collezione che viene presentata (autumn winter 03/04), compare un. elemento molto interessante. Si tratta di una scritta, posta nella parte inferiore della pagina, che recita: Fashion Strikes Back (la moda va all'attacco). Qualora questa scritta sfuggisse

alla lettrice, essa non potrebbe non notarla sfogliando il catalogo: la prima pagina interna, infatti, è occupata quasi interamente dalla stessa scritta, in questo caso riportata con un carattere di grandi dimensioni, nero su bianco [fig. 9]. Si deve presumere quindi che questa specie di slogan abbia un peso rilevante. Secondo il nostro parere, lo si può vedere come una sorta di chiave di lettura alla cui luce interpretare tutto il catalogo o, più in generale, tutta la collezione della stagione a cui questo fa riferimento. La nostra ipotesi può essere confermata dall'osservazione della struttura complessiva del catalogo stesso. Sfogliando le pagine successive, a un primo colpo d'occhio si capisce che il vero e unico protagonista è l'abito fashion, di moda, che prevale su tutto il resto. Nessun artificio retorico è necessario per metterne in risalto il valore, perché la sua forza e il suo impatto sono tali da imporsi autonomamente, senza bisogno di giustificazioni etiche o sociali. Ogni elemento del catalogo, come vedremo, concorre a esaltare questi abiti, le loro qualità estetiche, la loro funzionalità e indossabilità, la loro capacità di valorizzare il corpo delle modelle. Figura 8 Le modelle che indossano gli abiti della collezione sono fotografate in modo chiaro e nitido, con una perfetta risoluzione che ottimizza la resa visiva. Ma tutto il catalogo è contraddistinto da una continua alternanza tra queste foto e gli elementi grafici, che prorompono sulle immagini con i loro colori quasi accecanti: fucsia, giallo, azzurro, rosso e viola. Questa caratteristica estetica delle pagine del catalogo può essere vista come una metafora della dialettica tra realtà e artificio. Gli elementi grafici instaurano diversi tipi di rapporto con le fotografie: fanno da cornice o da sfondo, sono utilizzati per esaltare alcuni particolari dell'abito su cui lo sguardo della lettrice deve soffermarsi [fig. 10]. A volte essi irrompono addirittura sulle foto stesse: in diverse immagini che ritraggono volti in primo piano, infatti, gli orecchini indossati dalla modella non sono reali, bensì disegnati sulla foto stessa [fig. 11]. Il ruolo di questi elementi è duplice: da una parte, inseriscono una nota di fantasia e di sogno nella presentazione degli abiti, quasi a volerli sottrarre per un attimo alla loro realtà concreta; nello stesso tempo, però, essi concorrono all'esaltazione dell'abito e del corpo della modella nella loro materialità e fisicità. Questa incessante dialettica tra realtà e finzione non si risolve dunque in una negazione della concretezza: piuttosto, sono gli stessi elementi grafici "artificiali" a esaltare, per contrasto, la realtà degli abiti, dei corpi che li indossano e dei contesti in cui le foto sono ambientate. Le fotografie sono prevalentemente a colori, ma ne compaiono alcune in bianco e nero, come a voler creare un'ulteriore "dissonanza" visiva nel susseguirsi delle immagini del catalogo. Comunque, anche nelle pagine che presentano foto in bianco e nero, la presenza del colore è sempre assicurata dagli elementi grafici di contorno, dagli sfondi colorati e dalle scritte che riportano il nome del marchio (scritte su cui ci soffermeremo più avanti) [fig. 12]. Sempre dal punto di vista visivo, sfogliando il catalogo si nota poi la predominanza di una particolare forma geometrica: il cerchio. Questa forma compare negli abiti stessi (i pantaloni, le gonne e i giubbetti di jeans hanno bottoni tondi molto evidenti) e nei bijoux (gli orecchini, i pendenti delle collane, i bracciali e le spille sono sempre circolari) - bijoux che, a seconda dei casi, sono fotografati oppure "disegnati" sulla fotografia stessa [fig. 13]. Questa forma circolare così ricorrente rappresenta dunque uno dei tratti distintivi della collezione di questa stagione. Figura 9 In tutte le pagine del catalogo è da notare poi il nome del marchio (Miss Sixty), riportato in diversi caratteri e colori, ma comunque sempre presente [fig. 14]. Questo elemento "ridondante", che irrompe sulle immagini in modo piuttosto evidente, è concepito in base a una logica ben precisa. È come se si volesse legare, in maniera quasi esasperata, ogni singolo capo d'abbigliamento e ogni minimo dettaglio al marchio della casa produttrice. Nella memoria della lettrice, così, i vari vestiti saranno sempre collegati, visivamente, alla scritta Miss Sixty che li

sovrasta. Si tratta, in definitiva, di una sorta di pubblicità istituzionale del marchio, al quale si vogliono fidelizzare le fruitrici, a prescindere dalla variabilità delle collezioni che si susseguono di stagione in stagione. Figura 10 La caratteristica più evidente del catalogo è senza dubbio l'assoluta predominanza delle immagini e dei disegni. Non compaiono testi o didascalie per presentare, descrivere o commentare gli abiti. Le uniche informazioni riportate sono i nomi e i codici dei modelli ritratti in ogni pagina, di modo che le consumatrici possano identificarli chiaramente nel caso si rechino sul punto vendita ad acquistarli. Per il resto, gli abiti si descrivono da soli: i giochi di luce, le particolari inquadrature, i gesti e le posture delle modelle sono in grado di veicolare le loro qualità estetiche e funzionali meglio di ogni parola che cerchi di "parafrasarle". Non ci sono neanche indicazioni relative ai punti vendita in cui è possibile acquistare i capi della collezione presentata (elemento che compare nella maggior parte dei cataloghi). Le uniche informazioni che vengono fornite, nell'ultima pagina, sono l'indirizzo e il numero di telefono della sede centrale della Sixty Spa e il sito internet della Miss Sixty (entrambi scritti con un carattere molto piccolo, quasi a non voler interferire nell'immagine complessiva della pagina). Non è dunque intenzione di questo catalogo "informare" le consumatrici: si cerca piuttosto di sedurle, di attrarle, di suscitare in loro un desiderio, agendo più sulla sfera irrazionale dei sentimenti e delle emozioni che su quella razionale. Chi, eventualmente, vorrà avere delle informazioni più dettagliate sulla collezione e sui punti vendita, o di qualsiasi altro tipo, potrà far riferimento al sito oppure rivolgersi alla sede stessa dell'azienda. In virtù di queste considerazioni che una lettura "superficiale" del catalogo ci ha suggerito, possiamo constatare che il suo scopo principale è quello di mostrare gli abiti. L'enfasi è sempre posta sul prodotto, al di là del corpo della modella che lo indossa e dei contesti in cui le fotografie sono ambientate: a questo concorrono anche l'ottimizzazione della resa visiva e la chiarezza delle immagini. Il principale parametro di valorizzazione del capo vestimentario è senza dubbio la sua "armonizzazione" con lo schema corporeo: gli abiti sono realizzati in modo da "fondersi" armoniosamente col corpo di chi li indossa. Le immagini ne esaltano infatti due caratteristiche principali: - l'indossabilità, ossia la perfetta interazione tra il corpo e il vestito; - la funzionalità: gli abiti permettono una buona dinamica e una generale facilitazione di qualsiasi movimento, non sono mai d'impaccio. Figura 11 Oltre all'esaltazione di queste qualità pratiche, viene soprattutto veicolata una valorizzazione di tipo estetico degli abiti. La loro bellezza e armoniosità è tale da trasferirsi, in modo traslato, sui corpi delle modelle che li indossano. Non ci sono dunque corpi con una bellezza a sé stante che vengono "ricoperti" dai vestiti: al contrario, sono proprio questi vestiti che assicurano l'affermazione e l'esaltazione estetica del corpo di chi li indossa. Si può dire che gli abiti concorrono ad "abbellire" il corpo, mettendone in evidenza i punti forti e assicurandogli grazia e fascino. Quello che manca, in questo catalogo, è una valorizzazione in senso sociale degli abiti. Nelle immagini non vengono mai proposti situazioni d'uso, contesti o ruoli sociali adeguati: le ambientazioni delle foto sono assolutamente anonime. Questi abiti non sono dunque pensati per essere usati da particolari categorie sociali in determinate situazioni. A fronte di questa sorta di "anonimità sociale", essi concorrono ad affermare con forza l'identità individuale di chi li indossa. Si può dire che questi vestiti, in linea generale, vanno bene per tutte le occasioni. La loro "adeguatezza" non dipende da norme sociali più o meno codificate, quanto dal fatto che

colei che li indossa si senta a suo agio, consapevole del proprio fascino e della propria capacità di attrarre gli sguardi altrui. La scelta del vestito più adeguato è dunque a pura discrezione di ogni singola persona che, di volta in volta, può scegliere l'abbigliamento in cui meglio si riconosce e che riflette la sua personalità e i suoi diversi stati d'animo. Figura 12 Foto 13 Passiamo ora all'analisi dell'organizzazione narrativa del testo, considerando innanzitutto l'aspetto dei corpi delle modelle e la loro gestualità. Queste modelle non hanno un aspetto rigido e immobile, ma assumono sempre delle posizioni assolutamente naturali: i loro movimenti, la posizione delle braccia e delle gambe, l'inclinazione della testa, l'orientamento dello sguardo appaiono sempre spontanei, non sembrano elementi "pilotati" da un fotografo. Inoltre il corpo delle modelle non è mai isolato da ciò che lo circonda. Esse infatti si adagiano sempre su un supporto: alcune sono appoggiate al muro, altre sono sedute sul pavimento o sul marciapiede [fig. 15]. Molte di loro, poi, toccano o si appoggiano su degli oggetti (un carrello, una bicicletta, delle cassette di plastica) che creano una contiguità fisica e spaziale con i loro corpi, come una sorta di "appendici" [fig. 16]. Foto 14 Oltre che con questi oggetti che si trovano accanto, le mani delle modelle cercano sempre un contatto con gli abiti che indossano: a volte sono infilate in tasca, altre volte si appoggiano sulle asole dei bottoni o sulle cinture dei pantaloni, altre volte ancora sfiorano delicatamente i vestiti [fig. 17]. Da questi gesti traspare una sostanziale sicurezza di queste modelle, che non hanno timore di mettere in risalto i propri corpi attraverso i capi vestimentari. Ma soprattutto, si afferma una continuità fra il loro corpo e gli abiti indossati, a riconferma dell'armonizzazione tra abito e schema corporeo che abbiamo precedentemente sottolineato e che rappresenta uno dei principali parametri di valorizzazione di questa collezione. Foto 15 Un altro aspetto rilevante ai fini dell'articolazione narrativa del testo è rappresentato dall'espressione del viso delle modelle. Esse non sorridono mai. Dai loro sguardi si evince una sorta di sfida, rivolta a chiunque le guardi o alla società in generale (questo elemento ci riporta direttamente allo slogan Fashion Strikes Back) [fig. 18]. Questa volontà di provocazione nasce comunque da una sostanziale sicurezza personale e dalla consapevolezza del loro fascino e del loro sex-appeal. Rese "forti" dagli abiti che indossano, queste modelle - che esemplificano poi le consumatrici ideali del prodotto - sono pronte ad affrontare qualsiasi situazione e a rapportarsi con qualsiasi altra persona: nulla sembra in grado di poterle turbare. Questi tratti caratteriali suscitano una grande attrazione nella lettrice, stimolando in lei un impellente desiderio di emulazione. Anche le ragazze più titubanti e insicure di sé sono portate a pensare che indossare abiti Miss Sixty conferisca loro un aspetto così deciso e determinato da renderle in grado di confrontarsi con gli altri e col mondo. Foto 16 Il secondo livello di analisi della narrativizzazione del catalogo è dato dall'ambientazione delle fotografie. I contesti in cui le modelle vengono ritratte sono in totale antitesi rispetto agli abiti fashion che indossano: magazzini pieni di oggetti vecchi buttati per terra o accatastati, muri scrostati che cadono a pezzi, marciapiedi dissestati [fig. 19]. Questo contrasto così evidente ha

un forte impatto visivo sulla lettrice, che in un primo momento può trovarsi quasi disorientata. Lo stesso contrasto, però, è comunque finalizzato in ultima istanza (come del resto tutti gli altri elementi) alla valorizzazione estetica dell'abito. Come a dire che gli abiti Miss Sixty non hanno bisogno di una "cornice" che li esalti, in quanto le loro qualità estetiche hanno un'evidenza diretta e immediata. Gli abiti si descrivono da sé: la loro bellezza emerge comunque, con una forza propria, senza bisogno di ricorrere ad alcun espediente circostanziale. Le peculiarità di questa ambientazione possono anche essere lette in un altro modo (che abbiamo già evidenziato precedentemente). La mancanza di qualsiasi caratterizzazione sociale dei contesti in cui gli abiti sono fotografati è comunque un'affermazione indiretta dell'"universalità" di questi stessi abiti. Per indossarli e sentirsi a proprio agio non bisogna ricoprire un determinato ruolo sociale, muoversi in un certo ambiente o trovarsi in particolari circostanze. La Miss Sixty non pone così alcun limite alle fruitrici, che possono indossare il jeans o la maglietta alla moda in qualsiasi situazione, a seconda delle loro esigenze e delle loro inclinazioni. Questa sorta di "libertà individuale" appare ancora più rilevante se si tiene conto del fatto che il target a cui il marchio si rivolge è prettamente giovanile. Ed è proprio la fascia giovanile quella che reclama un maggior bisogno di autonomia e indipendenza e che manifesta la volontà di combattere il conformismo e le costrizioni sociali. Ogni ragazza vuole infatti affermare "a gran voce" la sua peculiare identità personale, anche, e forse soprattutto, mediante il proprio modo di vestire. Miss Sixty le offre allora un repertorio di capi d'abbigliamento di tendenza, che può combinare e personalizzare a suo piacimento, avendo comunque la sicurezza di essere sempre alla moda (moda intesa in questo caso come tendenza e non come piatta omologazione degli individui). Foto 17 L'organizzazione narrativa del catalogo si ferma a questo livello. Non ci sono infatti elementi cronologici, stagionali e climatici identificabili. E non è rappresentata alcuna forma di interazione tra le modelle che possa esemplificare una particolare situazione e dare istruzioni sull'uso sociale del capo. Nelle uniche due foto in cui delle modelle sono fotografate una accanto all'altra non si instaura tra di loro alcuna forma di interazione né alcun contatto fisico. C'è al contrario una sostanziale indifferenza reciproca, quasi a non voler turbare l'affermazione, autonoma, delle rispettive identità individuali [fig. 20]. Foto 18 In virtù di tutte le osservazioni che la "lettura" di questo catalogo ci ha suggerito, riteniamo dunque che si possa individuare un "tema unificante" che percorre tutto il testo: la dialettica tra elementi contrastanti (esemplificata dallo slogan Fashion Strikes Back). Nel corso della nostra analisi ne abbiamo individuati alcuni: - il contrasto tra le foto e gli elementi grafici, che esemplifica visivamente il contrasto tra la realtà e la finzione, fra la concretezza e l'artificio; - il contrasto tra le foto in bianco e nero e le foto a colori (o tra le foto in bianco e nero e i colori "accecanti" degli elementi grafici che fanno loro da contorno); - il contrasto tra la bellezza estetica degli abiti (in grado di valorizzare anche il corpo delle modelle) e i contesti in cui le foto sono ambientate (ambienti spogli e poveri, con pareti e pavimenti dissestati, pieni di oggetti rotti buttati uno sull'altro); - il contrasto tra la forte personalità delle modelle (e, in senso traslato, di tutte le ragazze che indossano abiti Miss Sixty) e le norme e costrizioni sociali. Foto 19 Questi contrasti sono comunque "sanati" da un elemento di continuità e di armonizzazione, che è rappresentato dal rapporto che unisce il corpo della modella agli abiti che indossa. Questi abiti

sono infatti in grado di esaltare il valore estetico dei corpi a cui si coniugano, evidenziandone i punti di forza e assecondandone, in modo sempre armonico, ogni gesto e ogni movimento. Ritorniamo ancora una volta sul principale obiettivo comunicativo del catalogo che, come abbiamo sottolineato più volte nel corso della nostra analisi, è quello di mostrare gli abiti della collezione, enfatizzandone il valore e le qualità estetiche, caratteristiche che alla fine predominano su tutto il resto. Foto 20 6 La Sixty è una Società per Azioni con sede a Chieti che comprende diversi marchi di abbigliamento: Miss Sixty, Energie, Murphy & Nye, Sixty, Killah, Dake, Ayor, Decauville, RefrigiWear.

IL LINGUAGGIO E LE STRATEGIE COMUNICATIVE DELLA MODA DI CLAUDIA GRAZIANI CAPITOLO 4 CONCLUSIONE 4 Conclusione "C'è chi dice che la moda non c'è più. C'è chi dice che le tendenze contraddittorie e invadenti, moltiplicate all'eccesso fino a fagocitarsi, sono solo provocazioni inascoltate. C'è chi dice che i consumatori sono cambiati, e che seguono ormai tragitti individuali e sempre più contaminati, indifferenti al precetto di stile, al conforto dell'assimilazione al gruppo, a una modalità di esistenza aspirazionale e mimetica." [Ceriani e Grandi, 1995b: 11] In queste affermazioni c'è, senza dubbio, una porzione di verità. Effettivamente possiamo osservare, nella situazione attuale, diversi mutamenti: è cambiata la dinamica dell'alternanza, resa sempre più rapida; sono cambiate le modalità di informazione e di influenza; si sono moltiplicati i modelli di riferimento. Se negli ultimi trent'anni può aver prevalso un certo carattere impositivo del sistema della moda, oggi questa deve fare i conti con la maggiore consapevolezza e autonomia di giudizio del consumatore, il quale sempre più tende a costruirsi la propria moda, ad abbinare marche e prodotti diversi per esprimere la sua personalità o, addirittura, un proprio stile. Il consumatore diviene così il vero creativo: è sempre attratto dalle proposte della moda, ma non vi si assoggetta supinamente. È in questa chiave che va interpretato, ad esempio, il crollo di vendite del total look, vero protagonista degli anni ottanta e sintomo più palese della sudditanza del consumatore nei confronti del creativo. Si può descrivere la situazione attuale mediante il passaggio concettuale, che nel corso della nostra riflessione abbiamo più volte evidenziato, dalla moda allo stile. Lo stile personale rappresenta la manifestazione di un'identità individuale che in quanto tale può essere trasversale alle mode, può cioè liberamente attraversare proposte di moda diverse, prendendo da ciascuna ciò che serve a definire un risultato del tutto personale. Questa accezione di stile riflette dunque

la necessità emotiva e culturale di non subire passivamente la moda, pur senza rinunciare alle opportunità che essa offre. Riteniamo dunque che, più che di "morte" della moda - che da più parti viene proclamata -, è oggi possibile parlare di un pluralismo della moda, inteso in diverse accezioni. Ciò significa, in primo luogo, che una singola moda non può più spadroneggiare "come in passato la crinolina, il tubino, il new look, il tailleur pantalone." [Saviolo e Testa, 2000: 20] Oggi le mode non sono più in grado di imporre un conformismo "da uniforme" all'intera società, in tutte le classi e in ogni occasione d'uso. Inoltre, ultimamente stili e mode sono diventati sempre più specifici per occasioni d'uso e di vita: abiti da giorno e da sera, da lavoro, da tempo libero, da crociera, da viaggio, da campagna, da mare, da montagna. Ciò che domina in un particolare ambito non è detto che automaticamente si possa diffondere in altri. In una situazione così sfuggente e multiforme le imprese di moda, per affermare il proprio valore e per imporre sul mercato le loro proposte, non possono che far leva sulla comunicazione, che deve innanzitutto "sedurre" il consumatore, per attrarlo e indurlo infine all'acquisto. Comunicare la moda non è come comunicare qualsiasi altro bene di largo consumo. La moda ha sempre usato strumenti essenzialmente visivi per comunicare: foto, sfilate, show room, modelle, mostre, video, gli stessi campionari. Questo succede perché nell'acquisto di un capo d'abbigliamento o di un accessorio, rispetto agli attributi funzionali del capo stesso, risultano dominanti le motivazioni implicite e gli elementi simbolici, che vengono molto più facilmente concettualizzati e sintetizzati tramite una comunicazione basata sull'immagine. La moda non può fare a meno di comunicare attraverso immagini, e quindi segni; più è raffinata - in un certo senso "inutile" - più ha bisogno di questo tipo di supporto. Il mondo che la interessa è fatto di simboli intangibili che devono trovare una loro rappresentazione estetica: il problema è stabilire una coerenza tra mondo rappresentato e mondo della marca, altrimenti l'immagine diventa fine a se stessa, pura ricerca estetica senza contenuto. È in questo senso che la disciplina semiotica può trovare delle applicazioni molto interessanti. La nostra analisi della comunicazione di moda ci permette così di evidenziare la rilevanza dello "sguardo semiotico" al fine di stabilire delle modalità di intervento consapevoli ed efficaci. Ci sono delle intenzioni e ci sono dei codici per comunicarle: la semiotica studierà i loro rapporti reciproci, il dosaggio degli "ingredienti" segnici che intervengono nel discorso, l'intonazione data dal modo di enunciazione e il canale che sarà stato scelto. Essa valuterà l'importanza del contesto e la congruenza del destinatario designato dalla comunicazione stessa con il suo ricevente empirico (lettore, spettatore o consumatore che sia…) [Ceriani, 2001: 12] La semiotica permette dunque di gestire un mix di comunicazione, stabilendo se esso corrisponde alle intenzioni comunicative che ci si è posti: in questo modo le aziende possono agire in modo coerente, coordinato e opportuno sia rispetto agli obiettivi che rispetto alle attese del target. In base a questa prospettiva è possibile anche confrontare il funzionamento di diversi supporti che fanno riferimento alla stessa marca, come ad esempio una campagna televisiva e un punto vendita, un logo e una collezione di vestiti. "L'analisi semiotica si concentra intorno ai processi esterni di produzione degli effetti di senso che si instaurano tra soggetto emittente (colui che comunica), il referente che è significato (per esempio il prodotto, o l'azienda, di cui si vuole parlare) e soggetto ricevente (colui al quale il "discorso" è destinato)." [ibid.: 15] La sfida della semiotica applicata al marketing è quindi duplice: da una parte verificare la coerenza tra il testo manifestato e le intenzioni o gli obiettivi di partenza; dall'altra parte, valutare lo scarto tra la ricezione empirica e la ricezione "ideale" (ossia quella che era stata auspicata dal soggetto della comunicazione). Essa insegna, a chi vuole comunicare, che chi riceve il messaggio ha un ruolo non solo passivo di destinatario, ma anche attivo nella decodifica dei significati espliciti e impliciti dello stesso. Nel campo della comunicazione aziendale, ciò significa riconoscere che l'identità di marca non può essere un'imposizione unilaterale da parte dell'impresa, essendo piuttosto qualcosa che nasce nella mente del consumatore.

Con queste riflessioni abbiamo voluto, in definitiva, trasportare la disciplina semiotica al di fuori dei suoi confini originari, proiettandola nell'universo concreto del consumo, del marketing, delle strategie promozionali e comunicative: in questi ambiti la semiotica è senza dubbio in grado di dare il suo migliore contributo.

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