Luciano Manicardi
La luce nelle tenebre: crescere attraverso la crisi
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Luciano Manicardi
La luce nelle tenebre: crescere attraverso la crisi 1. INTRODUZIONE Vivere: implica un processo di crescita, cioè dinamica e abbandono di qualcosa per entrare in qualcos’altro. È vita che si sviluppa ma anche qualcosa che si lascia. Crescita è molto divenire se stesso, compito inalienabile di ogni uomo, a prescindere dalla fede. Il credente ha un motivo in più, crede che l’unicità è addirittura voluta creta e amata da Dio stesso. Forse la vita è proprio crescita; di questo processo fanno parte anche le difficoltà, crisi, sofferenze. Quando uno dice “sono in crisi” quale che sia il motivo, che sia grande o minore, prende quella distanza per giudicare appunto l’entità di questa crisi; quando ci si è dentro si rischia di perdere addirittura la bussola. Essere in crisi vuol dire dover accettare di soffrire, ricordando che questa è parte costitutiva dell’esistere, non è un’eccezione “sfortunata”. Ciò che chiamiamo crisi forse è sempre crisi di identità: quale che sia il motivo scatenante, nel momento in cui sono in una crisi io non so più precisamente chi sono, è come se venisse incrinata l’immagine, la concezione che avevo di me; interviene qualcosa che mi obbliga a ripensarmi, a ridare dei giudizi su di me. “Chi sono?”, obbliga ad andare a fondo di sé stessi, cosa veramente grande. Ogni crisi più o meno ha a che fare con quella domanda. È un po’ perdere il timone della propria vita, scoprendo di non saper governarla andando alla deriva. È come perdere il controllo dell’auto. Che fare nel momento della crisi? Lasciarsi andare nella disperazione? Cercare via di fuga e di alienazione, come i più svariati “sballi”, fino a voler fuggire la vita? E se invece entrassimo nell’ordine di idee che la crisi è un necessario momento di passaggio, addirittura rendendosi conto che essa è anche una via che si apre schiudendo un “dopo”? Penseremmo che addirittura la crisi è un qualcosa che mi aiuta a vivere. Se crescere è tendere a diventare se stessi, allora la crisi, che è sempre crisi di identità, è vitale, perché vuol dire che di fronte a degli eventi della vita che mi hanno disarticolato io devo “ripensare me stesso”. La sfida della crisi è proprio non fuggirla, non rimuoverla perché fa soffrire, anche se questa è spontaneamente la prima reazione. Abbiamo ragione che non ci piace la crisi! Perché fa soffrire (ai più svariati livelli). Ma se pensassimo che è necessaria per passare ad uno stadio della vita ad uno più alto, quindi per crescere ci porremmo il problema non di fuggirla, ma di gestirla. È chiaro che bisogna mettere in conto il disarticolamento, lo smarrimento, la sofferenza, ma ha sempre qualcosa da insegnare. Da chi impariamo a vivere? Sono sempre più rari maestri che aiutino a vivere dando delle chiavi appunto per vivere. Più spesso è la vita stessa che riveste questo ruolo: la crisi mi insegna qualcosa su di me. Spesso è il corpo che ci dice qualcosa di noi, ci svela con le sue reazioni qualcosa di molto profondo in noi. Fuggire la crisi o augurarsi di non attraversarla vuol dire restare a un livello superficiale di sé, delle cose, della realtà e del mondo. Vedremo che cos’è una crisi, che cosa evoca in noi questa parola, cos’è nella nostra vita. E ci chiederemo come non lasciarci sommergere e abbattersi dalla crisi, ma vedremo come invece se la attraversiamo ne usciremo rafforzati, fioriti, con una maggiore consapevolezza di chi siamo e delle nostre potenzialità e ricchezze. Farne un’esperienza di morte e risurrezione. È necessario porsi tre domande: 1)Che cosa evoca in te la parola crisi? A cosa ti fa pensare? Qual è la tua reazione emotiva di fronte a questa parola? Infatti se provoca una reazione emotiva è perché rievoca il ricordo di una situazione vissuta che ha provocato una certa reazione di sconcerto, sconforto. 2)Hai vissuto eventi o periodi di crisi? Se sì prova descriverli e a dire in che cosa essi sono stati critici. 3)Come sei uscito dalla/e crisi vissuta/e? Hai imparato qualcosa dalla crisi, e se sì che cosa? Christianne Singer, Sul buon uso delle crisi: “Non siamo meschini, abbiamo coraggio, parliamo del buon uso delle catastrofi, dei drammi, dei diversi naufragi in cui possiamo incorrere. Nel corso del cammino della mia vita io ho raggiunto la certezza che le crisi e le catastrofi avvengono per evitarci il peggio. Il peggio, come potrei esprimere cos’è? Il peggio è di aver attraversato la vita senza naufragi, cioè di essere sempre restato alla superficie delle cose, di aver danzato al ballo delle ombre, persi nella evanescenza, nell’inconsistenza, di avere sguazzato nelle paludi dei “si dice”, delle apparenze, dei luoghi comuni, di non essere mai precipitato, andato a fondo in una
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dimensione altra e profonda di se e delle relazioni. In mancanza di maestri, nella società in cui viviamo sono le crisi i grandi maestri che hanno qualcosa da insegnarci, che possono aiutarci ad entrare nell’altra dimensione, della profondità che da senso alla vita. Nella nostra società tutto concorre nel senso di distoglierci da ciò che è importante e centrale, come se ci fosse un sistema di fili spinati e di interdizioni per non accedere alla propria profondità, è un’immensa cospirazione, la più immensa, di una civiltà contro l’anima, contro lo spirito”. In una società in cui tutto è sbarrato, senza indicazioni di via, ecco che per entrare nella profondità non vi è altra via che la crisi per spezzare queste mura che stanno attorno a noi. La crisi è un po’ come l’ariete che sfonda le porte delle fortezze in cui ci siamo rinchiusi, imprigionati con tutto il nostro arsenale della nostra personalità. Ormai siamo tutti diventati specialisti nell’arte dell’evitare, dello schivare, del distogliere, quello che Pascal chiamava divertissement, volgersi via da ciò che è il centro e il fine disperdendosi nella frivolezza e nelle vanità, nelle cose che contano poco. La maggior parte delle persone passano la vita a passare “a fianco alla vita” senza andarsi a fondo, con tanti meccanismi di cecità su sé stessi a punto che esse sono ignorantissime su ciò che sta avvenendo in loro, e non lo sanno mai descrivere. Troppo faticoso e doloroso! Meglio disperdersi alla superficie delle cose… In fondo dovremmo arrivare a dirci “tutto questo che mi imprigiona, che mi stringe, da cui mi sento soffocato, strangolato, sono io”. A quel punto ogni crisi è crisi di identità, crisi in cui entra in gioco la domanda “chi sono? Chi sono in rapporto a questi eventi che mi suscitano tale sofferenza? Chi sono in rapporto a queste persone con cui fino a ieri la relazione era bella e gioiosa mentre oggi è un inferno?” La crisi di una relazione di coppia, del matrimonio. E i peggiori inferni si vivono proprio in famiglia. Occorre avere il coraggio di lasciarsi interpellare da questa domanda e lasciarsi condurre da essa. La parola “Crisi”: dal greco krisis, “giudizio”, “separazione”, “scelta”. Il verbo krinein “separare”, ad esempio il grano dalla paglia, opera di vaglio, passare al setaccio. Proprio ciò che fa una crisi: ci testa, ci vaglia mettendoci alla prova. Il disagio è proprio l’essere messo nudo, inerme. Leggere la Parola di Dio da credente vuol dire accettare che mi metta in crisi, che mi giudichi. Il rischio della crisi è che ci costringa guardare dove noi non vogliamo, che ci faccia vedere cose che non vogliamo vedere. Molte persone passano la vita sforzandosi di non vedere nel profondo di sé, non passando alla vera vita. Le crisi per quanto siano dolorose in questo hanno una funzione molto positiva. Continua il racconto: “Un amico antropologo un giorno mi ha riferito le parole di un africano che diceva <<ma noi signore non abbiamo delle crisi, noi abbiamo le iniziazioni>>” Le società tradizionali sono caratterizzate da iniziazioni che sono vere e proprie crisi, a differenza della nostra società in cui non c’è più alcuna forma d iniziazione. Neanche scuola, istituzioni educative, chiesa propongono un tale cammino di iniziazione, che provoca delle crisi, che fanno fare dei passaggi che sono sempre passaggio dalla morte alla vita. Tanti riti simbolicamente rappresentavano appunto la morte e rinascita: la propria vita viene messa radicalmente in crisi per poter rinascere. Lì è tutta la società che contribuisce al singolo nel compiere questo passaggio. Oggi invece il tessuto sociale è tanto sfilacciato da non permetterlo. Anche l’iniziazione cristiana è assente, ridotta ad ossessione e appiattimento sacramentale per cui bisogna condurre il ragazzino a fare la prima comunione e la cresima, e poi finisce tutto lì. È interessante notare come il termine crisi sia molto utilizzato in ambito medico, dove indica delle modificazione repentine di uno stato di una malattia, il momento apice di una malattia che può però avere un esito favorevole di guarigione o un esito negativo. Anche qui c’è la duplice valenza, non un momento assolutamente negativo. È la fase culminante di una malattia che può evolvere sia male che bene, aprendo uno spiraglio di dimensione positiva. Nell’idea di crisi c’è l’idea di cambiamento, trasformazione, passaggio, metamorfosi. Vivere è anche cambiare. E se la crisi fosse un invito a cambiare, assecondare la vita operando adeguati cambiamenti, che smuovono certe credenze, modi di pensare che come uno scafandro ci avevano intrappolati?. La crisi in questi aiuta a prendere coscienza della realtà. È un momento di verità in cui non si può barare e (a mano che la si fugga) costringe ad aderire alla realtà. Allora diventa qualcosa di salvifico, restituendomela ora pienamente sensata, nel senso proprio della vita. Alle volte la crisi interviene perché certe cose che prima andavano bene ora sono cambiate e i nostri assetti devono essere ripensati completamente. A volte i mutamenti sono sia causa che effetto e comunque richiedono cambiamento anche in noi.
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Crisi economica è ogni rallentamento, caduta della produzione, occupazione… Crisi di governo che cade fino alla formazione di un nuovo governo… crisi di pianto, convulsa e irrefrenabile… nel significato comune la crisi è sempre negativa. In crisi si è incapaci di risolvere da soli le difficoltà, non si sa che pesci pigliare. Nel vocabolario si legge pure: “Ogni situazione più o meno transitoria di malessere o di disagio che in determinati istituti, aspetti o manifestazioni della vita sociale sia sintomo o conseguenza del maturarsi di profondi mutamenti organici o strutturali” Nel crescere la crisi è implicata per causare grossi cambiamenti che implicano un riassestamento a livello fisico, biologico, psicologico. Cerchiamo di porci in equilibrio tra le due valenze positiva e negativa che il termine ha. Come mi colloco nella condizione di crisi? Per usare la crisi bisogna conoscerla, per conoscerla bisogna darla nome. Provate a dare nome alla/e vostra/e crisi. L’ultimo discorso riguarda la nascita come crisi. È la prima che abbiamo, e sicuramente non ne abbiamo ricordo. Tutti ne siamo passati ed è un passaggio decisivo della vita. Il bambino viene espulso e sfrattato da un grembo in cui abitava e viene gettato nella vita in modo più o meno doloroso, spesso penosamente doloroso. È un momento critico della vita del bambino, ma anche per la madre sospesa tra la vita e la morte profondamente legate. Passa sul volto della donna l’angoscia della morte, l’inferno di dolore, ma non appena nato il bambino la donna dimentica questa afflizione, per la gioia che deriva dalla nuova vita umana. (Gv 16,21) Questa quanto mai è una crisi, ed è dolorosissima. Lì il corpo del bambino è ancora legato a quello della madre, e il passaggio è quanto mai carnale, implica dolore fisico e sangue. Ma alle spalle della nascita già c’è un cammino di evoluzione segnato da tappe: il cuore che inizia a battere indipendentemente da quella della madre, la formazione dei primi rivestimenti muscolari fino a permettere i movimenti che sono avvertiti anche dalla madre, iniziano a attivarsi gli apparati respiratorio, digestivo. Il bambino vive in simbiosi con la madre di cui ne condivide fortemente gioia o sofferenza. Venire al modo è una crisi importante, ma mette anche molto in crisi, squilibrando li equilibri di una famiglia. Ma le crisi che viviamo, appunto non possono essere occasione di rinascita? 2. LE ETA’ DELLA VITA Normalmente la crisi avvengono nella relazione con gli altri. Un momento iniziale è quello dell’attaccamento, ad esempio quello veramente fisico del bambino nei confronti della mamma, condizione vitale, paradisiaca. Al tempo stesso questo attaccamento vitale è un ambito in cui anche le sofferenze vengono condivise. La nascita è proprio una crisi, in cui avviene il distacco, passaggio necessario per arrivare a creare dei legami. Per arrivare a vivere delle relazioni è necessario rompere quella simbiosi originaria, e da lì parte il cammino per apprendere l’alterità e la relazionalità. Già in questa fase si manifestano situazioni di crisi vitale, come ad esempio l’autismo che colpisce anche bambini molto piccoli, come conseguenza di sofferenze patite già in fase prenatale a causa di quella simbiosi. Questo schema si può applicare a tante altre situazioni che si vive in varie fasi della vita: bisogna staccarsi per arrivare a creare dei legami ed esserne soggetti. Quando viviamo dei legami scopriamo che questi possono finire, che c’è la realtà della separazione (per le più varie cause). La separazione (fine dell’amore, amicizia, matrimonio; morte di una persona cara…) necessita il lutto, assunzione che qualcosa veramente è finito. Il lutto ancora presenta l’unione di elementi di morte e di vita, di dolore e vitalità. È essenziale per poter ricreare nuovi attaccamenti e nuovi legami. Il problema è che da quando siamo al mondo viviamo una condizione dolorosa, e cioè che abbiamo sete di legami ma ne abbiamo anche grande paura, temiamo la loro fine. Proprio per questo motivo in vari momenti della vita possono innestarsi delle vie di fuga in cui per paura della delusione, della sofferenza che possono derivare dal legame con qualcuno cerco di evitare la sofferenza astenendomi dalla relazione, oppure tale è la paura che possa finire che prevengo e anticipo la separazione. Ad esempio la storia di una coppia anziana che aveva vissuto da sempre il matrimonio nella bellezza e nell’amore, ma dopo i 50 anni insieme cominciava ad essere tale la paura della morte di uno dei coniugi che cominciarono a venire fuori discorsi di morte, per niente causati da depressione, che portarono a desiderare il suicidio insieme. Che lo si riconosca o no, tutti abbiamo costantemente paura della separazione e del termine delle relazioni. Spesso è troppo doloroso questo lutto, il riconoscere che una persona che dava senso alla mia vita adesso non c’è più, e si rimuove il dolore senza andare a fondo della crisi, impedendo ad essa di operare il suo
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rinnovamento in noi. Quando invece si assume il lutto, quando si traversa questo dolore, non senso e disperazione, poi c’è una rifioritura, un rinnovamento della propria vita. Il discorso della nascita allora vuole essere quasi una “dimostrazione” che la crisi, intensissima, è costitutiva della vita, ed è sempre aperta alla vita. Legame fondamentale con la madre, la vita come successivi distacchi per creare nuovi legami. Judith Viorst, Distacchi: “Tutte le nostre esperienze di perdita risalgono alla perdita originale, alla perdita del legame fondamentale madre-figlio, perché prima di affrontare le separazioni inevitabili della vita di tutti i giorni, viviamo in uno stato di unicità con nostra madre. Questo stato ideale, mancanza di confine, questo armonioso miscuglio compenetrante per cui sono “nel latte” e “il latte” è in me, isolamento dalla solitudine e presagio al tempo stesso di mortalità questo stadio conosciuto anche dagli innamorati, dai santi, dagli psicotici, dai drogati, otre che dai neonati, è conosciuto come beatitudine. Non abbiamo ricordi consci di essere stati nell’utero o di essercene andati, ma un tempo è stato nostro e abbiamo dovuto abbandonarlo. E se il gioco crudele di dover abbandonare ciò che amiamo per poter crescere deve essere ripetuto ad ogni nuovo stadio dello sviluppo, esso costituisce anche la nostra prima e forse più dura rinuncia. Perdere, abbandonare, permettere che il paradiso se ne vada. E sebbene non lo ricordiamo neppure ce ne dimentichiamo; siamo a conoscenza di un paradiso e della sua perdita. Siamo a conoscenza di un tempo di interezza e armonia che non si infrangono , di amore incondizionato, di un tempo in cui l’interezza fu irrimediabilmente lacerata. Ne siamo a conoscenza attraverso la religione, il mito, le fiabe, le nostre fantasie consce e inconsce, le conosciamo come realtà o come sogno. E mentre ferocemente difendiamo il confine che demarca noi dagli altri, bramiamo di riconquistare il paradiso perduto del legame fondamentale.” Per crescere e divenire sé stessi occorre ripetere a ogni nuovo stadio dello sviluppo il crudele gioco di lasciare ciò che amiamo, tappe della crescita sono anche tappe di crisi. Le fasi dell’esistenza. Dividiamo il diventare adulti in 3 momenti: dai 18 ai 30, dai 30 ai 45, dai 45 in su. Se prendiamo la vita come un viaggio, il ventenne vive un tempo di preparazione, tirocinio, è forse anche il tempo del passatempo, di una coscienza ancora molto sfocata del tempo che passa. Tra i 20 e i 30 anni il cammino parte di slancio, itinerario viene percorso con una “sana” incoscienza. Una tappa significativa sono i 30 anni, dove si cominciano ad avere chiaramente le prime separazioni e perdite: a cominciare dalla presa di coscienza che molte possibilità della nostra vita sono venute meno. A grandi linee si è camminato con vigore e si arriva così ai 40 anni caratterizzati da una pienezza di forze, una situazione stabilizzata, un assetto della vita. Nei 40 anni c’è un primo vertice scalato, con la massima dilatazione di sé, espansione. Qui si insinua la grande crisi della mezza età. Dopo questo picco c’è un grande abisso da oltrepassare per riprendere il cammino. Questo passaggio è detto “piccola morte”, e scavalcare questo burrone è entrare in una nuova nascita, incamminandosi verso i 50 anni che, se si è superata questa grande crisi, sono un tempo in cui si cammina spediti, con un tale bagaglio di esperienze accumulate da poter raggiungere agilmente nuove e più grandi vette. Forse i 50 anni costituiscono il punto di maggiore potenzialità, non più sul piano lavorativo ad esempio ma più su quello della relazionalità e dell’affettività, sul piano propriamente umano. È naturale che dopo quest’ulteriore vetta di realizzazione di sé c’è una nuova crisi, una crisi di “insensatezza”, anche perché a quell’età crescita non ha più un significato esclusivamente positivo in quanto a quel punto vuol dire avvicinarsi sempre di più alla “fine”. È proprio elaborando queste crisi che si impara a pensare alla morte come finitezza della nostra vita. È proprio l’ambito della finitezza che è teatro della possibilità di fare della propria vita un capolavoro, per esempio solo nell’ambito della finitezza è possibile vivere a fondo la religiosità, altrimenti tutto resta nel piano del sogno e dell’irrealtà. Superata anche questa crisi di senso ci si può incamminare verso un cammino più lieve dei 60 anni in poi, in cui si deve imparare a lasciare andare i “bagagli” di cui ci si era muniti in partenza di questo “viaggio”. È recuperare serenamente e positivamente la condizione di solitudine propria della nascita, in cui è possibile essere se stessi a fondo, interamente. Può essere un tempo di grande sapienza, forza spirituale, maturità di amore, pacificazione. Non a caso il buon padre spirituale è un anziano che sa trasmettere al giovane ciò che il giovane inesperto non può aver vissuto. Ma a quanti invece l’età porta solo vecchiezza e nessuna sapienza? Per crescere in sapienza occorre fare tesoro delle crisi.
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Di questo cammino brevemente analizzato, la nota più caratteristica e che in prossimità dei vertici c’è una crisi dietro l’angolo, tanto più intensa quanto era alto tale vertice. Ma in ogni caso il solcare delle età della vita necessariamente comporta delle crisi nel senso di riassestare i nostri equilibri affettivi, psicologici, sessuali. Certi aggiustamenti che ci siamo dati nell’età adolescenziale (e portati avanti per lungo tempo) viene il momento che non reggono più e la crisi si manifesta in modo molto forte. Con la convinzione che grazie alle testimonianze letterarie ci possiamo conoscere e che i testi sull’umanità ci fanno imparare qualcosa su di noi, leggiamo un brano. Queste letture ci condurranno poi a lasciarci mettere in crisi dai testi bibliche leggendoli noi stessi; è importante la partecipazione e il coinvolgimento, per cui mentre leggiamo veniamo “letti” dal testo, interpellati e messi in crisi feconda. Il brano è tratto dal libro di Ingeborg Bachmann, Il trentesimo anno, edito da Adelphi: “Di uno che entra nel suo trentesimo anno non si smetterà mai di dire che è ancora giovane, ma lui benché non riesca a scoprire in sé stesso alcun mutamento, non ne è più così sicuro, gli sembra di non avere più nessun diritto di farsi passare per giovane. E la mattina di un giorno che poi scorderà si sveglia, e tutt’a un tratto rimane lì steso senza riuscire ad alzarsi colpito dai raggi di una luce crudele e sprovvisto di ogni arma e di ogni coraggio per affrontare il nuovo giorno. Non appena chiude gli occhi per proteggersi si sente andar giù e dirupo in cui trascina precipita in un con se ogni istante vissuto. Continua a sprofondare e il suo grido non ha suono, privato anche del grido, di tutto privato e precipita in una voragine senza fondo finché non perde i sensi, finché non si è dissolto, spento e annientato tutto ciò che egli credeva di essere. La morte simbolica che prelude ad una nuova nascita. Quando riprende conoscenza e tremando ritorna in sé, quando riacquista forma e ridiventa una persona che ha fretta di alzarsi ed uscire alla luce del giorno, allora scopre dentro di sé una nuova facoltà. Che non siano proprio le nostre crisi, la scoperta degli elementi di noi che non vorremmo vedere, degli elementi che sembrano ostruire la nostra vita, che non sia proprio la percezione del negativo in noi che nasconde le nostre potenzialità più preziose? Scopre la facoltà di ricordare. Non gli capita più come sino a quel momento di ricordare quando meno se lo aspetta o perché lo desideri, ma è piuttosto una necessita dolorosa, quella che lo costringe a ricordare tutti i suoi anni, quelli lievi e quelli travagliati, e tutti i luoghi dove in quegli anni aveva abitato. Getta la rete della memoria, la getta attorno a se e tira su se stesso, predatore e insieme preda. Oltre la soglia del tempo, oltre la soglia del luogo per capire chi egli sia stato e chi sia diventato, perché prima di allora aveva semplicemente vissuto alla giornata; ogni giorno tentato qualcosa di nuovo, ma senza ombra di malizia. Immaginava di avere innumerevoli possibilità e credeva di poter diventare qualsiasi cosa: un grand’uomo, un faro per l’umanità, uno spirito filosofico, oppure un uomo attivo e capace, si vedeva costruire ponti, strade, al lavoro in mezzo a un cantiere, si vedeva andare in giro sudato per la campagna, a misurare i terreni, mangiare il minestrone dalla gavetta, bere un grappino insieme agli operai in silenzio (non era un uomo di molte parole); oppure un rivoluzionario, uno che appicca il fuoco alle marce fondamenta dell’umanità, si vedeva pieno di ardore e di eloquenza, pronto alle azioni più audaci, suscitava entusiasmi, finiva in prigione, soffriva, falliva e riportava la sua prima vittoria; o un fannullone saggio, uno che cerca ogni piacere e null’altro che il piacere nella musica, nei libri, nei vecchi manoscritti, in paesi lontani, appoggiate da antiche colonne: non aveva che quest’unica vita da vivere, quest’unico io da giocarsi, era avido di felicità, di bellezza, fatto per la felicità e assetato di ogni splendore, per questo si era cullato per tanti anni nei pensieri più estremi, nei progetti più mirabolanti, e poiché non possedeva nient’altro che giovinezza e salute, e gli sembrava di avere davanti a sé ancora tanto tempo; aveva detto di sì ad ogni lavoro occasionale, aveva dato lezione privata a degli studenti in cambio di un piatto di minestra, aveva venduto giornali, aveva spalato la neve per 5 centesimi l’ora e intanto aveva studiato i presocratici. Non poteva permettersi di fare il difficile, e perciò era entrato in una ditta come studente-lavoratore, ma si era licenziato non appena aveva trovato lavoro in un giornale. Gli avevano fatto fare dei servizi su un nuovo trapano per dentista, sulla ricerca gemellare, sui lavori di restauro della cattedrale di S. Stefano”. Poi un giorno si mise in viaggio senza soldi, fece l’autostop, utilizzò gli indirizzi di terzi avuti da un ragazzo che conosceva appena, fece qualche tappa e proseguì. In autostop attraversò l’Europa, ma poi seguendo l’improvvisa decisione tornò indietro. Preparò degli esami per poter esercitare una professione redditizia. Che però si rifiutava di considerare la
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sua professione definitiva, e questi esami li superò. In ogni occasione aveva detto di sì, a un’amicizia, a un amore, a una proposta, ogni volta per prova, su richiesta, il mondo intero gli pareva revocabile, lui steso revocabile. Mai, neppure per un attimo aveva temuto che il sipario potesse alzarsi come ora sul suo trentesimo anno, che toccasse a lui pronunciare la battuta, che un giorno avrebbe dovuto dimostrare ciò che realmente era capace di pensare e di fare e che cosa gli importasse davvero. Non aveva mai pensato che di mille e una possibilità, forse mille erano già sfumate e perdute. Oppure sarebbe stato costretto a perderle perché una soltanto era la sua. Mai aveva riflettuto, mai di nulla aveva avuto paura, ora sa che anche lui è in trappola.” Entrare nella fase dei 30 anni è già rendersi conto di diverse perdite. Ma c’è un momento nella vita di ogni persona, un momento compreso in tutta la letteratura cristiana, studiato dalla psicanalisi, che è il momento della “crisi della metà della vita”. Capire questa crisi può servire da paradigma per capire le piccole e grandi crisi che avvengono prima. In un passo spirituale delle Lettere dal deserto, di Carlo Carretto, c’è una riflessione sulla cifra biblica 40 (anni nel deserto, giorni di Gesù tentato nel deserto…) sviluppa una interpretazione autobiografica della crisi che interviene anche a livello spirituale in questi anni della vita, che preludono anche a seri abbandoni come la rottura di un matrimonio o del servizio presbiterale: “L’uomo che dopo i primi passi nella vita spirituale si lancia nelle battaglie della preghiera e dell’unione con Dio si stupisce dell’aridità del cammino [ci immagineremmo che la crescita spirituale sia un passaggio di oasi in oasi; il cammino di Israele nel deserto ci fa capire il contrario: si procede combattendo la fame e la sete godendo dei doni di Dio, ma la manna poi non era un cibo affatto prelibato ma che diviene un tesoro, qualcosa di grandioso] Più avanza più si fa buio intorno a lui; più avanza più tutto diventa amaro e insipido. Per avere un po’ di conforto deve richiamarsi alle gioie antiche, a quelle dei primi passi, quelle che Dio gli donava per attirarlo a sé. A volte ha perfino tentato di gridare << ma se tu Signore ci aiutassi di più avresti più seguaci alla tua ricerca!>> ma Dio non ascolta queste invocazioni, anzi al posto del gusto mette noia, invece della luce mette le tenebre, ed è proprio lì a metà del nostro cammino, non sappiamo se andare avanti o indietro, meglio sentiamo di andare indietro. Solo allora inizia la vera battaglia, solo allora le cose si fanno serie, e incominciamo a scoprire di valere niente o poco più. Credevamo sotto la spinta del sentimento di essere altruisti e invece ci scopriamo egoisti; credevamo sotto la falsa luce dell’estetismo religioso di saper pregare, e ci accorgiamo di non saper più dire “Padre”; credevamo di essere umili, mentre riconosciamo che l’orgoglio ha invaso tutto il nostro essere anche nella preghiera, nei rapporti umani, attività, apostolato: tutto è inquinato, è l’ora della resa dei conti, e questi sono molto magri…” Ciò capita nei 40, data del “demonio meridiano”, della seconda giovinezza, data seria dell’uomo. Dio ha deciso di mettere con le spalle al muro l’uomo che gli era sfuggito dietro al mezzo sì mezzo no, con i rovesci, la noia, il buio, con l’esperienza del peccato in cui l’uomo scopre la sua pochezza. Finché non si dà nome ai limiti e alle negatività precise che lo abitano, è pura illusione il cammino spirituale dell’uomo, e il pregare diventerebbe l’ultimo rifugio della sua menzogna. Bisogna passare per questa conoscenza reale e dolorosa di quelle meschinità, illogicità. Orgoglio, fragilità e debolezze che ci abitano. Quando si vedono sinceramente tutte queste cose alla luce del Dio che mi ama in quelle situazioni spirituali, solo allora inizia il vero cammino spirituale. Continua Carretto “…non c’è limite a questa miseria dell’uomo, e Dio gliela lascia ingoiare tutta fino alla feccia. A quel punto è finito il momento dei giochetti, della commedia, dell’eloquenza, della retorica, di “come se”; si è arrivati a conoscere la propria ignoranza sull’orlo dell’abisso che separa la creatura dal creatore. Là non si vive se non di elemosina, di grazia sconosciuta, inafferrabile, là si comincia ad entrare nell’esperienza della salvezza, cioè della gratuità, del dono, non meritato certamente da me di cui riesco a vedere ormai l’inconsistenza, ma attraverso la percezione di questa scardinante esperienza della mia povertà io faccio l’esperienza della misericordia di Dio, e arrivo ad entrare nella conoscenza non più verbale, del Dio che ci ama sempre e comunque, del Dio che interviene nella vita, nella storia, questi slogan di cui ci ripetiamo le labbra e non sappiamo che cosa significhino anzitutto nella
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nostra vita. A quel punto lì tutte queste parole prendono un senso, una realtà, diventano esperienza, e si scopre ciò che essenziale nella vita di fede, la misericordia di Dio.” Ogni età della vita ha delle ripercussioni a livello spirituale. Si tratta di mettere a morte delle cose di sé per potere accedere a uno stadio interiore . Possiamo riapplicare il paradigma della nascita a varie tappe della vita, come se quella nascita non fosse esaurita in un attimo primordiale ma sai una componente del cammino di asperità, di picchi che si raggiungono, ma anche ruzzoloni e cadute. La crisi dell’età di mezzo. Si riattivano dei conflitti irrisolti, vengono al pettine i nodi che non abbiamo mai affrontato, situazioni ad esempio di matrimonio in cui per quieto vivere o per l’idea di salvarlo si sono taciute magagne che poi vengono alla luce; immaturità celate fino a quel momento esplodono, senza più alcuna sublimazione che le indori, ed emergono nella loro crudeltà. Si può entrare in stati di depressione e ansia. Tutto questo va elaborato quasi come un materiale che noi abbiamo a disposizione per riplasmarci per diventare uomo nuovo. Si ritiene che per sbarcare questa crisi sono necessari tre elementi: accettare (non in senso passivo ma “assumere”) il trascorrere del tempo, assumere i propri limiti (l’illusione del nostro narcisismo viene rotta proprio nelle crisi in cui si prende coscienza della non onnipotenza), assumere la responsabilità della vita passata, che può essere pesante di sofferenze, lutti, male commesso e subito, peccati… Questa fase è stata studiata anche in moti uomini, d’arte, geni: inaridimento della creatività. Rossini ha fatto praticamente tutto entro i 40 anni. Questo si manifesta anche per gente comune, come incapacità di esprimere quello che si ha dentro. Può al contrario esplodere proprio la capacità creativa. Gauguin fino a 33 anni faceva il grigio lavoro di impiegato bancario, mentre a 39 anni faceva parte della cerchia dei pittori noti. A volte avviene un cambiamento radicale ad esempio degli interessi, ma anche della creatività. Il viaggio in Italia di Goehte ai 39 anni segnò un cambiamento radicale del modo di poetare. Lo stesso Donatello, verso i 40 anni. Molti non sopravvivono a questa fase, come ad esempio Mozart, Raffaello, Chopin che sono morti in questa fase. L’ambito del lavoro, e in generale di ciò che si fa, è il più investito dal cambiamento indotto dalla crisi. La forma patologica di questo cambiamento è la depressione, buio, mancanza di senso, con cui inizia il viaggio di Dante: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, perché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual’era e cosa dura questa selva selvaggia ed aspra e forte che nel pensier rinnova la paura, tanto amara che poco è più morte.” È un passaggio mortale. La persona ha ormai cessato di crescere e invecchia. Vanno affrontate nuove situazioni esterne. La prima fase della vita adulta è stata superata, si ha una stabilità di assetto, matrimonio, lavoro, figli… infanzia e giovinezza sono alle spalle. Il compito psicologico è il conseguimento dello stato pienamente maturo e adulto. Ma mentre si trova nella pienezza, si entra in crisi perché si percepisce che la morte è subito al di là, comincia a fare irruzione nella vita. Freud scrisse nelle sue Considerazioni attuali sulla guerra e la morte: “A sentire noi eravamo naturalmente pronti a sostenere che la morte costituisce l’esito necessario di ogni forma di vita. In realtà però eravamo abituati a comportarci in tutt’altro modo. C’era in noi l’inequivocabile tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita, abbiamo cercato di mettere a tacere il pensiero della morte. Non c’è nessuno che in fondo creda alla propria morte. Nel suo inconscio ognuno è convinto della propria immortalità. La crisi dei 40 anni nasce lì. La morte di fatto si impone prepotentemente alla nostra attenzione. forse dobbiamo cominciarci a dire più o meno consciamente che ciò che abbiamo vissuto comincia ad essere tanto quanto o forse meno di ciò che resta da vivere”. Elliot Jaques, uno psicanalista che ha studiato tale crisi, riportando le parole di un paziente di 36 anni in fase depressiva che aveva in analisi, dice: “Finora la vita mi è parsa un’ascesa senza fine, con nulla se non il lontano orizzonte in vista. Ora improvvisamente mi sembra di aver raggiunto la cime della collina e là davanti a me si snoda la decisa con la fine in vista. Ancora lontano è vero ma dove la morte chiaramente distinguibile presente alla vita. È allora il momento in cui occorre di fronte a
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questo futuro che si presenta delimitato, accettare di non poter realizzare certi sogni, certi progetti ideali, occorre accettare la parzialità, la limitatezza, la quotidianità, la finitudine e la finitezza. È il positivo rinunciare all’immortalità”. Le reazioni a questa crisi possono avvenire di fronti ad altre crisi piccole o grandi che noi possiamo vivere. Il diniego è la prima reazione di fuga di fronte all’invecchiamento. Persone che più passa il tempo più cercano di essere giovanili per negare l’evidenza del tempo che passa. Oppure la svalutazione, in reazione alla perdita di attrattiva, della forza e importanza, anche sul piano del lavoro. Ci si rifugia nella svalutazione di ciò che prima aveva provocato appagamento. A volte ci si arrocca al potere, posizioni sempre più conservatrici ed autoritarie, ad esempio in ambito di fede; ci si difende dal nuovo che incalza e rischia di scalzarci, tutto causato appunto dai più giovani. Un’altra reazione può essere la depressione. Chi ad esempio arriva alla mezza età senza relazioni soddisfacenti, o insoddisfatto del proprio lavoro è più vulnerabile alla depressione. L’imprevisto mette a nudo i mezzucci usati per andare avanti, ad esempio sublimare il passato. Spesso a quest’età si traggono i bilanci, ed è terribile soprattutto al livello del cammino spirituale la percezione del tempo che è andato perduto, dell’inutilità di ciò che si è fatto, per esempio tanti anni di vita monastica, tante liturgie. Si prova disgusto per ciò in cui prima si provava diletto, e si fa forte la tentazione di azzerare ciò che si è fatto affermando di essersi sbagliati. Ci si dà a delle dipendenze, alcol, sessualità, pornografia, ci si aliena rendendosi dipendente, annullandosi per non andare a fondo in ciò che la crisi richiederebbe di fare. O molto più semplicemente e diffusamente c’è l’intontimento, ci si anestetizza fuggendo nell’ombra e in una routine di inconsapevole superficialità. Sempre emerge che questa crisi ci terrorizza e si cercano vie di fuga. Bisognerebbe capire che questa crisi non è solo negativa, ma è un crocevia, una strettoia attraverso cui ci si può riconciliare col passato e arrivare a vivere serenamente il presente aprendosi al futuro. Occorre essere aiutati, trovando la forza di dire i motivi della crisi a qualcun altro. La solitudine e l’isolamento sono pessimi consiglieri che possono accrescere una crisi di per sé non enorme. Occorre assumere il limite: l’andare verso la morte ma anche la responsabilità del passato, e poi il limite contemporaneo, ad esempio le infermità, imperfezioni, lacune. Se questo avviene si esce dalla crisi più capaci di tollerare i difetti propri e altrui. Nella prima fase della vita infatti si è sempre più intransigenti, reazionari, impazienti, con sé e con gli altri. Avviene l’unificazione del principio maschile e femminile di ognuno di noi, e si raggiunge uno stadio di maggiore equilibrio. Si può operare sempre di più in profondità (non solo in estensione), ed è importante che ciò sia già avvenuto in passato, per non restarne inerme e incapace. Ciò che prima si è fatto verso l’esterno, ora bisogna farlo verso l’interno. Ci siamo sempre di più noi soli, con le nostre forze che anche decrescono. Ma la significatività di una persona e la profondità della sua fede consistono nella sua qualità personale, più che nell’efficienza e nella capacità di fare. Un anziano ha di per sé grandi ricchezze da donare e trasmettere e può diventare vero sacramento della presenza di Dio in mezzo al popolo. 3. CRISI E INIZIAZIONE. CRISI E PAROLA DI DIO – Crisi e iniziazione. A noi manca l’iniziazione, una delle deficienze più gravi delle società industriali. È l’evento critico che può diventare quel traghettatore che mi porta all’altra sponda, ad andare a fondo nella mia vita. L’iniziazione nelle società primitive era ciò attraverso cui l’uomo assume se stesso ed entra nella vita. È un insieme di riti di insegnamenti orali e prove a cui viene sottomesso il soggetto che deve essere iniziato, e attraverso questi riti e insegnamenti orali in cui si trasmette il sapere soprattutto religioso di cui vive la tribù, allo scopo di modificare lo statuto religioso e sociale del soggetto, si provoca un mutamento della persona. Al termine il neofito gode di un’esistenza diversa, è diventato un altro, ha fatto un salto riconosciuto anche dal gruppo sociale. Il collegamento col discorso delle crisi è che tali iniziazioni implicano una morte rituale e simbolica seguita da una resurrezione e nuova nascita. Colui che ritorna alla vita è un uomo nuovo che assume un altro modo di essere. E pensare a quanto sono difficili i nostri passaggi di abbandono di ciò che appartiene al nostro passato! Ma è proprio così che si cresce e si diviene se stesso. Per il discorso arcaico niente meglio della morte esprime la fine di qualcosa. Anche nella mentalità biblica la morte non è solo la cessazione di una serie di funzioni biologiche, ma è una dimensione molto più vasta, spirituale, la morte può già intervenire nella vita, e lo fa in ogni situazione in cui un equilibrio si rompe, un relazione si incrina. E può essere relazione con Dio, con gli altri, con sé stesso, con l’ambiente circostante, ma anche relazione sociale (minacciata ad esempio dalla malattia, prigionia…): tutte queste situazioni per la mentalità ebraica già sono abitate dalla morte, perché tale mentalità è sacrale, un mondo religioso pensabile solo a partire dal Dio che l’ha creato.
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La morte, simbolizzata in varie forme, segna la fine di un modo di essere, quello dell’ignoranza ed irresponsabilità del bambino: in tutti i riti di pubertà in cui l’adolescente viene immesso nella società degli adulti. È una vita spirituale in cui egli condivide valori, cultura della tribù o clan in cui vive. Mircea Eliade storico delle religioni e antropologo, scrive ne La nascita mistica: riti e simboli dell’ iniziazione: “L’iniziazione costituisce uno dei fenomeni spirituali più significativi della storia dell’umanità. È un atto che impegna non solo la vita religiosa dell’individuo ma la sua vita intera. Nelle società primitive, arcaiche, attraverso l’iniziazione l’uomo diventa ciò che è e ciò che deve essere, un’esistenza aperta alla vita dello spirito e quindi partecipe della cultura. Per il mondo primitivi è l’iniziazione che conferisce agli uomini il loro status umano. Prima dell’iniziazione non si è ancora integrati nella condizione pienamente umana.” Ci sarebbe da piangere pensando alla nostra miseria attuale nell’incapacità a livello sociale di creare forme di iniziazione alla vita umana e alla cultura, e ciò provoca una dilagante barbarie. Chi ci insegna cos’è umano e che cos’è l’umanità? Con l’iniziazione la persona assume il suo modo di essere. Tutta la prima parte del libro è dedicato allo studio dei riti di iniziazione alla pubertà e tribali in società primitive come in Australia. Si vede bene come il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta inizia con un atto di rottura e separazione (crisi = “separazione”), in particolare nel rapporto con la madre. Il bambino viene sottratto alla madre, in modo anche brutale. Attraverso l’iniziazione del giovane tutta la tribù viene rigenerata, poiché si tratta di accogliere una nuova generazione. Ci sono 3 elementi in questi riti di iniziazione: la separazione, come abbiamo visto, poi la segregazione nella foresta o in un territorio appositamente isolato dove riceverà l’istruzione sul patrimonio religioso della tribù (e può durare da una settimana a più di un mese); un terzo elemento sono segni cruenti sul corpo, ad esempio una circoncisione, togliere un dente, una subincisione. Il significato della separazione dalla madre è la rottura con il mondo dell’infanzia in modo tale che anche per la madre sia chiaro questo passaggio. Continua il libro di Eliade: “La separazione è particolarmente brusca e drammatica. Le madri nascoste sotto le coperte, si siedono per terra alla presenza dei loro ragazzi. A un certo momento i novizi sono presi dagli uomini che arrivano correndo e scappano via con loro.” Quasi una specie di rapimento, e la madre sa che il bambino sta andando incontro a una morte, seppure rituale, ma non per questo meno forte: davvero muore all’infanzia, alla vita precedente in cui era pulcino sotto le ali della chioccia. “La divinità che ucciderà il bambino si sa che non tarderà a risuscitarli sotto forma di uomini adulti, cioè iniziati. In ogni modo i bambini muoiono all’infanzia, e le madri hanno il presentimento che non li ritroveranno mai più come erano prima dell’iniziazione, i LORO figli.” La crisi è anche della madre che deve smettere di vedersi come chioccia che protegge il figlio e lo castra così, senza mai farlo uscire. Presso alcune società le madri piangono i novizi come si piangono i morti, c’è un vero lutto. Il novizio a volte viene sepolto sotto dei rami e delle foglie, o si fanno delle esperienze di tipo negativo, ad esempio un’esperienza nuova della tenebra, dove questa è minaccia, e la si deve conoscere ed affrontare. La forza di queste iniziazioni è che insegnano che la vita è fatta di crisi, dolori e sofferenze a affrontare, e che queste non sono uno spiacevole incidente da cui scansarsi; offrono fin dall’adolescenza strumenti per superarle. Quante volte oggi nelle fasce adolescenziali c’è l’assoluto rifiuto della sofferenza e del dolore, della crisi e della messa in discussione. Quando i neofiti ritornano al villaggio le madri li guardano come estranei e se si avvicinano prendono li colpiscono con un bastone e li fanno andare via. Significato delle operazioni che scavano nel corpo un segno doloroso a testimonianza di questo momento: la circoncisione ad esempio è sia un espressione della morte iniziatica (a causa del versamento di sangue) ma ha anche lo scopo di temprare la forza di sopportazione e il coraggio del giovane. Ci sono anche prove alimentari, digiuni, veglie per testare se si è padrone di sé Soprattutto c’è il confronto con la sofferenza con cui i giovani iniziano a fare i conti. Eliade dice: “Come abbiamo detto, l’iniziazione accompagna ogni esistenza umana autentica per due ragioni: da una parte perché ogni vita umana autentica implica crisi in profondità, implica
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prove, angosce, perdita e riconquista dell’io, morte e resurrezione; dall’altra perché ogni esistenza per quanto piena a un certo momento si rivela come un’esistenza fallita. Non si tratta di un giudizio morale sul proprio passato ma un sentimento confuso di aver mancato la propria vocazione, di aver tradito il meglio di sé. In questi momenti di crisi totale una sola speranza sembra foriera di salvezza, quella di poter ricominciare la propria vita.” In altre parole si tratta di desiderare un’altra esistenza. Ciò che si sogna è un rinnovamento definitivo e integrale. Ogni conversione religiosa autentica sfocia in questo rinnovamento esistenziale, ma che è una crisi radicale dell’esistenza. Le conversioni autentiche e definitive sono rare nella società moderna, e quindi è significativo che anche uomini a-religiosi intimamente desiderino una qualche forma di questa conversione, di rinnovamento spirituale, che in altre culture costituisce il fine stesso dell’iniziazione. Non sta a noi giudicare l’efficacia di queste iniziazioni arcaiche ma l’importante è che loro proclamassero la loro intenzione e rivendicavano il potere di trasformare l’esistenza umana. L’iniziazione costituisce una dimensione specifica dell’esistenza umana, lei sola conferisce alla morte la funzione positiva di preparare una nascita puramente spirituale, l’accesso a un modo di essere sottratto all’azione devastatrice del tempo. Forse l’intima nostalgia dell’uomo moderno a-religioso (nostalgia che sorge sporadicamente) è l’espressione moderna dell’antica voglia dell’uomo di trovare un senso positivo alla morte accettandola come supremo rito di passaggio ad un modo di essere superiore. La valenza critica della Scrittura, che se è ascoltata in modo serio e vitale può veramente mettere in crisi, aiuta un processo di conversione. La sua capacità discernente, cioè di giudicare, valutare, vagliare sono presenti in molti testi biblici, ad esempio Eb 4,12-13 [in questo brano la parola “scruta” nel testo greco è la stessa parola che traduciamo “critica”] lampantemente mostra la capacità della Parola di mettere in crisi, di distinguere e fare chiarezza tra pensieri e sentimenti del cuore. Abbiamo un esempio di questa azione della Parola , di fronte a cui tutto si svela nudo, in Gen 3 quando c’è la prima grande crisi dell’uomo, il quale ragionando tra sé e sé arriva a una visione distorta del reale e decide di infrangere il comando. Il Signore raggiunge l’uomo e gli chiede “dove sei?”, la Parola di Dio lo raggiunge e l’uomo si vede nella sua nudità, si scopre visto nella sua fragilità e pochezza. Imparare a dire di sì a questa pochezza è il segreto per una vita che sia veramente umana e pienamente spirituale. Accettare di essere quell’essere che nutre illusioni di onnipotenza, distorsioni della realtà. Avviene più volte che di fronte a una pagina della Scrittura (anche attraverso un’omelia, una spiegazione, una lettura personale…) ci si sente radiografati, come se essa leggesse cosa si muove in noi, come se l’episodio riguardasse nessun’altro al di fuori di noi stessi e la Scrittura desse le parole per descrivere ciò che sta avvenendo in noi. È un’esperienza misteriosa e commovente ma sicuramente critica (“uà m’ha scassàt proprio!!!”); nella lectio divina accogliamo una Parola che già ci conosce. È l’esperienza di Davide(2Sam 12-13) che come tutti quando siamo al 100% delle forze siamo accecati dalla voglia di fare giustizia accusando gli altri, e deve crollare allo 0%, ricadere in fondo, deve essergli tolta la maschera, per riconoscere il suo errore. È l’esperienza anche della donna di Samaria che dopo l’incontro con Gesù afferma “mi ha detto tutto quello che ho fatto” (Gv 4,39). L’importante è che se leggiamo un testo della Scrittura lo dobbiamo leggere coinvolti, come se parlasse a me e di me, riproponendo sempre la domanda che Dio pose ad Adamo, ma che rivolge ogni volta a tutto l’uomo. Questa messa a nudo è critica, destrutturante, dolorosa, ma essenziale perché ci immette in un cammino in cui veramente possiamo tenere conto di Dio. La conversione è questo, altrimenti resta un gioco di parole, retorica religiosa. Ma se avviene questo spogliamento, allora le parole saranno incise nella persona in modo forte (anche dolorosamente), e la Bibbia a tal proposito usa espressioni come “circoncisione del cuore”. Ef 6,17: la “spada dello spirito” è la Parola di Dio. Questo, ed Eb 4,12-13, sono testi significativi per fare l’incontro con la Scrittura, sacramento che contiene la Parola di Dio e che quindi ha la forza di immettere alla presenza di un Altro. Questo incontro è critico perché tale presenza fa emergere chi noi siamo, ci fa conoscere a noi stessi. Quanti giovani hanno paura di essere giudicati, come se una mannaia cadesse sulla testa! La crisi è indubbiamente momento in cui si è sotto giudizio, non per la morte, ma occasione da sfruttare per conoscere anche le debolezze, i lati oscuri che ci abitano, ma con cui dobbiamo convivere. Davide ha visto Betsabea, moglie di un suo generale, nuda mentre faceva il bagno, si è invaghito di lei e poiché è il re può andarci a letto, ma lei resta incinta. Il generale è in campagna e lo fa chiamare chiama concedendogli di passare benevolmente qualche giorno con la sua famiglia quindi con sua moglie, per coprire il peccato. Ma Uria è molto più giusto di Davide, e coraggiosamente non accetta di tornare visto che l’Arca di Dio è in campagna militare, all’aperto. Così Davide fa mettere il generale in prima fila e lo manda
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in avanscoperta, dove Uria muore. A questo punto, quasi come un’azione benefica, Davide “accetta” di prendere Betsabea. A quel punto il Signore manda il profeta Natan: 2Sam 12,1-13 La nostra cecità è capace di giudicare il male dell’altro, ma assolutamente incapace di vedere il nostro, perché vedere il male altrui ci rassicura nella nostra giustizia e santità, mentre vedere il nostro peccato ci obbliga a riconoscerci miseri, peccatori. Davide veramente è posto con le spalle al muro. Solo uno stupido non avrebbe capito che quella storia non riguardava un’altra persona, e Davide era infatti accecato. Ma la crisi fa uscire dalla menzogna ed obbliga alla verità e alla responsabilità. Gli è doloroso riconoscere la sequela di gesti meschini che egli ha fatto, ma proprio grazie a questo dolore si apre il cammino per ritrovare la sua verità. Certo, c’è un prezzo da pagare, ci sono già frutti di morte di cui Davide dovrà portare il peso, e dovrà assumere il male che ha commesso. Elemento necessario per superare una crisi è assumere la responsabilità del proprio passato, anche se ingiustificabile, assorbendo il male come elemento che può renderci più umani portandoci a un rinnovamento radicale del nostro cuore; assumere non solo il male subito (ad esempio tramite il perdono), ma anche il male causato, dandogli il nome e portandone le conseguenze. L’unico modo di sfuggire al male è riconoscerlo, riconoscere di esserne sia oggetto che soggetto. Lc 5,1-11: vocazione come crisi, e crisi come rinnovamento della vocazione. Questo testo ci indica che una vocazione nasce da un incontro. Qui non c’è neanche il discorso classico della chiamata, ma l’incontro che è portatore di crisi. Incontrare profondamente un altro è sempre rischioso e necessita che io mi adatti al mondo dell’altro, facendo dei riassestamenti di linguaggio, cultura. Incontrare un altro, specialmente se molto diverso da me comporta la domanda “chi sono io?”. Qui la prima crisi avviene all’inizio quando Pietro si sente dire “gettate le reti”, al che all’inizio oppone la competenza del pescatore, ma poi è disposto a smontare dalla sua posizione e soprattutto a fidarsi, gettando le reti sulla Parola di Gesù. La pesca è abbondantissima, e a questo punto Pietro fa un salto di qualità: l’aveva chiamato maestro, ora lo chiama Signore, e prende coscienza, riconosce il suo stato di peccato, con autenticità, e riconosce la sua enorme distanza che c’è con il Signore. Meglio diffidare di quelli che in modo affabulatorio parlano della loro vicinanza, intimità con il Signore, della loro esperienza che fanno di Dio. Normalmente non si sbandiera questo tipo di rapporto in modo impudico, e se lo si fa vuol dire che realmente non si vive questo rapporto e si sta cercando di convincere se stessi e gli altri creando un’immagine falsa. L’esperienza reale è che di fronte a qualcosa che possiamo osare chiamare (nella fede!) incontro con il Signore noi scopriamo la miseria di cui siamo fatti, esclamando “Tu sei santo, io sono un peccatore”. Per Pietro quello è il momento della massima vicinanza, è l’apice della chiamata, di un incontro che svela la promessa “tu sarai pescatore di uomini”. È un incontro che muta la vita di Pietro. E se Pietro aderirà alla chiamata e alla promessa sarà a prezzo di uno sconvolgimento esistenziale. Chiunque obbedisce a una vocazione ha letto in una luce nuova la sua vita personale e relazionale, e questo incontro l’ha talmente sconvolto che ha dato una direzione completamente nuova alla sua vita. Anche nella vita nuova in cui ci si è immessi abbandonando tutto si ricreano i meccanismi della meschinità e del peccato, e si entra nella crisi della vocazione, momenti di caduta. (Lc 22,60-62) Pietro ha alle spalle un grande cammino alla sequela di Gesù, come primo dei dodici, ma non ostante questo avviene il rinnegamento al momento del processo a Gesù. Lo stesso sguardo del momento della chiamata nuovamente attraversa Pietro: non ha ancora finito di tradire che viene messo in crisi, e questo passaggio avviene per mezzo della memoria, del ricordo. Lo schema di questa crisi è lo stesso della prima, Pietro si allontana da Gesù e piange il proprio peccato, là aveva gettato le reti sulla Parola del Signore, qui vi getta il suo ricordo. La prima crisi era una chiamata, qui è appello che dà la possibilità di rifiorire, è una parola che mi raggiunge chiedendomi di cambiare rotta. La retorica religiosa è piena di menzogne spirituali, la vera obbedienza avviene quando attraverso gli eventi critici noi impariamo a scoprire la presenza di Dio. È stato così addirittura per Gesù che imparò l’obbedienza per le cose che patì, ricordandoci così che la Presenza di Dio non è relegata nel sacro, nell’astratto, nel religioso ma è nel quotidiano, quello che noi potremmo chiamare “profano”. È negli eventi che più ci possono mettere in crisi che spesso è nascosto un appello che ha la forza di vincere le barriere che opponiamo sia a Dio che alla realtà stessa. Qui la crisi manifesta fortemente i suoi aspetti positivi e salutari (At 9,1-9) Paolo cade da cavallo; il sistema di valori su cui aveva fondato la sua esistenza crolla, è una crisi con grande dolore ma con la possibilità di rinascere: da quella caduta Paolo riemergerà nuovo, e lui stesso parlerà di “creatura nuova”, del battesimo in termini di novità di vita. Karl Barth a proposito scrive: “La vetta su cui mi ergevo era un abisso, La sicurezza in cui vivevo era perdizione, la luce che possedevo era tenebra”
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In At 9,1-9 il dialogo costruito da Luca ha precisi significati. La ripetizione del nome da parte di Dio nella Bibbia avviene sempre in un dialogo in cui si verifica l’evento saliente della vita di una persona (ad esempio ad Abramo in Gen 22,1-18 Dio chiede il sacrificio del suo unico figlio), e in questo momento scatta la domanda “perché mi perseguiti?” che scava nel profondo del cuore di Paolo. Dio lo conosce e lo chiama personalmente (in altri termini lo ama) e si svela come colui che Paolo sta perseguitando. Questo scontro di amore da parte di colui che sto odiando mi mette in crisi totale e fa crollare le mie barriere. Questa crisi è quanto mai salutare, perché distrugge un sistema di valori che per esempio comportava violenza e persecuzione contro gli altri. 4. TESTI BIBLICI – Ger 15,16 e Ger 20,8-10. Geremia, intorno ai 24-26 anni rievoca la sua vocazione, che proprio in quanto chiamata è descritta come parole che gli vennero incontro. La vocazione può avvenire attraverso incontri, attraverso la maturazione che noi facciamo degli eventi, o attraverso le più svariate situazioni, ma è sempre una “parola” che ci viene incontro, tramite eventi o persone che ci parlano. L’entusiasmo è l’esperienza gioiosa del sorgere di questa vocazione. Alla luce di questo primo brano leggiamo il secondo, in cui Geremia già da lungo tempo ha esercitato il suo ministero. Da che all’inizio la Parola di Dio era gioia, dolcezza, dopo è diventata per lui motivo di obbrobrio e di scherno tutti i giorni, poiché lo chiama a denunciare gli obbrobri di cui vive il popolo. A questo punto, nel pieno della difficoltà, Geremia subisce la tentazione di azzerare il suo ministero. Nel “sì” che uno arriva a dire, che sia matrimonio, vita presbiterale o religiosa, succede che a causa delle difficoltà e crisi che intervengono, sorge il dubbio di aver sbagliato tutto, che la scelta fatta non sia quella giusta. Un profeta, decidendo di non parlare più per Dio, di fatto è tentato di azzerare completamente il proprio passato abbandonando la vocazione. È molto forte e suggestiva l’immagine del “fuoco ardente” che lui continua a portare dentro nonostante tutto, ma dobbiamo riconoscere che non c’è in tutti l’esperienza della Parola di Dio a cui si resta legati e che consente nei momenti di crisi di restare attaccati a qualcosa. E allora la crisi di una vocazione consente di purificarne le motivazioni che stanno alla base di essa, essenzializzarle. Qual è stato il motivo per cui un giorno ho detto di sì? Questi motivi col passare del tempo forse hanno bisogno di riaggiustamenti, per cui la crisi è un appello a rinnovare i motivi di quella vocazione, senza “inventarsene” dei nuovi. Bisogna riconoscere se le motivazioni che ci avevano guidato erano autentiche, cioè a chi si è detto “sì”: se lo si è fatto al Signore e alla sua Parola allora le difficoltà del ministero (e pensiamo alle opposizioni che Geremia deve subire nel suo popolo) possono essere superate fondandosi su questa roccia salda. Se si era detto un sì a delle prestazioni, situazioni in cui uno sognava di vivere, viene il momento in cui queste non ci sono più o non si sono realizzate per niente, e tutto può venire meno. Ma ancora una volta solo la crisi può vagliare le motivazioni scoprendo ciò che veramente è autentico. Nella crisi è insito il rischio della decisione affrettata, della paura di andare fondo della crisi stessa non lasciando che essa compia tutto il suo lavoro. Questo lavoro è doloroso e per paura del dolore si può arrivare a convincersi frettolosamente di aver sbagliato tutto e tornare subito indietro. Tutto questo si può acuire soprattutto quando si arriva a questa crisi sprovveduti, per esempio quando non si era messo in conto che una vocazione di radicalità alla sequela del Signore comporta sì un centuplo in relazione al bene, ma altrettanto un centuplo in ostilità e persecuzioni, e allora c’è il rischio di avvertire le difficoltà che incontriamo come una smentita alla vocazione e di abbandonarla. Forse è proprio che in questo modo si resta sempre alla superficie delle cose... 1Re 19,1-12. Il re di Israele Acab riferì alla regina Gezabele ciò che Elia aveva fatto, che ci viene detto nel capitolo precedente: in una sfida coi sacerdoti di Baal, divinità suprema del panteon, il profeta aveva mostrato la sua potenza spirituale terminando con la sgozzamento dei 400 profeti di Baal. Al che Gezabele giura una sentenza di morte su Elia... la voce del silenzio, contro l’errata traduzione del testo, non è uno dei fenomeni naturali manifestatosi in maniera lieve, ma è qualcosa di completamente altro, è la voce del silenzio… Elia è disperato, il grande Elia uomo di Dio che ha fatto tremare Israele, anche egli scopre di essere fragile e pieno di paura, scappa di fronte alla minaccia di morte, è preda del timore, lo stesso Elia (massiccio!) che ha appena sgozzato i 400 sacerdoti di Baal. Una profonda crisi gli provoca un mutamento, una nuova conoscenza di sé e di Dio. Tale è l’entità di questa crisi da provocare pensieri di morte, proprio come la più sofferta depressione dei tempi moderni. Più volte Elia riconosce amaramente di essere rimasto solo. Non sa vedere, come invece gli rivelerà Dio, che sono state riservate altre 7000 persone in Israele. Così, spesso la crisi ci abbaglia e ci acceca impedendoci di cogliere l’oggettività. Elia cade nella tentazione del paragone, ma chi mai gli aveva chiesto di essere migliore dei suoi padri? La logica del paragone è una logica di chi non è libero interiormente e che ha bisogno di avvertire una salvezza nel provare che lui è migliore di qualcun altro; se ci sono altri che sono peggio, egli è rafforzato nella sua sicurezza. Elia vuole dare le
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dimissioni dalla vita, e si rifugia nel sonno. Il sonno è sempre simbolo della morte in tutte le mitologie. Ma proprio al cuore della crisi Elia trova un nutrimento. È proprio quando ci sembra che più in basso di così non si può andare, quando ci si inoltra in questo deserto senza fuggirlo, andando a fondo sprofondando, proprio lì si fa presente la Grazia di Dio, il suo Dono, proprio lì trova le forze per andare avanti. Le situazioni che più vorremmo evitare, ciò che è mortifero per noi, sono quelle sotto cui è indicata una potenzialità, una “energia positiva”. Elia arrivato al monte di Dio, l’Oreb , riceve la domanda “Che fai qui?”. Tutte le volte che incontriamo domande del genere nella Bibbia dobbiamo subito riferirle a noi stessi: addirittura studi retorici su molti testi biblici hanno evidenziato che il loro scopo ultimo è la dialogicità con il lettore, ad esempio con il catecumeno che si trova di fronte al Vangelo di Marco. Nella crisi noi siamo abitati da tante domande, alle quali non sempre abbiamo pronta una risposta. Ma è bene essere abitati da tali domande, che orientano loro stesse alle possibili risposte, e pertanto non vanno temute. La domanda infatti mi situa di fronte alla complessità del vivere, è un invito ad ascoltare, ad attendere, a prendere in considerazione la realtà nella sua molteplicità e complessità. In Es 19,16-19 ci sono i segni della teofania al Sinai, gli stessi che incontriamo nel nostro testo. Ma quei segni eclatanti sono manifestazione per Elia della presenza del Dio già noto. Ora nella sua situazione di crisi (e qui si manifesta la forza positiva di essa) Elia scopre un nuovo volto di Dio. Il silenzio per chi sa ascoltare diventa parola, diventa eloquente. Le crisi mi chiedono di entrare nel silenzio, per trovare parole adeguate; mi obbligano ad entrare in me stesso facendomi attento ad un linguaggio molto più sottile, interiore. È così che si fa un’esperienza di Dio fortemente interiore. Proprio qui, al cuore della crisi della vocazione c’è il suo rinnovamento, avendo trovato Dio in una forma nuova che apre gli occhi a Elia. Come Paolo anche Elia quando ha la conversione rimane accecato e solo dopo ritrova la vista, con un mutamento del suo sguardo che riesce a vedere ciò che prima non riusciva a vedere. Questo rinnovamento della vocazione partorisce un Elia rinnovato completamente, globalmente. Non sarà più mosso dallo zelo violento e crudele, da fanatico, che lo aveva spinto alla strage; Elia impara la misericordia a partire da questo evento critico e da quando ha imparato ad ascoltare la voce di Dio nel silenzio. Questa voce, seppure non espressa verbalmente, emerge in profondità quando si sa ascoltare sé stessi, e questo perché, come leggiamo in Dt 30,11-14, la Parola non è al di là dei cieli o nel più profondo dei mari, non bisogna scalare i monti per trovarne la presenza, ma è nel cuore di ciascun uomo. Mt 4,22-31. Questo testo si situa subito dopo la prima moltiplicazione dei pani. La barca sulla quale sono i discepoli, mentre Gesù si era ritirato sul monte a pregare, non aveva fatto molta strada a causa del vento contrario. Verso la fine della notte Gesù li raggiunge camminando sulle acque. È sottolineato vigorosamente il passare del tempo. In una crisi il tempo quasi si allunga, e noi abbiamo una percezione differente di esso. Gesù camminando sulle acque si fa loro vicino, e Matteo registra la paura dei discepoli tale che si mettono a gridare. La paura è sempre segno di dubbio, poca fede, ed è anche l’incapacità di vedere il Signore quando si è in una tribolazione. Nella tribolazione le nostre domande sono “Ma perché?” “Dov’è il Signore, perché non lo sento vicino?”, quasi che le prove non fossero luoghi in cui è stato il Signore. Il credente non deve mai dimenticare che le sofferenze, la contraddizione, le fatiche e le crisi sono il cammino percorso da Gesù stesso e quindi sostanziali nel cammino di tutti gli uomini, e sono parte anche della stessa obbedienza al Signore. Pietro nel dubbio mette alla prova Gesù, e vuole fare anche lui lo stesso, cioè camminare sulle acque. Non appena è uscito dalla pienezza della fede, sprofonda cominciando ad annegare. Questo avviene perché egli pone il suo sguardo sulle difficoltà e non più sul suo Signore, quando cioè il suo orizzonte diventa esclusivamente quello della contraddizione e della difficoltà. Così egli è preda del panico e della paura da cui viene sommerso. A questo punto Pietro invoca aiuto del Signore che subito lo salva, ma dobbiamo notare una interessante contemporaneità: proprio mentre gli tende la mano lo rimprovera, mentre lo salva lo corregge. Forse è proprio perché il rimprovero è parte costitutiva del cammino di salvezza di ogni uomo. È necessario sì passare nella crisi prendendo coscienza della nostra pochezza e debolezza, ma per fare questo c’è spesso bisogno di qualcuno che ce lo dica, che ci faccia presente la nostra poca fede. Scrive Agostino in un suo discorso: “Ciò che impedisce a molti di essere forti è la presunzione di essere forti. Nessuno riceverà da Dio il dono della forza se non è persuaso della propria debolezza, se prima cioè non comprende di essere per sé stesso povero e debole” E la lezione che normalmente ci insegna questa nostra debolezza e pochezza è la crisi, nella quale noi impariamo l’obbedienza e anche la fede, negli eventi che mettono alla prova la nostra fede e la capacità di
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fiducia. Proprio lì abbandonandoci ad esse e non fuggendo possiamo imparare che cos’è avere fede, che cosa sono fiducia e confidenza.
[I partecipanti hanno consegnato dei fogli anonimi a Luciano sui quali hanno risposto alle 3 domande proposte nell’introduzione, sui quali cioè hanno esposto situazioni di crisi e di sofferenza. Il corso da questo momento in poi si modella dinamicamente sulle testimonianze presenti su questi fogli]
Fa impressione vedere, in queste confidenze sul proprio vissuto e su ciò che ci fa soffrire, che dietro a ognuno di noi c’è una storia di grandi sofferenze e fatiche, storia che è difficilmente dicibile e spesso non trova la maniera di liberarsi perché fatichiamo a trovare i punti di riferimento, persone a cui poterle dire. Finché noi non mettiamo una parola, finché noi non diamo un nome e parliamo delle sofferenze, queste rischiano di diventare sempre più schiaccianti. La vita del Buddha: con una nascita che è già prodigiosa, nasce in un palazzo principesco. Cresce confortato da tutti gli agi, comodità, cioè in un mondo ovattato, in un palazzo che per quanto dorato sia, non ha niente a che fare con la vita vera. Ma purtroppo cresce facendosi l’immagine della vita che vive nel palazzo. “Il padre, avendo meditato su come impedirgli di vedere alcunché di spiacevole che potesse turbargli la mente, gli prescrisse di dimorare nelle stanze superiori del palazzo e di non addentrarsi a terra, di non andare mai fuori per non vedere la realtà dell’esistenza. Un giorno però il giovane sentì parlare di boschi e parchi deliziosi e gli venne il desiderio di andarli a visitare. Il re sentita il desiderio del figlio comandò di preparare una gita di piacere degna del proprio affetto, della propria maestà e della giovinezza del ragazzo, e dalla via maestra fece allontanare ogni persona disgraziata, perché il principe dalla tenera mente non ne avesse lo spirito turbato. Ovunque con la massima buona grazia vennero mandati via coloro che erano mutilati nelle membra o colpiti negli organi di senso, nonché miseri, i vecchi, i malati in primo luogo, e così resero bellissima la via maestra. Il padre, baciato il figlio sul capo, contemplatolo a lungo con gli occhi pieni di lacrime, gli disse di andare ma per l’affetto in cuor suo lo tratteneva. L’auriga prese il giovane e lo portò in questa strada stupenda, ma gli dei, vedendo quella città splendente come il paradiso, forgiarono un vecchio errabondo per turbare il figlio del re. Il giovane principe, scorgendo quell’uomo in preda alla vecchiaia, diverso dai suoi simili in aspetto, chiese all’auriga <
>. L’auriga così iniziò a parlare della vecchiaia: <> e continuò nella descrizione. Il giovane si turbò...” È critica la sua scoperta della vecchiaia, e la sua visione del mondo è posta in discussione, soprattutto dalla scoperta che la vecchiaia non è solo di quell’uomo lì ma toccherà anche lui. Dice “cosa mi importa del giardino delle delizie, torniamo indietro” ma ormai il desiderio di uscire è forte. Così esce di nuovo e questa vota nel giardino delle delizie gli dei plasmano un uomo il cui corpo è in preda alla malattia. Così il giovane fa la scoperta della malattia, e chiede al cocchiere: “<> <>” Nuovo turbamento, nuova fuga nel palazzo, e poi ancora un’altra uscita. Questa volta gli dei crearono un uomo privo di vita, e solo il principe e l’auriga vedevano quel morto che veniva trasportato per la strada. Il figlio del re chiese:
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“<> <> Udite le parole del conducente, ebbe un tremito e chiese <<È limitata a quella persona tale legge oppure vi è una simile fine per tutte le creature?>> Il conducente risposte <>” Malattia, vecchiaia, morte. Chiavi per entrare nel segreto della vita! E lo hanno mostrato le persone stesse nelle risposte che hanno consegnato a Luciano, situazioni di malattia, sofferenze, morte. Quante crisi legate direttamente all’esperienza della morte di una persona cara più che propria, alla sofferenza e alla malattia di chi amo più che alla mia. Per tutti noi c’è la prima volta, come è espresso bene nel testo della vita del Buddha, in cui si scopre la realtà del dolore, della sofferenza, della malattia. Eppure questo testo ci dice ad esempio circa la malattia che è anche una chiave per comprendere la realtà della vita. Per quanto sia disarticolante (e lo è quando è vissuta da noi o da chi amiamo, cioè quando se ne fa esperienza) diviene una maniera per entrare nella verità dell’esistenza: era una menzogna la vita nel palazzo, è vera la vita che fa i conti con sofferenza, malattia ecc. per quanto esse mettano in crisi. Nelle risposte è emerso soprattutto dalla prima domanda che la crisi in primo luogo evoca paura. Ha scritto qualcuno “Dormivo per fuggire la realtà pesante che vivevo attorno a me” Il sonno può essere appunto uno strumento per fuggire la vita, e questo tipo di reazione avviene spesso per fuggire situazioni per noi insostenibili, o perché le viviamo da bambini e non abbiamo le parole per potere affrontare delle situazioni di conflitto, violenza, che ad esempio avvengono in famiglia. E nel “sonno” ci rifugiamo per sopravvivere e non vedere l’esistenza, per non soffrire. Qualcuno alla domanda “Che cos’è la crisi?” ha risposto “Qualcosa che turba il nostro normale corso degli eventi, la normalità della vita vissuta” E una sensazione diffusa di fronte alla crisi è di smarrimento, impotenza, ma anche rischio nel trovarsi di fronte a qualcosa di minaccioso “Tinte fosche”, “nebbia interiore”, “senso di esser gettato nel vuoto” Di fronte a queste cose sorge il desiderio di fuggire e accantonare il problema. La crisi ci fa scoprire che il padre di Buddha ce l’abbiamo dentro, questo desiderio di proteggerci dal doloroso della crisi, che vuole rimuovere il negativo perché ne ha paura, e non vuole che il male e la bruttezza entrino nella vita. Non si tratta di demonizzare questo impulso ma solo di riconoscerlo, per porci la domanda: Perché preferiamo l’illusione alla realtà?. Per questo è bene individuare l’immagine di realtà che abbiamo e le illusioni che arriviamo a forgiarci. Il maggior numero di situazioni di crisi riguarda le relazioni affettive, la loro fine e le separazioni. Spesso investiamo di immagini, illusioni, miti, il rapporto amoroso, al punto che basta poi poco per farlo crollare. Ma quando termina un rapporto non crolla forse un’immagine che io avevo del rapporto stesso, e bisogna fare i conti molto di più con la realtà? Non basta amare per vivere una vita di coppia felice, occorre imparare la difficilissima arte di “vivere con un altro”; certo è l’amore che ci da la forza di fare questo, ma sono proprio questi fallimenti che ci insegnano chi siamo e purificano il rapporto dalle illusioni che noi rischiamo di proiettare sull’altro a livello affettivo, luogo più pieno di miti, illusioni, e quindi anche di disillusioni e sofferenze. Ci illudiamo per ignoranza, perché la nostra conoscenza di noi è ancora embrionale, come hanno scritto molti dei presenti. Proprio in queste crisi si è imparato a prendere di più la misura dei propri limiti, di sé stessi. E questo è normale oltre che ricorrente, dal momento che non arriveremmo mai a dire “io mi conosco”, c’è sempre un incognito nel nostro camminare nella vita. Soprattutto non posso sapere come reagirò alle situazioni del futuro. Ci illudiamo per inesperienza, perché abbiamo vissuto troppo poco, o perché non abbiamo saputo ascoltare abbastanza le lezioni che ci vengono dalla vita; occorre non solo l’aver fatto esperienze, ma soprattutto fare tesoro di esse, averle pensate, avervi riflettuto traendo un insegnamento. Ma soprattutto ci illudiamo perché vogliamo fuggire la realtà. L’illusione ci seduce troppo, è
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troppo più bella della realtà, ci permette di gustare dei paradisi artificiali che la realtà non ci darebbe (e allargando il discorso pensiamo ad esempio alle droghe). Ci illudiamo per paura della realtà e della sofferenza. Diversi hanno riferito della paura di iniziare, la paura del non noto, del nuovo. Questa paura può avere delle radici molto antiche, nella nostra nascita, il primo inizio che abbiamo avuto, ad esempio una nascita molto traumatica potrà poi impedire di scegliere, di immettersi in situazioni nuove, perché troppo rischiose, perché ci si sente troppo in pericolo. Evidentemente c’è un ricordo inconscio che agisce in quell’iniziare qualcosa di nuovo. La vicenda del Buddha ci dice che la crisi quando diviene un entrare in contatto con realtà pur dolorose ma costitutive della vita, mi fa fare un’uscita dall’immagine fasulla, aureolata, dorata ma sempre falsa della vita stessa. Lo scrivere, “l’obbligare” o meglio lo spingere a scrivere, aiuta a chiarificare ciò che mi sta succedendo, ciò che sta avvenendo dentro di me, ed è una presa di coscienza addirittura corporea, che facciamo col corpo e non solo nel pensiero, traducendo fisicamente ciò che sentiamo emozionalmente e pensiamo razionalmente; è un’esperienza che aiuta ad entrare in un processo di guarigione, di presa di possesso di una crisi. Addirittura c’è anche nelle terapie contemporanee la pratica della scrittura autobiografica che aiuta a prendere coscienza della propria situazione, a darle nome per incamminarsi verso la strada della risoluzione. 5. ELABORARE UNA CRISI: LA MALATTIA – Spesso emergeva dalle risposte un senso di grave impotenza durante una crisi, poi il senso della collera, soprattutto in relazione ad alcune esperienze, come la propria malattia che limita oggettivamente rendendo dipendenti, fa sperimentare la debolezza fisica e quindi la fragilità e il limite; la malattia di un genitore o di una persona cara scatena una crisi che non dipende da noi, getta in crisi tutta la famiglia. Come far fronte a queste crisi veramente gravi? Certo è che in una tale situazione quotidianamente pesante si crea un nuovo senso di solidarietà nello spazio familiare, e ci si presenta gli uni gli altri nelle reciproche debolezze con una franchezza che spesso non era mai accaduta prima. Proprio la malattia di un membro della famiglia può portare a condividere la propria debolezza, quindi in tal caso crea condivisione, comunione. La vera comunità non nasce mai dalla somma della forza e delle ricchezze di ciascuno, la vera comunità nasce sempre dalle condivisioni delle povertà di ciascuno, quando si ha il coraggio di fronte all’altro di “osare” la propria povertà mettendola in comune. Proprio le situazioni che più vorremmo non avere e rimuovere, nascondono un grande tesoro quando affrontate completamente e serenamente. Da tali situazioni possono nascere ad esempio nuova attenzione e sensibilità ai bisogni di chi è sofferente, capacità di compassione, empatia, ascolto in verità, cioè ascolto della sofferenza: il tesoro che si acquisisce superando una crisi è un livello più profondo di vita in cui la crisi ci introduce. Sicuramente è questo il luogo in cui sorgono violentemente le domande che mettono a dura prova la nostra fede. “Perché Dio lo acconsente?!” è ricorrente, come “Perché proprio a me?!” in una malattia grave. Nella Scrittura c’è un insegnamento impressionante su come affrontare le crisi generate da queste situazioni: Gb questo libro è l’esempio della crisi radicale di un uomo che perde tutto quello che aveva, i beni, le ricchezze, i figli e poi la propria salute. Ci insegna che di fronte alla malattia o al dolore (per esempio a causa di una morte) è importantissimo, vitale, parlarne, certo con pudore, ma la sofferenza non va mai soffocata. Allora il vuoto che noi sentiamo può essere in qualche modo colmato; ma se io non do parola a ciò che più mi brucia dentro e mi fa star male, io mi scindo da me stesso ed è facile che io inizi ad avere atteggiamenti a cui sono abbastanza indifferente, che io viva relazioni in cui non gioco me stesso, per non entrare in contatto col dolore che è in me. Ma è importante proprio dare nome, parola a questa sofferenza che è in me, per arrivare a fare unità con se stessi, tra il livello razionale Cosciente della gravità della situazione, e il livello emotivo che si ribella. Questa è la fatica dell’elaborazione del lutto, per arrivare ad assumere pienamente non solo col cervello ma con tutto il copro e con tutte le emozioni che quella persona è morta e che la mia vita va vissuta assumendo quel vuoto. Certo non sempre è immediato trovare una persona a cui poter raccontare queste cose, ma è fondamentale parlarne. La Bibbia ci da un grande magistero. I salmi ad esempio o lo stesso libro di Giobbe contengono più che mai là reazione di fronte al lutto, al dolore, alla morte e alla malattia; la Bibbia non ha mai vergogna o paura di mostrare che il malato urla, grida e si rivolge a Dio in modo anche poco ortodosso, ad esempio ascoltando Giobbe noi assistiamo a una litania di bestemmie che culminano con “Dio, tu sei sadico! Sei tu che mi fai il male e come un arciere mi sbarri la strada con le tue frecce”. Ovvero la Scrittura osa fare ciò che noi non sappiamo più fare, ci dà le parole per dire il dolore, siccome non ci è facile trovarne di adeguate. Pensiamo ad esempio allo squallido momento delle condoglianze, momento delle parole imbarazzate, la fiera della
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banalità, visto che non abbiamo parole all’altezza dell’evento della morte o della malattia che dall’oggi al domani paralizza una persona. Alla fin fine queste circostanze rivelano la nostra rimozione (rimozione da parte di tutta la società) del dolore, della sofferenza, al punto che in quei casi si fa una “visita di dovere” che casomai alla fine ci fa tirare un sospiro di sollievo perché quella disgrazia non è avvenuta a noi. È abominevole lo sbandierare le morti in televisione. A tal proposito c’è un libro di Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, una riflessione su che senso ha il vedere sui mass media altri che muoiono. C’è chi ha scritto: “La modernità è caratterizza dall’incapacità di dare forma ai nostri sentimenti fondamentali, è caratterizzata dalla perdita del linguaggio” Il Salterio invece ha il coraggio per fornirci le parole del dolore. Oggi noi moriamo di due morti: prima del decesso noi moriamo senza aver potuto esprimerci, moriamo della morte della parola in noi. Al contrario le società arcaiche esprimevano il tragico della vita umana in maniera cruda grazie a rituali ormai sconosciuti, come le iniziazioni in cui uno prende coscienza in modo sanguinoso sul proprio corpo che la morte fa parte dell’esistenza. Invece la società moderna spegne il lamento, inibisce la collera, dimostra imbarazzo di fronte all’esplosione degli affetti e delle emozioni. È penoso ad esempio negli ospedali quando sentiamo i parenti imbarazzati che dicono di stare zitto al malato che casomai urla, delira, e lo privano dell’espressione del dolore; senza poi contare la terrificante congiura del silenzio che c’è attorno al malato, per non fargli capire cos’ha davvero, quasi come se egli non intuisca meglio di tutti la verità della gravità della sua situazione; ma qui il punto è condividere la verità del malato. E se sono a conoscenza di un tumore che porterà alla morte una persona, il problema non è che io lo sappia e lui no, ma è che il mio sapere lo posso giocare o come potere e influenza sul malato, o come comunione, e dovrò cercare tutte la maniere di entrare in relazione con il malato: mentre gli dico quello che con tutta probabilità ha già capito, io entro in comunione con lui per non lasciarlo nella solitudine del suo morire. È penosissimo, altrimenti! Si crea una barriera tra noi e il moribondo che è di una disumanità impressionante. Invece con la condivisone si fa di quel momento l’ultimo accompagnamento, quello che è anche il più denso di significato e che rimarrà come eredità e memoria, se no resta l’amarezza di una relazione incompiuta in cui non si è riusciti a dirsi addio. L’espressione è sempre importante, anche l’espressione della collera, protesta, è un linguaggio legittimo che merita tutto lo spazio possibile. Il malato che grida e protesta sta già provando ad immettersi in un possibile cammino di guarigione, convogliando energie contro la sua malattia. Come elaborare la crisi di quando ci si trova di fronte a queste malattie? La malattia di per sé è insensata, e noi abbiamo un compito importante: dotare di senso la malattia. C’è chi ha scritto che: “Anche un cristiano non conosce alcuna strada che aggiri il dolore, ma piuttosto una strada insieme con Dio che la attraversi. Le tenebre non sono l’assenza, ma il nascondimento di Dio in cui noi seguendolo lo cerchiamo e lo troviamo nuovamente” La fede non è una bacchetta magica! Ma anche nel dolore noi possiamo rivolgerci al Dio di cui casomai abbiamo conosciuto un volto più amico e ora ne riconosciamo un volto più enigmatico. A lui possiamo chiedere conto sul perché, possiamo convogliare addirittura contro di lui la collera. Essa non va demonizzata, in quanto parte costitutiva dei sentimenti umani; addirittura può diventare luogo di preghiera, come ci fanno vedere i tanti salmi imprecatori, ad esempio Sal 58, una forte invettiva contro i giudici ingiusti e corrotti. A prescindere dalle immagini forti della cultura semitica che possono disturbare la nostra più sobria sensibilità latina, qui c’è la collera messa in preghiera; il profeta spesso sa andare in colera perché condivide il pathos di Dio, e traduce così lo scandalo di Dio di fronte alle ingiustizie, che non può considerare solo “incidenti di percorso”. Studi vari hanno evidenziato che quando interviene uno choc forte, ad esempio l’annuncio di una condizione fisica grave, mortale, nella persona intervengono una serie di fasi, proprio le fasi dell’elaborazione di una crisi gravissima, ma che ci possono essere utili nell’affrontare anche crisi più piccole. All’inizio c’è la fase di choc, incertezza, senza saper più cosa dire, addirittura senza rendersi conto effettivamente di cosa sta accadendo, il che genera il panico; è una fase spesso di negazione in cui si dice “no, non è possibile!”, ci si “dimena” per accertarsi che sia tutto un grande errore. Una sensazione del genere accompagna tutte le crisi, più o meno gravose, che “dall’esterno” improvvisamente piombano addosso; è una sensazione di perdere i punti di riferimento, e non sapere verso dove si andrà; il senso del tempo e del futuro va ora ripensato.
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Poi però si fa largo la sensazione che, nonostante i tentativi di negare e non accettare, davvero sta succedendo qualcosa di grave, e questa sensazione porta ad una seconda fase caratterizzata dalla certezza, in un ambivalenza per cui razionalmente si è pronti ad accettare la situazione ma emotivamente si continua a sperare l’impossibile. Ancora una volta bisogna parlare, dare nome e parola alla propria situazione. Questo è sempre un modo in cui ci si prende in mano, non ci si lascia dominare e travolgere dalle situazioni, si acquista potere sulla malattia (anche se questa resta mortale) o meglio la si priva del potere sulla persona. La vicinanza di una persona è vitale non solo perché essa condivide dolore, paura ecc. ma anche semplicemente per poterne parlare. Infatti negli scritti dei presenti emerge spessissimo che alla crisi sono associate la solitudine e l’abbandono. Parlare poi aiuta a dare nome a ciò che sta avvenendo e questo permette di aderire alla realtà. Ripetiamo infatti che il malato ha diritto a conoscere la realtà della sua condizione. È pur vero però che non lo si può annunciare come alle volte avviene in qualche disgraziatissimo ambulatorio ospedaliero in cui il medico bell e bbuon se ne esce “lei ha un tumore e le restano forse 6 mesi di vita...”. È chiaro che si può prendere coscienza della gravita della situazione solo da un contesto di persone significative, o per lo meno da un personale medico che abbia saputo instaurare un minimo di rapporto umano, e tutto deve avvenire all’interno di una gradualità che permette al malato di assumere la comunicazione, che sta dando la parola a ciò che tra l’altro egli probabilmente già sa, e che gli permetta di sopportare il peso di tale notizia. Questo per il cristiano è ancora più necessario, perché se un non credente deve “solo” farsi coraggio, raccogliere la propria serenità, lucidità, volontà e le proprie forze per mantenersi uomo, il cristiano ha da fare in più quello che nella sua fede è l’ultimo passo verso l’incontro con il Signore. E importante poi sapere che si è alla fine per avere l’ultima chance di regolare le proprie tendenze, sanare i litigi, chiedere perdono, perché spesso la vita familiare è piena di conflitti che col passare del tempo si accumulano e si incancreniscono. Poter sciogliere le lacerazioni, le incomprensioni con un atto di perdono aiuta il malato ad andarsene serenamente. Questa è una verità molto profonda a livello psicosomatico, perché quelle tensioni veramente possono essere di ostacolo alla morte del malato, quasi come se fosse privato del permesso di poter andare, e pertanto sospeso e paralizzato nel dolore. Dopo la fase della certezza, inizia una fase di aggressività, rabbia, collera, con un’esplosione dell’emozionalità. “Perché proprio io?!”. Questa rabbia va sempre manifestata, ma il problema è con chi prendersela. Tutti a questo punto possono essere obiettivo della collera che si sparge a 360°. Tante volte nei salmi di invettiva si sente parlare di nemici dell’orante, ma gli esegeti spesso non sono stati capaci di individuare chi fossero, perché il più delle volte i nemici sono le persone che stanno accanto al malato, bersaglio delle sue alterazioni psichiche. Ad esempio la situazione del Sal 41 possiamo trasportarla subito nelle stanze di ospedale, con tutte quelle parole banali che stupidamente credono di incoraggiare, dette da visitatori che casomai appena escono dalla stanza tra loro commentano “hai visto quel poveraccio come sta combinato?”, e tutto questo il malato che non è un deficiente lo percepisce bene. Chi sta vicino al malato sa che ci possono essere delle esplosioni di collera incontrollate e spesso irragionevoli, ma l’atteggiamento più deleterio è proprio quello di zittire, bloccare, frenare questi impeti. Anche se c’è dell’irrazionale e del non vero in quello che il malato impreca, comunque sono cose che egli prova davvero, e se gli si dà la possibilità di esprimere ciò che ha dentro spesso il malato si rende conto da solo dell’irrazionalità dei suoi sentimenti. La testimonianza di un malato dice: “Quando ti chiedo di ascoltarmi cominci a darmi dei consigli, tu non fai quello che ti ho chiesto. Quando tu accetti come un semplice fatto che io senta ciò che sento, io posso smettere di convincerti e posso invece cominciare a comprendere in me cosa che cosa c’è dietro quei sentimenti irrazionali. Quando mi è chiaro le risposte diventano evidenti, e io non ho bisogno di consigli, perché la risposta è in me” Certo questo dell’aggressività è un momento in cui bisogna restare altamente vigilanti, ma le cure verso la persona devono essere più che mai raffinate ed attente, e devono sì arginare la continua sensazione di solitudine, ma non rendere ancora più grave l’atmosfera con ansiose attenzioni patetiche, quasi morbose e nella maggior parte dei casi inutili. La fase della trattativa percorre due strade: se uno ha tante possibilità economiche fa il giro di tutti gli ospedali e degli specialisti più rinomati, con la frenetica speranza che gli venga detto che è tutto a posto. Ne Il bambino che non voleva crescere, di Pearle S. Buck, la scrittrice racconta della sua vicenda, cioè la nascita della sua unica figlia, down. Tutti avevano già capito che erano così ma fino all’ultimo cercavano di rassicurarla che la figlia sarebbe guarita, e questo fino a quando la piccolina ebbe 4 anni. A quel punto il ritardo divenne notevole e innegabile, ma la donna fu l’ultima a capire effettivamente la situazione, al che
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cominciò la sua “fase della trattativa”, girando mezzo mondo per trovare lo specialista che risolvesse la situazione. A un certo punto arriva a dire queste stupende parole: “In questo viaggio infinito finii in Minnesota. Sopraggiunse l’istante a cui devo essere grata finché vivrò. Devo ringraziare l’uomo che proprio mentre stavo passando uscì da una stanza vuota. Mi venne silenziosamente vicino e mi fece segno di seguirlo nella stanza vuota. In un tono quasi brusco, con gli occhi puntati su di me cominciò a parlare nel suo rotto inglese. Dissi <> ordinò <<Mi ascolti bene. Le dico, signora, che la bambina non diventerà mai normale, non si illuda. Distruggerà la sua vita e ridurrà la sua famiglia sul lastrico se non lascia la speranza e non guarda in faccia alla realtà: non guarirà mai. Mi ascolta? Le dico la verità per il suo bene>>” La trattativa può percorrere anche la strada un po’ più popolare del miracolo, della promessa che “se guarisco mi faccio monaco”, e si entra nella via della disperazione, che si cela dietro questi atteggiamenti che possono far sorridere. Il fare dei voti, la sfera religiosa vengono utilizzati per chiedere e credere la guarigione, e della fede viene fatto un uso magico che nutre nient’altro che un’illusione. Anche in questo caso è importante che ci sia qualcuno vicino al malato, perché per lui attraversare questo percorso da solo comporterebbe una totale “svendita” materiale e spirituale. Quando questa fase si spegne interviene il momento della depressione, in cui sono esaurite tutte le energie, e ci si sente sopraffatti da un’ondata di pensieri tristi sull’inutilità e insensatezza dell’andare avanti, nei casi peggiori con un senso di schifo per la vita. Questa fase ha pianti ed emozioni negative, che però sono ancora segno di vita e di una resistenza, seppure passiva. Si deve comprendere non solo razionalmente ma anche emozionalmente ciò che si è perso, ed a partire da qui la crisi, che ha raggiunto il suo punto più basso e grave, permette di iniziare ad imparare qualcosa di più profondo su di noi, sulla vita, sulle relazioni e sull’amore. Se si comprende ciò che è realmente rimasto e ciò che si può fare a partire da questo, è qui che si innesta l’accettazione. Si arriva a fare coscientemente esperienza del limite: svuotati, privati di volontà, ma anche in un certo senso liberati, giunti al limite ultimo, al fondo. Questo è l’inizio di un momento pacificato aperto a nuovi spiragli. La scrittrice madre della bimba down scrive a proposito della sua fase dell’accettazione: “A un certo punto mi cominciai a dire <<Solo ora riconosco>>. Cominciai di nuovo a provare motivo gioia nelle cose che questa vita poteva ancora offrirmi. Per prima cosa i libri, poi i fiori. Tutto cominciò per una sorta di meraviglia che queste cose continuavano ad esistere come prima, e con l’ammissione che ciò che era accaduto non aveva in verità cambiato nulla, eccetto me stessa” Si prende coscienza che questa crisi, devastante perché mette in discussione tutto il mondo, realmente del mondo non ha cambiato nulla, se non la persona stessa, sempre in meglio. Da lì si può ricominciare grazie all’accettazione, che però non è rassegnazione né rinuncia ma una condizione pacificata, accettazione cosciente (e non disperata) dei limiti. Si entra così in una fase di rinascita, comune al termine di tutte le crisi, caratterizzata da un nuovo interessamento alla vita, dopo un periodo depressivo in cui ci si era quasi “tratti fuori” dalla vita stessa rinunciando a fare qualsiasi cosa e non avendo interesse più per nulla. Dopo tale periodo in cui tutto era nero e nulla più aveva alcun senso, si ritrova interesse, stupore nel fare, nell’agire, nel pensare, nell’amare, cioè nel vivere. È chiaro che questa è una persona completamente rinnovata, su cui la crisi ha lavorato molto, non senza dolore. E una caratteristica che si è aggiunta a questa nuova persona è la sentita, sincera e forte solidarietà. Una persona colpita dalla sofferenza, se è opportunamente aiutata, accompagnata, in un contesto che la accoglie, la ascolta, un contesto a cui essa osa dire il proprio dolore, tale persona rinasce e entra nella fase della solidarietà, un ritorno a vivere con gli altri. Non mi oppongo più al male che mi ha colpito ma vivo con il male stesso e, all’interno dei miei limiti, delle mie forze, riconosco che anche in queste condizioni io posso benissimo continuare a vivere e amare, in maniera veramente molto più intensa rispetto a prima. Questo schema, elaborato da numerosi studiosi, medici, psichiatri è generato da numerose osservazioni su malati gravi e su persone vicine a malati gravi, in generale a persone che ricevono una notizia veramente nefasta; è il più globale e onnicomprensivo e, fatte le dovute proporzioni, (dato che le comuni crisi non hanno niente a che vedere con la gravosità di queste analizzate) questo schema ha molto da dirci sulle nostre situazioni critiche che abbiamo vissuto o che possiamo vivere.
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Un ultima cosa da vedere è la collera, la rabbia, che è sempre proporzionale alla sensazione di impotenza. La collera nella tradizione cristiana è stata largamente demonizzata, troppo spesso associata alla violenza, in generale al peccato dell’ira. Ma se è vero che antropologicamente la collera è una delle emozioni costitutive dell’uomo essa va posta allo stesso livello di dignità della gioia o la tristezza. Il problema fondamentale diventa allora l’espressione di questa collera, che nei casi più gravi se non addomesticata può diventare addirittura omicida. La collera invece può essere resa addirittura energia vitale. Se una persona non esprime la collera che ha dentro, in quel caso essa cresce e comporta sicuramente male sia alla persona stessa che agli altri. Ed è una grande bugia che esistano persone colleriche e persone che non sono influenzate dalla rabbia: il fatto è che per mille motivi non la manifestiamo. Spesso in una coppia una persona sembra collerica e l’altra no, e questa seconda persona con la sua flemma eccita ancora di più a collera nella prima persona. Ma questi sono tutti problemi di gestione del sentimento “collera”. Ma essa davvero può essere energia vitale che diventa capacità di amore, diventa sincerità di relazione. Allora il punto importante è dire subito alla persona la propria collera e il motivo che la ha scatenata, ad esempio “tu hai detto queste cose, hai fatto queste cose... sono veramente arrabbiato perché non hai reso giustizia alla verità, non sei stato corretto ecc.”. Ma se incomincio a dire “tu sei un...” io, da ciò che l’altro ha detto o fatto, passo a demonizzare l’altro e pensare in pratica “tutta la tua persona non vale niente”: questo è il grave rischio della collera. D’altra parte se non manifestiamo la collera essa sedimenta in odio, che è capace di fare a sangue freddo quello che la collera sarebbe capace di fare solo a caldo in un’esplosione. 6. LA MORTE – Uno dei presenti, a proposito di una crisi che però non scaturiva dalla morte di una persona, scrive nel suo foglio: “La prima crisi che ho avuto è stata la più cruenta, la più dura. Ricordo ancora tre giorni in particolare in cui mi sentivo sull’orlo della disperazione. La vita e il mondo, l’esistere erano per me privi di senso. La vita mi sembrava una condanna. La sola cosa che mi ha fatto andare avanti è stata la convinzione che se Dio mi ha creato allora ci doveva essere una possibilità di vivere felice, in armonia con me stesso e con il mondo, una possibilità di realizzarmi. Senza questo lumicino di fronte a me la sola alternativa sarebbe stata il suicidio” Una delle reazioni possibili di fronte a una forte crisi è il vedere nero dappertutto, finché l’ombra di morte si stende su tutto. Ciò che prima ci dava gioia diviene improvvisamente insensato. Noi possiamo fare esperienza di morte già solo con la “mutilazione” di qualche parte di cui noi siamo, ad esempio il riconoscere potenzialità perdute; ma l’esperienza della morte vera e propria possiamo farla ovviamente solo di una persona cara, ma che indirettamente comporta anche delle “morti minori” che riguardano parti di noi. Infatti l’amore crea un legame con l’altro, la morte distrugge tale legame, che per noi però è vitale, ci definisce e riguarda il chi noi siamo, e così la morte dell’altro che amiamo diventa anche per noi una morte, essa diventa una realtà onni-avvolgente, perché muore anche qualche cosa di noi. Emerge così una tentazione molto sottile: noi siamo sopravvissuti, mentre l’altro che amavamo è morto, e con un senso di colpa possiamo tendere ad impedirci la vita; e non è giusto. Assumiamo uno sguardo che veramente vede la morte ovunque. Sant’Agostino in riferimento alla morte di un amico dice: “Io stesso ero diventato per me un grande interrogativo. Tutto ciò che vedevo era morte, la mia patria era diventata un tormento, la casa paterna si era trasformata in indicibile infelicità. Tutto ciò che avevo condiviso con lui, senza di lui si era trasformato in strazio immane” Quando muore qualcuno con cui condividevamo la casa, quelle mura che prima ci trasmettevano gioia e felicità a un certo punto ci trasmettono un senso di angoscia e vuoto. È come se anche le pareti fossero abituate a quella presenza. È l’intensità dell’amore per la persona che ci fa conoscere qualcosa della morte. Prosegue Sant’Agostino: “Quanto più lo amavo, tanto più odiavo e temevo la morte, nemica crudelissima che me lo aveva tolto” Il filosofo Gabriel Marcel, il cui pensiero è stato determinato dalla morte della madre quando era ancora bambino, afferma:
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“Ciò che conta non è la morte di un altro qualsiasi, ma la morte di coloro che amiamo. Il problema, forse l’unico problema essenziale, è posto dal conflitto di amore e morte.” Noi conosciamo e patiamo qualcosa della morte a misura del nostro amore per quella persona che poi muore. Ma la morte è anche ciò che pone in crisi gli amori che viviamo, ha il potere di troncarli dall’oggi al domani. Se siamo onesti di fronte a domande tipo “cos’è che dà senso alla mia vita? Cosa ci sto a fare?” normalmente arriviamo a scoprire che la qualità della relazione è la qualità dell’amore che viviamo. E visto che vita è relazione, l’amore è ciò che illumina e dà senso alla vita. Addirittura l’amore è ciò che porta a considerare la vita dell’altro più importante della mia stessa vita, fino a rendere possibile e addirittura logico il morire per l’altro. È l’amore che sa integrare in sé vita e morte. Le esperienze di morte, o meglio tutte le esperienze di crisi descritte nei fogli, se sono affrontate, se abbiamo il coraggio di dimorare in esse, di lasciarci lavorare dalla crisi e di lavorare la crisi, esse ci fanno entrare in una perdita o in una morte ma se ne esce vagliati ma con maggiore capacità di amare, e questo è veramente l’unico risultato essenziale. L’amore ci fa sentire nemica la morte, ma è l’amore stesso che ci può portare a sentire la morte stessa come un’amica. Notiamo infatti che parlando di crisi e morte e sofferenza e dolore siamo arrivati poi a parlare di vita e amore, cioè abbiamo penetrato il tesoro più prezioso dell’esistenza, proprio grazie alla forza delle crisi stesse. Che sia una crisi grande o piccola, è sempre importante assumerla come una parola rivolta a noi. Da questo punto di vista la morte è una specie di “parola originaria”. Dare spazio alla morte, riflettere su essa e accettare che ci lavori, fa di noi degli esseri che si interrogano per dare un senso alla vita. Dietro alla domanda sulla morte subito ci sono la domanda su Dio e sul senso che noi diamo alla vita. Alla fin fine la crisi grave, che ci pone di fronte la morte di qualcuno, ci ricorda che il “caso serio” della vita è la morte. D’altra parte tutti siamo d’accordo sul dire che nella vita è importante amare e lasciarsi amare, ma spesso questa consapevolezza deriva dalle esperienze della vita, il più delle volte proprio le esperienze gravemente critiche. Cosa si può fare per elaborare la morte? La prima cosa che viene da dire è tacere. Ascoltare il silenzio significa anche ascoltare la memoria, far rivivere l’altro che amavamo e non c’è più, e dunque significa imparare a dar senso alla vita ascoltando e facendo memoria di chi è morto. Questo è un miracolo seppure dolente e pieno di lacrime: quelli che sono morti, e morendo hanno trascinato nella morte qualcosa di noi, ritrovano vita in noi, rivivono in noi, e ci guidano a conoscer noi stessi e a trovare l’essenziale, il centro della nostra vita. Ci insegnano a vivere mostrandoci che il senso della vita è nell’amore, ciò che rimane sempre, ciò che ci fa vivere e risorgere quando cadiamo in quelle morti che sono l’angoscia, l’isolamento, la tristezza. Una bella poesia di Rilke dice: “Concedi Signore a ciascuno la sua morte, il morire che fiorì da quella vita, in cui ciascuno trovava amore, senso e sofferenza.” Purtroppo spesso non avviene così, spesso la morte che uno incontra non è il frutto della vita che egli aveva vissuto, non è in continuità. Quante morti assurde, insensate o peggio banali, o in aperta contraddizione con ciò che uno ha vissuto. Il problema serio è se la vita, tutto ciò che è stato vissuto è stato sotto l’insegna dell’amore. Questo è l’essenziale; allora si delinea una continuità sostanziale, tra l’Amore di Dio che ci ha amati, il nostro amore con cui abbiamo amato gli altri, l’amore con cui gli altri hanno amato noi. La forma della morte è quella che ci da maggiore sofferenza, anche per anni; morti tragiche, orrende, cruente, sofferenti; ma a prescindere dalla forma della morte, la continuità si gioca in quell’amore. Questo è il ruolo di chi rimane: imparare la lezione dell’amore. Non abbiamo il diritto di dare le dimissioni dalla vita, né tanto meno il diritto di colpevolizzarci perché siamo rimasti in vita. Questi sono i sentimenti più diffusi ad esempio nei sopravvissuti di Auschwitz, e spesso sono stati necessari decenni perché essi raccontassero la loro esperienza di sopravvivenza, quasi come se per loro ci fossero voluti tanti anni per ritornare a vivere. Tutto quello che abbiamo detto avviene quando cerchiamo di arrivare al cuore di noi stessi, ovvero a una certa conoscenza di noi stessi, quando ci interroghiamo, riflettiamo. In questo cammino, di penetrazione di noi stessi, che molti dei presenti hanno individuato come l’esito delle loro crisi, ciò che è più salvifico è che si arrivi a vedere, riconoscere ed accettare le negatività, le zone oscure, d’ombra, le debolezze e fragilità che sicuramente sono in tutti noi. Guai a me, se per dare un’immagine bella e positiva di me agli altri nascondessi e non lasciassi emergere questo fango che avverto in me stesso, se io non dessi nome alle fragilità a livello affettivo, sessuale, morale, psicologico. Se io faccio finta che non ci siano, ciò significa che
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la vita si incaricherà di far esplodere queste contraddizioni che ci sono in me. È importante scoprire (sia individuare che alle volte esporre) la propria feribilità, anche se questa è un’esperienza di morte e perdita. È riconoscere che “io sono anche questo, in me c’è anche questa fragilità”. Questo è vitale nel discernimento della propria vocazione, perché prima ancora è conoscere chi sono veramente, e perciò quale può essere lo stato di vita in cui io realizzo me stesso, perché può succedere che nella vocazione inseguo un mio ideale che non ha nulla a che fare con ciò che io sono in realtà. Può essere l’io che mi ha inculcato la chiesa, la famiglia, che in qualche modo ho assunto come doverosa realizzazione di me; ma se non faccio i conti con chi sono realmente, rischio di giocare la mia vita in un modo sbagliato, addirittura buttarla via nonostante le nobilissime intenzioni a causa di un’inconsapevolezza che è colpevole. A volte nel cammino della decisione, della scelta del proprio stato di vita, accade che si insegua un ideale trascurando ciò che realmente siamo. È fondamentale invece rendersi conto di quali siano le reali potenzialità ed impotenze. Se una persona ad esempio sceglie la vita religiosa e poi scopre segretamente di sognare tutti i giorni una famiglia con tanti figli, è ragionevole pensare che c’è stato un cattivo discernimento, e questa persona si rende conto drammaticamente di non aver scelto la sua vita, con profonda sofferenza umana. A volte capita di perseguire un ideale di sé che sembra doveroso, cosa frequente quando in famiglia i genitori hanno inculcato il dovere di realizzare sé stesso al meglio, e ciò proietta nella persona il dover essere all’altezza di... questa persona spesso non ha autonomia, dà peso al giudizio degli altri e facilmente si sentirà frustrato, fallendo sé stesso: inseguendo un qualcosa “da fare” smarrisce sé stesso e il proprio desiderio. Percepire la povertà che mi abita, le lacune ecc. e assumere tutte queste cose porta ad aderire a fondo alla realtà che io sono, quella realtà creata da Dio: Ovviamente questo lavorìo personale il più delle volte è critico nel senso che infrange quell’icona aureolata di me che mi ero creato, che volevo propinare agli altri, ma così mi restituisce a me stesso e alla verità della mia esistenza. Quando si esce dalla menzogna, fatta di meccanismi come la paura di cui non si è capaci di diventare padrone, quando si vede sé stesso in modo realistico, è il primo passo per entrare nella strada della felicità, della contentezza e soddisfazione di sé stessi, amico della mia vita e non di vite altrui o di vite che altri hanno sognato per me. Lo scopo di questo conoscenza personale deve essere uno: osare me stesso, vivere in prima persona. Una bella testimonianza di uno dei presenti dice: “La mia crisi è iniziata a circa 20 anni. Mi sono catapultato per presunto amore in un mondo fatto di formalismo, di vanità, intellettualismo e rifiuto della fede, tutto ciò che non apparteneva al mio mondo. Abbagliato dall’innamoramento mi sono alienato e per più di un anno ho imitato altre persone, ma il mio corpo e la mia mente rigettavano tutto questo. Le conseguenze di questo andare oltre i miei limiti sono state devastanti, perché il mio modo di vivere era stato capovolto, umiliato. Ero in una tale confusione da non riuscire a capire il perché di questa crisi, quindi confusione nella confusione” Un’altra dice: “Una grossa crisi, che è durata due anni, ha assunto i connotati di tormento pressoché continuo. Ho notato che il meccanismo principale consisteva nel definirmi un ruolo, idealizzarlo e poi distruggerlo: l’illusione cedeva il passo alla delusione, e la consapevolezza di questo processo mi faceva sentire stupida e triste. Mi sono data tante definizioni cercando di fondermi con esse, e non riuscivo a propormi in modo semplice. E allora io ero quella che studia tal materia, io ero quella che non è mai pigra, sempre attiva ecc.” Chi arriva a dire queste cose è uno che ha fatto del cammino interiore, si è reso conto che noi possiamo ingannarci, e ha affrontato l’umiliazione che da ciò può venire. C’è molta verità infatti in chi ammette di aver sbagliato, e allo stesso modo c’è ipocrisia o addirittura miseria in chi non è capace di vedere i propri errori. Questo tipo di crisi viene dall’autoinganno, dal non aver osato sé stesso, di avervi abdicato, o di essersi dato delle definizioni fittizie come “io sono definito da questo atteggiamento”, mentre io invece sono infinitamente di più. Questa è difficoltà a vivere in prima persona. Ma tutte le crisi, tutte quelle che per esempio sono state confidate dai presenti, se ascoltate cercano di condurci a vivere in prima persona, avendo il coraggio di noi stessi. Chi pensa di non illudersi, chi è mosso sempre da certezze, sicurezze, forse è uno che si sta pericolosamente illudendo. Possiamo essere certi che i nostri maestri più illuminanti sono gli errori, gli sbagli, quando non li temiamo. Sicuramente gli errori giovanili sono lì per insegnare e costruirci. Il peccato stesso è esperienza critica, perché non è solo ciò che infrange una legge divine, che lede la fedeltà a Dio e agli altri, ma è anche momento decisivo della nostra esperienza di Dio, perché solo
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quando ci riconosciamo peccatori possiamo fare esperienza della misericordia di Dio; questo ovviamente solo quando si riconosce il peccato e lucidamente, onestamente gli si dà nome. Inoltre si genera da questo una maggiore capacità di solidarietà, di condivisione, di carità, perché se metto a frutto l’esperienza del mio peccato sicuramente sarò più vicino a chi è nella tentazione e molto probabilmente saprò aiutarlo. Paolo a proposito dice in Rm 8,28: “Tutto coopera al bene di coloro che amano Dio.” Addirittura questo è vero anche per il peccato quando noi non facciamo di esso qualcosa che ci scombussola, ci devasta, ma se sappiamo immetterlo nella relazione con Dio illuminandolo della sua luce, che non è mai solo una luce di giudizio e basta, ma giudizio all’interno nell’amore: giudizio per ciò che è stato commesso, ma amore per chi l’ha commesso. Nell’ultima testimonianza riportata si è parlato di illusione. Per fuggirla siamo chiamati ad aderire al principio “realtà”. Nella Bibbia l’idolatria è illusione, è sostituire l’immagine alla realtà. Spesso ciò che ci porta ad aderire alla realtà e alla propria verità è l’accettare le critiche che ci vengono poste. Rifiutare di dare peso alle critiche di altre persone corre di pari passo al rimuovere le crisi che viviamo in prima persona, entrambi modi di rifiutare l’essere messi in discussione nella nostra immagine di noi stessi. L’accettare le critiche è importantissimo per conoscersi e per smascherare le illusioni perché sono la concretizzazione della verità che per conoscere realmente noi stessi abbiamo bisogno degli altri. Specialmente un rapporto stridente, attriti con gli altri, specialmente con persone che abbiamo molto amato ci gettano nella crisi lacerante, costringendoci ad interrogarci a fondo su noi stessi. Se i rapporti sono sempre liscissimi, paradisiaci, nessuno ha alcun motivi di spingere in fondo la propria conoscenza; al contrario forse proprio ai nemici dobbiamo essere riconoscenti di questo “regalo”, aiutarmi a svelare chi sono io. Inoltre se non si passa attraverso questo non si arriverà mai ad amare il nemico (se mai ci si arriverà!). Altra cosa utile per smascherare le illusioni è l’umiltà, dal momento che è evidente che non siamo onnipotenti, ma pare che a molte persone risulti difficile convincersene intimamente. Umiltà è essere aperti a tutte le lezioni che ci possono venire dalla vita e dagli altri, soprattutto le batoste. Un ambito delicatissimo su cui si abbattono le crisi è quello dell’affettività. I presenti spesso hanno raccontato di “fine di un rapporto in cui credevo”, “essere stata lasciata dal mio ragazzo”; una ragazza scrive: “Io che mi sentivo forte, inattaccabile, con un futuro già delineato... adesso tocca a me la crisi. Sono stata colpita proprio lì, la persona che amavo mi ha lasciato togliendomi un po’ di terra da sotto ai piedi, un po’ per volta. Tutto quello che avevo costruito ora si rivela falso: false le promesse fatte, false le parole scambiate, i giorni passati insieme. Sono entrata in una distruzione, un po’ per volta, lasciata sola con in faccia tutti i miei difetti ingigantiti.” Qualcun altro scrive: “La crisi è iniziata quando si sono rotti i contatti con la persona a cui volevo particolarmente bene. La mia crisi è legata alla fine di una storia sentimentale importante” Qui c’è veramente un grosso tasso di sofferenza per qualcosa che ci colpisce in profondità. Questo perché quando noi affrontiamo la sfera affettiva e la sfera sessuale, noi entriamo in contatto con il nostro mistero più profondo. Anche chi fa una scelta di celibato non la può fare solo in base a delle sublimazioni; ad esempio pensare che quello sia lo stato più perfetto e “doveroso” solo perché vissuto da Gesù è un grosso autoinganno. Il corpo non si lascia congedare con un bluff, dall’oggi al domani. Entrare nel celibato come verità della propria corporeità, affettività, è un cammino lungo che esige un discernimento chiaro, netto alle origini. Anche la vita celibataria non è una vita senza affetti, certo è una vita in cui uno non si coniuga, perché questo risponde a una sua verità: capisce che la sua creaturalità può dilatarsi nell’amore in quella forma di vita. C’è ancora affermato sui sacri testi e sulla teologia che la vita celibataria è superiore a quella matrimoniale, ma il problema serio è che sono due forme diverse, complementari, segno dell’unica realtà del regno, realtà davvero significativa. Anche nell’Antico Testamento l’unione nuziale è sempre stata lodata, innalzata come vero simbolo dell’unione fra Dio e il suo popolo, tra Cristo e la Chiesa. Affrontare la sfera affettiva è affrontare ciò in cui siamo più feribili, di chi abbiamo più difficoltà a parlare. Queste testimonianze sono occasione di una riflessione: questa della testimonianza è una strada di comunicazione sì mediata da uno scritto anonimo, ma di grande coraggio (oltre che di grande utilità per lo
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sviluppo del corso), un atto in cui si espongono cose personali, un modo fondamentale di crescita, si autodeterminazione, per “prendere in mano sé stesso”. È già iniziare a osare sé stessi, di cui parlavamo prima. E lo è ancora più fortemente se la persona decide di confidare le stesse cose ad esempio ad un amico. Il poter parlare delle cose è sempre motivo di crescita, soprattutto nell’ambito dell’affettività, e poi anche nell’ambito della sessualità, che se non viene parlata diventa animale. Al contrario la sessualità umana, a differenza di quelle animali, resta umana solo se inserita in un contesto di dialogo, di relazione. Il dramma di persone che hanno subito abusi, incesti da piccoli è che il bambino non ha parole per dire quello che gli avviene; a meno che l’orrido che è avvenuto non venga raccontato, i traumi vengono portati fino alla morte, circondati di infiniti sensi di colpa, o peggio si arriva a ripetere ciò che si è subito, e si è vittima due volte. Ricordiamo che le crisi in ambito affettivo vanno lette non come cataclismi che irrompono, ma come tappe importantissime di un cammino di conoscenza di sé, o addirittura possono essere visti come momenti preziosi, occasioni offerteci per conoscere noi stessi, da cui si esce con maggiore pregnanza, senso, crescita. Queste situazioni critiche emergono più facilmente quando si è a contatto con l’altra persona, ed è proprio il vivere insieme una componente essenziale di un rapporto, oltre all’amore, visto che le due cose non necessariamente sono legate. L’amore deve essere accompagnato da un faticoso cammino di conoscenza e addirittura di discernimento dell’altro. Un rapporto poi deve essere alla “pari”, anzi addirittura il rapporto non cresce proprio, quando uno sfrutta l’altra persona come “salvagente”, scoglio per naufragare, producendo ben presto una reazione di insopportabilità. Poi la relazione non deve essere fusione con l’altro, altrimenti sarebbe un far rivivere il mio dell’androgino originario, trovato ad esempio in Platone e altre culture: anche la vita di coppia ha bisogno di spazi di silenzio e solitudine, è grave quando “i due diventano uno solo”. A tal proposito leggiamo un brano: “La maggior parte dei matrimoni falliscono a motivo dell’insopportabilità dell’alterità l’un dell’altro. I due volevano essere un unico spirito, un'unica cosa, volevano dirsi tutto, condividere gli stessi gusti, mettere in comune gli amici, credevano di pensare la stessa cosa, parlavano dicendo <<noi>>, arrivavano a rassomigliarsi fisicamente, non si lasciavano mai, camminavano mano nella mano. E poi un giorno di fronte a una frase detta con un certo tono, di fronte ad un battito delle ciglia, l’altro si rivela ciò che è sempre stato: vivente, imprevedibile, diverso. Altro.” A volte abbiamo pensato di conoscere una persona quando in effetti conoscevamo di essa la nostra immagine, ma arriva il momento in cui l’altro si dimostra irriducibile alle mie immagini. Per fortuna non è possibile realmente la fusione: l’altro è e resta altro da me. Invece in altre coppie può succedere che uno ha assorbito l’altro imponendogli la propria personalità, la complicità è diventata prigionia, l’intimità si è confusa con una permanente intrusione. Della relazione amorosa fanno parte anche i conflitti, e questo beneficamente ce lo insegnano gli insuccessi giovanili in amore. Impariamo che la crisi non è la fine di tutto, ma è qualcosa che va gestito. La vita di relazione e amore avviene quando non si elimina ma si salvaguarda la solitudine e la libertà interiore dell’altro. Ne Il profeta, di Kahlil Gibran, si dice: “Amatevi l’uno con l’altra, ma non fatene una prigione d’amore. Piuttosto vi sia tra le rive delle vostre anime un moto di mare, riempitevi a vicenda le coppe, ma non bevete da una sola coppa. Datevi cibo a vicenda, ma non mangiate dello stesso pane. Cantate e danzate insieme, siate lieti, ma ognuno di voi sappia essere solo, come sole sono le corde del liuto sebbene vibrino di una musica uguale. Datevi il cuore, ma ognuno non sia rifugio all’altro, poiché soltanto la mano della vita può contenere i vostri cuori. Ergetevi insieme, ma non troppo vicini, poiché il tempio ha colonne distanti, e la quercia e il cipresso non crescono l’uno all’ombra dell’altro” 7. L’AMORE – L’INTERIORITA’ La gioventù è sicuramente una fase di continua conoscenza di sé e delle potenzialità della propria relazione, questo cammino si compone sempre di amori che più che storie sono vicende e di loro rotture, è un tempo di “apprendistato”, e anche di miraggi e illusioni che noi stessi riversiamo sull’amore. Pensiamo solo al mito di Narciso, che ben si può confrontare con un’idea sbagliata del rapporto a due, quando nell’altro io cerco lo specchio di me stesso. “Chi è altro per me? Lo assumo nella sua alterità e diversità per cui è irriducibile a me?”. In un rapporto si rischia sempre la fusione di “annullamento reciproco”, o l’assorbimento di uno dei due da parte dell’altro, con aggressività da una parte e passività dall’altro. Inoltre bisogna
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verificare se si ricorda che la coppia vive non di per sé stesa, non è “autosufficiente”, ma se come le singole persone è calata e dipendente da un contesto molteplice: sociale, politico, del paese o della città, allargato alla vita familiare, di relazione con “terzi” come gli amici che restano sempre irrinunciabili. Dimenticando questa necessarietà di un contesto è probabile che il rapporto a due scivoli in una costrizione infernale, incatenante, paralizzante, che crea isolamento. È importante al contrario per la sanità di ogni rapporto affettivo il non chiudersi nell’idilliaco specchiarsi l’un l’altro. Altrimenti la relazione è destinata a morire di soffocamento. Una donna prossima alla separazione dal marito confessò che ne provava ormai insopportabilità ed irritazione addirittura dal solo sentire il rumore quando egli succhiava il brodo dal cucchiaio! L’amore ha bisogno di realtà, per arginare i miti che continuamente vi proiettiamo. Ha scritto Simone Weil, L’ombra e la grazia “Che cosa vi è di più atroce del giorno in cui ci si rende conto di amare un essere immaginario attraverso un’apparenza corporea? È molto più atroce della morte, perché la morte non impedisce all’amato di essere stato” Pensiamo quando tragicamente ciò avviene dopo anni di matrimonio, causando una repentina rottura del rapporto, totale e inconciliabile; sia arriva a chiedersi “Ma chi ho amato?Ho conosciuto la persona che amavo?”. Quando due persone che si amavano si deludono è probabile che ciascuno dei due ha amato sé stesso nell’altro. Solo la prova di riconoscere l’alterità sa smascherare questi problemi. Una situazione ugualmente fragile e illusoria è l’avventura amorosa in cui ci si getta con tanto ardore e grandi aspettative, ma senza dare delle basi solide a quest’amore, per esempio convinti della fatalità dell’innamoramento e del fatto che sia sufficiente che esso sia stato molto intenso. Possiamo ripensare alla leggenda di Tristano e Isotta, inevitabilmente e fatalmente innamorati a causa di un filtro d’amore. Nessuno demonizza il colpo di fulmine, ma poi l’amore deve crescere come relazione diventando una storia, fatta di quotidianità, e solo lì l’amore cessa di essere solo l’incanto e diventa concreto e reale, si passa dalla poesia alla prosa. Con questo cammino l’amore diventa ciò che di buono viene in mente a tutti quelli che pensano alla parola “amore”, e perde i suoi lati di ambiguità per cui può significare tutto il contrario di “amore”, aureo contenitore riempito di spazzature più diverse. Quando invece nella quotidianità l’amore diviene concreto, realtà, quando cresce ed evolve in storia, allora fioriscono sentimenti come la pazienza, il perdono, la capacità di aspettare i tempi dell’altro, sacrificio. Nell’innamoramento l’amore ci sceglie, ma dopo siamo noi che scegliamo di amare. Per mantenere sano un rapporto occorre custodire la distanza. Infatti Simone Weil continua: “Amare con purezza e intelligenza significa amare la distanza fra sé e la persona amata” Un’altra immagine sbagliata dell’amore è di un paradiso in cui la vita con l’altro mi strappa dalle miserie di questo mondo, luogo in cui intesa sessuale, comprensione reciproca, dedizione l’un l’altro crea la vera felicità. Ma questo è un mito e un illusione che denuncia il tentativo di fuga dalla realtà: non esistono luoghi senza conflitti, e neanche il rapporto d’amore è esente da tensioni. Una delle esperienze che ci mette in crisi è che siamo capaci di fare del male anche a delle persone che amiamo. Certo, a quel punto si tratta di riconoscere ciò e chiedere perdono, e nella misura in cui c’è un vero rapporto di amore ci si sforza a ricominciare assumendo che non siamo sempre capaci di amare, che l’amare è un compito di cui non sempre siamo all’altezza, che c’è in ballo possibile male provocato o ricevuto. Ma avere in sé quell’immagine idilliaca e mielata dell’amore che rende “ovattata” la vita è votare al fallimento ogni relazione che si comincia. L’ultimo mito che proiettiamo sull’amore è quello del “Don Giovanni”, della superficialità in amore, il rincorrere sempre la novità, nuove conquiste; inconsciamente è una fuga e un’evasione. È maldestro, sbarazzino, maleducato l’adagio che parla del matrimonio come “tomba dell’amore”. Per fuggire l’amore che diviene storia, legame, impegno, sacrificio ecc. cerco di vivere sempre il momento incipiente dell’amore, il nuovo, che mi consente di svolazzare dall’uno all’altro partner. Ma è ovvio che è un restare alla superficie dell’amore, riducendolo all’attimo fuggente, senza dargli la naturale durata. Oggi questa è una grande tentazione, visto che non sappiamo vivere la durata, dare del tempo alle cose che viviamo: la definitività ci fa paura, ci terrorizza una scelta per sempre; e non abbiamo gli elementi per compiere un passo, dire un sì che è definitivo e ci impegna fino alla morte, come il matrimonio ma anche la radicalità religiosa. L’essere posti di fronte a una tale scelta provoca molta ansia: diversi dei presenti hanno parlato del senso somatico della crisi come soffocamento, difficoltà di respiro. E siamo subito pronti a disertare. Ma può darsi che sia quella dell’impegno totalizzante la via per fare delle nostre vite dei capolavori relazionali. Forse
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aiuterebbe pure assimilare l’idea dell’amore come un “lavoro”, che ha un suo tirocinio, con la sua possibilità di sbagliare e trarre da ciò una crescita. Ma mai abbandonarsi all’idea della “fuga”, della leggerezza. Rilk parla dell’amore come qualcosa che impegna costantemente tutte le nostre fibre, come qualcosa di impegnativo e difficile. Ma chi dice che l’amore sia a nostra portata di mano? Non a caso ci sono persone che hanno difficoltà ad amare, che tendono a rifugiarsi in sé stessi, facendo della propria crisi rifugio in cui ci si getta e ci si nasconde. Le crisi però ci insegnano uno dei mestieri più difficili della vita: amare, e con intelligenza, restituendo alla parola “amore” tutta la sua grande dignità che ha, e facendola sfuggire ai degradi e impoverimenti che ha subito. Come uscire dalle crisi? Molti hanno parlato di interiorità. Ad esempio una ragazza scrive “L’uscita dalla crisi spesso non è stata facile da trovare e ancora adesso, nel bel mezzo di una crisi, non si riesce ad individuare la porta. L’unico passaggio obbligato, che potrebbe avere un senso, è guardarsi dentro, e poi attorno. ” Un altro dice: “Dalle crisi ho imparato a conoscere meglio me stesso e gli altri, a non idealizzare determinate persone e situazioni” La crisi, quasi con l’immagine della spia rossa che si accende, è associata al bisogno di guardarsi dentro e farvi chiarezza; fermarsi, fermare il corso degli eventi che rischia di prendermi e in cui rischio di “lasciarmi vivere” per fare mente locale, per fare ordine in me stesso. Finché si continua a correre non possiamo riflettere, non possiamo fare lavoro di memoria, profondità. Anche nella vita di tutti i giorni mentre stiamo ad esempio camminando, per ricordare o prendere una decisione istantanea sicuramente istintivamente ci fermiamo. In generale, dobbiamo rafforzare la capacità di stasi, di fermezza per lasciar emergere l’interiorità: capacità riflessiva, di pensare e ricordare. Molti legano l’uscita dalla crisi ad una maggiore conoscenza di sé. La crisi dà voce ad un esigenza che è già in ciascuna persona, ma che probabilmente è attivata solo nei momenti in cui si è più vacillanti. A quel punto sentiamo forte l’esigenza di un “pellegrinaggio interiore”, un viaggio in noi stessi. Così iniziamo a fare della crisi del materiale che elaboriamo per tirarne fuori qualcosa di importante per noi. Scrive una ragazza: “Quando mi sono resa conto di essere uscita dalla crisi, mi sono sentita come rinata, più forte, più salda, più vera. E mi sono accorta che ciò che mi ingabbiava e mi spaventava così tanto erano solo delle barriere che mi ero costruita da sola per proteggermi dalla sofferenza, dal distacco. Mi sono accorta che io ho dentro ciò che cercavo fuori” Noi non abbiamo molta coscienza di questi (potenti) meccanismi di autodifesa dalla sofferenza che noi stessi mettiamo in atto, perché essi risalgono alla nostra preistoria affettiva, alla nostra infanzia, dove già scattarono dei meccanismi contro le sofferenze vissute allora. L’intuizione profondissima e vitale di chi ha scritto quella testimonianza è che io ho in me le risorse per farcela, per uscire dalla crisi. Il viaggio non è al di fuori, ma al di dentro, e sicuramente è il viaggio più lungo e faticoso. Questo perché di fronte alla crisi siamo invasi dalla paura. Paura di soffrire: “La mia tentazione nelle crisi è di fuggire, di evitare i problemi” Paura di soffrire ma anche desiderio di affrontare qualcosa che pure si teme: “Di fronte alla crisi provo un grande desiderio di fuggire, ma dall’altra sento un bisogno di affrontarla di petto per lanciare una nuova sfida a me stessa” Quello che ci viene chiesto è proprio il coraggio, ma noi abbiamo molta paura di questo viaggio alla radice della crisi, ma che alla fine è un viaggio alla radice di noi stessi. Ha scritto Pascal: “Noi siamo pieni di cose che ci gettano al di fuori di noi stessi” Ed è sempre questo il rischio, cioè di proiettarci al di fuori, terrorizzati da ciò che possiamo scoprire in noi e nel nostro cuore. Ci sono persone che sono professionalmente dei geni, che fanno delle carriere
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straordinarie, che comandano a migliaia di persone, che mostrano una forza strepitosa all’esterno, ma spesso a livello interiore e psichico sono dei lattanti, delle nullità. Strana simbiosi di genialità e cretinità! È molto più forte una persona che affronta le proprie magagne, che scava la propria interiorità fino in fondo, rispetto a un capo che porta avanti un’azienda. Molto più difficile diventare padrone di sé stessi che esercitare un comando su altre persone. La vita interiore a cui ci spinge la crisi esige coraggio. Viaggio interiore con coraggio, quello sì che ci porta ad una trasformazione, a scoprirci, e scoprire i tesori nascosti proprio laddove sentiamo di avere confusione, dove le emozioni tumultuano e non sappiamo metterci ordine. I “gorghi interiori” sono preziosissimi indicatori che ci conducono ai tesori che vi si nascondono: scoprire chi noi siamo e le nostre potenzialità. Gli stessi presenti hanno scritto che è necessario che ci si interroghi e ci si ponga delle domande, si rifletta e pensi: “Ho imparato spesso e volentieri che l’uomo si lamenta di ciò che non può e non vuole cambiare di sé.” “La crisi mi ha permesso di interrogarmi su alcuni aspetti della vita che stavo trascurando, dandomi così l’opportunità di crescere” “Dalla crisi si arriva ad imparare ad attribuire il giusto valore alle cose che si vivono” Capiamo bene adesso cosa vuol dire che la crisi mi parla, mi sveglia, ha un messaggio per me. Il rischio è l’intontimento, cadere nella piattezza di chi non si lascia più ferire dalle cose, dalle situazioni, dalla realtà. Se dico di sì alla crisi, se decido di trattarla da amica, allora essa può diventare maestra per me, e mi fa operare davvero un passaggio da uno stato di sonno a uno di veglia, dall’intontimento a maggiore acutezza, lucidità e intelligenza. Fa diventare vigilanti e questa vigilanza molto spesso viene indicata nel Vangelo. Si tratta di lasciarsi abitare da quella domanda che la crisi è. Ripetiamo ancora una volta che l’essenziale di una crisi è il non tentare di fuggirla ma il permettere di esserne attraversati, e accettare di abitarvi perché dia frutto. Ripetiamo anche che le tentazioni sono sempre le stesse: rimuovere, passare al lato, far finta di niente, camuffare; oppure reagire smodatamente, perdere la testa lasciandosi sconvolgere e devastare. Tra questi due opposti la via mediana è quella sana di abitare nel mezzo della tempesta, di chi fa esercizio della biblica “ipomonè”, la perseveranza, letteralmente il “rimanere sotto”, sotto i colpi della vita, certi che se si fanno delle scelte proprio in quei momenti lì si fanno delle scelte sbagliate, e c’è da rimanere perché la crisi faccia il suo ruolo di spoliazione, purificazione, vaglio, faccia passare via tante scorie che abbiamo accumulato per lasciarci tra le mani “SOLO” il cuore, l’essenziale, ciò che veramente è centrale nella vita. La crisi è il migliore allenamento alla pazienza, alla perseveranza, all’arte della durata. Come Giobbe, bisogna sedere e rimanere nella tempesta, mentre intanto si fa un viaggio profondissimo interiore rimanendo immobile. Questo è il viaggio della crisi. La crisi ci porta a ripensarci, a riadattarci alle nuove condizioni esistenziali, quindi ci costringe a crescere, a percepire così che alcune fasi della vita sono passate; non possiamo continuare a trascinare degli atteggiamenti che erano adatti ad altre fasi della vita in fasi della vita. Il più funzionale laboratorio un cui la crisi fa il suo lavoro positivo in noi è quando in questo fermarci accettiamo di restare un po’ in solitudine e silenzio. Nei fogli dei presenti raramente è saltato fuori il concetto di solitudine, se non caricato di significati negativi. Ma forse questo è perché non si fa molta distinzione tra la solitudine con tutte le sue valenze positive, e l’isolamento con le sue accezioni negative di abbandono e rigetto. Ma è quando noi siamo presenti a noi stessi che veniamo restituiti a noi stessi. Il più delle volte invece nelle situazioni quotidiane (certamente private di solitudine e silenzio) noi fuggiamo noi stessi, e un po’ alla volta siamo espropriati da noi stessi. Solo in silenzio e da soli veramente possiamo riuscire a riprendere in mano, a ricostruire l’esistenza che sembra sfuggirci nel fare tante cose. La mia esistenza mi viene ridonata. Così posso meditare su quello che faccio, quello che farò, e dunque dare un fondamento spirituale alla mia azione, dato che non possiamo essere delle persone che agiscono solo per un iperattivismo. Certo nella crisi si ha la voglia di stordirsi nell’iperattivismo, e di questo molte testimonianze parlavano. Molte persone si sentono vive solo se fanno molte cose, ma le tante occupazioni non danno voce alla sofferenza che hanno dentro, il dolore che le abitano, e per loro quest’effetto narcotizzante è un’azione benedetta, perché impedisce alla crisi di raggiungere la profondità del loro animo. È molto utile chiedersi se sentiamo il bisogno di momenti di solitudine e silenzio intesi in questa accezione positiva perché non sono fini a sé stesse, ma sono un tramite per una più piena presenza mia a me stesso e agli altri. La solitudine insegna maggiore comunione con gli altri. Il silenzio insegna ad avere una parola più sapiente, autorevole, comunicativa per gli altri, visto che io non sono tanto più una persona di relazione
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quanto più sono sempre, sempre, sempre in mezzo agli altri. Non sono tanto più comunicativo quanto più parlo con gli altri. Il problema è qualitativo. A volte una persona anche senza dire nulla, con la qualità del suo viso, del suo corpo, della sua presenza in mezzo agli altri è una presenza estremamente comunicativa e crea comunione. A volte poche parole soppesate, che nascono da un vissuto, restano impresse come se fossero state incise nell’ascoltatore. Il problema è la qualità che vogliamo dare alla nostra persona. Dobbiamo riconoscere infatti che per quanto dolorose siano, le crisi sono al servizio della qualità della nostra vita, della nostra persona. Ci trasformano in persone aderenti alla realtà e alla chiamata di Dio. Quando accetto di entrare nella solitudine e nel silenzio, io entro in contatto con la mia coscienza, giudice più severo di qualsiasi giudice esterno, e per questo è un momento di verità. La solitudine e il silenzio diventano luogo dello spirito, una fucina di trasformazione del nostro cuore. Lì noi ascoltiamo la nostra profondità, ascoltiamo il Dio che parla al nostro cuore, nel momento in cui accettiamo di andare a fondo della crisi, così troviamo luce nella tenebra, o meglio “luce della tenebra”, la luce che già vi è insita. Si tratta a dir poco di un’esperienza pasquale, su cui il cristianesimo ha davvero tanto da dire. Il buio della notte di Pasqua proprio questo ci ricorda, che la tenebra permane, non è stata magicamente dissolta da Cristo, ma è stata resa luogo in cui si accende un orientamento alle nostre vite. Lì veramente accediamo alle nostre verità interiori, e la crisi avrà fatto il suo lavoro positivo. Avremo scoperto ciò che di più autentico e vero c’è in noi. Concludiamo leggendo un testo di un mistico musulmano: “<> << Nelle tenebre. Se vuoi partire alla ricerca di questa fonte, mettiti i sandali e avanza nel cammino dell’abbandono confidente finché arriverai alla regione delle tenebre>> <> <> <<Ma che cosa segnala la zona delle tenebre?>> <>” È la luce della notte, è la luce delle tenebre, è quel potenziale di ricchezza, di verità e di bellezza che è proprio celato dietro alla negatività, nebbia, tenebra della crisi stessa. Esige un lavoro soprattutto interiore, ma anche relazionale, che senza ombra di dubbio è duro. 8. IL TEMPO – LA SCELTA Affrontiamo quattro punti (anche nel capitolo successivo) che sono emersi fortemente dalle testimonianze dei presenti, e cioè il crescere verso la maturità temporale (rapporto col tempo), crescita verso la capacità decisionale (libertà espressa nel proiettarsi coscientemente nella vita), relazione con l’altro (qualcuno che mi ascolta durante la crisi o che condivide gli stessi motivi di crisi), autostima 1)CRESCERE VERSO LA MATURITA’ TEMPORALE: “La crisi mi ha lasciato in una situazione di mancanza di progetti, un senso di inutilità di un domani talmente avvolto nella nebbia, non più illuminata dalla luce che mi sembrava che prima il Signore mettesse sui miei passi” “Fino a ieri stavo bene, adesso no. Vorrei cambiare tutto.” “La crisi è dovuta al fatto che delle scelte del passato ancora segnano il tempo presente” Ovvero una sorta di “passato che non passa”, che gettando la sua lunga ombra sul presente ci priva della libertà che vorremmo avere. “Avevo paura del giorno dopo”
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“Un primo passo che effettuo sempre per uscire dalla crisi, è quello di vagliarla con il tempo: se le crisi persistono a lungo significa che sono reali, altrimenti se dopo pochissimo tempo passano li ritengo semplici cambiamenti di stati d’animo. Un altro passo è sempre il confronto con il passato, il confronto con un'altra persona...” La crisi ci chiede di prendere coscienza del tempo, a volte anche dolorosamente, con un futuro che fa paura, un passato che ingabbia, un presente in cui non ci si sa muovere. È chiaro poi che è molto più acuta la coscienza del tempo da parte di una persona di 40 anni rispetto a una persona di 20 anni, ma è normale già da giovani che si prenda coscienza che la sostanza di cui la nostra vita è fatta è il tempo. Si tratta di fare della crisi un’occasione per crescere verso la maturità temporale. È un’operazione impegnativa e difficile quella di unificare il proprio passato, il proprio presente e il proprio futuro. Spesso così ci si rifugia in un immediato che dura, un presente che sembra non avere niente alle spalle, per darsi l’illusione di poter in ogni momento ricominciare da zero, da una verginialità ricreata ogni giorno. La paura del futuro infatti è tale che si resta ritirati sul presente, con il rischio di vivere di episodi e frammenti. I grandi miti, religioni dell’antichità ci mostrano il tempo divinizzato, Kronos che divora i suoi figli, divinità che ci distrugge. Spezzettare il tempo dà l’illusione di avere un dominio almeno su quei pezzettini di tempo, dal momento che si ha la sensazione che sul tempo come lungo arco di vita che va da una nascita a una morte il mio potere è davvero limitato. Proprio lì bisogna passare da un concezione del tempo come nemico da combattere all’accettazione serena del limite. La vita è tale solo se noi la assimiliamo con tutti i limiti che presenta, altrimenti è l’opposto, è evasione dalla vita stessa. Il rischio è vivere del momentaneo, dell’episodico, dell’occasionale, marciando senza direttrici, a casaccio. Eppure prima o poi si porrà il problema della nostra unificazione, del legame di coerenza fra tutto ciò che noi viviamo. Inoltre l’operazione della maturità temporale è oggi resa difficile dal modo in cui culturalmente viviamo il tempo. Per esempio sappiamo che il rapporto con il tempo dipende dal modo in cui ognuno coordina la propria sessualità, i propri impulsi sessuali. Il corpo è il libro del tempo, su cui esso lascia incisa la sua scrittura, e corporeità subito significa affettività e quindi sessualità. I modelli comportamentali odierni sul piano della sessualità incitano alla soddisfazione immediata della pulsione, al passaggio immediato all’atto, senza pensare che anche la sessualità è una dimensione da conoscere, assumere e lavorare, affinché la integriamo. Al contrario oggi molto spesso si vive lacerati, a brandelli, vivendo non il tempo ma gli incalzanti frammenti di tempo che abbiamo spezzettato; sicuramente così non si arriva ad integrare la pulsione sessuale all’interno della propria corporeità. E questo avviene sia che si arrivi a vivere una vita matrimoniale che una vita celibataria, dove in ogni caso c’è da fare tutto il lavoro di presa di coscienza del proprio corpo sessuato, per poter vivere la castità come tensione di liberazione e soprattutto come “no” radicale all’incesto; nella vita matrimoniale la castità significa tenere alto il rispetto dell’alterità per non fagocitare l’altra persona, per evitare la fusione. L’incesto invece provoca soprattutto la confusione: desiderio regressivo di ritorno nel seno materno, il calore affettivo della comunità monosessuata dove si manifesta l’istanza di omosessualità, il desiderio di coincidenza di con il proprio corpo che causa l’autoerotismo perdura nel tempo, ecc. C’è un rapporto molto stretto con l’assumere una maturità col rapporto con il tempo e il nostro assumere la nostra dimensione sessuale. L’incapacità di fare unità pare essere proprio una nota ricorrente della gioventù contemporanea. Notiamo che è sintomatico negli ultimi 15 anni il fiorire anche nel mondo cattolico del volontariato, esperienza con grandi positività indiscutibili ma che purtroppo è a termine. Periodi più o meno lunghi, ma comunque in cui il tempo è dominabile perché è già prevista una fine: infatti in genere l’idea di estendere il volontariato a tutta la vita intendendolo come scelta di un modello di vita radicale mette angoscia, e così quasi si fa un “contratto a tempo determinato”. Ritrovare l’amicizia con una vita che ci porta da una nascita a una morte con tempi che non sono affatto in nostro potere è una presa di coscienza importante, estremamente umanizzante. A tal proposito leggendo le testimonianze di carcerati condannati a morte ci convinciamo che la situazione più disumana e bestiale è conoscere il momento della propria esecuzione. All’interno di tutto questo il quotidiano diventa luogo di costante e sospesa attesa dell’evento straordinario, di qualcosa di eccezionale, invece di essere lo spazio in cui ognuno tesse con pazienza la propria essenza, anche nell’opacità dell’ordinario. Succede anche di vivere solo l’intensità di tipo emozionale, arrivando ad apprezzare esclusivamente le situazioni e gli eventi che provocano tutta una serie di emozioni, coinvolgentissime e profonde, piuttosto che la vita che si elabora e si fa nel tempo e tramite il tempo. Nella parola “faccia” c’è una radice della parola “fare”, questo perché il essa è “costruito dal tempo”, è ma soprattutto prodotta dalle nostre relazioni che avvengono proprio nel tempo. Guardando i modi in cui una persona compie delle azioni comuni come il mangiare o il camminare, si può riconoscere la particolare struttura temporale della persona, cioè il suo peculiare modo di comportarsi nei
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confronti del tempo; ha sviluppato più o meno coscientemente dei comportamenti che rivelano delle esperienze che ha accumulato e che lo portano ad esempio ad essere una persona lenta, come se avesse davanti a se millenni o l’eternità; persone a volte nevroticamente veloci, frenetiche e agitate; oppure persone che non sanno dare tempo alla riflessione, che non sanno fermarsi, spinte a fare e a correre, quasi in una quotidiana e stancante lotta contro il tempo. Dal modo di vivere il tempo si riflettono le paure , le angosce, le insicurezze, le immaturità e addirittura si svelano tracce della nostra preistoria affettiva. Sono molto diversi i modi di relazionarsi col tempo, già se si pensa che sicuramente l’uomo e la donna proprio nell’essere due strutture biologiche differente fisiologicamente scandiscono il tempo in maniera differente; in ogni caso per ogni persona è salutare analizzare il proprio rapporto con il tempo proprio facendo mente locale sugli atteggiamenti che caratterizzano le nostre azioni giornaliere e le nostre abitudini. Inoltre già a livello “macroscopico” della cultura e delle abitudini ci sono delle “patologie del tempo”, come l’accelerazione, la velocizzazione del nostro tempo: ci sentiamo tutti costretti a correre: i ritmi della vita lavorativa e sociale sono spesso a dir poco incalzanti, invivibili, addirittura non sono a misura umana! Corriamo come dei dannati per arrivare a scoprire che siamo sempre in ritardo! La grave distorsione che è alla base di questi atteggiamenti è l’idea estremamente materialista di valutare il tempo in base alla produttività: reputo non perso quel tempo in cui faccio, mi sento vivo quando produco delle cose. Ma qui sorge una domanda: per te cos’è il tempo? Ovviamente tralasciando le definizioni del tempo filosofiche o una visione esclusivamente religiosa possiamo definire il tempo come l’evento dell’incontro con un'altra persona. È il volto dell’altro che detta i ritmi del tempo; il tempo è evento (o possibilità) di relazione. Nello specifico il cristiano poi aggiunge che il tempo è un dono offerto da Dio, e dunque spazio dell’incontro con il Signore, incontro che avviene anche nell’incontro con altre persone. Possiamo ritenere secondo questo pensiero che il tempo non perso è quello in cui io incontro l’altro, mi lascio incontrare dall’altro, quel tempo in cui accetto di amare, soffrire, gioire con l’altro ovvero com-patire. Amare è stare attenti e rispettare il tempo (e i tempi) dell’altro, cosa per niente semplice. Per riappropriarci del nostro tempo possiamo tenere a mente alcuni pensieri: è sempre possibile ricominciare, quali che siano gli abissi in cui si è sprofondati. Neanche il male compiuto ha la forza di paralizzare il nostro futuro, e noi non dobbiamo dargliela tale forza! Possiamo comprendere quest’idea del tempo, che non è sbarrato come un tunnel chiuso, a partire dal perdono. Questo è un dono di gratuità secondo cui il male compiuto non può impedire la vita né la relazione, pertanto apre il futuro, ridona futuro a chi non ne aveva più, e così le situazioni più tenebrose e più chiuse possono rivedere la luce. Il cristiano che confessa al cuore della sua fede Cristo morto sulla croce, non di una qualunque morte (Fil 2,8), ma della morte più infame e indegna, la morte dello schiavo e del reietto, del bandito dalla società civile e religiosa, il cristiano che professa al cuore della sua fede il Cristo disceso negli inferi a portare anche lì la salvezza (1Pt 3,18-22), non può non credere che quali siano le crisi, gli inferni e le difficoltà in cui ci si trova c’è sempre futuro; e il perdono è la traduzione di questa forza della Resurrezione nell’oggi delle relazioni. L’amore è più forte della ferita che ha lacerato la relazione, è più forte del male, come la vita è più forte della morte. Gv 8,111, quando Gesù dice la famosa e usurata frase “chi è senza peccato scagli la prima pietra” ci indica tra l’altro un’altra categoria del peccato, e cioè il peccato conosciuto dagli altri e il peccato nascosto in un cuore, facendo capire che non è solo il primo tipo quello da vagliare, da cercare, ma molto probabilmente è presente in tutti il peccato “celato”, che rende ancora più assurda l’idea di condannare e giudicare un’altra persona. Ma oltre a questo, la cosa fondamentale è che Gesù ridona il futuro a chi realmente non ce l’aveva più, a chi era già sotto la presa della morte. Ma al pari dei miracoli ciò vuole essere simbolo di una verità vera per tutti: è sempre possibile ricominciare. Questo l’aveva sempre ben capito la vita monastica: Antonio, grande padre dei monaci, a chi gli domandava cosa facesse quotidianamente nella sua vita monastica rispondeva “ogni giorno io ricomincio”. È chiaro che di fronte alla realtà di un tempo che è grazia e possibilità, che è dono, c’è un tempo che costituisce un limite. E forse solo quando l’abbiamo assunto come limite possiamo cominciare a goderlo come dono! La felicità che siamo chiamati a vivere, che possiamo vivere non è nell’illimitatezza, anzi avviene proprio nella lucida e serena coscienza dei limiti. Se capiamo questo entriamo anche nell’idea della responsabilità: il tempo è sì un dono, ma un dono di cui io devo rispondere, che per farlo fruttificare devo assumerlo positivamente. Solo a questo punto possiamo entrare appieno nell’ambito della decisione, che l’ambito in cui si esercita la responsabilità e la libertà. 2) CRESCERE VERSO LA CAPACITA’ DECISIONALE Come scegliere? In base a cosa avere il coraggio di decidere, di porre dei gesti che esigono una fedeltà futura? Come esporsi alla prova della durata? Mai come oggi c’è stata la crisi della perseveranza, la crisi dei
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legami, della fedeltà. Non appena insorgono delle difficoltà si terminano tutti i progetti a lungo termine. L’assenza di legame come libertà è un’idea frequente ma distorta, ingenua, illusoria, veramente tipica del narcisismo onnipotente, dell’infante. Maturità al contrario è accettare il limite che è il tempo. Nell’etimologia della parola “decidere” c’è il termine latino che vuol dire “tagliare”, “recidere”. E di fatto quando scelgo una cosa sto dicendo di no ad altre possibilità, che muoiono. Sicuramente le decisione aprono delle nuove possibilità, ma il discorso è ancora lo stesso: a maggior ragione le vecchie possibilità sono state recise. A volte le nostre paralisi decisionali riguardano il futuro, e più sottilmente alle volte si rifugge un futuro che può portare luce su di me e ciò mi fa paura, preferisco restare nell’ombra. D’altra parte è più difficile (o impegnativo) vedere ciò che c’è nel nostro cuore piuttosto che vedere angeli o altri miracoli. La paura di decidere denuncia la difficoltà di inscrivere la propria esistenza nella durata, con la paura della definitività. Ma ricordiamo un cosa sulla definitività, come può essere la scelta del sistema di vita come il matrimonio, il sacerdozio, il monachesimo. È sicuramente una scelta che è per sempre e ha una sua sensatezza solo nell’essere perseverante fino alla morte, ma non esclude una enorme gamma di inatteso, di novità e impensato, di gioie ed emozioni che si presentano proprio all’interno di tale definitività. L’essenziale allora è arrivare a un discernimento sul proprio cuore, un discernimento sul desiderio profondo che mi abita, che non è il desiderio piccolino di una cosa che mi attrae, ma è quel desiderio profondo che un cristiano dice che Dio stesso ha fatto abitare nel nostro cuore, quello che coincide con la realizzazione completa del mio essere, della mia unicità. Lì potrò arrivare a trovare la forza e il coraggio necessario per gettarmi in una situazione esistenziale impegnativa. Vi è chi ha definito la propria vita come caratterizzata da una ambivalenza e indecisione tra il desiderio di santificare la propria vita offrendola a Dio e il desiderio ad esempio di farsi una famiglia “La crisi è uno stato di incertezza. Mi angosciano le domande tipo <> Nella crisi ero ansioso di sapere se quella era la strada giusta tra le possibilità che si profilavano” “La crisi si è manifestata quando ho capito che ho messo i piedi su un terreno che non è il mio” È bene ricordare che nelle nostre scelte non è implicata solo la razionalità, non è sufficiente un esame logica asettico di pro e contro. Nel momento in cui io devo tenere conto di chi sono e chi non sono, entrano in gioco, come fattori importanti nel guidare le decisioni, il conoscere la propria emozionalità, elemento costitutivo di noi e quindi della nostra intelligenza di noi stessi. Ci sono dei saperi necessari per strutturarsi e vivere oggi, e tra questi saperi necessari spicca l’affettività, contrariamente all’idea comune secondo cui una scelta è sana solo se depurata dagli impulsi “irrazionali” e se vagliata esclusivamente dal ragionamento. Nemmeno ci si può affidare alla pratica “divinatoria” di ricercare il segno risolutore, che è un rifuggire la fatica e la responsabilità della scelta. Nella fede io potrò anche dare un senso a eventi o cose che avvengono, ma questo non sarà mai qualcosa di magico che ci esenta dal peso della scelta, quanto mai questo è vero per la scelta dello stato di vita. “Non penso che un uomo possa attraversare la vita senza imbattersi in momenti di crisi. La strada qui si biforca: affrontare la crisi o evitarla, ma non ci si accorge che già questo bivio è una crisi. Nelle molte volte in cui sono stato in crisi mi si presentava davanti un bivio con due o più strade, possibilità da imboccare, e la crisi andava avanti finché ero fermo davanti al bivio. Più ero fermo e indeciso, più la crisi andava avanti. Grazie a Dio però non sono mai caduto in periodi di immobilità troppo lunghi, di solito ne uscivo presto, ma finché c’ero dentro sembra che in ogni cosa da fare quella decisione, quel bivio mi si poneva davanti, e non riuscivo a stare tranquillo finché qualcuno non mi tirava fuori o la situazione si risolveva da sé o io prendessi una decisione, anche se questo, devo dire la verità, non è successo spesso. “Dalla crisi sono uscito in tre modi diversi: sedendomi di fronte al bivio per meglio comprenderlo e aspettando che la situazione si sbloccasse da sé; vedendo altri che prendevano una decisione al posto mio, o più raramente prendendomi le mie responsabilità e andando in una direzione con sempre però una forte paura di aver sbagliato qualcosa. Ricordo che uscendo da una crisi mi sono accorto di qualcosa di sbagliato di me e la crisi è stato il primo passo per uscire fuori e risolvere il problema”
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L’età tra 18 e 30 anni è già di per sé un lungo periodo di crisi, in cui la persona è non più adolescente, ma neanche adulta, perché non c’è ancora la piena assunzione di responsabilità sociali, ad esempio si sta ancora studiando all’università, o si è ancora in una fase di “tentativi” sentimentali in cui si prende e si lascia. Questa è ancora una fase di preparazione, e giace tra un “non più” ed un “non ancora”, perciò è un tempo di passaggio, sicuramente critico: è anche normale che molte cose vi appaiono “fisiologicamente” critiche. È un tempo segnato molto dall’incertezza, soprattutto circa il futuro e le scelte a lungo termine. Oggi le origini familiari non determinano più, come invece avveniva appena qualche decennio fa, le condizioni economiche e sociali. Questo è un bene perché è indice di molte più possibilità, e della possibilità di costruirsi una carriera da soli. Ma il rovescio della medaglia è proprio la responsabilità di questa “autodeterminazione” , che può costituire addirittura un peso schiacciante, col desiderio di qualcuno che pensi e decida al posto nostro. Bene, per arrivare a scegliere bisogna vagliare e sondare le proprie preferenze, con un serio lavoro di conoscenza di noi che deve farci entrare in contatto con chi noi siamo, per arrivare a dire “preferisco questa cosa piuttosto che un’altra” e seguire ciò che porta più gioia, realizzazione e significato. Bisogna dare nome al proprio desiderio profondo, lasciarlo emergere tutto senza averne paura. Spesso nei giovani c’è una assurda demonizzazione del proprio desiderio, con una vergogna in primo luogo a confessarlo a sé stesso. Un buon esercizio può essere “Tu come ti immagini felice? chiudi gli occhi e prova a immaginarti felice e lascia emergere le immagini che dicono la tua felicità”. Quasi sicuramente non ci verrà in mente il paradiso del godimento, che pare davvero a tutti essere un’illusione. Quest’esercizio invece cerca sempre di metterci in contatto con ciò che è più vero in noi. L’importante è non vivere la vita che altri ci fanno vivere. Troppe volte nel perseguire un cammino noi più o meno consciamente stiamo continuando a obbedire a un dovere, per esempio i desideri dei genitori. Molte persone che hanno ancora radicata la paura del giudizio seguono un cammino e fanno delle scelte perché esse fanno “piacere alle persone”. Hanno talmente zittito il loro desiderio che hanno smesso di ascoltarlo, o addirittura credono di non avere alcun desiderio profondo, vanno avanti riattivando il meccanismo di fare piacere agli altri, meccanismo tipicamente infantile ma che a volte perdura per molti anni producendo frustrazione. L’incertezza prende forma anche in un “dilazionare” la scelta, in un procrastinare le decisioni. Ad esempio si dilaziona l’uscita da casa opponendovi tante comodità e cose favorevoli del restare in famiglia, senza fare un passo fondamentale che invece sarebbe veramente notevole nell’acquisizione definitiva dell’autonomia. Ci sono giovani che “invecchiano” nell’università e ritardano l’ingresso nel mondo del lavoro tra precarietà lavorative e varie incertezze che poi sicuramente comportano timore e paura. Ecco, l’indecisione è quasi sempre sinonimo della crisi. Ippocrate il medico definiva crisi il frammezzo che sta fra vita e morte in cui si è chiamati a decidere, a “fare la diagnosi” per intraprendere un cammino di guarigione. Ci sono alcune patologie dell’indecisione. 1)Astensione: non decidere mi permette di continuare a sognare, a pensare a mille altre possibilità e realizzazioni di me, mi consente di non fare il lutto di tante possibilità che invece se scelgo muoiono. Ma ancora una volta è una paura di morte. 2)Attivismo: ovvero chi percepisce che una scelta bene o male la deve fare, che non si può astenere, perché “non scegliere è scegliere di non decidere”, e allora cerca di perdere il meno possibili. Così moltiplico le mie attività, corro di scelta in scelta in modo molto superficiale. Il carattere irreversibile della scelta, l’impegno della durata suscitano la paura della perdita, della morte, e allora mi rifiuto di fare LA decisione facendone mille, che alzano un polverone, moltiplicando tante di quelle cose per cui appaio come un decisionista, mentre invece sono solo uno che sta fuggendo da sé stesso. 3)Volontarismo: un motivo mi si deve pure imporre per fare una scelta, e allora agirò perché devo, in virtù di una legge che mi si impone. Ora a causa di questo dovere, che derivi dalla famiglia o dall’educazione cattolica o da qualunque altra parte, io agisco ma non sono responsabile, mi astengo dall’unico atto che veramente significherebbe la mia libertà e il mio volere quella scelta. Il motivo è che la legge o il dovere (che posso impormi anche da solo), non è capace di riunire attorno a sé tutte le nostre capacità e facoltà, per cui noi ci ritroveremmo disseccati e scissi da noi, e nuovamente dovremmo recuperare la fatica di entrare nella scelta. Quando ci troviamo a scegliere dovremmo uscire dall’angoscia che ci viene dal pensare che quella sia la scelta originaria che non ha nulla alle spalle. Qualunque scelta grande o piccola ha già una sua preistoria di scelte che abbiamo fatto precedentemente o prima ancora le scelte che i nostri genitori hanno fatto per noi. Ogni scelta ha un passato. Nelle nostre scelte poi dobbiamo sempre guardare al passato, tenendo conto di ciò che più ci ha dato gioia nel senso nobile di realizzazione personale nella relazione con gli altri, con il mondo e con Dio. “Quando la vita si è dispiegata in voi? Quando ha prodotto creatività e pienezza maggiori? Quando avete conosciuto la gioia? Quando invece le vostre azioni hanno conosciuto freddezza, tristezza, immobilità?” Con questi
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punti si può arrivare a incanalare la scelta futura e si arriva a “volere la propria scelta”. Si tratta sempre di rischiare, ma il rischio fa parte dell’avventura della vita. Quando in noi sentiamo che possiamo e vogliamo affrontare il rischio di quella decisione, allora siamo pronti per farlo. Non fare il passo che si avverte dare senso al nostro futuro è cedere a dei ricatti affettivi (anche non detti) è tradire noi stessi. Il rischio c’è sempre, sempre! Ma la scelta rischiosa, se fatta a partire dalla presa di coscienza di sé e di quello che è il desiderio, risulta essere una scelta buona, perché con quelle premesse anche il rischio è sensato. 9. IL RAPPORTO CON L’ALTRO – L’AUTOSTIMA Tornando sull’argomento scelta, apriamo una parentesi sulla Volontà di Dio. Cosa ci viene in mente quando pensiamo alla Volontà di Dio? Purtroppo è una di quelle espressioni che nel linguaggio e nella mentalità comuni sono abusate e distorte. Probabilmente ci viene in mente che è un qualcosa di già ben predefinito, che io devo scoprire un po’ come in una caccia al tesoro. Questa immagine è lontana dalla Volontà di Dio di cui ci parlano le Scritture, si tratterebbe di un’azione sadica di un Dio che gioca a nascondino. Invece è così naturale capire che (per definizione!!!) la Volontà di Dio è ciò che Dio vuole, e ciò che Dio vuole emerge chiaramente nella Bibbia, soprattutto nei Vangeli. Il Dio che ha creato l’uomo perché desiderava l’uomo, quel Dio vuole innanzitutto la libertà dell’uomo. Essa è minacciata dal modo di vivere del mondo, per da costitutiva dell’uomo rischia di diventare qualcosa di “accidentale”. Dio vuole l’umanizzazione: Egli ha affidato all’uomo il grande compito di diventare a fondo uomo. Ciò significa che il mio concreto discernere quale sia la Volontà di Dio su di me deve coinvolgere in ogni momento la mia libertà e responsabilità. E questo è ancora più necessario proprio nel momento della risposta alla Volontà di Dio. La scoperta della Volontà di Dio è non è la ricerca di un progetto prefissato, ma è un “evento spirituale”, che avviene quando io con la mia creaturalità, con quello che io sono a livello umano, psicologico, affettivo, quando io con le mie ricchezze e le mie povertà mi scontro con la radicalità del Vangelo. È da questo impetuoso incontro-scontro che può emergere che cosa il Signore voglia da me, o meglio emergerà la mia risposta (particolare) che posso dare a quella Volontà (generale) che è la vita umana secondo Cristo. La Volontà di Dio è la vita umana umanizzata che trova in Cristo la pienezza, che trova in Cristo l’Uomo per eccellenza: diventare uomini significa crescere alla statura di Cristo. Questo discorso ci fa uscire da certe visioni angoscianti ed oppressive della ricerca della Volontà di Dio come ansiosa scoperta di ciò che è già definito. Dio vuole che anche la mia volontà sia implicata in questo lavoro di discernimento. Nel rispondere io devo mettere in atto libertà e responsabilità, perché solo una tale risposta è degna di tale nome, altrimenti è una risposta di uno schiavo, o meglio non è neanche una risposta. Anche nella ricerca della vocazione è implicata la sinergia dello spirito dell’uomo con lo Spirito Santo, che concorrono a far emergere una risposta che è diversa per ciascuno di noi. Non nutriamo allora nessuna visione positivistica della Volontà di Dio come qualcosa che incombe dall’alto su di noi, ma come un’offerta di Dio che in Cristo e nell’Evangelo suscita la nostra libertà. Il discernimento necessita seriamente il lavoro di conoscenza di sé (della propria relazionalità, creaturalità, sessualità, affettività: chi sono) parallelo alla conoscenza di Dio. Del resto in tutta la tradizione cristiana e delle altre grandi tradizioni monoteiste conoscenza di Dio e di sé sono due facce di una stessa medaglia, due eventi concomitanti. Tutto questo per ribadire ancora che l’obbedienza gradita a Dio è quella dell’uomo libero che mette in gioco la propria responsabilità. Indubbiamente ciò comporta anche il rischio della decisione, ma l’uomo diviene tale soprattutto in un’avventura in cui egli si gioca; nella fede avviene qualcosa che può apparire scandaloso agli altri: in effetti io pongo le ragioni della mia forza e stabilità non in me stesso, non in ciò che posso misurare, non nelle mie capacità, nelle cose che possiedo e conosco, ma “paradossalmente” operando una perdita, uscendo da me stesso mi fondo sull’Atro, nel Signore, che nemmeno vedo, che ascolto sì ma attraverso la mediazione della Parola di Dio e di un discernimento di fede degli eventi. Nella fede la stabilità personale è legata a questo salto critico, di morte. Is 7,9: “Se non crederete non avrete stabilità” La Salvezza nella fede consiste nel lasciare quelle certezze, quegli appoggi che prima mi davano salvezza, e che trovavo in me, nelle mie forze, ricchezze ecc. La fede costitutivamente ci mette in crisi, in discussione, e costitutivamente è una morte e resurrezione. Ma ora torniamo ai quattro punti che stavamo analizzando: 3) LA RELAZIONE CON GLI ALTRI
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Sintetizzando molte delle affermazioni delle testimonianze dei presenti, affermiamo che mi aiuta ad uscire dalla crisi avere qualcuno (famiglia, amici, amore, padre spirituale...) a cui parlare e soprattutto da cui essere ascoltato. Soprattutto dobbiamo riconoscere che ritorna ansiosamente quest’ultima cosa, perché l’essere ascoltato significa essere accolto ed amato per quello che sono. “Da sola non ne uscirò mai. Nella crisi non so a chi rivolgermi, non ho amici che mi ascoltino veramente; i miei genitori più di tanto non possono fare, non ci arrivano” L’ambito familiare è sicuramente vitale, ma con dei limiti ben precisi. Tutta una serie di situazioni non possono trovare nella famiglia il confidente o la persona che mi aiuta in modo decisivo a risolvere il problema. Certo costituisce un contesto affettivo in cui io sono sempre amato (si spera!), con un dialogo più o meno presente, ma non dobbiamo confondere i rapporti, perché sarà sempre fuori dello spazio familiare che troverò l’ausilio per un discernimento su di me, per avere uno sguardo più disincantato, più lucido e libero su di me. Sarebbe “incestuoso” portare avanti questa ricerca nell’ambito familiare. Solo da fattori e situazioni esterne possiamo (sanamente) essere messi in crisi, solo persone “esterne” possono avere una parola libera e incondizionata. “Se sono uscito da una crisi, è sempre stato grazie ad un amico, qualcuno che mi ha aiutato e che non mia ha fatto sentire solo di fronte ai problemi” Una delle cose che succede quando siamo nella crisi è che vediamo soltanto la nostra crisi, ritenendola enormemente più grave di quella degli altri, crediamo che il buio che abbiamo dentro sia infinitamente più spesso e tenebroso di quello che altri possono avere dentro di loro, ci pare di essere i soli a vivere una situazione critica. Quando facciamo la scoperta (più o meno casuale) che anche l’altro ha i suoi momenti critici ci stupiamo, e poi capiamo che possiamo entrare in un’esperienza di condivisione di sofferenze e povertà, che è molto salutare. Basta dare un’occhiata alle testimonianze, copiose e vibranti, che talvolta hanno contenuto quasi una “richiesta di aiuto”: più o meno proprio tutti nascondevano fallimenti e crisi da denunciare; e non è stata una “fortunata” combinazione, perché probabilmente chiunque altro fosse venuto in questa settimana avrebbe avuto molta sofferenza da confidare; ma molte delle stesse persone che hanno scritto le loro sofferenze probabilmente quotidianamente sorridono al parlare della crisi, probabilmente all’inizio del corso agli altri si sarebbero mostrate (forse anche inconsciamente) serene, invulnerabili e felici da sempre e per sempre. Pare che sia proprio così anche quotidianamente: scopriamo la condivisione dei nostri problemi con persone che ci apparivano lontanissime e che non credevamo avessero le nostre stesse sofferenze, e questo purtroppo avviene solo casualmente, come casualmente i presenti si sono incontrati in questo nostro corso, ed hanno scoperto di condividere molto delle loro crisi. Ma forse sono proprio gli influssi della nostra società, che si sforza di ostentare benessere anche (o soprattutto!!!) dive non ce n’è. È importante invece rendersi conto di non essere soli, ed è importante anche dare parola alla sofferenza che abbiamo dentro con la certezza che nell’altro essa sarà accolta. È vero anche che c’è il rischio di confidarsi con le persone sbagliate, che non danno il giusto valore alla sofferenza che stiamo ponendo nelle loro mani, non la accolgono o peggio ancora dopo, casomai in disparte e con altri, ci deridono. “Dalla crisi ho imparato l’umiltà di chiedere aiuto, di confrontarmi” “Ciò che mia aiuta è scoprire che anche gli altri hanno i miei stessi problemi, e che quindi i miei non sono speciali o particolarmente gravi” “Mi ha aiutato a uscire dalla crisi il fatto che la fiducia degli altri in me non veniva meno neanche di fronte ai miei fallimenti” Noi abbiamo molto il terrore che se facciamo qualcosa di male non valiamo più niente agli occhi degli altri. Probabilmente ci sono i ricordi antichi e segreti, sedimentati, dei tentativi di essere all’altezza di ciò che mamma e papà chiedevano. C’è da convincersi che io valgo molto di più degli errori che faccio. Quand’anche commettesse crimini gravi e peccati abominevoli, ogni uomo è più grande degli atti che compie. Non è possibile definire un uomo con la propria azione: un conto è accusare di aver rubato, un’altra cosa è invece dire “tu SEI un ladro”, purtroppo espressione abituale. L’uomo è più grande dei gesti che compie, sia positivi che negativi. Allo stesso modo l’uomo è più grande degli atti della sessualità, quand’anche trasgressivi o degradanti. Il cristianesimo ci impone di entrare in quest’ottica, dal momento che
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tutta la storia della rivelazione è liberante: essa infatti continua ad attestare la ostinata fedeltà di Dio verso un popolo infedele, e cioè Israele nell’Antico Testamento e la Chiesa nel Nuovo. Dio non solo non revoca la fedeltà, ma anzi continua ad amare il suo popolo. Questa “follia” è espressa al massimo proprio nel Nuovo Testamento, che arriva a leggere l’evento di Cristo come l’amore di Dio manifestato in Cristo a noi, nemici peccatori traditori che non ne eravamo degni (Rm 5). Paolo scrive: “Mentre eravamo peccatori Cristo morì per gli empi. Mentre eravamo nemici siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio” Queste sono verità sconvolgenti, come sconvolgente è l’esperienza di Paolo che si scopre amato nel suo odio. Questo scontro tra odio e fedeltà (oltre che amore) è capace di produrre una sincera conversione e di generare una salutare crisi che porta a un riassettamento di tutta la propria visione della vita. Il perdono è questo scandalo, questa follia, cioè il far prevalere l’amore dove sono stati inferti male e ferite. È importante capire che anche di fronte ai nostri fallimenti non viene meno la fiducia dell’Altro, ed è questo che permette di affermare che noi siamo più grandi delle nostre azioni e del nostro peccato. Così dovrebbe prodursi sempre tra gli uomini la stessa fiducia di perdono che è propria dell’Amore di Dio, dovrebbe generarsi un perdono tra gli uomini a immagine del Perdono di Dio. Se vogliamo tradurre ciò che abbiamo detto sul piano squisitamente umano del rapporto personale, ci deve essere soprattutto la capacità (o meglio la volontà) di ascoltare. L’ascolto è la vera realtà, concretezza dell’amore, perché ascoltando noi facciamo di noi una dimora per l’altro. Il vero ascolto non ha per oggetto solo le frasi sonore pronunciate da un gola, ma la sofferenza che muove l’altro, non detta, spesso non dicibile, che sta all’origine dei suoi comportamenti. È un lavoro di compassione, anzi empatia. Quando incontriamo una persona che veramente ci ascolta avvertiamo di essere stati capiti ma ancora di più di essere stati accolti in tutto il nostro essere. Parimenti ci accorgiamo quando le parole che dicono la nostra sofferenza scivolano su un ascoltatore incurante, come acqua su un impermeabile. Ascoltare è accogliere dunque amare. Il pastore più che l’accezione “attivista”, si deve mettere sulla scia del Signore unico pastore che nutre il gregge annunciando la Parola da una parte, e dall’altra accogliendo e ascoltando il suo gregge cogliendone la sete e la sofferenza. Ascoltare è anche aiutare a nascere: noi non siamo nati una sola volta nella vita anni fa, ma ci sono diverse tappe che costituiscono una nascita ben poco metaforica, pensiamo ad esempio a una bruciante conversione. L’essere accolti in un amore radicale è capace di rigenerarci a una nuova vita, è salvifico perché ci trae fuori da una situazione di stallo. 4) L’AMORE DI SÉ E L’AUTOSTIMA Amare sé stessi in un ambiente cristiano, cattolico, suona un po’ male. “Eh, no! Bisogna amare gli altri, sei egoista se ami te stesso!”. Ma proviamo a camminare ancora una volta partendo dagli scritti “Le mie crisi sono nate dalla poca autostima. Dalla crisi ho imparato a stimarmi di più, a guardare la parte bella di me e a non lasciarmi frenare dal passato. Io non mi piacevo e non mi sentivo a mio agio con me stesso e con gli altri.” “Per sopravvivere ho dovuto aumentare la stima che avevo di me stesso. Credere in me stesso e nelle mie capacità. Inoltre volevo dimostrare a me stesso e agli altri che valevo e che ero in grado di costruire qualcosa di bello e di importante.” “Un’amica mi ha fatto riflettere facendomi questa domanda: <<Ma tu ti vuoi bene?>>Non era una domanda banale. Vorrei riuscire a volermi veramente bene. Per fare questo sento di avere bisogno di conoscere di più me stesso, i miei pregi e i miei difetti. Una buona conoscenza di sé può aiutare in molte situazioni. Anzi, credo sia fondamentale andare nel profondo, andare dentro sé stessi e lasciarsi aiutare” Bisogna che mi riconosca amato NEI miei difetti, non NONOSTANTE essi. A volte abbiamo la maledetta idea di dover togliere tutti i difetti per DIVENIRE degni dell’amore, una visione squallidamente mercenaria. Ma l’amore è su di noi proprio in quanto noi! Questo è l’amore sconvolgente che può davvero sanare. Nella crisi non riesco ad amare il mio tempo, i miei hobby, il mio lavoro, me stesso.
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“Quando non ho potuto più negare una parte di me che era venuta alla luce prepotentemente, ciò che mi ha messo in crisi è stato il dover affrontare qualcosa che era presente in me ma che allo stesso tempo mi risultava totalmente estranea.” È qui che si pone il discorso dell’amore di sé e dell’arrivare ad integrare le zone d’ombra che vorremmo estirpare da noi. I “cani” che abbaiano dentro di noi ci fanno desiderare di mettergli una museruola affinché non li sentiamo più, desideriamo sterilizzare e anestetizzare le parti di noi che ci fanno soffrire. Si deve arrivare invece ad integrare queste parti enigmatiche che abitano in noi, ma senza l’illusoria pretesa di arrivare a capirle del tutto. La post-modernità mostra molto bene i limiti e la crisi della ragione; ma anche l’affettività non è onnipotente, e non può arrivare a risolverci del tutto quali enigmi. Addirittura neanche la fede fa questo, non è una bacchetta magica. Queste tre realtà devono imparare a fare i conti con una zona oscura, incomprensibile, estranea, inquietante e a volte dolorante che è in noi. Anche Cristo è morto sulla croce gridando l’assurdo di un enigma: “Perché mi hai abbandonato?!”, che non è una messa in crisi della fede ma è al contrario una fiducia così intensa da poter diventare addirittura cieca. Ma il perché, il dubbio resta sempre, ed è costitutivo dell’uomo. È faticosa quest’operazione di integrazione “Non ho mai avuto una grande stima e fiducia in me stessa, e questo mi porta a non sentirmi mai pronta e a sentire che sto facendo un passo troppo grande per me” Tutte queste cose ci pongono di fronte a una verità: noi abbiamo vitale bisogno di essere amati. A volte siamo dei giudici troppo severi con noi stessi, ci vuole molta pazienza e capacità di amore di sé. Questa cosa non va intesa banalmente in maniera egocentrica e narcisistica, filo-autistica ovvero incentrata su di sé. Uno che non si ama e si disprezza, come potrà essere capace di amare gli altri? Quando non mi amo dovrei accedere alla conoscenza di essere “ospite” di un’umanità, la stessa umanità che mi riunisce ad ogni uomo, per questo sono in dovere di avere rispetto della umanità che mi ha “accolto” quando sono venuto al mondo. Laicamente ciò è sinonimo del comando molto essenziale di Gesù “amare gli altri come se stessi”, comando che esige una reale conoscenza di sé e una stima per sé stessi. In Is 43,4 ci sono queste parole di Dio ad Israele: “Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo” Lo stesso compito è riservato a noi: mostrare all’altro che è prezioso ai nostri occhi e perciò amarlo. Se c’è vero, profondo amore per l’uomo (in quanto creatura) non ci può essere la discontinuità del reputare sempre buono amare gli altri e cattivo, o almeno sospetto, l’amare sé stessi. Esistono infatti anche un altruismo nevrotico e un egoismo sano. Ci sono delle persone che fanno tanto per gli altri perché hanno bisogno di sapere tramite gli altri che aiutano di essere vivi, in una visione strumentale. È pericolosa questa cecità nella carità. Scrive Emmanuel Lévinas “Solo un io vulnerabile può amare il prossimo” Vale a dire solo quando mi lascio ferire dalla sofferenza dell’altro io entro in un amore che si mette accanto all’altro, e smetto i vedere l’altro come destinatario della mia carità, in una maniera paternalistica, pelosa, assistenzialistica in cui l’essere assoggettato e misero dell’altro gratifica e fa sentire vivo me stesso. L’amore esige sempre compromissione. Quando nell’altro io non vedo più soltanto un povero, un bisognoso, ma una persona, solo allora comincio al amarlo davvero. C’è un aneddoto sul poeta Rainer Maria Rilke, il quale a Parigi tutte le mattina faceva un itinerario per cui passava davanti alla stessa mendicante, alla quale abitualmente dava l’elemosina, e così facendo andava ovviamente incontro al suo bisogno. Un giorno le donò una rosa, non andando incontro al suo bisogno, ma si dice che lei si illuminò in volto e disse “Mi ha vista!!!”. Quell’atto gratuito fu dettato dall’essere stato ferito, dall’aver visto non più “la mendicante”, il bisogno impersonificato, ma l’aver riconosciuto una persona. La carità è cieca quando vede il bisogno fatto persona. È opinione comune che sia virtuoso amare gli altri e demoniaco amare sé stesso, anche nell’antica tradizione cristiana. Ma la stessa tradizione cristiana parla del sano amore della propria persona. Proprio recuperando una teologia della creazione possiamo riconoscere la bontà della cura di sé stessi e della cura dell’umano che ci ospita per crescere sempre di più alla statura del Dio a cui immagine siamo stati creati. Tutto questo non va da se, ma esige una lotta, una disciplina. Un testo di Maurice Béjart, il famoso coreografo, parla dell’ascesi a partire dall’arte della danza, dicendo:
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“Io credo che l’ascesi sia una delle cose principali per lo sviluppo dell’essere umano. Credo che l’ascesi sia necessaria alla costruzione di qualsiasi tipo di arte. L’ascesi consiste nello scegliere perpetuamente l’essenziale. È custodendo l’essenziale che si trovano a un certo punto le forze della vitalità e della verità. L’ascesi significa sapersi accontentare di un pezzo di pane, di un bicchier d’acqua, e assaporarli con soddisfazione, con delizia, perché in fondo lì voi avete la delizia dell’essenza della vita che è l’acqua e il pane, e non avete bisogno di altro. Se invece l’acqua e il pane sono una mortificazione siete condannati al pane secco e all’acqua. Al fondo della ascesi c’è la gioia. Il corpo deve essere profondamente e duramente lavorato per trovare la propria libertà. La libertà è al di là della disciplina. Perché il corpo partecipi di questa gioia e libertà totali deve passare attraverso delle tappe purificatrici. Per parlare semplicemente del mestiere del danzatore, egli è un essere che ha iniziato tra i 10 e i 14 anni a fare una serie di esercizi tutte le mattine, e li fa per tutta la sua vita, senza interruzione, si impone una specie di disciplina in partenza che gli permette di trovare la sua più grande libertà. Finalmente quando uno mi chiede <> io rispondo <
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il mondo è pieno di inganni, ma questo non ti renda cieco a quanto vi è di buono: molti sono quelli che cercano il bene e ovunque la vita è piena di speranza. Sii te stesso, e impegnati nella conoscenza di te. Non ostentare cinismo verso l’amore, perché anche se in esso hai conosciuto delusioni e aridità, resta sempre il tesoro più proprio che hai. Con docilità avanza nell’età lasciando con serenità le cose della giovinezza, accogliendo con forza le cose degli anni. Non tormentarti con il tuo immaginario: molti fantasmi nascono da stanchezza e isolamento. Mantieniti in una sana ed equilibrata disciplina, ma sii tollerante verso te stesso, sei un figlio dell’universo, non meno degli alberi e delle stelle. Convinto o non convinto che tu sia, non c’è dubbio che l’universo evolve verso un fine preciso. Perciò stai in pace con Dio: qualunque sia la conoscenza che hai di Lui aprigli il cuore, ma soprattutto ascoltalo in te. Qualche siano le tue ispirazioni e i tuoi progetti nella confusione dell’esistenza, mantieni in pace il tuo cuore. Questa terra che tu abiti, nonostante i travagli, gli affanni e i gemiti è pur sempre meravigliosa e la vita è il dono più grande che ti è stato fatto, abbine cura.”
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