ASPETTI BIOGRAFICI 1.1 GLI INIZI Propongo, a distanza di quasi trent’anni, un saggio che abbozzai verso la metà degli anni ’70. Quando cominciai a interessarmi del Giancarli, non v’erano studi recenti su di lui, e l’unico lavoro complessivo era ancora quello del tedesco A.L. Stiefel, disperso, tra l’altro, in una rivista specializzata e difficilmente consultabile. V'erano altresì soltanto voci enciclopediche, nel "Dizionario biografico degli Italiani" e nell' "Enciclopedia dello spettacolo", curate da G. A. Cibotto. Né, a quei tempi, esistevano edizioni moderne delle sue commedie, a parte l'edizione della sola "Cingana", curata da G.A.Cibotto nel 1960. Ragioni filologiche mi convinsero comunque lavorare sulle edizioni del ‘500, presenti all’Accademia dei Concordi. Studi a livello universitario apparvero solo alla metà degli anni ’80. La ricostruzione della personalità del Giancarli è stata abbozzata sull'analisi e sui riscontri interni delle fonti letterarie coeve, nonché delle due commedie rimasteci, "La Capraria" e "La Cingana". Di recente so che l'indagine è stata allargata alle fonti d'archivio. Presento il saggio così come fu pensato allora, con alcune aggiunte posteriori. Enzo Sardellaro
I problemi biografici che pone la figura di Gigio Artemio Giancarli sono di notevole portata e di tutt'altro che agevole soluzione in quanto le fonti coeve, specie sul versante storico-artistico e iconografico, sono pressoché mute. Ciò è tanto più grave perché, a ben guardare, egli professava l'arte del pittore. Qualcosina in più abbiamo invece sotto il profilo letterario, ed è di qui che siamo partiti, conseguendo, alla fine, risultati non disprezzabili e, si spera, convincenti. A riprova della singolare difficoltà della ricerca, basti pensare che qualche problema è insorto persino riguardo al nome, che tuttora tende a oscillare tra Gigio e Giorgio, in una sorta di perpetua "contaminatio" che non si è mai esaurita, e che nessuno , tra quanti si sono occupati a vario titolo del Giancarli, s'è preoccupato né d'affrontare né tantomeno di risolvere. Così, per esempio, Gigio è "Giorgio" pari pari per il Sala; (1) diventa un improbabile "Giorgio Antonio" per il Teza, (2) ( questo per gli studiosi protonovecenteschi ); i moderni esegeti (G. Davico Bonino ) lo trasformano in un elegante Gian Artemio Carli, dove, si vede bene, il cognome è stato secato a metà per interporvi "Artemio".(3) Il quale, come è facile intendere, è "nome d'arte", e il Teza ne ipotizza l'origine in un critico Artemo, che scrisse un "Dei Pittori"o in un pittore di nome Artemon, ricordato nelle "Istorie" di Plinio.(4) Ma vedremo più avanti quali implicazioni storico-mitologiche potrebbero celarsi sotto questo nome d'arte.
Basta! Se la vita del povero Gigio è stata travagliata quanto la sua carta d'identità, carità di patria vuole che ne facciamo ammenda una volta per tutte. Tutte le testimonianze coeve in nostro possesso dichiarano, al di là di ogni equivoco, che Gigio, evidente vezzeggiativo di Luigi, era l'unico nome con cui egli firmava le sue opere, e anche l'unico con cui era noto agli amici. Ma la "via crucis" di Gigio lungo la strada della storia è stata costellata di ben altri rovi e spine. A intorbidare ancor più le acque contribuì a suo tempo un erudito molto famoso dalle nostre parti: il Bronziero, il quale lo confuse con un di lui parente, Giovan Battista Giancarli, giurisperito e assessore rodigino.(5) Val qui forse la pena di fare la cronistoria di quel disgraziato "error" del Bronziero soprattutto perché esso gettò nella più cupa disperazione il maggiore studioso del Giancarli, il tedesco A.L. Stiefel. Il quale, riportando le parole del Bronziero, ne costellò la citazione con una sequenza preoccupata di punti interrogativi: "...Gioan Batista (?) Giancarli Assessore (?) stampò la Capraria e la Cingana_e fu intorno al 1551 (?)…". (6) E' per noi pacifica convinzione che la fonte galeotta del Bronziero fosse stata un manoscritto del vescovo Baldassarre Bonifacio, il quale, a parte l'inchiostro sbiadito ( ma di ciò lo possiamo assolvere ) è chiarissimo riguardo a Gigio: " ...Viget quoque memoria Gygis Arthemij Jancaroli Rhodigini, excellenti ingenio viri, et in comica poesi percelebris, huius Joanniss Baptistae consanguinei ...Gygis Arthemij duae...personant in theatris comoediae...altera Capraria nuncupata...altera cui Cingana nomen fecit...( Vivida è ancor la memoria Di Gigio Artemio Giancarli rodigino, uomo d'eccellente ingegno e assai famoso nell'arte comica, consanguineo di questo Giovan Battista. Due commedie di Gigio echeggiano ancora nei teatri, una chiamata Capraria, l'altra cui pose nome di Cingana). (7) Più chiaro di così... Però, e qui sta il "busillis", un poco prima di menzionare Gigio, Baldassarre Bonifacio si era soffermato su un altro membro illustre della famiglia Giancarli, l'assessore e giurisperito Giovan Battista Giancarli, il quale "...post diutina studia bina iurisprudentia, bina diademata consecutus... assessorium munus audacter arripiens, perpetuo cursu per omnes Reipublicae Venetae urbes summa cum integritate et sapientia Praetorius iudex assidit..."( Dopo lunghi studi, conseguì la dignità in ambedue i diritti, e, ottenendo brillantemente la carica d'assessore, con una carriera ininterrotta, fu giudice pretorio, con somma integrità e sapienza, per tutte le città della Repubblica Veneta).(8) Va da sé che l'indaffarato Bronziero aveva scorso molto "velociter" il manoscritto del vescovo Baldassarre, cadendo in una sequenza impressionante di equivoci. Infatti, quella famosa data, 1551, che aveva fatto ammattire Stiefel, non ha senso alcuno se riferita a Gigio o alla sua opera, mentre l'acquista se rapportata a Giovan Battista Giancarli, il quale, nell' "Anno Domini" 1551, "...Annam filiam Vincentij Zeni patricij veneti secundis
nuptiis coniunxit...": in altre parole l'illustre legista s'era risposato proprio nel 1551 con Anna, figlia dell'altrettanto illustre patrizio veneto Vincenzo Zeno. La data, chiarissima, la si può leggere sul margine sinistro del manoscritto, in relazione alle "secundis nuptiis"già citate (c. 86). Se oggi possiamo spendere due parole sullo "status" sociale di Gigio, lo dobbiamo in gran parte al non mai abbastanza lodato vescovo Baldassarre Bonifacio. Non dobbiamo però compiere l'errore di farci fuorviare dal fatto che il di lui consanguineo, a noi già noto, Giovan Battista, fosse uomo di elevata condizione sociale. Il nostro vescovo ci informa infatti che Giovan Battista aveva sudato le classiche sette camicie per farsi un po' di strada nel mondo. Era costui Antonii Mariae filium, il quale Antonio vien classificato "inter minutos cives", che è come dire di estrazione pressoché popolare. Tuttavia, il rampante Giovan Battista, "fluctibus emergens", emergendo cioè da un'umile condizione, grazie ai propri studi riuscì a diventare un eminente cittadino. Ma forse la cosa gli riuscì più facile perché Giovan Battista seppe calibrare un paio di matrimoni che dovettero in qualche modo facilitargli la carriera: uno con "Lauram..., viri perillustris filiam" (Laura, figlia di un uomo illustrissimo) (1547) e un altro (già menzionato) con "Annam...filiam Vincentii Zeni patricij veneti" (1551), ottenendo così, a detta di Baldassarre, anche la carica di "maleficiorum iudex": ossia, come spiega F.A. Bocchi, "assessore per le cause criminali, detto giudice al maleficio".(9) Proseguendo, l'informatissimo prelato aggiunge anche qualche altro particolare interessante: afferma cioè che se il nostro uomo emerse per meriti puramente personali ( "huius gratia meruit hic vir"), lo conosce però anche consanguineo di una illustre famiglia del patriziato veneto, detta "Zancarola" ("...et ab illustri patriciaque veneta... familia Zancarola"), il cui "cognomen" era "Jancarolus o Zancarolus, eo tantum discrimen", con questa sola differenza, a seconda, cioè, se ne pronunciasse il nome secondo l'uso latino ("latine") o italiano ("italice"). Siamo andati un po' a verificare le asserzioni del vescovo, e abbiamo appurato infatti che la suddetta famiglia Zancarola era sì illustre per antichità, ma anche alquanto male in arnese sotto il profilo patrimoniale. I Zancarolo appartenevano ai cosiddetti "nobili poveri", che a Venezia costituivano una vera pletora e che la Serenissima manteneva in qualche modo. Orbene, come dicevamo, lo Stato veneziano si faceva carico dei propri "nobili mendicanti" e, con nostra soddisfazione, abbiamo constatato che tra i " plerique nobiles nostri pauperes" è menzionato un Giovanni Zancarolo.(10) "...L'impero veneziano, scrive D.E.Queller, offriva molteplici occasioni di impiego per i nobili poveri. Tra le altre, le castellanie e i posti di comando venivano utilizzati in tempo di pace per distribuire incarichi..." Una grazia dei 1311 concedeva la castellania di Castro Nuovo di Creta a Giovanni Zancarolo, che, catturato nella guerra di Ferrara, aveva trascorso undici mesi in prigione...".(11) Altri due benemeriti componenti la famiglia Zancarola vengono ricordati intorno al 1508 nei diari del Sanudo, ma per ragioni un po' meno "patriottiche" di quelle concernenti il loro glorioso avo: in seguito, cioè, a un caso poco chiaro di brogli elettorali, in cui vennero coinvolte anche alcune fra le più potenti famiglie del patriziato veneto.
"...Anche Alvise Zancarolo e suo fratello Matteo", prosegue il Queller, "avevano ricevuto mance per dare il loro appoggio...".(12) E' pertanto presumibile che Gigio appartenesse a uno dei rami collaterali della variegata e tutt'altro che facoltosa áfamiglia Zancarola, ossia a quei "minutos cives" cui accennava Baldassarre Bonifacio. Del resto, sappiamo con certezza che per tutto il '400 e nei primi anni del '500 tutti, o quasi, gli aspiranti pittori appartenevano agli strati più umili della popolazione.(13) Con tutto ciò, nulla vieta di pensare che alcuni componenti la famiglia Giancarli potessero avere conoscenze e relazioni anche importanti a Ferrara, tali, voglio dire, da permettere di allogare a bottega il giovane Gigio presso i maestri più qualificati della pittura ferrarese. Sì, perché l'arte con la quale Gigio si guadagnava il pane era quella del pittore: la drammaturgia costituiva per lui solo un "pendant", che però per noi è fonte rara a cui poter attingere qualche notiziola non peregrina. Infatti, nella Dedica della Capraria troviamo scritto:"... Tosto che la famma (sic) fece udire, o grande Hippolito, la desiderata venuta tua...in me nacque... desiderio de pagare in parte li favori, et benefitij, che giovanetto ne la tua patria io ricevei, da lo illustre tuo çio Sigismondo, et dal magnanimo duca Hercole tuo fratello, et da te insieme...".(14) Spiccano con chiarezza due fatti molto significativi: il primo è che Gigio, giovanetto, era a Ferrara; il secondo, non meno importante, che all'epoca aveva goduto di una certa consuetudine con alcuni fra i più illustri componenti la famiglia d'Este, da Sigismondo a Ercole II, per non parlare dello stesso Ippolito II, il futuro cardinale. I precedenti rilievi portano molta acqua al mulino della biografia ( alquanto scarna ) del nostro Gigio Artemio da Rovigo. Le prime domande che ci si pone sono queste: che ci faceva il giovanetto Gigio a Ferrara? Com'è potuto entrare ánella ácerchia ristretta della corte estense fino a godere dei favori dei suoi più illustri rappresentanti? Come ben sappiamo, Gigio esercitava la professione del pittore e Ferrara costituiva il luogo deputato per quanti intendessero intraprendere, provenendo da Rovigo, questa carriera.(15) Egli, è evidente, si stava formando presso la bottega di un qualche maestro locale. Per il momento, osserveremo che il termine giovanetto potrebbe aiutarci a sciogliere un importante nodo: quello della data di nascita, tanto per cominciare. Su questo dato lavorò sagacemente lo Stiefel, il quale osservò che Sigismondo era morto nel 1524 e che Ercole e Ippolito erano nati rispettivamente nel 1508 e nel 1509. Ne dedusse pertanto che Gigio fu giovanetto non prima del 1508 e non dopo il 1524. Fra questi due confini corrono precisamente sedici anni. Ne arguì che Gigio doveva aver ricevuto i famosi benefici da parte di Sigismondo un po' prima del 1524, e che intorno a questa data egli poteva avere dai 16 ai 18 anni: ne concluse che Gigio era nato tra il 1506 e il 1508.(16)
La datazione proposta da Stiefel è corretta e ci trova pienamente consenzienti, perché, anche sulla base di altre considerazioni, i conti tornano. Giovanetto è infatti sinonimo di adolescente, ossia di ragazzino di 12-13 anni: il dato è tutt'altro che banale, qualora si consideri che il normale tirocinio di un aspirante pittore presso una qualsiasi bottega s'iniziava intorno ai tredici anni, con un iter di studi che contemplava varie qualifiche, da quella di "discepolo" a quella di "garzone" per finire a quella di "artiere".(17) Dato per scontato che Gigio aveva ricevuto i benefitij qualche tempo prima del fatale ( per Sigismondo ) 1524, diciamo almeno tre anni prima, intorno al 1521, se ne conclude che circa a quella data Gigio aveva tredici anni, ovvero l'età canonica per andare a bottega. Se dal 1521 togliamo 13 anni, ne risulta che egli era nato nel 1508, "quod erat demonstrandum", e che, in pratica, era anche coetaneo sia di Ercole II sia di Ippolito II, coi quali, evidentemente, era entrato in confidenza in forza dell'età e nonostante la differenza abissale che socialmente li separava. Tra l'altro, nello stesso anno 1521 l'allora giovanissimo Ippolito lasciava Ferrara, colpita dall'interdetto del papa, e si stabiliva, dal 2 ottobre a Rovigo. Indi, dopo qualche tempo, riprendeva la strada di casa.(18) Che nel viaggio di ritorno si portasse dietro il "giovanetto"Gigio? Non lo sapremo mai, ma l'ipotesi resta comunque suggestiva.
1.2 IL PERIODO FERRARESE Stabilito in quale veste il nostro giovanotto si trovava alla corte estense, così vicino a uomini come Sigismondo, Ercole e suo fratello Ippolito, e dato per scontato che Gigio non vantasse lombi nobiliari che gli potessero fornire credenziali sufficienti a cotale eletta compagnia, è pacifico che egli lavorava presso la bottega di un pittore che, in quel torno di tempo, operava a corte. A quanto ci consta, nei primi anni del '500 pittori di corte furono i Dossi, i quali, già dal 1516, lavoravano nel castello ducale, collaborando a tratti con lo stesso Tiziano.(19) I Dossi, dunque, furono i maestri di Gigio Artemio Giancarli da Rovigo. L'asserzione non vuole esser dogmatica, ma fondarsi su indizi che si spera sufficientemente probanti. Il Gigio pittore è un artista che rimanda chiaramente a una formazione di tipo manierista, dove l'antico costituisce una fede certa e indiscussa. La cultura pittorica di Gigio emerge da alcuni passi della Cingana e della Capraria, lasciando invero poco spazio a dubbi. Per bocca di Stella, un personaggio della Cingana, Gigio enumera in sequenza una quantità considerevole di lavori: "...Se voi vi dilettate di queste camisciole, manegetti et camisete, io vi saprò servir a tutte le vostre voglie, perch'io ho tutti li punti famigliarissimi. Il tagliato, il furlano, il punto rizzo...moreschi, rilievi...oltre ch'io disegno di mia mano: lavori "
grotteschi, arabeschi… a concorrenza de qual pittore si voglia. De quelle nostre conciature di capo, e rizzi, fate conto ch'io habbia insegnato alle maestre, cartolini, ori tirati, ricami, rami dorati, carte dorate, et di qual sorte e in uso hoggi. Le foggie de' cassi vengono poi da me, e saprovi dire ( subbito ch'io vi guardo )...a quale riesce il bianco, a chi 'l turchino e a chi l'incarnato; et dove si richiedono le perle, ove cattene et li pendenti…" ( Cingana, 3-2-1) "...Ortica- Che diavolo so io? Fo come li amalati pendenti..." E ancora, nella Capraria: "...Ortica- Che diavolo so io? Fo come li amalati…che non trovando riposo né in nissun fianco, né in schena, fanno più atti che li pittori non fanno far a quelli Hercoli che dipingono su per li coffani..."(Capraria, 1-5-2) Grotteschi, arabeschi, Ercoli: tutti elementi tipici del gusto manierista. I Dossi, lo sappiamo, dopo il '22, accusano in pieno i sintomi di un'intossicazione manierista; nel '19 Dosso Dossi è a Roma, dove conosce Raffaello,(20) suo fratello Battista, garzone di Raffaello, nel 1518 è a Venezia a comprare colori per il maestro.(21) Vicino a Ferrara, legata a Ferrara da mille fili, la sede deputata del manierismo: Mantova. Alla corte dei Gonzaga lavora, fin dal 1524, Giulio Romano. La grande diaspora degli allievi di Raffaello, succeduta alla morte del maestro, li porta a disperdersi, ma anche a concentrarsi in luoghi che tanta parte avranno nella vita di Gigio: Giulio Romano è a Mantova, Sansovino e Serlio a Venezia. "... E' di Giulio Romano la variante ‘archeologica e grottesca’ ìdelle idee raffaellesche, scrive C. Volpe, portate ad abnorme dimensione nella serie grandiosa di imprese di cui fu arbitro e artefice in Mantova a partire dal 1524...".(22) E quanti "Ercoli" avrà visto Gigio finché rimase presso i Dossi? "... Eglino (i Dossi), testimonia Vasari, fecero di chiaro e scuro il cortile del duca di Ferrara con le storie di Ercole e dipinsero un’infinità d’ignudi per quelle mura...".(23) Senza contare poi Le storie di Ercole dipinte da Giulio Romano per la Sala dei Cavalli: il tema "erculeo" conobbe in quegli anni un'inflazione senza precedenti. Le arti, scrive André Chastel, " lavorarono tanto e con sì ingegnosi risultati sul repertorio tratto dall'antichità, che ‘Ercole’, Apollo, Mercurio, Ganimede finiscono per assumere negli insiemi decorativi un posto smisurato e per alcuni difficile da capire".(24) Ma ciò che qualifica il Giancarli come un pittore manierista e anticlassicista per eccellenza sono i cenni ai lavori "groteschi e arabeschi", apprezzati a Venezia sin dal 1537 da Sebastiano Serlio. La grottesca, "espressione del più stravagante manierismo", era definita dal Vasari "ghiribizzo degli artefici". E F. Milizia chiamava "arabeschi"(rabeschi) le grottesche, diffondendosi poi a stabilire rapporti"di tale pittura con l'arte degli Arabi".(25) Sappiamo inoltre che le grottesche, guardate con estremo sospetto dalla Chiesa, (26) erano un tipo di decorazione di eccezionale adattabilità, tale da permettere la realizzazione di soffitti, cornici e, spesso, di fregi: tutte realizzazioni di sapore antico. La scoperta della Domus Aurea, scrive Nicole Dacos, "viene a favorire le tendenze anticlassiche presenti nella pittura italiana alla fine del Quattrocento. Il genere delle grottesche si sviluppa dapprima
sui bordi di affreschi e di quadri con la prima generazione di fiorentini e di umbri chiamati da Sisto IV per decorare la Cappella Sistina, in specie Ghirlandaio, Botticelli, Filippino Lippi, Perugino, Pinturicchio, Signorelli. Essi fissano i ádisegni di rilievi. di sarcofagi, di edifici...in quaderni di schizzi che circolano in seguito nelle botteghe e favoriscono la diffusione dei motivi romani fuori di Roma".(27) A Venezia, l'importazione dei motivi "antichi" si deve al giovane Tiziano, e "una delle massime espressioni di questa tendenza, continua Dacos, è l'esecuzione da parte del giovane Tiziano dei quadri destinati áallo studiolo d'Alfonso d'Este a Ferrara...eseguiti tra il 1516 e il 1519". (28) A Palazzo Roncale, nota C. Semenzato, " si trovano affrescati un fregio e due episodi della Lotta tra Orazi e Curiazi, opera probabile del rodigino Artemio Giancarli..."(29) Oltre alla cultura manieristica di fondo, vi sono poi nell'opera del rodigino alcune tematiche che rimandano a certe atmosfere tipicamente dossesche: intendo cioè riferirmi al gusto per l'arcano, l'allegorico e il magico. Sono nella mente di tutti la Circe di Dosso, l'allegoria della pittura con il Giove che dipinge farfalle. L'attenzione dei Dossi per tali tematiche deve aver lasciato un segno profondo e duraturo in Gigio. Ma solo i Dossi? Forse era tutta l'atmosfera che si respirava Ferrara in quegli anni: impossibile dimenticare Palazzo Schifanoia, con i suoi simboli astrologici, che rimandano "...al problema dei rapporti tra cultura classica e mondo arabo...".(30)A Ferrara erano vissuti noti cultori di scienze occulte, da Paracelso al famoso medico Giovanni Mainardi, il quale, dopo aver diagnosticato scolastichorum in medicina omnium utilitatem nullam esse, si dedica allo studio della medicina araba, che sola pare possedere i segreti dell'autentica sapienza: solo gli arabi sono depositari di conoscenze arcane, misteriose.(31) Le suggestioni della cultura araba e della sua lingua, veicoli privilegiati di conoscenze mal note, sono incarnate nella figura della zingara, protagonista dell'omonima commedia di Gigio. La Cingana, come tutti gli zingari, è partecipe di nozioni esoteriche, che cela in un linguaggio mescidato di veneziano, più o meno storpiato, e di locuzioni arabe. Letachaf, fil beith abuch: voci che vogliono suggestionare lo spettatore. La magia domina l'inizio della Capraria, quando Tiberio, con un'enghistara, ossia una enghestera detta altrimenti engrestara ( caraffa di vetro con collo lungo e stretto, che in questo caso funge da sfera di cristallo usata dai maghi per predire il futuro), riesce a carpire ai comici il soggetto della commedia, che pure essi avevano giurato di non rivelare a nessuno. Ma la magia, per Gigio come per l'Ariosto con cui si trova a stretto contatto di gomito, è mercanzia per gli sprovveduti, per coloro che si lasciano ingannare da abili istrioni. Nella Cingana si trovano esempi emblematici di astuzie perpetrate ai danni degli ingenui in forza dell'arte spiritale. L'esperienza ferrarese di Gigio dev'essere stata feconda di suggestioni culturali e di incontri decisivi per la sua carriera di pittore e drammaturgo. Quanto a Sigismondo, sappiamo che egli fu in Polesine più volte e per lungo tempo durante la guerra di Ferrara, che fu per vari versi disastrosa per la nostra terra, attraversata dalle soldataglie veneziane che ne fecero terra bruciata.(32) Il ricordo terribile di quegli eventi dovette rimanere indelebile nella memoria collettiva dei polesani e di esso ne abbiamo una splendida testimonianza proprio in una commedia di Gigio, La Capraria. In una scena del quinto atto, un gentiluomo ferrarese, Ippolito, ricorda alcuni tragici episodi avvenuti sotto Polesella:
Brunello- Ma come havete così amicitia con costui...? Hippolito- ...Dirotti: essendo egli partito da la patria...venne sul ferrarese, con una compagnia di cinquecento fanti, et capitando a una mia possessione qui sotto Rovigo, detta la Pellosella,albergò ne le mie case, et essendo, como tu sai, soldati pagati per ruvinare, si diedero a far tutti quelli mali che si poterno immaginar, com'è tagliar li alberi, brusàr case et altre cose... (Capraria,5-4-12) E ancora, chi può essere stato a mettere in contatto, a Venezia, il Giancarli con Pietro Aretino, con l'uomo che un giorno lo avrebbe definito pittore valente?(33) Viene spontaneo pensare a Tiziano: sarà da riflettere con particolare attenzione sul fatto che Tiziano, fra il 1516 e il 1523, avrà contatti di lavoro frequenti con la corte estense, dipingendo per Alfonso I Baccanali.(34) E ancora nel 1528 egli dipingerà per il duca il "Cristo della moneta" e, forse, intorno al 1528-'29, un ritratto di Ercole II, in età giovanile...(35) In questi anni Gigio è ancora a bottega presso i Dossi che, dal canto loro, hanno collaborato in tempi non lontani con lo stesso Tiziano e risentono fortemente della sua influenza. Pertanto, l'ipotesi di contatti diretti tra il giovane apprendista e l'altrettanto giovane Tiziano è legittima: la successiva e lunga permanenza di Gigio a Venezia, la conoscenza dell'Aretino, compare di Tiziano, sono prove difficilmente confutabili di un legame personale tra il Giancarli e Tiziano. Queste considerazioni trovano un margine più largo di legittimità allorché si consideri che da un riscontro interno della Cingano (4-1), si segnala da parte di Gigio un esplicito elogio nei confronti di Tiziano: Agata- ...Havéu mai visto do che se somegia così de viso...? Cassandro- Non mai, né appena Titiano unico rasemplarebbe in tela o in muro... E' ben vero peraltro che Gigio potrebbe aver preso dimestichezza con l'Aretino anche attraverso un'altra strada, quella cioè che porta a Mantova da Giulio Romano, e Mantova, come vedremo, costituì una tappa importante per Gigio. Giulio Romano secondo la testimonianza di Vasari, avrebbe conosciuto l'Aretino ancor prima di Tiziano. "... Era questo ingegno ( Giulio Romano ) tanto celebrato di nome e di grado, che la sua fama e dolcezza di natura fu cagione che, sendo per i suoi bisogni capitato a Roma Federigo Gonzaga, primo duca di Mantova, amicissimo di Pietro Aretino, et egli domestico di Giulio, in tanta grazia lo raccolse...che non cessò di accarezzarlo, sì che lo condusse a Mantova a' suoi servigi...".(36) Anche se così fosse, però, la persona di Giulio Romano rimanda inevitabilmente a Tiziano: tra i due, infatti, sin dal '24 s'era stabilito un rapporto di collaborazione, continuata poi anche nel '37, quando Giulio "...fece ancora fare in anticamera dodici storie a olio, sotto le dodici teste de gli imperatori, le quali dipinse Tiziano...onorate e belle pitture...".(37)
Tra l'altro, non sarà inutile rilevare che intorno al 1535 lo stesso Giulio Romano viene chiamato a Ferrara da Ercole II Gonzaga a eseguire cartoni e arazzi, rimanendovi sino al 1538.(38) Non è neppure da scartare poi una terza strada, forse la più semplice, che è quella che porta alla figura dell'autore del Furioso, il quale, secondo F. Caroli, fu in ottimi rapporti con Tiziano. "E' sicuro...che il poeta estense e Tiziano si sono incontrati tra il 1516 e il 1518. La loro amicizia deve essere stata particolarmente cordiale, se è vero che l'Ariosto ha dedicato a Tiziano un esplicito ancorché lapidario elogio nel XXXII canto dell'Orlando Furioso...".(39) La citazione del Caroli, giusta nella sostanza, va comunque emendata, nel senso che l'elogio di Tiziano non è nel XXXII canto, ma nel XXXIII, ottava II. André Chastel osservò che il gusto per l'antico portò letterati e pittori, questi ultimi spesso privi, come Tiziano, di un robusto bagaglio culturale classico, a una fortissima collaborazione, con i letterati in veste di "suggeritori" di temi mitologici. Una collaborazione di tal tipo si stabilì appunto tra Ariosto e Tiziano: " un avvicinamento di felice intensità unì, a Venezia, Ariosto e Tiziano".(40) Da notare che intuì un simile rapporto Raffaello Biordi già nel '50, allorché in un suo bellissimo articolo sulla Gazzetta Padana, osservò che i Baccanali furono suggeriti molto probabilmente a Tiziano " col consiglio o dell'Ariosto o di qualche dotto in relazione alla corte, - trattandosi di un - argomento ...tolto da Filostrato e da Catullo".(41) Recentemente il Logan ribadisce che le "fonti erudite" di Tiziano si collegano alla sua collaborazione con letterati quali il Bembo, l'Aretino e l'Ariosto.(42) Sarà da riflettere a questo punto sul fatto che il Giancarli chiamò Angelica e Medoro i due giovani che nella Cingano furono rapiti da bambini al padre Acario. E Angelica e Medoro sono i protagonisti del Canto XIX dell'Orlando Furioso, che, innamoratisi, saranno la causa scatenante della pazzia di Orlando, il quale Angelica e Medor con cento nodi legati insieme, e in cento lochi vede. (C.XXIII, ottava 103) E' evidente che Gigio con tale omonimia volle rendere omaggio all'Ariosto, ad un uomo che egli conobbe personalmente e al quale dovette sicuramente molto, sia sul piano letterario che su quello prettamente umano, personale e infine "professionale". Già abbiamo detto come il Teza, nel tentativo di sciogliere l'enigma del nome d'arte scelto dal Giancarli (Artemio), pensasse a un Artemo o a un Artemon ricordato da Plinio. Non credo che ìl'ipotesi proposta dal Teza possegga un fondo serio e consistente di áverità: ritengo invece che tale nome sia una reminiscenza ariostesca, in quanto nel ventesimo canto dell'Orlando Furioso (Ottava 54) compare un personaggio, Artemia, che è quasi sicuramente alle origini della scelta del nome d'arte del Giancarli, il quale, è evidente, optò per tal nome nell'ambiente della ácorte ferrarese, allorché stava formandosi come pittore:
Fu d'Artemia crudel questo il parere (così avea nome)...(Orlando Furioso, XX, LIV)
Tutto l'episodio in questione è imperniato sul racconto di Guidon Selvaggio, che narra i crudeli costumi delle "femine omicide di Laiazzo, sorta di amazzoni, le quali erano use uccidere tutti gli uomini che si accostavano alle loro terre". "Artemia" è fra le più decise a difendere l'antica tradizione e vorrebbe giustiziare Elbanio, che però, " bello e giocondo,/ e di maniere e di costumi ornato/ e di parlar sì dolce e sì facondo" (XX, XXXVI), se la cava senza particolari danni. Ma perché il Giancarli decise di passare alla storia col nome d'Artemio? "Artemio", il suo femminile "Artemisia" o "Artemia", come la definisce ál'Ariosto, hanno la loro radice etimologica nella dea Artemide,e anzi, come nota il Rajna, nel caso dell'Ariosto, "nell'Artemide Taurica", che pretendeva barbari sacrifici umani. "E il nome di Artemia, continua il Rajna, dato dall'Ariosto alla crudele che si mostra più accanita nel mantenimento del costume non è un indizio insignificante".(43) La dea Artemide, nel pensiero mitologico antico, si presentava sostanzialmente con due facce. Era sicuramente "messa in rapporto con Apollo e le Muse, e detto che si compiacesse dei canti e degli inni",(44) ma aveva anche un volto meno rassicurante. " Identificata dai Romani con l'italica Diana, nota G.C.Benelli, con questo nome Artemide resterà per tutto il Medioevo come l'infernale guida delle streghe, nelle loro sarabande notturne per i boschi e le montagne".(45) Artemide si identificava e si confondeva spesso con Hecate, "regina degli spettri che ella suscita agevolmente come grande maga da invocare sempre negli incantesimi: una dea delle streghe sin dal mondo ellenistico-romano".(46) E' quindi assai probabile che Gigio fosse stato suggestionato da "Artemia", nome che racchiudeva in sé sia un rapporto con l'arte e con le Muse sia un legame con il mondo oscuro della magia, a cui egli si mostrò molto sensibile, come testimoniano del resto i continui e chiari riferimenti delle sue commedie. Le quali, a mio parere, riflettono bene in questo senso l'atmosfera che regnava non solo a Ferrara, ma anche nel resto dell'Italia rinascimentale. In un mondo dominato dalla magia e dall'astrologia, dove persino papi come Giulio II, Paolo III e Leone X non favevano nulla d'importante senza aver prima consultato i loro astrologi,(47) ecco ricomparire, come scrive Seznec, le antiche divinità, a volte travestite, spesso irriconoscibili, ma che " determinano ágli umori, le attitudini, le attività degli uomini nati sotto la loro influenza", esercitando su di essi "il loro patronato onnipotente".(48) C'erano infatti altre e potenti ragioni che probabilmente spinsero Gigio a porsi sotto l'alto patronato di Artemide: essa era anche la dea dei boschi e delle acque sorgive, dea della libera natura, della purezza e della castità,in nome delle quali poteva diventare anche crudele fino all'omicidio quand'esse erano messe in pericolo:(49) in quest'ultimo senso l'accolse infatti l'Ariosto sotto il velo di Artemia. Il Calmo, che conobbe bene Gigio, ne esaltò il carattere "libero, schieto, senza fidulation", ossia, limpido, pulito, scevro d'ogni sozzura.
Interpreto così la parola fidulation, che non è contemplata nel dizionario del dialetto veneziano del Boerio, e che mi sembra avere rapporti con i termini latini foeditas e foedus, che signiìficano appunto "sozzura", "sporcizia". ( V. sotto, p.12). Già abbiamo notato come Artemide si compiacesse "dei canti e degli inni", essendo ella legata ad Apollo, alla cui nascita presiedette.(50) Apollo, che "dirigeva anche il coro delle Muse" ed era ápensato "come inventore della musica".(51) Arte in cui il Giancarli era particolarmente versato, a detta del Calmo, il quale, con tono ironico e scherzoso, scrive: "de sonar de lira, lauto e viola fé tanto ben la vostra portion, che ne indormo a l'ut, re, mi, fa, sol, la". E' fin troppo facile rilevare, a questo punto, come il Giancarli si muova in mezzo a uomini che si conoscono tutti tra loro: i Dossi, Ariosto, Tiziano, Giulio Romano, Pietro Aretino: Ferrara, Mantova, Venezia. Il cerchio si chiude. Ma nella colta città estense Gigio accumula conoscenze ad altissimo livello anche in altri settori. Lì opera, a più riprese, Ruzante, il quale è a Ferrara con la sua compagnia almeno due volte negli anni che vanno dal 1529 al 1532.(52) Dai Banchetti di Cristoforo Messisburgo sappiamo che nel 1529, fra illustri personaggi della corte estense e mantovana, verso la sesta vivanda "cantarono Ruzante et cinque compagni et due femine canzoni et madrigali alla pavana bellissimi et andavano intorno la tavola contendendo insieme di cose contadinesche, in quella lingua molto piacevoli...fino che venne la settima vivanda... la qual vivanda passò con intertenimenti di Buffoni alla Venitiana et alla Bergamascha et contadini alla pavana...".(53) Vi sono prove indirette che con ogni probabilità Gigio, in quel lontano 1529, fosse ancora a Ferrara. L'imitazione degli stilemi ruzantiani traspare con chiarezza in una scena della Cingana che, a mio avviso, è un calco quasi perfetto di un passo della Moscheta: Garbuglio vilan. Solo.- ...A ve dirò: nu dalle Ville inanzo le guerre, a gière nu tundi cho è una mescola...ma daché è vegnù ste guerre et che a som ste in campo...cha gon spratiché con soldé...et altre zenìe a som deventé an nu scozzoné, et an scaltrì..-( Cingana,1-15-1). Ecco adesso il passo della Moscheta: -... L'è ben vero che dasché l’è vegnù ste guere ( che malèto sia le guere e i soldé..)...(Ruzante, Moscheta, Prologo veronese).(54) A nessuno può sfuggire la consonanza fra le battute; ma, ciò che a noi preme far notare è che la locuzione dasché l'è vegnu ste guere nella redazione a stampa della Moscheta, redazione avvenuta, secondo G. Padoan, dopo il 1531, è stata espunta, e non solo non compare nel prologo, ma anche in nessun altro luogo della commedia, e neppure nel Parlamento (1529) né infine nel Bìlora(1530-'31). Essa, invece, compare nei prologhi più antichi, ossia nel cosiddetto prologo veronese, che ripete il testo, non ancora a stampa, della Moschea così come fu recitata a Ferrara verso il 1530'31.(55)
G. Padoan sottolinea che "...tra il 1529 e il 1531 si ebbero dunque varie rappresentazioni della Moscheta ( attestate dai ritocchi apportati al prologo ), di cui almeno una fu tenuta a Ferrara; e probabilmente non fu la sola, perché a Ferrara si amava replicare le commedie, anche nel corso di un medesimo carnevale...".(56) Inoltre, il riferimento di Gigio a ste guerre è un puro e semplice "luogo letterario", un tardo mantenimento di stilemi ruzantiani, che non rimanda a eventi bellici contemporanei. Quando il Giancarli redigeva La Cingana, probabilmente all'inizio degli anni '40, l'Italia non era più" il teatro principale delle guerre europee che nei primi anni del '500 l'avevano vista spettatrice inerme del passaggio distruttivo degli eserciti stranieri. Anzi, a partire dal 1530 Carlo V era tutto teso a stabilire un "nuovo ordine" nella Penisola, operando una serie di investiture che rafforzavano l'autorità imperiale in Italia, riconducendo i Medici a Firenze, nel 1530, nella persona di Alessandro, nipote del papa Clemente VII e concedendo nel 1545 Parma e Piacenza a Pier Luigi Farnese, figlio del papa Paolo III.(57)" Gli uomini giunti a maturità e attivi fra il 1545 e il 1563 -scrive Carlo Dionisotti- non videro in Italia battaglie paragonabili a Pavia o a Lepanto. Con la sola, ben circoscritta eccezione di Siena, o, volendo sottilizzare, con quella anche di Parma e Piacenza, non ebbero a fronteggiare crisi che sostanzialmente alterassero l'assetto politico italiano. Si trovarono a vivere in condizioni di stabilità_ácrescente. Fra il 1430 e il 1540 ancora si avverte il ritmo disordinato ma impetuoso...del dopoguerra".(58) Che cosa significa tutto questo? Dal punto di vista biografico significa che Gigio era ancora a Ferrara agli inizi degli anni '30; che con probabilità quasi certa assistette a una delle repliche ferraresi e che si procurò una delle copie manoscritte della Moschea che circolavano in ambiente ferrarese. In questa nostra "istoria di destini incrociati" emergono elementi di contatto tra personaggi coevi solo in apparenza distanti tra loro. Quel Banchetto cui accennava Messisburgo era, per esempio, "successivo" alla recita della Cassaria dell'Ariosto;(59) e un'altra commedia dello stesso Ariosto, la Lena, è chiamata in causa da Stiefel come probabile fonte della Cingana.(60) Guarda caso la Lena, secondo Padoan, fu recitata "per la prima volta a Ferrara nel 1529 e precedette di qualche giorno la Cassaria.(61) Ma, per restar saldi al Ruzante, anche a prescindere da riscontri testuali, è evidente che Giancarli e Ruzante possono aver avuto mille occasioni d'incontro, di collaborazione e di reciproco scambio: cosa facilissima quando si vive negli stessi ambienti e, più o meno, si fanno le stesse cose. Da Padova a Ferrara ci si andava in una giornata di barca;(62) dei sei fratelli di Ruzante, uno aveva trovato dimora nelle galere di Venezia e un altro risiedeva stabilmente a Ferrara, perché bandito dal territorio della Serenissima.(63)
1.3 VENEZIA E MANTOVA
Tra le comuni conoscenze ce n'era una, in particolare, che non dà adito a dubbi di sorta: Andrea Calmo, che fu in relazioni di amicizia col Giancarli, al quale dedicò una sua "lettera"molto affettuosa, per il vero, e che ci offre il destro per approfondirne la personalità. La lettera del Calmo è estremamente interessante e va letta con particolare attenzione, in quanto apre notevoli squarci sia sull'opera sia sulla persona del Giancarli. All'inizio, intanto, il Calmo afferma di sentire il dovere di pagare, almeno in parte, i "debiti" che egli ha nei confronti di Gigio, uomo "nassuo fuor de le buèle de la poesia"( uomo nato fuor dalle budelle della poesia). Dopo aver lodato le opere pittoriche di Gigio, nelle quali "ogni zorno le persone se ispirita drento" ( ogni giorno le persone ci si spiritano dentro), il Calmo ne esalta anche l'eccezionale produzione poetica , composta da "egloghe, soneti, capitoli, stantie e tanta roba, che no la poràve portar tre burchi feranti": ossia, tanta di quella roba, che a stento la potrebbero traportare tre barche pesanti. Interessante anche la notazione sul carattere di Gigio, bonario e modesto: "…Segondariamente vu sé libero, schieto, senza fidulation, a la carlona in tutte le vostre opinion e contra de quei ignoranti, che no sa si Plauto e Terentio giera maschi o femene..." ( In secondo luogo voi siete libero, schietto, pulito, alla "carlona" in tutte le vostre opinioni e contro quegli ignoranti che non sanno neppure se Plauto e Terenzio fossero maschi o femmine). E poi Gigio è un buon compagno, anche se un po' donnaiolo, dato che corre dietro a tutte le sottane di Venezia: "...può bon compagno, che no ve basta fruàr la roba de casa, che volé anche esser el galo de dona Checa": a Gigio, cioè, non basta la moglie, ma va a donne un po' dappertutto. Tra le altre cose, un'altra osservazione del Calmo risulta interessante: ossia quella concernente il modo di vestire del Giancarli, che dev'esser stato alquanto strambo: "...ve esorto a viver a vostro muodo e vestir come ve tira la fantasia, e chi ve conseia altramente, disèghe che i se faga una scufia de foie de verze..." ( Vi esorto a vivere a modo vostro e a vestire come vi tira la fantasia, e a chi vi consiglia altrimenti, ditegli di andarsi a fare una scuffia di foglie di cavolo).(64) Se il Calmo pone l'accento sull'indole donnaiola di Gigio, sul suo modo di vestire, ciò significa che in quegli anni a Venezia la cosa faceva scandalo in un pittore. L'impressione diventa certezza se andiamo a rileggerci quanto diceva il Pino circa il "comportamento"del "perfetto pittore". Nel galateo del suo pittore ideale, Pino consigliava quanto segue: "... E sopra il tutto aborrisca il pittore tutti li vizij, come l'avarizia...il gioco pernicioso e forfantesco, la crapula…vesti onoratamente...".(65) Gigio, invece, a detta del Calmo, era decisamente anticonformista: oltre ad amare la "crapula" ( "bon compagno"), vestiva a modo suo, e non certo "onoratamente", come consigliava il Pino. Quindi, il comportamento sessuale, il modo di vestire, la stessa conoscenza, a ben vedere, di ambienti popolari ( stradiotti, zingari) fanno di Gigio Artemio
un artista eslege, molto "bohémien", certamente eccentrico rispetto alla norma: non per niente egli era legato alla cerchia dell'Aretino, che lo aveva citato in una di quelle sue lettere che andavano letteralmente a ruba. L'"entourage" dell'Aretino era senz'altro spregiudicato e doveva stare non poco sullo stomaco al Pino. Il quale, nel suo famoso "Dialogo di pittura", nomina parecchi pittori, alcuni dei quali, afferma Camesasca, sono del tutto ignoti, come per esempio Camillo (di) Capelli, detto Camillo Mantovano, tanto che "rimangono ignote le ragioni per cui il Pino poté averlo ricordato fra i più importanti artisti del suo tempo".(66) L'ottimo Camesasca pecca di ingenuità in questo caso, perché, invece, si capisce fin troppo bene la ragione per cui Pino citi alcuni e taccia su altri. il Pino, in pratica, applica una tattica vetustissima: cita gli amici e mette in ombra gli avversari. In quella specie di pollaio che era la Venezia del '500, dove c'era un pittore in ogni casa, come ci informa lo stesso Pino, essere citati equivaleva a un aumento di fama e, di conseguenza, preludeva a introiti pecuniari più consistenti. Tengo per ultima un'altra importante osservazione del Calmo: ossia quella concernente l'estrema abilità del Gigio attore. Non solo Gigio è bravissimo nel "componer commedie", ma áanche nell' "esprimer e rapresentarle, in tel dirle". L'elogio del Gigio attore e interprete di commedie è molto significativo, perché di bravi attori, a Venezia, c'era estrema penuria. Della inettitudine di parecchi attori, che arrivavano a Venezia per il Carnevale, abbiamo testimonianze interessanti.(67) áGigio, è certo, non frequentava attori di tal sorta: aveva rapporti assai probabili con la famiglia d'Armano, sia con Pietro sia col di lui figlio, Tiberio, che, secondo Sanesi, dev'esser stato lo stesso "Tiberio fanciullo" che recitò insieme con Gigio il Prologo della Capraria.(68) Gigio, dal canto suo, se non voleva veder rovinate le sue commedie plurilingui da attori incompetenti, doveva far riferimenti a esperti, specie quando si trattava di far agire gli "stradiotti": ora,di attori che a Venezia sapessero recitare alla "stradiotesca" non ce n'erano davvero molti. C'era, su tutti, Antonio da Molino, "cognominato il Burchiella, uomo piacevole e che parlava in lingua greca e schiavona corrotta con l'italiano..._.(69) E il Burchiella è chiamato in causa direttamente da Gigio in una scena della Cingana.(70) C'erano poi gli attori che giostravano intorno al Calmo, che sappiamo attore di gran valore, come un frate Amonio, il quale recitava in più lingue "nelle quali divenne così chiaro, che oltre alla lingua comune italiana, contrafacendo la greca e la bergamasca, meritò di esser detto il Roscio dell'età sua".( 71) C'era, infine, il buon Gigio, il quale viene elogiato dallo stesso Calmo, buon critico, come un attore "praticon, pronto, fruatissimo", cioè esperto e consumato attore. Del resto, l'"elogio" del Calmo non dev'essere stato campato in aria, anche perché Gigio ebbe buoni maestri; e non viene solo da pensare al Ruzante, ma anche a quel tipico ambiente che tra '4 e '500 s'era instaurato sia a Mantova sia a Ferrara, ove agivano "buffoni di corte" abilissimi nei dialetti. Nel 1532 c'era a Ferrara il Gonnella, che sapeva imitare tutti i dialetti d'Italia.(72) Tra l'altro è da rilevare che tali buffoni godevano delle simpatie dei duchi di Ferrara e Mantova, e anche della loro dimestichezza, proprio in virtù della capacità di far ridere e divertire la corte. Nel 1528, allorché Renata di Francia arrivò a Ferrara per sposarsi con Ercole II, si allestì un corteo preceduto da un "Diego spagnolo buffono sopra un dromedario con abito
risibile".(73) Va da sé che il quadro ricorda moltissimo la figura del vecchio Afrone che, nella Capraria, cavalca buffonescamente una capra tra le risate del pubblico. Gigio, pur essendo un pittore, era anche un attore che possedeva un'abilità proverbiale nell'uso dei dialetti, ed era probabilmente anche in questa seconda veste che aveva riscosso tante simpatie da parte di Ippolito e del Cardinal Ercole Gonzaga. A Venezia Gigio diede dunque ottima prova di sé almeno nella veste di attore, ma vien da chiedersi : _quanto tempo egli rimase a Ferrara? dove si recò successivamente? subito a Venezia? Stiefel, su questo aspetto della vita del Giancarli, suona abbastanza generico: afferma infatti che il pittore rodigino, molto probabilmente, dopo Ferrara si recò a Venezia, dove rimase in pratica per tutta la vita.(74) Stiefel è generico perché in effetti il problema su questo punto si presenta difficilmente risolvibile. A mio parere, il soggiorno di Gigio a Ferrara è quasi certo fin agli inizi degli anni '30, anche perché l'apprendistato a bottega si aggirava intorno agli otto-nove anni.(75) Egli poi compare improvvisamente a Venezia verso la metà degli anni '40: del 1544 è la prima edizione veneziana della Capraria, del 1546 la lettera dell'Aretino e del 1548 quella del Calmo. Si tratta, come si può vedere, di date relativamente alte, che lasciano un vuoto più che decennale prima della effettiva comparsa di Gigio a Venezia. La cosa ci ha portato ad alcune riflessioni. Intanto, abbiamo la netta impressione che Gigio costituisca un tipico esempio di "pittor vago", ossia un uomo che viaggia parecchio sia sotto lo stimolo di interessi culturali sia perché, molto più semplicemente, l'arte va dietro al pane, come diceva il Pino.(76) Per farla breve, un pittore andava dove c'era da lavorare. E' ipotizzabile un lungo soggiorno a Mantova, prima della definitiva (o quasi) permanenza di Gigio a Venezia? Se è pur vero che Venezia costituisce il polo d'attrazione privilegiato per tutti gli aspiranti artisti, è anche vero che Mantova, per molti aspetti, non le è da meno: qui lavora Giulio Romano, principe del Manierismo, e già abbiamo avuto modo di ricordare la tipica formazione manierista del Gigio pittore. In più, come nota Oliver Logan, "la rivale più ovvia di Venezia come centro di attrazione era Mantova che, a differenza della prima, possedeva una corte."(77) Sui rapporti di Gigio con la corte dei Gonzaga le testimonianze sono precise e inequivocabili: intanto c'è la stampa mantovana della Cingana, del 1545, con dedica al Cardinal Ercole Gonzaga. All'altezza di questa data, Gigio, nella Dedica, scrive alcune cose interessanti: egli immagina che la Capraria gli appaia e così gli parli: _...Mi sopragionse la Capraria così ornata et piena d'allegrezza et di gloria, che a pena ( tutto che fosse mia figlia ) la riconobbi... et domandandoli di tanta et così sùbita ventura, Ella così mi rispose: - Di queste allegrezze et di queste glorie m'ha vestita il magno Hercole Gonzaga, Illustrissimo et Reverendissimo Cardinal di Mantova, al cui favore mi trovo non men obligata di quello ch'io sia alla cortesia del grande Hippolito da Este, Illustrissimo et Reverendissimo Card. di Ferrara...Studia dunque et ingegnati d'esser conoscente di tanto favore, essendosi anto S. ( = il Cardinal Ercole Gonzaga) degnato di rivestirmi di toga ET FARMI RAPRESENTAR NEL SUO COSPETTO et di que' PLAUTI e TERENTI che ornano la città di Mantova...". La dedica preposta alla Cingana porta la data del 1545, ma è evidente che i contatti del Giancarli con Mantova si devono porre anteriormente al 1545, con buona probabilità verso il 1542-43. L'edizione veneziana della Capraria è del 1544, ma un personaggio del "Prologo", Tiberio, rivolto al pubblico, ricorda di aver recitato la stessa commedia "un anno prima": è quindi evidente che la commedia era in circolazione già dal 1543 o anche prima, quasi sicuramente dal 1542, perché è proprio in quell'anno che il
cardinal Ercole Gonzaga dà il via a una serie imponente di festeggiamenti e di rappresentazioni teatrali. Nel febbraio di quell'anno il cardinal Ercole Gonzaga faceva allestire a corte splendide feste e numerosi spettacoli teatrali e, tra i tanti, furono recitati i Captivi di Plauto: proprio quei Plauti cui Gigio accennava nella dedica. Da sottolineare anche il fatto che in quella occasione fu rappresentato anche Il Ragazzo del Dolce, stampato nel 1541, e, secondo Stiefel, fonte della Cingana. E' quindi molto probabile che in quello stesso carnevale del 1542 Gigio presentasse a corte la sua Capraria, facendosi apprezzare anche come attore, arte in cui era particolarmente versato, come attesta autorevolmente Andrea Calmo.(78) . C'è poi un dato esterno a cui occorre porre attenzione: Il Melzi, nella sua opera monumentale su Anonimi e Pseudonimi, afferma di conoscere a stampa una sola opera del Giancarli, La Cingana_, di Giorgio (sempre lo stesso errore) Artemio Giancarli, Mantova, 1540 in 8°." Sonovi in questa commedia scene in varii dialetti et anche nella lingua degli zingari".(79) Va da sé che questa data, 1540, farebbe pensare alla presenza di Gigio a Mantova già all'inizio degli anni '40 del Cinquecento. Proprio agli inizi del 1540, Giulio Romano è particolarmente oberato di lavoro e in particolar modo si dedica agli apparati di teatro. Nel 1542, alla corte dei Gonzaga, come già si ricordava, si dava Il ragazzo del Dolce, fonte della Cingana, e i cui interpreti " erano vestiti a guisa di pastori col disegno di Messer Giulio Romano".(80) C'è da chiedersi, a questo punto, cosa abbia spinto Gigio a lasciare Mantova per Venezia: certo, la risposta più semplice potrebbe essere quella relativa al forte richiamo di una personalità come quella di Tiziano, che tra l'altro in quegli anni aveva un bisogno disperato di aiuti, data l'enorme mole di lavoro che si era sobbarcata la sua "impresa". (81) Ma, forse, occorre ricordare altri aspetti della vita mantovana dell'epoca che convinsero Gigio, che già ci si è presentato come uno spirito libero, ad abbandonare una corte che pure gli deve avere offerto numerose possibilità di impiego su vari fronti, da quello pittorico a quello teatrale. La puntuale e precisa cronistoria del teatro mantovano allestita da Alessandro D'Ancona, instancabile esploratore di archivi, segna una cesura netta, dopo i fasti del 1542, che giunge sin sulla soglia degli anni '50, quando la vita teatrale riprende il suo corso.(82) Le ragioni dell'assenza di rappresentazioni teatrali di una certa risonanza verso la metà degli anni '40 di debbono ricercare nella particolare temperie che s'era andata via via maturando non solo a Mantova, ma anche nel resto d'Italia. Il cardinal Ercole Gonzaga appare dalle fonti coeve come uomo estremamente oculato, molto attento a che nei propri domini non si registrassero infiltrazioni luterane e calviniste. Il controllo della situazione presupponeva, in primo luogo, una rigida osservazione delle manifestazioni popolari specie durante il carnevale ( periodo in cui erano normalmente rappresentate le commedie ), in cui affluivano in città predicatori, mendicanti veri e falsi, vagabondi, ritenuti veicoli privilegiati delle eresie.(83) Il 1542 segna un momento epocale nella storia della chiesa: è del 1542 la bolla Licet ab initio, con cui si istituisce il Tribunale dell'Inquisizione e la chiesa supera ogni provvedimento
occasionale contro gli eretici, assumendo una linea dura e intransigente. Di questo repentino mutamento di rotta è protagonista lo stesso Cardinale Ercole Gonzaga, che pure, a suo tempo, aveva tenuto sotto la sua protezione Juan Valdés a Napoli.(84) Gli stretti rapporti epistolari tra il vescovo Giberti, propugnatore della linea dura contro gli eretici, e il Cardinale Ercole Gonzaga, testimoniano che, dopo il 1542, qualcosa stava effettivamente mutando sia a Mantova sia in Italia. Nel 1542 prendevano infatti il largo tutti i principali esponenti dell'eresia italiana, e primo fra tutti Bernardino Ochino che, invitato a presentarsi di fronte all'Inquisizione, fugge in Svizzera.(85) Il clima creatosi a Mantova e in Italia spinse probabilmente il tutt'altro che integrato Gigio a cercare arie più salutari e libere, e certamente l'approdo più sicuro in quegli anni era costituito da Venezia. Lì Gigio, per vivere, dovette fare appello alle conoscenze e alle amicizie maturate nell'ambiente ferrarese e mantovano, perché Venezia era una piazza tutt'altro che facile. A Venezia le regole delle corporazioni erano rigidissime; Ettore Camesasca ricorda che pittori fiamminghi e tedeschi che lavoravano vicino a Tiziano ánon potevano firmare le loro opere; la stessa cosa era capitata anche al Verrocchio, il quale, essendo fiorentino, non poté firmare il suo Colleoni.(86) A Venezia c'erano poi le mille insidie che le corporazioni mettevano sul cammino di coloro che volevano immatricolarsi, tanto che molti, alla fine, rinunciavano. In secondo luogo, e ciò per spiegare l'assenza di documenti iconografici di Gigio a Venezia, occorre realisticamente considerare che nella bottega di un grande maestro si lavorava appunto per il maestro e non per se stessi. E ciò è tanto più vero per Tiziano, che non lasciava agli allievi e ai collaboratori la possibilità di emergere : "...Tutti i collaboratori di Tiziano, salvo rarissimi casi, sono artisti mediocri, privi di uno stile autonomo. Anche per questo la "bottega", nel suo insieme, si presenta come una struttura compatta, costruita intorno al maestro che la domina e la indirizza...".(87) Lo stesso concetto di firma era ancora aleatorio. Tra '6 e '700, informa Camesasca, solo pochi pittori vi ricorrevano e in via del tutto eccezionale; al Prado, continua Camesasca, esistono decine di repliche di un unico esemplare di Tiziano, ed alcune di esse dimostrano chiaramente che il maestro non vi aveva mai messo mano. Essendo opere di aiuti, Tiziano le aveva firmate, ma in questo caso la firma era solo un marchio di fabbrica, usata più che altro per scopi pratici.(88) In terzo luogo, occorre considerare il fatto non certo secondario che un pittore, per vivere, aveva bisogno di lavorare: in genere era estremamente utile dichiararsi allievi di un pittore famoso. Inoltre, un pittore che avesse voluto campare del suo mestiere, doveva essere disponibile per le più svariate operazioni: decorazioni su cassettoni, bandiere, armi e armature, e si verificò anche il caso di pittori rinomati che non sdegnavano neppure la semplice imbiancatura delle pareti di una stanza.(89) Altri pittori, ancora, fornivano disegni ai ricamatori e qualcuno si occupava persino di acconciature femminili oppure di oreficeria ( Si rimanda, per questo tipo di lavori, al passo della Cingana sopra citato ). V'erano infine pittori di cassoni, forzieri, cofanetti, scatole per gioielli: una categoria di gente, rileva Camesasca, non certo beneficata dalla fortuna.(90) E' áda dire però che anche pittori di vaglia non disdegnavano lavoretti minori: Chastel
rilevava che a Venezia vi fu "tutta una fioritura di piccole decorazioni ...su bauletti, bordi di letto, ecc...alle quali Giorgione non disdegnerà affatto di partecipare (secondo Ridolfi)".(91) Da alcuni riscontri interni della Cingana, emerge con estrema chiarezza che Gigio apparteneva alla categoria poc'anzi menzionata, e che era solito a lavori minori, ma non per questo meno tipici della normale attività del pittore. E' quindi evidente che l'assenza di documentazione su Gigio pittore si giustifica con la particolare situazione in cui si trova l'arte pittorica nella Venezia dei primi anni del '500. Se si pensa per un momento a quante opere di Tiziano sono andate perdute, non può certamente far meraviglia la scomparsa, o anche solo la difficoltà di individuare a Venezia opere di Gigio.(92) Ma se Venezia è_ una città per vari versi difficile, essa è anche esaltante per chi sappia e voglia emergere: la città è un crogiolo d'esperienze culturali che coinvolgono non solo la pittura, ma anche la letteratura, la lingua e, soprattutto, il teatro. Venezia si propone intanto come una zona franca per quanti interpretano l'arte e la letteratura in modo originale e fuori degli schemi e della normativa bembesca: di qui passano tutti, da Ruzante a Folengo, per non parlare dell'Aretino. Le possibiltà per Gigio di individuare i giusti canali c'erano: il contatto con l'Aretino dovette essere abbastanza agevole, dati i rapporti sia con Tiziano sia con Giulio Romano. L'Aretino, dal canto suo, ex pittore, deve aver preso a benvolere Gigio, il quale, oltre ad appartenere alla cerchia di Tiziano e Giulio Romano, sembra possedere una certa rapidità di scrittura: ama il teatro e scrive commedie interessanti, specie dal punto di vista linguistico: un campo, questo, dove lui, l'Aretino, sta conducendo la sua battaglia anticlassicista. Inoltre, come osserva Petrocchi, nonostante la fama sinistra, l'Aretino è un uomo simpatico, e " verso gli artisti è portato in principio da una forte, e perfin ingenua, corrente di interessamento e di comprensione".(93) L'Aretino pubblica nel 1546 una lettera stizzita nei confronti di Messer Gratiano da Perugia, che lo assilla con la richiesta di sonetti, ecloghe e simile merce: Aretino assicura il suo interlocutore che a Venezia non mancano poeti in grado di servirlo degnamente, anche se nessuno di essi eguaglia " le cose di Gigio Artemio Rodigino, poeta non men famoso, che pittore valente_.(94) Ricordiamo che le lettere dell'Aretino hanno in quegli anni a Venezia una fortuna senza precedenti: tutti le leggono. Allo stesso modo con cui egli sa flagellare i suoi nemici, l'Aretino è nel contempo un'ottima cassa di risonanza per quanti, come Gigio, si muovono nel suo "entourage". Aretino spende sul Giancarli poche ma significative parole: lo definisce poeta famoso e pittore valente, che nel gergo artistico dell'epoca suonava come "virtuoso", ossia particolarmente capace nell'arte della pittura. In una città come Venezia, dove la pletora dei pittori è immensa, una presentazione benevola del più noto fra i critici dell'epoca alza enormemente le quotazioni in borsa del pittore rodigino, allargandone la fama e le conseguenti possibilità di guadagno.
Nel frattempo L'Aretino si fa promotore di iniziative culturali di vasto respiro; non solo, ma egli diventa anche la "guida" di vari editori veneziani, tra i quali spiccano Gabriele Giolito e Francesco Marcolini.(95) Marcolini, in modo particolare, è "un uomo dell'Aretino", disponibile a ogni suo suggerimento, e insieme danno vita a "un'impresa editoriale e letteraria di tipo nuovo". L'Aretino, "digiuno di ogni educazione umanistica", apre una breccia nel sistema chiuso della letteratura umanistica e tira la cordata a tutta una serie di poligrafi e "scapigliati", che a Venezia irruppero impazienti di sperimentare i loro "capricci".(96) Non è certamente un caso che l'edizione più antica della Capraria, del 1544, sia stata "impressa presso Francesco Marcolini", e quindi riedita dallo stesso nel 1554. Aretino e Giancarli coltivavano, inoltre, conoscenze comuni molto interessanti. La dedica alla Capraria al Cardinal Ippolito fu scritta il 22 Maggio del 1544, ossia venti giorno dopo l'arrivo di Ippolito a Venezia con importanti incarichi politici.(97) L'Aretino scrisse che "il cardinale di Ferrara non s'era partito senza dargli un segno della sua liberalità e vantandosi di averlo lasciato partire col non essere mai andato a baciargli la mano".(98) L'Aretino conosceva benissimo anche il duca Ercole, con cui Gigio era in ottimi rapporti. A quanto è dato sapere, pare che nel 1537 una visita a Venezia del Duca fruttasse all'Aretino ben cento scudi d'oro.(99) Stiefel si chiedeva come Lope de Rueda, autore di un rifacimento della Cingana, fosse entrato in contatto con l'opera del rodigino; il critico tedesco, fra le diverse possibilità, sottolineava quella relativa alla presenza degli spagnoli in Italia, che è sicuramente la più probabile per diverse ragioni.(100) Una, intanto, è data dal fatto che lo stesso Lope de Rueda fu in contatto diretto con svariate compagnie di comici italiani. L'altra passa ancora attraverso la figura di Pietro Aretino, la cui ombra sembra aleggiare costantemente sul Giancarli. Al servizio di Carlo V vi fu un famoso letterato, Diego Hurtado de Mendoza, che fu anche ambasciatore a Venezia. Egli intrattenne molti contatti con i letterati italiani e fu in rapporti con Pietro Aretino, che lo ricordò sia nelle Lettere,(101) sia nelle Carte Parlanti.(102) Da rilevare che il De Mendoza ebbe relazioni anche con Tiziano, che ne fece un ritratto.(103) Ma al di là dei dati esterni sin qui delineati, esistono nell'opera teatrale del Giancarli delle consonanze interne che rimandano con chiarezza a certe teorie linguistiche propugnate dall'Aretino a Venezia. Quest'ultimo stava infatti portando avanti con tenacia la sua battaglia anticlassicista e antibembesca su diversi fronti, da quello editoriale a quello linguistico. Le posizioni aretiniane sulla lingua emergono sia nelle Lettere sia nei Ragionamenti, dove egli insiste su alcuni concetti di fondo e, tra questi, la necessità di dare largo spazio alla _lingua parlata_: la tensione dell'Aretino era di far sì che la pagina scritta vivesse della naturalezza del parlato. Io non "mi curo punto, scriveva l'Aretino, di miniar parole... e tutto è ciancia, eccetto il far presto e del suo". E Gigio, nel prologo della Cingana, afferma di aver composto la commedia in un ghiribizzo di sole otto ore. Ghiribizzo è parola cara all'Aretino, che la usa nel 1537 per difendere la sua teoria di una scrittura rapida.(104) Pochi si sono resi conto, scrive L. Fontana, del vero e proprio "culto" che l'Aretino ebbe della parola; solo che "per lui esiste una lingua accogliente ogni sorta di vocaboli o di modi di dire...L'Aretino ( che era...scrittore di getto: scriveva decine di strofe in poche ore,
commedie in pochi giorni) non tollera...pedantismi nell'arte...".(105) Il riflesso delle teorie aretiniane si nota in modo emblematico nel teatro del Giancarli, le cui commedie si configurano come una ricerca appassionata di mimetismo linguistico. La Capraria e La Cingana si presentano come un repertorio di "voci" veneziane, pavane, zingaresche, stradiotesche, arabe. La connotazione babelica di Venezia viene quindi riproposta con accanimento sulla scena, così come dialetti e gerghi, parlate locali e lingue straniere variamente deformate e irridenti aveva proposto l'Aretino già nel 1525 con la sua Cortigiana. Si tratta, rileva Quondam, di scritture "che veicolano sistemi linguistici non troppo difformi... dall'uso...Alludo...a Ruzante, ad esempio, e alla tradizione pavana, a Folengo, ancora".(106) Afrone - Alithiane, xè vero. Su la zuvendùa fava cose della diavvolo, che no se pol diri; cando andava sul festa se rideva e legrava tudi candi...( Capraria, I-7-27) Interpretandone il senso: - E' vero. In gioventù facevo cose del diavolo, che non si possono dire. Quando andavo alle feste si rideva e ci si divertiva tutti quanti...-. Solo all'apparenza disarticolato e fantastico, questo linguaggio è invece una vera e propria lingua, parlata nella Venezia del '500 dagli stradiotti, soldati greci al servizio della Serenissima. La lingua stradiotesca era una mescidanza di greco e veneziano corrotti. Non si deve credere però che gli spettatori durassero eccessiva fatica a intendere i termini greci, perché di áessi ne veniva data la traduzione immediata. Alithiane = alétheia einai= xe vero Demetri pedimu= o fion mion dulciu= o figlio mio dolce Pedimu= paidì mou= figlio mio ( Capraria, V-9) Così per la lingua araba, parlata dalla zingara: El beith= el casa Letachaf= no haber paura (Cingana, II-12) Anche altri aspetti dell'ideologia aretiniana circolano liberamente nelle commedie del Giancarli: mi riferisco in modo particolare a quella concezione della vita che sollecitava l'Aretino a scardinare la rigida compattezza del tessuto sociale cinquecentesco, a operare una breccia nelle regole sociali, per cui anche il figlio di un modesto calzolaio poteva aspirare a farsi nobile e a vivere come un nobile. Tale concezione trova una sua eco nel prologo della Capraria, laddove Gigio si scusa con gli spettatori per aver loro offerto l'esempio di un servo che si sposa con una nobile: "...Et se vi offenderà gli intelletti, Ortica maritandosi in Dorotea nobile, essendo egli servo, ponetevi innanti a li occhi quanti natti [sic] servilmente sonosi agranditi per qualche sua virtù o sufficientia et fatti nobili...".
Il soggiorno di Gigio a Venezia dovette essere abbastanza lungo; le capacità linguisticomimetiche dimostrate nelle commedie portano Stiefel a concludere che, con ogni probabilità, il pittore rodigino rimase a Venezia "per tutta la vita". Vi sono però elementi che conducono a conclusioni diverse da quelle di Stiefel, il quale, per la lontananza, non ebbe probabilmente la possibilità di valutare appieno tutta la documentazione su Gigio. Osservando intanto le edizioni veneziane delle commedie, notiamo che l'ultima stampa della Capraria è datata Venezia, 1554. Poi c'è una cesura decennale, e una riedizione della Cingana compare nel 1564, forse post mortem, ma la cosa è comunque tutta da verificare. Prendendo come base l'edizione della Capraria del á1554, all'altezza di questa data Gigio ha ormai 45-46 anni e, quasi certamente, molte delusioni alle spalle. Né Mantova né Venezia gli avevano dato quelle soddisfazioni professionali che egli, partendo giovanissimo da Ferrara, si era forse ripromesso. A parte la difficoltà di emergere come pittore accanto a un monopolizzatore estremamente rigido come Tiziano, che schiacciava i suoi aiuti sotto la sua prepotente personalità,(107) la città stessa non era più quella di prima, quella della giovinezza e poi della maturità. Molte cose in quegli anni erano andate evolvendo: le "libertà" veneziane andavano sempre più scemando e l'alito pesante della Controriforma si faceva ormai sentire anche nella "libera" Venezia. (108) Già da alcuni anni L'Aretino andava subodorando che qualcosa stava inesorabilmente cambiando, sin da quando nel lontano 1544 Monsignor Della Casa s'era stabilito a Venezia come Nunzio Apostolico, con incarichi molto particolari. Mentre a Venezia il Della Casa riscuoteva un plauso quasi generale, una "voce discordante sarà quella dell'Aretino":(109) e un giorno o l'altro, diceva, " gli sgherri arriveranno in tipografia del nostro compare Marcolini, una mattina, all'improvviso".(110) Il Della Casa otteneva notevoli successi personali a Venezia, come per esempio l'introduzione di un nuovo tribunale speciale e l'allestimento di una lista di libri "proibiti". Verso il 1550 il Doge dichiara di non tollerare più la presenza di luterani in città: le cose cominciano a mettersi male per tutti gli á"spiriti liberi".(111) E infatti, dopo la prima ed esaltante avventura che doveva durare dal 1534 al 1559, si assiste, secondo il Quondam, a una fase di ripiegamento dell'iniziativa del Marcolini e "a un suo trasformarsi da editore di tendenza militante sulla scena dei discorsi culturali cinquecenteschi, in editore locale".(112)
1.4 LA FINE DELL'AVVENTURA Nel 1556 L'Aretino muore di un colpo apoplettico e nel 1558, a neanche due anni dalla morte, i suoi libri finiscono all'"Indice". Dall'inizio degli anni '50 tira quindi a Venezia un'aria di fronda, che a un uomo come Gigio parve probabilmente poco respirabile. Con
ogni probabilità egli lasciò Venezia nel 1554, per ritornare a Rovigo, ove lavorò a Palazzo Roncale, finito appunto nel 1555.(113) Molti indizi inducono quindi a pensare che Rovigo sia stata l'ultima tappa del Giancarli, anche se non è da trascurare l'ipotesi di qualche capatina a Treviso. Nel Prologo della Cingana, Gigio, presentando un personaggio, Acario, afferma che costui " si era fatto cittadino di questa città…di Treviso". Sarà poi da notare che l'edizione del 1550, stampata a Venezia da Agostino Bindoni, porta la seguente dicitura: " Et rapresentasi in Treviso". Il cenno a Treviso potrebbe rimandare a probabili rapporti professionali con questa città, anche perché in genere la áscena, sin dai tempi dell'Ariosto e di Ruzante, era "fissa", per cui Gigio nel prologo usa un espediente tipico. "Il prologo della seconda edizione del Negromante, scrive L. Zorzi, ricorre con ironia nell'espediente, di fonte classica, della collaborazione mentale, invitando gli spettatori a riconoscere Cremona nella scena che pochi giorni prima, recitandosi La Lena, era stata Ferrara. Allo stesso sotterfugio si appella il Ruzante nel prologo dalla Moschetta, recitata nello stesso luogo pochi giorni dopo, durante il carnevale del 1529: " E questa che è chialò no è Cremona, né Ferrara: mo l'è Pava".(114) Allo stesso modo nel prologo della Cingana si legge: " E acciò che l'opera nostra v'abbia a piacer... sarete contenti ...che crediate che questi edifici, che voi vedete, siano la città di Treviso, et se ben non gli asimigliano in tutto...Non vorrete voi dunque crederlo, dimandandovelo Gigio prima in appiacere et poi in premio della sua fatica?...". Francesco Bartoli, autore nel 1793 di una Serie degli artefici che appartengono alla città di Rovigo, afferma che "...per altro si crede cosa sua (di Gigio) il fregio colla battaglia degli Orazj e Curiazi entro una stanza del Palazzo Roncale. Le pitture a chiaroscuro con centauri ed arabeschi sotto il grondale di Casa Lardi a San Domenico, le quali furono imbiancate pochi mesi sono, erano da me giudicate sue fatture, tanto più che l'epoca, che vi si leggeva era analoga a' suoi tempi, che per buona ventura avendola serbata, qui la trascrivo. MDLXX A DI' 20 M.RZO Di lui sarà pure l'altro fregio, che vedesi nel vicolo di Casa Venezze propriamente sul principio dell'abitazione del Nobil Sig. Giacomo Campo. Altre pitture di simile stile veggonsi sopra la casa del Sig. Ponzan presso il Ponte del Sale, ed altre in altri luoghi".(115) A quanto pare, Gigio lavorò quindi a Rovigo in case di varie famiglie, e l'unica data certa sembrerebbe quella salvata dal Bartoli in casa Lardi, del 20 marzo 1570. La data, però, crea un ulteriore anche se non insanabile problema biografico. Stiefel, infatti, basandosi su alcuni dati della Pace di Marino Negro, propone il 1561 come terminus post quem della vita del Giancarli.(116) M. Negro, nel prologo della Pace (1561), pare evocare l'ombra di Gigio Artemio, usando termini come ombra e fu che parrebbero lasciare pochi margini d'incertezza. Ma quella data, 1570, rimette tutto in discussione. Delle due, una è vera: o Marino Negro, nonostante le apparenze, non intendeva affatto dire che Gigio era morto e la sua era solo una sorta di "finzione scenica", oppure il Bartoli attribuiva al Giancarli opere che erano di altra mano.
Anche se all'altezza del 1570 Gigio avrebbe avuto circa 62-63 anni, età veneranda ma non inaccettabile, resta il áfatto che un'analisi linguistica anche sommaria delle parole del Negro dà ragione a Stiefel, per cui Gigio dev'essere morto tra il 1555, anno in cui vennero conclusi i lavori a Palazzo Roncale e il 1561. Scrive infatti Marino Negro: "...Mi ho adunque pensato di costringere l'ombra d'uno, il quale si soleva dilettare grandemente di simili Comedie...tal che con le sue opre si ha fatto immortale, il quale fu G. Arthemio... per essere stato huomo molto pratico e dotto di tali cose...".(117) Già la presentazione di Gigio come un'ombra è di per sé significativa, ma poi ci sono tutti i verbi al passato (si soleva, fu, essere stato) che non lasciano spazio a dubbi: se Gigio fosse stato ancora vivo, il Negro avrebbe usato il presente: "si suole dilettare, è Gigio Artemio, per essere uomo molto pratico". Per contro, in base a certi dati offertici dal Calmo, si può dedurre che Gigio era ancor vivo verso la fine degli anni '40. Stampando a Venezia nel 1548-49 presso Domenico de' Farri la seconda parte dei suoi Gherebizzi, il Calmo scrive:" Altro stil, altro degno scrittor besognarave a narrar e a sublimar un tanto beneficiao da i cieli come sè vu_" ( Altro stile, altro più degno scrittore occorrerebbe a narrare e a sublimare un tanto beneficato dal cielo come siete voi). (118) Come sè vu, ossia, "come siete voi": l'uso del presente indica chiaramente che in questi anni Gigio era ancora in vita. E' comunque evidente che i lavori individuati dal Bartoli non sono di Gigio, essendo egli morto da almeno una decina d'anni. Quanto ápoi al fregio di Palazzo Roncale, sicuramente di mano del Giancarli, val la pena di spenderci sopra due parole. Su quali "suggestioni" può essere nato un simile tema? Certo, conosciamo già la cultura manieristica di Gigio, ma forse sarà da considerare anche un probabile ulteriore influsso dell'Aretino, che nel 1546 dava alle stampe una tragedia, l'Orazia. In una sua lettera del gennaio 1547, dedicata a Paolo III, l'Aretino scriveva:"...Onde non potendo con altro vendicarmi contra le pessime volontadi altrui, ho intitolato la presente tragedia in l'istoria degli Orazii e de' Ciriazii a Paolo...".(119) La battaglia degli Orazi e dei Curazi fu probabilmente l'estremo omaggio del Giancarli al suo più potente protettore, a quel Pietro Aretino che, a Venezia, nel lontano 1546, lo definì pittore valente.
2. FORME, STRUTTURA E LINGUA DELLE COMMEDIE DEL GIANCARLI
LA CAPRARIA E LA CINGANA
2.1 LA CAPRARIA
L'edizione più antica della Capraria risale al 1544, e fu impressa a Venezia, presso l'editore Francesco Marcolini. Quindi fu stampata sempre a Venezia nel 1552 e nel 1553 da Bartolomeo Cesano, e l'ultima è del 1554, ancora presso il Marcolini. La prima edizione del Marcolini (1544) porta una dedica al cardinale Ippolito d'Este, come ringraziamento di certi favori che il giovane Gigio aveva ricevuto dall'illustre prelato a Ferrara.(120) Non esistono edizioni moderne della commedia. L'azione si svolge a Ferrara, dove vengono a scontrarsi vari personaggi legati fra loro da stretti vincoli di parentela, ma che non si conoscono l'un l'altro. Troviamo anzitutto il vecchio greco Messer Gerofilo, che si fa chiamare Afrone; poi suo fratello Epidimo, che si fa chiamare Eustrato e, infine, Demetrio e Campaspe, i quali si fanno chiamare rispettivamente Lionello e Dorotea. Ambedue questi ultimi sono figli di messer Afrone, al quale áerano stati rapiti ancor bambini da un suo schiavo e che erano stati poi venduti uno a Bologna e l'altra a Venezia. Per gli ástrani casi della sorte, sia Lionello sia il vecchio Afrone si innamorano di Dorotea, la quale è tenuta in suo potere dal ruffiano Famelico. I due spasimanti, come è logico attendersi, non si risparmiano pur di liberare Dorotea dalle grinfie del ruffiano. Afrone si è messo però nelle mani rapaci del suo servo Brusca, il quale, facendo finta di aiutarlo a conquistare Dorotea, gli spilla molto denaro con vari raggiri. Lo stesso il servo furbo fa anche con la moglie di Afrone, Madonna Cassandra, una vecchia mezza matta che si è invaghita di lui. Per contro Lionello può contare sul servo Ortica, astutissimo, il quale riesce alla fine a prendersi gioco del ruffiano e a costringerlo a cedere Dorotea al padroncino. Alla fine, dopo una serie ben concertata di colpi di scena, si scopre che Lionello e Dorotea sono fratello e sorella e ambedue figli di Afrone. Data la situazione, il sogno d'amore di Lionello e Dorotea s'infrange e la ragazza è data in sposa al servo Ortica, che è riuscito a guadagnare la stima di tutti. La commedia s'inizia con un "Argomento e Prologo" veramente "originalissimo", commenta Sanesi, e nel quale tre personaggi (Tasio giovane, Tiberio fanciullo e lo stesso Gigio ), dialogando tra loro, espongono al pubblico la trama. In esso si finge che Tasio abbia chiesto inutilmente agli attori quale fosse il soggetto della commedia: Tasio - ...Questi nostri comici, il giorno che dierno principio a questa comedia loro, strinsero ciascuno sotto giuramento che non facessero intendere il soggetto di essa: sì, perché la cosa, per esser più nova, fusse più grata, como anche per fuggir il pericolo che li malevoli uccelli di rapina non li levassero il soggetto...Ma Tasio, essendo "persona curiosa", non vuole arrendersi di fronte al rifiuto dei compagni e perciò si affida alla magia o, per meglio dire, all'"arte spiritale". Egli infatti incarica una maga di insegnare "alcune congiurationi" a un ragazzino, Tiberio, il quale,
guardando attraverso una "enghistara" riuscirà ugualmente a carpire il soggetto della commedia. Quindi Tasio invita Tiberio a sedere tra gli spettatori, ma prima di lasciarlo andare gli chiede l'argomento della commedia: Tiberio- ...Un roffiano che un servo il rubba, il qual ora è frate, et ora è muto par a me. Et poi gli restituisse ciò che gli ha robbato; et dui giovani inamorati di due giovane, le quali stanno con il roffiano, in una de le quali è medesimamente inamorato il vecchio, il quale va immascarato a caval de la capra, facendo non so che atti da pazzo; al fine parmi che si abbraccino tutti insieme, et giovani et vecchi et servi...Tasio- Questa è la conclusione quasi di tutte le comedie. Io non voglio altro, vati con Dio. A questo punto, appare un terzo personaggio, Gigio, il quale, rivolgendosi al pubblico, afferma: Gigio - ... Io era mandato a farvi lo argomento: ma da poi che costui mi ha tolto la fatica...prima io vi farò saper qual sia lo auttor [sic] di essa, perché se error vi vedrete dentro, che non sarà perciò così gran cosa, attento che niuna ne è qua giù che non sia atta a patir corretione, forse lo scuserete. Gigio dunque è lo auttore, lo conoscete voi? quel tanto a voi affitionato: non li perdonerete adunque dui peccatucci attento che egli è pittore et non poeta? fatelo di gratia, ch'io di ciò l'ho assicurato. Dunque egli vi prega che se vedrete ne l'opera nostra uno inamorato non servir al soggetto, che voi non ve ne meravigliate, perché di cotali personaggi, et ne le antiche et ne le moderne comedie, se veggono spesse volte. Et se ve offenderà gli intelletti, Ortica maritandosi in Dorotea nobile, essendo egli servo, ponetevi inanti a gli occhi quanti natti servilmente sonosi agranditi per qualche sua virtù o sufficientia, et fatti nobili. Et se porrete mente ne le cose del mondo, vedrete tutto il giorno de li patroni che concedono le figliole a li servi... abenché era facil cosa allo auttore farlo nobile. Perdonatili dunque questi dui peccati, se pur peccati sono, et tanto più che esso prima di voi gli ha veduti, et avrebbe saputo rimediarli, et non ha voluto, et datici il silentio c'or ora darassi principio a la favola...-
Dopo questo tipico prologo "terenziano", tutto teso alla difesa della struttura dell'opera, s'inizia la commedia.
ATTO I
Il primo atto si apre su "Flaminio inamorato", che dà il via alla commedia con un lungo monologo sull'amore: "...Variamente giudicorno gli antiqui circa la felicità e beatitudine nostra..."( sc. I^). Appare quindi il ruffiano Famelico, cui Flaminio chiede notizie di Antilla, la fanciulla di cui è innamorato e che si trova nelle di lui mani. I due si lasciano irritati áe Flaminio afferma:"...Quale morte è così vituperosa, così orribile et tanto trista che costui non meritasse?". Entra in scena adesso (Sc.II^) l'altro amoroso, Lionello, insieme con il servo Ortica. Anche Lionello si lamenta con il servo della propria infelice situazione, poiché Dorotea si trova, come Antilla, nelle rapaci mani dell'astuto ruffiano. Ortica ( sc.III^) promette al padrone di aiutarlo a strappare l'amata dalle grinfie di Famelico, e quindi ambedue si recano in casa di quest'ultimo. Lì Lionello incontra Dorotea, che lo incita a riscattarla al piùpresto, perché su di lei hanno messo gli occhi sia il vecchio e danaroso Afrone sia un soldato greco, che ben presto sarebbe giunto in città con il denaro necessario per riscattarla dal ruffiano. Il quale compare all'improvviso e chiede a Lionello se ha del denaro con sé. Lionello tergiversa e, su suggerimento di Ortica, finge di essere in possesso di una lettera di credito che gli frutterà parecchi soldi (sc. IV^). Famelico però è molto scettico, e con il suo atteggiamento irrita il servo Ortica, il quale gli promette che riuscirà a raggirarlo e che pagherà il riscatto di Dorotea con il denaro che gli ruberà sotto gli occhi. Con la settima scena fa la sua apparizione Messer Afrone, accompagnato dal servo Brusca. Afrone è innamorato di Dorotea e supplica Brusca di procurargli un appuntamento con lei. Brusca rassicura il vecchio, ma lo avverte che per condurre a buon compimento la cosa occorrerà molto denaro, almeno venticinque scudi. Afrone, al sentir della cifra, inizia a lamentarsi, dicendo di non possedere venticinque scudi, anche perché è la moglie Cassandra ad avere tutto il maneggio del denaro di casa. Ma quel giorno stesso, gli fa notare Brusca, dovrà venire dalla campagna il suo contadino Spadan con certe capre: dalla loro vendita ne potrà ricavare senz'altro la somma necessaria.
ATTO II Madonna Cassandra, moglie di Afrone, è arrabbiata con il marito che ritiene infedele (sc.I^) Tuttavia anch'ella è una donna vanesia e smania per il servo Brusca, il quale sta al gioco con il proposito nemmen tanto velato di spillarle quattrini: cosa che gli riesce con estrema facilità perché, dopo qualche piagnisteo, si fa elargire dalla vecchia ben dieci scudi. In quel momento rientra Afrone, il quale è assalito dalla moglie, che lo accusa apertamente di infedeltà. I due coniugi, inviperiti, vengono alle mani, sotto lo sguardo divertito di Brusca, il quale, fingendo di acquetarli, dice in effetti cose tali da aizzarli ancor di più l'uno contro l'altra. Ortica ( sc.III^) nel frattempo, d'accordo con Bolcetta, servo di Famelico, appronta il suo piano per raggirare il ruffiano, il quale, pur essendo pronto a parare i colpi di Ortica, è piuttosto in ansia. Frattanto a casa di Afrone giunge il contadino Spadan con alcune capre. All'insaputa della moglie, Afrone si fa consegnare le capre per rivenderle e ricavare il denaro necessario al riscatto di Dorotea.
ATTO III Ortica ( sc. I^) sorprende per caso il soldato greco Eustrato e il suo servo Barbon, i quali sono alla ricerca della casa di Famelico. Ortica pensa di sfruttare la situazione e si fa credere il servo del ruffiano. Eustrato però è riluttante a consegnargli il denaro, per cui Ortica gli promette di farlo incontrare al più presto con il padrone. Mentre Eustrato, per ingannare l'attesa, si reca all'osteria, Ortica e Barbon continuano a conversare sulla piazza. Ad un tratto Ortica vede passare Lionello e con grande presenza di spirito si mette a urlare: - Famelico, oh padrone!. Dopo un attimo di sorpresa, Lionello comprende l'astuzia del suo servo e sta al gioco. Barbon gli chiede se egli sia effettivamente Famelico e Lionello risponde affermativamente. Poi tutti insieme vanno all'osteria dove si trova Eustrato.
ATTO IV Madonna Cassandra rimprovera aspramente Spadan per aver dato le capre al marito. Spadan si difende dicendo di non aver potuto rifiutarsi di consegnargliele, dato ch'egli è il suo padrone. Successivamente ( sc. 8^) appare Afrone con un paio di corna sulla testa e a cavallo di una capra. Lo scaltro Brusca l'ha infatti convinto che i mercanti di capre vanno in giro bardati in tal modo e che presentano la propria merce urlando a squarciagola. Afrone - Cavre cul becco, cavre cul becco, cavre! Brusca - Un poco più alto. Afrone - Cavre, cavrazza, cavrine cul becco, cavrone! Brunza. Brusca - Padrone. Afrone - Cheste corniole me pesano. Brusca - Eh voi v'ingannate, ché le corna non pesano al dì d'oggi. Con questo travestimento da mercante Afrone si presenta alla moglie con il proposito di vendergliele. Costei però è già stata avvertita dal servo Brusca che, facendo il doppio gioco, si prende così burla dei due vecchi.
ATTO V Ortica si presenta a Famelico sotto vari travestimenti: prima si fa passare per un frate e poi per un povero "mutolo". In tal modo riesce a carpire al ruffiano il denaro necessario per il riscatto di Dorotea. Dopo numerosi colpi di scena, v'è infine lo scioglimento dell'azione: Afrone scopre in Eustrato suo fratello e in Lionello e Dorotea i due figli che un suo "schiavo" gli aveva rapiti da bambini. Tutto si conclude quindi gioiosamente tra baci e
"abbracciamenti".
2.2 CONTRO I RETORI La Capraria è una classica commedia d'intrigo che si cala nella tradizione del cosiddetto "teatro erudito" cinquecentesco, un teatro che, per tutto il secolo, fu al centro degli interessi e delle diatribe dei retori, tutti impegnati, sulla scorta degli "autori antiqui", e in special modo di Aristotele, a canonizzare le strutture della "comedia". Tuttavia, nel campo vastissimo della trattatistica cinquecentesca, la materia era assai più fluida di quanto possa sembrare all'apparenza. Le commedie di Gigio, pur rientrando nell'alveo del teatro erudito, possiedono strutture mobili, e ciò perché gli stessi critici del tempo, pur riferendosi a modelli (Plauto e Terenzio) ritenuti pressoché perfetti, accettavano, anche se non sempre di buon grado, soluzioni alternative. Gigio aveva coscienza di cimentarsi in un campo irto di difficoltà, e sapeva bene che le sue commedie scoprivano il fianco a svariate critiche. Benché le sue scelte stilistiche, a ben vedere, rientrassero quasi sempre nei moduli proposti dalla trattatistica contemporanea, contenevano punte polemiche che non sempre riuscivano gradite. Premesso che la classica divisione in cinque atti(121) e il titolo della commedia ( Capraria, appunto, con il suffisso aria perfettamente foggiato sugli esempi latini: Aulularia, Mostellaria, Cistellaria_), non davano adito a critiche di sorta, una prima osservazione gli poteva venire dall'aver scritto sia La Capraria sia La Cingana in prosa anziché in versi. Alcuni retori, come ad esempio il Giraldi, negavano che una commedia senza versi potesse "essere lodevolmente composta". Altri, ed erano i più, propugnavano invece i diritti della prosa; tra questi Agostino Michele, il quale nel 1592 diede alle stampe un Discorso in cui si dimostra come si possono scrivere le commedie e le tragedie in prosa.(122) Quando usciva áquesto "Discorso", Gigio era morto da quasi trent'anni: indubbiamente tutto fu molto più difficile per lui, ma non gli mancarono certamente esempi autorevoli ( Ruzante, Bibbiena, Machiavelli, Ariosto, Aretino, il Calmo). Per tacer del Calmo, del quale basta leggere il "prologo" della Saltuzza,(123) il Lasca, contemporaneo di Gigio, tuonava senza riserve contro quegli "artefici vilissimi" e "guastatori" che si adattavano supinamente alle regole dei pedanti.(124) Ma sicuramente l'esempio forse più illustre, e anche più antico, della difesa degli scrittori contro le pretese dei retori si deve al Castiglione, il quale "affrontava già alcune questioni che sarebbero rimaste al centro delle polemiche circa i caratteri e le finalità della commedia: non solo difendeva la scelta di un argomento moderno e ridicolizzava la questione dell'imitazione degli antichi, ma riconosceva nella commedia uno spettacolo destinato a rappresentare "cose familiari fatte e dette e difendeva l'uso della prosa contro quello del verso...".(125) Gigio individua poi altri due "peccatucci", com'egli li definisce, che potevano scatenargli contro le ire dei retori. Anzitutto l'aver fatto uso di quella particolare tecnica conosciuta
con il nome di "favola doppia", che a rigor di termini andava contro l'unità d'azione aristotelica, che comportava un unico intrigo amoroso. Egli infatti aveva inserito nella Capraria " uno inamorato che non serviva al soggetto": ossia, accanto alle vicende amorose di Lionello e Dorotea, aveva immesso anche quelle di Flaminio e Antilla. Ciò era evidentemente una divagazione, non richiesta secondo taluni, rispetto al soggetto della commedia. Così, mentre Giason de Nores condannava quegli scrittori di teatro che usavano la "favola doppia",(126) il Giraldi al contrario li lodava, perché essa donava "grandissima gratia al nodo et alla solutione della favola".(127) Il secondo peccato consisteva nel fatto di aver sposato "Dorotea nobile" con un servo, Ortica. Ciò contravveniva a quelle ferree regole sociali cui il drammaturgo doveva sottostare. Al proposito Gigio invita gli spettatori a non meravigliarsi poi tanto se Ortica s'è maritato" ...in Dorotea nobile, essendo egli servo. Ponetevi inanti agli occhi - prosegue quanti natti servilmente, sonosi agranditi per qualche sua virtù o sufficientia et fatti nobili. Et se porrete mente ne le cose del mondo vedrete tutto il giorno de li patroni che concedono le figliole a li servi...". Proprio ponendo "mente ne le cose del mondo", è estremamente improbabile che siffatti casi fossero all'ordine del giorno. E' ben vero, come ha fatto notare H. Hauser, che il primo Cinquecento è un periodo ancora dinamico, ma già allora si registravano i primi tentativi di frenare ogni ascesa sociale.(128) E' più verosimile invece che dietro certe affermazioni di Gigio ci fosse la grande ombra di Pietro Aretino, che pure aveva saputo dimostrare come lui, povero figlio di un calzolaio, fosse riuscito non solo a vivere come i nobili, ma addirittura a metterseli tutti sotto i tacchi con la sua penna sferzante. Ma certo Gigio non aveva la forza dirompente dell'Aretino, e, anzi, di questa sua manchevolezza si affretta a fare ammenda. "...Perdonateli - scrive - dunque questi dui peccati, se pur peccati ásono, et tanto più che esso prima di voi gli ha veduti, et avrebbe saputo rimediarli, et non ha voluto...".(129) Avrebbe saputo...et non ha voluto. L'ostinazione con cui Gigio difende questa sua scelta va al di là di un puro e semplice dissenso nei confronti di determinate regole sceniche per riflettere, a mo' dell'Aretino, nella vicenda del servo che si fa nobile per i suoi meriti, il segno di un desiderio inappagato dello stesso autore che, chiuso dalle rigide strutture sociali, realizza il proprio sogno nell'arte e nella finzione teatrale. Ma forse Gigio sentiva tutta la labilità, tutta la improbabilità di questa pretesa, tanto che di nuovo si cospargeva il capo di cenere e, dopo aver pregato gli spettatrori di considerare che non v'è cosa quaggiù "che non sia atta a patir corretione", ricorda a tutti che in fondo egli _è_ da scusare "attento ch'egli è pittore et non poeta".
2.3 IL GUSTO DEL TIPICO Il gusto del "tipico", del "già visto", del "già conosciuto" è la categoria alla quale si può ridurre la maggior parte della produzione teatrale del nostro '500. Tale gusto si innerva nelle commedie con la proposta non solo di personaggi sempre uguali ( i vecchi, i giovani innamorati, i lenoni, i parassiti, le mogli autoritarie, le prostitute ), ma anche di intrecci che, più o meno, ripetono sempre lo stesso "leit-motiv". Silvio D'Amico faceva notare come lo studioso russo Miklacesvskij si fosse "divertito a rappresentare questi intrecci con altrettanti grafici".(130) Volendo riprendere il "gioco" del Miklacevskij nel rappresentare la situazione amorosa della Capraria, avremo che A (Lionello) ama B (Dorotea), che a sua volta è desiderata da C (Ortica), da E (Afrone) e da F (Eustrato). Poi c'è G (Flaminio) che ama H (Antilla). Donde deriva questo gusto? L'Altieri Biagi ne ipotizza l'origine, oltre naturalmente dal teatro latino, anche dai Cantari e dalle Sacre Rappresentazioni.(131) In effetti in queste ultime è abbozzata una tipologia che insiste moltissimo su "soldati", "ruffiani", "contadini", "mogli autoritarie", "prostitute" e "servi". Così nella Santa Felicita, si individuano i soldati come coloro che sempre "chiegon denari";(132) nella Rappresentazione di Santo Grisante e Daria, il ruffiano si presenta così: "Io son d'ogni arte bagnato e cimato\ e sempre cerco di commetter male.";(133) e ancora nella Rappresentazione del figliuol prodigo di Castellano Castellani, appaiono un "ruffiano giocatore" e á"il ruffiano di Lucrezia".(134) L'elemento contadinesco, che tanta parte avrà nel teatro del Ruzante, del Calmo e dello stesso Gigio, viene presentato nelle Sacre Rappresentazioni con gli stessi intenti giocosi, ossia come mero espediente per divertire il pubblico. Così nella Rappresentazione di Giuseppe due contadini si lamentano della loro povertà;(135) e non mancano neppure esempi di mogli autoritarie, che ricordano molto da vicino l'irascibile Madonna Cassandra. Così nel Miracolo di due pellegrini dice la moglie:"Vuoi ch'io ti dica quel che dir conviensi?\ Io tel ádirò: tu mi par rimbambito."(136) Caratterizzate con tutti i crismi sono anche le meretrici, personaggi tra i più ricorrenti nel teatro cinquecentesco. Vere e proprie metretrici, rileva il D'Ancona, si rinvengono nel _Grisante áe Daria_ e nel Barlaam e Josafat, "mandate a tentare l'animo de' giovinetti".(137) Infine, la più classica delle figure, quella del servo, compare in numerose Rappresentazioni, da quella di San Grisante e Daria a quella di San Tomaso a quella del Figliuol prodigo.(138) Per quanto riguarda i Cantari il discorso si deve forzatamente spostare dai personaggi alle strutture narrative, poiché la tradizione canterina si sofferma essenzialmente sulla descrizione di personaggi di alta estrazione sociale, tralasciando tutta la tipologia che non possegga i crismi dell'eccezionalità e dell'eroicità. Nella Istoria di tre giovani disperati e di tre fate fa invero capolino un "villano", che però non è autentico, ma solo un nobile travestito.(139) Eguali caratteri di eccezionalità ha nei cantari la presenza delle ruffiane,
come per esempio ne La storia del calonaco di Siena, dove appunto compare una vecchia e avida "mercera".(140) Ma al di là di tutte le possibili consonanze che si possono riscontrare nei Cantari e nelle Sacre Rappresentazioni, è indubbiamente nel teatro latino che si individua la matrice prima e più importante della commedia classicheggiante del '500, e tanto più in una personalità come quella di Gigio, formatasi culturalmente tra Ferrara e Mantova, ove Plauto e Terenzio erano rappresentati con una intensità senza eguali rispetto alle altre corti rinascimentali.(141) Ma áil gusto del tipico si pone con una forza senza pari soprattutto áperché v'erano nella società di corte le condizioni della sua esasperazione, "che si concretava nella tendenza a vedere i personaggi della commedia non come individui...ma come tipi, come "elementi" di classi sociali ben definite, in cui era bene che il comportamento e la lingua li chiudessero senza scappatoie, in una gerarchia che rispettasse "..la stratificazione della società".(142) Personaggi tipici e tòpoi tradizionali formano quindi l'ossatura anche della Capraria, che però, pur chiusa nella sua cornice manieristico-classicheggiante e nel gioco brioso di una favola tesa essenzialmente al "delectare" un aristocratico pubblico di corte, si offre a una lettura poliprospettica e realistica da cui emergono i contrasti di una realtà drammatica.
2.4 LA LINGUA RUSTICANA DELLA CAPRARIA All'interno di questa cornice tramandata da una tradizione comica plurisecolare si apre ad un tratto una zona in cui fa la sua apparizione il "rozzo" contadino Spadan. La commedia, scrive il Sanesi, non è "del tutto priva dell'elemento popolare, in quanto vi ha larga parte il villano Spadan, che parla alla maniera contadinesca ed è un uomo rozzo, grossolano, triviale".(143) Ma in che modo si inquadra questo elemento popolare nella struttura della commedia? La Capraria riecheggia e continua senza alcun dubbio un motivo dominante nell'Italia del '500, ossia la "satira contro il villano". Chi aveva saputo cogliere con occhio acuto la realtà del mondo contadino fu il Ruzante, nonostante in lui non vi fosse alcuna particolare adesione nei confronti dei rustici. Spadan nella commedia di Gigio, per situazioni e lingua, sembrerebbe esaurire la propria funzione nel comico. Spadan ride e fa ridere. Siamo al punto: ben lungi dal possedere punte polemiche, Spadan vive la propria storia nella letteratura: è l'erede diretto dei "ministri diaboli", degli "insensata animalia" della tradizione satirica anticontadina.(144) Spadan non è un uomo, bensì un simbolo: il simbolo di un mondo contadino degradato, così come lo vedeva una classe dirigente avversa e al tempo stesso timorosa e consapevole di tale degrado. Eppure, anche in questo povero buffone si nota a volte uno scatto rabbioso, il ricordo di essere un uomo. A un certo
momento Spadan prorompe in una minaccia, che contiene "in nuce" tutto lo spirito di rivolta che animava le plebi rurali vessate non solo dalle pestilenze e dalla fame, ma anche dalle "canzonature", osserva il Leicht, che "dovettero inacerbire l'animo dei rustici e aumentare...il loro astio verso i nuovi padroni".(145) Nella áscena ásettima del quarto atto, Barbon vede Spadan in strada e, volendogli chiedere dove abita Famelico, il ruffiano, lo apostrofa in questi termini: Barbon - ...Villano, oh villano! Spadan - O el mal villan te daghe massier Iesum Dio, gaioffo che te si... Barbon - Come? Spadan - In malora! Spadan - Mo te divi dirme contaìn. Barbon - O tu sei troppo colerico. Spadan - A son el cancaro che te pele... que a son sto soldò de quii maleéti. " Devi chiamarmi contadino e ricordati che sono stato soldato, e di quelli maledetti". Con questo fugace cenno alla guerra, che tanto aveva mutato il carattere dei contadini, Spadan chiude la sua á"rivolta". Tutto si smorza nel riso e nel ritmo giocoso di sempre. Nonostante l'azione si "finga" a Ferrara, Spadan usa locuzioni tipiche del dialetto pavano. Evidentemente la lezione di Ruzante era stata indimenticabile per Gigio, che non intendeva scostarsi dai moduli linguistici sperimentati con grande successo da Ruzante, di cui aveva potuto ammirare l'opera quando era a Ferrara. In áquesto senso, sarà da rilevare che la scena vista sopra è simile a un passo della Moscheta, dove si assiste alla reazione rabbiosa di Ruzante, quando si sente affibbiare da Tonin l'appellativo ingiurioso di "villano": Tonin - Al sango de des! Ol no fo ma' vilà...( Al sangue di dieci, non ci fu mai villano...) Ruzante - Al sangue del cancaro! A' seon vilani perché a' no aon roba. No di de de vilani, ch'a' se sbuseron la pele pì ca no fo mè criviegi ( Al sangue del canchero, siamo villani perché non abbiamo rubato! Non parlate di villani, perché se no ci bucheremo la pelle peggio di quella dei crivelli). ( Ruzante,Moscheta, Atto I, sc.6). (146) Il lessico di Spadan, come già abbiamo rilevato, è ricchissimo di locuzioni gergali che rimandano al pavano dei personaggi ruzantiani . Osserviamo ad esempio il suo linguaggio ingiurioso, che si avvale di stilemi quali:
Cancaro: " Co cancaro, mo que cancaro disìu massier (II-6-10)
Menato - Al sangue del cancaro_, sto me compare è pur un gran frison...( Ruzante, Moscheta, II-3-1)
Spadan - O sea laldò Messier Iesum Dio...(II-6-6) - L'è la più bella biestia che visi mé in lo roverso mondo (II-6-24) Ruzante - A ve domande la vita in don per amor del perdon de Messier Ieson Dio (Moscheta, V-2-9) Menato - ...A dir ch'a n'habi più cancari ch'haesse mé cristian in lo roesso mondo.(Moscheta, I1-1)
Le scelte lessicali di Gigio non si arrestano però alla sostanza gergale, ma si avvalgono di tutta una classe di locuzioni verbali e nominali riprese fedelmente dal dialetto pavano:
Anàr (andare) Afrone- No xe pressa no, dunde va vui andesso? Spadan- ...A voràe imprima anare a bevere...(II-6-32) Gnua - Mo a vuogio anàre...( Ruzante,Parlamento,I-2-7).(147)
Supia (sia) Spadan- Che crìu? Che supia un cogiombaro? (II-6-40) Ruzante -Che crìu che supia a essere in quel paese? (Parlamento, I-1-45)
Ontiera (volentieri) Spadan- Massier sì, mo a vegnere ontiera...(II-6-38) Bìlora - ...Te no gh'iè andà ontiera (Ruzante,Bìlora,I-3-12)(148)
Lo spoglio del repertorio lessicale di Spadan potrebbe continuare ancora, ma credo che un'analisi della sintassi sia maggiormente probante della conoscenza che Gigio aveva delle strutture del pavano cinquecentesco. E' stato rilevato che Ruzante, specie nei monologhi narrativi, faccia discorrere i suoi personaggi usando una sintassi molto ricca di "e"+ il pronome personale ( e mi, e ela), di "e"+ un avverbio ( e si, e po ), di "e"+ una congiunzione ( e che, e con) (149). Si osservi come anche la lingua di Spadan denoti le stesse caratteristiche, quando il personaggio racconta:
Spadan - Mo a te diré: el giera - un giovane-... _ e sì so pare el volea far scaltrìo, e sì lo mande a Vegnexia da una so comare perque la 'l desgrezzase, e che ghe faesse aver del piaxere. Sta femena, cha giera scozzonà, la ghe fasea de le lasagne, e sì la ghe ne impìa un caìn ben ifromagié. E co giera la notte el ghe dixea: " Mea Zanella dème del piaxere". E ella ghe dixea: "Mo miti la man dal cao, e tuotene figiuolo". E ello metéa la man e si se ne toléa de le lasagne...(IV-1-40).( Ora ti dirò: c'era un giovane, che suo padre voleva scaltrire, e così lo mandò a Venezia da una sua comare perché lo digrossasse un po'. Questa donna, che era furba e scaltra, gli faceva delle lasagne, e così glie ne riempiva un catino ben informaggiato. E quand'era notte, lui le diceva:" Mia Zanella, datemi del piacere". E lei gli diceva:" Metti la man di fuori, e prenditene, figliolo". E lui metteva la mano, e così si prendeva delle lasagne). La sintassi prevalentemente paratattica di cui fanno uso i personaggi ruzantiani presenta inoltre molti incisi: Pota de Sant'Abà, Al corpo del crivello, pota de me pare ( Ruzante, Pastorale, XIX, vv.172-81). La lingua di Spadan si caratterizza per una molteplicità di formule esclamative: Al sangue de Cribele (II-8-1), Potta de me pare, l'è la più bella biestia...(II-6-24), Co cancaro, mo que cancaro_ disìu massier...(II-6-10). La sintassi paratattica, fatta di rapide giustapposizioni di frasi molto brevi, è tipica del linguaggio di Spadan e ne caratterizza, come i rustici di Ruzante, la psicologia semplice ed elementare, che si traduce in una parlata popolare priva di profondità prospettica. Spadan -...I dise po che nu da le ville a son grossuli...; l'è megio che vaghe a cà e pur è miegio che vaghe da staltro lò? Mo se quelù me catasse? Mo sel me catasse, mo a ghe diré que no so chal dighe...Potta, a me recorde ancora del me paron da i cuorni. O ácancaro, l'è mo sto un omo onorò...me despuò chel ghe morì la prima femena che fosselo morto an ello...-(IV-12-1).( Dicono poi che noi villani siamo rozzi...; è meglio che vada a casa oppure è meglio che vada da quest'altro? Se mi trova, gli dirò che non so quel che si dica...Potta, mi ricordo ancora del mio padrone. Canchero, ma è pur stato un uomo onorato...ma dacché gli morì la prima moglie, meglio sarebbe stato che fosse morto anche lui).
In una sintassi di questo tipo, l'unico nesso ipotattico presente nel linguaggio rusticano è costituito, come del resto si può notare in qualunque parlante abbia una conoscenza elementare della lingua, dal che\que, il quale viene popolarescamente usato con funzioni pressoché universali. Pertanto il nesso che\que assume tutti i valori: è pronome relativo, interrogativo; congiunzione causale, finale, ecc.(150) Ruzante - ...Quando a giera puttato, que a' lagé stare de nare co le biestie, que haea quel can, que a me 'l menava drio (Anconitana, IV-47). Spadan - ...Potta de San Liombrun...o al cancaro a l'amore...despuò ch'ello vo(l) far cavalcar la cavera, e sì al dise ch'i mercaenti ven da no so que prè de la Maremola... e che i va a quel muo, e sì el gha pettò du cuorni maòri cha veésse mé... po el ghe va inanze, e ello xè su la cavera, e sì el dixe:" Massier, crié Cavere, cavere, e ello no vo(l) cigare...Potta a me, son partìo que a me sentìa cagar...dal maléto riso. A voràe vontiera che la parona...ghe cazzàsse el smorbézzo da sotto da i lachìti...( Spadan sta qui raccontando la scena del vecchio Afrone, costretto dal servo Brusca a cavalcare la capra, e dice: - Potta di San Liombruno e canchero anche all'amore. Gli vuol far cavalcar la capra, perché, dice, i mercanti usan così in Maremma, e che vanno in giro in tal modo. E cos_ì_ gli ha imposto in testa due corna maggiori di quante ne abbia mai viste...Poi gli va dinanzi, mentre lui è sulla capra, e gli dice:"Messere, gridate forte Capre, capre!". Ma lui non vuol gridare...Potta a me, son partito di là che me la facevo sotto dalle risate. Vorrei volentieri che la padrona riuscisse a cacciargli il morbino dalle gambe...(IV-6-1). Da questi esempi si può quindi concludere che Gigio possedeva, come del resto molti gli riconoscevano, una notevole sensibilità linguistica e anche, come Ruzante, una indubbia capacità di impostare la lingua teatrale su toni fortemente realistici.
2.5 LA CINGANA La Cingana ebbe, al contrario della Capraria, una assai più vasta eco e una maggiore fortuna editoriale. Ebbe tre edizioni mantovane, una nel 1540, una seconda nel 1546, con dedica al cardinal Ercole Gonzaga, e una terza nel 1548. Poi fu la volta delle edizioni veneziane: nel 1550 presso Agostino Bindoni, poi nel 1564 fu stampata da Camillo Franceschini e infine nel 1610 da Giorgio Bizzardo.(151) Un'edizione moderna della commedia èstata curata da G. A. Cibotto, estensore della voce Giancarli per l'Enciclopedia dello Spettacolo , e un testo è stato approntato da L. Zorzi per gli studi linguistici di G.B. Pellegrini.(152) Si tratta di una lunghissima commedia in cinque atti, che però Gigio, nel Prologo, attesta essere "stata da lui composta in un ghiribizzo di ott'ore sole". "... Nacquero d'un Messer Acario greco - si legge nell'Argomento - ( ma per certo accidente fatto cittadino di questa città di Treviso ) et di una Barbarina sua moglie doi figliuoli ad un parto, l'un maschio e
l'altro femina. Tanto simil d'effigie quanto sappia o possa far natura: il maschio nomato Medoro et la femina Angelica. Et avenne che essendo li Cingani (popoli erranti) in quel tempo per transito come sogliono esser spesse volte, una cingana, entrata nella casa di Messer Acario..., et trovando una fante sola alla custodia delli duo gemelli ambi nella culla, essendone gita la madre a messa, levòne il maschio, poi ch'ebbe con certa sua astuzia ingannata la fante et poseli in luogo suo il proprio figliuolo...Tacque il furto la fante, temendo la furia d'Acario, et crese (credette) esso che 'l cinganino rimastoli fosse Medoro rubbatoli. Questo, come volle la sorte, in pochi giorni si morì et rimase la figliuola sola, crescendo nella casa del padre in bellezza, onestà et costumi. Et d'essa ora n'è innamorato il gentilissimo Messer Cassandro, ágentiluomo di nome come d'effetti di questa città. Né potendo venire a fine..., ricorre in questo suo amore per aiuto et consiglio ad una certa Agata vecchia, povera et ruffiana, la quale, com'è il costume di queste tali, cavandone non poco utile, li promette il tutto senza sapere come condurre la cosa a fine felice. Ma ecco come la fortuna...conduce in questa (città) Medoro, il fratello d'Angelica, doppo che quatordeci anni ha errato per il mondo...tanto simile alla sorella, ch'essendo vestito da femina per consiglio (della zingara), è incontrato nel sig. Cassandro, che lo crede la sorella tanto amata da lui. Et dapoi... v'agiunge a caso Agata la ruffiana, quale, co 'l mezzo di XXV ducati et certa sua astutia, fa contentar la cingana: che 'l giovane Medoro così travestito da donna...entri a certo tempo in casa del padre, tanto ch'ella ne cava la sorella Angelica... Ora qui s'ha d'aver piacer nel ritornar de' vecchi a casa e nel cambiar de' figliuoli. Ma la cingana, al fin fine, preso il tempo e 'l luogo, li scopre il furto ch'ella fece di Medoro sin nelle fascie et Agata altresì l'assassinamento d'averli levato di casa Angelica et condottala al sig. Cassandro...Il tutto se li perdona sì a l'una come a l'altra, et il sig. Cassandro, essendo gentiluomo, come nel principio vi dissi, la piglia per moglie. Io non vi fastidirò altramente nel dirvi l'amor di Acario con Stella, l'astutie di Spingarda suo servo, né‚ meno la lite di Garbuglio villano et di Martino Bergamasco...".
ATTO I La commedia s'inizia con un lunghissimo monologo di Agata, la ruffiana, che si lamenta per la propria indigenza. Agata - ...Daspuò che son qua, andarò a far un áaltro áservisio, che ápeler_ò_ ste mie amighe, che vol andar sta sera alla ácomedia, che recita el Burchiella a San Stefano. Ah ah, el me vien tanto da rider co ste comedie. Tamen le xè bone per mi, che anca gieri e ho guadagnao de boni soldi co ste mie sguardoli e perfumeghi...-. Saputo che messer Cassandro, un giovane gentiluomo, è innamorato di Angelica, la ruffiana decide di andare a fargli visita con l'intento di offrirgli i propri áservigi. Nelle scene seguenti ( 2,3), Agata incontra un ragazzino, Fioretto, il quale è al servizio di Cassandro e gli chiede se il padrone è in casa. Fioretto, spaventatissimo perché crede Agata una strega, risponde affermativamente. Entrano il vecchio Acario e il servo Spingarda ( sc.5). Acario, impaziente, chiede notizie di Stella, una giovane di cui è innamorato. Spingarda finge di aiutarlo, ma il suo scopo _è_ quello di trarre un utile dalla situazione. Quindi ( 7 sgg.) assistiamo agli scaltri maneggi di
Spingarda e di Agata, i quali mettono a punto un piano per spillare denaro ad Acario. L'atto si áconclude con Garbuglio "vilan" e Martin Bergamasco, i quali per poco non vengono alle mani per una questione di soldi. Garbuglio reclama i suoi "cinquanta trun e vintiquatro marchitti" per il cavallo che gli ha venduto. Il facchino rifiuta invece di saldare il conto perché Garbuglio gli ha venduto un cavallo bolso.
ATTO II Il secondo atto si apre su Agata, che mette a parte la figlia Annetta del progetto di far quattrini alle spalle del vecchio Acario. Agata invita la figlia a essere gentile con Spingarda, dal quale dipendono le loro fortune. Quindi compaiono (sc.4,5) messer Acario e Spingarda: quest'ultimo dà al padrone la felice notizia che quello stesso giorno potrà ottenere un appuntamento con Stella. Spingarda consiglia Acario di presentarsi a Stella con un regalo degno di lei e gli propone di donarle quella catena d'oro da cinquanta scudi che egli porta al collo. Acario, dopo molte rimostranze, accetta. Inoltre, su consiglio di Spingarda, si traveste da taglialegna per non farsi riconoscere dai vicini. Mentre Acario gongola e appresta gli ultimi preparativi per il fatidico incontro, Agata, Lupo e stella si riuniscono per perfezionare il loro piano: dopo che Acario avrà consegnato la famosa "catena" a Stella, dovrà fare la sua apparizione Lupo che, mostrando di essere geloso di Stella, ádovrà spedirla subito in camera sua e cacciare in qualche modo Acario. Frattanto (sc.12) compaiono Medoro e la zingara, la quale promette al giovane di ritrovargli i genitori ai quali l'aveva rapito da bambino. Dopo un nuovo intermezzo comico di Garbuglio e Martin Bergamasco, entra in scena Acario vestito da átaglialegna. Tutto si svolge come Agata aveva previsto: non appena il vecchio dà la catena d'oro a Stella, Lupo lo caccia "a pugni e pié del culo". L'atto si chiude su Garbuglio e Martin Bergamasco che, ubriaco fradicio, è oggetto delle burle di Garbuglio, che lo conduce all'ospedale dei "matti" su una carriola puzzolente. Il ásecondo atto è altresì interessante perché ci tramanda un esempio antichissimo di canzone rusticana, una di quelle canzoni che Garbuglio era solito intonare sotto l'olmo: Falisco - Canta El mi è sta detto che tu dormi sola. Garbuglio - El me sto dretto che ti druomi sola. E no starìsto miegio accompagnata? E si-aìsi el to moroso a canto, Ti parerìsi pur do volte artanto. La femena xe fatta con e la nula Che no val niente senza la fegura. Mi faré la fegura, el conto è fato:
Che a seon du, e sì faronte quatro. (2-11-33)
ATTO III Acario, arrabbiatissimo, grida vendetta nei confronti di Lupo, che lo ha riempito di una gragnuola di botte. L'astuto Spingarda, dopo averlo un po' rabbonito, decide di "ndare a trovar Agata per partir il bottino" (sc.4). A questo punto s'inizia una vera e propria ridda di sospetti: tutti i complici dell'impresa ai danni di Acario temono di perdere la loro parte di bottino. Così Spingarda cerca affannosamente Agata e Lupo, e quest'ultimo a sua volta rincorre Spingarda. Spingarda frattanto prepara un nuovo tranello all'incauto Acario, sempre preso da smanie d'amore per Stella: prima lo fa vestire da medico greco proveniente da Corfù, poi lo fa spogliare degli áabiti e si fa consegnare gli anelli e le gioie che porta addosso. Mentre Acario, rimasto solo con Stella, continua imperterrito la sua corte tanto vana quanto spietata, arriva Spingarda tutto trafelato, asserendo di essere stato derubato per strada dei gioelli che il padrone gli aveva affidato. Intanto Medoro appare in scena travestito da donna (sc.15), ed essendo del tutto uguale alla sorella Angelica, trae in inganno Messer Cassandro, che gli fa delle profferte amorose. Sopraggiungono anche la zingara e Agata: la prima si meraviglia di trovare Medoro in casa di Cassandro, la seconda che colei che crede Angelica possa essere in così buoni rapporti con una zingara. Tra le due donne insorge un battibecco a stento sedato dai buoni uffici di Cassandro.
ATTO IV L'atto quarto è lunghissimo e comprende esattamente 33 scene. Le scene 1-10 vedono in azione la ruffiana Agata, la quale, sfruttando astutamente la somiglianza di Medoro con Angelica, appronta insieme con Cassandro un piano per far sì che egli possa incontrare indisturbato l'amata. Mentre maturano questi eventi, il villano Garbuglio (sc.13-14) s'imbatte nella zingara che, con il pretesto di proporgli un filtro per far innamorare di lui Gnocchetta, la sua "morosa", lo benda, lo lega e gli ruba tutto il denaro. Le scene 20-33 vedono infine i preparativi per condur fuori di casa Acario e sua moglie Barbarina, genitori di Angelica. L'uno e condotto via da Spingarda col solito miraggio di un nuovo e fruttoso incontro con Stella, l'altra è irretita da Agata che le promette un filtro amoroso da usare su Cassandro, di cui la vegliarda è segretamente innamorata.
ATTO V
E' questo l'atto ádei riconoscimenti e dello scioglimento dell'azione. Dopo che Agata annuncia a Cassandro l'esito felice della loro impresa, vi è il riconoscimento di Medoro (sc.10-11), il quale peraltro non crede che Acario sia suo padre. Tuttavia, a dissipare i dubbi del giovane, interviene la zingara (sc.13), che, vero "deus ex machina", conferma le parole di Acario e confessa il rapimento perpetrato tanti anni prima. Tutto quindi si conclude felicemente: Acario ritrova il figlio, la zingara è perdonata, Spingarda sposa Annetta e Cassandro l'adorata Angelica.
2.6 LE FONTI E LA FORTUNA Come La Capraria, anche La Cingana si rifà per molti aspetti alle teoriche del teatro cinquecentesco, per cui la "cornice" della commedia risente dell'influsso del teatro á"erudito", che aveva come modelli Plauto e Terenzio. In particolare i "Prologhi" hanno un carattere tipicamente terenziano, essendo improntati a una sostanziale ed evidente "difesa" delle scelte stilistiche dell'autore.(153) Sicuramente lo spunto dei "gemelli" è ripreso da Plauto; lo Stiefel ha individuato vari e probanti elementi di confronto, come per esempio la situazione in cui il fratello gemello non vuole riconoscere i suoi genitori ritenuti pazzi ( Cingana, V, 3, 11-12; Menecmi, V, 2,5), o quella per cui i protagonisti hanno difficoltà a distinguere i gemelli ( Cingana, V, 12 e Menecmi, V, 9). Anche La Calandria del Bibbiena è ritenuta da Stiefel una fonte più che certa: il che si desumerebbe chiaramente non solo dalla trama, ma anche dai protagonisti, per cui il vecchio Acario è ritenuto "copia fedele" di Calandro, e similarità marcate vengono individuate sia tra Barberina e Fulvia sia tra Spingarda e Fessenio. Per le "situazioni", Stiefel nota che il travestimento di Medoro da ragazza ricorda da vicino quello di Lidio nella Calandria. Ulteriore fonte sembra essere stata l'anonima commedia Gli Ingannati, composta nell'ambiente degli Intronati di Siena e che conobbe una ventina di ristampe: in questo caso le rispondenze sarebbero individuabili soprattutto nella trama. Eguali consonanze sarebbero quindi ravvisabili nel Ragazzo di Ludovico Dolce e in special modo nella Talanta dell'Aretino, per cui Stellina è ripresa in Annetta e Alvigia (Cortigiana) e Gemma (Ipocrito) in Agata, la ruffiana. Infine, per la sua lunga permanenza alla corte di Ferrara, Gigio non poté non conoscere le commedie dell'Ariosto, per cui Agata ricorda Lena, la ruffiana, e un'eco di Acario si può intravvedere nella figura dello sciocco Pacifico, marito della Lena.(154)
Per quanto rigurda la "fortuna", certamente poche commedie italiane possono contare imitatori tanto numerosi quanti ne potè La Cingana. Stiefel, con un'analisi al solito molto accurata, annotò sette-otto commedie italiane contemporanee o di poco più tarde. Così reminiscenze della commedia del Giancarli vengono individuate nel Filosofo dell'Aretino, dove compare tra i protagonisti il nome di Garbuglio. Alla Cingana sembrano essersi rifatti Girolamo Parabosco con La Notte (1547) e l'Ermafrodito (1549), il Salviani con La Ruffiana (1554), Giacomo Cenci con Gli Errori (s.d.), Marino Negro con La Pace(1561), Pietro Bonfanti con Gli Errori incogniti_ (1586), Curzio Gonzaga con Gli Inganni (1592), Girolamo Campana con Le Redolcite Notti (1620) e Melchior Bossi da Cori con La Gnaccara (1636).(155) Più recentemente L. Zorzi ci informa che una Cingana venne rappresentata a Firenze nel 1589 dai comici Gelosi, i quali ne ricavarono un canovaccio basandosi sulla commedia del Giancarli. Essa venne recitata nel corso dei festeggiamenti per il matrimonio di Ferdinando I con Cristina di Lorena, subito dopo la Pellegrina (1567) di Girolamo Bargagli (1537-1586).(156) Sarà da notare che Pellegrina è il titolo di una delle delle commedie "perdute" di Gigio, insieme con il Furbo e L'Exorcismo.(157) E, tra parentesi, è un vero peccato che queste tre commedie siano andate irrimediabilmente perdute, perché, da come suonano i titoli, esse avrebbero probabilmente dovuto costituire nella mente del Giancarli una sorta di "trilogia" dell'astuzia e della furfanteria. Esse quindi ci avrebbero probabilmente tramandato non solo notizie interessanti sul versante biografico, ma anche esempi protocinquecenteschi di quel parlar furbesco, di quella lingua zerga di cui l'Aretino si mostrò entusiasta e di cui costellò variamente i suoi Ragionamenti. Alessandro Zanco, scrivendo all'Aretino nel 1531, osservava che "la lingua furfantesca è ora in colmo, e non se ragiona d'altro".(158) Sarà altresì da rilevare che l'edizione pi_ù_ antica del Nuovo modo de intendere la lingua zerga, cioè parlare furbesco è ferrarese e risale al 1545,(159) e che furbo (con i suoi sinonimi, Fonzo, Calcagno), ossia il termine usato da Gigio per titolare la sua commedia, è contemplato nel Nuovo Modo, sotto la lettera f (incontrario), con il significato di compagno.(160) Certo è che Gigio non dovette aspettare il 1545 per conoscere il linguaggio gergale dei "furbi", perché esempi di lingua furbesca li troviamo già nell'Ariosto della Cassaria. E guarda caso, il servo che fa uso del "parlar furbesco" nella Cassaria si chiama Furbo, proprio come il personaggio che dà il titolo alla commedia perduta di Gigio: il che rafforza la convinzione che la persona e l'opera dell'Ariosto abbiano costituito un momento importante nella formazione del giovane Giancarli durante il periodo della sua permanenza a Ferrara: Lucramo - Odi: costà m'aspetta: odi la musica! E' tutta per amor. Furbo - Contro, ribeccola (161) A. Vallone interpreta il gergo del Furbo come una semplice esclamazione: "perbacco!".(162) Ma Cecil Grayson, traduce il dialogo in modo più persuasivo. Lucramo intenderebbe dire:"Odi quel che ti dico: è tutto per burla"; e il Furbo:" Capo, sono d'accordo".(163)
Fuori d'Italia la commedia del Giancarli fu conosciuta anche in Spagna, ove fu ammirata e tradotta quasi letteralmente da Lope De Rueda nella Medora. Stiefel ipotizza che Lope De Rueda ne sia venuto a conoscenza nel corso di un suo viaggio in Italia, ma non scarta la
possibilità che gli stessi comici italiani l'abbiano portata in Spagna, ove nel 1538 agì una compagnia di attori sotto la direzione di Mutio, e dove nel 1548 alcuni attori italiani recitarono in lingua di fronte all'infanta Maria una commedia dell'Ariosto, senza poi contare che l'"Arsiccio", ossia Antonio Vignali da Siena recitò commedie italiane alla corte di Filippo II sino al 1556.(164) E devo dire con tutta sincerità che l'intuizione di Stiefel riguardo ad Antonio Vignali, detto l'"Arsiccio", mi sembra quanto mai geniale e potrebbe addirittura far pensare che la già citata Pellegrina di Girolamo Bargagli derivi in qualche maniera dall'omonima commedia perduta del Giancarli. Vignali fu il fondatore dell'Accademia degli Intronati di Siena e accanto a lui, fra gli "Intronati", troviamo i fratelli Scipione e Gerolamo Bargagli.(165) E fu Scipione che curò l'allestimento della Pellegrina dopo la morte del fratello.(166) Esistevano inoltre fortissimi legami tra gli "Intronati" e l'editoria veneziana, come attesta la stampa veneziana (1537) degli Ingannati, commedia nata nell'ambiente degli "Intronati". Riguardo poi allo sperimentalismo linguistico che si stava avviando a Venezia, " su queste posizioni c'erano alleati anche in Toscana - rileva G. Folena , non a Firenze, ma piuttosto a Siena, che aveva allora ed ebbe a lungo, soprattutto attraverso gli Intronati... relazioni privilegiate, politiche, religiose e letterarie, con Venezia e l'editoria Veneziana.". E Antonio Vignali, il fondatore dell'Accademia, aveva " come suo programma la difesa e l'espansione del volgare" e "soprattutto la rivendicazione della libertà linguistica contro ogni pruderie, del dire pane al pane e vino al vino, e usare quando ci vogliono i mots propres e il turpiloquio, perché, diceva l'Arsiccio, al quale piaceva l'odore di zolfo come al Folengo, "secondo li filosofi non è così brutta e così vil cosa che non sia molto più vile e brutto non saperla"...".(167) Secondo Stiefel, che passò letteralmente al setaccio la Commedia dello spagnolo Lope De Rueda, la Medora non sarebbe altro che un mero rifacimento della Cingana, che venne imitata anche in Grecia.(168)
2.7 LINGUAGGI E SOCIETA' NELLA CINGANA Con La Cingana siamo di fronte a un fluttuante magma linguistico quale raramente è dato di riscontrare nella storia del nostro teatro dialettale: in essa c'è veramente di tutto: greco -italico, pavano, bergamasco, veneziano, arabo e gergo zingaresco. Ferrara costituisce quasi certamente il punto di partenza dell'esperienza linguistica del Giancarli. Lì vi lavorò Ruzante, il quale áfu nella citt_à_ estense almeno due volte fra il 1529 e il , lasciando dietro di sé‚ una vastissima eco. L'influenza dello scrittore padovano si ravvisa in modo macroscopico nei "villani" proposti da Gigio: Garbuglio e Spadan sono contadini pavani né più né meno, segno evidente che la lezione ruzantiana aveva lasciato nel Giancarli un'impressione indelebile. Venezia è l'altra tappa fondamentale nell'itinerario culturale di Gigio. La disinvoltura con cui egli pone mano ai diversi linguaggi di Venezia implica non solo una lunga
permanenza nella città lagunare, ma anche la conoscenza precisa di quel mondo cosmopolita in cui si convogliavano le più diverse lingue: l'eco vivissima delle più esoteriche voci della città risuona spesso nella Cingana, specie negli stradiotti, il cui esempio più significativo è ravvisabile in personaggi "greci" come Acario. Il suo stesso amico Andrea Calmo fu autore di varie commedie "in diverse lingue", come La Potione, La Travaglia e La Spagnolas. E' quindi probabile che i rapporti d'amicizia fossero sfociati in un reciproco scambio di vedute, in una comunanza di interessi e, infine, in una identità di esiti teatrali. Ma certamente questi sono solo alcuni dei motivi che portarono Gigio a un largo uso di forme dialettali, altri e non meno importanti non sono da sottovalutare. La preoccupazione, ad esempio, di compiacere il pubblico e di assecondarne i gusti. Il '500 aveva posto di prepotenza il problema contadino, con tutte quelle implicazioni satiriche che una classe dirigente proclive a difendere comunque i propri privilegi incoraggiava negli scrittori di teatro. I quali si erano accorti ben presto che il pubblico di corte favoriva e ricercava i drammi "contadineschi", portati alla ribalta con enorme fortuna da Ruzante e che avevano conosciuto una crescente affermazione a teatro già nei primi anni del secolo. Non è certamente un caso che l'esperienza dialettale della nostra commedia inizi a dare i suoi frutti più saporiti nel '500 e che la presenza del dialetto si proponga, sia pure di straforo, anche in autori di altissimo livello. Una prima conseguenza di questa consapevolezza degli autori di teatro, osserva l'Altieri Biagi, è che il dialetto viene pertanto a proporsi come lo strumento principe di individuazione netta e precisa dei ruoli sociali: la commedia del '500 riflette quindi specularmente la divisione in classi cui è soggetto il "corpus" sociale. Va da sé che la trattatistica cinquecentesca sui "ruoli" era intransigente su questo punto: solo ai "ridiculi" era permesso l'uso del dialetto; ai personaggi di alta estrazione sociale si confaceva l'eloquio in "lingua".(169) Protagonista contadino della Cingana è il villano Garbuglio, di cui Gigio ha saputo cogliere non solo l'aspetto linguistico fatto di pavano, ma anche, attraverso un'intelaiatura volutamente giocosa, elementi sociali che trascendono la mera satira per rappresentare a forti tinte un mondo contadino vessato dalla fame e dalle carestie. Certo, già lo abbiamo notato, Giancarli scriveva la sua commedia in anni molto diversi da quelli del Ruzante, e la sua risulta un'operazione meramente "letteraria", di "imitazione" di situazioni tipicamente ruzantiane, per cui anche Garbuglio viene visto una vittima delle guerre che dalla fine degli anni '20 avevano imperversato nel Veneto, portando ovunque rovine, morti e fame. "Sul padovano, scrive Menegazzo, come nella maggior parte d'Italia, si erano abbattuti nel primo Cinquecento tutti i flagelli biblici della peste, della fame e della guerra...".(170) Il primo effetto della guerra è quello di mutare profondamente il carattere:
Garbuglio - ... Nu dalle ville, inanzo le guere, a giere nu tundi co è una mescola...ma daché è vegnù ste guere e che a som sté in campo...e cha gom spratiché con soldé, sbrisighei, Galiuti e altre zenìe a som deventé an nu scozzoné, an nu scaltrì... -( Cingana, I, 15 ) " Da quando siamo stati al campo, dice Garbuglio, siamo diventati anche noi dei furfanti e dei ladri": della guerra come scuola di astuzia e di furfanteria ci aveva parlato negli stessi
termini anche Ruzante nel Parlamento: "...Non bisogna esser coglioni, vi dico, io mi son fatto scaltro". E ancora: "...Non ne besuogna suppiar pi sotto la coa...a son sì...fato scozonò che no me cognosso ápì sa son mi o me frello...". (Cingana, I, 15) " Non bisogna soffiarci troppo sotto la coda, sono diventato un tal furfante che non mi riconosco più...". Parole che nascondono una minaccia nemmeno tanto velata e in cui è condensata tutta la rabbia di una classe contadina sul punto di esplodere, pronta alla ribellione. Un'altra conseguenza inevitabile della guerra era la carestia, che sottraeva alle plebi rurali anche le più umili forme di sostentamento, rappresentato da polenta e rape, "pasto da villano", "cibo da persone che molto s'affatichino".(171) Cassandro- Che si fa alla villa? Garbuglio- A digom male e si a fagon pezo, po a la fagon anare a polenta e a rave...( Cingana, II, 11)( Diciamo male e facciamo peggio, e poi la facciamo andare a polenta e rape) Garbuglio - ...Quatro dì ca n'ha magnò solamen polenta e pan de sorgo - ( Quattro giorni che ho mangiato solo polenta e pan di sorgo). Che sono poi gli alimenti tipici del contadino pavano, come attesta Ruzante nella Prima Orazione (1521): "Pavan, an? Mo no ghe cresce po de tuta fata legume del mondo? De fave?...Mo biave, po, cun è mégio, sorgo, spelta, segale, orzo".(172) L'altro eroe contadino della commedia è il facchino Martin Bergamasco: egli è il tipico contadino inurbato, piombato in città alla ricerca di un lavoro. Così Garbuglio inquadra, con stilemi tipicamente ruzantiani, roesso mondo,(173) i facchini bergamaschi, "... che sotto el caòre del sole no fu mé uomeni pi avezù e sotile e stregnente a i denari de iggi, per que i vola per tutto el roesso mondo...per guagnare..."(Cingana, I, 15). ( I facchini bergamaschi, che sotto il calore del sole non si videro mai uomini più avveduti, sottili e attaccati al denaro di essi, perché li si vede volare per tutto "l'universo mondo" per guadagnare...). Il povero facchino si lamenta di essere stato imbrogliato da Garbuglio ( che in dialetto veneziano significa appunto "ingannatore", "imbroglione" (Boerio) ), che gli ha venduto un vecchio cavallo bolso. Martin Bergamasco - Orsù, l'è cusì com dis la canzò:" no 'l ghe più fè nel mond, per que tug è bararìa". Quel che dis più la bosìa è più credèst e più giocond , com ha facchg un vilà a mi, che me l'ha cazzada, c'ho credest comprà un so caval...si ho comprà una cavra a rost...- (Cingana, I, 16).( Orsù, è così come dice la canzone:" Non c'è più fede al mondo, perché tutto è imbroglio". Colui che dice le bugie più grandi è il più creduto e il più felice, come ha fatto un villano con me, che me l'ha messa...; ho creduto di comprare un cavallo e invece ho comprato una capra arrosta...) Tug è bararìa: Martin Bergamasco traduce nel suo dialetto le parole famose del Viaggio in Alemagna (1507) di F. Vettori: "...il cervello di questo ( del cerretano) si fa acuto a trovare
arte nuova per fraudare e quello d'un altro si fa sottile per guardarsene. Et in effetto tutto il mondo è ciurmeria...".(174) Secondo l'ideologia corrente il villano ruba per sua natura, perché il rubare, l'arraffare è insito nella sua psiche: " Di natura baia il cane\ di natura robba il villano", diceva un antico pronostico, che riassumeva perfettamente l'idea che la classe di rigente cinquecentesca s'era fatta intorno ai villani, agli "uomini bestia". "Progenies malnata quidem villana vocatur", scriveva Folengo nel Baldus ( XII,vv.246 sgg.). La citazione del Folengo è a mio avviso pertinente, perché nelle commedie del Giancarli vi sono "spie" che fanno pensare a una qualche influenza folenghiana. Fra i nomi dei personaggi che popolano il Baldus, c'è uno Spingardus che rimanda inequivocabilmente al servo Spingarda della Cingana;(175) cos_ì_ come nel canto XIII appaiono varie parole arabe ( atholac, alphatar, aludel), che riecheggiano la lingua mista di arabo e dialetto con cui si esprime la zingara del Giancarli.(176) Uomo della frode, il villano trova la sua collocazione nella stoltezza e nella buffoneria: lo Spadan della Capraria, Garbuglio e Martin Bergamasco sono soprattutto dei buffoni, uomini degradati, atti solo a far ridere il pubblico della città per la loro stoltezza e la totale insipienza. Ma l'occhio di Gigio non si sofferma solo sui villani, ma anche su quel mondo oscuro e maledetto dei subalterni che vivono a Venezia, e la cui unica fonte di sopravvivenza è data appunto dall'imbroglio, dalla frode e dal raggiro. Così tutta l'esistenza di Agata, la ruffiana, ruota intorno al guadagno, ottenuto con l'inganno e la prostituzione, mentre una morale cinica permea di sé ogni azione dei "servi", come ben si vede dal lungo monologo di Spingarda (IV, 6): Spingarda-...Così comanderà il tesoro di cui sarò possessore...beato colui che, facendomi di beretta, avrà da me in iscambio un mio cenno co 'l capo. Facend'io così, ne avrò rispetto...perché sono passati quelli umori all'antica, quando si facea onore alla nobiltà e alla virtù. Non più nobiltà, non più virtù, no: o sia un uomo o sia un asino, pur che sia carico di denari faciasegli onore, perché lo merita. ...Uscirò per una volta di servitù e diverrò d'un asino un uomo, perché non è uomo colui che non ha danari oggidì...E' indubbio che nella commedia circola un'atmosfera molto aretinesca, e Agata, con i suoi "consigli" alla figlia Annetta, ricorda molto da vicino la Nanna dei Ragionamenti. Agata - Aldi fia, no ghel far pur a sàver ti, che dalla mia banda fa conto...no aver per mal de ste mie parole, perché ti vedi ben che son pi vecchia ca ti, e de nu vecchi no xè bon altro che i consegi. Annetta - Come a male, ohimé? Dite pur ciò che vi piace, che tutto si torrà… in buona parte. Agata - Questo te vogio dir: che da qua ananti tu ti faci pi conto de Spingarda...cerca de farghe più piaséri che ti ápuòl, perché chi sa che ancora a questa no fosse la to ventura. Contentalo de quello che 'i vuol. Si in casa te vien... con to commodo, come saràve a dir fazoleti, qualche camisa, qualche linzuol vecchio, no restar de tuòrli. L'è ben vero che sto zuògo no ábesògna farlo troppo spesso, azò che to madonna no se ne accòrza...No te far conscientia de questo, sì ben i no xè toi, che ad ogni modo sti patroni no puòl mai pagar
tutte le vostre fadìghe. E si no avessi donde liogàrli, no te manca la casa de sta to vecchia, che è vostra secretaria. Cusì ancuo tuò una cosa, doman un'altra, tanto che in cao de l'anno s'ha sunào una meza massarìa senza spesa. E quando ti no la volessi adoperar, no te mancherà venderla... Che dìstu de sti mei conségi? te piàsei? Annatta - Madonna sì! Agata - Adònca fa che ti i metti in opra. Aldi: peltri, cusilieri, piròni, cortèi, saliere: tutto è robba!- (Cingana, II,1). Agata, oltre che ruffiana, si presenta inoltre come una "strega", in grado di preparare misteriose pozioni per le più svariate necessità. E come tutte le streghe gode di una fama sinistra, come quella, ad esempio, di mangiare i bambini. Così Fioretto, un ragazzino, le si rivolge in questi termini: Agata - Ah, fìo, a chi digo mi, an? onde vàstu sangue? Fioretto - Ohimé, ohimé, ohimé. Agata - Onde còristu? No aver paura. Fioretto - Falisco, o Falisco: la strega che va in corso. Apri tosto. Agata - Nona, fìo. Fioretto - Falisco m'ha pur detto che voi mangiate i bambini. Agata - Oh, che gramo el fazza Dio, sémpio che 'l xè. Tiò, che te vògio donar sto bel pomo, caro. Fioretto - Ma voi mi mangiarete poi. Agata - No aver paura, te digo! Fioretto - Voi mangiate pur li fanciulli e li forate il corpo.(I-3) Ma nella commedia il personaggio chiave di questo mondo oscuro è la zingara, che provenendo da mondi lontani e sconosciuti, è depositaria di misteriosi segreti, che vela con il suo arabo "balbettante", proveniente probabilmente dall'Egitto, come nota il Teza.(177) Medoro- Come vi poté sofferir il core di lasciar il propio [sic] figliuolo, uscitovi del propio ventre e portarne me, ch'io vi ero nulla? Zingara - ...Cando mi entra fil beith abuch, sul casa de to pari, ... - una fantesca mi chiese ...se mi sabèr far martella l so inamorata (sic) ; mi dito de sì e promessa far gran cosa e presta mi insegnata a ella un ration e mandata ella sul copi de casa...e mi rimasta sola...messo mio figliuol cingani cul to sorella in chel to loga (sic).( Quando io entrai fil
beith áabuch, in casa di tuo padre, una fantesca mi chiese se sapevo far un incantesimo al suo innamorato. Io dissi di sì, e promisi di far gran cosa, e prestamente le insegnai uno scongiuro e la mandai sul tetto di casa. Rimasta sola, misi il mio figlio zingaro con tua sorella al posto tuo.) Medoro - ...Essendo voi cingana, non vi si crede con settanta pegni. zingara - Letachaf, no dubita ninta...( II- 12) Come si pu_ò_ vedere, le parole arabe vengono subito tradotte in un veneziano storpiato, suscitando così l'ilarità del pubblico. Fil ábeith abuch, "sul casa de to pari" ( in casa di tuo padre); letachaf, "no dubita ninta" ( non dubitare per niente). Ma l'arte zingaresca è tesa all'imbroglio, e a farne le spese è Garbuglio, imbroglione a sua volta gabbato, il quale, dopo aver saputo delle capacità della zingara a far nigromanta...a far l'incanta, chiede: Garbuglio - ...Dime, cara mea, savèu farme una qualche pregantéola que la me Gnocheta me morisse drìo? (Dimmi, cara mia, sai farmi un qualche incantesimo in modo che la mia Gnocchetta mi muoia dietro?) Zingara - Chesta star apunto el mio arti. (Questa è appunto la mia arte) Zingara - Anduch'mantil, enti, aber fazuleta?(_Anduch' ámantil, enti: hai un fazzoletto?) Garbuglio - A crezo averlo...( credo di averlo) Zingara - Mi ligàr bel ti l'occhia, enti no bedér ninta.( Ti benderò per bene gli occhi, perché tu non veda niente) Garbuglio - Oh, oh, a sto muo sì che la va ben.( Oh, oh, in questo modo va bene) Zingara - ...Andor...flus, barda se ti abér danari adossa, cava fuora...che no te fazza mal el saitan.(Andor...flus: guarda se hai ádenari addosso, tirali fuori, che non abbiano a punirti el saitàn, gli spiriti).(IV-13) _Anduch' ámantil, enti, "guarda se hai un fazzoletto"; _andor...flus_, "guarda se hai denari, tirali fuori, se non vuoi che ti facciano del male el saitan, gli spiriti".(178) " Non prima dell'anno 1400 - annota il Muratori -uscì de' suoi nascondigli questa mala razza di gente, fingendo per sua patria l'Egitto e spacciando che il re di Ungheria gli avea spogliati delle lor terre: il che fa ridere chiunque sa di geografia, ma si credea facilmente una volta dall'ignorante plebe...Questa sporca nazione, cacciata dal proprio covile..., comparve nelle provincie occidentali, e piena di mille bugie seppe quivi piantare il piede...Non campi, non arte aveano che desse loro da vivere. Il furto, la rapina, le frodi
erano il granaio infausto per loro...E pure si tollerava questa infame canaglia perché facea credere alla gente grossa...che seco portava il dono d'indovinar le cose avvenire...".(179) E' indubbio che tra '400 e '500 il problema degli zingari ebbe una risonanza sociale non indifferente, con riflessi notevoli sia nella letteratura sia nella pittura. Tra XV e XVI secolo ebbero ad esempio una certa fortuna le "zingaresche",(180) e nella pittura non mancarono esempi significativi proprio nell'ambiente emiliano e veneziano. Non sarà inutile ricordare che la famosa Tempesta di Giorgione, nell'inventario approntato da Marcantonio Michiel, quando il quadro si trovava in casa Vendramin, viene titolato come _ El paeseto in tela cun la tempesta cun la cingana el soldato_.(181) Al Correggio appartiene la famosa" Zingarella" e sempre col nome di" Zingarella" fu chiamata l'Assunta del Tiziano. Quanto poi alla presenza di riflessi arabi nella cultura di Gigio, ciò è da rapportarsi non solo a influenze letterarie, ma, come abbiamo già ricordato, anche pittoriche: in questo senso è difficile non pensare a Palazzo Schifanoia, con tutti i suoi simboli astrologici che rimandano a indubbie contaminazioni e fusioni tra mondo classico e arabo. Magia, negromanzia, cartomanzia: sono termini che ricorrono con insistenza nelle commedie del Giancarli. E già abbiamo rilevato come a Ferrara, nei primi anni del '500 avessero operato i più noti cultori di arti occulte, da Paracelso al famoso medico Giovanni Mainardi, il quale si dedicò allo studio della medicina araba, che sola sembrava depositaria di conoscenze arcane e misteriose. Ma tutta questa complessa materia, magia, astrologia, alchimia, che potrebbe far pensare a una cultura e a una società tutto sommato ancora primitive e facilmente suggestionabili, è invece il segno forse più potente della modernità verso cui si stavano avviando le tre città in cui Gigio visse la propria esperienza di uomo, di scrittore e di pittore. Questo triangolo conosce fra la fine del '400 e la prima metà del '500 un'insorgenza di elementi innovatori, in senso mercantile e, direi quasi capitalistico, quali nessun'altra città o corte conobbero in quegli anni. Il Doge Andrea Gritti, che governò sin quasi sulla soglia degli anni '40 e la cui influenza si fece sentire sino al '60, diede il via a una modernizzazione della città, accogliendo tutte quelle frange sociali che la cultura egemone del tempo condannava come eretiche. Ebrei, greci, alchimisti: tutta questa gente, portatrice di malnoti segreti magici, trova ospitalità nella "libera" Venezia, e ciò non tanto perché il Doge sia dotato di particolare "buon cuore", ma essenzialmente perché egli usa le capacità tecniche di queste persone per rafforzare la potenza di Venezia.(182) Sono Venezia, Ferrara e Mantova che accolgono per loro utilità le minoranze perseguitate, e il Gritti, in quest'opera di protezione, risulta "la punta più matura e avanzata".(183) Nella prima metà del '500, Venezia è veramente il centro di raccolta di tecnici, di inzegneri, medici, architetti, artisti." Non sono solo Sansovino, L'Aretino, Tiziano, il Doni ad essere coinvolti in un processo di rinnovamento urbano, scrive l'Olivieri, ma gli alchimisti, che si sono formati nelle "fornaci" di Costantinopoli, poi fuggiti, i fornai della Terraferma che portano a Venezia nuovi ingegni per una più razionale utilizzazione dei mulini, i tecnici di armi bavaresi e svizzeri, che recano proposte per il miglioramento delle artiglierie, i greci che sono vieppiù usati nell'Arsenale".(184) Il Gritti apre le porte soprattutto agli alchimisti, che possiedono l'arte della manipolazione dell'oro, che addirittura sanno creare l'oro, quell'oro che poi sarà utile nelle guerre e nell'acquisto di tutti i beni necessari alla città. (185) Essi sono appunto quei " filosofi, strologi, alchimisti e nigromanti", cui accenna l'Aretino nella Terza Giornata dei Ragionamenti.(186) I rapporti del Gritti con Ferrara e Mantova sono strettissimi. A Mantova
giungono gli ebrei con tutto il loro corredo di conoscenze magiche, astrologiche, mediche (di una medicina occulta). Quando poi per loro l'aria si fa irrespirabile a Mantova, essi trovano un rifugio sicuro a Ferrara, la Ferrara di Renata di Francia.(187) Nelle riunioni che il Doge Gritti tiene a Palazzo Ducale, fra il 1530 e il 1537, egli si premunisce di invitare anche i rappresentanti delle corti di Ferrara e Mantova, perché è anche qui che si stanno ponendo le basi di una cultura moderna, che utilizza tutte le potenzialità, anche quelle eretiche.(188) Mantova e Venezia costituiscono le principali vie di congiunzione degli alchimisti, come del gioco e delle ricchezze di corte. L'Aretino ne aveva compreso l'importanza. (189) Lo spazio apparentemente magico e irrelato rispetto ai reali bisogni della società è invece uno spazio utile: gli eretici, le minoranze sono invece depositarie di tecniche, anche agricole, tendenti a migliorare il rendimento delle terre. Quanti problemi aveva Ferrara per l'area fluviale del Po? Di quali e quante tecnologie aveva bisogno per tentare di domare una natura avversa? Ecco quindi Ferrara che richiama a sé ogni eretico che possegga però strumenti tecnici adeguati. Un altro rodigino, molto più giovane di Gigio, Giovan Maria Avanzi (1549-1622), anch'egli girovago inveterato, avrà rapporti con la corte ferrarese, e anche con Adria, prima di stabilirsi a Rovigo definitivamente nel 1581. E l'Avanzi era un eretico, ma anche un tecnico che fondava "le sue argomentazioni sulla coltura del grano e del fagiolo sulla base dei testi e delle discussioni, che alla corte ferrarese avvenivano e che rintraccia nella biblioteca del Groto".(190) Questa era dunque la vita che circolava intorno a Gigio, una vita che però, già l'abbiamo notato, all'affacciarsi degli anni '60 del '500 tende a dissolversi per la forza della Controriforma: l'affermarsi delle istanze inquisitoriali implicò infatti una vera e propria "fuga", un'"emigrazione"non solo di capitali e di tecniche, "ma anche l'abbandono di Venezia da parte di quegli intellettuali, come il Curione e il Doni, che l'avevano privilegiata per il loro lavoro tipografico ed intellettuale".(191) Erano quindi svaniti nel nulla i sogni aretiniani di una società veneziana "aperta", in cui era possibile l'ascesa sociale, quei sogni che erano stati propri, già l'abbiamo visto, anche di Gigio. Quanto infine all'uso variegato della lingua greca, sarà da considerare che "presso la Scuola di San Giorgio dei Greci a Venezia aveva sede la comunità di quella nazione. Fra mercanti e soldati si incontravano molti pittori di immagini sacre, che continuavano a ripetere l'iconografia bizantineggiante dei quadri di devozione".(192) Ed è probabilmente in simili ambienti che Gigio venne a contatto con il linguaggio degli stradiotti, i soldati greci al servizio della Serenissima. Organizzati in un corpo militare autonomo, gli stradiotti operavano di rincalzo alle milizie veneziane, e di qui la "necessità e la ragione di una distinzione del nome, che indicava "...la loro professione di soldati".(193) Notava ancora il Sala che essi erano soldati per lo più rozzi e indotti, che parlavano un veneziano sgrammaticato, per cui ne risultava un linguaggio estremamente ibrido, fatto di veneziano storpiato e parole greche. Anche nella Capraria abbiamo esempi eloquenti di linguaggio stradiotesco attraverso la figura del vecchio Afrone, che dice venderi invece di "vedere", andosso al posto di "addosso", crendo invece di "credo". Per il greco di Afrone, gia abbiamo visto qualche esempio sopra, ma non dissimile è il linguaggio di Acario, altra vittima delle arti della zingara. Il Teza, rifacendosi agli studi di C. Sathas, ne riporta in nota alcune considerazioni, per cui " quasi tutte le prime commedie italiane hanno argomenti di grecità medievale: e il più curioso è questo, che i personaggi, in quelle del Ruzante, del Giancarli, del Calmo e di altri, parlano i dialetti di allora dei Cretesi, dei Corfioti, dei Rodiani".(194)
Come ha osservato il Sala, il greco presente nelle commedie era fatto più che altro di stereotipi, largamente correnti, e pertanto facilmente riconoscibili dal pubblico e per altro tradotti pressoché simultaneamente dai personaggi stradioteschi. Acario -...Ti ave visto mai chel fia del vecchia? Spingarda - Madonna Stellina volete dir voi? Acario - Si, madonna Stellina, bella, dulci, cara, pulìa fatta sul parandiso. Spingarda - Io la conosco sì, perchè? Sareste voi forse mio rivale? Acario - Chie Stivali? Spingarda - Io non dico "stivale". Io dico mio "rivale". Acario - Chie vol dir rivali? Spingarda - Mio concorente: se siete inamorato d'essa. Acario - Dunga anga ti xe inamorao d'ella. Spingarda - Che non lo sapete se non adesso? Acario - Oymena to cardiamu, ohimé la mio cori (Cingana,II, 5) Oymena to cardiamu ( Oiména to Kardìa mou ), "Oimé, povero il mio cuore". E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma oltre al greco v'è anche un uso vario e arbitrario del veneziano, " e il pubblico rideva - osserva Teza - a sentire mio mugieri e sul casa e della diavulo e sul Venesia...e cento altre strampalerie".(195) Senza poi contare anche la presenza di un comico del significante, per cui, agli orecchi del vecchio Acario, "rivale" diventava á"stivale": una tecnica che avrebbe avuto una fortuna immensa nella Commedia all'Improvviso. Non per nulla il Sanesi, e per la presenza di personaggi come Martin Bergamasco e per l'uso variopinto dei linguaggi, vide nelle commedie del Giancarli le prime avvisaglie dell'incipiente Commedia dell'Arte.(196)
BIBLIOGRAFIA 1) G. Sala, La lingua degli Stradiotti nelle commedie e nelle poesie dialettali veneziane del secolo XVI, in Atti dell'Ist. Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Anno Acc. 1950-'51, Tomo CIX, Classe di Scienze morali e Lettere, p.156.
2) E. Teza, _Voci greche e arabe nelle commedie del Giancarli, in Rendiconti delle Regia Accademia dei Lincei, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Estratto dal vol. VIII, fasc. 4, seduta del 23 aprile 1899, p.135, p. 3 dell'estratto.
3) Il Teatro Italiano, La Commedia del Cinquecento, a c. di G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1977, Tomo I, p. 520.
4) E. Teza, Voci greche e arabe..., op. cit., p. 5.
5) Bronziero, Istoria dell'origine e condizioni dei luoghi principali del Polesine di Rovigo, Venezia, 1747, áp.127. "...Gian Battista Giancarli, assessore...stampò la Capraria e la Cingana e fu intorno al 1551...". E per sua fortuna Stiefel non incappò in F. A. Bocchi, il quale, discorrendo intorno agli Uomini illustri, sciorinò, sbagliando macroscopicamente, una sequenza di nomi e date assolutamente privi di fondamento. Così, per il Bocchi, á_La Capraria_ diventa _La Caprara_(sic), _La Cingana_ si trasforma in una Cingara (sic) e inoltre butta lì una data (1540) che non si capisce bene a cosa si riferisca e, infine, come il Bronziero, confonde Gigio con Giovan Battista: "Giambattista Giancarli, detto Gigio Artemio (1540), giureconsulto, scrisse tragedie, farse, ecloghe, sopratutto due commedie, La Caprara (sic), Ven.1544 e La Cingara (sic); fu mediocre pittore". Anche Bocchi, come Bronziero, deriva quasi sicuramente dal ms. del vescovo Baldassarre Bonifacio che, come il Bronziero, lesse superficialmente. Che il Bocchi derivi dal Bonifacio lo si intuisce perché, dopo aver definito Gigio mediocre pittore, aggiunge: "D'altri assai giurisperiti, teologi e poeti leggonsi gli elogi nel Bonifacio". Quanto, infine, a quella data, 1540, essa acquisterebbe un minimo di senso solo nel caso in cui il Bocchi avesse visto il Dizionario del Melzi (cfr. sotto, n.79), che appunto propone il 1540 come data di un'edizione mantovana della Cingana. Cfr. F.A.Bocchi, Il Polesine di Rovigo, Milano, Forni, 1861, Rist. Anastatica A.Forni, Sala Bolognese, 1975, p.203.
6) A.L.Stiefel, Lope de Rueda und das Italianische Lustspiel, in Zeitschrift fur Romanische Philologie, Halle, 1891, vol. XV, p.184, n.8. Colgo qui l'occasione per ringraziare un vecchio amico e collega, il prof. A. Di Palma, che ebbe la gentilezza di tradurre per me alcune parti dell'articolo dello Stiefel.
7) Illustrium Rhodiginae urbis virorum elogia, a Baldassare Bonifacio Episcopo Justinopolitano, c. 87. Il Ms., del 1654, si trova nella Biblioteca dell'Accademia dei Concordi di Rovigo. Si tratta di un manoscritto in latino, di 30*40 cm, numerato, con scrittura calligrafica di una sola mano.
8) Illustrium..., op. cit., c.86.
9) F.A.Bocchi, Il Polesine di Rovigo, op. cit., p.114
10) D.E.Queller, Il Patriziato veneziano, La realtà contro il mito, Il Veltro, 1987, p.73.
11) D. E.Queller,Il Patriziato..., op. cit., pp.79-80.
12) D.E. Queller, Il Patriziato..., op. cit., p. 187.
13) E. Camesasca, Artisti in Bottega, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 243.
14) La Capraria, Comedia di Gigio Arthemio Rhodigino, Appresso Francesco Marcolini, in Venetia, MDXXXXIIII. A lo Illus. et Reverendissimo Signore Don Hippolito da Este Cardinal di Ferrara Gigio Arthemio.
15) G. Fiocco, L'arte ferrarese nel Polesine, estratto da Cronache d'Arte, 1925, p. 121.
16) A.L. Stiefel, Lope de Rueda..., op. cit., p.185.
17) E. Camesasca, Artisti in Bottega, op. cit., pp. 191 sgg.
18) V. Pacifici, Ippolito II d'Este Cardinale di Ferrara, Tivoli, 1920, p. 5.
19) R. Biordi, Tiziano alla Corte estense, in Gazzetta Padana, venerdì 13 ottobre 1950, p. 3. Cfr. inoltre G. Gruyer, il quale rileva che " au mois de février 1516, ils ( i Dossi) travaillaient a
Ferrare dans le chateau ducal, ou ils étaient logés et nourris, quand Titien vint pour la première fois auprés d'Alphons Ier". Inoltre, osserva ancora Gruyer, in questi anni operò alla corte estense il Garofalo:" il travailla souvent en compagnie de Dosso, ferrarais comme lui, comme lui élève de Costa". A. Gruyer, La peinture à Ferrare pendant la première moitié du Seizième siècle_, in L'art ferrarais à l'époque des Princes ád'Estes, Paris, 1897, vol. II p.258 e 292.
20) C. Volpe, La grande officina ferrarese, in Tuttitalia, Emilia Romagna, Sadea-Sansoni, 1961, vol.II, pp.486-87. Cfr.inoltre le Tavole cronologiche approntate da B.Zevi, Saper vedere l'urbanistica_, Ferrara di Biagio Rossetti, la prima città moderna europea, Torino, Einaudi, 1971, p.331: "1519, Dosso Dossi a Roma conosce Raffaello".
21) A. Golzio, La vita, in Raffaello, l'opera, le fonti, la fortuna, Novara, De Agostini, 1968, vol.II, p.595.
22) C. Volpe, Arte Italiana, Il Rinascimento, in Arte, Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, Milano, Feltrinelli, 1968, vol.I, p.199.
23) Vasari, Le Vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani da Cimabue a' tempi nostri, a c. di A. Rossi e G. Previtali, Torino, Einaudi, 1991, vol. II, p.741.
24) M. Pepe, La "Grottesca: interpretazioni critiche di un genere pittorico, in Cultura e Scuola, Roma, luglio-settembre 1991, pp.142, 140,143,148.
25) M. Pepe, _La Grottesca..., op. cit., p.144.
26) N. Dacos, Scoperta della Domus Aurea e formazione delle grottesche, in Storia dell'Arte Italiana, Torino, Einaudi, 1979, p.I, vol. III, pp.28-29
27) N. Dacos, La Scoperta..., op. cit. p.40.
28) A. Chastel, Le Arti nel Rinascimento, in _AA.VV., Il Rinascimento. Interpretazioni e problemi, Bari, Laterza, 1979, p. 298.
29) C. Semenzato, Guida di Rovigo, Vicenza, Neri pozza, 1966, p. 53.
30) L. Zorzi, Il Teatro e la città, Torino, Einaudi, 1977, p.35, n.14.
31) P. Zambelli, Il De Auditu Kabbalistico e il Lullismo, in Atti e Memorie dell'Acc. di Scienze e Lettere "La Colombaria", Firenze, Olschki, 1955, p.155 e 142.
32) F.A.Bocchi, Il Polesine di Rovigo, op. cit. p. 14. "...Alla Polesella...isolotto allora formato dalla fossa che vien dal cuore del Polesine, due bastioni di legno eretti su burchi e gremiti d'artiglierie contrastavano il passaggio, Sigismondo d'Este, che li guardava, avea fatto tagliar l'argine dalla nostra parte a impedire gli sbarchi...".
33) P. Aretino, Il terzo libro delle Lettere, Venetia, Gab. Giolito, 1609, p.358.
34) R. Biordi,Tiziano alla Corte estense, art.cit., p. 3.
35) R. Biordi, Tiziano alla Corte estense, in Gazzetta Padana_, sabato 14 ottobre 1950, p. 3.
36) Vasari, Giulio Romano, in Vite..., op. cit., vol. II, p.831.
37) Vasari, Giulio Romano, in Vite..., op. cit., vol. II, p.834.
38) Vasari, Giulio Romano, in Vite..., op. cit., vol.II, p.835, n. 39.
39) F.Caroli-S.Zuffi,Tiziano, Milano, Rusconi, 1990, p.58. 40) A. Chastel, Le Arti nel Rinascimento, op. cit., p.316.
41) R. Biordi,Tiziano alla Corte estense, art. cit., sabato 14 ottobre 1950, p. 3.
42) O. Logan, Venezia, Cultura e società, 1470-1790, Il Veltro, 1980, p. 325.
43) P. Rayna, Le Fonti dell'Orlando Furioso, a c. di F. Mazzoni, Firenze, Sansoni, 1975, p. 295.
44) F. Ramorino, Mitologia Classica, Milano, Hoepli, 1967, p.62.
45) G.C. Benelli, Il Mito e l'uomo, Milano, Mondadori, 1992, p.132.
46) G. C. Benelli, Il Mito..., op. cit., p.133.
47) J. Seznec, Magia, Astrologia e suggestioni demoniche nella sensibilità rinascimentale, in Magia e scienza nella civiltà umanistica, a c. di C. Vasoli, Bologna, Il Mulino, 1976, p.197.
48) J. Seznec, Magia..., op. cit., p. 206.
49) Cfr. F. Ramorino, Mitologia..., op. cit., p. 62 e G.C. Benelli, Il Mito..., op. cit., p.132
50) G.C. Benelli, Il Mito..., op. cit., p. 131.
51) F. Ramorino, Mitologia..., op. cit., p.53
52) G. Padoan, A. Beolco da Ruzante a Perduocimo, in Lettere Italiane, XX, n.2, 1968, p.167.
53) Da Banchetti, Compositioni di vivande et apparecchio generale di Cristoforo Messisburgo, Ferrara, 1549, in Il Teatro Italiano, op. cit., pp. 415-416.
54) G. Padoan, A. Beolco..., cit., p. 170.
55) G. Padoan. A.Beolco..., cit., pp.170-71.
56) G. Padoan, A.Beolco..., cit., p. 171.
57) K.O. Von Aretin, L'ordinamento feudale in Italia nel XVI e XVII secolo e le sue ripercussioni sulla politica europea, in Annali dell'Istituto storico italo-germanico in Trento, 1978, vol. IV, pp.66-67; 69.
58) C. Dionisotti, La Letteratura italiana nell'Età del Concilio di Trento, in Geografia e Storia della Letteratura Italiana, Torino, Einaudi, 1967, p.230.
59) G. Padoan, A.Beolco..., cit., p. 177. 60) A.L.Stiefel, Lope de Rueda..., art. cit., p. 212.
61) G. Padoan, A. Beolco..., cit., p.177.
62) G. Padoan, A. Beolco..., cit., p. 178.
63) G. Padoan, A. Beolco..., cit., p. 145.
64) Cherebizzi di M. Andrea Calmo. Ne' quali si contengono varij et ingeniosi discorsi, et fantastiche fantasie filosifiche, compresi in più lettere volgari, nella lingua antica dechiariti_. In Trevigi, appresso Fabritio Zanetti, MDCI, p. 69. Ma ora anche in Le lettere di Messer Andrea Calmo, riprodotte sulle stampe migliori con introduzione e illustrazioni di V. Rossi, Torino, Loerscher, 1888, pp. 120-121. La stessa lettera anche in Il Teatro Italiano, op. cit., tomo I, pp. 520-21. Per la traduzione delle locuzioni gergali veneziane ci siamo serviti di G. Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Cecchini, 1856, rist. anastatica, Martello, Milano, MCMLXXI.
65) P. Pino, Dialogo di Pittura, a c. di E. Camesasca, Milano, Rizzoli, 1954, p. 73.
66) P. Pino, Dialogo di Pittura, op. cit., pp.93-94, n.29.
67) P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubblica, Ist. Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, 1906, vol. II, pp.325-326-327. " Un Magnifico che non vale un bezzo, un Zani che pare un'oca, un Graziano che caca le parole, una Ruffiana insulsa e scioccherella... Di contro ai miseri istrioni e ai saltimbanchi v'erano però non ispregevoli attori, come il Cherea, il musicista Valerio Zuccato e la moglie di lui Polonia,... Pietro d'Armano...Di maggior rinomanza i commediografi dialettali, tra i quali notevoli il padovano Ruzante...il rodigino Giancarli e i veneziani Molino e Calmo".
68) I. Sanesi, La Commedia, Milano, Vallardi, 1935, vol. I, p. 430.
69) A. D'Ancona, Origini del teatro italiano, Torino, Loescher, 1891, vol. I, p. 112, nota.
70) La Cingana, Comedia di Gigio Arthemio Giancarli Rhodigino, in Vinegia, appresso Agostino Bindoni, MDL. Agata ruffiana. Sola.- ...Daspuò che son qua, andarò a far un altro servisio, che pelerò ste mie amighe, che vol andar sta sera alla comedia, che _recita el Burchiella a San Stefano...- ( I-1)
71) A. D'Ancona, Origini del Teatro Italiano, op. cit., vol. I, p. 112.
72) A. Luzio-R.Renier, Buffoni, nani e schiavi dei Gonzaga ai tempi d'Isabella d'Este, in _Nuova Antologia_, 1891, voll. XXXIV-XXXV, p. 125. 73) A. Luzio-R.Renier, Buffoni..., cit., p.126.
74) A.L. Stiefel, Lope de Rueda..., cit., p.186.
75) E. Camesasca, Artisti in Bottega, op. cit., pp.191-92.
76) P. Pino, Dialogo di pittura, op. cit., pp.72 sgg.
77) O.Logan, Venezia, cultura e società, op. cit., p. 125.
78) A. D'Ancona, Origini del Teatro, op. cit., vol.II, p.437.
79) G. Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani o come che sia aventi relazione all'Italia, Milano, Pirola, 1848-1859, voll. 3, alla voce Giancarli. Ringrazio qui il mio carissimo amico e collega prof. A Simioli, ferrarese, per aver sfogliato alla Biblioteca Ariostea di Ferrara il Dizionario del Melzi.
80) A. D'Ancona, Origini del Teatro, op. cit. vol. II, p.438.
81) F. Caroli-S. Zuffi, Tiziano, op. cit., p. 139.
82) A. D'Ancona, Origini del Teatro, op. cit. vol.II, pp.441 sgg.
83) P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, Torino, Einaudi, 1973, pp.XCV sgg.
84) G. Penco, Storia della Chiesa in Italia, Dalle origini al Concilio di Trento, Milano, Jaka Book, 1977, vol. I, p.703.
85) G. Penco, Storia della Chiesa..., op. cit., p. 703.
86) E. Camesasca, Artisti in Bottega, op. cit., pp.203-204.
87) F. Caroli-S.Zuffi, Tiziano, op. cit., p.103.
88) E. Camesasca, Artisti in Bottega, op. cit., pp. 534-535.
89) E. Camesasca, Artisti in Bottega, op. cit., p.430.
90) E. Camesasca, Artisti in Bottega, op. cit., p. 205.
91) A. Chastel, Le Arti nel Rinascimento, op. cit., p. 298.
92) F. Caroli-S. Zuffi,Tiziano, op. cit. p. 78.
93) P. Aretino, Sei Giornate, a c. di G. Aquilecchia, Bari, Laterza, 1980, pp. V-XXXVII. Per il carattere tutto sommato bonario dell'Aretino, cfr. G. Petrocchi, Pietro Aretino tra Rinascimento e Controriforma, Milano, Vita e Pensiero, 1948, pp.4 sgg.
94) P. Aretino, Il Terzo libro delle Lettere, op. cit., p.358.
95) P. Aretino,_Sei Giornate_, op. cit., p. VI. A Quondam, "Mercanzia d'onore" e "Mercanzia d'utile". Produzione libraria e lavoro intellettuale a Venezia nel '500, Bari, Laterza, 1977, p.60,n.11.
96) C. Dionisotti, La letteratura italiana nell'Età del Concilio di Trento, op. cit., p.244; pp.239 sgg.
97) V. Pacifici, Ippolito II..., op. cit., pp.77 sgg.
98) G. Campori, Pietro Aretino e il Duca di Ferrara, Modena, Vincenzi, 1869, p. 8.
99) G. Campori, Pietro Aretino..., art. cit., p.7.
100) A.L. Stiefel, Lope de Rueda..., cit., p. 318.
101) P. Aretino, Lettere scelte, a c. di P. Procaccioli, Milano, Rizzoli, 1991, vol.II, p.1172.
102) P. Aretino, Le carte parlanti, a c. di G. Casalegno e G. Giaccone, Palermo, Sellerio, 1992, p.174.
103) A. Croce, Relazioni della letteratura italiana con la letteratura spagnola_, in Letterature comparate, Milano, Marzorati, 1948, p.111. F. Meregalli, Presenza della letteratura spagnola in Italia, Firenze, Sansoni, 1974, p.19.
104) Pietro Aretino a Messer Ludovico Dolce, in Lettere scelte, op. cit., vol.II, pp.219-222.
105) L. Fontana, Indole e lingua di Pietro Aretino, in Lingua Nostra, 1947, pp.19 sgg.
106) A. Quondam,Nascita della grammatica, in Quaderni Storici, Bologna, Il mulino, 1978, n.38, p.579.
107) F. Caroli-S.Zuffi, Tiziano, op. cit., p.140.
108) W.J.Bouwsma, Venezia e la difesa della libertà Repubblicana, Bologna, Il Mulino, 1977, pp.103 sgg.
109) G. Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Torino, Einaudi, 1975, pp. XVI sgg. L. Caretti, Della Casa uomo pubblico e scrittore, in Antichi e Moderni, Torino, Einaudi, 1976, pp.139 sgg.
110) F. Piga, Le "Storie Veneziane" di Neri Pozza, in Nuova Antologia, luglio-settembre 1992, p. 262.
111) W.J.Bouwsma,Venezia e la difesa..., op. cit., p.103.
112) A. Quondam, Nel giardino del Marcolini, un editore veneziano tra Aretino e Doni, in Giornale Storico della Letteratura Italiana, CLVII, 1980, p. 89. 113) C. Semenzato, Guida di Rovigo, op. cit., p.53.
114) L. Zorzi, Il Teatro e la città, op. cit., p.30.
115) F. Bartoli, Serie degli artefici che appartengono alla città di Rovigo, in Le pitture, sculture e architetture della città di Rovigo, Venezia, 1793, pp. 311-312.
116) A. L. Stiefel, Lope de Rueda..., op. cit., p.190.
117) M. Negro, La Pace, Venezia, Zanetti, 1561.
118) Cherebizzi di M. Andrea Calmo. Ne' quali si contengono varij et ingeniosi discorsi, et fantastiche fantasie filosofiche, ácompresi in più lettere volgari, nella lingua antica dechiariti, in Vinegia, per Domenico de' Farri, MDIXL, fol. 32.
119) Pietro Aretino, Al nostro Signore (Paolo III), in Lettere scelte, op. cit., vol. II, p. 747.
120) Per le edizioni della Capraria, cfr. i seguenti repertori: G.M. Mazzucchelli, Gli scrittori d'Italia, Brescia, Bossini, 1753-1763 e L. Allacci, La drammaturgia accresciuta e continuata fino áall'anno 1755, Venezia, Pasquali, 1775. L'edizione che ho sotto gli occhi è quella di F. Marcolini, La Capraria. Comedia di Gigio Arthemio Rhodigino. Appresso Francesco Marcolini. Al segno de la Verità. In Venetia, MDXXXXIIII_. Le citazioni sono tratte da questa edizione, che per la verità è molto scorretta. Si è mantenuta la grafia cinquecentesca, tuttavia si è eliminata la h iniziale in termini come hor, homo. E' stata espunta la h diacritica in parole come "cavalchar, "anchora. Parecchie le varianti apportate alla punteggiatura: si sono introdotti i due punti e le virgolette nei discorsi diretti; mutati anche i punti e le virgole. Si sono messi gli accenti là dove mancavano.
121) F. Doglio, Il Teatro in latino nel '500, in Acc. Naz. dei Lincei. Problemi attuali di scienza e di cultura, Atti del Convegno sul tema Il teatro classico italiano nel '500, Roma, 9-12 febbraio 1969. Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, Quaderno n.138, 1971, pp.179 sgg.
122) I. Sanesi,La Commedia, op. cit., vol. I, p.128.
123) La Saltuzza, Comedia di M. Andrea Calmo. Di nuovo rivista e corretta.In Trevigi, Appresso Fabritio Zanetti MDC. " ...Io mi ci ho opposto, che non venghi l'argomento, imperò che la favola da sé lo discuopre...".
124) Antonfrancesco Grazzini (Il Lasca), Prologo de L'Arzigogolo, Sampietro, 1967, vol.VII, p.13.
125) E.Bonora, La teoria del teatro negli scrittori del '500, in Atti dell'Acc. dei Lincei, cit., pp.222 sgg. 126) Giason de Nores non ammetteva assolutamente che "due attioni, et ambedue di persone private, che conseguono il medesimo felice essito [sic] , e che non siano contrarie, siano mescolate insieme, del che è stato grandemente ripreso Terentio, -per aver unitol'attion di Pamphilo che ama Gliceria e l'attion di Charino che ama Philomela...". Cfr. I. Sanesi, La Commedia, op. cit., vol. I, p.227.
127) I. Sanesi, La Commedia, op. cit., p.227.
128) H. Hauser, Storia sociale dell'Arte, Torino, Einaudi, 1973, vol. I, p.374.
129) La Capraria, Prologo: parla Gigio Artemio.
130) S. D'Amico,Storia del teatro drammatico, Milano, Garzanti, 1970, vol.I, p.177.
131) áM.L.Altieri Biagi, Appunti sulla lingua della commedia del '500, in Atti..., cit., p.268. Cfr. inoltre sulle fonti romanze della commedia del '500 N. Borsellino, Commedie del Cinquecento, Milano, Feltrinelli, 1962, pp.IX sgg.
132) A. D'Ancona,Origini del teatro, op. cit., vol.II, p.590.
133) A.D'Ancona, Sacre Rappresentazioni dei secoli XIV-XV-XVI, Firenze, Le Monnier, vol.II.
134) Castellano Castellani, La Rappresentazione del figliuol prodigo, in Il Teatro Italiano, Dalle Origini al '400, Torino Einaudi, 1975, tomo I, p. 154.
135) A. D'Ancona, Origini..., op. cit., vol.II, pp.603-604.
136) A. D'Ancona, Origini..., op. cit., vol.II, pp. 638-639.
137) A. D'Ancona, Origini..., op. cit., p. 642.
138) A. D'Ancona, Sacre Rappresentazioni, op. cit., vol.I, pp.427-429. 139) Istoria di tre giovani disperati e di tre fate, in Cantari antichi, editi e ordinati da E. Levi, serie prima, Cantari leggendari, Bari, Laterza, 1914, p.111.33
140) _Cantari del Trecento_, a c. di A. Balduino, Milano, Marzorati, 1970, p. 149.
141) A. D'Ancona, Origini..., op. cit., pp.113-135; 429-440.
142) M.L.Altieri Biagi, Appunti sulla lingua..., op.cit., pp.268-269.
143) I. Sanesi,La Commedia, op. cit., vol.I, p.428. 144) P.Camporesi, La maschera di Bertoldo, Torino, Einaudi, 1976, p.30.
145) P.S.Leicht, Operai, artigiani, agricoltori in Italia dal secolo VI al XVI, Milano, Giuffré, 1959, p.187.
146) Ruzante,La Moscheta, in Il Teatro Italiano, a c. di G. Davico Bonino, op. cit. pp.233-321.
147) Ruzante,Il reduce o Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, in Teatro Italiano, Le Origini e il Rinascimento, a c. di S. D'Amico, Milano, Nuova Accademia, 1955, p.453.
148) Ruzante, Bìlora, in Il Teatro Italiano, a c. di S. D'Amico, op. cit., p.477.
149) M. Milani, Snaturalité e deformazione nella lingua teatrale del Ruzzante, in AA.VV. Lingua e strutture del teatro italiano del Rinascimento, presentazione di G. Folena, Padova, Liviana, 1970, p.113.
150) M. Milani, Snaturalité..., op. cit., p.119.
151) Per le edizioni della Cingana, oltre i repertori, già citati, di Mazzucchelli e Melzi, cfr. E. Pastorello, Tipografi, áeditori, librai a Venezia nel sec.XVI, Firenze, 1924, p. 38. Le citazioni della commedia sono tratte dall'ediz. del Bindoni,La Cingana, Comedia di Gigio Arthemio Giancarli Rhodigino. In Vinegia. Appresso Agostino Bindoni, MDC. Per le questioni filologiche cfr. la nota 120.
152) Cfr. Teatro Veneto, La Cingana, a c. di G. A. Cibotto, Parma, á1960. Cfr. inoltre la voce, curata dallo stesso Cibotto, Giancarli, Gigio Artemio, in Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Ediz. Le Maschere, 1954-1966, voll. 10. E, sempre dello stesso, la voce Giancarli, in Dizionario letterario Bompiani, Milano, 1957, vol.II, p.58. L. Zorzi, Il teatro e la città, op. cit., pp.228-229, n.195. La lingua araba delle commedie del Giancarli è stata studiata da eminenti linguisti; il Teza (Voci greche e arabe..., op. cit.) è stato preceduto da Graziadio Isaia Ascoli, che indagò la lingua degli zingari nel secondo volume dei Saggi Critici, Torino, 1877; il primo volume era uscito a Gorizia nel 1861. Ascoli, studiando un dialogo della Cingana del Giancarli, arrivò alla conclusione che non si trattava di un dialetto zingaro italiano, ma di una sorta di lingua araba corrotta. Per l'intervento dell'Ascoli sulla lingua araba della Cingana, cfr. anche F. De Vaux de Foletier, Mille anni di storia degli zingari, Milano, Jaka Book, 1978, pp.237 sgg. Dopo gli studi dell'Ascoli e del Teza, menzioniamo G.B. Pellegrini, L'arabo della "Zingara" di A. Giancarli in Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all'Italia, Brescia, Paideia, 1972, vol.II, pp.601-634. Secondo Pellegrini l'arabo parlato dalla zingara del Giancarli sarebbe una lingua "mista di veneto e di arabo magrebino". Cfr. Zorzi, loc. cit., p.229, n.195. 153) Su tutta la materia dei prologhi, indispensabile A. Ronconi, Prologhi "plautini" e prologhi "terenziani"nella commedia italiana del '500, in Atti dell'Acc. dei Lincei, cit., pp.197214.
154) A.L. Stiefel, Lope de Rueda..., cit., pp.211-212
155) A.L.Stiefel, Lope de Rueda..., cit., pp.215-216.
156) L. Zorzi, Il teatro e la città, op. cit., p.229; p.330, alla voce Bargagli G.
157) M.Negro, Prologo della Pace:"...Arthemio...ch'ha composto tante bellissime comedie, tra le quali si ritrova in stampa La Cingana, La Capraria, La Pelegrina et altre degne d'esser comendate...". Il Furbo e L'Exorcismo sono citate da Gigio stesso nella dedica della Capraria: "...Mentre io stavo varij modi fra me ripensando, mi sopragionse un dolce et piacevol sonno, nel quale mi si apresentorno tre mie figliole poco inanti partorite da lo intelletto mio...La Capraria, Il Furbo, et Lo Exorcismo...".Del Furbo e dell'Exorcismo non abbiamo ulteriori notizie, mentre La Pellegrina è menzionata da M.Quadrio, Della Storia e della Ragione d'ogni poesia, vol. V, p.228; da E. Fontanini Zeno, Biblioteca dell'eloquenza italiana, Venezia, 1753, vol.I, pp.365-366; da L. Allacci, Drammaturgia..., op. cit. Alla voce Giancarli.
158) áG. Aquilecchia,Pietro Aretino e la lingua zerga, in Schede di italianistica, Torino, Einaudi, 1976, p.154.
159) P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, op. cit., p.199.
160) Modo Nuovo de intendere la lingua zerga, in Camporesi, Il libro dei vagabondi, op. cit., p.219.
161) L. Ariosto, La Cassaria, in Opere Minori, a c. di A. Vallone, Milano, Rizzoli, 1964, p. 221.
162) L. Ariosto, La Cassaria, op. cit., p.221, n.778
163) C. Grayson, Appunti sulla lingua delle commedie in prosa e in versi, in L. Ariosto: lingua, stile e tradizione_, in Atti del Congresso organizzato dai comuni di Reggio Emilia e Ferrara, 12-16 ottobre 1974, a c. di C. Segre, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 384-385.
164) A.L. Stiefel, _Lope de Rueda..._, cit., pp.318 sgg.
165) Cfr. la nota introduttiva di R. Alonge a Gl'Ingannati, in Il Teatro Italiano, Tomo secondo, op. cit., p.87.
166) L. Zorzi, Il teatro e la città, op. cit., p.121.
167) G. Folena, Il linguaggio del "Caos", in Cultura letteraria e tradizione popolare in Teofilo Folengo, in Atti del convegno tenuto a Mantova_ il 15-17 ottobre 1977, a c. di E. Bonora e M. Chiesa, Milano, Feltrinelli, 1976, pp.240-241.
168) A.L.Stiefel, Lope de Rueda..., cit. pp.319 sgg.:" Lope de Rueda possiede il soggetto...e l'esecuzione si accorda quasi letteralmente alle sue scene (della Cingana)"(traduz. Di Palma). Cfr. inoltre G.A. Cibotto in Enciclopedia dello Spettacolo, op. cit., alla voce Giancarli.
169) M.L.Altieri Biagi, Appunti sulla lingua..., op. cit., pp.267-268.
170) E. Menegazzo, Stato economico sociale del padovano all'epoca del Ruzante, in Atti del Convegno sul tema: La poesia rusticana nel Rinascimento, Problemi attuali di Scienza e di Cultura, Roma, Acc. Naz. dei Lincei, Quaderno n.129, 1969, pp.161 sgg.
171) P. Camporesi, La maschera di Bertoldo, op. cit., p.18.
172) Ruzante, La Prima Orazione, in La Pastorale. La Prima orazione. Una lettera giocosa, a c. di G. Padoan, Padova, Antenore, 1978, pp. 201 sgg.
173) " Il pavano roesso - scrive G. Padoan - significa propriamente "universo", ma mi pare indubbio che il Beolco giochi allusivamente con questo termine. Il motivo del "mondo alla riversa" ricorre frequentemente nella letteratura". Cfr. G. Padoan, A. Beolco..., cit., p.131, n.52. E in effetti Ruzante, nel prologo della Moscheta, afferma:" Orbétena, el mondo è tuto voltò col culo in su".
174) P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, op. cit., p.325.
175) B. Migliorini, Aspetti rusticani del linguaggio maccheronico del Folengo, in Atti..., Quaderno 129, cit., pp.192 sgg.
176) B. Migliorini, Aspetti rusticani..., op. cit., pp.188 sgg.
177) E. Teza, Voci greche e arabe..., cit. pp.12-13.
178) E. Teza, Voci greche e arabe..., cit., p. 13.
179) L. A. Muratori, Dissertazione sopra le antichità italiane, Milano, Pasquali, MDCCLI, tomo III, p.298.
180) P. Toschi, Le Origini del teatro italiano, Torino, Boringhieri, 1976, pp.587 sgg.
181) E. Carli-G.A.Dall'Acqua, Storia dell'Arte, Bergamo, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, MCMLXX, vol.III, p. 163.
182) Su tutto l'argomento riguardante la consistenza della "magia" come elemento modernizzante tra Venezia, Ferrara e Mantova, cfr. il bel saggio di A. Olivieri, Un'articolazione urbana, la Corte: tecnologia e modelli culturali fra '400 e '500, in Economia e Storia, Milano, Giuffré, 1983, pp. 139-154.
183) A. Olivieri, _Un'articolazione..., cit., p.145.
184) A. Olivieri, Un'articolazione..., cit., p.145.
185) A. Olivieri, Un'articolazione..., cit., p.147.
186) P. Aretino, Sei Giornate..., cit., p.115.
187) A. Olivieri, Un'articolazione..., cit., p.145.
188) A. Olivieri, Un'articolazione..., cit., p.143.
189) A. Olivieri, Un'articolazione..., cit., p.147, n.35.
190) A. Olivieri, Un'articolazione..., cit., p.151.
191) A. Olivieri, Un'articolazione..., cit., p.152
192) G. Muraro, El Greco, Milano, Garzanti, s.d., p.1.
193) G. Sala, La lingua degli stradiotti..., op. cit., p. 143.
194) E. Teza, Voci greche e arabe..., op. cit. p. 7.
195) E. Teza, Voci greche e arabe..., op. cit., p. 8.
196) I. Sanesi, La Commedia, op. cit., vol.II, p. 434.