Corriere della Sera 22 ottobre 2008 LA PRODUZIONE LETTERARIA
Quelle poesie e tragedie con troppa politica E Augusto le censurò Da ragazzo, Cesare aveva composto delle poesie: le Lodi di Ercole; inoltre una tragedia, Edipo. Aveva scelto due eroi sofferenti, nei quali vittoria e sconfitta si mescolavano in modo inquietante. Non sappiamo nulla del contenuto di queste opere, possiamo solo fare delle congetture a partire dal loro titolo, il che è molto poco. Però sappiamo che Augusto, figlio adottivo ed erede, in certo senso anche erede politico, di Cesare, vietò ‐ quando ormai Cesare era morto da tempo ‐ che questi scritti venissero fatti circolare. Lo racconta Svetonio nella Vita di Cesare (cap. 56). Sappiamo anche come Augusto provvide ad esercitare questa censura: con una lettera molto secca e perentoria al suo «bibliotecario», Pompeo Macro. Questa notizia ci fa capire che dunque l' iniziativa di Augusto di vietare la circolazione di questi scritti giovanili di Cesare dev' essere avvenuta piuttosto tardi, quando ormai Augusto aveva impiantato la grande biblioteca bilingue sul Palatino (28 a. C.). Cosa vorrà poi dire in concreto che il divieto di «rendere pubbliche» quelle operette giovanili fu trasmesso da Augusto al sovrintendente alle biblioteche? Con terminologia moderna potremmo dire che le «escluse dalla lettura»: non si potevano dare in lettura. Poiché sappiamo che Augusto non esercitava a caso la censura, ma per ragioni politiche o moralistiche (Ovidio ne fu vittima forse per entrambi i motivi), dobbiamo pensare che anche quegli scritti giovanili di Cesare risultassero inaccettabili, dal punto di vista del suo erede, per entrambe le ragioni: difficilmente le avrebbe vietate per la sola ragione che magari non erano, sul piano artistico, dei capolavori. Potevano esserci dei cenni non «corretti» politicamente. La materia prima su cui si costruivano le tragedie (la mitologia greca: per esempio, le vicende di eroi come Eracle o Edipo) aveva offerto spunti già a poeti greci come Euripide per mettere in discussione la morale corrente. E proprio di Euripide, delle sue Fenicie (relative anch' esse al mito tebano), Cesare amava ripetere spesso due inquietanti versi (524‐525), nei quali culmina la tirata di Eteocle sul potere. Una tirata quasi «hobbesiana», il cui succo era: il potere o lo si ha tutto o non c' è. I versi che Cesare amava ripetere dicevano esattamente: «Se bisogna violare il diritto, allora è meglio farlo per ottenere la tirannide; il rispetto delle regole vale negli altri campi». È Cicerone che ci fa sapere di questo «vezzo» del futuro dittatore (De Officiis III, paragrafo 82). In quei versi vi è un programma preciso e proclamato con durezza: essi proclamano la non‐moralità della politica, oltre che le ambizioni dell' uomo che così liberamente ostentava quelle parole del poeta considerato già dagli Ateniesi un eversore della morale tradizionale. Che la politica fosse indissolubile, per Cesare, dalla creazione letteraria è documentato in modo evidente dall' unica, preziosa, opera di lui a noi giunta: i Commentarii. Il modello letterario di questa straordinaria opera è greco. Innanzi tutto Alessandro Magno, il quale aveva costituito una équipe, coordinata da Eumene di Cardia e controllata personalmente da lui stesso, che allestiva giorno per giorno le Efemeridi, la cronaca delle gesta di Alessandro. Plutarco ne ha trascritta una pagina, quella relativa alla morte di Alessandro (Vita di Alessandro, 76). Cesare ugualmente costituì un ufficio, nel suo stato maggiore, addetto alla elaborazione scritta dei resoconti delle operazioni. Durante la guerra in Gallia (58‐51 a. C.) quei resoconti gli servivano anche come «relationes» per il Senato, da rendere pubbliche a Roma con il preciso fine di convincere l' opinione pubblica (e prima di tutto il Senato) della necessità di quella lunga guerra e dei successi continui che la premiavano. Per i messaggi segreti aveva inventato, invece, un codice cifrato, che a noi oggi appare elementare ma che certo ebbe efficacia, fondato sulla sostituzione della D alla A, della E alla B, della F alla C e così via. Svetonio vide queste lettere segrete e ne spiegò il cifrario. Diversamente da Alessandro, però, Cesare non si volle limitare ai resoconti ufficiali, sapientemente costruiti e certo da lui sorvegliati. Volle lasciare anche un' opera letteraria sua che trattasse la medesima materia: i Commentarii appunto. Già i contemporanei si effusero in complimenti verso quest' opera. Cicerone, che politicamente lo aveva avversato, ora che Cesare era dittatore scrisse che quei Commentarii erano «perfetti e che solo uno sciocco li avrebbe utilizzati per riscrivere la stessa materia» (Brutus, 45). Non va dimenticato infatti che i Commentarii erano considerati di norma «materia prima» per futuri storici.
Luciano Canfora