LEGGERE
DOMENICA, 4 MAGGIO 2008
ELLA CONTESTAZIONE. UN BILANCIO PROBLEMATICO
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RICOSTRUZIONE – LA STORIA DEL RAGAZZO BRUCIATO DALLE MOLOTOV
Con l’«Angelo azzurro» finiscono anche i sogni «Una giovinezza che l’avvenire inquieta troppo spesso». «Stampa: non inghiottire». «Annegano le conquiste, salgono i profitti»: accanto all’analisi politica emerge dai manifesti del Maggio francese un’inquietudine più profonda. A destra: il primo manifesto del ’68 e, sotto, quello «storico» degli studenti torinesi all’occupazione di Palazzo Campana nell’autunno ‘67.
Attraverso i manifesti parigini passa la contestazione al «potere costituito» e al sistema capitalistico: ma anche una riflessione critica sul ruolo non sempre limpido dell’informazione
PROTAGONISTA DEL MOVIMENTO CATTOLICO TORINESE
a con san Gregorio
dra di Storia bizanLettere. Nel 1976 gli edra di Storia della izione classica. Ha la traduzione delne epistolografica o il Giovane per la afia dello stesso Plidemia delle Scienze derazione della sua ita conoscenza delci latini, gli è stato are all’Enciclopedia ella Oraziana edite
ella letteratura criEnrico eccelle per dità, da Clemente n Cipriano, da SanGirolamo, da San mo a Sant’Agostimo, primo vescovo
di Torino, a Isidoro di Siviglia e a San Gregorio di Nazianzo, teologo greco, poeta e asceta. Seguendo gli insegnamenti del fondatore dei Fratelli delle Scuole Cristiane, san Giovanni Battista de La Salle, fratel Enrico non ha trascurato il suo impegno di maestro e educatore, una missione di cui parla ad esempio nel volume «Insegnare è impegnativo e bello» (Rivista Lasalliana, 2005), in cui dà suggerimenti didattici su come tenere lezioni nelle varie discipline indicate dai programmi ministeriali. Ultimo, ma non meno importante, l’impegno civile di fratel Enrico. Quasi in contemporanea con l’iniziativa dei Gesuiti padre Sorge e padre Pintacuda, gli ispiratori della cosiddetta «primavera palermitana», ha fondato a Torino (1987) la Scuola di formazione Socio–politica «De Gasperi»: «È una
scuola politica non partitica – precisa fratel Enrico – non un’accademia di discussioni astratte, ma un luogo dove si riflette sull’uomo come persona e come cittadino, per sottrarlo a immotivate spinte verso l’insoddisfazione e la depressione e indurlo a una fattiva operosità per il bene comune». L’hanno frequentata personaggi che hanno poi assunto importanti incarichi amministrativi o politici. La scuola è gratuita, dura due anni, ha lezioni con cadenza settimanale e, al termine, gli iscritti possono partecipare a un master di specializzazione. Fratel Enrico ha infine dato vita al gruppo del «Sicomoro» (indirizzato alla formazione nell’ambito dell’associazionismo cattolico) e alle lezioni «L’incontro con il capolavoro», dedicato ai grandi della letteratura mondiale.
Trent’anni fa, il 1° ottobre 1977, un «commando» terroristico, staccatosi da un corteo studentesco di Lotta Continua e dell’Auto-
pieni di molotov. La mancata verità su «L’Angelo Azzurro» non chiama in causa soltanto la debolezza degli appa-
nomia, incendiava in via Po il bar «L’Angelo Azzurro» ed uccideva, bruciandolo vivo con le molotov, lo studente–lavoratore Roberto Crescenzio. È stato «un tragico errore tecnico», disse un giovane dirigente del movimento, Silvio Viale, nell’assemblea studentesca a Palazzo Nuovo che fece seguito al corteo «assassino». Il futuro ginecologo, ora leader radicale, per quei fatti sarà indagato, sconterà sei mesi di carcere preventivo e, dopo un anno di latitanza a Londra, inseguito da un mandato di cattura, verrà definitivamente prosciolto. Ma la sua tesi: «errore tecnico» campeggia come un macigno nella ricostruzione di una delle pagine più buie della stagione terroristica subalpina, compiuta da un giornalista coraggioso, fuori dal coro, Bruno Babando. Perché, trent’anni dopo, l’autore di quell’«errore tecnico» che causò una vittima innocente, è ancora sconosciuto. Ci furono condanne giudiziarie definitive (3 anni e 6 mesi per Francesco D’Ursi, Angelo De Stefano, Angelo Luparia, Alberto Bonvicini; 3 anni e 3 mesi per Stefano Della casa), ma non per l’assassinio dello studente–lavoratore. In una coraggiosa intervista a «la Repubblica» il sindaco di allora, Diego Novelli, ha accusato di omertà la «casta» dirigenziale che promosse il corteo «antifascista», perché non venne mai consentita la piena individuazione delle responsabilità (e c’era di mezzo una vita umana). Nella sua documentata inchiesta Bruno Babando indica importanti personalità odierne della politica, del giornalismo, della cultura che parteciparono al corteo, ma che non seppero rompere (per motivi da accertare) l’omertà della «casta» extra parlamentare, non consentendo a Polizia e Magistratura di compiere una «vera giustizia». Questo è un nodo politico e culturale ancora aperto, perché fa supporre l’esistenza di una potentissima lobby degli ex di Lotta Continua e dei diversi gruppi contigui. Certamente ogni persona, dopo tanti anni, ha diritto di cambiare vita, di convertirsi e riabilitarsi. Ma conversione e silenzio non vanno d’accordo. Perché ieri come oggi non è compatibile con la democrazia la partecipazione a cortei ove, notoriamente, ci sono giovani con tascapani
rati dello Stato, ma anche l’effettiva coincidenza tra «pentimento» e conversione. Viene il dubbio, leggendo le 185 pagine del documentatissimo lavoro di Babando, che esiste una concezione strumentale del «potere», machiavellica: una sorta di doppio binario, ieri i cortei rivoluzionari, oggi lo sbocco istituzionale. Babando, tra tanti opportunisti e voltagabbana, fa emergere alcune figure positive, tra cui l’allora presidente del Consiglio regionale, il comunista Dino Sanlo-
renzo, che per primo intuisce la tragedia dell’avversione terroristica e che, quindi, rifiuta la tesi dei «compagni che sbagliano», promuovendo un questionario popolare di massa contro il terrorismo; Sanlorenzo fu lucido e coraggioso: se, dopo 21 vittime, il terrorismo in Piemonte fu sconfitto, un merito specifico gli va riconosciuto. Un’analoga citazione merita il Vescovo ausiliare mons. Livio Ma-
ritano, che ai funerali di Roberto Crescenzio, nella parrocchia di San Giulio d’Orta, pronuncia parole inequivocabili: «Come si può invocare la solidarietà – è la domanda che il primo collaboratore del card. Ballestrero rivolge a se stesso e a tutti i presenti – quando si rende impossibile la coesistenza e la costruzione in comune di un mondo migliore? Non possiamo invocare nessuna alta finalità, per comportamenti così disumani». Parole come pietre, fatte proprie da «l’Osservatore romano». Certamente non è giusto criminalizzare tutti i giovani che parteciparono al corteo, ma i «capi» potevano immaginare che l’uso delle molotov fosse un «gioco innocente»? In una società democratica l’uso della violenza non può mai essere accettato. Il ’77 – come scrive Babando – fu la tomba del ’68 perché aprì una ferita insanabile tra chi scelse la lotta armata (Br e Prima Linea) e chi, anche per la vergogna dell’atroce morte di Roberto Crescenzio, scelse il pieno ritorno nella legalità. Ma l’anno «horribilis» (con la cacciata di Luciano Lama dall’Ateneo romano, i fatti di Bologna, quelli di Torino) fu anche la premessa della spallata terroristica del ’78, con l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, che cancellò la prospettiva di un incontro costruttivo tra Dc e Pci, nella linea del superamento della «guerra fredda». Dalle testimonianze raccolte da Babando emerge che i protagonisti de «L’Angelo azzurro» ben poco avevano compreso del progetto politico del «compromesso storico», che pur tenacemente avversarono. Ricordano, pensando al Manzoni, la viltà di don Abbondio più che la durezza dell’Innominato: lanciano la pietra
(o meglio la motolov) e scappano. Ed il grande merito di Bruno Babando è di aver ricordato a tutti che Roberto Crescenzio era una persona degna di rispetto. C.D.
• B. Babando, Non sei tu l’Angelo azzurro, Marco Valerio, Torino– Roma 2008, pagine 186, 16 euro. Il libro viene presentato il prossimo 5 maggio alle 18 nell’Aula Magna di Palazzo Nuovo, via S. Ottavio, 18.