La Regola Del Maestro

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Abbazia San Benedetto - Seregno

La Regola del Maestro Estratto dal libro "Il Monachesimo prima di San Benedetto" di A. De Vogüé

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La Regola del Maestro Estratto dal libro "Il Monachesimo prima di San Benedetto" di A. De Vogüé Edizione Abbazia San Benedetto - Seregno

a cura di Alberto da Cormano

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Fonte immediata della Regola benedettina, la Regola del Maestro (RM) è tre volte più lunga di essa e sorpassa anche di metà l'opera eccezionalmente ampia che è la Regola di Basilio. Questa legislazione gigantesca sembra essere nata non lontano da Roma nel primo quarto del VI secolo. Anonima, deve la sua denominazione corrente al fatto che quasi tutti i titoli dei capitoli sono inquadrati da due rubriche: «Domanda dei discepoli» e «Il Signore ha risposto attraverso il Maestro», che fanno sembrare il testo del capitolo come un oracolo pronunciato da questo Magister sconosciuto. Le tre introduzioni (Prologo, Tema, Capitolo I) Fin dall'inizio, l'autore dà prova di quell'ampiezza di vedute e di quello spirito metodico che caratterizzano tutta la sua opera. Presenta dapprima uno ad uno i tre pilastri dell'istituzione cenobitica: la regola, il monastero e l'abate. Ciascuna di queste realtà fondamentali appare al termine di una introduzione più o meno lunga. Considerata come uno scritto ispirato da Dio, la regola è nominata alla fine del Prologo. Poi si passa alla presentazione dei monastero chiamato «scuola del servizio del Signore». Rispondendo all'appello di Cristo: «Mettetevi alla mia scuola» (Mt 11,29), questa istituzione appare soltanto alla fine di un'ampia trilogia, chiamata Thema, che comincia con l'evocare il battesimo e svolge poi due lunghe catechesi battesimali, l'una sul Pater, l'altra sui Salmi 33 e 14, che in alcune Chiese si facevano imparare a memoria ai neofiti. In mezzo il commentario della terza domanda del Pater pone le basi della dottrina dell'obbedienza. Quanto al commentario dei Salmi, che diventerà il Prologo di san Benedetto, termina con la decisione di «fondare una scuola in cui si servirà il Signore», vale a dire un «monastero». Resta da presentare l'abate. A questo scopo, nel suo primo capitolo, il Maestro utilizza il quadro delle quattro specie di monaci tracciato da Cassiano in una delle sue ultime Conferenze. La prima specie, quella dei cenobiti, è definita di primo acchito con tre termini: monastero, regola, abate, ma quest'ultimo, menzionato con una semplice parola all'inizio del capitolo, sarà messo in evidenza soltanto alla fine. Prima il Maestro descrive i valenti anacoreti o eremiti, i miserandi sarabaiti, così come i falsi anacoreti, e a queste categorie, tratte da Cassiano, aggiunge una nuova specie di cattivi monaci, quella dei girovaghi, che mette in ridicolo in una interminabile satira. Quando decide di terminare questo brano, l'autore ritorna ai cenobiti per definire la funzione dell'abate. Questi è visto come un «dottore», vale a dire uno di quei maestri insegnanti che continuano nel popolo di Dio l'opera dei Profeti e degli Apostoli, dando

agli uomini, di generazione in generazione, la Parola divina. Questi dottori istituiti da Dio sono di due specie: nelle Chiesa si trovano i vescovi, nelle scuole (i monasteri) gli abati. Essi appaiono dunque, alla maniera dei vescovi, come i successori degli Apostoli e rappresentanti qualificati del Signore che parla per bocca loro: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Lc: 10,16). L'abate e il suo insegnamento (RM 2-6) La presentazione solenne dell'abate mette fine alle tre introduzioni successive, ma il corpo della regola, che comincia con il capitolo secondo, si articola su quest'ultimo preambolo: subito dopo aver definito la funzione abbaziale, si traccerà un direttorio dell'abate. Intitolato «Come deve essere l'abate», questo bel capitolo secondo inizia ricordando che l'abate «tiene il posto di Cristo nel monastero» e si conclude con una appendice in cui l'abate è invitato a riunire i fratelli in consiglio per trattare con loro questioni materiali che interessano la comunità. Essendo essenzialmente un portavoce del Signore, l'abate deve prima di tutto insegnare. Per aiutarlo in questo compito primario, la Regola descrive «l'arte spirituale» che egli deve insegnare ai suoi discepoli e praticare con loro «nel laboratorio» che è il monastero. Un catalogo di settantasette massime da mettere in pratica - Benedetto le chiamerà «strumenti delle buone opere» - seguito da ventotto virtù da coltivare e trentatré vizi da evitare, forma il programma di questo insegnamento, al centro del quale il Maestro delinea un quadro attraente delle gioie dell'aldilà che ricompenseranno tutti questi sforzi. Le tre virtù cardinali del monaco (RM 7-10) Tra le virtù che si sono appena enumerate, tuttavia, ve ne sono tre che si distinguono per la loro importanza incomparabile: l'obbedienza, la taciturnità e l'umiltà. Ciascuna di esse diverrà oggetto di una lunga esposizione. Il monaco obbedisce per due ragioni principali, tutte e due inscritte nel Vangelo: obbedendo al rappresentante di Cristo, obbedisce al Cristo stesso («Chi ascolta voi, ascolta me»), e inoltre imita Cristo che ha fatto la volontà del Padre fino alla morte. In questo mistero di obbedienza Gesù appare ad un tempo come il Signore che comanda e il Figlio che obbedisce. E' insieme colui al quale si obbedisce e il modello dell'obbedienza. La taciturnità si impone prima di tutto perché essa soltanto permette di evitare i peccati della lingua. Inoltre conviene al discepolo che è il monaco, umilmente attento ad ascoltare piuttosto che a parlare e religiosamente rispettoso del suo maestro, l'abate. Questo secondo aspetto del silenzio dà luogo a tutta una casistica: vengono dettate alcune regole precise a seconda che l'abate sia presente o assente, a seconda che il monaco sia più o meno avanzato nella perfezione. Del resto, la distinzione tra «perfetti» e «imperfetti» svolgeva già un ruolo definito in materia di obbedienza. Infine l'umiltà appare come la strada sicura che conduce dritta al cielo: «Chiunque si umilia sarà esaltato». Questa salita paradossale mediante l'abbassamento è raffigurata dalla scala che Giacobbe vide in sogno. Su

questa scala celeste. il Maestro distingue dodici scalini, descritti in modo molto ineguale: il primo, che è il timore del Signore, occupa diverse pagine, mentre i seguenti, che consistono nell'obbedienza e nella pazienza, nell'abbassamento e nel silenzio, si limitano a volte a poche righe. Sfociando quaggiù nella carità perfetta che scaccia il timore, l'ascensione termina nell'aldilà con le gioie del paradiso descritte per una seconda volta in termini molto immaginifici e seducenti. Questa scala dell'umiltà che Benedetto riprodurrà quasi integralmente, il Maestro la prende da Cassiano, che aveva già attribuito all'abate Pinufio un itinerario dal timore alla carità passando attraverso la rinuncia ai beni di questo mondo e l'umiltà. Questa era stata evocata, alla fine del quarto libro delle Institutiones, per mezzo di dieci «indizi»: tre di obbedienza e due di pazienza, poi tre di abbassamento e due di silenzio. Per mezzo di alcune aggiunte e spostamenti, il Maestro ha cambiato questo ritratto del monaco umile in una via di umiltà in cui i dieci indizi diventano dodici gradi. Cominciando dai gradi di obbedienza e terminando con i gradi di silenzio, questa analisi dell'umiltà è la matrice da cui il Maestro ha preso i due trattati precedenti. Le due estremità della scala con le loro citazioni caratteristiche della Scrittura, gli hanno fornito la materia dei suoi grandi trattati «Dell'obbedienza» e «Della taciturnità». Attraverso il capitolo «Dell'umiltà», tutta questa dottrina deriva dunque da Cassiano e più precisamente dal discorso dell'abate Pinufio riportato nel quarto libro delle Istituzioni. Da parte sua, l'abbiamo detto, l'ultima delle introduzioni del Maestro - il suo capitolo «Delle quattro specie di monaci» - è modellato sulla conferenza XVIII di Cassiano, attribuita all'abate Piamun. Poiché questa presentazione dell'abate sfocia in un programma di insegnamento spirituale che contiene tra le altre la trilogia delle virtù dell'obbedienza, della taciturnità e dell'umiltà, si può dire che tutta la parte dottrinale della Regola del Maestro è compresa tra due «prestiti» di Cassiano, da cui dipende nel suo insieme. Piamun e Pinufio, l'oratore delle Conferenze e quello delle Istituzioni, hanno prodotto questi due lunghi brani di dottrina monastica, la cui fusione operata dal Maestro formerà la sostanza dei sette primi capitoli di san Benedetto. L'organizzazione del monastero (RM 11, 95) Come la Regola Orientale, quella del Maestro è strutturata con una rassegna dei diversi ufficiali, dall'abate che è alla loro testa fino agli ultimi fra loro che sono i portinai. Dopo l'abate di cui abbiamo appena percorso il direttorio e il programma di insegnamento, i primi ad essere istruiti sono i collaboratori immediati, i «prepositi» (praepositi). Il Maestro chiama cosi i due fratelli incaricati di vegliare su ogni gruppo di dieci monaci. Rigorosamente uguali fra loro, questi due prepositi non devono mai lasciare i loro uomini senza sorveglianza. Il loro ruolo è di ricordare e applicare ad ogni istante l'insegnamento dell'abate riprendendo ogni mancanza dei loro sottoposti. La loro funzione conduce il Maestro a parlare del dormitorio, in cui essi riposano accanto ai loro uomini per sorvegliarli, e della scomunica che l'abate infligge a coloro che non seguono i loro ammonimenti. Gli ufficiali seguenti sono prima di tutto il cellerario e il custode degli utensili, che vegliano sulle riserve

alimentari e i beni mobili, poi i settimanari di cucina. Il loro servizio, che comincia e finisce con il rito di benedizione, è regolato nei particolari. A questo proposito il Maestro fornisce indicazioni molto precise sullo svolgimento del pasto, così come sul suo orario e sulle razioni di cibo e di bevanda che vengono servite. In refettorio un altro settimanario fa la lettura. Il Maestro non gli dà nient'altro da leggere se non la Regola. I fratelli l'ascoltano incessantemente non senza porre, se vogliono, domande all'abate sui punti che non capiscono. L'abate può anche, di suo, dare spiegazioni. Il Maestro gli suggerisce anche di ridestare l'attenzione degli uditori domandando all'uno o all'altro di ripetere ciò che viene letto (RM 11-28). Dalla cucina e dal refettorio si ritorna al dormitorio. Il risveglio per l'ufficio notturno è assicurato da due settimanari chiamati «vigilgalli» (uigigalli), che sono anche incaricati di annunciare le ore di preghiera comune nel corso della giornata. Attraverso la trattazione del risveglio, si entra nella descrizione degli uffici, dapprima notturni poi diurni, che termina con un corto paragrafo sulla grande vigilia ebdomadaria della domenica. La quantità di salmodia fissata dal Maestro è moderata, in conformità alle norme egiziane e orientali indicate da Cassiano nelle Istituzioni. Queste celebrazioni relativamente brevi, analoghe a quelle dell'Ufficio romano, differiscono considerevolmente dagli enormi uffici della tradizione della Gallia, già criticati da Cassiano e ancora celebrati agli inizi del VI secolo a Lérins o ad Arles. Come in tutto il monachesimo antico, ogni salmo è seguito da una preghiera silenziosa (RM 29-49). Negli intervalli fra le ore di preghiera che cosa fanno i monaci? Leggono e lavorano manualmente. La lettura, alla quale sono riservate tre ore al giorno, è fatta in comune, a gruppi di dieci, mentre un solo fratello legge e gli altri ascoltano. Il resto del tempo, vale a dire da sei a otto ore al giorno, si lavora manualmente sia in laboratori per artigiani qualificati, sia in giardino per i fratelli meno dotati. I lavori agricoli fuori della clausura sono esclusi. In quaresima si interrompe il lavoro o la lettura per fare tutti insieme un'orazione silenziosa a metà di ogni periodo di tre ore. Questa osservanza quaresimale delle «preghiere senza salmi» porta il Maestro a parlare della quaresima, di cui regola lo svolgimento fino alla veglia pasquale (RM 50-53). Dopo questa «regola della quaresima», è difficile tracciare le grandi linee dei trentacinque capitoli seguenti. Questa parte della legislazione del Maestro è la meno chiaramente ordinata. E tema dominante sembra essere quello dei rapporti con l'esterno, sia che si tratti di uscite fuori della clausura o della accoglienza di persone dall'esterno. Le uscite sono sottoposte a regolamenti minuziosi, che stabiliscono ciò che si può mangiare e presso chi, quanto tempo si deve leggere, dove e come si deve prendere riposo, ecc. Quanto all'accoglienza degli ospiti, è assicurata da due settimanari, che devono accompagnarli dappertutto perché si temono i girovaghi ladri. Prescrizioni particolari riguardano i sacerdoti e le «eulogie», che essi inviano al monastero. Ricevuti con onore, non sono tuttavia ammessi in comunità ma possono soltanto soggiornare in foresteria. A loro come a tutti gli ospiti dopo due giorni si impone il lavoro manuale (RM 54-86). Le ultime due sezioni del Maestro riguardano l'ammissione di nuovi fratelli e il rinnovo della carica abbaziale. Dopo aver organizzato la comunità si prevede alla sua continuità nel tempo.

Tutti i nuovi venuti sono sottoposti a due mesi di attesa e riflessione nel corso dei quali devono disfarsi dei loro beni, ascoltare la lettura della Regola, ed esperimentare la vita monastica per impegnarvisi con conoscenza di causa. L'impegno è preso nel corso di una cerimonia nell'oratorio. Il neo-professo dichiara all'abate: «Voglio servire Dio nel tuo monastero, secondo le norme della Regola che mi è stata letta», e dice il versetto: «Accoglimi secondo la tua parola ... » (Sal 118,116), che Benedetto inserirà nel proprio rituale di professione. Quando il postulante è un semplice laico, non ancora «converso» (religioso che vive nel mondo), lo si fa attendere un anno intero prima di dargli l'abito e la tonsura. Rimane un caso speciale: quello del figlio di famiglia nobile che vuol farsi monaco. Dato che non dispone ancora dei suoi beni, si propongono ai parenti diversi modi di usare la sua parte di eredità affinché egli sia completamente libero per l'avvenire (RM 87-91). Quanto all'avvicendamento dell'abate, si effettua quando egli si accorge di essere vicino alla morte. Designando lui stesso il successore, il morente lo fa «ordinare» al suo posto dal vescovo del luogo. Questo tipo di nomina assomiglia a quella dei vescovi di Roma nel primo quarto del secolo VI allorché i gravi disordini ai quali dava luogo il sistema tradizionale di elezione fecero affidare al papa uscente la designazione di quello entrante. Nel caso in cui l'abate muoia prima di aver nominato il suo successore, questi verrebbe designato dall'abate di un altro monastero, scelto dal vescovo, dopo il soggiorno di un mese nel corso dei quale egli osserva i membri della comunità per discernere quale è il migliore (RM 92-94). Il Maestro infine chiude la sua Regola con un capitolo sulla porta e i portinai. Essi, scelti fra gli anziani, sono due, secondo il sistema collegiale che regge quasi tutte le funzioni del monastero. La porta deve sempre rimanere chiusa e bisogna avere all'interno della clausura tutto quanto è necessario alla vita dei monaci, per uscire il meno possibile. Così, «chiusi dentro con il Signore, i fratelli saranno già, in qualche modo, nei cieli e separati dal mondo a motivo di Dio» (RM 95). Ecco dunque come si presenta la Regola del Maestro, documento incomparabile per ampiezza, ricchezza e precisione, anche se molte sue norme e tendenze lasciano perplesso il lettore moderno. Dipendendo soprattutto da Cassiano, è servita come fonte e canovaccio alla Regola benedettina. L'ha forse redatta Benedetto quando era giovane? La geografia e la cronologia non si oppongono a ciò, ma ci si può domandare se le notevoli differenze che separano le due opere sono compatibili con l'unità dell'autore. Nel caso lo si ammettesse, la Regola del Maestro potrebbe situarsi a Subiaco.

Le principali differenze Da scuola a comunione, da una concezione che privilegia il rapporto maestro-discepolo ad un'altra che esalta l'unione di tutti nella carità: questa evoluzione sembra prodursi tanto a Lérins - ne sono testimoni le due prime Regole dei Padri - che in Italia fra il Maestro e Benedetto. Le comunità monastiche riproducono in ciò, senz'altro inconsciamente, la genesi della Chiesa di Cristo, che fu dapprima una scuola di discepoli riunita attorno ad un Maestro

e divenne in seguito, per sua espressa volontà, una comunione in cui ci si amava reciprocamente fino ad essere un cuor solo e un'anima sola tesi verso Dio. Estratto dal libro "Il monachesimo prima di San Benedetto" di Adalbert de Vogué, edito dall'Abbazia S. Benedetto di Seregno (MI)

E' la nuova comprensione delle relazioni tra i membri della Comunità, la grande scoperta di San Benedetto; il vecchio ideale era stato essenzialmente quello del novizio che cercava un uomo santo e chiedeva di imparare da lui, e il monastero era stato un gruppo di individui riuniti ai piedi di un saggio. Una delle prime regole monastiche, la Regola del Maestro, aveva dato infatti enorme potere all'Abate. San Benedetto invece cambia questo schema, quasi esclusivamente verticale di autorità, mettendo in evidenza le relazioni dei monaci tra di loro. Essi sono naturalmente discepoli che sono venuti al monastero per essere istruiti, ma sono anche fratelli uniti dall'amore reciproco. Così, per San Benedetto, il monastero è diventato una Comunità di amore e l'Abate un uomo non ritenuto infallibile e onniscente, ma un uomo che eserciterà la sua discrezione a seconda delle circostanze. La Regola del Maestro aveva usato la parola " scuola " nove volte; San Benedetto la usa una volta sola; così laddove si parla di magister egli parla di un padre che ama; il rapporto tra i monaci è di scarso interesse nella Regola del Maestro; la Regola di San Benedetto dedica invece tre splendidi capitoli a questo tema (69-71), e poi il capitolo 72, capolavoro su ciò che comporta l'amarsi l'un l'altro. I monaci "devono sopportare con pazienza le debolezze degli altri, tanto del corpo quanto del comportamento. Si sforzino l'un l'altro nella obbedienza reciproca; non ricerchino il proprio interesse, ma il bene degli altri; siano caritatevoli verso i loro fratelli con puro affetto" (RB 72,5-8). Testualmente, la Regola di San Benedetto può essere simile, in molte sue frasi, a quella del Maestro, ma il suo spirito e la sua prospettiva sono originali. Questo capitolo soprattutto (il 72) riflette l'ideale benedettino; questa è l'impronta di San Benedetto stesso: l'arca che stava costruendo, il monastero, doveva contenere una famiglia. Estratto dal libro "Alla ricerca di Dio - La strada di S. Benedetto" di Esther de Waal, edito a cura della Comunità monastica benedettina di S. Giovanni Evangelista - Lecce

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