A quel tempo le ombre portavano a spasso le proprie opinioni attaccate ad un guinzaglio borchiato. Raggiunta che ebbi la foresta Pelosa di Bruttalì dopo il deserto del Brusàdur, l’attraversai. Dopo molti mesi arrivai ad un monte, lo scalai. Arrivai incima dopo tre giorni di freak climbing . Avevo sbagliato montagna. Ponderai se gettarmi direttamente dalla rupe scoscesa e irrrta che si errrgeva innanzi e dietr’anche. Ma la brama di udir parlare Palodur, il saggio, mi rese ragionevole, e mi preparai spiritualmente per la discesa, con una bonghetta. Trovata la montagna giusta, la scalai fino alla cima; ivi, davanti al pertugio che dava adito ad una caverna, sedeva, su una roccia, un vecchio. A dire il vero non sembrava tanto vecchio per il suo aspetto, quanto antico e prezioso per l’aura mistica che emanava. Lo salutai, con la mia massima eloquenza. -salute a voi o PalodurPalodur disse che vestito come ero non dovevo presentarmi da lui. Mi guardai: della tunica e delle brache che indossavo quando ero partito rimanevano solo pochi brandelli, tenuti insieme dal mio sudore, dal mio sangue incrostato e da molte altre medde. A dire il vero puzzavo un tantin. Dovetti girare mezza montagna per trovare un ruscello. In esso mi lavai e trovai ristoro, onde essere degno di colloquiare a tu per tu con il sommo. Dato che l’acqua aveva sciolto i miei vestiti, mi feci un tanga gigante con una foglia di banana. Tornai da Palodur. Dove lui era prima, ora c’era solo un pietra con sopra ad essa un libro. Lessi il titolo: -Metaparanoia, un sostituto alla masturbazione-. Mi ripromisi di leggerlo. Chiamai –Salve o Palodur, sono tornato, e ora son degno!!Solo il silenzio mi rispose. Entrai nella caverna. L’entrata era più bassa del soffitto e bisognava abbassarsi molto per passare. Prima vidi tutto nero, poi all’improvviso vidi tutto bianco e poi svenni. Sentii come se la mia anima in fuga venisse rischiacciata dentro il corpo da una forza invisibile a cui nulla poteva porre rimedio.
Spalancai gli occhi: la prima cosa che pensai era che mi avevano aperto il buco del culo e legato e portato nel piccolo spiazzo davanti al pertugio. Lo chiesi a Paludur, che candidamente confermò tutto. Mi aveva tramortito con una sassata, ed in effetti la testa mi faceva un po’ malino. Palodur disse che ora potevo chiedergli quello che volevo. Io iniziai, cercando di concentrarmi anche se la testa mi doleva alquanto ed il culo mi bruciava. - Dimmi, o sommo, cos’è l’uomo?Lui si accese la mia bonga, con il mio accendino ed il mio Manali. Tossii, di una tosse secca, e collassò, perchè lassù non aveva una bonga e comunque riusciva a trovare poco giro di cose buone. Stette una mezzora disteso per terra con gli occhi rovesciati e la bava alla bocca. Poi, improvvisamente mi fissò, si sedette e mi rispose: - L’uomo è una statuetta di terra cotta, da bambino è malleabile, prende la forma degli eventi e con il tempo si secca e diventa fragile e leggero. Poi si indurisce, e questo è l’uomo adulto, ma con il tempo diventa sempre più friabile. Ad un bambino gli stacchi la testa con due dita, il ragazzo, lo spezzi con un pugno, l’adulto con un sasso, ed il vecchio ti si sbriciola in mano.- Ma l’argilla può essere felice?- chiesi io Lui disse di no. Gli chiesi: - Ma che senso ha tutto ciò?Lui rispose: - Che senso ha la parola “senso”?Intanto che dialogavo con Palodur ero riuscito a segare la corda che mi teneva legato con un coccio di bottiglia di birra ‘Trox. Presi il sommo (non pesava molto) e lo scaraventai giù dalla rupe. Mi sedetti sulla roccia che egli era solito usare come seggio negli interminabili attimi di meditazione. 2 Passai molti anni in completa solitudine seduto sul seggio che fu di Palodur, tanto che incominciai ad assumere le sue sembianze e il mio pensiero e la mia memoria si facevano sempre più vaghi perdendosi e confondendosi con quelli del sommo e dei maestri della montagna che lo avevano preceduto.
Un brumoso giorno autunnale, con la nebbia arrivarono, per la prima volta, dei visitatori; li vidi comparire appena il banco si spostò verso valle. Era un gruppo di giovani Lupetti, si sedettero in cerchio attorno al mio seggio. - Ecco,- Pensai – questi sono i miei discepoli. Tuttavia nessuno sembrava curarsi della mia presenza, tanto che dovetti parlare per primo. - Salute a voi miei giovani e preziosi amici, siate benvenuti. – Qualcuno mi rivolse uno sguardo incuriosito e distante, ma per lo più i giovani lupetti sembravano indaffarati, e nessuno mi diede una risposta. Fumavano certe pipette di vetro, e facevano delle facce stranite che dopo una bonga non avevo mai visto fare a nessuno. Ma sembrava che gli piacesse e non potei fare a meno di chiedere loro di farmele provare. Risposero che potevano vendermene un po’, se volevo, e mi proposero un prezzo a dir poco oltraggioso. Visto che l’unico bene che possedevo era la saggezza acquisita in lunghi anni di meditazione, proposi loro uno baratto: - Io vi racconterò una storia che vi aiuterà a ritrovare la strada di casa, e voi mi farete provare queste pipette... – I lupetti risero, come se la mia proposta non meritasse la benchè minima considerazione. Ma uno di loro si alzò; un mingherlino con la faccia butterata che balbettando mi disse: - Io a-a-ascolterò la tua sto-storia, e-e ti darò un gra-ammo di crack sese lo me-me-meriterà. – - E sia, chi vorrà mi ascolterà. – Risposi. -
Il quinto Satrapo della Persia Orientale, passeggiava un giorno per i viali tra i suoi palmeti. Egli era pensieroso: nonostante che egli fosse uno degli uomini più ricchi del continente, nonostante le sue belle mogli e i suoi molti servi, egli si sentiva solo ed insoddisfatto. Prendeva a calci i piccoli sassi bianchi e rotondi, ripensando con amarezza ad un litigio avuto al mattino con l’ambizioso amministratore della sua tenuta ad est del fiume Kira. Si chiedeva perchè tutte le persone che lo circondavano gli fossero così distanti mentre la sua tristezza degenerava a volte in deliri paranoidi. Tutto ad un tratto il satrapo si fermò: i suoi occhi stanchi avevano incrociato lo sguardo vispo di un piccolo cucciolo di scimmia. Subito il cuore dell’uomo sin riempì di tenerezza per quel piccolo essere,
con ogni probabilità orfano. Il cucciolo continuava a fissarlo, con i grandi occhi sembrava che chiedesse al satrapo un po’ di calore. Questi prese in braccio la scimmia, poi se la pose sulla spalla. Essa giocava con i capelli ricciuti del satrapo, che si meravigliò di quanta gioia un tale contatto potesse donare. Il rigido protocollo lo aveva infatti sempre tenuto distante dai figli che le sue mogli gli avevano dato e d’altra parte mai lui avrebbe potuto immaginare di avere con essi un rapporto che non fosse verbale, freddo e distaccato, giacchè, da che vi era memoria, sempre nelle famiglie satrape era stato così. Egli decise perciò di portare nella sua casa il cucciolo, per dargli di che sfamarsi. Per il satrapo iniziò da quel giorno una nuova vita; dedicava molto tempo alla scimmietta che era simpatica ed intelligente; e nonostante i tiri birboni a cui sottoponeva il satrapo e la sua corte, tutti ne venivano, magicamente, subito conquistati; e guai a chi, per caso, avesse mancato in qualche modo di rispetto alla piccola scimmia del signore: la sua vita sarebbe stata appesa ad un filo. Il satrapo andava infatti in giro con la scimmia sulla spalla, ed aveva occhi solo per lei. Un giorno egli stava nel suo studio giocherellando con la sua amica; un servitore bussò alla porta, per annunciare che l’amministratore della tenuta ad est del fiume Kira chiedeva udienza. “quel corrotto” pensò il satrapo. Guardò la scimmietta, che stava masticando un’importante pergamena, e sorrise. Alla scimmia disse: “Ma si, mastica quello che vuoi, cosa importa....” Poi rivolto al servo: “Dite all’amministratore che lo riceverò un’altra volta”. Si distese sul suo canapè guardando trasognato quel piccolo demonio che faceva a pezzi la sua documentazione. Da quel giorno il satrapo smise di occuparsi dei suoi affari per dedicarsi unicamente alla sua amica. Usciva sempre meno da quella stanza tanto che la gente del palazzo iniziò a guardare con sospetto quella scimmia che cresceva e stava sempre sulla spalla del satrapo: alcuni dicevano che fosse maledetta.... Mentre lui svuotava i forzieri, per procurare doni giochi e prelibate leccornie per la scimmia, la gente sempre meno si fidava di lui e del suo buon senso. Inoltre gli affari andavano in rovina, tanto che il primogenito del satrapo, accompagnato dai suoi gendarmi e da una folla sbigottita, bussò un giorno allo studio del padre. Nessuno rispose, sicchè, dopo aver bussato più volte il figlio aprii risolutamente la porta. Se prima vi era qualcuno, tra la folla, che
ancora si faceva degli scrupoli a tradire la propria lealtà al signore, la scena che si presentò ai loro occhi bastò a far evaporare ogni dubbio: ovunque erano sparsi pezzi di pergamena, i preziosi arazzi che ricoprivano le pareti, ridotti in brandelli: sembrava che nulla fosse rimasto di integro in quella stanza, tranne la scimmia, che era grande ormai quasi come una persona e stava accoccolata in mezzo alla stanza, giocherellando con quella che era stata una zampa della scrivania in ebano del satrapo. E certo questi non sembrava integro: seduto in terra con le spalle contro la parete, con gli occhi gonfi e numerosi graffi su tutto il corpo, nei suoi occhi brillava un’oscurità malsana, mentre con un sorriso mellifluo continuava a fissare la scimmia, senza nemmeno accorgersi che l’intero palazzo li stava osservando. Il figlio cercò di richiamare la sua attenzione: “Padre...cosa vi succede?” . Il satrapo girò lentamente la testa, rivolgendo uno sguardo ostile al suo primogenito, che continuò freddamente: “Padre, tu disonori la tua famiglia e così disonori anche me. Vattene da questa casa e porta con te la tua scimmia maledetta!” Per un attimo negli occhi del ricco signore tornò lo sguardo di un tempo, capace di inchiodare al muro i suoi interlocutori; ma fu un bagliore di breve durata, che presto lasciò il posto ad uno sguardo spento e remissivo. “Andiamo piccola...” Disse alla scimmia mentre si alzava con fatica. Lei gli salì sulla spalla destra, ed il satrapo, sotto il peso di un animale grande quasi quanto lui, uscii per sempre dalla sua casa. Visse per un po’ nei sobborghi della capitale, chiedendo l’elemosina, poi sparì nel nulla.- Ca-aro vec-vec-chio, questa sto-o-ria fa proprio schif-schif-fo!rispose il giovane lupetto balbuziente, e così dicendo in quattro e quattrotto mi buttò giù dalla rupe. Mentre gli altri lupetti, dopo aver finito il crak decisero di ritornare verso la valle, il giovane butterato volle rimanere e prendere il mio posto sul seggio. Ma la compagnia, non avendo dato retta alle mie parole, lungo la discesa si perse; finirono così morti in un crepaccio. Il lupetto balbuziente presto scoprì all’interno della caverna una ricca biblioteca, lasciata nei secoli dai maestri della montagna; scelto un libro a caso, incominciò a leggere, ma trovandone la lettura noiosa fin dalle prime pagine (aveva infatti preso “metaparanoia”) si limitò a sfogliarlo osservando le figure che celavano misteriosi arcani. Le pagine erano però
state inbevute da Palodur con un potente estratto lassativo, col quale aveva pensato di tramortire il suo discepolo. Sconvolto da un’atroce dissenteria il ragazzo smise di balbettare ma passò ore da incubo spruzzando giù dalla rupe i muschi e licheni che avevano costituito l’unica dieta dei lupetti sulla montagna. Il dolore lo portò al delirio. Fu in questo stato che accolse l’arrivo di un insolito individuo. 3 Si trattava di Giovanni Rana (proprio quello dei tortellini) che si presentò con la consueta affabilità nonostante un getto di diarrea l’avesse investito durante la salita. - Non è che avreste un po’ d’acqua per sciacquarmi di dosso questa strana fanghiglia puzzolente? - Chiese Giovanni Rana. - Ti propongo un baratto, - rispose il lupetto – tu ascolterai la mia storia, ed io ti spiegherò la strada per il ruscello. – L’industriale non aveva scelta, e accettò; si sedette quindi su una roccia, e il lupetto, in preda ai deliri cercò di convertire la diarrea in logorrea per salvarsi dalla disidratazione. - Vasco Rossi era un criceto. Grigio. Striato. Era un fico. Un giorno, scricettando nei dintorni della sua tana durante una delle sue “spedizioni” (in realtà non si allontanava mai molto) trovò mezzo etto di fumo. Nero, buono, una bomba. Vasco se lo portò a casa e iniziò a darci dentro con le bonghe. Ne aveva due: una piccola, vetrosa, una schifezza. L’altra di bambù autoprodotta, verde, lunga, una bomba. Poi, dopo aver abusato della bonga verde (quella vetrosa no, fa schifo) decise di uscire, ma poi collassò sull’uscio di tana, battè la testa sulla porta (un sasso ruvido, duro, spigoloso, che copriva l’uscio) e iniziò a sognare: “Pillo! Pillo!...” Sentiva una voce chiamarlo da lontano. Molto lontano, e flebile. Lui era vestito di gore-tex, sospensorio in kevlar, coprichiappe in lattice e delle spalliere tipo Ken Shiro, però luccicanti come un tagadà. La voce che lo chiamava apparteneva a Samuel, che non era quello dei Subsonica, ma l’asino. Ora, Vasco non riusciva a ricordare dove già avesse incontrato quell’asino, ma sapeva di chiamarsi Pillo (chiunque Pillo fosse) e che Samuel aveva bisogno di lui. Andò da Samuel, ma questi era una bionda, luia, fica, culona. Lui si strappò il sospensorio e lei
gli tagliò la tega. A quel punto Vasco si svegliò. Aprì gli occhi: era in prigione. Che cazzo ci faceva lì?” Giovanni Rana, tra la puzza di medda che egli stesso emanava e la crisi mistica che il racconto stava inducendo in lui, sembrava in difficoltà. - Fammi lavare al ruscello ti prego, dopo ascolterò la tua storia!Chiese disperatamente l’industriale. - Solo alla fine della storia potrà avvenire la tua purificazione- rispose il novello Palodur trattenendo le convulsioni, tra un feroce attacco di diarrea e l’altro. - Ascolta: Quando Vasco Rossi chiese chi avesse pagato la cauzione gli risposero che guardava troppi film americani e che in Italia non esiste la cauzione. Vasco impallidì: sapeva che era tutto vero. Uscì da quel posto di medda (pieno di sbirri) e respirò avidamente il sole. Poi vide i gelati: verdi, gialli, marroni. Vasco ne chiese uno marrone, poi cambiò idea perchè non aveva soldi. Tirò il gelato in faccia al tipo dei gelati e scappò correndo in mezzo a quella medda di città. Vasco capì che doveva ritrovare la sua tana, e all’improvviso restò fulminato da un pensiero: il fumo! Lo avevano rubato? Confiscato? Era diventato duro? Vasco venne pigliato dal panico e iniziò a prendere a calci i cassonetti; poi vide che era di nuovo di fronte a quel posto di medda pieno di sbirri e scappò via. Quando Vasco smise di correre, scendeva la sera. Mangiò un pezzo di pizza, fredda, funghettosa, offerta, da un barbone. Ringraziò e iniziò a camminare: voleva uscire da quella medda di città. Quando però fu uscito dalla medda, capì che lì non c’era la sua tana; comunque era stanco, per cui entrò in una fabbrica da cui usciva della tecno. Vasco si mangiò 15 paste e 213 cartoni e un quartino e si ricordò di essere un criceto. La sua tana in realtà ce l’aveva davanti e ci aveva un pò di mal di testa per via della botta sulla porta, prese quindi un aulin, la bonga e il mezzo etto e partì per una “spedizione”.Palodur guardò il cielo, e alcune gocce iniziarono a cadere per tramutarsi repentinamente in uno scroscio violento che mondò Giovanni Rana e diede al giovane maestro sollievo dalla diarrea.