La-civetta-e-la-talpa-remo-bodei.pdf

  • Uploaded by: Anahi Rippa
  • 0
  • 0
  • October 2019
  • PDF

This document was uploaded by user and they confirmed that they have the permission to share it. If you are author or own the copyright of this book, please report to us by using this DMCA report form. Report DMCA


Overview

Download & View La-civetta-e-la-talpa-remo-bodei.pdf as PDF for free.

More details

  • Words: 151,644
  • Pages: 4,167
LDB

Pubblicato originariamente nel 1975, questo libro ha segnato una svolta nella ricerca sull’idealismo classico tedesco, imponendosi presto come felice e organico

tentativo di comprensione in chiave originale della filosofia hegeliana, dalla "Fenomenologia dello spirito" al ciclo delle lezioni berlinesi. Il volume viene oggi riproposto in edizione rivista e aumentata nella convinzione che costituisca tuttora un imprescindibile punto di

riferimento per inquadrare un’intera fase storica anche nella prospettiva delle scienze matematiche e naturali. Definendo la filosofia "il proprio tempo appreso nel pensiero", Hegel condensa in una sola frase i nodi più complessi della sua opera. Cosa significa per

lui pensare il suo tempo? Qual è il senso della corrispondenza fra struttura sistematica e campo dei mutamenti storici? Quale il rapporto fra la civetta della filosofia, che interpreta coscientemente l’epoca, e la talpa dello spirito, che la trasforma inconsciamente

attraverso il suo cieco lavorio? Remo Bodei è professore emerito di Filosofia all'Università di Pisa, dopo aver insegnato a lungo alla Scuola Normale Superiore e alla University of California, Los Angeles. Tra le sue numerose

pubblicazioni, tradotte in diverse lingue: "Geometria delle passioni" e "Destini personali" (Feltrinelli, 1991 e 2002), "Paesaggi sublimi" (Bompiani, 2008), "La vita delle cose" e "Generazioni" (Laterza, 2009 e 2014); con il Mulino "Ordo amoris" (1991), "Le forme del bello" (1995),

"Piramidi di tempo" (2006) e "Ira. La passione furente" (2010).

Remo Bodei

La civetta e la talpa

Sistema ed epoca in Hegel

Copyright © by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda http://www.mulino.it/ebo Edizione a stampa 2014

ISBN 978-88-15-25290-6 Edizione e-book 2014, realizzata dal Mulino Bologna ISBN 978-88-15-32220-3

Indice



Introduzione

Capitolo primo

La civetta e la talpa

Capitolo secondo

Dalla natura alla storia

Capitolo terzo

Apparenza ed epoca

Capitolo quarto

L’esperienza e le forme: analisi infinitesimale e linguaggio

Capitolo quinto

Movimento logico, sistema e mutamento storico

Indice dei nomi

alla memoria di Arturo Massolo

Introduzione

1. Il presente volume ha il suo nucleo originario in un altro,

apparso nel 1975, sempre presso il Mulino, con il titolo Sistema ed epoca in Hegel. In termini quantitativi, è stato però aumentato di oltre un terzo e, qualitativamente, ripensato e rielaborato. Quando il libro in

poco tempo si esaurì, dall’editore mi venne ripetutamente chiesto di ripubblicarlo, lasciandolo com’era o inserendovi i ritocchi che avessi giudicato opportuni. Accettai l’invito, a patto di avere a disposizione un

congruo spazio di tempo: non perché fossi insoddisfatto della riuscita dell’opera, ma perché, al contrario, tenevo a freno il desiderio di riprendere una ricerca che, nel caso dei classici, è destinata a rimanere inconclusa.

Avevo però la netta consapevolezza che, per svilupparla con profitto, era necessario allontanarmene, guardarla con distacco, aspettando il momento in cui le idee che avevo espresso si fossero sedimentate e le nuove

si fossero eventualmente fatte avanti. Ora che, con maggiore agio, esperienza e convinzione, ho finalmente deciso di affrontare un testo scritto quasi quarant’anni fa,

l’immersione nei temi allora trattati mi ha dapprima procurato una sensazione di estraneità a me stesso. Ho dovuto, infatti, non soltanto riannodare i fili dei pensieri attuali alla trama della mia vita trascorsa, ritrovare una

testimonianza di come ero (una questione privata, di per sé irrilevante), ma misurare la distanza dalla storia e dalla cultura di quel periodo e fare i conti con essa, disincagliandomi dal passato.

Sullo schermo della memoria sono così scorse in sequenza le scene – popolate di personaggi oggi scomparsi – degli eventi politici ed economici di allora: il mondo diviso dalla guerra fredda e da opposti dogmi

ideologici, il terrorismo e le stragi, i processi di decolonizzazione in corso, lo choc petrolifero e lo scatenarsi dell’inflazione, la dittatura dei colonnelli in Grecia e il golpe di Pinochet in Cile, la

sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam, la lotta per i diritti civili in Italia, l’incrinarsi dell’ingenua fiducia nell’inesauribilità delle risorse, l’affacciarsi di movimenti ecologisti che per la prima volta trasformarono la natura

in soggetto politico, il diffondersi dei giganteschi elaboratori elettronici a schede perforate che preparavano l’avvento del personal computer. Il quadro culturale era, a sua volta, caratterizzato dal fiorire

di posizioni sempre meno vincolate ad appartenenze di scuola e di partito. Alla figura dell’intellettuale organico o impegnato si sostituiva sempre più spesso quella dell’intellettuale affrancato da precise

etichette accademiche e da tenaci ipoteche politiche, che amava proclamarsi immune dalle ideologie e aspirava, ai livelli più elevati, a entrare a far parte dello star system mediatico. Si assisteva quindi alla fortuna delle

varianti eretiche del marxismo (costituite dalla Scuola di Francoforte e da Ernst Bloch); alla massiccia presenza di pensatori prima reputati politicamente compromessi, come Nietzsche, Heidegger e

Carl Schmitt; al propagarsi della psicoanalisi lacaniana; alla penetrazione dello strutturalismo di LéviStrauss, dell’ermeneutica di Gadamer, della «svolta linguistica» e della filosofia analitica

nell’Europa continentale; ai primi segni dell’imminente nascita dei dibattiti sul multiculturalismo e sull’estendersi alla filosofia del postmoderno già affermatosi in architettura.

Senza che lo spirito critico venisse soffocato, altri agenti iniziavano allora, nel bene e nel male, a plasmare diversamente e con maggiore efficacia il senso comune, a orientare le coscienze e a colonizzare

l’immaginario. questo

Tutto grazie

all’accresciuto peso dei mezzi di comunicazione di massa e a una cultura tendenzialmente più intrinseca ai processi economici e sociali vigenti che non alle tradizionali dinamiche

dell’indagine intellettuale

o

della

creatività artistica. Cominciavano a diventare protagoniste di questa nuova stagione imprese che oggi operano oligarchicamente su scala planetaria, aventi

come obiettivo primario il perseguimento del profitto, rappresentate dalla televisione commerciale, dalle principali case cinematografiche e discografiche, dalla telefonia mobile, dalle grandi concentrazioni

editoriali e, sempre più, dall’industria digitale e dai gestori della rete (Internet, social network). Ampliando l’offerta di intrattenimento, informazione ed educazione, mettendo potenzialmente in

contatto miliardi di uomini, esse incidono sulla mentalità e i gusti collettivi grazie alla produzione seriale di notizie, giornali, riviste, libri, film, dischi o videogiochi. 2. Guardando indietro, uno dei compiti che mi

ero allora consisteva

proposto nello

scrostare dall’immagine di Hegel i principali pregiudizi e banalità che vi avevano depositato, in una sequenza di strati successivi, interpretazioni, anche illustri, ma false,

distorte o frettolose. Per ottenere un effetto di maggior nitore, avevo proceduto a una iniziale operazione di restauro, in modo da far risplendere in essa i colori anneriti dal tempo e da rendere maggiormente leggibili i

contorni dell’insieme. In questo stadio, la partecipazione simpatetica alla ricostruzione ‘filologica’ dell’insieme è sempre necessaria, così come lo è una generosa pazienza nel restituire a un grande pittore tutta la

sterminata gamma delle tonalità cromatiche, senza tuttavia trascurare di porre in evidenza il disegno e i tratti specifici del suo stile e di svelare qualche imprecisione o qualche parte della tela dipinta con minore accuratezza

o con errori di esecuzione. L’intera energia interpretativa sprigionata da questa operazione di ripulitura concettuale non veniva, tuttavia, utilizzata per rivalutare il pensiero di un filosofo che non ne ha bisogno, bensì per

porsi al più alto livello del confronto, per mettere alla prova e attaccare non le sue posizioni più deboli e indifendibili, ma quelle più forti, dove maggiore è la nostra resistenza a comprenderle ed eventualmente a

confutarle, dove può sorgere il legittimo sospetto che qualcosa di importante continui a sfuggirci e dove si rafforza la persuasione che, comunque, pur non cedendo a sentimenti di eccessiva riverenza, non sia lecito tirare le

orecchie ai classici e intestarsi facili vittorie ermeneutiche. Ponevo perciò – e ancora ripropongo – una serie di domande cruciali e ineludibili, a partire dalla definizione hegeliana della filosofia come «il proprio tempo

appreso col pensiero». Cosa significa pensare il proprio tempo? Come si configura la concretezza del presente attraverso la sua trascrizione in concetti? Cosa implica per Hegel definire gli anni in cui ha vissuto «i più ricchi che la storia

universale abbia avuto»? Qual è il senso dell’isomorfismo fra la struttura sistematica della sua filosofia e il campo dei mutamenti storici? Quale il rapporto fra la «civetta» della filosofia, che interpreta in maniera

vigile e cosciente le modificazioni prodotte dall’epoca, e la «talpa» dello «spirito», che trasforma e scalza inconsciamente le fondamenta dell’epoca stessa mediante un lavorio cieco ma istintivamente rivolto a

un fine sconosciuto ai contemporanei? Tra la filosofia, che sembra vedere e non fare, e il movimento storico, che sembra fare e non vedere? Perché, in polemica con i romantici, Hegel disprezza il mondo della

natura a favore di un patriottismo dell’umanità e della civiltà fino al punto da definire il firmamento una «eruzione cutanea luminosa» e a sostenere che «il pensiero criminale di un malfattore è più

grandioso e sublime delle meraviglie del cielo»? Perché il sistema pretende ora di essere la forma suprema della filosofia come scienza rigorosa? 3. Se Hegel si fosse limitato, come Francesco Bacone, ad

attribuire alla filosofia la natura di filia temporis, o se anche (per citare Ruge e Marx) avesse osato «metterne in piazza il segreto» e farla retrocedere da messo celeste a Zeitungskorrespondent, a inviato speciale di

un’epoca, in fondo non avrebbe compiuto alcuna mossa teorica scandalosa. Perfino un filosofo relativamente modesto come Karl Leonhard Reinhold aveva scritto nel 1801 un’opera intitolata Lo spirito dell’epoca come

spirito della filosofia. Fichte, poi, era giunto nei Tratti fondamentali dell’epoca presente a qualificare la propria età come un fronte che avanza dall’opaco dominio dell’«istinto della ragione» al trasparente

autogoverno della «scienza della ragione», come un momento storico «in cui si scontrano e si combattono mondi fra loro assolutamente ostili» e in cui, nel medesimo «tempo cronologico», possono

«incrociarsi e scorrere l’una accanto all’altra, in diversi individui, epoche differenti» e dove soltanto il «tempo del concetto» era per lui in grado di correlare e di esprimere questi dislivelli nella storia dei singoli e dei popoli.

Nessuno, prima di Hegel, aveva, tuttavia, osato tradurre integralmente e consapevolmente la parabola del proprio tempo sul piano di un organico sviluppo delle forme del pensiero, di un sistema che aveva

l’ardire di raffigurare, nel «semplice fuoco» del concetto, l’immagine virtuale dell’epoca, vale a dire di uno spazio di tempo relativamente omogeneo separato da due cesure poste all’inizio e alla fine. Nessuno aveva dato

tanta importanza alla storia e costruito una «rete adamantina» di categorie volta a rappresentare l’orizzonte massimo di intelligibilità di un periodo che pretende di includere in sé, telescopicamente, i

princìpi delle epoche antecedenti; nessuno, tranne – a suo modo – Montaigne, aveva svuotato il preconcetto che attribuiva alla «natura umana» un’essenza metastorica, mostrando come «la natura vivente è

eternamente altro che il suo concetto, per cui quello che per il concetto era semplice modificazione, pura accidentalità, qualcosa di superfluo, diviene necessario, vivente, forse ciò che unicamente è naturale e

bello». Per

quanto

il

discredito che ha colpito lo Hegel sistematico sia responsabile di molti gravi fraintendimenti della sua filosofia, non avevo (e non ho) elogiato la forma sistema in quanto tale,

indicandone anzi alcuni tratti di rigidità. Volevo piuttosto scoprirne il significato teorico e storico, anche nelle sue crepe e malformazioni; studiarne la consistenza nel suo rapportarsi alle varie branche della scienza del tempo;

capire a quali bisogni e aspettative corrispondesse; chiedermi entro quali limiti adempisse alla funzione consolatoria di ricomporre il sapere al di là della avanzata divisione del lavoro scientifico e del rapido

accumularsi delle nozioni (tipico di un periodo in cui prevalgono «l’inquietudine e la dissipazione propria della nostra coscienza moderna» e l’«inevitabile distrazione cagionata dalla

grandezza e molteplicità degli interessi dell’epoca»). Avevo, peraltro, dimostrato come il sistema non debba essere accettato nel suo ordine e nella sua pretesa di scientifica neutralità: come vada, semmai,

scomposto, scompaginato

e

ricostruito, al fine di coglierne gli esplicitamente dichiarati intenti didattici, gli ingranaggi interni e gli agganci con la realtà. Solo così è, infatti, possibile

scorgere negli scritti hegeliani della maturità un disegno coerente, seppur attraversato da linee di frattura, da forzature e da incertezze. 4. Lo scopo del libro del 1975 era quello di fornire gli strumenti per

rendere nuovamente leggibile il sistema nei suoi presupposti e nelle sue articolazioni, per valutare, nella loro incidenza sul nostro tempo, i problemi affrontati da Hegel attraverso la relazione tra lo sviluppo delle

categorie filosofiche e il movimento storico. Dal punto di vista cronologico, esso copriva (e continua a coprire) sostanzialmente gli anni di effettiva esecuzione dei progetti sistematici, dal 1807 al 1831, dalla

Fenomenologia dello spirito agli ultimi corsi berlinesi. Rovesciando il dualismo tra il «giovane Hegel» (fresco, asistematico e ancora attento alla vita e alla varietà della storia) e lo Hegel maturo (paranoico e

sclerotizzato nel sistema), avevo e ho inserito le sue opere maggiori in una prospettiva in cui trova spiegazione l’apparente incongruenza di una filosofia che si proclama traduzione del proprio tempo in forma di

pensiero e poi sembra svolgersi in modo del tutto «autarchico» rispetto ad esso. Pur avendo situato Hegel nella propria epoca attraverso la ricostruzione del suo intenso interesse per i maggiori eventi del

tempo, pur avendo esposto uno spaccato dell’età napoleonica e della Restaurazione, avevo respinto lo storicismo ‘invertebrato’ allora in auge in Italia, tutto sfumature e niente struttura, pronto ad appiattire il pensiero

sugli avvenimenti. Nel negare a quest’ultimo ogni autonomia, le idee finivano per rivelarsi un semplice e quasi passivo riflesso delle situazioni di fatto, tanto che la filosofia di Hegel veniva spiegata all’ingrosso facendo

ricorso delle

al baluginare picche dei

Sanculotti nel corso della Rivoluzione francese o alla politica del governo prussiano durante la Restaurazione. Proprio in polemica con queste interpretazioni, avevo

rivendicato l’importanza del tanto denigrato «sistema», generalmente presentato come una specie di camicia di forza indossata da un pazzo o, più benevolmente, come la dottrina di un

«panlogista» pedante che ignora le pulsazioni del pensiero vivente. Ero (e sono) ben consapevole del fatto che, subito dopo la morte di Hegel, la struttura sistematica è stata corrosa e smontata – non senza

buone ragioni – dalle critiche dei suoi avversari, combattuta dai più celebri pensatori e abiurata perfino dalle università tedesche, che avevano abolito l’obbligo di tenere corsi di enciclopedia filosofica. Si salvano le

singole discipline avulse dal loro contesto: l’estetica, la logica, la psicologia, la politica, la concezione della storia e prevale la ricerca settoriale, spinta fino alla voluta frammentarietà dell’esposizione in

forma di saggio o di aforisma: «L’intero è il falso», proclamerà Adorno, rovesciando il celebre detto hegeliano della Fenomenologia dello spirito. Nell’ottica di Hegel lo smembramento del suo sistema sarebbe stato

probabilmente attribuito non alla sua intrinseca inadeguatezza, ma al fatto che lo scavo della talpa ha aperto un’altra epoca in cui la precedente architettura delle idee è destinata a crollare in quanto

inadeguata a insieme le

tenere nuove

componenti. Dal nostro punto di vista, vi è, invece, anche un altro motivo per rinunciare a una visione coerente della realtà, un motivo che a Hegel era ignoto e che a noi si manifesta

con chiarezza: proprio quando il mondo diventa sempre più interconnesso, il pensiero stenta a essere globale. Questo apparente paradosso si spiega però non solo con la straordinaria difficoltà di questa

impresa, ma con il presente incontroscontro tra le grandi culture del pianeta, che ha eroso quel primato assoluto dell’Occidente, ovvia premessa del sistema hegeliano, fondato sulla visione dialetticamente

unificabile della civiltà mondiale grazie all’umanità europea: «All’europeo interessa il mondo; egli vuole conoscerlo, appropriarsi dell’Altro che gli sta di fronte […] Così come nel campo teoretico, anche in quello pratico, lo

spirito europeo tende a produrre l’unità tra sé e il mondo esterno. Egli sottomette il mondo esterno ai suoi scopi con un’energia che gli ha assicurato il dominio del mondo». 5. Per arrivare alla trattazione di un

problema controverso come il sistema ero partito dalla forza di suggestione ancor oggi esercitata da alcune metafore hegeliane e dai luoghi comuni, pregiudizi ed errori che derivano a cascata dalla loro interpretazione. Mi

ero soffermato (e sono poi ritornato) sulla più famosa, quella della «civetta di Minerva», intesa come emblema della filosofia al suo crepuscolo. La civetta, come avevo scoperto, ha tuttavia un suo antagonista-

collaboratore nella «talpa», a conferma di come la storia non finisca con il tramonto di un’epoca e di come la filosofia non concluda affatto il suo cammino. Hegel sarebbe stato davvero un folle se avesse creduto di

impersonare filosofo.

l’ultimo Credeva,

invece, di essere un ordinatore sistematico di concetti ed esperienze, un pensatore che non inventa niente. Sotto questo profilo, come appare dalle Lezioni sulla

storia della filosofia, egli si paragonava implicitamente ad Aristotele, che presentò la summa del suo pensiero alla fine dell’Atene classica, alle soglie di quel periodo che verrà chiamato «ellenismo» da un suo

discepolo all’università di Berlino, Johann Gustav Droysen. Hegel si sentiva, appunto, chiamato a dare forma intelligibile a un’intera fase storica al tramonto, segnata, come altre, dal prevalere degli interessi individuali su quelli

collettivi, ma al suo tempo, in particolare, dall’esasperata ricerca di una «fetta di cielo» in terra, di una felicità privata. Egli vedeva ormai una moltitudine di persone che guardava lucrezianamente il naufragio altrui stando

al sicuro sulla dell’egoismo

riva e

considerava gli eventi storici, senza impegnarsi a modificarli, come un «banco da macellaio» da evitare. È precisamente questa disgregazione della comunità, questo

meschino inaridimento delle coscienze che frena la tensione verso una «vita migliore» a suscitare nelle fasi di declino di una civiltà l’acuirsi dello sguardo di civetta della filosofia, dato che «le scienze e la rovina […] vanno

sempre di pari passo». Avevo

preso

volutamente l’avvio dalla camera di compensazione delle metafore per abituare gradualmente il lettore a respirare l’aria rarefatta (il «puro etere») del pensiero

concettuale. l’avvertenza

Con che il

percorso verso la trattazione del sistema, comprese le metafore e la discussione su temi scientifici, non è solamente propedeutico, ma fa inseparabilmente corpo

con la teoria. 6.

Nei

decenni

successivi alla pubblicazione di Sistema ed epoca in Hegel mi sono interrogato su cosa sia cambiato in profondità e in estensione rispetto alla documentazione disponibile, alle esegesi

di questa filosofia e all’orizzonte di senso in cui allora mi situavo e oggi mi pongo. Dal punto di vista della filologia e della critica, la pubblicazione degli inediti delle lezioni hegeliane (di cui per primo avevo utilizzato,

in un ambito non settoriale, quelle appena pubblicate) si è ora enormemente ampliata, così che le trascrizioni da parte degli studenti dei diversi corsi di Heidelberg e di Berlino e gli appunti manoscritti dello stesso filosofo

hanno ulteriormente mostrato, accanto alla graduale evoluzione e alla sterminata ricchezza del suo pensiero, anche le esitazioni e la relativa insoddisfazione per i risultati di volta in volta raggiunti.

Con la cosiddetta Hegel Renaissance degli ultimi decenni si è poi avuta la riscoperta in grande stile della filosofia hegeliana da parte del mondo anglosassone che, dopo una prima accoglienza positiva tra Ottocento e

Novecento, aveva mostrato nei suoi confronti ostilità e irrisione. Dal disprezzo per le presunte fumisterie metafisiche e i deliri di grandezza di Hegel si è passati a una più seria e apprezzabile conoscenza delle sue

opere, comprensibilmente piegata, non senza qualche distorsione, alle tradizioni del pragmatismo e della filosofia analitica. Nella cultura italiana ed europea si è poi distolta l’attenzione dal

rapporto di Hegel con Marx, allora canonico, e, in parte, anche dal confronto con la tradizione del marxismo eretico (e questo ancor prima della caduta del Muro di Berlino e della dissoluzione dell’Unione Sovietica). In misura

minore, si è attenuato l’interesse per il decostruzionismo e l’ermeneutica, mentre persiste quello per Heidegger e Nietzsche, oltre che per Habermas e Foucault. Si sono, però, soprattutto aperti nuovi campi d’indagine,

quali la bioetica, le logiche polivalenti o lo studio comparato tra i modi di pensare e di sentire scaturiti dalle principali civiltà del globo. 7. Dopo aver messo alla prova la consistenza delle tesi

allora sostenute, sono però convinto che molto di quanto ho scritto nel 1975 non abbia ancora esaurito la sua carica innovativa. Non credo, poi, di aver trovato ragioni sufficienti per scostarmi dall’impostazione di

allora. In questo nuovo volume, La civetta e la talpa (che ha come sottotitolo il vecchio titolo), ho quindi, da un lato, mantenuto l’impianto complessivo del discorso, conservandone la cadenza secondo

l’originario ordine espositivo in capitoli e paragrafi, ma, dall’altro, ho introdotto – assieme a interventi minori a intarsio – interi blocchi nuovi, che traggono spunto non solo dai materiali venuti più recentemente alla luce e

dallo negli

stato dell’arte studi sugli

argomenti esposti, ma anche – e soprattutto – dalle ricerche condotte e dalle riflessioni in me maturate durante tutto questo arco di tempo. Per quanto riguarda la composizione del

volume, la stesura a grana fina e il frequente uso delle citazioni nel testo rispondono alla scelta di evitare generalizzazioni non suffragate da riscontri puntuali e di far parlare, con la loro distinguibile voce, i partecipanti a

quel comune dialogo che è rappresentato da ogni libro. Ho, infine, largamente aggiornato la bibliografia grazie all’assidua frequentazione di istituzioni e biblioteche di eccellenza, che mi

hanno permesso di consultare, selezionare e mettere a frutto una enorme massa di materiali. Tra queste ricordo con gratitudine: lo Hegel-Archiv di Bochum, la StaatsbibliothekPreussischer

Kulturbesitz di Berlino, la Fondation Hardt di Vandoeuvres-Genève, la Young Research Library della University of California, Los Angeles e la Butler Library della Columbia University di New York. Come in altri miei libri, il testo è

accompagnato da un corposo apparato di note a beneficio di chi desidera esaminare da vicino il tessuto dell’argomentazione, verificare la natura delle fonti, saggiare la tenuta delle prove o sviluppare ulteriormente alcuni

punti accennati. Chi non ha tempo o interesse per eventuali approfondimenti potrà ignorare le note: non perderà il senso del discorso e godrà il vantaggio di una lettura più fluida. La civetta e la talpa è,

dunque, un’opera in parte nuova e, in parte, in grado di conservare quanto mi sembra abbia resistito all’usura del tempo (del resto, in filosofia, le idee si comportano come le placche nella deriva dei continenti: si muovono

in maniera impercettibile, anche se poi il loro scontro provoca periodiche catastrofi, per fortuna solo concettuali, ma alla lunga non prive di effetti pratici). Se è vero quanto dice Schopenhauer, che

ognuno di noi non fa altro per tutta la vita che sviluppare una sola idea o scrivere un unico libro, questo è l’intimo prolungamento del primo. 8. Con la differenza che è stato concepito in un clima intellettuale e

morale decisamente cambiato – che pone altre domande ed esige altre risposte –, nel senso che il futuro collettivo, di per se stesso incerto, si è oggi ancor più oscurato, in particolare nella nostra porzione di mondo. Dal

punto di vista qualitativo, ho pertanto, da un lato, ulteriormente approfondito alla luce del pensiero contemporaneo temi già presenti in Sistema ed epoca in Hegel (quali il significato della

dialettica, dell’analisi

il

ruolo

infinitesimale, delle scienze naturali e della psichiatria, l’enigmatico nesso tra tempo, divenire ed eternità, la condizione dell’individuo nell’«epoca della prosa

del mondo», la mutata funzione dello Stato e della società civile, le polemiche sul finalismo), dall’altro, pensando a un periodo storico in cui il processo di globalizzazione non aveva ancora raggiunto le proporzioni odierne e

le crisi economiche avevano, tuttavia, già provocato la precarizzazione dell’esistenza di innumerevoli individui e popolazioni, mi sono ora soffermato maggiormente sulle idee di lavoro, di

disoccupazione e di miseria in una civiltà dominata dalle macchine e dal Kapital, un «animale selvaggio» che si sottrae a qualsiasi tentativo di addomesticamento e diventa sempre più una potenza «indipendente»

dagli Stati. Hegel descrive infatti – in maniera quasi dickensiana – un’economia contraddistinta dall’elevatissima concentrazione della ricchezza in poche mani e dal conseguente

crearsi di una immensa massa di lavoratori poveri o disoccupati (brodtlose Arbeiter), esseri umani sospinti dalla miseria più spaventosa nell’umiliazione e nell’abbrutimento, una situazione alla quale gli Stati cercano

inutilmente di rimedio con

porre dei

«palliativi», come l’emigrazione nelle colonie. Di fronte a un simile spettacolo, Hegel giunge a dire che l’estrema povertà rende lecito, a chi la subisce, anche il furto finalizzato

alla propria sopravvivenza: «tale azione è illegale, ma sarebbe ingiusto considerarla come un furto comune. Sì, l’uomo ha diritto a tale azione illegale». Il tramonto dell’epoca è quindi per lui connesso,

oltre che alla «farsa» della Restaurazione, all’insolubilità di conflitti come questi, che la filosofia deve indagare con i suoi grandi occhi di civetta. Comparativamente, anche il nostro avvenire, oscurandosi,

sembra aver accentuato la sua natura di assoluta contingenza, di luogo di esplicazione di forze che sfuggono sempre più al controllo degli uomini. L’incertezza si è perciò estesa, insinuando negli animi la percezione della precarietà come

normale condizione dell’esistenza, un atteggiamento che allenta i legami sociali, mina la fiducia reciproca e rende più difficile l’individuazione di possibili vie d’uscita a una crisi che non è soltanto economica o

politica (che è grave, ma certo non peggiore delle tante che si sono attraversate solo nel secolo scorso). Noi non abbiamo però alcun coerente sistema di idee che pretenda di orientarci a capire il nostro tempo, alcuna

civetta filosofica che, con sguardo panoramico, interroghi la sua apparente oscurità. La talpa della storia continua invece, come sempre, a scavare in profondità e in direzioni imprevedibili le sue gallerie, da cui

emergerà non si sa quando e non si sa dove, quasi a conferma dell’asserzione di Keynes, secondo cui «l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre». Pisa, 2014

maggio-giugno

REMO BODEI

Capitolo primo

La civetta e la talpa

In questo capitolo si considera come alcune idee sulla filosofia di Hegel siano derivate da sue fortunate metafore, ma si considera anche come tali metafore siano state spesso fraintese o male interpretate. La direzione principale di ricerca è quella di far

scaturire progressivamente la rete categoriale dalla rete metaforica, la 'forma' del proprio tempo appreso in pensieri dal suo contesto concreto, e di passare dalle allusioni agli aspetti più noti e dibattuti della filosofia hegeliana

all’esposizione coerente di quelli meno conosciuti e fondanti. Vengono quindi prese in esame qui e sviscerate alcune sue metafore centrali, prima tra tutte quella della 'civetta della filosofia', il legame tra metafore notturne e oscuramento del

mondo, per arrivare a considerazioni inerenti la filosofia e le istituzioni, il controllo della dialettica storia, fino ai limiti di un’intera epoca.

È lo spirito nascosto,

che batte alle porte del presente, che è tuttora sotterraneo, che non è ancora progredito ad esistenza

attuale ma che vuole prorompervi […] Lo stato del mondo non è ancora conosciuto; il fine è di produrlo.

Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia[1].

1. L’ostacolo delle immagini L’immagine dominante di

un

sistema chiuso o di un atteggiamento politico sostanzialmente rinunciatario nello Hegel della maturità, poggia anche sul fascino di alcune fortunate metafore, come quella della civetta della filosofia, che si innalza

sul far della sera, quando il processo di formazione della realtà appare ormai concluso. In genere, tali similitudini non vengono però correttamente intese, ed esercitano quindi un effetto perturbatore

sulla comprensione del pensiero hegeliano. Finché non sono chiarite, agiscono da ostacolo, ma una volta penetrato il loro senso, rivelano in Hegel una più fitta e coerente rete di metafore e di modelli analogici, che funge da

supporto o talvolta da surrogato delle trame concettuali. Non solo, quindi, esse possono introdurci nella filosofia di Hegel, indicarcene alcuni presupposti, ma possono anche offrirci una illustrazione storica efficace e non

intenzionale retroterra dei

del suoi

concetti. Lo stabilire – in via preliminare – quale estensione abbiano le propaggini e le implicazioni di questo impianto figurale e quale rapporto vi sia tra di esso e la struttura

teorica rettifica

esplicita, le basi

immaginative del lavoro di interpretazione e prepara contemporaneamente un terreno più fruttuoso per la ricostruzione dell’impianto concettuale.

Vi preliminarmente

sarà un

discorso provvisorio, in cui farò parlare soprattutto i testi hegeliani, sviluppando le mie argomentazioni quanto basta per intravedere l’impalcatura generale

del pensiero di Hegel e per incrinare i più diffusi e tenaci pregiudizi che accompagnano la letteratura che lo riguarda, sempre tacitamente presupposta, anche quando non

direttamente citata. La prima parte sarà quindi una riflessione su alcune pagine hegeliane – non poche ignorate e qui inserite nei loro nessi –, nell’attesa di una giustificazione storica e teorica che potrà derivare in modo

retroattivo solo dall’intero svolgimento dell’indagine e dalla conseguente saldatura fra livello metaforico e livello concettuale. Questa saldatura, da un lato, degraderà le metafore e i modelli analogici a semplici

meccanismi ausiliari, dall’altro, li conserverà costantemente sullo sfondo, sia per dare profondità di campo e gusto storico alle relazioni di pensiero, sia per ricordare la loro origine e la loro potenza come strumenti che

incidono sulla curvatura dei concetti e operano anche all’interno della filosofia. La direzione principale di ricerca sarà però quella di far scaturire progressivamente la rete categoriale dalla rete metaforica, la

«forma» del proprio tempo appreso in pensieri dal suo contesto concreto, e di passare dalle allusioni agli aspetti più noti e dibattuti della filosofia hegeliana all’esposizione coerente di quelli meno

conosciuti e fondanti[2].

2. La civetta della filosofia Cominciamo

dalla

prima delle due metafore complementari, da quella più nota della «civetta», lasciando a

una fase successiva, quasi a sorpresa, quella della «talpa», che ne spiega a posteriori il senso preciso. Nella famosa pagina del 1820, in cui la filosofia è paragonata alla civetta di Minerva (Eule der Minerva) che

spicca il suo volo sul far della sera, che giunge cioè troppo tardi rispetto al costituirsi autonomo della realtà, si è sempre visto il simbolo stesso della vocazione contemplativa e della rinuncia alla

trasformazione del mondo da parte di Hegel. Al pensiero sembra affidato il compito di registrare passivamente una situazione storica già svoltasi e di rifugiarsi nella notte della propria interiorità. Ma la

rappresentazione della civetta nasconde delle allusioni che dovevano risultare trasparenti a molti contemporanei e che sono invece rimaste opache per noi. In primo luogo, e questo è l’aspetto più evidente, la civetta, linneanamente

Athene noctua, è per lunga tradizione l’immagine della sapienza e della filosofia (anche perché si vedeva nel contorno degli occhi e del becco la forma della lettera iniziale φ di φιλοσοφία), oltre che della disgrazia, del crepuscolo

e della notte, ma essa è anche l’animale sacro ad Atena o Minerva, di cui essa – (glaukopis), dal volto di civetta (glaux) – assume spesso la forma. Atena, in quanto Sophia, è figlia di Metis, l’intelligenza e il Buon Consiglio, o di Zeus

dalla cui testa, si sa, esce armata[3]. Il lato più importante della storia di questa figura è comunque rappresentato per noi dal fatto che comparisse sul fregio della «Minerva», la rivista di Archenholz e

successivamente di F.A. Braun, ben nota a Hegel fin dagli anni di Berna. In esso è disegnata una civetta che sovrasta un cartiglio col motto leibniziano Die gegenwärtige Zeit ist schwanger mit der Zukunft, il presente è

gravido del futuro[4]. Già nell’immagine hegeliana della civetta vi è, dunque, l’allusione a un rinvio al futuro, confermato da tutto il senso dell’opera del filosofo. La fuga della civetta nella notte non è solo rassegnazione,

meditazione «anamnestica»

del

passato[5], ma, nello stesso tempo, silenzioso e incessante sforzo di comprensione di quelle forze agenti che prefigurano un futuro peraltro imprevedibile. Hegel vuol significare

che la filosofia nasce dal tramonto di un mondo reale e dei suoi vecchi ordinamenti, ma proprio nel coglierlo ed elaborarlo attraverso il pensiero ne è al di là, ne accelera la decomposizione, aprendo così la strada a

un futuro che non si può descrivere perché il filosofo non è un profeta. Con la scomparsa del sole del reale, nella notte esteriore, si innalza per contrasto un sole interiore: «Si è spesso descritto il modo in cui

un uomo vede spuntare il mattino, avanzare la luce, il sole alzarsi nella sua maestà. Una simile descrizione porrà in rilievo il rapimento, lo stupore, l’infinito obliare se stessi in questa chiarità. Ma quando il sole sarà già

salito tempo

per qualche nel cielo,

l’ammirazione diminuirà, lo sguardo sarà obbligato a rivolger l’attenzione più alla natura e a se stesso; l’uomo guarderà nella sua propria luce, passerà alla coscienza di

sé, dalla prima attonita inattività dell’ammirazione procederà all’azione, all’opera creatrice movente da lui medesimo. E alla sera avrà compiuto un edificio, un sole interiore, il sole della

sua coscienza, prodotto del suo lavoro; e questo egli pregierà più che il sole esteriore, e nel suo edificio avrà ottenuto di stare con lo spirito nello stesso rapporto in cui prima stava col sole esteriore, o meglio in un rapporto che ora è,

invece, libero. In ciò è propriamente implicito il corso di tutta la storia del mondo; il gran giorno dello spirito, la diurna opera che esso compie nella storia»[6]. Sole esteriore e sole interiore percorrono dunque traiettorie

opposte. Quanto più il primo si abbassa sull’orizzonte, tanto più il secondo sale. Del resto Hegel ha una «concezione eliodromica» della storia del mondo e, giocando sulle etimologie, attribuisce alla storia un

movimento da oriente a occidente, dal sole esteriore (Ex Oriente lux suona un antico proverbio) al sole interiore, dall’Asia all’Europa e all’America, «paese dell’avvenire»[7], la definizione stessa data da Napoleone.

Soltanto nel Paese della sera (Abendland) – dove si è abbandonato l’immobilismo asiatico – il cumulo delle crisi di crescenza, la morte di mille soli naturali, ha fatto spuntare il «gran giorno dello spirito». Qui soltanto «la luce diventa

lampo del pensiero», in quanto la vecchiaia naturale è debolezza, mentre quella dello spirito è piena maturità. La filosofia può sorgere, infatti, solo dove c’è crisi, mutamento, corruzione della naturalità dell’esistenza;

unicamente «allorquando un popolo in generale ha sorpassato le sue condizioni concrete di vita, allorquando s’è verificata la separazione e la differenziazione delle classi, e il popolo stesso si avvia al suo

tramonto; allorquando s’è determinata la scissura tra le aspirazioni interiori e la realtà esteriore, l’antica forma della religione non soddisfa più ecc.; allorquando lo spirito appalesa indifferenza verso la propria

esistenza vitale o vi permane insoddisfatto, e un dato tipo di vita etica va in dissoluzione. Allora lo spirito si rifugia nel mondo del pensiero, si crea di fronte al mondo reale un mondo del pensiero; e la filosofia costituisce

l’espiazione della corruzione del mondo reale, che è stata iniziata dal pensiero. Quando la filosofia sorge con le sue astrazioni a lavorare di chiaroscuro, la freschezza e la vitalità della gioventù se ne

sono andate; e la sua espiazione non si compie nella realtà, sibbene nel mondo ideale. Perciò in Grecia i filosofi si tennero lontani dalla vita politica; e il popolo li chiamava fannulloni, perché si rifugiavano

nel mondo del pensiero»[8]. Questo rifugiarsi, tuttavia, non è per le istituzioni un’innocua contemplazione, ma un subdolo solvente che allenta e trasforma i vincoli etici e fa dilagare l’immoralità: «Ma

questa corruzione non si può arrestare, come nel Paradiso Terrestre non si può far tacere il desiderio della conoscenza. La conoscenza, che è un momento necessario nell’educazione dei popoli, si presenta in tal

modo come una caduta nel peccato e come una corruzione. Tali epoche in cui si verificano le svolte del pensiero, vengono poi considerate come un malanno per la saldezza degli antichi ordinamenti. Ma questo malanno del pensiero

non può essere impedito da leggi o da altri ordinamenti consimili; esso può e deve guarirsi soltanto da se stesso, quando per opera del pensiero stesso si sia veramente venuto a produrre il pensiero»[9]. La filosofia

assume così il ruolo di nemica degli antichi ordinamenti e di pericolo per gli Stati, e i filosofi (come mostra in misura esemplare il destino di Socrate, di Bruno, di Vanini) divengono delle figure tragiche, analoghe a

quelle dei fondatori di nuove religioni, ed espiano anche con la vita il peccato di aver contribuito alla dissoluzione di un popolo: «In quanto si continuava a pensare si ebbe il risultato che i supremi rapporti della

vita vennero compromessi. Mediante il pensiero venne sottratta al positivo la sua forza. Costituzioni statali caddero vittime del pensiero; la religione è attaccata dal pensiero; salde rappresentazioni religiose che valevano

senz’altro come rivelazioni, sono state sotterrate, e l’antica fede rovesciata in molti animi […] Perciò i filosofi vennero esiliati ed uccisi a causa del rovesciamento della religione e dello Stato, entrambi fra loro

essenzialmente solidali. Il pensare si fece così valere nella realtà effettuale ed esercitò un’enorme efficacia»[10]. Nel sottrarre al positivo la sua forza, nel sollevare attraverso il pensiero le nuove esigenze storiche al di

sopra dei contenuti di coscienza finora accettati, i filosofi – come il Gesù degli scritti giovanili – si innalzano spesso al di sopra del destino del loro tempo, ma prendono sempre su di loro la croce delle contraddizioni e

dell’«immoralità» presente. Essi

del son

chiamati a riconoscere, attraverso «la corteccia», il «nucleo sostanziale della realtà, ma per arrivare a ciò occorre un duro lavoro onde cogliere la rosa nella croce del presente.

Per questo si deve prendere la croce su se stessi»[11]. I filosofi non devono aver paura di essere considerati immorali o corruttori, perché la corruzione è nell’epoca e la filosofia contribuisce anzi al suo superamento. Hegel così

(nel rispondere al saggio di Reinhold, dal titolo per noi significativo di Lo spirito dell’epoca come spirito della filosofia, in cui Reinhold cercava di spiegare i sistemi di Fichte e di Schelling a partire dalla loro presunta immoralità)[12]

osserva: «Una filosofia procede indubbiamente dalla propria epoca, e se si vuole intendere la lacerazione di un’epoca come immoralità, tale filosofia procede dall’immoralità, ma per restaurare con le proprie forze l’uomo

contro la disgregazione dell’epoca e per ristabilire quella totalità che il tempo ha lacerato»[13]. In questo contesto si situa la costante e polemica difesa compiuta da Hegel dei philosophes contro i

romantici e i difensori della Restaurazione, difesa che ha valore esemplare. Sebbene il pensiero incrementi soltanto il metabolismo del mutamento storico, lo esprima in tutta la sua virulenza senza esserne la causa prima

(da cercarsi nella realtà come tutto), Hegel sottolinea il peso specifico della filosofia nel provocare il crollo di un assetto politico e nell’aprire una situazione rivoluzionaria, e non lo fa certamente – come

sostiene Popper – per alzare il prezzo della sua collaborazione col governo prussiano, per rendere più preziosa la sua merce controrivoluzionaria[14]. Ogni filosofia, compresa la sua, è anzi secondo Hegel rivoluzionaria, nel

senso che, con la potenza del concetto, sottrae forza all’esistente, e presenta, in alternativa, un «mondo nuovo» razionale che accelera la distruzione del vecchio. Nell’attacco degli illuministi francesi, «les

enfants perdus de notre cause»[15], al cumulo di ingiustizie dell’ancien régime, Hegel vede un compito essenziale della filosofia, che è conciliazione di razionalità e di effettualità, non riconoscimento passivo

dello stato di cose sussistente: «Ciò che è degno di ammirazione negli scritti filosofici francesi […] sono la stupefacente forza ed energia che spiega il concetto contro l’esistenza, contro la fede, contro la potenza

millenaria dell’autorità […] L’ateismo, il materialismo e il naturalismo dei Francesi hanno infranto tutti i pregiudizi, hanno riportato vittoria su tutti i presupposti aconcettuali e su tutti i valori della religione

positiva, su tutto quel che si accompagna con le abitudini, con i costumi, con le opinioni, con le deformazioni giuridiche e morali, con le istituzioni civili»[16]. Quando «l’oppressione spinse all’indagine»[17], lo slancio del pensiero

fu tale da trasformare l’esistente in una «vuota parvenza di oggettività»[18]: la «furia del dileguare» rende il mondo rarefatto e immediatamente permeabile al pensiero, il quale assume il carattere

dell’universalità opposta e nemica della singolarità che non si adegua subito ad essa, del Terrore e del dominio della virtù astratta di Robespierre. Ma la lucida forza dell’intelletto dei Francesi non compie

soltanto una unilaterale opera di distruzione: «In mezzo alla tempesta della passione rivoluzionaria il loro intelletto si è mostrato nell’atteggiamento deciso con cui hanno portato a termine la produzione del nuovo

ordinamento etico del mondo contro la potente lega dei sostenitori del vecchio; con cui hanno realizzato, nella loro più estrema determinatezza e carattere di opposizione, tutti i momenti della nuova

vita politica. Proprio in quanto essi hanno spinto quei momenti al culmine dell’unilateralità, in quanto inseguono ogni principio unilaterale fino alle sue ultime conseguenze, essi sono stati portati dalla

dialettica della ragione storico-mondiale ad una condizione politica in cui tutte le unilateralità precedenti della vita statale appaiono tolte»[19]. Il Terrore, oltre a essere stato notoriamente una signoria «necessaria e

giusta», che fu rovesciata solo quando non servì più[20], ha avuto anche una funzione storica più vasta: ha fatto nuovamente penetrare nell’animo degli uomini la paura della morte, la «paura del signore»

assoluto, e con ciò ha «ristorato e ringiovanito» le coscienze[21]. Si riproduce, come vedremo, a uno stadio più alto, la relazione signoria-servitù, con la disciplina che foggia gli uomini. Dall’esperienza

rivoluzionaria e dal Terrore i francesi sono usciti rafforzati e attivi nella realtà, mentre «noi Tedeschi in primo luogo siamo passivi verso le istituzioni vigenti, e le sopportiamo; in secondo luogo, se esse sono rovesciate, siamo

ancora passivi: esse furono rovesciate da altri, e noi vi ci siamo adattati, abbiamo lasciato fare»[22]. Vi è però un punto di contatto che accomuna francesi e tedeschi e li separa dagli altri popoli europei – come ad

esempio gli inglesi – legati al rispetto dell’esistente, ed è il richiamo alla potenza disgregatrice del pensiero, che presso i francesi si riversa nella realtà, mentre presso i tedeschi rimane ancora confinata all’interiorità,

alla domanda: posso osare anch’io?: «I Francesi, movendo dal pensiero dell’universalità, i Tedeschi da quello della libertà di coscienza, il quale insegna: “esaminate ogni cosa e attenetevi al meglio”, si

sono tuttavia incontrati, ovvero percorrono la stessa strada: ma se i Francesi, per così dire senza coscienza, hanno portato tutto a termine attenendosi sistematicamente a un pensiero determinato, il sistema fisiocratico; i

Tedeschi invece vogliono guardarsi le spalle, e sul fondamento della coscienza indagare se anch’essi possono osare»[23]. Il punto su cui far leva per sollevare i tedeschi (le civette della libertà della coscienza), avvicinarli

all’effettualità smuoverli dalla

e loro

passività è dunque la coscienza, ma questa coscienza deve prendere possesso dell’esteriorità (accostarli quindi ai francesi, le talpe dell’effettualità, che operano, appunto, nella

storia «per così dire senza coscienza»), non fuggire da essa a caccia dell’«ideale», che, essendo difficilmente riconosciuto nella realtà, «viene spostato o nel passato o nel futuro»[24]. Il pathos hegeliano per la

Wirklichkeit, per la realtà effettuale, che viene normalmente scambiato per passività o peggio, è, sotto questo aspetto, una terapia che si rivolge in particolare, ma non esclusivamente, ai tedeschi. Perciò Hegel – con il suo richiamo

quasi ossessivo alla forza delle cose e con la sua irrisione nei confronti della soggettività vuota e avulsa dal mondo – poté apparire a Jean Paul un «vampiro dialettico dell’uomo interiore»[25]. Materialismo francese e

idealismo soggettivo tedesco hanno la medesima radice, manifestano le stesse esigenze secondo versanti storici e culturali differenti, ma complementari: il materialismo francese secondo il «principio

locale» dell’oggettività e della realtà, l’idealismo tedesco secondo la forma della soggettività e dell’idealità[26]. Nel rivendicare, almeno in parte, alla propria filosofia l’eredità di queste due tradizioni, Hegel ha voluto unire i

due princìpi (la rivoluzione portata dal pensiero nella coscienza e la rivoluzione portata dal pensiero nella realtà). I francesi non potranno realizzare una vera e durevole rivoluzione nella realtà senza una riforma della

coscienza, i tedeschi non potranno effettuare una vera rivoluzione nella coscienza senza il «balzo in avanti»[27] oscuramente compiuto dalla realtà stessa. Le due strade che il pensiero ha imboccato nell’età moderna,

Riforma luterana e Rivoluzione francese, devono incontrarsi. L’incidenza del pensiero non deve più limitarsi a un mutamento nell’interiorità, ma deve passare consapevolmente a investire le istituzioni.

Rifugiarsi nel mondo notturno del pensiero (ossia cercare di risolvere le contraddizioni alla luce del sole interiore) non significa quindi tagliare i ponti con la realtà, ma rinsaldarli, uscire da un punto morto. La

filosofia infatti, nel comprendere il proprio tempo, lo modifica e lo rende dominabile. In quanto «semplice fuoco» su cui converge l’immagine virtuale di un’epoca, essa è superiore al contenuto secondo la «forma»,

aggiunge cioè alla realtà globale dell’epoca soltanto la sua comprensione[28] (e anch’essa, al pari del monarca rispetto all’organizzazione dello Stato, pone il puntino sulla i)[29], ma tale comprensione è una

crescita della realtà stessa, qualcosa che incide nuovamente a sua volta, con un ‘anello di retroazione positivo’, sulla realtà di partenza: «questo sapere stesso è la realtà in atto dello spirito che prima non esisteva; sicché la

differenza anche

formale è un’effettiva

differenza reale. Mediante il sapere lo spirito pone una differenza fra il sapere medesimo e ciò che è; questo sapere poi provoca una nuova forma di movimento. Le

nuove forme dapprima sono soltanto modi del sapere, e così nasce una nuova filosofia; tuttavia, siccome questa è già manifestazione di un grado superiore dello spirito, è anche la culla interiore da cui lo spirito medesimo più

tardi assurgerà a formazione reale»[30]. Il sapere fa compiere un progresso alla realtà, perché da un lato affretta il corso oggettivo della degradazione degli ordinamenti vigenti, dall’altro anticipa nel

pensiero le soluzioni che si riverseranno poi (una volta assorbite da vasti strati di persone, come nel periodo che precede immediatamente la Rivoluzione francese) ancora nel mondo esterno. La razionalità

prefigurata dal pensiero travolge ogni ostacolo positivo e ogni istituzione non commisurata alla ragione. Ossia, come è affermato nella prefazione alle Vorlesungen über Rechtsphilosophie del

1818, «La filosofia riconosce così che solo il razionale è suscettibile di accadere, malgrado i singoli fenomeni esteriori possano sembrare contrastarlo ancora tanto […] Dovunque lo spirito è giunto a una coscienza

più alta, la lotta contro tali istituzioni è necessaria. L’oggetto della scienza filosofica del diritto è il concetto più alto della natura della libertà, senza riguardo a ciò che è ritenuto valido, alla rappresentazione

dell’epoca»[31]. Un linguaggio a prima vista ben diverso rispetto alla Filosofia del diritto fatta stampare da Hegel, in cui l’accento sembra cadere più sul rispetto della Wirklichkeit che sull’affermarsi inarrestabile della

ragione. Ma si tratta, appunto, come vedremo, di uno spostamento d’accento, dovuto forse a motivi tattici, in un periodo in cui la situazione politica generale dopo i deliberati di Karlsbad aveva fatto scegliere a

Hegel l’attenuazione di determinati aspetti della sua filosofia a vantaggio di altri. La forza propulsiva attribuita al sapere ha in Hegel anche un fondamento concreto, che non può ridursi soltanto all’esaltazione

idealistica del pensiero e del ruolo del «professore assoluto», ma riflette oscuramente l’aumentata presa del pensiero sulla realtà, sia come forza produttiva, sia come guida in una società definita dall’incessante

trasformazione e dal prevalere dell’astratto. Più che la spontaneità della tradizione e del costume, domina infatti ora l’attività del pensiero: «La formazione riflessiva della nostra vita odierna ci crea il bisogno, sia in

relazione alla volontà che al giudizio, di fissare punti di vista generali e di regolare in conseguenza il particolare, cosicché forme universali, leggi, doveri, diritti, massime valgono come motivi determinanti e sono ciò

che fondamentalmente ci guida» nella «aggrovigliata situazione della vita civile e politica» attuale[32]. Da tale punto di vista, «l’età nostra» è «da paragonare al mondo romano»: in entrambi i casi domina

l’universale, presente

ma

nel come

«egemonia del pensiero autocosciente, che vuole e conosce l’universale e governa il mondo. L’intelligente finalità dello Stato è ora sussistente nella realtà: privilegi e particolarità

si dissolvono, e così i popoli hanno il diritto: non privilegi, ma il diritto di volere. Con ciò i popoli sono astretti non da trattati, ma da princìpi, dal diritto in sé e per sé. Parimenti la religione può giungere a comprendere il

pensiero, l’essere assoluto; o, quando non vi giunga, ritirarsi, dall’esteriorità dell’intelletto riflettente, nella fede, o addirittura, disperando del pensiero e rifuggendo affatto da esso, nella superstizione: ma anche

tutto questo è esso stesso prodotto dal pensiero»[33]. Nel mondo romano l’universale (lo Stato) veniva subìto come finalità esterna, non voluto e conosciuto come ora, in un’epoca in cui il pensiero ha la

possibilità di mettere sotto controllo l’universale stesso e di assimilarlo. Il pensiero, infatti, ha ormai infiltrato non solo l’intuizione e la rappresentazione, ma tutta la vita e tutte le istituzioni, in un

crescendo razionalizzazione

di che

travolge ogni ristagno «positivo», ogni privilegio. Per questo, anche l’intervento del singolo, e specialmente del filosofo, sulla storia e le istituzioni non può prescindere dalla

razionalità e dalla presa di coscienza dell’effettualità del mondo. L’equazione reversibile «ciò che è effettuale è razionale»[34] è il passaggio chiave di quella dialettica hegeliana che Aleksandr

Herzen l’«algebra

definiva della

rivoluzione». La modificazione della realtà effettuale deve passare per la realtà effettuale stessa intesa nella sua razionalità. Nel mondo moderno non è più necessario

che i filosofi siano alla guida dello Stato. Infatti, dopo millenni di storia umana, il pensiero che agisce naturalmente in tutti, mediante l’«istinto della ragione», ha impregnato la realtà di razionalità cieca, non riflessa, che la filosofia

deve appunto esplicitare e tradurre per la coscienza, facendo così avanzare la realtà effettuale. Dalla fine della civiltà classica a oggi, il regno sovrasensibile – che i cristiani avevano immaginato come un

altro mondo – discende, come modello a cui tendere, progressivamente in questo mondo e gli imprime il sigillo della ragione: «Tutta la storia dall’emigrazione dei popoli [Völkerwanderung, quella che i popoli

romanzi chiamano «invasioni barbariche»], che segna l’assurgere del Cristianesimo a religione universale, in poi, non è consistita in altro che nello sforzo di configurare la realtà secondo l’immagine del regno sovrasensibile,

prima esistente per sé»[35]. In questo senso, già nel 1795, Hegel poteva esclamare: «Venga il regno di Dio e le nostre mani non restino inerti in grembo!»[36]. Il processo (non ancora concluso) di secolarizzazione del

mondo riceve

sovrasensibile un impulso

determinante da Lutero, il «Socrate» dei tempi moderni[37], il quale inaugura l’età dello Spirito, innalzando il vessillo della libertà e della certezza razionale: «Questa è la bandiera

sotto cui serviamo e che teniamo alta. Il tempo, da allora fino a noi, non ha avuto e non ha altra opera da compiere all’infuori di quella di incorporare questo principio nel mondo, ma in modo da fargli ancora acquistare la

forma della libertà e dell’universalità»[38]. Durante tutto il Medioevo ragione e effettualità non hanno mai costituito un’endiadi: il «mondo intelligibile» aveva un’esistenza separata e proclamava la sua

natura di unica realtà effettuale, di fronte alla vuota parvenza, alla vanitas vanitatum, del mondo terreno; questo, a sua volta, non aveva alcun effettivo riconoscimento da parte della coscienza, in quanto era

sostanzialmente dominato dall’arbitrio, dalla particolarità e dal privilegio feudali. Con l’era moderna l’universale discende nel mondo e si intreccia alla realtà, che diventa, a questo contatto, effettualità; e il mondo

terreno, ottenendo la sua autentica consacrazione dalla coscienza, diventando «patria» dello spirito, si innalza verso la ragione. Ormai la storia è intessuta di questa trama contigua di ragione ed effettualità,

giacché la ragione è penetrata nel mondo (soprattutto in Francia) e il mondo è penetrato nella ragione (soprattutto in Germania). L’ulteriore sforzo ancora da compiere è la mediazione completa

nel mondo e nella coscienza di questi due movimenti locali». Ed è qui che la filosofia ha il proprio terreno, al pari di altri canali di diffusione dell’astratto, la formazione dell’opinione pubblica attraverso la stampa e

la guerra medesima, la quale, come ha mostrato l’esperienza rivoluzionaria e napoleonica, impone il rispetto della Wirklichkeit e trasmette le nuove idee attraverso la disciplina delle conquiste o del

vassallaggio di popoli più deboli, forniti cioè di princìpi inferiori a quelli esportati dalle potenze vincitrici. Già col Rinascimento, con lo spuntare di questa «aurora […] dopo la lunga, terribile, gravida di conseguenze

notte del Medioevo»[39], si realizza la prevalenza dell’universale, anche grazie allo sviluppo della scienza e della tecnica. La polvere da sparo e la stampa segnano visibilmente questo nuovo dominio dell’astratto, la fine dei

rapporti personali di dipendenza e il rapido avanzare dello spirito[40]. Poiché il «particolare tecnico viene scoperto quando ne esiste il bisogno»[41], anche la stampa deve la sua invenzione al nuovo bisogno dell’essere «in

contatto reciproco sul piano spirituale»[42]. Con le «due verghe di ferro» della Chiesa e della servitù della gleba, la singolarità naturale dell’uomo del Medioevo è stata domata e sfibrata, e il metodo «selvaggio e terroristico»

con cui la Chiesa è stata costretta a combattere la barbarie ha reso gli individui pronti a piegarsi alla disciplina dell’universale[43]. Il terreno della battaglia contro le imposizioni e la volontà di far discendere il cielo in

terra è ciò che per Hegel accomuna riforma luterana e rivoluzione francese: le due «aurore» sono sfasate temporalmente e spazialmente, ma sono entrambe manifestazioni dello stesso principio dello

«spirito» moderno, il quale, libero dai ceppi del «positivo», ha imboccato la strada dello sviluppo accelerato e del mutamento rapido della realtà: «Pare quasi che in questi tempi lo spirito, che sino allora

aveva proceduto a passi di lumaca nel suo svolgimento, aveva anzi retroceduto e si era allontanato da sé, calzi gli stivali delle sette miglia»[44]. Ma in Germania non fu allora possibile accompagnare la rivoluzione nella

coscienza con la rivoluzione nel mondo, perché i tempi non erano ancora maturi: «Gli Anabattisti scacciarono da Münster il vescovo e si resero padroni della città; i contadini si sollevarono in massa, per essere

affrancati dall’oppressione

che

gravava su di essi. Ma il mondo non era ancora maturo per una trasformazione politica, come conseguenza della riforma della chiesa»[45]. Ora, dopo che in Francia il principio della

rivoluzione «scoppiò nella realtà» e in Germania «proruppe nel pensiero», il «compito della recentissima filosofia tedesca consiste nel rendere […] l’unità del pensare e dell’essere», contribuendo così a

esportare pensiero dalla Germania e a importare realtà[46]. L’unità di pensiero ed essere è, infatti, indispensabile ovunque in un’epoca che si «fa dotta, uniforme e comune», in una situazione in cui la forza

dell’universale incorporato nella realtà non può essere disattesa e l’individuo deperisce se perde il contatto vitale col mondo: «Lo Stato di legalità, la condizione dei tribunali, della costituzione, dello

spirito pubblico, sono così saldi in se stessi, che non restano a decidere se non le accidentalità del momento; ci si domanda ormai che cosa dipenda dall’individuo, e se vi sia qualcosa che ne

dipenda»[47]. Il singolo non è più, «come nell’età eroica», un’individualità plastica che forgia direttamente la realtà con le sue sole forze: «nell’attuale condizione del mondo, il soggetto può agire certo da se stesso

secondo questo o quel lato, ma ogni singolo, da qualsiasi lato si volga, appartiene a un ordinamento sociale sussistente e non appare come la figura autonoma, totale e al contempo individualmente viva di

questa società, ma solo come suo membro limitato. Egli agisce solo come inviluppato in essa, e l’interesse per una simile figura ed il contenuto dei suoi fini e della sua attività sono infinitamente particolari». In questa

società in cui l’individuo è chiamato soprattutto a ricoprire un ruolo, a essere non una individualità autonoma, ma soprattutto una funzione sociale, neppure i re, col loro potere e la loro volontà, sfuggono alla regola:

«Parimenti, i monarchi del nostro tempo non sono più, come gli eroi dei tempi mitici, un culmine in sé concreto del tutto, ma un centro più o meno astratto all’interno di istituzioni già per sé evolute e stabili per legge e

costituzione. I monarchi del nostro tempo non hanno più in mano i più importanti atti di governo; non promulgano più il diritto; le finanze, l’ordinamento civile, la sicurezza pubblica non sono più loro compito

speciale; la guerra e la pace vengono determinate dai rapporti generali politici con l’estero»[48]. Lo Stato moderno ha conquistato forza e solidità, ma non è esente da difetti: «Il principio degli Stati moderni ha

quest’immensa forza e profondità: lasciare che il principio della soggettività si porti a compimento in estremo autonomo della particolarità personale e, insieme, riportarlo all’unità sostanziale, e, così, mantenere questa

in esso medesimo»[49]. Ciò significa, da un lato, che lo sviluppo dell’autonomia del soggetto è consentito e promosso dallo Stato moderno, il quale, anzi, si mostra come l’universale che sorregge e fonda la

particolarità; dall’altro, che il soggetto, mediandosi con l’universale, si è inserito in una logica complessa di reciproco arricchimento mediante contraddizioni, che hanno però un prezzo, che nella fase più

recente si presenta come accettazione della «prosa del mondo». Scomparsi i rapporti di dipendenza personale, come la schiavitù o la servitù della gleba, il singolo dipende, infatti, da tutti ed è costretto a scambiare il suo lavoro

col lavoro degli altri, socializzandosi forzatamente e perdendo gran parte del suo potere autonomo in questa «prosa del mondo», dove «l’immediatezza dell’esistenza è un sistema di rapporti

necessari tra individui e potenze apparentemente autonomi, in cui ogni singolo è usato come mezzo per servire a fini a lui estranei, oppure abbisogna come mezzo»; dove l’uomo è esposto, come gli

animali, «all’identica accidentalità, agli stessi bisogni naturali insoddisfatti, alle malattie distruggitrici, e a ogni genere di indigenza e miseria»; dove «ogni vivente isolato rimane nella contraddizione di essere

a sé per se stesso come questo conchiuso uno, ma di dipendere al contempo da ciò che è altro, mentre la lotta per la soluzione della contraddizione non va oltre il tentativo e la continuità di questa guerra permanente»[50].

In questa epoca prosaica, caratterizzata da miopi egoismi in lotta fra loro, le contraddizioni stentano a risolversi. Ognuno cerca perciò rifugio dalle intemperie della storia scavandosi la propria nicchia, mentre i

governi non riescono a formarsi per l’eterogeneità e la frammentazione della società civile (da qui il pathos hegeliano per lo Stato, che deve sintetizzare e unificare, anche ponendo dei rigidi vincoli, gli

interessi contrapposti). Specie nel periodo della Restaurazione, alla «prosa del mondo» si accompagna la «farsa»[51] della politica. La Rivoluzione francese ha eliminato l’ancien régime, «ha posto la ragione sul trono»,

generando però – come reazione alla rinuncia dell’interesse privato da sublimare nell’interesse pubblico, nella trasformazione senza residui dell’uomo nel citoyen – uno sviluppo ipertrofico della soggettività e della

particolarità degli individui che è tale da impedire in molte nazioni europee, come la Francia, qualsiasi accordo nella formazione di governi stabili. Lo humour, un genere situato nell’Estetica a

coronamento dell’arte moderna, si manifesta proprio in questa fase crepuscolare in cui la civiltà è dominata da una società civile in fermento, dalle astrazioni dell’intelletto, dal diffondersi della banalizzazione e della

burocratizzazione dell’esistenza. I

suoi

esponenti più rappresentativi sono Rossini – che Hegel adorava, preferendo, ad esempio, Il barbiere di Siviglia alle Nozze di Figaro di Mozart e assistendo con

entusiasmo all’Otello e alla Zelmira – e il Laurence Sterne di Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, ammirato anche in Italia da Ugo Foscolo. Come Aristofane rappresenta, ridendo, la crisi della democrazia

ateniese e della polis, come Ariosto nell’Orlando furioso e Cervantes nel Don Chisciotte descrivono, ridendo, il tramonto del mondo feudale, così Rossini, in particolare, è per lui l’equivalente della ‘civetta’ che si leva

in volo nell’oscurarsi di un mondo che, attraversata la tragedia della Rivoluzione e del periodo napoleonico, non si prende più sul serio e dà serenamente l’addio a un recente passato divenuto farsesco. Questo perché

«lo spirito si affatica intorno agli oggetti solo finché resta in essi qualcosa di segreto, di non rivelato, e le cose stanno così finché la materia è identica con noi. Ma se l’arte ha rivelato da tutti i lati le concezioni essenziali

del mondo contenute nel suo concetto e la cerchia del contenuto che ad esse appartiene, essa si è liberata di questo contenuto che è di volta in volta determinato per un popolo e un’epoca particolari: ed il vero

bisogno di riaccoglierlo si ridesta esclusivamente a quello di voltarsi contro il contenuto che era stato finora valido, così come per es., in Grecia Aristofane si è volto contro il presente e Luciano contro il suo

passato greco, e come in Italia e in Spagna, nel declino del Medioevo, Ariosto e Cervantes incominciarono a muoversi contro la cavalleria»[52]. La vita continua certamente a essere tragica, penosa e

disgraziata per la maggior parte degli uomini, ma i conflitti rappresentati nelle tragedie non hanno più la stessa consistenza del passato, come quando erano ineludibili allorché le individualità si immedesimavano

integralmente con una sola delle «potenze sostanziali» in conflitto o prendevano parte al loro intimo dilaniarsi (nell’ambito della famiglia, dello Stato o della Chiesa): «Il vero contenuto dell’agire tragico rispetto ai fini

concepiti dagli individui tragici è dato dalla cerchia delle potenze sostanziali per se stesse legittime, operanti entro la volontà umana: l’amore coniugale, quello dei genitori, dei figli, dei fratelli; parimenti la vita statale,

il patriottismo dei cittadini, la volontà dei capi; inoltre la vita chiesastica […] Gli eroi tragici dell’arte drammatica, sia che si tratti dei vivi rappresentanti di sfere di vita sostanziali, sia che si tratti di individui

grandi e saldi in quanto liberamente poggianti su di sé, questi eroi, una volta giunti a questa altezza in cui spariscono le semplici accidentalità dell’individualità immediata, si stagliano quasi come sculture, e anche per questo

aspetto le statue e le immagini degli dei, in se stesse più astratte, ci spiegano gli alti caratteri tragici dei Greci meglio di qualsiasi nota o commento»[53]. Il moderno punto di vista soggettivo dell’individualità che si

presume totalmente autonoma, ma disposta ai compromessi della «prosa del mondo», erode la monolitica compattezza richiesta da ogni dedizione esclusiva, quale è rappresentata ad esempio nell’Antigone.

Venendo a mancare l’impegno assoluto del singolo, «nell’umorismo del comico si porta a coscienza il negativo di questa dissoluzione […] Ma se la commedia manifesta questa unità solo nella sua autodissoluzione, in

quanto l’assoluto che vuole prodursi a realtà vede annullata questa realizzazione stessa dagli interessi divenuti ora per sé liberi nell’elemento della realtà e rivolti solo all’accidentale e al soggettivo, allora la

presenza e l’operosità dell’assoluto non compaiono più in un’unione positiva con i caratteri e i fini dell’esistenza reale, bensì si affermano solo nella forma negativa secondo cui tutto ciò che all’assoluto non

corrisponde si elimina e solo la soggettività come tale si mostra, in questa dissoluzione, certa di se stessa ed in sé rassicurata»[54]. Per Hegel l’arte moderna concepisce quindi i suoi nuovi eroi in forma tragicomica, divisi tra la

ricerca di ideali irraggiungibili e il rifiuto della realtà vista come banale o indegna. Il Don Chisciotte di Cervantes, i personaggi del romanzo di Sterne o il protagonista del Nipote di Rameau di Diderot non sono perciò in

grado di misurarsi frontalmente e realisticamente con le sfide del mondo o di prendere sul serio i suoi vincoli, di cui però percepiscono, più o meno oscuramente, l’inconsistenza o il prossimo sciogliersi.

Anche per contrastare o mitigare questa «prosa del mondo» occorre un duplice movimento dialettico: che il pensiero si impadronisca del mondo e lo plasmi; che il mondo, e non una soggettività vuota o un

vago al di là, venga riconosciuto come unico campo di lotta della ragione. Persino il filosofo – anzi, il filosofo in particolare – non può staccarsi oggi dal mondo in cui è immerso, non può, anche volendo, essere

più vichianamente «monastico e solitario». Infatti, «la potenza oggettiva dei rapporti esterni è infinitamente grande, e proprio per questo la guisa necessaria, secondo cui io sono in essi, è divenuta indifferente

nei miei riguardi, la personalità e la vita individuale in genere sono divenute di tanto più indifferenti. Un filosofo, si dice, deve anche vivere come filosofo, cioè deve essere indipendente dai rapporti esterni del

mondo e deve tralasciare di occuparsi e di preoccuparsi di quelli; ma di vivere così ristretto rispetto a tutte le esigenze, specialmente della cultura, nessuno può avere per se i mezzi, ma li deve cercare nella

comunione con gli altri. Il mondo moderno è essenzialmente questa potenza di coesione, ed implica assolutamente la necessità per l’individuo di entrare in questo nesso della vita esteriore»[55]. Nell’essere legato – come tutti gli

altri – ai bisogni e alle necessità della vita sociale, risiede la capacità del filosofo «moderno» di diventare il punto di accumulazione più sensibile delle contraddizioni storiche, della «croce del

presente»; ma, di conseguenza, è in lui che più impellente sorge il bisogno di una conciliazione collettiva di quei contrasti che toccano tutti, è in lui che spunta la «rosa» del futuro. Attualmente «i filosofi non sono più

monaci, anzi in complesso li vediamo operare nel mondo in una qualsiasi condizione sociale che hanno in comune con altri. La loro vita è legata alle condizioni generali della società, o si svolge nei pubblici uffici; e

anche se vivono da privati, la loro condizione non li isola affatto da quella degli altri. Essi sono coinvolti nelle condizioni del loro tempo, nel mondo, nel corso e nel processo di esso»[56]. In questa imperante presenza

dell’universale, essi ne sono i rappresentanti di grado più elevato; essi, dice Hegel con pathos appena trattenuto, sono i «funzionari dello spirito» che «leggono o scrivono questi ordini di gabinetto direttamente nell’originale, sono

stipendiati collaborare

per a

scriverli»[57]. In questo gergo cancellieresco, che conserva tutto il sapore dell’epoca ed è sintomo di una mentalità, l’immagine hegeliana del filosofofunzionario (burocrate

dello «spirito», si badi, non dello Stato) coincide con quella del corruttore delle manifestazioni invecchiate della vita politica. In tali vesti il filosofo può essere, a un tempo, legato alla vita del presente, come gli

altri uomini, e al di sopra di esso nella «forma» del pensiero, in viaggio nell’oscurità della notte, dove il nuovo mondo che sorge dal progressivo disfarsi del vecchio, gli balenerà per un attimo come in un paesaggio illuminato

da un lampo, in una Gewitterlandschaft: «Questo lento sbocconcellarsi che non alterava il profilo dell’intiero, viene interrotto dall’apparizione che, come un lampo, d’un colpo, mette innanzi la

piena struttura mondo nuovo»[58].

del

Certo, ora che «l’educazione del tempo ha preso un’altra piega e il pensiero si è messo a capo di tutto ciò che deve essere valido»[59], gli Stati hanno spesso tentato di porre la

filosofia sotto controllo e di trasformare i filosofi in funzionari dello Stato. Il rinnovato interesse per la logica è dovuto appunto, secondo Hegel, alla constatazione dell’effetto devastante che ha avuto sulla realtà

la potenza del pensiero, che viene chiamato a giustificarsi[60]. E le relazioni fra la filosofia e lo Stato, come vedremo, non sono per nulla facili; anche se integrata nelle istituzioni, attraverso l’insegnamento

pubblico organizzato dallo Stato, essa resta sempre un pericolo potenziale, che cresce quanto più lo Stato si rifiuta al mutamento e alla razionalità esplicita. L’avanzare della razionalizzazione è un moto inarrestabile che

travolge quegli Stati e quelle filosofie che non vi si adeguano e che penetra in ogni angolo della coscienza e della realtà, soprattutto con l’età di Kant e della Rivoluzione francese: «Ma il pensiero e il pensare erano ormai

diventati un bisogno insuperabile, da non potersi più eliminare. Si affacciava quindi in primo luogo l’esigenza che i pensieri particolari apparissero prodotti necessari di quella prima unità dell’io e da essa giustificati. In

secondo luogo, il pensiero si era esteso su tutto l’universo, si era attaccato a tutto, tutto aveva indagato, in tutto inserito le sue forme, tutto ridotto a sistema, sicché in ogni campo si doveva procedere secondo le sue

determinazioni, non secondo un semplice sentimento, secondo la consuetudine o il senso pratico, secondo l’immensa incoscienza dei cosiddetti uomini pratici. Anche nella teologia, nella politica e nelle relative

legislazioni, nel determinare i fini dello Stato, nelle industrie, nella meccanica, si doveva sempre procedere per determinazioni generali, cioè razionalmente; tanto che si sente parlare perfino di

birrerie razionali, di fabbriche razionali di laterizi ecc.»[61]. Il nuovo spirito dei tempi, di cui già si intravedono i contorni storici e di classe, è talmente disceso nel mondo moderno (e non solo nella Prussia!) che «oggi

non si riesce più a fare delle satire. Cotta e Goethe hanno istituito premi per delle satire, ma nessuna poesia di questo genere è venuta fuori. Esse abbisognano infatti di saldi principi con cui il presente è in contraddizione, di una

saggezza che rimane astratta, di una virtù che con ferma energia poggia solo su di sé e, pur ponendosi in contrasto con la realtà, non è in grado di realizzare la vera dissoluzione poetica del falso e del repugnante e

l’autentica conciliazione nel vero»[62]. L’eroe moderno di quest’epoca prosaica[63] è il giovane del ‘romanzo borghese’, che compie il suo apprendistato combattendo contro la realtà, per poi accettarla supinamente,

diventando un filisteo, rovesciando la sublimità degli ideali non tarati sulla realtà – le illusioni – nella rabbia della delusione e di un’esistenza meschina, prodotto anch’essa di potenze sociali oggettive: «Questi nuovi

cavalieri sono in particolare dei giovani che devono scontrarsi col corso del mondo, il quale si realizza al posto dei loro ideali, e che ritengono una disgrazia che vi siano famiglia, società civile, Stato, leggi, professioni ecc.,

perché sostanziali

queste relazioni

della vita si oppongono crudelmente con le loro barriere agli ideali e al diritto infinito del cuore. Si tratta dunque di aprire una breccia in quest’ordine di cose, di mutare il mondo,

migliorarlo, oppure di tagliarsi a suo dispetto per lo meno una fetta di cielo sulla terra: cercare e trovare la propria fanciulla, quale deve essere, e toglierla, portarla via, strapparla ai suoi cattivi parenti o ad altre relazioni

nefaste. Ma queste lotte nel mondo moderno non sono altro che l’apprendistato, l’educazione dell’individuo alla realtà esistente, e acquistano così il loro vero senso. Infatti la fine di tale apprendistato consiste

nel fatto che il soggetto mette giudizio, tende a fondersi, insieme con i suoi desideri e opinioni, con i rapporti sussistenti e la loro razionalità, si inserisce nella concatenazione del mondo e vi acquista un posto adeguato. Per

quanto uno possa essere venuto a lite con il mondo ed esserne stato respinto, alla fine per lo più trova la fanciulla adatta e un posto qualsiasi, si sposa e diviene un filisteo come gli altri: la donna si occupa del governo

della casa, i figli non mancano, la moglie adorata che prima era l’unica, un angelo, si comporta più o meno come tutte le altre, l’impiego dà fatica e noia, il matrimonio le croci domestiche, e insomma subentra,

come d’uso, risveglio»[64].

l’amaro

3. La filosofia come medicina mentis Hegel è convinto di vivere in una fase storica in cui il singolo avverte ferocemente la

sua inadeguatezza rispetto all’universale già attivo nella realtà (universale che è, del resto, un prodotto collettivo, frutto del lavoro di generazioni) e, non potendo sperare di tendere più in alto, a una comprensione e a

una presa di possesso sistematica del mondo, si incanaglisce in fini o obiettivi limitati oppure tenta di scardinare il corso del mondo senza fare la fatica di comprenderlo per mutarlo, alla ricerca di una privata «fetta di

cielo» sulla terra. Quale scopo – si domanda Hegel – può avere la filosofia in un mondo prosaico del genere, in cui la scissione rischia di «acclimatarsi»[65] e il senso dell’intero di affievolirsi nei gorghi della vita individuale,

anche se manifesta

poi si come

malessere di cui si ignora la causa? Una volta gli uomini avevano riposto i loro «vasti tesori di pensieri e di immagini» nel cielo e «c’è voluto tempo assai prima di introdurre,

nell’ottusità e nello smarrimento in cui si trovava il senso dell’al di qua, quella chiarezza che solo il sovraterreno possedeva […] Ora sembra che ci sia bisogno del contrario; sembra che il senso sia talmente abbarbicato ai

valori terreni, da rendersi necessaria altrettanta violenza a sollevarlo»[66]. La filosofia, trapiantando gli individui nel mondo senza che peraltro si acclimatino passivamente e riflessivamente alle sue

scissioni, l’incarico

ha anche di salvare

l’individualità e di renderla vitale, contrastando in una certa misura quel progressivo deperimento che la minaccia e che Hegel non propugna, come

ritiene Kierkegaard, ma che registra, addebita all’azione di precise forze storiche ed economiche, le quali ottundono, col lavoro di macchina e col dominio egoistico della società civile, la maggior parte degli uomini. Per non

intristire intrattenere

bisogna una

relazione costante con la Wirklichkeit. Non è tuttavia vero che per Hegel il singolo non abbia alcuna possibilità di intaccare il mondo e debba affidarsi a forze collettive e

universali. Bisogna tener conto del mordente del discorso hegeliano, della polemica contro certe manifestazioni di utopia romantica che pretendevano di saltare oltre la realtà, di schiodare la rosa del

futuro dalla croce del presente. Questo attivismo, dopo essersi scontrato con la «riottosa estraneità»[67] del mondo, con la sua «burbera ritrosia», che si concede solo a chi sa dominarlo effettivamente, si

ribaltava in una impotente disperazione o in una tremenda depressione. Si finisce così per venire a contatto con la realtà effettuale alle condizioni peggiori, quelle di chi – abbandonando i sogni di

trasformare radicalmente il mondo, «che a lui sembra uscito fuori dai cardini» – diventa un gretto conformista: «Dapprima al giovane il passaggio dalla sua vita ideale nella società civile può sembrare un doloroso

passaggio in una vita filistea. Occupato finora solo in oggetti universali, e lavorando solo per sé, il giovane che diventa uomo deve, entrando nella vita pratica, essere operoso per gli altri, e occuparsi delle cose singole

(Einzelheiten). Per quanto ciò dipenda dalla natura della cosa – poiché quando si deve agire, bisogna rivolgersi alla cosa singola – pure l’iniziale occupazione nelle cose singole può riuscire penosa all’uomo, e

l’impossibilità realizzare

di

immediatamente i suoi ideali può renderlo ipocondriaco»[68]. Lo

«spirito

dell’inquietudine e dell’instabilità, che caratterizza il nostro tempo»[69], produce,

infatti, l’ipocondria, così che l’ideale appare alternativamente o a portata di mano o irraggiungibile. Passare attraverso le forche caudine dell’ipocondria e uscirne rafforzato significa quindi per l’individuo raggiungere

la maturità, ammettere che il mondo ha una consistenza che resiste alle sue astratte pretese. Il conseguimento di questo obiettivo non è certamente facile, ma la tensione verso la meta deve essere continua per non cadere, da un

lato, nella tentazione di restare al di sopra della realtà, con la presunzione, dall’altro al di sotto, con la rassegnazione. C’è un passo a lungo ignorato e sottovalutato in cui queste affermazioni vengono chiaramente

espresse: «l’impossibilità

di

un’immediata realizzazione dei propri ideali può rendere l’uomo ipocondriaco. A questa ipocondria, per quanto in molti possa anche essere invisibile, non sfugge facilmente

nessuno. Quanto più tardi vi si cade, tanto più preoccupanti sono i suoi sintomi. Nelle nature deboli essa può trascinarsi tutta la vita […] In questo stato d’animo morboso l’uomo non vuole abbandonare la sua

soggettività, non è in grado di oltrepassare la sua avversione nei confronti dell’effettualità e si trova appunto perciò nella condizione di relativa incapacità, che diventa facilmente un’effettiva incapacità.

Se l’uomo non vuole sprofondare, deve riconoscere il mondo come autonomo, essenzialmente bell’e fatto, accettare le condizioni postegli dal mondo stesso e strappare alla sua burbera ritrosia ciò che

egli vuole avere per sé. Di regola l’uomo crede di dover essere condotto a questa arrendevolezza solo dalla necessità e dal bisogno. Ma, in verità, tale unione col mondo non deve essere intesa come un rapporto di necessità, ma come il

rapporto razionale […]; l’uomo agisce perciò del tutto razionalmente in quanto abbandona il piano di una radicale trasformazione del mondo e tende a realizzare i suoi scopi personali, le sue passioni e i suoi

interessi solo nella sua connessione al mondo. Anche così gli resta spazio per un’attività onorevole, di vasta portata e creativa. Infatti, sebbene il mondo debba essere essenzialmente riconosciuto come bell’e

fatto, esso non è tuttavia qualcosa di morto, bensì, come il processo vitale, qualcosa che sempre di nuovo si produce, qualcosa che, nello stesso tempo, in quanto si conserva, progredisce. In questa produzione,

che conserva e manda avanti il mondo, consiste il lavoro dell’uomo adulto […] Ma l’avanzare del mondo avviene solo in enormi masse e si fa notare solo in una grande somma di fattori. Se l’uomo, dopo un lavoro di

cinquant’anni, volge lo sguardo indietro al suo passato, egli riconoscerà già il progredire. Questa conoscenza, come cognizione della razionalità del mondo, lo libera dal sentimento luttuoso della distruzione dei suoi

ideali. Ciò che vi è di vero in questi ideali si conserva anche nell’attività pratica, solo ciò che vi è di non vero, le vuote astrazioni, devono essere dall’uomo consumate nel lavoro»[70]. La maturità, che anche per

Hegel è shakespearianamente «tutto»[71], coincide con la virile accettazione di un mondo che è il prodotto di innumerevoli generazioni di esseri umani, i quali – modificando la natura e

se stessi, creando le istituzioni, accumulando a valanga i contributi di ciascuno e di tutti, nel corso della storia – hanno plasmato un mondo che l’individuo, nascendo e crescendo, trova già fatto e in cui deve

attivamente inserirsi ripercorrendo a tappe forzate il cammino dell’umanità, così da misurare di volta in volta le proprie forze e da impadronirsi delle sue fondamentali conquiste. Hegel

ha

provato

personalmente cosa sia questa ipocondria e in quali labirinti conduca, prima di portare nuovamente all’aperto. Rispondendo al filosofo e medico Karl Joseph Hieronymus Windschmann, che si lamentava di

un’ipocondria tanto grave da ridurlo quasi alla paralisi, dice di conoscere: «quel Suo stato d’animo che mi descrive – questo penetrare nelle oscure regioni dove niente si rivela stabile, determinato e sicuro,

dove da ogni parte brillano lampi che però, anziché illuminare, gettano falsi riflessi vicino agli abissi, offuscati dal loro chiarore, traendo in inganno sull’ambiente, e dove ogni inizio di sentiero si interrompe e

finisce nell’indeterminato, perdendosi e strappandoci dal nostro destino e dalla nostra destinazione. Io conosco per esperienza questa voce dell’animo, anzi della ragione, quando essa penetra con

interesse e con i suoi presentimenti nel caos dei fenomeni e quando, internamente certa della meta, non si è ancora completamente ritrovata, non è ancora pervenuta alla chiarezza e alla specificazione dell’intero. Ho sofferto

per un paio d’anni di questa ipocondria fino all’esaurimento delle forze. Certo ogni uomo ha conosciuto una tale svolta nella sua vita, il punto oscuro della contrazione della propria essenza, nella cui strettoia egli è

costretto a passare, perché ne venga assicurato e confermato nella certezza di se stesso, nella certezza della vita consueta e quotidiana, e, se si è reso incapace di essere soddisfatto da questa, nella certezza di una più

nobile interiore»[72].

esistenza

Il disconoscimento della realtà effettuale può far giungere all’estremo della follia, che è il massimo isolamento dell’individuo dal genere. La follia è per

Hegel un necessario

momento dello

sviluppo dell’anima, nello stesso senso in cui il crimine è necessario per il costituirsi del diritto[73]. Non è detto, cioè, che ciascuno debba passare attraverso questa

«estrema lacerazione»; essa esiste come potenzialità da superare. Analoga è la posizione di Schelling: «La pazzia sale dalla profondità dell’essere dell’uomo, non penetra – è evidentemente qualcosa di esistente già

potentia, che non viene mai ad actum, è ciò che nell’uomo dovrebbe esser vinto ma, sempre mosso da qualche causa, ridiventa operante […] Laddove non vi è follia che sia regolata, dominata, non vi è nemmeno un

intelletto forte, potente, poiché la forza dell’intelletto si dimostra appunto nel suo potere su ciò che gli è contrapposto»[74]. Il violento rovesciamento dello stato delle cose e l’incapacità di accettare

il presente genera per Hegel la follia «nel caso in cui l’individuo viva esclusivamente nel passato e divenga in tal modo incapace di trovarsi nel presente, dal quale si sente respinto e al quale si sente nello stesso tempo legato.

Così ad esempio, durante la Rivoluzione francese, per il rovesciamento di quasi tutti i rapporti civili, molti uomini sono diventati pazzi»[75]. La follia non è una perdita astratta della ragione, ma una contraddizione

interna ad essa, un dissidio con se stessi, che consiste nel fatto che la realtà del possibile immaginata entra in contraddizione con la totalità della realtà effettuale[76]. Proprio perché è l’unico animale che ha la

facoltà di immaginare il possibile come se fosse reale, l’uomo ha il «privilegio della follia»[77]. Astrattamente tutti possono diventare re, possono volare (vi sono nella realtà percettiva dei volatili), ecc., ma di fatto i deliri

del folle, composti su questa tastiera del possibile, stanno in «contraddizione irrisolta» con l’insieme delle sue precedenti rappresentazioni. La follia, in quanto mancanza di rapporto completo fra Vernunft e

Wirklichkeit, è un «sognare da svegli», uno «sdoppiamento della personalità», per cui il soggetto folle «è presso di se nel negativo di se stesso» e crede «di aver presenti come oggettive le sue rappresentazioni solo soggettive e perdura

contro l’effettiva oggettività che sta in contraddizione con esse»[78]. Nel folle la coincidenza di pensiero ed essere, risultato e presupposto del pensiero sano, viene a cadere, e la frase «ciò che penso è vero» ha

anch’essa un significato folle nella sua bocca[79]. Ciò dipende dal fatto che «la pazzia è spirituale, ma anche una malattia corporea, e questo è proprio il suo carattere, questa inseparabilità». Nella coscienza che riesce a

mantenere l’equilibrio tra la dimensione spirituale e quella fisica, viene ‘superato’ il lato della corporeità, mentre, quando tale equilibrio si incrina, si forma una sorta di «nodo» contro cui «non può nulla l’interezza del

sentimento di sé […] proprio perché questo nodo è corporeo»[80].

divenuto

Hegel conosceva da vicino gli effetti e i sintomi della follia: il suo amico più caro negli anni di Tubinga e di Francoforte, Friedrich

Hölderlin, era impazzito e venne ricoverato in una clinica dove – sospettato di attività rivoluzionarie a causa dei suoi stretti rapporti con Isaak von Sinclair – gridava di non essere un giacobino[81]; la sua stessa sorella,

Christiane Louise (17731832), dapprima governante in casa del barone Joseph von Berlichingen, fu costretta nel 1814 ad abbandonare il lavoro per crisi di ipocondria, nel 1815 passò qualche settimana a casa del

fratello a Norimberga, nel 1820 fu rinchiusa nel manicomio di Zwiefalten e morì infine suicida gettandosi nel fiume Nagold, nell’alta Foresta Nera, pochi mesi dopo la morte di Wilhelm[82]. Di fronte al germe

dell’esperienza personale e alla tragedia reale che ha colpito familiari e amici intimi – in relazione a un’epoca di violenti sconvolgimenti e di instabilità –, Hegel considera l’orientarsi sulla congiunzione di

razionalità ed effettualità non come adattamento trasformistico al mondo (e questo periodo storico non mancava certo di «girella» emeriti), ma, da tale prospettiva, come un modo per esorcizzare il baratro

della disperazione e della follia. La filosofia diventa così medicina mentis delle coscienze scisse nelle età di transizione e di crisi, e la ragione può ben dire: «In questo segno vincerai»[83].

4. Dolore e contraddizioni La ragione non costituisce in Hegel un pinnacolo gotico, un vertice del pensiero astratto che si innalza e domina sovranamente la realtà effettuale (Wirklichkeit),

espungendone il negativo, unificandone le parti forzatamente e senza residui e cancellandone gli aspetti empirici. Malgrado alcuni clamorosi errori, egli non ha l’improntitudine di voler piegare i saperi

scientifici adattandoli al letto di Procuste della sua filosofia. Queste accuse, che avevano un senso polemico quando furono formulate da Schelling, da Feuerbach o dal giovane Marx, si sono poi inflazionate e banalizzate. Il pensiero

hegeliano monolitico,

non non

è è

prevaricazione dell’idea sulla realtà effettuale, non è sintesi conciliatoria degli opposti o «panlogismo». Hegel ha una straordinaria fedeltà alle contraddizioni, al

dolore, al negativo, che per lui (contro ogni tentazione utopistica) non scompariranno mai, sono ineliminabili dalla vita. E, questo, sebbene la filosofia, comprendendo e oggettivando il dolore attraverso il pensiero,

sia in grado di mitigarlo: «Unicamente esprimendolo, il dolore giunge alla coscienza, ma ciò che è arrivato alla coscienza, perciò stesso è già cosa passata»[84]. Ciò detto, va aggiunto che nella sua filosofia vi è,

contemporaneamente, l’irrinunciabilità al programma di comprendere e dominare una tanto complessa Wirklichkeit e la fiducia, talvolta eccessiva, che sia possibile tradurre, se forniti di adeguati

‘dizionari’ teorici, ogni linguaggio e ogni esperienza in forma di pensiero e che, anzi, ciò che non è traducibile in questi termini non è vero: «se la lingua esprime sempre l’universale, io non posso dire ciò che è

soltanto un sentimento.

mio E

l’ineffabile, il sentimento, la sensazione è non già il più eccellente e il più vero, ma ciò che v’ha di più insignificante e di men vero»[85]. Certo, il suo criterio di rilevanza

è significativamente diverso dal nostro, vi predomina una concezione per noi arcaica di quel che è pubblico e comunicabile e di quel che invece è privato e incomunicabile. Il «coraggio del

conoscere», su cui si fonda la sua impresa speculativa, è in parte garantito dalla fiducia in una ricomposizione su scala mondiale del senso degli eventi e delle forme di pensare e sentire. Vi è l’idea che lo sviluppo – sebbene

tormentato – verso una più profonda «coscienza della libertà» è ancora in atto e procede attraverso contraddizioni (spesso inconsce) che si sanano per subito riaprirsi a un livello superiore. In fondo, il senso della

dialettica, malgrado quel che comunemente si pensa e si scrive, non coincide affatto in Hegel con il culmine del suo pensiero, che è invece rappresentato dalla «speculazione». La dialettica, infatti, è solo l’elemento negativo, il

sopprimersi delle rigide determinazioni dell’intelletto (Verstand) nel loro passaggio alla ragione (Vernunft). In germe essa svolge una funzione analoga a quella corrosiva delle certezze già praticata dallo scetticismo antico.

Per suo tramite la limitatezza delle determinazioni intellettuali si scioglie e si risolve in altro: «La dialettica forma, dunque, l’anima motrice del progresso scientifico; ed è il principio solo per cui la

connessione immanente

e

la

necessità entrano nel contenuto della scienza: in essa soprattutto è la vera, e non estrinseca, elevazione sul finito»[86]. La forma più alta del pensiero è invece «il momento speculativo, o

il positivo razionale, [che] concepisce l’unità delle determinazioni nella loro opposizione; ed è ciò che vi ha di affermativo nella loro soluzione e nel loro trapasso»[87]. Nel pensiero speculativo, che può apparire

assurdo comune,

al

senso la

contraddizione, così come è concepita dalla ragione, non costituisce «un’accidentalità, quasi un’anomalia e un transitorio parossismo morboso», ma è «più profonda e più

essenziale» dell’identità. Essa vige sia nella realtà effettuale che nel pensiero: «è uno dei pregiudizi fondamentali della vecchia logica e dell’ordinamento della rappresentazione, che la contraddizione non sia una determinazione

altrettanto essenziale e immanente quanto l’identità. Invece, quando si dovesse parlare di un ordine di precedenza e si dovesser tener ferme le due determinazioni come separate, bisognerebbe prendere

la contraddizione come la più profonda e la più essenziale. Poiché di fronte ad essa l’identità non è che la determinazione del semplice immediato, del morto essere; la contraddizione invece è vitalità; qualcosa si

muove, ha un istinto è un’attività, solo in quanto ha in se stesso una contraddizione»[88]. Per questo il pensare speculativo «tien ferma la contraddizione e nella contraddizione se stesso»[89] e, in tal modo, togliendo le

unilateralità separazione

e

la delle

nozioni, tipica dell’intelletto, nel pensare se stesso pensa il mondo e viceversa. La rinnovata attenzione che la filosofia americana contemporanea di

origine pragmatista e analitica ha dedicato a Hegel, dopo quasi un secolo di ripulsa, si basa anche sulla critica hegeliana all’immediatezza non solo del «morto essere», ma anche della «certezza sensibile» con

cui si apre la Fenomenologia dello spirito. A partire infatti da queste analisi si snoda la polemica di Sellars contro il «mito del dato» e, in particolare, dei «protocolli sensibili» del neopositivismo logico,

seguito in questo, almeno in parte, da Rorty e da Brandom[90]. Si potrebbe riassumere, in maniera semplificata, il significato della dialettica descrivendola come una metafisica dello sviluppo, una

strategia che utilizza le contraddizioni in funzione dello sviluppo (o, scarnificando ulteriormente la definizione, come sviluppo mediante contraddizioni). Noi abbiamo invece assistito sempre più spesso –

come, tuttavia, in alcuni casi anche Hegel sapeva[91] – a fasi di contraddizioni senza sviluppo, in pura perdita, e di sviluppo senza (laceranti) contraddizioni propulsive e, parallelamente,

all’apparente fallimento del grande progetto di unificazione progressiva del genere umano sotto l’egida dello «spirito» e di una sempre più chiara «coscienza della libertà». La negatività corrosiva della dialettica, lungi

dall’essere idealista o materialista, si presenta come una forma di esaltazione di una civiltà, quella occidentale, capace di inglobare l’alterità e di soggiogare il mondo. Come è detto nell’Enciclopedia, solo

l’uomo europeo, tra gli appartenenti alle grandi civiltà mondiali, è infatti riuscito, grazie a «un lavoro duro e riluttante contro se stesso»[92], a trasformare l’individuo in un campo di battaglia da cui esce ogni volta vittorioso: «All’europeo

interessa il mondo; egli vuole conoscerlo, appropriarsi dell’Altro che gli sta di fronte […]. Così come nel campo teoretico, anche in quello pratico, lo spirito europeo tende a produrre l’unità tra sé e il mondo esterno. Egli

sottomette il mondo esterno ai suoi scopi con un’energia che gli ha assicurato il dominio del mondo»[93]. La dialettica è stata uno dei più potenti strumenti di acclimatazione dell’individuo e delle società moderne al

mutamento incessante, alla necessità di risollevarsi, dopo ogni sconfitta, dalle tradizioni infrante e dalle pigre routines. Essa continua a esercitare negativamente la sua influenza critica, mentre oggi più difficile

appare, invece, il ruolo del pensare speculativo nel suo impegno di tenere ferma la contraddizione e, nella contraddizione, se stesso. La dialettica riflette, inoltre, l’immane sforzo di costruire e ricostruire

ininterrottamente una individualità in grado di dominare se stessa pur dis-integrandosi, di non accettarsi come si è, per potersi ricostruire autosovvertendosi (in quanto ciascuno deve sprofondarsi nella Wirklichkeit, confrontarsi

duramente con essa e mediarsi con essa per uscirne irrobustito e vittorioso): «l’intensità e la profondità della soggettività si fanno tanto maggiori quanto più infinito e ampio è il distaccarsi reciproco delle circostanze e

quanto più dilaceranti sono le contraddizioni, in cui però essa deve rimanere saldamente se stessa»[94]. Per questo Hegel non ama i romantici, tanto da definire una tisi dello spirito l’atteggiamento novalisiano: «Novalis,

uno degli animi più nobili che si collocarono su questo terreno, fu spinto all’assenza di interessi determinati, all’avversione per la realtà, e fu preda per così dire di una consunzione (Schwindsucht) dello

spirito. È questo uno struggimento che non vuole abbassarsi all’agire e al produrre reali, perché teme di sporcarsi nel contatto con la finitezza, benché abbia in sé anche altrettanto il sentimento dell’insufficienza di

questa astrazione»[95]. Novalis, al pari degli altri romantici che Hegel prende in considerazione (soprattutto Friedrich Schlegel con la sua «ironia») dissolvono la consistenza e la serietà della Wirklichkeit[96].

Non è vero, infine, che la dialettica si riduca a una macro-narrazione o a un mito e che, nella profezia di Foucault, sia destinato a sparire l’homo dialecticus, «l’essere della partenza, del ritorno e del tempo, l’animale che perde la

sua verità e la ritrova illuminata, l’estraneo a se stesso che ridiventa familiare»[97] (una posizione, quella hegeliana, che tuttavia Foucault in qualche modo riprende negli ultimi corsi al Collège de France, quando sostiene

la necessità di una «dissoluzione dell’io» da praticarsi attraverso l’oblio di se stessi e del perdersi per poi potersi ritrovare)[98]. La concezione hegeliana è, però, molto più complessa dell’immagine che ne

offre Foucault: consiste nel rifiuto – che va a colpire ante litteram l’impianto del filosofo francese – della convinzione utopistica che sia possibile l’incorporazione completa, non dialettica, dell’alterità,

che sia cioè possibile l’affermazione senza negazione, l’eliminazione dell’asservimento del particolare all’universale, sostituendo loro, alla maniera di Deleuze e Guattari, le categorie di

«differenza», «ripetizione»

o

«rizoma»[99]. Hegel è troppo realistico per pensare a un finale utopistico o, comunque, armonico della storia e dei conflitti. Egli trova generalmente,

attraverso «speculazione»,

la una

provvisoria soluzione ai problemi, anche grazie al potere dissolutore dei vincoli del passato da parte della dialettica e all’analisi offerta dalla filosofia come «il proprio tempo appreso

nel pensiero». Sa, però, che le contraddizioni rinascono dalle soluzioni stesse di volta in volta raggiunte. A seconda delle epoche, queste possono essere corrosive e portare a grandi rivolgimenti, come accadde presso gli

illuministi francesi, oppure capaci di diagnosticare un declino di cui non si conosce lo sbocco (un senso dell’invecchiamento di una determinata cultura accompagnato, in compenso, dalla percezione dell’attività

di scavo da parte della talpa della storia). La distanza tra i due pensatori resta, comunque, ed è enorme. Nel Foucault del periodo strutturalista il soggetto è, infatti, plasmato da giochi di potere

anonimi, sostanzialmente

che lo

determinano, mentre nel periodo dal 1978 al 1984 la soggettività – nel costruirsi e darsi forma, mediante la presa di distanza da sé – finisce, nell’ottica di Foucault, per lasciare sullo sfondo

la dimensione storicopolitica. In Hegel, al contrario, l’«essere presso di sé» (bey sich sein) dello spirito consiste proprio, da parte degli individui, nella loro presa di coscienza dello «spirito» in quanto «lavoro

universale del genere umano» che procede non verso la libertà in quanto tale, ma verso il «progresso nella coscienza della libertà»[100].

5. Istinto e sapere Il futuro avanza per

Hegel nella notte di un mondo reale che si disgrega. Ma è solo dal punto di vista della talpa che noi, per servirci delle parole di Valéry, entrons dans l’avenir à reculons. Gli occhi della civetta sono già assuefatti al buio e

vedono, seppur tra bagliori temporaleschi e nella sua semplicità non dispiegata, la «ghianda» del mondo nuovo che, già presente nella realtà effettuale e nella coscienza dei contemporanei, si prepara a divenire

quercia primo

frondosa: sorgere

«Il è

inizialmente una immediatezza, è, in altri termini, il concetto di quel nuovo mondo. Quanto poco un edificio è compiuto quando le sue fondamenta son gettate, tanto poco il

concetto dell’intiero, che è stato raggiunto, è l’intiero stesso. Quando noi desideriamo vedere una quercia nella robustezza del suo tronco, nell’intreccio dei suoi rami e nel rigoglio delle sue fronde, non siamo soddisfatti se al

suo posto ci venga mostrata una ghianda; similmente la scienza, corona del mondo dello spirito, non è compiuta al suo inizio. L’inizio del novello spirito è il prodotto di un vasto sovvertimento di molteplici forme di

civiltà, è il premio di una via molto intricata e di una non meno grave fatica»[101]. Gli occhi della talpa sono ciechi, ma il suo procedere e scavare sotterraneo, per quanto lento e tortuoso, è sicuro. La metafora

della talpa dall’Amleto

deriva di

Shakespeare, dove è riferita allo spettro del padre, al suo desiderio di vendetta che si fa strada nell’animo del giovane principe: «Ben detto, vecchia talpa. Come fai a lavorare

sottoterra così svelto? sei un molto degno minatore»[102]. Essa si ritrova poi, con significato semplicemente negativo, anche in Herder, in Kant e in Nietzsche: in Herder, nel contesto della

polemica illuministica,

antirivolta

contro «l’occhio di talpa di questo luminosissimo secolo»; in Kant, riferita agli inutili tentativi empirici per scoprire regole di comportamento morale, mentre ci si dovrebbe

piuttosto preoccupare di «spianare […] e rassodare per quel maestoso edificio morale, il terreno in cui si trovano ogni sorta di gallerie di talpa, fattevi da una ragione che scava inutilmente, ma con buone intenzioni,

alla ricerca di non si sa quali tesori; gallerie che compromettono la sicurezza dell’edificio»[103]. Nietzsche si serve, invece, di questa metafora relativamente al metodo da lui usato in Aurora, dove è

all’opera un sotterraneo»,

«essere che

«perfora, scava, scalza di sottoterra», paragonato al modo di procedere dei «pensatori»» e dei «lavoratori della scienza»[104]. Il ruolo dell’immagine della

talpa di Marx, presentato nel Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte come simbolo della rivoluzione, è troppo noto perché ci si debba soffermare, se non per notare che essa si lega in lui, con la stessa funzione, a quella

del folletto Puck del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare[105]. In Hegel lo scavare della talpa non solo non è inutile per la ragione, ma è essenziale. È, anzi, una sua dimensione ineliminabile: lo

sviluppo storico, i meccanismi economici, la scienza stessa seguono anche l’«istinto della ragione», la sua finalità inconsapevole. Ogni mutamento si realizza in genere attraverso l’uso istintuale, non riflesso,

della ragione e, soprattutto, grazie al lavoro sotterraneo e nascosto della contraddizione: «qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in quanto ha in se stesso una contraddizione»[106].

Finché non si conoscono le modalità di realizzazione di tali mutamenti, si rischia, tuttavia, non solo di subirli, ma di allungare le «convulsioni» della fase di transizione. Civetta e talpa sono immagini

complementari, una coppia di opposti speculari che si presuppongono a vicenda nell’antagonismo tra acutezza visiva e cecità, tra stare a guardare e fare istintivo. L’intervento della

filosofia, della coscienza, nel lavoro della talpa ha il compito (al pari dell’intervento dello Stato nella sfera economica della società civile) di mitigare le pericolose convulsioni e la durata del periodo nel quale, sulla via della

necessità incosciente, si devono conciliare i conflitti[107]. La civetta accelera quindi il lavoro della talpa o, per parafrasare il detto di Marx, abbrevia le doglie del parto del nuovo mondo: la ragione si realizza

necessariamente, ma la filosofia ne accelera il cammino[108]. La conoscenza aiuta perciò a prendere possesso del mondo: «Colui che non sa, non è libero perché di contro a lui sta un mondo estraneo, un al di là ed un al di fuori da

cui dipende, senza che egli abbia fatto per sé questo mondo estraneo e senza quindi che egli sia in esso presso di sé come in ciò che è suo. L’impulso al sapere, la spinta alla conoscenza, dai gradini più bassi fino al gradino supremo

della visione filosofica, nasce solo dallo sforzo di superare quel rapporto di non libertà e di appropriarsi del mondo nella rappresentazione e nel pensiero»[109]. Per il singolo e per l’epoca, la filosofia è la risposta più

organica al bisogno di assimilare il mondo in una fase storica di estrema complessità e mobilità, e di farlo, per così dire, dal ponte di comando dell’autocoscienza. Per conseguire questo scopo bisogna costringere a

rivelarsi – e assoggettare – quelle «potenze» che inconsapevolmente ci dominano e che estendono la loro influenza non solo nell’ambito della coscienza comune, ma anche di quelle scienze che, paghe dei risultati

ottenuti, tematizzano

non

sufficientemente i loro concetti fondamentali, la loro metafisica: «Ciò per cui la filosofia della natura si distingue dalla fisica è più precisamente la modalità della

metafisica; si chiama infatti metafisica nient’altro che l’insieme delle determinazioni di pensiero (Denkbestimmungen) generali, la rete adamantina – se si vuole – nella quale portiamo tutto il

materiale e mediante la quale soltanto lo rendiamo comprensibile. Ogni coscienza colta ha la sua metafisica, il pensare istintivo, la potenza assoluta in noi, della quale diventiamo padroni se la facciamo

oggetto della nostra conoscenza. La filosofia in generale, in quanto filosofia, ha altre categorie rispetto alla coscienza comune; tutta la cultura si riduce alla differenza di categoria. Tutte le rivoluzioni nelle scienze, non meno che

nella storia del mondo, derivano soltanto dal fatto che lo spirito per comprendere e afferrare meglio se stesso, per possedersi, ha mutato le sue categorie, cogliendosi in modo più verace, profondo, intimo e proprio»[110]. La

filosofia, nemica

in di

quanto ogni

abitudine[111], strappa continuamente l’invisibile rete adamantina che sorregge le nostre rappresentazioni e il nostro «pensare istintivo», li rivoluziona,

ma contemporaneamente ne tesse un’altra, più adatta e resistente, per reggere l’accresciuto carico dei nostri nuovi «interessi e oggetti saputi». Questa novella rete è però ancor più invisibile della prima

alla maggioranza degli uomini, immersa com’è nel «materiale a più strati» della coscienza comune e della cultura di un’epoca[112]. È comunque compito di tutti – e non solo dei filosofi –, di «ciascuno al suo posto», quello di

riconoscere e di favorire la gestazione del nuovo, che scava sotterraneamente nella coscienza e nell’epoca: «Al suo impulso – se la talpa continua a scavare nell’interno – noi dobbiamo prestare ascolto, e procacciargli

realtà. M’auguro che questa storia della filosofia vi possa servire d’incitamento a cogliere lo spirito dell’epoca, che è in noi naturalmente, e a trarlo dalla coscienza della sua esistenza naturale, vale a dire dal suo essere morto e

chiuso, ciascuno al suo posto, – alla luce del giorno»[113]. Non si tratta, dunque, di tendere semplicemente l’orecchio allo scavare faticoso del nuovo, ma di contribuire attivamente, praticamente, al suo

sorgere. La civetta deve completare l’opera della talpa, la coscienza porsi alla testa delle trasformazioni che avvengono realmente nel mondo, che essa, singolarmente, non sempre provoca (come accadde nel caso

dell’Illuminismo francese), ma alle quali contribuisce sempre inserendosi nel movimento generale della civiltà. Sotto questo profilo, anche per Hegel – come per Marx e Engels – le idee nuove che sorgono, e

alle quali si deve porgere ascolto e procacciare realtà, sorgono solo perché «è in marcia» un «mondo nuovo», ossia in termini non più hegeliani: «Si parla di idee che rivoluzionano un’intera società; con queste

parole si esprime semplicemente il fatto che entro la vecchia società si sono formati gli elementi della nuova, e che la dissoluzione delle vecchie idee procede di pari passo con la dissoluzione dei vecchi rapporti di

esistenza»[114]. Acquista

così

un

senso più pregnante la delimitazione hegeliana dello specifico campo d’azione della filosofia: «Il lavoro teorico, me ne convinco ogni giorno di più, produce nel mondo più di quello pratico;

non appena il regno della rappresentazione è rivoluzionato, la realtà effettuale non regge più»[115]. Hegel non respinge il rinvio alla prassi, alla trasformazione del mondo in quanto tale: ritiene anzi che il

«lavoro» migliore, la prassi più alta del filosofo – «al suo posto» nella divisione sociale dei ruoli – sia la teoria che rivoluziona il regno della rappresentazione e prepara così la rivoluzione nell’effettualità.

Modificata «metafisica»

la della

coscienza comune, viene sottratto il riconoscimento alla realtà precedentemente inquadrata, che perde così di valore e finisce per crollare, una volta investita e rivoluzionata

da una più alta forma di razionalità. Del resto, non è possibile per Hegel operare un taglio netto fra teoria e prassi, e solo nella loro conflittuale unità dialettica – al pari dell’endiadi ragioneeffettualità – si trova la

soluzione adeguata: «Ma non si deve immaginare che l’uomo sia pensante da un lato, volente dall’altro, e che abbia in una tasca il pensiero, nell’altra il volere; poiché ciò sarebbe una vuota immaginazione. La differenza tra

pensiero e volontà è soltanto quella fra comportamento teoretico e pratico; ma essi non sono due poteri, bensì la volontà è un particolare modo di essere del pensiero: il pensiero in quanto si traduce in esistenza, in

quanto impulso a darsi esistenza […] Il teoretico è essenzialmente contenuto nel pratico; ciò va contro la concezione che essi sono disgiunti; poiché non si può aver volontà senza intelligenza […] L’animale agisce

secondo stimolato

l’istinto, da una

interiorità e così è anche pratico; ma non ha volontà, perché non si rappresenta ciò che desidera. Ma tanto meno si può, senza volontà, comportarsi teoreticamente o

pensare, poiché noi siamo appunto attivi pensando»[116]. La comprensione del rapporto tra pensiero e azione si riverbera anche sulla spesso fraintesa frase della Prefazione alla Filosofia del diritto del 1821: Was

vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist vernünftig, normalmente tradotta «Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale». In essa non si distingue però tra la Realität, la realtà empirica, le cose come

sono viste e vissute superficialmente, e la Wirklichkeit, la realtà effettuale, l’attualità, ossia la consapevolezza di ciò che wirkt, che produce degli effetti, che non è un fotogramma isolato della realtà empirica del

momento, ma di ciò che agisce nel tempo e, pur trasformandosi (come, ad esempio, la famiglia, lo Stato, l’esercito), mantiene la sua funzione nella lunga durata. Non si tiene, inoltre, conto del fatto che la ragione (Vernunft)

contiene l’elemento

in

sé della

negatività, della contraddizione e della dissoluzione, che non è statica giustapposizione di situazioni o di concetti come l’intelletto (Verstand). Quello che Hegel

intende dire non è che bisogna piegarsi e rassegnarsi passivamente al mondo così com’è, bensì che occorre mettersi in sintonia con i processi e le potenze che agiscono in noi e nel mondo, producendo effetti,

distruggendo rinnovando,

e almeno

finché essi non perdono le loro energie. Del resto la Wirklichkeit hegeliana è l’erede legittima della categoria aristotelica di «atto» o energeia (contrapposta alla pura possibilità, dynamis),

l’effettivo manifestarsi dell’essenza di una cosa: «la Wirklichkeit costituisce il principio della filosofia di Aristotele, ma non la comune Wirklichkeit dell’essere presente [Vorhandenen, a portata di mano, a

disposizione], bensì l’idea come Wirklichkeit. La polemica di Aristotele contro Platone consiste quindi più esattamente in ciò, che l’idea platonica viene designata come mera e, per contro, viene fatto valere che

l’idea, che viene da entrambi ugualmente riconosciuta come l’unico Vero, deve essere considerata essenzialmente come energia, ossia come l’interno che è senz’altro nell’esterno, con ciò come l’unità

dell’interno e dell’esterno, vale a dire come la Wirklichkeit nel senso empatico di cui qui si è discusso»[117]. Oltre a riferirsi a una delle categorie kantiane della modalità, il concetto di Wirklichkeit conserva forse la traccia

dell’espressione machiavelliana «verità effettuale della cosa», che Hegel aveva incontrato negli ultimi anni del suo soggiorno a Jena leggendo (in francese, però) Il principe di Machiavelli[118]. Questa espressione,

opposta drieto

a

«l’andar

all’immaginazione di essa», rappresenta una lezione di realismo (e non di cinismo, come normalmente la si interpreta), designa l’affidarsi a una analisi spassionata e precisa

della realtà effettuale, senza abbandonarsi alle fantasticherie e alla logica del desiderio. Il progetto di procacciare realtà alla talpa dello spirito anche attraverso il sapere, che rivoluziona il regno della rappresentazione,

non è soltanto una forma di trionfalismo idealistico. C’è forse da chiedersi piuttosto se l’idealismo stesso non possa essere interpretato come la presa di coscienza estremizzata di una situazione storica reale,

in cui, da un lato, le astrazioni hanno ottenuto un dominio effettivo sul piano sociale, dall’altro, viene intuita la possibilità di programmare il mondo, non più attraverso la violenza e l’arbitrio del positivo, del privilegio,

ma attraverso la razionalità del sapere; in cui cioè possa venir limitato lo strapotere dei meccanismi ciechi nella vita sociale e individuale. Tale possibilità non è una conquista esclusiva del pensiero, ma del

pensiero passato attraverso il vaglio della realtà effettuale. È, infatti, in seguito allo sbloccarsi reale di una situazione storica – provocato dalla Rivoluzione francese – che Hegel ritiene ora gli uomini capaci di essere

mossi dalla «forza vivificante delle idee» e non più dalla paura o dall’aureola di sacralità delle leggi[119]. E si può anche verosimilmente supporre che l’attesa kantiana di una piena soddisfazione della ragione umana «prima

che finisca il secolo presente»[120] o l’insistenza sul tema della immaginazione trascendentale produttiva e creatrice, da Fichte ai romantici, non sia senza rapporto con questa situazione. D’altronde, che il sapere

non fosse innocuo e

più un solitario

passatempo dei dotti, ma potere sulla realtà, è una percezione che l’epoca stessa impone a pensatori e ambienti estremamente diversi fra loro, dai saintsimoniani e Comte,

fino ai filosofi religiosi della Restaurazione, per i quali la potenza del pensiero è demoniaca. Lo stesso Napoleone, nel combattere gli idéologues, è, col suo tono militaresco, conscio di questo potere, e nota, in un

passo sottolineato da Lenin: «Il cannone ha ucciso il feudalesimo, l’inchiostro ucciderà la società moderna»[121]. E anche Marx – malgrado la nota undicesima Tesi su Feuerbach, secondo cui «I filosofi hanno [finora] solo interpretato

diversamente il mondo; ma si tratta di cambiarlo» – non ha mai inteso negare la funzione propulsiva e pratica del pensiero teoretico, tanto che, scrivendo a Kugelmann sull’effetto che si attende dalle relazioni

messe in luce dal Capitale, afferma: «Con la visione della relazione rovina, prima del crollo pratico, ogni fede teorica nella necessità permanente dello stato di cose esistente. È dunque assoluto interesse della

classe perpetuare

dominante la

confusione sprovvista di pensieri»[122]. Hegel «società

sa che la moderna» è

disgregata e che i legami concreti sono assai tenui. Perciò essa è governabile da forze

mobili, abitudinarie,

non non

positive, ma che traggono la loro esistenza da una trasformazione continua del concreto: pensiero e danaro, entrambi dominio astratto accumulato,

che nasce dal mondo e rifluisce nuovamente in esso, aumentando la forza a ogni contatto. Tra queste due potenze, malgrado le affinità, non sempre corre buon sangue: ognuna tenta di asservire l’altra e di porsi al culmine di una

gerarchia. In tal modo, il sapere appare al filosofo, in linea di principio, una forma di ricchezza più alta, «sapere assoluto» che sta più in alto della ricchezza e dell’utile e convoglia, in quanto punto d’arrivo, tutta la

ricchezza dell’esperienza umana[123]. Vi è certamente in Hegel la rivendicazione di un nuovo ruolo e prestigio sociale per la filosofia, attualmente «tollerata […] comme les bordels»[124], e per gli

intellettuali in genere; vi è forse – non da un punto di vista autobiografico, ma come atteggiamento che rivela un ceto sociale – la volontà di uscire dall’umiliante posizione subalterna sperimentata come precettore nella

casa dei ricchi[125]. Jean Starobinski, analizzando un episodio della vita di Rousseau, ha presentato un esempio illuminante di questa latente tensione fra sapere e ricchezza, fra la figura sociale subordinata dell’intellettuale e la

gerarchia sociale vigente, basata sulla ricchezza e la nascita: a Torino, dove il giovane Rousseau serve come valletto alla tavola di una nobile e ricca famiglia, sorge una discussione sul significato del motto

latino di uno stemma gentilizio; nessuno dei commensali è in grado di spiegarlo; solo il laquais Rousseau sa fornire la spiegazione giusta, fra lo sguardo ammirato della bella figlia del padrone di casa e quello carico

d’odio dei giovin signori, colpiti dall’insolente sapere del servo[126]. È questo, peraltro, l’argomento centrale del Nipote di Rameau di Diderot, tanto apprezzato da Hegel e trattato a lungo nella Fenomenologia. La

ricchezza considera il sapere e lo spirito come intrattenimento e nella sua tracotanza «crede di aver conquistato con un pezzo di pane un altrui Io stesso e […] opina di aver con ciò ottenuto l’assoggettamento dell’essenza più intima

di lui», ma «in questa superbia la ricchezza non tiene conto del pieno rifiuto di tutte le catene»[127]. Non tiene conto cioè dell’ambiguo sentimento di superiorità che si sviluppa nei suoi confronti da parte di chi

sa, di chi è intimamente convinto (come il saggio stoico, come lo schiavo Epitteto) di poter essere comunque libero, «sul trono e in catene». Questo sentimento fa apparire casuale e arbitraria la gerarchia sociale e la indica come

risultato di meccanismi ciechi. Il dotto, nella sua lotta per il riconoscimento, si rapporta allora alla gerarchia sociale da un lato con il desiderio di rivalsa e di ricerca di un posto al sole, dall’altro con lo stato d’animo

dell’escluso e del buffone dei ricchi[128]. Il filosofo, visto dai più come un «fannullone», non si integra per Hegel mai a pieno nella società e nello Stato: come funzionario dello spirito esercita soprattutto un potere

umbratile. Per parafrasare Gramsci, si può dire che i filosofi entrano nella struttura sociale solo come «stecche del busto»[129], che la sorreggono nelle età di transizione e ne favoriscono il mutamento. Per il fatto

che il loro lavoro si svolge lontano dagli sguardi degli uomini, non lo si riconosce facilmente.

6. L’avanzare del gigante La metafora della talpa è da inserirsi

anche in una situazione storica precisa, quella della Restaurazione. La talpa dello spirito continua a scavare e non c’è legge o provvedimento di polizia che riesca a fermarla. L’intento della Santa Alleanza, di

imporre la pace perpetua ai rapporti fra Stati e fra gruppi sociali, contrasta con la natura dello spirito che è movimento. Anche la constatazione hegeliana dell’inevitabilità della guerra e della sua funzione positiva contro

il ristagno dei popoli ha – fra tante motivazioni diverse – anche questo sottinteso, che non si possono congelare i conflitti per decreto[130]. La storia è progresso, non ritorno a un mitico ordine naturale pervertito dalla

Rivoluzione francese, come pensavano Carl Ludwig Bonald

von e

Haller, Walter

Scott[131]. Lo spirito «procede incessantemente innanzi, perché soltanto lo spirito è progredire. Spesso sembra che si

dimentichi o si smarrisca; ma, opposto interiormente a se stesso continua a lavorare interiormente, come dice Amleto dello spirito di suo padre: “Hai lavorato bene, brava talpa!” –, finché, rinfrancato, scuote ora

la crosta terrestre che lo separava dal suo sole, dal suo concetto. Nei periodi in cui la crosta, edificio senz’anima e tarlato, crolla, e lo spirito assume l’aspetto di una nuova giovinezza, esso calza gli stivali delle sette

leghe»[132]. Quest’ultima asserzione, già incontrata, la ritroviamo in una lettera a Niethammer del 5 luglio 1816, in diretta polemica con la «reazione» e la sua pretesa di bloccare lo sviluppo dei tempi e di cancellare i risultati

della Rivoluzione e del regime napoleonico: «Gli avvenimenti del mondo e le aspettative che regnano ovunque, anche nei circoli a noi più vicini, m’inducono per lo più a considerazioni generali che scartano nel

pensiero il particolare e il dettaglio, pur nell’interesse che vi porta il sentimento. Io m’attengo a quest’idea che lo Spirito del mondo ha dato al tempo l’ordine di avanzare. Tale comando è stato eseguito; questa

essenza s’avanza come una compatta falange corazzata, irresistibilmente, ovunque, con un movimento impercettibile come quello del Sole. Le muovono contro, l’affiancano, da tutte le

parti, truppe

innumerevoli leggere, la

maggior parte delle quali non sa affatto di che si tratti, e non fa altro che ricevere colpi sulla testa, come da una mano invisibile. Tutte le millanterie temporeggiatrici o i

colpi di mano tanto celebrati non servono a niente contro di essa. Tutto ciò può forse arrivare ai legacci delle scarpe di questo gigante e servire soltanto a lucidargliele o a imbrattargliele, ma non può certo slacciargliele e

tantomeno togliergli i divini calzari muniti di elastiche suole alate […] oppure gli stivali delle sette leghe, se calza questi. La cosa più sicura (dal punto di vista interno ed esterno) è di non perder di vista l’avanzata del gigante;

in questo modo, si può certo, per l’edificazione di tutta la compagnia zelante e affaccendata, arrivare a opporgli resistenza, spargendo la pece che dovrebbe tener fermo il gigante, e per proprio diletto prestarsi a questa impresa che

vien presa sul serio»[133]. Ma nemmeno la «reazione di cui adesso tanto sentiamo parlare» riesce nel suo intento di far piazza pulita degli avversari e del reale così come si è formato negli anni della Rivoluzione e di Napoleone, poiché «la

vérité en la repoussant, on l’embrasse, è un profondo

detto

di

Jacobi»[134]. La Restaurazione non può quindi essere un ritorno puro e semplice all’indietro, ma deve venire a patti con ciò che combatte e

accettare anch’essa, suo malgrado, alcune delle nuove esigenze poste dai tempi. La filosofia deve comunque fare da battistrada al gigante (metafora della rivoluzione), anche se il singolo filosofo può

fingere di affaccendarsi a spargere pece sul suo cammino? Hegel teorizza forse, nei confronti della Restaurazione, una ‘strategia della talpa’, di opposizione sotterranea analoga alla «sublime ipocrisia» del Julien

Sorel di Stendhal? I Giovani hegeliani avevano già sostenuto con vigore questa tesi, ritornata d’attualità in seguito alla pubblicazione da parte dello Ilting delle lezioni berlinesi di filosofia del diritto, che mostrano

uno Hegel interessato

più al

mutamento della realtà che non al rispetto delle condizioni esistenti[135]. Senza entrare per ora nel merito della questione, da affrontare a un diverso livello, ricordo soltanto alcuni

dati per rendere più mosso e articolato il quadro di riferimento. Non c’è dubbio che, dopo i deliberati di Karlsbad (questo «blocco continentale delle idee», secondo Börne, o «il maggior movimento retrogrado

che ha preso piede in Europa dopo il 1789», secondo Gentz)[136], i quali istituivano la censura sulla stampa, durata in Prussia fino al 1832, e iniziavano la «persecuzione dei demagoghi», tesa a colpire studenti e

professori universitari, Hegel mantenne sempre un comportamento guardingo e preoccupato. Egli – che già a Heidelberg era stato simpatizzante dell’ala moderata delle Burschenschaften; che, nel trasferirsi a Berlino,

si era fatto seguire dal suo assistente Carové, uno dei maggiori rappresentanti di esse e, per giunta, autore di un pamphlet nel quale si giustificava l’uccisione di Kotzebue da parte di Sand; che venne sospettato dalla polizia

per aver preso parte a una bevuta con gli studenti, assieme a Schleiermacher e De Wette, durante la quale si fece l’apologia del gesto di Sand; che vide perseguitati o arrestati dei suoi studenti, quali von Henning e Asverus;

che venne infine denunciato il 5 dicembre 1819 dal giornalista Friedrich von Cölln come legato alle forze contrarie al governo[137] – cercò senza dubbio di tenere un atteggiamento molto prudente, sebbene non

siano mancati i suoi aiuti, anche finanziari, ai perseguitati. La prefazione alla Filosofia del diritto, datata 25 giugno 1820, è lo strumento con cui Hegel prende le distanze da ogni relazione compromettente e con

cui presenta la sua opera, probabilmente rielaborata in vista della censura. Scrive infatti a Creuzer il 30 ottobre 1819: «Io volevo appunto cominciare a far stampare, – quando giunsero i deliberati della dieta federale.

Giacché ora sappiamo a che punto siamo arrivati con la nostra libertà di censura, darò [i fogli] alle stampe solo più tardi»[138]. Per più di otto mesi, probabilmente, dall’ottobre 1819 al giugno 1820, Hegel ritocca forse un

manoscritto della Philosophie des Rechts, già pronto per la stampa prima di Karlsbad, cifrandolo e adattandolo alla situazione politica. Questo aspetto non sfuggì ai contemporanei che dettero dell’opera un giudizio politico,

unanimemente assai duro, con roventi accuse di servilismo a Hegel. Non è qui il caso di soffermarci sugli aspetti psicologici dell’uomo Hegel («Lei sa che, da un lato, io sono un uomo ansioso, dall’altro amo la tranquillità, e non mi

fa affatto piacere vedere ogni anno avvicinarsi un temporale, anche se posso essere convinto che, al massimo, di questa pioggia punitiva mi colpiranno un paio di gocce»)[139], né sulle boutades di Heine[140]. C’è però da osservare

che questa prudenza politica – non rara nella storia della filosofia, dove accanto ai Socrate o ai Bruno, ci sono anche i Galilei e i Cartesio – non deve impedire una valutazione teorica più vasta e testuale degli

scritti hegeliani. In altre parole, anche se Hegel si è adattato alle condizioni politiche di un periodo in cui persino von Stein e Gneisenau erano spiati dalla polizia, se ha condiviso lo sconforto momentaneo di molti

riformisti prussiani, come il suo patrono politico Altenstein[141], ciò non significa che a Berlino il suo pensiero abbia subìto una trasformazione irreversibile in senso conservatore. L’immagine di uno

Hegel durante

reazionario la

Restaurazione si fonda soprattutto su questa prefazione del giugno 1820 alla Filosofia del diritto. Ma, in primo luogo, bisogna trovare la chiave per decifrarla; in secondo luogo, bisogna

rendersi conto che essa è solo un episodio, certamente importante ma limitato, da inserirsi nel contesto, non solo delle Vorlesungen über Rechtsphilosophie dal 1818 al 1831, bensì di tutte le lezioni berlinesi. Da questo confronto

risulta evidente quanto sia inadeguata ogni accusa di quietismo politico alla filosofia di Hegel. Egli, inoltre, malgrado tutte le sue cautele, non ha mai nascosto a Berlino l’ammirazione per la Rivoluzione francese, di

cui era solito festeggiare l’anniversario ogni 14 luglio e di cui cercava le tracce a Parigi, in compagnia di Cousin e dei giovani storici Mignet e Thiers[142]. Non bisogna comunque trarre, per ora, alcuna conclusione affrettata,

che riporterebbe inevitabilmente il problema sul vecchio piano stantìo dell’alternativa fra uno Hegel assolutista e partigiano della Restaurazione e uno Hegel timoroso in pubblico, ma

rivoluzionario privato. E

in questo,

soprattutto, perché non si può intendere la Restaurazione come un blocco compatto e, poi, perché mancano ancora diversi presupposti teorici per comprendere la situazione. Sul

momento, l’interrogativo da porre è il seguente: In quali forme è possibile far procedere e come si può procacciare realtà effettuale a quella rivoluzione che non si può interrompere? Su un punto almeno

restano pochi dubbi, e cioè che Hegel non ha mai rinnegato questo suo credo giovanile: «Viviamo in un’epoca importante, in un fermento in cui lo spirito ha fatto un balzo, è uscito fuori dalla sua figura precedente e ne

acquista una nuova. L’intera massa delle rappresentazioni, dei concetti che abbiamo avuto fino ad ora, le catene del mondo, si sono dissolte e sprofondano come un’immagine di sogno. Si prepara una nuova

sortita dello spirito. La filosofia deve soprattutto salutare il suo apparire e riconoscerla, mentre altri, contrastandola impotentemente, restano attaccati al passato e i più costituiscono

inconsciamente massa del

la suo

apparire»[143]. Non rivela dunque fondamenta solide il luogo comune secondo cui a uno Hegel pieno di ardori rivoluzionari seguirebbe un uomo stanco e rassegnato.

Egli sa che in epoche di rapidi mutamenti il passato lascia solo tracce sbiadite, mentre il futuro si manifesta come inconsapevole aspirazione al nuovo, «sentimento d’ignoto» che agita le coscienze. Analogamente allo

Hölderlin del frammento Il divenire nel trapassare (Das Werden im Vergehen), Hegel sa che, se si restasse impigliati nella miriade di vincoli che – tramite la memoria – ci legano tenacemente a ciò che è stato, il «nuovo», «il

giovane, il possibile» non subentrerebbero mai a esso[144]. Sa anche, tuttavia, che, sebbene molti non se ne siano ancora accorti, i vincoli con il passato si sono allentati fino a spezzarsi. Per avanzare verso il nuovo, il

giovane, il possibile, occorre quindi diventare consapevoli della natura dei condizionamenti aboliti, delle «catene del mondo» che si dissolvono e guardare in faccia l’«assoluta devastazione», ripercorrere le tappe del

lungo attraversato,

cammino

soffermandosi in ciascuna di esse. Questo è necessario per diventare contemporanei di se stessi, per poter contemplare la figura del nuovo mondo che

sorge non sub specie aeternitatis, ma nella prospettiva del «sapere assoluto», ab-solutus, sciolto da ogni condizionamento, liberatosi dal passato che ancora imprigiona la maggior parte degli uomini nelle

rappresentazioni, nei concetti e negli atteggiamenti etici (intimamente indeboliti e oscurati, ma ancora in grado di esercitare una residua spinta inerziale). Per fortuna – come nel Condorcet dell’Abbozzo

di un quadro storico dei progressi dello spirito umano – la strada delle «epoche dello spirito» già percorse è «spianata» e resa semplice, tanto che le acquisizioni del passato, costate enorme fatica ai più grandi ingegni

dell’umanità, sono oggi accessibili anche ai più giovani[145]. Nella «scienza che sorge», rappresentata dalla fenomenologia dello spirito, le acquisizioni precedenti si colgono quindi in forma semplificata e astratta

come elementi che servono a ricostruire la genesi dell’attualità e a rendere possibile la transizione dal vecchio al nuovo mondo: «L’individuo percorre questo suo passato, la cui sostanza è quello spirito che sta più in su,

proprio come colui che è sul punto di avventurarsi in una scienza superiore percorre le cognizioni preparatorie, già in lui da lungo tempo implicite, per rendersi presente il loro contenuto; e le rievoca

senza che quivi indugi il suo interesse. Il singolo deve ripercorrere i gradi di formazione dello spirito universale, anche secondo il contenuto, ma come figure dello spirito già deposte, come gradi di una via già percorsa e

spianata. Similmente noi, osservando come nel campo conoscitivo ciò che in precedenti età teneva all’erta lo spirito degli adulti è ora abbassato a cognizioni, esercitazioni e fin giochi da ragazzi, riconosceremo nel

progresso pedagogico, quasi in proiezione, la storia della civiltà»[146].

7. Metafore notturne e oscuramento del mondo Il già ricordato luogo comune di un giovane

Hegel pieno di ardori rivoluzionari e di uno Hegel anziano stanco e rassegnato è rafforzato da un gruppo di metafore e di analogie, nelle quali il pensiero appare come sinonimo di vecchiaia e l’interiorità dell’uomo,

zona di condensazione del pensiero, come notte o pozzo notturno. In effetti, l’età della vecchiaia è l’età del pensiero[147], il cui gelido soffio fa sfiorire la vita: «Quanto più il pensiero è contenuto nella rappresentazione,

tanto più scompare dalle cose la naturalità, singolarità e immediatezza: mediante il pensiero irrompente impoverisce la ricchezza della natura infinitamente multiforme, le sue primavere si

estinguono, i suoi giochi di colore impallidiscono. Quella vita che scroscia nella natura, ammutolisce nella calma del pensiero; la sua calda pienezza che si configura in mille attraenti meraviglie avvizzisce nelle forme

aride e nelle informi universalità, che assomigliano ad una fosca nebbia nordica»[148]. E in un brano più noto, che pone l’accento sull’invecchiamento della realtà, ma che sembra coinvolgere

anche l’invecchiamento del pensiero, ossia la sua stanchezza, si dice: «prima l’ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in

forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere»[149]. Il

pensiero tuttavia non è debolezza e distacco senile, come nella vecchiaia naturale, in cui la persona anziana «vive senza interesse determinato, poiché ha abbandonato la speranza di poter realizzare gli ideali

nutriti in precedenza, e il futuro in generale non sembra promettergli niente di nuovo, onde il senno del vecchio è rivolto solo a questo universale e al passato, al quale egli è debitore della conoscenza di questo universale»[150].

Infatti, «la vecchiaia dello spirito è la sua perfetta maturità, in cui esso ritorna all’unità ma come spirito»[151]. Nella rappresentazione dello spirito come un vecchio, Hegel si ricollega a una diffusa immagine popolare, che ha una

vasta risonanza anche nel folklore e nella fiaba[152]. L’idea della Verjüngung, del ringiovanimento dello spirito dell’umanità dopo ogni periodo di crisi, era d’altronde familiare ai contemporanei di Hegel,

e aveva la sua origine più immediata nel filosofo ginevrino Charles Bonnet, dal quale passò a Herder e a Hölderlin, tanto che questi progettò una rivista chiamata «Iduna», dal nome della dea germanica

dell’eterna giovinezza[153]. In Hegel, lo spirito è, sì, un vecchio, ma come il «nuovo serpente della saggezza» che si dispoglia di volta in volta della sua «flaccida pelle»[154]. E, diversamente dal mito

orientale della fenice, che riguarda il corpo, nell’idea «occidentale», lo spirito non appare solo ringiovanito, ma «innalzato, trasfigurato». Con le crociate e la visione del vuoto del Santo Sepolcro, il mondo

europeo ha per Hegel rinunciato alla tomba e al potere assoluto della morte, ma non a quello della resurrezione, del rinascere spirituale a nuova vita. Il significato del discorso hegeliano è soltanto questo: la

filosofia non può dire come deve essere astrattamente il mondo, perché esso è già; nel dipingerlo Grau in Grau, grigio su grigio, ossia vecchio su vecchio, la filosofia non ringiovanisce quell’«aspetto della vita

che è invecchiato», anzi lo invecchia ancora di più, vi stende un’altra patina di grigio, vi fa spirare il soffio gelido del pensiero; nel compiere questa operazione, nel mostrare cioè quel che vi è di invecchiato nella

realtà, il pensiero ne accelera la fine e prepara l’avvento del nuovo, già presente come «ghianda» e come Wirklichkeit, realtà che agisce, è attuale in quanto energeia, non in quanto dynamis, ha quindi effetto (wirkt),

ossia non è invecchiata. Vi è tuttavia un limite nell’efficacia del pensiero filosofico, che contribuisce a proiettare su di esso le ombre del crepuscolo, ed è la consapevolezza di una sua relativa impotenza o non ancora dispiegata

potenza: la «pianticella della filosofia» può per ora attecchire soltanto «in pochi individui, finché i governi e il resto del pubblico si sollevino dalle loro necessità e costrizioni esterne, volgendo gli occhi a maggiori

altezze»[155]. A causa di questo isolamento, la presa del pensiero cosciente sulla realtà non è rapida, perché la maggior parte degli uomini ne è esclusa. La figura del filosofo, che è segnata e prodotta da questo limite, acquista

così il suo notturno e

aspetto semi-

clandestino agli occhi del popolo, che, appunto, lo considera un «fannullone». Hegel ha sentito nel suo tempo non solo la forte presenza del pensiero oggettivo incorporato

nella realtà, ma anche la carenza e le difficoltà del pensiero soggettivo nel metterla a fuoco, sicché, nelle sue opere, la bilancia della razionalità sembra spesso pendere più dalla parte del mondo che non dalla parte

dell’individuo. La filosofia è sempre stata per sua natura in contraddizione con la coscienza comune (poiché, nel porsi al di sopra di un’epoca secondo la forma, precorre quanti sono semplicemente

permeati dai contenuti e dalle forme parziali dell’epoca), ma negli ultimi tempi il divario è ulteriormente aumentato: «Fino alla filosofia kantiana lo svolgersi della filosofia era stato seguito dal pubblico […] La

coltivavano quindi anche gli uomini d’affari e i politici […] Già con Kant ha avuto inizio quel distacco dalla coscienza comune […] quindi da Fichte in poi la speculazione divenne occupazione di pochi»[156]. Cosa è

accaduto? Cosa si cela dietro questo iato? Esso pare sottintendere – oltre all’affanno di tenere il passo col cumulo crescente delle conoscenze – anche l’esistenza di una frattura storica e di un oscuramento del

mondo. Simbolo di questa crisi, che si manifesta da un lato come disgregazione e «sbocconcellarsi» del reale, dall’altro come perdita di trasparenza di esso, è la filosofia kantiana, nella quale l’effettualità è scissa in

una molteplicità di fenomeni e in uno sconosciuto fondamento di essi, la cosa in sé. Le aporie e le contraddizioni interne della filosofia di Kant non poggiano dunque per Hegel su una insufficienza logica, ma

sono lo specchio formale di una situazione storica in cui il mondo è realmente scisso, in cui il suo vecchio fondamento è tramontato ed ha lasciato le manifestazioni della realtà senza un nuovo

legame unitario, o meglio, questo legame in parte si riduce a soggettiva «appercezione trascendentale», in parte è intravisto – ma rifiutato per la sua immaturità – come illusione trascendentale.

Anche durante la crisi del mondo antico si ebbe l’opacizzarsi del mondo e «fu strappata agli uomini la padronanza delle loro idee sugli oggetti», costringendoli ad affidarsi a un «Invisibile», al Dio

cristiano o ai ‘teurghi’[157]. In queste epoche dell’apparenza si è soliti predicare la rinuncia al mondo, dichiararne l’inconoscibilità, o perdersi nei meandri dei fenomeni. Oppure appigliarsi

all’immediatezza come a un talismano, proclamare – alla stregua di Jacobi e di alcune correnti del pensiero romantico[158] – la supremazia del sapere immediato, anche se tale posizione esprime più l’esigenza

di un nuovo fondamento del mondo che non la conoscenza di esso. È soprattutto in queste fasi storiche che la coscienza comune è disorientata e che aumenta lo scarto fra il pensiero filosofico e quello della

maggioranza degli uomini. È però anche vero, per contro, che proprio in tali momenti i sistemi filosofici, quando vengono compresi, risanano la frattura e fanno fortuna: «Quando di un sistema si può dire che ha fatto

fortuna, è che si è rivolto ad esso, con orientamento istintivo, un bisogno più universale della filosofia, bisogno che non riesce per se stesso a tradursi in filosofia (poiché altrimenti si sarebbe appagato con la

creazione di un sistema). E l’apparenza di un accoglimento passivo dipende dal fatto che nell’intimo è presente ciò che il sistema esprime, ciò che ciascuno fa ormai valere nella sua sfera di scienza o di vita»[159]. La

Fenomenologia dello spirito è stata per Hegel lo strumento di saldatura fra i fenomeni e il loro fondamento nel «mondo nuovo» e fra filosofia e coscienza comune. Tale congiungimento non è mai completo e Hegel

riprenderà lo stesso compito diverse volte e in diverse forme[160].

8. La rappresentazione del mondo nuovo L’io dell’uomo, il «punto»[161] nel quale si condensa il mondo

come in un «fuoco» o in un «crogiuolo»[162], il luogo in cui esso viene registrato e trascritto nella forma del pensiero, è in sé una notte o un pozzo notturno: «L’uomo è questa notte, questo vuoto nulla, che

contiene tutto nella sua semplicità, una ricchezza di innumerevoli rappresentazioni, di immagini, nessuna delle quali propriamente lo colpisce o che non gli sono presenti. Questa è la notte, l’intimo della

natura, che qui esiste – puro Sé. Nelle rappresentazioni fantasmagoriche tutto intorno è notte. Da una parte schizza fuori improvvisamente una testa insanguinata, dall’altra una bianca figura e altrettanto

improvvisamente scompaiono. Si

vede

questa notte quando si guarda nella pupilla di un uomo – in una notte che diventa terrificante»[163]. E ancora: «Concepire questa intelligenza come questo pozzo

notturno[164], in cui è conservato un mondo di molte immagini e rappresentazioni, senza che esse sieno nella coscienza, è, da una parte, l’esigenza generica di concepire il concetto in quanto concreto, come ad

esempio il pensare il germe in modo che contenga affermativamente, in una possibilità virtuale, tutte le determinazioni, le quali nello svolgimento dell’albero vengono poi ad esistenza […]»[165]. In

questa «notte della conservazione», in cui l’immagine è celata come inconscia nel suo «scrigno», l’uomo è posseduto da terrificanti potenze inconsce che possono essere soggiogate solo dal risveglio offerto dal

linguaggio[166] e, al livello più alto, dalla filosofia che, dal punto di vista del singolo, è l’uscita dalla notte, coscienza vigile per eccellenza: «La filosofia non è sonnambulismo, ma piuttosto la più vigile coscienza; e

l’opera di quegli eroi [ossia dei filosofi] consiste appunto nell’aver tratto il razionale in sé dalle profondità dello spirito, dov’esso si trova dapprima soltanto come sostanza, come essenza interiore, e nell’averlo

recato alla luce, nell’averlo sollevato alla coscienza, al sapere; consiste, insomma in un progressivo risveglio»[167]. E a Jena Hegel ammoniva: «Non essere un dormiglione, ma sii sempre sveglio! Perché se sei un

dormiglione, sei cieco e muto. Ma se sei sveglio, vedi ogni cosa e dici a ogni cosa ciò che essa è. Ma questo è davvero la ragione ed il dominio del mondo»[168]. Come essere pensante e sveglio l’uomo è portatore di luce,

Phosphor[169], misura in

e nella cui è

coscienza vigile domina la sua epoca. Ma ciò non esclude, secondo la testimonianza di Heine, che per Hegel un’epoca storica non si rifletta anche nel sogno: «Il mio grande maestro, la

buon’anima di Hegel, mi disse una volta: “Se fossero stati trascritti i sogni che gli uomini hanno sognato durante un determinato periodo, dalla lettura di tutti questi sogni ne scaturirebbe un’immagine

perfettamente esatta dello spirito di quel periodo”»[170]. Ma la filosofia, come risveglio, non è la semplice immagine sfocata di un’epoca, quale si manifesta nel sogno o nella coscienza comune, in cui manca la

distinzione l’essenziale

fra e

l’inessenziale e tutto si riduce a fenomeno. Essa è – per così dire – la radiografia di un’epoca, in quanto legge l’epoca in negativo, ossia, non solo (con una allegoria della transitorietà e

della morte) ne individua lo scheletro e la corruzione, ma guarda anche nei suoi vuoti più che nei suoi pieni, in ciò che non compare e che pur brilla per la sua assenza. Nell’interpretare la Repubblica di Platone,

Hegel ha fornito un paradigma di questo genere di lettura. Platone infatti, nell’accentuare l’organizzazione gerarchica della sua Polis e nel cancellare (con l’abolizione della proprietà e della

famiglia) ogni interesse privato, non ha fatto che combattere il principio disgregatore della soggettività, che si era già mostrato ai suoi tempi un pericolo per l’eticità immediata, l’obbedienza irriflessa alle leggi della Città:

«egli aveva riconosciuto benissimo che la corruzione della vita greca derivava dal fatto che gli individui come individui cominciavano a far valere i propri scopi, le loro inclinazioni, i loro interessi, subordinando

ad essi lo spirito comune»[171]. Ma di tutto questo non ha mai parlato direttamente, sebbene la sua filosofia politica sia una formazione reattiva a tale situazione. Egli ha, dunque, inteso «il vero spirito del suo mondo, e

lo ha esposto col preciso intento di rendere impossibile nella sua repubblica il principio nuovo»[172]. Ma il «mondo nuovo», distruttore del vecchio, può appunto vedersi anche in controluce, e ogni grande filosofia,

anche se lo combatte, lo contiene e lo rivela. Le stesse utopie non sono per Hegel prive di significato storico, pure elucubrazioni avulse dalla realtà. Anch’esse sono sintomo di un travaglio reale, che riceve però la sua

soluzione in forma consolatoria oltre la croce del presente, nella ricerca di una perfezione tanto maggiore quanto più è avanzata la corruzione del presente. Il carattere ideale di queste utopie non consiste nel fatto

che esse sono troppo eccellenti per gli uomini, ma nel fatto che lo sono troppo poco, in quanto riproducono per mera inversione una cattiva realtà giudicata immodificabile. E sebbene esistano piccole comunità che

riescono a isolarsi dal loro tempo e a praticare un ideale di perfezione, ciò è possibile solo perché esse godono di quel presente che dicono di rifiutare e ne sfruttano gli interstizi come parassiti. Questo tipo di ideale «lo

troviamo, è vero, realizzato nei monaci e nei Quaccheri o in altre pie persone della stessa risma, ma un mucchio di queste melanconiche creature non può formare un popolo, allo stesso modo che i pidocchi o le piante

parassite non possono esistere per se, ma solo su un organico»[173].

corpo

Hegel in generale non è contrario al mutamento come tale e alla sua prefigurazione. L’uomo anzi – rispetto al cambiamento ciclico

della natura, che non innova – si distingue per la sua «effettiva capacità di mutamento» (wirkliche Veränderungsfähigkeit), per il suo «impulso di perfettibilità», analogo alla rousseauiana «faculté de se

perfectionner»[174]. Ma questa tendenza, oltre che dagli Stati, è contrastata dalle religioni, in particolare quella cattolica, timorose della loro stabilità. La religione, in quanto rappresentazione (e le

rappresentazioni sono altro

non che

«metafore dei pensieri e concetti»)[175] e non pensiero del mondo, contiene sempre in sé una scissione e di conseguenza un lato utopico che si oppone alla realtà terrena.

Anch’essa come la filosofia, ma in più netta opposizione e inconciliabilità col mondo del presente, di fronte al tramonto del sole reale cerca la luce di un sole diverso, il cui splendore viene evocato nei luoghi di culto,

attraverso le vetrate delle chiese gotiche: «Queste vetrate in parte raffigurano storie sacre, in parte sono solo colorate, per diffondere una luce crepuscolare e per far rilucere lo splendore dei ceri. A dar luce è qui infatti un

giorno diverso da quello della natura esterna»[176]. La croce di Cristo non si sovrappone alla croce del presente, per quanto il concetto hegeliano di religione abbia perso o decisamente attenuato l’aspetto della

trascendenza, insistendo

sulla

necessità di un adeguamento e di una conciliazione col mondo, conciliazione che è stata raggiunta, ma solo sul piano empirico, dal protestantesimo[177].

Con qualche forzatura, Lukács osserva come non vi sia in Hegel alcuna polemica contro i contenuti della religione, che hanno per lui effettualità storica e sono perciò tappe sulla via dello spirito a se stesso, e definisce

napoleonico l’atteggiamento hegeliano nei riguardi della religione, come «riconoscimento della sua esistenza storica e della sua forza, con larga indifferenza riguardo alla sua più intima essenza»[178].

Tale posizione è in parte confermata anche da Cousin: «In religione i nostri sentimenti non erano molto diversi. Eravamo entrambi convinti che la religione è assolutamente indispensabile, e che non bisogna

abbandonarsi alla funesta chimera di sostituirla con la filosofia. Fin d’allora io ero deciso partigiano di un concordato sincero fra le due potenze, l’una che rappresenta le aspirazioni legittime di un piccolo numero di

spiriti d’élite, l’altra i bisogni permanenti dell’umanità. Monsieur Hegel era completamente del mio parere»[179]. Questa impostazione concordataria dei rapporti fra filosofia e religione non può

stupire in un uomo che frequentava il ministro riformista prussiano Altenstein, di cui era protetto e, nello stesso tempo, maestro, e nella cui casa veniva «audacemente discusso il problema se il cristianesimo dovesse

durare ancora venti o cinquant’anni»[180]. Non è tuttavia esatto che Hegel fosse indifferente ai contenuti della religione. Egli pensava piuttosto che essi avrebbero dovuto cambiare gradualmente segno, che la religione

cristiana, cioè, dopo aver annunciato la conciliazione fra dio e uomo come discesa del divino nell’umano, incarnazione, Menschenwerdung, dovesse ora accompagnare l’ascesa dell’uomo al divino,

divino già contenuto implicitamente e rivelato nella realtà terrena della storia del mondo. In questo senso l’uomo è già «Dio immediato, presente» (unmittelbarer, präsenter Gott)[181]. Ma tale conciliazione, finora, a

causa della «durezza della realtà» non procede oltre un armistizio festivo, una presenza discontinua e solenne della conciliazione che lascia scoperti gli altri giorni della settimana. In questa «domenica della

vita», che è per gli uomini la religione, «scompaiono le preoccupazioni terrene e finite e lo spirito si acquieta in Dio, nel sentimento presente della devozione o nella speranza di lui. Gli scopi finiti, il disgusto degli

interessi limitati, il dolore di questa vita, le preoccupazioni e gli affanni di questo «banco di sabbia» della temporalità[182], il rincrescimento, le fatiche e le incomprensioni: tutto si dissolve in questo etere,

come l’immagine di un sogno del passato. In questa regione dello spirito scorrono i flutti della dimenticanza, ai quali beve Psyche – dove essa affonda tutti i dolori e le preoccupazioni, dove essa si disfa del suo

essere effimero; dove dileguano tutte le durezze e oscurità, dove l’altra sua essenza temporale si dissolve di fronte a lei in una parvenza che non le fa più paura, e dalla quale più non è dipendente e dove tutte le forme

terrene contorni

sono solo all’immagine

luminosa della riconciliazione, della devozione, dell’amore; dove l’intera temporalità si trasfigura nell’eterna armonia, nello splendore dell’eterno. Come sulla

più alta cima di una montagna, lontani da ogni più limitata visione terrestre, ci vediamo proiettati nel cielo azzurro e contempliamo con occhio calmo e distaccato tutte le limitazioni dei paesaggi e del mondo; così

l’uomo nella religione, liberato dalla durezza della realtà, la considera con l’occhio dello spirito, una parvenza fluente; una parvenza che in questa pura regione si rispecchia nel raggio dell’appagamento e

dell’amore, fa balenare il gioco alterno per cui si differenzia nelle sue luci e nelle sue ombre, ma mitigato nell’eterna quiete»[183]. Con la promessa diretta di un appagamento pieno, in forma comprensibile a

tutti, la religione soddisfa la maggioranza degli uomini più della filosofia, li risarcisce più caldamente per le lacerazioni della vita, ricostruendo una solidarietà comunitaria e un legame ideale al di sopra di una società

civile dominata dall’interesse e dall’egoismo. In termini ancora più generali, nella religione ogni popolo si autodefinisce e prende possesso della sua essenza[184]. Da questo punto di vista, la religione non ha per

Hegel niente di illusorio, ma è, semmai, inadeguata al livello più alto raggiunto dallo spirito moderno, coglibile, nella filosofia e nell’agire, soltanto da ristrette élite. La religione governa le rappresentazioni degli

uomini ed è una potenza reale con cui si devono mantenere i contatti, se non si vuol perdere l’aggancio con la maggioranza degli uomini. Hegel non è interessato all’aspetto istituzionale della religione, al suo

costituirsi in chiese, se non in rapporto alla loro capacità di interpretare i bisogni degli uomini senza cadere nella «positività»[185]. Sotto questa luce, non c’è motivo di mettere in dubbio le reiterate affermazioni di

luteranesimo da parte di Hegel: egli lo ritiene in sostanza, per i popoli «nordici», il legame interiore più libero e adatto allo spirito delle masse e così lo onora[186]. Durante la Restaurazione, in un

periodo di rilancio della religione in chiave antiilluministica e antirivoluzionaria, gli sforzi di Hegel sono una difesa del pensiero e della filosofia contro la pretesa della religione di riconquistare il monopolio delle

coscienze. Quando teorici, come Haller, attaccano la «scienza falsa e dannosa» che ha generato «l’idra della rivoluzione»[187], quando sostengono che non si può lodare l’opera della rivoluzione e dell’empietà, il cui

«dente della iena divora tutto, nella reggia come nella capanna, togliendo a ciascuno il suo: al re la corona, alla vedova il sussidio, al ricco la fortuna e al povero il suo stesso corpo; all’uomo libero la libertà, al lavoratore

fedele il salario, ad ogni popolo il decoro, ad ogni condizione il suo onore; ai ministri stessi dell’Altissimo l’esistenza, l’autorità ed il vitto»[188] – quando tutto questo succede, Hegel risponde con l’elogio degli enfants

perdus de notre cause e della potenza del pensiero. E in un’epoca in cui la potenza del pensiero andava, per ammissione di Hegel, crescendo e l’aumento della popolazione universitaria faceva prevedere

l’allargamento delle élite permeabili alla filosofia, il rapporto con la religione non doveva essere pacifico. E, infatti, non lo fu: negli ultimi anni di vita, Hegel non fece altro che difendere la razionalità della filosofia contro gli

attacchi dei teologi e dei colleghi[189]. Ma ciò soltanto in vista di un regime concordatario, nella speranza, da una parte, di evitare la rottura, dall’altra di non rinunciare alla superiorità della forma spirituale del pensiero.

La sua polemica non è rivolta alla religione come tale, ma alla rinuncia al pensiero che in suo nome si vuole imporre, al trasformare la religio, come Schleiermacher, in sentimento di dipendenza, col che,

commenta gelidamente Hegel, il cane sarebbe il miglior cristiano[190]. Tra filosofia e religione e tra filosofia ed epoca c’è un parallelismo di struttura: la filosofia, pur condividendo il loro contenuto, sta al di

sopra di entrambe secondo la forma. Essa è quindi anche la religione del proprio tempo appresa nel pensiero ed è per Hegel il protestantesimo qualora si accordi con lo Stato, perché non basta rivoluzionare le

istituzioni se non si cambia la coscienza dei cittadini. Ma alla coscienza comune e alla religione stessa – che la organizza – essa appare come violenta o subdola distruzione della certezza, della fede. La filosofia è invece

conciliazione di un bisogno più vasto, che la religione, pur presentendo, non è in grado di soddisfare, perché si muove nel dominio più vischioso della tradizione. Ma in un mondo in crisi o in rapida trasformazione

ogni certezza è necessariamente scossa e si hanno allora due comportamenti: la riaffermazione delle vecchie certezze in forma «positiva» oppure la distruzione di esse e la ricerca di nuove certezze. La prima è

generalmente la strada della religione, che deve rimorchiare più lentamente la massa di un popolo, la seconda è quella della filosofia, resa più agile dalla sua stessa solitudine. In questo movimento più veloce di

disgregazione delle vecchie certezze e di prefigurazione delle nuove, la filosofia deve passare attraverso il mondo notturno del non ancora realizzato, deve aguzzare lo sguardo, per individuare le cause del malessere e

proporre la certezza di una nuova realtà che non è presente se non nella «culla» del pensiero. In questo modo essa «fornisce un occhio acuto per vedere questo elemento di insoddisfazione» dell’epoca; «precede e

trasforma la realtà effettuale», offrendo anch’essa, in concorrenza diretta con la religione, «un mezzo di appagamento (Befriedigungsmittel), la consolazione in questa realtà effettuale, in tale infelicità del

mondo»[191]. Questo Befriedigungsmittel non è però un tranquillante, una semplice rinuncia al mondo; esso è bensì un lato dell’inquietudine e un attenersi alla Wirklichkeit, che perdura nella dissoluzione.

9. La filosofia e le istituzioni Ma non è solo la religione a poggiare immediatamente sull’abitudine e sulla certezza, bensì anche lo Stato. Dimodoché – essendovi «coincidenza fra rivoluzioni politiche

e sorgere filosofia»[192]

della –, la

filosofia tende a entrare in collisione con lo Stato, a meno che lo Stato non si attenga saldamente alla ragione, sia guidato non da filosofi, ma da leggi razionali, ossia

adeguate ai tempi. La maggioranza degli uomini vive l’esistenza dello Stato come abitudine e certezza di far parte della seconda natura della sfera politica: «Gli uomini hanno la fiducia che lo Stato deve esistere e che

in esso soltanto può realizzarsi l’interesse particolare; ma l’abitudine rende invisibile ciò su cui poggia tutta la nostra esistenza. Se alcuno, di nottetempo, procede sicuro nella strada, non gli viene in mente che

possa essere altrimenti; poiché questa abitudine della sicurezza è diventata una seconda natura; e non si riflette certamente come ciò sia soltanto l’effetto di particolari istituzioni. La rappresentazione crede spesso che lo Stato stia

unito mediante la forza; ma ciò che lo mantiene è unicamente il sentimento fondamentale dell’ordine, che tutti hanno»[193]. Lo Stato per Hegel non ha esistenza al di fuori del consenso implicito della maggior

parte degli uomini. Se manca il consenso e la mediazione dell’individualità, esso è «campato in aria»[194]. Lo Stato esiste finché viene riconosciuto e viene riconosciuto finché riesce a mantenere una

sufficiente consenso.

area Fino

di ad

allora, l’idea dello Stato, ossia il concetto che ha esistenza, continua ad aver potere nella misura in cui gli vien concesso. Quando lo Stato non ha più radici nella certezza e nella coscienza dei

cittadini, quando esso non è più capace di modificarsi, allora nascono le rivoluzioni. Giacché spesso tale carattere ideale dello Stato hegeliano viene frainteso e lo si identifica con forme di «statolatria» o di banale

«prussianesimo», è opportuno riportare il seguente brano, tratto dalla Scienza della logica, che illustra chiaramente la forza del consenso, l’egemonia esercitata dallo Stato in genere, e dagli Stati singoli, anche quelli pessimi, finché

esistono: «Che le cose attuali non siano congrue all’idea, è il lato della loro finità e non verità, dal quale lato sono oggetti, e ciascuno di questi secondo la sua diversa sfera […] La possibilità che l’idea non abbia

perfettamente elaborata la sua realtà, che l’abbia assoggettata incompletamente al concetto, si basa su ciò ch’essa stessa ha un contenuto limitato e che, pur essendo essenzialmente l’unità del concetto e della

realtà, è altrettanto

anche

essenzialmente la lor differenza; poiché soltanto l’oggetto è l’unità immediata, ossia soltanto in sé. Ma dove un oggetto, per es. lo Stato, non fosse affatto conforme alla sua idea,

ossia anzi non fosse affatto l’idea dello Stato, quando la realtà di questo, che son gli individui di sé consci, non corrispondesse per nulla al concetto, allora la sua anima e il suo corpo si sarebbero separati; quella

fuggirebbe nelle remote regioni del pensiero, questo si sarebbe spezzato nelle individualità singole. Poiché però il concetto dello Stato costituisce così essenzialmente la natura degli individui, esso è in loro come un

istinto di tal potenza che quelli, quando non fosse che nella forma di finalità esterna, son costretti a tradurlo in realtà oppure a contentarsene così, o se no dovrebbero perire. Il pessimo fra gli Stati, quello la cui realtà

corrisponde meno al concetto, in quanto esiste ancora, è ancora idea; gl’individui obbediscono ancora a un concetto che esercita il potere»[195]. Nei periodi di rivoluzione politica l’effetto della filosofia è

però proprio quello di far fuggire l’anima dello Stato, che è poi l’anima dei cittadini, «nelle remote regioni del pensiero» e di disgregare il suo corpo nelle individualità singole. Di qui l’inimicizia fra Stato e

filosofia. Nell’età moderna e nei paesi protestanti è tuttavia possibile una collaborazione ‘concordataria’ fra le due potenze. Da parte sua, infatti, lo Stato ha assorbito una dose di razionalità maggiore

che nel passato, ha dovuto cioè sviluppare il pensiero come antidoto alla disgregazione della società civile, venendo così incontro alla filosofia. Quest’ultima, a sua volta, ha trovato all’interno dello Stato uno spazio istituzionale

entro cui esplicarsi: le università e l’insegnamento pubblico in genere. Lo Stato, quindi, manifesta la tendenza a riconoscere e a tollerare il pensiero, invece di bandirlo e perseguitarlo, e la filosofia a

riconoscere il travaglio dello Stato e ad aiutarlo nelle doglie dei suoi frequenti mutamenti. L’auspicio hegeliano è che «nello Stato accanto al governo del mondo effettuale, fiorisca anche il libero regno del pensiero»[196] – si noti

l’aggettivo libero – e che lo Stato si renda conto che la filosofia «costituisce l’autentica base di ogni cultura teoretica e pratica»[197]. Il funzionario dello spirito è disposto a educare i funzionari dello Stato, affinché essi

ne rafforzino le strutture razionali. Nel 1820/21 Hegel aveva persino progettato di scrivere un libro di «pedagogia politica» (Staatspädagogik), ma la cosa andò in fumo per motivi di tempo, in quanto la filosofia

«nondum nobis haec otia fecit»[198]. Inoltre, dato che lo Stato poggia sulla coscienza e sulla Gesinnung, la filosofia può organizzare un consenso razionale con l’agire sulla formazione della volontà e col discutere istanze ancora

poco chiare per lo Stato, istanze che toccano problemi attuali dibattuti anche a livello di opinione pubblica[199]. Illuminando l’opinione pubblica – il cui peso crescente incide sulle decisioni politiche[200] – la filosofia orienta il

consenso soluzioni

verso razionali.

Hegel, vecchio giornalista, non ignora la forza di penetrazione che le idee ottengono attraverso la stampa: oggigiorno non è più la preghiera del mattino che guida e accompagna

l’uomo nella sua vita quotidiana, ma la lettura dei giornali[201]. Hegel sa però altrettanto bene che questo regime concordatario non è stato ancora stipulato formalmente, né può esserlo, perché il

pensiero filosofico per la sua essenza travalica i confini dello Stato, riguarda lo spirito umano nel suo complesso e non lo «spirito di un popolo» singolo. Può esistere al massimo un tacito accordo, con frequenti

violazioni da ambo le parti: da parte dello Stato, che tenta di addomesticare la filosofia, facendone la propria longa manus spirituale per le zone in cui la religione non giunge; da parte della filosofia, che non

sempre accetta i limiti e i ritardi dello Stato. Per questo il filosofo continua a essere in pericolo, è esposto come i trovatelli a tutte le intemperie politiche, anzi «il professore di filosofia è in sé e per sé un expositus nato»[202].

Vi è malgrado

comunque, tutto,

complementarietà fra l’azione dell’uomo di Stato e quella del filosofo. Il primo, quando è capace, agisce più sul piano della ‘talpa’, fa scaturire il nuovo attraverso la

passione, mentre il secondo agisce più sul piano ‘della civetta’, del pensiero cosciente. È dunque possibile (per la relazione isomorfa esistente fra passionefinalità inconscia e ragione-finalità consapevole), la

traducibilità continua di ragione in passione e di passione in ragione. È possibile, cioè, che lo Stato operi sulle passioni e gli interessi dei cittadini con maggior consapevolezza e che la filosofia decifri finalmente, come

Champollion, «geroglifico

quel della

ragione» che è lo Stato[203], e si prenda più concretamente cura del mondo. Lo Stato deve però evitare il contagio di un morbo in apparenza ben strano, di cui i filosofi

sono inconsapevolmente

i

portatori sani: quello di un eccesso di razionalità in rapporto alla situazione storica concreta di un popolo. Napoleone, ad esempio, sbagliò nell’imporre agli spagnoli una

costituzione più avanzata di quella a cui erano abituati: «Ciò che Napoleone diede agli Spagnoli era più razionale di ciò che essi avevano prima; e, tuttavia, essi lo respinsero, in quanto cosa a loro estranea;

poiché non erano ancora inciviliti sino a quel punto. Il popolo deve avere a sua costituzione il sentimento del suo diritto e della sua situazione; altrimenti, essa, forse, può esistere esteriormente, ma non

ha alcun significato e alcun valore. Certamente può trovarsi spesso nei singoli il bisogno e l’aspirazione verso una costituzione migliore; ma che tutta la massa sia penetrata da tale idea, è cosa interamente diversa, e

segue soltanto più tardi. Il principio della moralità, dell’interiorità di Socrate si è prodotto necessariamente ai suoi giorni; ma occorse del tempo, perché sia divenuto autocoscienza generale»[204]. Lo Stato, quindi, possiede in un

certo modo il diritto di frenare l’irruzione distruttiva del nuovo nel vecchio, mentre il filosofo ha il dovere di perseguire, anche contro lo Stato, la ricerca di nuovi princìpi. È possibile mitigare questo attrito

nell’interesse di tutta la comunità? Convogliare attentamente il nuovo del pensiero in strutture statali più recettive? Come ai tempi di Socrate, «anche ai nostri tempi, avviene, più o meno, che il rispetto per ciò che esiste non c’è

più»[205]; come allora avviene la fuga nelle remote regioni del pensiero e nella moralità, che è negazione del costume vigente e creazione di un tribunale interiore, in contrasto con le leggi dello Stato. Quando la

moralità dall’«ulteriore

sorge

riflessione», quando si trasforma in un esame critico della realtà, «per motivi che possono cominciare da qualsiasi fine, interesse e riguardo individuale, da timore o da speranza o

da presupposti storici», allora «la conoscenza adeguata dei medesimi appartiene al concetto pensante»[206], cade nella sfera di competenza della filosofia e non dello Stato e della religione. Se la filosofia fornisse

dunque allo Stato la sua consulenza, la «conoscenza adeguata» dei motivi di questa fuga dalla realtà, e lo Stato, dal canto suo, ricreasse il «rispetto per ciò che esiste» modificando la realtà e adeguandola a «tutta la

massa» (anche se non dovesse poi accontentare a pieno il filosofo), ecco che l’accordo fra filosofia e Stato diverrebbe fruttuoso. Bisogna intendersi su questo punto: Hegel non condanna la moralità,

né il suo corrispettivo politico, la «virtù» giacobina, in quanto tali, né tanto meno condanna la violenza politica tesa a modificare la realtà in base a principi razionali: «Il pensiero è divenuto violenza là dove esso

aveva di positivo

fronte il come

violenza»[207]. Finché gli Stati non sono permeati dal pensiero e poggiano sulla positività – servendosi della religione e dell’ingiustizia come puntello della loro

stabilità[208] –, fino ad allora la violenza, come quella del Terrore, prodotto della virtù, è necessaria e giusta. E anche la moralità, come quella degli stoici o di Kant, è giusta e giustificabile, finché vive a contatto di una

legalità vuota, di un rispetto ossequioso per forme politiche e sociali ormai inaridite e sorrette solo dalla forza del positivo. Hegel quindi, pur ritenendo utile, per la Germania e per i paesi protestanti in genere, il prevalere

dell’eticità (che concilia legge statale e morale individuale) e pur ritenendo utile e necessario modificare lo Stato senza rivoluzioni violente (con la copertura ideologica assai debole che «i protestanti hanno

compiuto rivoluzione

la loro con la

Riforma»)[209], ha come presupposto che lo Stato si adegui al pensiero e al mutamento e che la filosofia indichi il razionale maturo per realizzarsi, pur

mettendo nel conto l’esistenza di uno scarto incolmabile fra ragione e Realität. Con questo modello di rapporto filosofia-Stato, Hegel si propone forse una sorta di «rivoluzione passiva», in un senso analogo a

quella di Vincenzo Cuoco? Propone cioè una rivoluzione politica da applicarsi a paesi – come la Germania (e l’Italia) – che hanno finora subìto solamente la «rivoluzione attiva» di altri popoli? È del parere del Cuoco che in

Germania e, in generale, nella sua epoca la rivoluzione non possa giacobinamente distaccarsi dalle masse? Che «il segreto delle rivoluzioni» sia «conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirà:

distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arrestarvi tosto che il popolo più non vuole; egli allora vi abbandonerebbe»?[210] Questo è certamente per Hegel uno dei compiti degli Stati e dei politici

(per quanto egli ritenga che in fondo il popolo non sa bene quel che vuole, perché è in preda alla riflessione e all’opinione). Ma non è il compito della filosofia, che deve procedere oltre la coscienza comune come sua avanguardia

esterna e rivoluzionarla, spianando così la strada alle trasformazioni che lo Stato sarà chiamato a operare. Il compito che Hegel assegna alla filosofia è quello di plasmare razionalmente la realtà effettuale attraverso la

mediazione delle coscienze singole, in cui si sviluppa «pianticella filosofia».

la della

È vero che Hegel, come Cuoco, aveva ammirato Napoleone perché egli era riuscito a far andare avanti la

rivoluzione retrocedere

senza nella

controrivoluzione, e a dar così prosperità e grandezza alla Francia[211]. È vero anche che Hegel, con la sua ottica peculiare, aveva visto la contraddizione del

giacobinismo come scissione tra aspirazioni universalistiche (liberté, égalité, fraternité) e realtà che non si faceva impregnare da esse. Ed è vero infine che Hegel aveva ammirato Napoleone perché questi aveva

realisticamente e brutalmente cancellato il conflitto interno a una classe fra i suoi ideali e i suoi interessi, ossia in termini più hegeliani, fra le astrazioni intellettualistiche e la realtà storica. In un certo modo, anche

Napoleone – nel paese stesso che aveva guidato le trasformazioni politiche d’Europa – aveva convertito la rivoluzione attiva in rivoluzione passiva, nel senso che aveva inteso filtrare le ‘astrazioni’ giacobine,

facendo passare nella realtà, di volta in volta, solo quelle idee che gli sembravano mature per acquistare diritto di cittadinanza nel mondo. Attraverso il dominio napoleonico, i tedeschi hanno ricevuto una lezione di cosa sia la

realtà effettuale: le fatiscenti istituzioni del Reich sono crollate, e al loro posto son sorti gli Stati nazionali (Prussia, Württemberg, Baden), che nell’organizzazione militare, nella burocrazia, nella legislazione hanno fatto

tesoro di questo insegnamento impartito dal grande «professore di dottrina dello Stato» che tiene cattedra a Parigi. Ora, dopo che a Lipsia e a Waterloo le Befreiungsbestien alleate hanno vinto, dopo il tragico spettacolo del

genio politico Napoleone che

di si

distrugge da sé, dando ai mediocri il diritto di rovesciarlo[212], si apre per i tedeschi una eccezionale occasione storica: poter modificare da soli, una volta assimilata la

Wirklichkeit, le proprie istituzioni politiche, facendo leva sulla loro unica ricchezza, il fuoco sacro del pensiero, che essi hanno avuto «in dono dalla natura» e conservato come gli Eumolpidi[213] o le nuove Vestali d’Europa.

Il problema centrale della filosofia politica hegeliana durante la Restaurazione diventa allora quello di conciliare il progresso inarrestabile del gigante con la tenuta oggettiva delle istituzioni, favorendo il formarsi di

strutture statali flessibili, che assorbano e recepiscano i contraccolpi della Wirklichkeit, senza esserne a rimorchio; che promuovano la rivoluzione degli ordinamenti, senza provocare la ricaduta,

sempre attuale, nella controrivoluzione. In questa impostazione di fondo, Hegel si collega al gruppo dei riformisti prussiani, che agisce dopo il siluramento di von Stein nel 1816, e i deliberati di Karlsbad del 1819, da posizioni di

minoranza. Con il 1819, Metternich, convinto che i rivoluzionari dopo la sconfitta di Napoleone vogliano prendersi la rivincita alla successiva generazione[214], decide di spoliticizzare violentemente

l’università, appoggiandosi

in

Prussia alle iniziative dei nemici di Hardenberg e Altenstein, ossia del conte di Wittgenstein, di von Kamptz, capo della polizia e autore di un famigerato Kodex der

Gendarmerie, e degli ambienti di corte legati al principe ereditario, il futuro Federico Guglielmo IV, imbevuto di idee mistiche e ultrareazionarie. Il partito riformista, che aveva il suo punto di forza nella

burocrazia, comunque,

restava, un

movimento attivo (Hardenberg fu cancelliere fino al 1822), che cercava, tra non poche difficoltà, di far avanzare quella «rivoluzione dall’alto» avviata da von Stein[215].

Molti dei riformatori e degli alti funzionari dell’amministrazione prussiana erano stati discepoli di Kant e seguivano il suo principio per cui una società è «fattibile» (machbar)[216]. Così, ad esempio, Altenstein,

considerava l’essenza dello Stato «non come è, ma come può essere»[217], mentre in una circolare governativa del 23 ottobre 1817, si indicava come compito del governo quello di «permettere a tutti lo

sviluppo e l’applicazione – il più possibile liberi – dei propri mezzi, capacità e forze, sia dal punto di vista morale che fisico, e di rimuovere al più presto in modo legale tutti gli ostacoli che vi si frapponessero»[218]. Il

nuovo Stato prussiano era sorto nel 1806 da una pesante sconfitta militare e da un disastro politico e finanziario[219]. Si cominciò così a costruire il nuovo Stato dalle fondamenta, tra la sorda o esplicita ostilità

degli Junker, e ogni disposizione legislativa ebbe quindi carattere di piano[220]. Nel 1807 cadde il vecchio sistema del gabinetto consiliare attorno al re e si formò un governo di ministri responsabili, per cui il monarca diventò solo

Souveranitätsrepräsentant[ puntino sulla i. Ma la direzione effettiva dello Stato passò a una «aristocrazia di esperti»[222], i funzionari, che ottennero anche la maggioranza all’interno dello Staatsrat, all’atto

della sua costituzione nel 1817[223]. Per circa tre quarti essi provenivano dalla borghesia e dagli studi universitari[224]. La loro ideologia era in genere caratterizzata dall’avversione al privilegio feudale e dalla

convinzione di vivere in un’epoca di veloci mutamenti, alla quale il governo non deve restare indietro, perché – come scrive Hippel a Hardenberg – «bisogna dovunque tenere l’andatura da galoppo, in quanto nessuno vuol

più marciare a passo di parata»[225]. La pianificazione dall’alto e l’affidarsi al sapere di questi funzionari serve contemporaneamente a far crescere il nuovo Stato e a permettere alla Prussia di colmare il distacco con gli altri

paesi europei avanzati. Il pensiero, la scienza, la tecnica, la diffusione dell’istruzione universitaria vengono così a essere considerati come fattori di avanzamento politico in un paese che è arrivato tardi fra le potenze

europee, e a chi esamini lo svolgimento successivo della scienza e della storia tedesca, nonché l’aureola di rispetto che circonda a tutt’oggi la parola Wissenschaft, non potrà sfuggire il peso determinante, nel bene

e nel male, che ha avuto questa alleanza fra Stato e scienza, attraverso la mediazione di una forte burocrazia, destinata presto ad abbandonare le sue posizioni riformistiche. Questa élite formerà più tardi

un elemento del blocco storico costituito dall’industria e dal ceto militare, e avente come suo perno lo Stato stesso. Nella «rivoluzione dall’alto», che corrisponde a una debolezza dal basso della società tedesca, è

già implicita «degenerazione»

una

autoritaria, il cui riverbero ha illuminato retrospettivamente anche Hegel. Ma per il momento l’insistenza, da parte di questo ceto di politici riformisti e di funzionari

illuminati, sul pensiero e lo «spirito» ha radici anche di carattere più immediato e ristretto: si tratta di trovare, per mezzo della cultura e dei legami spirituali, quell’unità nazionale che le divisioni territoriali e le barriere

politiche ed economiche insidiano fortemente. Dopo il Congresso di Vienna, la Prussia è un corpo diviso in un tronco centrale, separato a ovest dai nuovi possedimenti renani (in precedenza governati dalla Francia

col Code Napoléon) e a est dalle antiche marche orientali (abitate in prevalenza da slavi), così che «solo lo spirito può tenere insieme» questi disiecta membra[226]. Ma lo spirito è soprattutto cultura nazionale

unitaria, in cui un «popolo» si riconosce, e, contemporaneamente, luogo in cui tale cultura si produce. Ancora una volta il discorso cade sull’università, tradizionale fucina di sentimenti nazionali per gli studenti tedeschi che

vi confluivano, fino al 1801, da ben 360 staterelli e, dopo il 1815, da 36. Accanto all’abbattimento delle barriere doganali, la Prussia vuole – per così dire – realizzare uno Zollverein spirituale e presentarsi, come

afferma Gans (discepolo di Hegel e professore di Marx a Bonn), nelle vesti di «Stato del pensiero e dell’intelligenza», ruolo che le è in un certo modo imposto dal fatto che le sue fondamenta sono ancora deboli e «gettate

all’improvviso»[227].

10. Il controllo della dialettica storica Si può, dunque, parlare di rivoluzione passiva, a proposito di Hegel e dei rapporti tra filosofia e Stato? Se si dà

alla espressione «rivoluzione passiva» un accento moderato, nel senso di una «rivoluzionerestaurazione», in cui ogni contraddizione è smorzata e «superata», ogni tensione cancellata, allora la

risposta è no. Hegel, gramscianamente, non ha alcuna volontà di «mettere le brache al mondo», e la sua concezione, anche se in «forma speculativa, non consente tali addomesticamenti e costrizioni mutilatrici,

pur non dando luogo con ciò a forme di irrazionalismo

e

di

arbitrarietà»[228]. La filosofia ha anzi il carattere di rivoluzione attiva, in anticipo e in contrasto col senso comune di un’epoca. E anche lo Stato, per

quanto il suo movimento sia più lento di quello del pensiero filosofico, non può essere semplicemente a rimorchio della coscienza comune, ma deve guidarla e intervenire attivamente, comportandosi da

volontà razionale che risolve i conflitti che si generano dall’automatismo sociale. Lo Stato e l’uomo di Stato sono grandi nella misura in cui riescono a discernere ciò che è importante nella

volontà popolare, la quale ha per Hegel un carattere ancora oscuro: «Nella pubblica opinione, tutto è vero e falso; ma trovare in essa la verità è cosa del grand’uomo. Chi esprime ciò che vuole il suo tempo, chi lo dice

ad esso, e lo attua, è il grand’uomo del tempo. Egli fa ciò che sono l’interiorità e l’essenza del momento, le realizza»[229]. In questo modo, nella traduzione e nell’attuazione dei bisogni collettivi, lo Stato si innalza al di

sopra di essi e li modifica, e non si serve dell’eventuale arretratezza del costume e della situazione storica come di un alibi per l’immobilismo. D’altro lato, poiché la «pubblica opinione è la maniera

inorganica, con cui si dà a conoscere ciò che un popolo vuole e ritiene» e poiché «ciò che deve valere, non vale più mediante la forza, e meno per consuetudine e costume, ma certamente per intelligenza e per

ragioni»[230], ecco che la filosofia, decifrando organicamente il senso delle aspirazioni popolari, favorisce sia la loro migliore estrinsecazione, sia l’intervento dello Stato. In tal senso, la filosofia procede come

rivoluzione attiva nei confronti della coscienza comune e dell’opinione pubblica. Ma se invece si tratta di distruggere gli ideali astratti, le utopie delle anime belle o le «astrazioni» che hanno rispetto alla Wirklichkeit

un carattere contraddizione

di

insolubile, la filosofia contribuisce a una presa di coscienza di quelli che sono i limiti dell’azione politica e svolge una funzione fiancheggiatrice nel consolidarsi di una

forma di passiva.

rivoluzione

In questo apparente equilibrio di rivoluzione attiva e di rivoluzione passiva si trova uno dei più intricati nodi non solo della filosofia politica, ma anche della dialettica e dell’intero

impianto teorico hegeliano. Tuttavia, di fronte all’alternativa fra un modello di movimento storico e dialettico basato sul mero assorbimento trasformistico delle spinte dal basso, sull’Aufhebung come

addomesticamento delle contraddizioni, e un altro modello di movimento storico e dialettico, basato sulla soluzione reale delle contraddizioni, dapprima nel pensiero e poi nella realtà, con lo Stato come cinghia di

trasmissione del mutamento, non c’è dubbio che Hegel sia decisamente più vicino a questa seconda posizione, e che esista comunque una dissimmetria fra l’elemento attivo e quello passivo, con

netta prevalenza dell’attivo. Del resto, già ora si può cominciare a vedere come la dialettica non sia facile conciliazione, pura compromissione con l’esistente (anche se queste compromissioni non mancano e sono

importanti come linee di frattura del sistema), ma implichi anche, secondo una tradizione che risale alla dialettica antica, la presenza del novum, l’inventio, qualcosa che non è contenuto, se non in modo latente e

contraddittorio, nelle opposizioni di partenza, e che per sorgere ha bisogno del movimento storico di un’epoca, di un impulso reale esterno al sistema filosofico, del mondo che entra in essa come pensiero, discorso. Non

si comprende il senso della dialettica se non si tiene conto, per la sua genesi, della decisiva presenza nella filosofia hegeliana del «genuino» scetticismo antico (soprattutto di Pirrone e Sesto Empirico, ma è ricordato come punto di

riferimento esemplare anche il Parmenide di Platone). Esso funge come una specie di acido atto a dissolvere la ragione dogmatica, a «rendere fluidi i concetti solidificati»[231] e in ciò si distingue dallo scetticismo moderno, in

particolare da quello dello Schulze dell’Enesidemo, che si limita alla sospensione del giudizio e sfocia nell’indifferentismo[232]. La scepsi deve essere invece inclusa nella filosofia come suo lato negativo, da prendere

sul serio per poter poi essere superata, un’idea che rimarrà costante lungo tutta l’evoluzione del pensiero hegeliano, che insisterà sempre sulla distruzione delle certezze, come appare chiaramente, fra l’altro, nella prolusione

berlinese alle lezioni sull’Enciclopedia: «La decisione di filosofare si getta puramente nel pensiero […] si getta come in un oceano privo di sponde; tutti i vari colori, tutti i punti d’appoggio, tutte le altre luci amichevoli sono

spente»[233]. La

catena

delle

cosiddette «triadi» del sistema ha prodotto l’impressione, che va spiegata, non solo di una costante programmatica soluzione delle contraddizioni, di un

salvataggio finale annunciato e scontato, di un happy end garantito, ma anche della «chiusura della storia», ossia che, se il sistema ha compreso, inglobato e conciliato tutta la realtà, non vi saranno più né futuro,

né novità di rilievo[234]. Questa presunta chiusura della storia, responsabile dei maggiori fraintendimenti del pensiero hegeliano, non ha, tuttavia, alcun riscontro reale e deriva da un equivoco o da una

sorta di illusione ottica. Per Hegel infatti – diversamente da quanto aveva affermato il 18 ottobre del 1806, allorché si aspettava «una nuova sortita dello spirito», i cui lineamenti la filosofia deve interpretare[235] – non è

la storia che si chiude, ma la filosofia, che non può più cogliere l’immagine della nuova epoca storica in gestazione. Hegel è consapevole che l’oltrepassamento, nella sua epoca, di una determinata soglia di

mutamenti provocherà la disgregazione del suo sistema, che contiene già nel suo aggancio al tempo, un principio interno di autodistruzione. Da questa prospettiva, la questione della «chiusura della storia»

non è altro che la delimitazione, compiuta da Hegel stesso, dell’area teorica di validità della sua stessa filosofia. Non si tratta, quindi, di negare il futuro, come sostiene anche Bloch, ma semplicemente di

affermare che nuova «epoca»

ogni che

sorge – definita dall’intervallo di relativa continuità fra due rivoluzioni –, sorge con un salto qualitativo i cui risultati non sono prevedibili in anticipo. Essa necessita perciò di

una nuova filosofia, senza che si perdano (come mostrano la Scienza della logica e le Lezioni sulla storia della filosofia) le principali conquiste teoriche. Le plurimillenarie vicende della civiltà umana si concludono

invece per Kojève con la «fine della storia», una teoria poi diffusa e banalizzata da Fukuyama[236]. La «fine della storia» non è un’utopia, ma un processo in corso, inaugurato da Napoleone. Si è

raggiunto, Occidente

infatti, in lo «Stato

universale», basato sull’uguaglianza di tutti i cittadini, uno Stato «omogeneo», perché racchiude una società senza classi. La lotta di classe è terminata e il capitalismo di matrice

fordista, ridistribuisce

che la

ricchezza, ha vinto la sua battaglia sul comunismo sovietico (non donante, ma «prendente», in quanto incamera monopolisticamente la ricchezza collettiva e

ridistribuisce selettivamente, a suo piacimento, lavoro e beni di consumo). Ford è, per Kojève, «il solo marxista ‘ortodosso’ del XX secolo»[237]. L’attuale consumismo non è altro che materialismo realizzato, giacché il

capitalismo assicura

vittorioso la

soddisfazione dei bisogni. Ma questa vittoria implica anche la ri-animalizzazione dell’uomo, la caduta dei confini tra uomo e animale, la fine della sua evoluzione

dialettica opposizioni

per e

contraddizioni, lo svuotamento dello slancio verso la libertà e della lotta contro la natura. Si esauriscono i conflitti dell’umanità, sia sul piano sociale che su quello naturale, vale

a dire proprio i tratti che la caratterizzavano. Scompare così, tendenzialmente, «l’individuo libero e storico» protagonista non solo delle «guerre e delle rivoluzioni sanguinose», ma anche delle lotte per il lavoro.

Le masse si sono ormai imborghesite e convertite al consumismo e anche la guerra fredda, prevede Kojève, sarà vinta con mezzi economici e non militari (non si dimentichi che Kojève è stato a lungo un

funzionario di alto livello dello Stato francese, coinvolto nelle discussioni sul piano Marshall e chiamato a intervenire nell’ambito dell’OCSE e della Comunità Europea). La fine della storia coincide con la fine

dell’emancipazione e, in parallelo, con l’americanizzazione del mondo. Grazie al dominio del capitalismo, la distanza tra paesi ricchi e paesi poveri sarà destinata a colmarsi. Una volta soddisfatti i desideri,

spariscono sia l’opposizione soggettooggetto, sia le negatività storiche e le lotte per il lavoro. Kojève, sospettato perfino di stalinismo, non è, tuttavia, un apologeta del capitalismo come lo sarà Fukuyama.

Le cose, malgrado

però, alcune

folgoranti anticipazioni, si sono svolte in modo diverso da come Kojève aveva previsto. Le sue tesi si sono in parte avverate, ma nel senso che la globalizzazione tende sempre di più a

diventare ‘sistema’ in un mondo unificato ma conflittuale, dove civiltà che a lungo si sono ignorate o che hanno mantenuto rapporti sporadici con l’Occidente nel suo complesso oggi si incontrano e si

scontrano (per ora con mezzi pacifici). In parte, invece, queste tesi sono semplicemente false, almeno su due aspetti. In primo luogo, lo Stato universale non solo non è nato, ma gli Stati hanno perduto molta della loro sovranità

rispetto all’economia finanziaria, che non riescono più a tenere sotto controllo perché essa sembra avere acquistato una vita autonoma e anonima. Sembra che lo schema della hegeliana Filosofia del diritto si sia

capovolto: non è più lo Stato a dominare quella parte della società civile che è l’economia (da Hegel definita «sistema dei bisogni»), ma è piuttosto l’economia a dominare lo Stato. In secondo luogo, dal punto di vista filosofico,

le tesi di Kojève non tengono conto – nell’interpretazione di Hegel su cui inizialmente si basano – del fatto che la talpa della storia continua inconsciamente a scavare sotto terra con i suoi ciechi occhi. Hegel

stabilisce, come ormai sappiamo, un contrasto e una simultanea complementarità tra una filosofia giunta alla fine di un’epoca, che vede nel buio con i grandi occhi di civetta, e la talpa della storia che frattanto continua

inconsciamente avanzare:

ad l’una

contempla, l’altra fa. Chi legge l’Introduzione alla Storia della filosofia, con tutti gli innegabili limiti che contiene, si renderà inoltre conto che per Hegel gli iniziatori, i filosofi di rottura, sono

Parmenide nel mondo antico, Cartesio all’inizio dell’età protomoderna e Fichte nel suo tempo. Attraverso il distacco dal passato e l’oblio delle posizioni precedenti, il loro è il canto del gallo del

rinnovamento, di un inizio, dell’affermazione di un nuovo «principio». Secondo la prefazione alla prima edizione della Scienza della logica, «nel suo primo apparire, la nuova creazione suole abbandonarsi a una ostilità fanatica contro

la larga sistematizzazione del principio precedente. Essa suole anche in parte aver paura di perdersi nell’estensione del particolare, in parte, poi, rifugge dal faticoso lavoro necessario al perfezionamento della

costruzione scientifica, onde, in mancanza di quello, si attacca per lo più dapprima a un vuoto formalismo». A un certo punto, accade, tuttavia, che «il periodo di fermentazione» del nuovo principio si esaurisca e che diventi

urgente il bisogno di «una elaborazione e di una sapiente trasformazione del materiale» ereditato: «V’è un periodo nella formazione di un’epoca storica, come nell’educazione di un individuo, in cui si tratta

soprattutto conquista

della e

dell’affermazione del principio nella sua intensità non sviluppata. Un compito superiore è però di far sì che quel principio diventi scienza»[238]. Quando nelle filosofie

dall’adolescenza si passa alla maturità, il nuovo principio si struttura e si articola in sistema: non ha più paura di perdersi nei particolari e non rifugge dalla «fatica del concetto». Nessun oblio del passato, ma

integrazione e delimitazione della sua sfera di validità all’interno del sistema che raccoglie il frutto di tutti gli sforzi del pensiero filosofico. Al pari di Aristotele, Hegel si considera colui che ha dato una sistemazione

organica principio

al

nuovo dell’età

moderna, colui che sta alla conclusione di un’epoca, per altro da poco iniziata: storicamente con la Rivoluzione francese e, filosoficamente, con Fichte (ma per lui in

questo breve arco di tempo si sono svolti, correndo con gli «stivali delle sette leghe», «gli anni più ricchi che la storia universale abbia avuto, e per noi i più istruttivi, perché ad essi appartengono il nostro mondo, e le nostre

idee»)[239]. Ne consegue, da un lato, che con la sua filosofia Hegel non intende affatto inaugurare un’altra epoca, ma ritiene, appunto, che essa, grazie allo scavare della talpa della storia, avrà un nuovo inizio non

prefigurabile, in quanto egli rifiuta esplicitamente il ruolo di «profeta»; dall’altro, che il sistema non è la forma necessaria che la filosofia deve assumere, ma soltanto quella che si dispiega al culmine della maturità di un

«principio» che conosce, nel far della sera, il suo prossimo declino[240]. In questo senso, per parafrasare un’altrimenti bizzarra considerazione di Rosenkranz, Hegel è davvero «una natura autunnale, un frutto

maturo e succoso»[241]. La presunta chiusura della storia[242] produce anche un ulteriore capovolgimento delle posizioni hegeliane: se il futuro è già contenuto nel presente e visibile al filosofo nelle sue linee essenziali, allora il

filosofo è, nel senso di Popper, un profeta, e nel caso di Hegel (e di Marx), un «falso profeta»[243]. Ma in realtà Hegel non è affatto un profeta, né vero né falso, e ci tiene anche a dirlo: «Il filosofo non s’intende di

profezie. Dal lato della storia noi abbiamo piuttosto a che fare con ciò che è stato e con ciò che è, mentre nella filosofia non ci occupiamo né di ciò che è stato o che soltanto sarà, ma di ciò che è ed è eternamente: – della

ragione; e con ciò abbiamo abbastanza da fare»[244]. Se questo è vero, non viene invalidato quanto abbiamo affermato in precedenza, ossia che il filosofo vede il nuovo e lo indica allo Stato, che la filosofia non è senile

rassegnazione? No, perché il nuovo è già visibile nel presente, la rosa è inchiodata nella croce, e la filosofia discerne proprio il nuovo effettuale sia dal vecchio che dall’utopico e dal profetico. Del resto, non c’è in Hegel

tutta quella carica di «storicismo» – di dominio cioè nella storia di leggi prevedibili – che Popper gli attribuisce. Per Hegel la storia non ha «leggi»: «Ma ciò che l’esperienza e la storia insegnano è proprio che i popoli e i

governi non hanno mai appreso nulla dalla storia, né hanno mai agito secondo dottrine che avessero potuto ricavare da essa. Ciascun popolo si trova in una situazione così individuale che si deve decidere, e si deciderà,

da sé; ed è proprio solo il grande carattere quello che in tale scelta sa cogliere nel segno. Le situazioni storiche dei popoli sono così individuali, che rapporti precedenti non si adattano mai completamente a quelli

seguenti, a causa della totale diversità delle circostanze. Nell’incalzare degli eventi mondiali a nulla vale un principio generale, a nulla il ricordo di casi analoghi; ché qualcosa di simile a un pallido ricordo non

ha alcun potere nel tempestoso presente, non ha alcuna forza contro la vivacità e la libertà del presente[245]. Non è poi esatto che in Hegel tutte le contraddizioni finiscano in gloria, finiscano per ricomporsi e che se ne

possa quindi simulare con il pensiero la soluzione: vi sono nella storia perdite secche, negazioni che non comportano alcun beneficio, alcun progresso, come le distruzioni di un Tamerlano o di un

Gengis Khan o la Guerra dei Trent’anni che «terminò con la pace di Vestfalia senza che fosse stato acquisito alcunché per il pensiero, senza un’idea, con la stanchezza di tutti, con la devastazione totale, in cui erano esaurite

tutte le forze, e col puro lasciar fare e sussistere entrambi i partiti sulla base della forza esteriore»[246]. La storia non ha soluzioni prefabbricate, sebbene abbia delle tendenze che sono il risultato dell’azione di tutti.

Certo, questo movimento globale dà luogo a forze cieche, che sfuggono al controllo dei singoli, ma Hegel ritiene proprio che queste forze debbano essere chiarite per essere dominate, debbano perdere il loro

aspetto cieco. Nel riconoscerne l’esistenza e il potere, nel negare che esse dipendano dalla coscienza degli uomini, Hegel è lontano dall’essere «idealista» nel significato corrente del termine. Egli ammette anzi che c’è

una vasta estensione dell’esistenza che sfugge al controllo della coscienza e del sapere e che tutte le forme di organizzazione sociale finora sperimentate dagli uomini non hanno ancora ottenuto il pieno controllo di quelle forze

cieche. Questo però non implica affatto che egli ne tessa gli elogi; al contrario, ogni suo sforzo è teso, attraverso il sapere, a limitarne il campo di esplicazione. Non si tratta perciò di «assecondare» queste forze, e basta, ma si

tratta di comprenderle, di guidarle, di modificarle in accordo con le situazioni concrete, facendo sì che queste situazioni non divengano, a loro volta, limiti invalicabili, ma siano modificate anch’esse. In questa

operazione la filosofia lavora insieme alla realtà effettuale, non pretende di cancellarne per incanto tutta la cecità in un attimo, anche perché l’uomo è un essere incompiuto e mutevole, che si sottrae all’idea della presunta

fissità della «natura umana» e non è contenuto una volta per sempre all’interno di un immodificabile concetto: «Il concetto universale della natura umana contiene infinite modificazioni […] la natura vivente è

eternamente altro che il suo concetto, per cui quello che per il concetto era semplice modificazione, pura accidentalità, qualcosa di superfluo, diviene necessario, vivente, forse ciò che unicamente è naturale e

bello»[247]. Sebbene la filosofia stia formalmente al di sopra della sua epoca, perché comprenderla significa invecchiarla, distruggerla ulteriormente per andare oltre, è l’epoca nel suo complesso che

deve, tuttavia, cambiare, e la soluzione hegeliana non è così assurda quale viene mostrata, come se fosse esclusivamente la coscienza a trainare il peso del mondo. Hegel non è il barone di Münchhausen che voleva sollevarsi da

terra tirandosi per il codino, e neppure l’obbediente burocrate prussiano che aspettava l’imbeccata da Federico Guglielmo III, «il suo datore di lavoro», secondo l’espressione di Popper.

11. La cecità dei conflitti e i limiti di un’epoca Cosa produce allora l’illusione, se illusione è, che Hegel abbia nello stesso tempo chiuso la storia e profetizzato il futuro? Cosa c’è di verità in questa

illusione, intuìta al di là degli errori d’interpretazione e della banalità dei luoghi comuni? Hegel

si

era

sicuramente accorto delle crepe presenti nel suo tempo, rilevabili anche dall’esame in

negativo, seguendo il metodo che egli stesso aveva utilizzato per Platone: l’esistenza di una «plebe» ai margini dello Stato, animata da sentimenti di odio e di ribellione nei confronti dell’ordine costituito[248]; la

disgregazione atomistica della società del tempo, che non solo rende difficile trovare forme adeguate di rappresentanza politica[249], ma dà agli organismi statali una sensibile fragilità, ponendo il problema del

crollo delle istituzioni come pericolo costante da combattere e generando una cesura fra governanti e governati: «i condottieri (Führer) si son separati dal popolo; essi non si capiscono a vicenda»[250]; l’azione di

una rivoluzione sotterranea, dai tratti ancora oscuri, che è in marcia e non si lascia facilmente intendere, ed è anche per il suo avanzare che il pensiero è costretto a svilupparsi e a estendere le sue funzioni; l’acuirsi delle

difficoltà e contraddizioni

delle

economiche, che travalicano i confini degli Stati e spingono i governi a interessarsi sempre più direttamente della società civile e dei suoi sbocchi, favorendo

l’espansione coloniale e ponendo in posizioni di forza quei paesi, come gli Stati Uniti d’America e la Russia, che per la loro vastità potranno assumere nella storia futura un ruolo di primo piano[251]. Tutti questi punti, in negativo, ma

soprattutto in positivo, Hegel li ha esposti con precisione oppure, brechtianamente, con ironia dialettica: «Egli si rendeva conto che proprio accanto all’ordine più perfetto si trova il più grande disordine, anzi, giunse

fino a dire: proprio nello stesso posto! Per Stato egli intendeva qualcosa che sorge là dove si manifestano i più forti contrasti fra le classi, di modo che l’armonia dello Stato vive, per così dire, nella disarmonia delle classi»[252]. Hegel

stesso, d’altronde, faceva dell’ironia sulla situazione oggettiva del suo tempo, difficile e contraddittoria. Scrivendo a un suo allievo estone, Boris von Yxküll, anche lui malato di «ipocondria», «Hegel si metteva a scherzare.

Egli riteneva che l’Europa fosse diventata una gabbia in cui solo due espècen di uomini sembrano muoversi liberamente: l’una, che appartiene anima e corpo a coloro che chiudono la gabbia, l’altra, che cerca sotto la

grande volta delle sbarre un angolino in cui non debba prendere posizione pro o contro le sbarre stesse. Se la coscienza entra in dissonanza con i rapporti esterni, essa diventa malata o infelice, se non riesce a

conciliarsi con la

veramente situazione

effettiva delle cose, allora la sua più vantaggiosa decisione sarà quella di vivere da buon epicureo (o come meglio lo si voglia chiamare) e di rimanere per sé una persona

privata, posizione che è quella di uno spettatore, ma che lascia nello stesso tempo anche la possibilità di un’ampia sfera di interventi»[253]. Che il più grande disordine coesistesse con il più grande ordine, che il «leggero

mantello», di weberiana memoria, fosse diventato una «gabbia di ferro»[254], Hegel più o meno chiaramente, più o meno ironicamente, lo sapeva. Ma nutriva contemporaneamente la fiducia che lo «spirito» avrebbe nel tempo

lungo trovato soluzioni adeguate a queste contraddizioni, che là dove maggiore è il pericolo, maggiore è la possibilità di salvezza. Egli condivideva la concezione di molti contemporanei, che erano riusciti a guadare

tanti impetuosi sconvolgimenti storici, e cioè che la storia non si arresta e le soluzioni maturano continuamente, solo che bisogna scoprirle e applicarle. O, come diceva Ferguson, un autore letto da Hegel a

Berna: quando

«L’umanità, degenera e

tende alla sua rovina, come quando migliora e ottiene vantaggi effettivi, frequentemente avanza con passi lenti e quasi impercettibili […] ma quando devastazione e

rovina minacciano da ogni lato, gli uomini sono di nuovo costretti ad unirsi […] Quando sembra giunta al suo estremo stato di corruzione, è allora che la natura umana ha effettivamente cominciato a

correggersi. Lo scenario della vita umana è frequentemente cambiato in questo modo»[255]. L’effetto di chiusura della storia e nello stesso tempo di profezia del futuro è dato da questa compatta fiducia

hegeliana nell’opera dello «spirito», nella capacità che esso possiede di sanare le sue proprie ferite e di sorgere più forte di prima dalle contraddizioni superate. È dato dal fatto che Hegel non progetta (né

forse avrebbe potuto farlo) un mondo nuovo nella sua articolazione, ma fa slittare in avanti le contraddizioni irrisolte del presente, affidando al tempo e allo spirito la capacità di risolverle. Il futuro prevedibile appare

quindi entro lo spazio omogeneo dominato dallo spirito. In questa prospettiva hegeliana c’è un duplice riconoscimento: da un lato che non esiste ancora un piano cosciente, concepito dalle società umane, per

progettare e regolare la realtà, la quale continua così a muoversi alle spalle degli uomini; dall’altro che le strutture storicopolitiche sono abbastanza forti per superare, con lo strumento del pensiero,

le crisi ricorrenti nella realtà. E questa fiducia nelle forze della realtà di autogenerarsi e di autorigenerarsi non deriva dall’accettazione del famigerato «Stato prussiano», ma di qualcosa di più profondo, di un sostrato

roccioso di scelte e di pregiudizi storici: dall’accettazione dei meccanismi economici e ideologici di una formazione sociale che accentua l’antagonismo, il conflitto, ma crede nella sua ricomposizione. Sarebbe

ingenuo spiegare la filosofia hegeliana con questa opzione, ma sarebbe altrettanto ingenuo negarne l’incidenza. Hegel accetta e difende sia la proprietà privata, sia la divisione del lavoro, sia il crescente divario fra

grande ricchezza e grande povertà, sia la formazione della plebe, e non li ritiene realisticamente modificabili, pur giudicandoli fenomeni negativi e dolorosi[256]. I ciechi conflitti generati dal mantenimento di

questi elementi fondamentali devono per Hegel essere mitigati e, possibilmente, eliminati, ma senza toccare il motore di tutto il processo, il «valore infinito» e attivo della soggettività, la

scoperta del «mondo moderno»[257], da cui discendono come corollari la proprietà privata, gli ordinamenti statali, la «libertà» e la storia d’Europa. Se si eliminasse tale soggettività, tale energeia, cesserebbe ogni

dialettica come sviluppo e si ritornerebbe all’immobilismo dei popoli extraeuropei. La discriminante storica fra Hegel e Marx consiste, su questo punto, nel fatto che Hegel non vuole uccidere l’«animale

selvaggio» del meccanismo economico vigente, ma solo sottoporlo ad «un continuo e rigido dominio e addomesticamento»[258] da parte dello «spirito». In questo senso, il mondo descritto da

Hegel è veramente un «regno animale dello spirito»[259], in cui permane la dualità funzionale e ineliminabile di talpa e civetta, di fiducia in meccanismi terapeutici ciechi e nel miglioramento della

visione notturna. E quanto più è ignota la direzione sotterranea della talpa, tanto più la filosofia è costretta a inoltrarsi nella «notte». Così, quel che all’inizio ci si era presentato come una semplice rete metaforica, una sorta di

zoologia filosofica, che rinviava a una tematica più arcaica di metafisica e metaforica della luce[260], conduce invece alla scoperta di nessi teorici più vasti e permette di tracciare un primo quadro dei rapporti fra filosofia

hegeliana ed epoca. Un quadro che ha cominciato con l’utilizzare le immagini – con compiti di disturbo e di erosione di interpretazioni diffuse e di luoghi comuni –, per avanzare verso la ricostruzione della «rete

adamantina» dei concetti. Procedendo ulteriormente su questa strada, senza però abbandonare l’interesse per i modelli analogici, si dovrà ora rispondere con maggiore organicità alle domande di partenza: Cosa significa

pensare? Cosa significa comprendere una determinata epoca storica in pensieri? Cosa significa comprendere l’epoca di Hegel? Cosa significa, infine, per noi, comprendere nel nostro tempo e per il nostro tempo l’epoca di Hegel

colta in pensieri?

[1] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, a cura di G. Lasson, Leipzig, 1919-1920, pp. 75, 77 (trad. it. di G. Calogero e C. Fatta, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, 1966-1967, rist., vol. I, pp. 88, 90). Per un elenco dei vari corsi berlinesi già

pubblicati sulla filosofia della storia e degli altri manoscritti ancora inediti delle trascrizioni (Nachschriften), cfr. S. Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831), Macerata, 2005, pp. 281-294. Dei corsi sulla filosofia della storia uno è stato tradotto in italiano a

cura di S. Dellavalle: Filosofia della storia universale. Secondo corso tenuto nel semestre invernale 1822-23, Torino, 2001. Tenendo conto che, per lo più, si tratta di appunti di studenti e che quindi non sono stati stesi e riveduti da Hegel, la loro conoscenza (come anche nel caso degli altri corsi sulla filosofia del diritto, sulla

storia della filosofia, sulla filosofia della religione e sull’estetica) amplia e specifica, con cautela, la nostra attuale conoscenza del pensiero hegeliano. [2]

Sul linguaggio hegeliano, denso di immagini («l’elemento barocco delle sue espressioni mi ha spesso colpito», racconta Heine nei

Geständnisse, in Werke, a cura di O. Wenzel, Leipzig, 1909 ss., vol. X, p. 171), cfr. K. Rosenkranz, Hegels Leben, Berlin, 1844, trad. it. di R. Bodei, Vita di Hegel, Milano, 2012 (con testo tedesco a fronte), pp. 813-814 [alla fondamentale biografia di Rosenkranz si sono aggiunte più recentemente quelle di H. Althaus, Hegel und die

heroischen Jahren der Philosophie, München-Wien, 1992 (trad. it. Vita di Hegel. Gli anni eroici della filosofia, Roma-Bari, 1993), di J. D’Hondt, Hegel. Biographie, Paris, 1998, e di T. Pinkard, Hegel. A Biography, Cambridge, 2000]; E. Bloch, Subjekt-Objekt. Erläuterungen zu Hegel, Frankfurt a.M., 19622, pp. 18-30, trad. it. di

R. Bodei, Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, Bologna, 1975, pp. 14-28; A. Koyré, Notes sur la langue et la terminologie hégélienne (1931), ora nelle Études d’histoire de la pensée philosophique, Paris, 1971, pp. 191-224. Sul significato generale delle reti di metafore, cfr. Ch. Mauron, Des métaphores obsedantes au mythe personnel, Paris, 1963,

trad. it. di M. Picchi, Dalle metafore ossessive al mito personale, Milano, 1966, pp. 9 ss. Sulle implicazioni teoriche delle metafore e delle analogie in filosofia, cfr. H. Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie, Bonn, 1960, trad. it. di M.V. Serra Hansberg, Paradigmi per una metaforologia, Bologna, 1969 e

E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Bologna, 1968. Sulla concezione hegeliana delle metafore e sulla distinzione fra metafore morte, già passate nel linguaggio comune, e metafore vive, cfr. Hegel, Vorlesungen über die Aesthetik, a cura di H.G. Hotho, in Hegel, Werke, Vollständige

Ausgabe durch einen Verein von Freunden des Verewigten, Berlin, 1832 ss., Berlin, 1835, vol. X1, pp. 517524, trad. it., condotta sulla seconda edizione tedesca, con alcune varianti di N. Merker e N. Vaccaro, Estetica, Torino, 1967, pp. 454-460. [La prima e la seconda edizione di Hotho divergono, specie nel primo volume,

nell’impaginazione e nei contenuti, per cui i riferimenti qui forniti alla pagina tedesca possono alcune volte rinviare all’una o all’altra edizione.] È stata pubblicata anche un’altra edizione italiana con le varianti di Hotho tratte da diversi corsi berlinesi: G.W.F. Hegel, Estetica secondo l’edizione di H.G. Hotho con le

varianti delle lezioni del 1820/1821, 1823, 1826, a cura di F. Valagussa, Milano, 2012 (con testo tedesco a fronte). Vale la pena di osservare che, in base alle ultime edizioni e ricognizioni degli appunti residui di Hegel e dei quaderni dei suoi uditori, Hotho ha ampiamente rimaneggiato ancora più quaderni dei corsi di estetica

compilati dagli studenti (uno a Heidelberg, 1818, e quattro a Berlino: 1820-1821, 1823, 1826, 1828-1829, quest’ultimo ancora inedito), tanto da inserire dei falsi che hanno avuto poi una grande diffusione, fino a diventare punti di riferimento canonici, quali la definizione della bellezza quale «apparenza sensibile

dell’idea» (vol. X1, p. 15), espressione che Hegel non ha mai usato e che ha prestato il fianco all’accusa di «platonismo» estetico, quasi che Hegel volesse sminuire l’elemento sensibile dell’arte a favore di quello concettuale della filosofia. Si deve allo stesso modo dire, per evitare fraintendimenti, che la

formulazione esatta della discussa teoria della morte dell’arte è quella che si trova nel quaderno del 1826: «carattere passato dell’arte riguardo alla sua più alta possibilità». Ciò significa, però, non solo che Hegel concepisce l’arte come un’opera, un lavoro teso a trasmettere a una determinata comunità in

forma intuitiva, in linguaggi verbali o figurati, il senso e del soggetto e del mondo (cfr. A. Gethmann-Siefert, Nuove fonti e nuove interpretazioni dell’estetica di Hegel, in L’estetica di Hegel, a cura di M. Farina e A.L. Siani, Bologna, 2014, pp. 13-31), ma anche che, mentre nel passato essa svolgeva questa funzione al massimo

delle sue possibilità, nell’età moderna, dominata dalla burocrazia, dall’intelletto (Verstand) e dalla prosa del mondo, ciò non è più possibile allo stesso livello di intensità. [3] Cfr. K. Kerényi, Die

Jungfrau und Mutter der griechischen Religion. Eine Studie über Pallas Athene, Zürich, 1952, passim.

[4]

Cfr. «Minerva. Ein Journal historischpolitischen Inhalts», a cura di J.W. von Archenholz, annate 1-20, BerlinHamburg, 1792-1811, annate 21-42 continuato da F.A. Braun, Jena, 1812-1832. Sulla metafora hegeliana della civetta, cfr. J. D’Hondt, Hegel secret, Paris, 1968, p. 24. In un articolo sui «Berliner

Jahrbücher» della primavera del 1831, Michelet, uno dei discepoli più vicini a Hegel, aggiungerà, per fugare l’effetto di chiusura dell’immagine della civetta, che essa si ritira poi di nuovo al canto del gallo del mattino, cfr. H. Stuke, Philosophie der Tat, Stuttgart, 1963, p. 64. Si vedano anche, con differenti prospettive, i

lavori di D. Shapiro, The Owl of Minerva and the Colors of the Night, in «Philosophy and Literature», I (1977), pp. 276294; K. Stierle, Der Maulwurf im Bildfeld. Versuch zu einer Metapherngeschichte, in «Archiv für Begriffsgeschichte», XXVI (1982), Heft 1, pp. 101-143; O.D. Brauer, Dialektik der Zeit. Untersuchungen zu Hegels

Metaphysik der Weltgeschichte, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1982, p. 186 nota. Attraverso analogie non verificabili, quest’ultimo la interpreta come un’allusione polemica a un passo di Apuleio (Flora, 13, I ss.), dove si afferma che la filosofia non è, come certi uccelli, e la civetta in particolare, legata a un tempo determinato, ad

esempio al crepuscolo, mentre Hegel sostiene, appunto, che è legata all’imbrunire. I probabili riferimenti al passo hegeliano mi sembrano piuttosto essere due: il primo, più incerto, alla Bibbia, il secondo, più diretto, alla Metafisica di Aristotele. Nel Salmo 102,7, che contiene un lamento di

desolazione, l’autore dice di sé: «Sono diventato come la civetta della muraglia», che fa sentire la sua voce tra le rovine, hegelianamente quelle di un mondo che scompare. Aristotele sostiene invece che «l’intelligenza della nostra anima sta di fronte alle cose che per natura sono più evidenti come gli occhi delle

civette di fronte allo splendore del giorno» (Arist., Met. II, 1,993 b 9-11, trad. it. di C.A. Viano, Aristotele, La metafisica, Torino, 1974, p. 229). È, tuttavia, probabile, anche se Hegel poteva non saperlo, che il termine nykterides utilizzato da Aristotele in questo passo (ossia animali notturni, come in latino noctua per

designare tanto la civetta quanto il pipistrello) indichi in lui proprio i pipistrelli, anche perché nelle opere biologiche, separando questi animali dalle civette, dice anche che le loro ali sono «fatte di pelle» (cfr. Historia animalium, I, 1,488 a 26; IV, 13,697 b 1-13). Già in Platone il pipistrello è un essere doppio, che non è né

uccello, né topo ed è perciò paragonato a un eunuco (Resp., V, 478 C). In quanto animale notturno, che non può sopportare la luce del giorno è spesso paragonato alla civetta (si veda un autore come Sesto Empirico, Phys., I, 247, che Hegel conosceva bene. Sulla natura della conoscenza in rapporto a civette e,

soprattutto, pipistrelli nella filosofia antica, cfr. E. Ruaro, Il pipistrello e il nous dell’anima in Aristotele, in «Eidos. Rassegna semestrale di filosofia», I, 2003, pp. 75-98). Aristotele sostiene, inoltre, che la talpa riesce pur sempre a vedere qualcosa, cfr. Hist. anim., I, 9,421 b; IV, 8.552 b 36; De an., III, 425 a 10 ss. Sebbene, anche secondo

Hegel, per la maggioranza degli uomini del suo tempo le cose più evidenti non vengano colte, la filosofia comincia a vedere meglio proprio quando la luce del sole si attenua, quando, cioè, tramontando il sole naturale, si innalza – alla maniera di Platone, Convivio, 219 A, secondo cui «l’occhio spirituale comincia a vedere

con piena acutezza quando la forza delle pupille comincia a volgere in giù» – il sole dello spirito. [5] Per E. Bloch, Subjekt-

Objekt. Erläuterungen zu Hegel, cit., pp. 473-488 (trad. it. cit., pp. 495-512), Hegel sarebbe infatti vittima della «malìa dell’anamnesi», della teoria platonica per cui conoscere è ricordare. Nel

Fedone, infatti, Cebete dice a Socrate: «o Socrate, per quella dottrina, se è vera, di cui sei solito parlare così spesso, che ogni nostro apprendimento non è altro in realtà che reminescenza (anamnesis); anche per cotale dottrina si dovrà pur ammettere che noi si sia appreso in un tempo anteriore quello di cui oggi ci

ricordiamo» (Plato, Phaedo, 72 E). Ma su questa dubbia interpretazione blochiana si veda più avanti, pp. 221-222. [6] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 232 (trad. it. cit., vol. I, pp. 272273). [7] Cfr. A. Gerbi, La disputa

del nuovo mondo. Storia di una polemica 1750-1900, Milano-

Napoli, 1955, pp. 153 ss. Sulla concezione che Hegel aveva dell’America (settentrionale e meridionale) cfr. S. Rodeschini, Costituzione e popolo, cit., pp. 251-256, mentre sulle fonti hegeliane sul mondo extra-europeo, cfr. G. Bonacina, Note sulla filosofia della storia di Hegel a proposito di Australia, America

e Africa, in «Quaderni di storia», XXIX (lugliodicembre 2003), pp. 17-66. Sul rapporto tra geografia e storia, cfr. invece Pietro Rossi, Storia universale e geografia in Hegel, Firenze, 1975. [8] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie a cura di K.L. Michelet, in Werke, cit., voll. XIII-XV,

Berlin, 1840-1844, 2ª ed., vol. XIII, pp. 116, 66 (trad. it. di E. Codignola e G. Sanna Lezioni sulla storia della filosofia, Firenze, 1967, rist., vol. I, pp. 115, 64). L’immagine dei filosofi «fannulloni» è riferibile alle parole di Callicle nella Repubblica di Platone, secondo cui il filosofo è un essere inutile che si separa dalla vita

politica, tipica degli adulti, per bisbigliare con tre o quattro ragazzi, un imbelle – insiste – che si può prendere impunemente a schiaffi (cfr. 484 D ss.). [9] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIV, p. 465 (trad. it. cit., vol. II, p. 493). Il passo è riferito alle proteste di Catone il Censore contro la

corruzione degli antichi costumi a cui porterebbe l’introduzione della filosofia greca a Roma. [10] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 19 Z 3 (seguo l’edizione E. Moldenhauer e K.M. Michel della Grande Enciclopedia o System der Wissenschaft, quella cioè che comprende

oltre al testo e alle note – Anmerkungen, indicate con A – dell’edizione 1830 tradotta in Italia dal Croce, anche le preziose aggiunte – Zusätze, indicate con Z –, cfr. G.W.F. Hegel, Werke in zwanzig Bänden, a cura di E. Moldenhauer und K.M. Michel, Frankfurt a.M., 1970, voll. 8-10). Della Grande Enciclopedia esiste ora la

traduzione italiana delle prime due parti a cura di V. Verra: Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Parte prima, La scienza della logica, Torino, 1981 e Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Parte seconda, Filosofia della natura, Torino, 2002. Rispetto ai più famosi eretici del pensiero

filosofico, che vennero condannati a morte per le loro idee (come Socrate o Bruno), merita di essere ricordato il panteista Giulio Cesare Vanini (autore, fra l’altro, del poema Deo), bruciato vivo a Tolosa per ateismo nel 1619, noto a Hegel attraverso il manuale di storia della filosofia di Jakob Brucker, che lo definì

impietate nomine famigeratissimus (Historia critica philosophiae a tempore resuscitatarum in Occidente litterarum ad tempora nostra, Tomus IV, pars altera, Lipsiae, 1749, p. 185) e al quale Hölderlin dedicò una poesia che Schiller si rifiutò di pubblicare sulla sua rivista: «Empio osarono dirti? Con anatemi /

Oppressero il tuo cuore e ti legarono / E ti dettero alle fiamme, / O sacro uomo! […] Eppure quella che vivo amasti e che ti accolse / Morente, la sacra Natura si scorda / L’agire degli uomini, e i tuoi nemici / Tornarono come te nell’antica pace» (Hölderlin, Vanini, in Grosse Stuttgarter Hölderlinausgabe, a cura di F. Beissner, Stuttgart,

1943-77, vol. I, 1, p. 262, trad. it. di G. Vigolo, Vanini, in Hölderlin, Poesie, Torino, 1963, p. 32). Su Vanini sono da vedere L. Cornovaglia, Le opere di Giulio Cesare Vanini e le loro fonti, Roma, 1933-1934; G. Spini, Ricerca sui libertini, Roma, 1950; F. Politi, Il Vanini di Hölderlin, in «Quaderni», n. 10 (1988), pp. 265-281 e D.M. Fazio, Giulio Cesare Vanini

nella cultura filosofica tedesca del Sette Ottocento. Da Brucker a Schopenhauer, Lecce, 1995, pp. 58-61. [11] Hegel, Vorlesungen über

die Philosophie der Religion, a cura di Ph. Marheineke, in Werke, cit., voll. XI-XII, Berlin, 1832, vol. XII, p. 277. Si veda anche l’edizione dei Vorlesungsmanuskripte I, in Gesammelte Werke, in

connessione con la Deutsche Forschungsgemeinschaft a cura della RheinischWestfälische Akademie der Wissenschaften, Hamburg, 1968-, vol. 17, a cura di W. Jaeschke, Hamburg, 1987 e le Vorlesungen. Ausgewälte Nachschriften und Manuskripte, voll. 3-5, a cura di W. Jaeschke, Hamburg, 1983-1985, trad. it. a cura di

R. Garaventa e S. Achella in due volumi: G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, Napoli, 2003, 2008. Un’affermazione analoga si trova nella Prefazione alle Grundlinien der Philosophie des Rechts, a cura di J. Hoffmeister, Hamburg, 1955, p. 16, trad. it. di F. Messineo, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, 1965, p. 16:

«Riconoscere la ragione come la rosa nella croce del presente, e quindi godere di questa – tale riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà, che la filosofia consente a quelli, i quali hanno avvertito, una volta, l’interna esigenza di comprendere e di mantenere appunto, la libertà soggettiva in ciò che

è sostanziale e, al modo stesso, di stare nella libertà soggettiva, non come in qualcosa di individuale e di accidentale, ma in qualcosa che è in sé e per sé». Sul simbolismo rosacrociano e l’origine alchemica della rosa, cfr. F. Yates, The Rosacrucian Enlightment, London-Boston, 1972, pp. 65 ss. Per un’immagine visiva

della rosa che ha per stelo una croce, cfr. l’illustrazione in R. Fludd, Summum Bonum, Frankfurt a.M., 1626. Per la presenza di questa immagine in Hegel, cfr. G. Lasson, Kreuz und Rose – Ein Interpretationsversuch, in Beiträge zur Hegel-Forschung, Berlin, 1909 e K. Löwith, Von Hegel zu Nietzsche, ZürichWien, 1941, trad. it. di G.

Colli, Da Hegel a Nietzsche, Torino, 1949, pp. 47-48. [12] Cfr. K.L. Reinhold, Der

Geist des Zeitalters als Geist der Philosofie, in «Neuer Teutscher Merkur», edito da C.M. Wieland, fascicolo III, Weimar, 1801, pp. 167-193. [13] Hegel, Differenz des

Fichte’schen und Schelling’schen Systems der

Philosophie, in Jenaer kritische Schriften, a cura di H. Buchner e O. Pöggeler, in Gesammelte Werke, cit., p. 99, trad. it. di R. Bodei, Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Hegel, Primi scritti critici, Milano, 1971, pp. 80-81. [14] Cfr. K.R. Popper, The

Open Society and Its Enemies, London, 19666, trad. it. di R.

Pavetto, a cura di D. Antiseri, La società aperta e i suoi nemici, Roma, 1973, vol. II, p. 76. [15]

Cfr. V. Cousin, Souvenirs d’Allemagne, in «Revue des Deux Mondes», XXXVI (1866), pp. 616, 618: «egli era, come me, pervaso dallo spirito nuovo: considerava la Rivoluzione francese come il più grande

passo che avesse fatto il genere umano dopo il cristianesimo e non cessava di interrogarmi sulle cose e sui personaggi di questa grande epoca. Egli era profondamente liberale, senza essere minimamente repubblicano. Alla pari di me, considerava la repubblica come necessaria forse per abbattere l’antica

società, ma incapace di servire alla creazione di quella nuova, e non separava la libertà dalla monarchia […] Non dissimulava le sue simpatie per i filosofi del secolo scorso, perfino per quelli che avevano più combattuto la causa del cristianesimo e della filosofia spiritualista. Come Goethe, li difendeva

fino a Diderot, e mi diceva qualche volta: “Non siate così severo, sono les enfans perdus de notre cause”». Sui rapporti tra Hegel e Cousin cfr. P. Becchi, Hegel e Cousin. Storie di plagi e di censure, in «Verifiche», XXIII (1994) n. 3, luglio-dicembre, pp. 211-235. Su altri enfants perdus de notre cause, cfr. J.-C. Bourdin, Hegel et les matérialistes

français du XVIIIe siècle, Paris, 1992. Per contrasto, sempre restando nell’ambito della storia della filosofia, si veda il giudizio di un contemporaneo, il Tennemann, che nella sua Geschichte der Philosophie, Leipzig, 1798-1818, vol. XI, pp. 312 ss., accusa i philosophes di «immoralità, leggerezza, gusto dei piaceri,

vanità, frivolezza, avida ricerca della novità e del brillante» (cfr. R. Mortier, Diderot en Allemagne, 17501850, Paris, 1954, pp. 176177). Sul contributo della filosofia alla Rivoluzione francese, ancora valido D. Mornet, Les origines intellectuelles de la Révolution française, Paris, 1933. Sugli scritti di Weil, Ritter, De

Giovanni, Racinaro, a proposito del rapporto Hegel-Rivoluzione francese, rinvio a R. Bodei, Studi sul pensiero politico ed economico di Hegel nell’ultimo trentennio, in «Rivista critica di storia della filosofia», XXVII (1972), pp. 476 ss. e a C. Cesa Hegel e la Rivoluzione francese, in «Rivista critica di storia della filosofia», XXVIII (1973), pp.

176 ss. [16] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, pp. 460-461 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 243). [17] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 925 (trad. it. cit., vol. IV, p. 204). [18] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, a cura di W.

Bonsiepen e R. Heede, in Gesammelte Werke, cit., vol. 9, Hamburg, 1980, p. 316, trad. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, Firenze, 1963, vol. II, p. 124. Esistono oggi altre buone traduzioni italiane della Fenomenologia dello spirito (quella tradotta da V. Cicero e curata da E. Arrigoni, Roma, 2000, e quella

tradotta e curata da G. Garelli, Torino, 2008), ma la traduzione di Enrico De Negri – che seguo, confrontandola eventualmente con le altre – continua a mantenere il suo fascino, malgrado qualche arcaismo linguistico. [19] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenscheften, § 394 Z.

[20]

Hegel, Jenenser Realphilosophie II, a cura di J. Hoffmeister, Leipzig, 1931, pp. 246-248, trad. it. di G. Cantillo, Filosofia dello spirito jenese, Bari, 1971, pp. 185-187 [poiché la traduzione italiana dei testi jenesi è condotta sulle edizioni della Jenenser Realphilosophie I e II, non ho ritenuto utile riferirmi alle più recenti

edizioni degli Jenaer Systementwürfe I, a cura di K. Düsing e H. Kimmerle, in Gesammelte Werke, cit., vol. 6, Hamburg, 1975; degli Jenaer Systementwürfe II, a cura di R.-P. Horstmann e J.H. Trede, in Gesammelte Werke, cit., vol. 7, Hamburg, 1971 e degli Jenaer Systementwürfe III, a cura di R.-P. Horstmann in collaborazione con J.H.

Trede, in Gesammelte Werke, cit., vol. 8, Hamburg, 1976]. Cfr. ibid., p. 248 (trad. it. cit., p. 187): «La tirannia viene abbattuta dai popoli, perché sarebbe insopportabile, infame ecc.; in effetti però solo perché superflua […] Il tiranno se fosse saggio deporrebbe egli stesso la sua tirannia, non appena è superflua; così invece la sua

divinità è solo la divinità dell’animale, la necessità cieca». È qui avvertibile l’eco lontana dello Ierone di Senofonte, del dialogo fra il tiranno siracusano e il poeta Simonide, cfr. L. Strauss, De la tyrannie… suivi de Tyrannie et sagesse par Alexandre Kojève, Paris, 1954 (trad. it. di D. De Pretto, Sulla tirannide, Milano, 2010). Per

la valutazione hegeliana del terrore rivoluzionario, cfr. D. Grlic, Revolution und Terror, in «Praxis», VIII (1971), pp. 4961. [21] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 321 (trad. it. cit., vol. II, p. 132). [22] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichie der Philosophie, cit., vol. XV, p. 467 (trad. it.

cit., vol. III, 2, p. 250). Cfr. Hegel, Auszäge und Bemerkungen, in Berliner Schriften, a cura di J. Hoffmeister, Hamburg, 1956, p. 693: «È ridicolo voler sminuire i tedeschi perché hanno imitato molto, non avrebbero imitato se avessero potuto produrre di meglio». [23] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 462 (trad. it. cit., vol. III, 2, pp. 244-245). [24] Hegel, Vorlesungen über

die Philosophie der Religion, a cura di G. Lasson, Leipzig, 1927-1930, vol. II, p. 37 (trad. it. di G. Borruso a cura di E. Oberti, Lezioni sulla filosofia della religione, vol. I, Bologna, 1973, p. 370).

[25] Jean Paul an seinen Sohn

Max, 20 febbraio 1821, in Jean Paul, Sämtliche Werke, a cura della Deutsche Akademie der Wissenschaften zu Berlin, sezione III, Briefe, a cura di E. Berend, Berlin, 1952 ss., vol. VIII, p. 96. [26] Hegel, Differenz des

Fichte’schen und Schelling’schen Systems der

Philosophie, cit., p. 80 (trad. it. cit., p. 98). Cfr. in G. Politzer, Écrits, Paris, 1969, pp. 2 ss., l’accenno a una «fenomenologia dei lumi» in Hegel. [27] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., pp. 14-15 (trad. it. cit., vol. I, pp. 8-9). [28] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie,

cit., vol. XIII, p. 69 (trad. it. cit., vol. I, p. 67). [29] Cfr. Hegel, Grundlinien

der Philosophie des Rechts, cit., integrata per gli Zusätze dall’edizione Gans, cfr. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, a cura di E. Gans, in Werke, cit., vol. VIII, Berlin, 18402, § 280 Z (trad. it. cit., p. 383).

[30] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, p. 69 (trad. it. cit., vol. I, p. 67). Queste affermazioni hegeliane contrastano con l’interpretazione che Althusser dà del ruolo della filosofia in Hegel: cfr. L. Althusser e É. Balibar, Lire le Capital, Paris, 1965, trad. it. di R. Rinaldi e V. Oskian,

Leggere il Capitale, Milano, 1968, pp. 101-102: «Il presente costituisce in effetti l’orizzonte assoluto di ogni conoscenza poiché ogni conoscenza non è mai altro che l’esistenza, nella conoscenza, del principio interiore del tutto. La filosofia, pur spingendosi il più avanti possibile, non supera mai i confini di

questo orizzonte assoluto: anche se si innalza a volo, la sera appartiene ancora al giorno, all’oggi, essa non è altro che il presente riflesso su di sé, riflesso sulla presenza del concetto a sé: il domani, per essenza, gli è proibito». [31] Hegel, Vorlesungen über

Rechtsphilosophie, 1818-1831, Edition und Kommentar in

sechs Bänden von KarlHeinz Ilting, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1973-1974. I: Naturrecht und Staatswissenschaft, nach dem Vorlesungsmanuskript von C.G. Homeyer, 1818/19, Vorwort, pp. 232-234. Proprio perché – a differenza di tutte le altre lezioni berlinesi – esisteva un testo curato personalmente da Hegel (le

Grundlinien der Philosophie des Rechts, fatta stampare da Hegel nel 1820 e pubblicata con data 1821), i quaderni d’appunti degli scolari sui corsi di filosofia del diritto non vennero allora mai pubblicati. L’edizione Ilting di tali corsi del 1817-1818 [Hegel, Die Philosophie des Rechts: d. Mitschr. Wannemann (Heidelberg

1817/18), a cura, con introduzioni e commenti di K.-H. Ilting, Stuttgart, 1983, trad. it. di P. Becchi, Napoli, 1993, con una lunga Nota editoriale, pp. 445-555; di questi testi e di quelli del 1818/1819 esiste anche un’altra edizione: Vorlesungen über Naturrecht und Staatswissenschaft, Heidelberg 1817/18 mit

Nachträgen aus der Vorlesung 1818/19 Nachgeschrieben von P. Wannemann, a cura di C. Becker, W. Bonsiepen, A. Gethmann-Siefert, F. Hogemann, W. Jaeschke, Ch. Jamme, H.-Ch. Lucas, K.R. Meist e H. Schneider, con una Introduzione di O. Pöggeler, Hamburg, 1983, che esiste ora anche in formato elettronico, assieme

ad altri corsi hegeliani di diverso argomento), del 1818/1819, del 1822/1823, del 1824/1825 e delle due prime lezioni del novembre 1831 (cfr. Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie 1818-1831, cit.] riserva però alcune sorprese: il taglio politico e teorico di queste lezioni è molto più aperto e battagliero rispetto al testo

del 1821, e l’accento cade più sul necessario realizzarsi della ragione, contro ogni privilegio e ritardo nella realtà storica, che non sul rispetto dovuto alla Wirklichkeit. Tutto ciò ripropone in un’altra luce il senso della Filosofia del diritto del 1821, che diventa così solo una delle diverse formulazioni berlinesi, e si

rivela condizionata da una precisa situazione storica. Lo sforzo dello Ilting, sebbene guidato talvolta da una preoccupazione francamente eccessiva di dare a Hegel un volto liberale e progressista (cfr. anche K.-H. Ilting, The Structure of Hegel’s Philosophy of Right, in Hegel’s Political Philosophy. Probleme and

Perspectives a cura di Z.A. Pelczynsky, Cambridge, 1971, pp. 90-110), permette tuttavia di affrontare in maniera nuova la tematica politica hegeliana. Oltre all’edizione Ilting è stato pubblicato il corso della Filosofia del diritto del 1819/20: Philosophie des Rechts. Die Vorlesung von 1819/20 in einer Nachschrift, a

cura di D. Henrich, Frankfurt a.M., 1983. Parti di questi corsi sono stati tradotte da D. Losurdo in G.W.F. Hegel, Le filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale, Milano, 1989. [32] Hegel, Vorlesungen über

die Aesthetik, cit., vol. X1, p. 15 (trad. it. cit., p. 15). [33] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., pp. 766767 (trad. it. cit., vol. IV, pp. 14-15). Interessanti analisi della concezione che Hegel ha del mondo romano si trovano in G. Bonacina, Hegel, il mondo romano e la storiografia. Rapporti agrari, diritto, cristianesimo e tardo antico, Firenze, 1991 e in V.R. Lozano, La vieja Roma en el joven Hegel, Madrid, 2011, in

particolare pp. 151-161. Malgrado sia evidente – come è stato spesso osservato – che il paragone tra Grecia e Roma sia in Hegel completamente sbilanciato a favore della Grecia, Arnaldo Momigliano ha rivendicato la fecondità dell’interpretazione hegeliana della storia di Roma, cfr. Sui fondamenti

della storia antica, Torino, 1984, p. 181. Tra i grandi personaggi di Roma, non sempre apprezzati, campeggia però Giulio Cesare, cfr. F. Biasutti, L’occhio del concetto. Pensiero e trasparenza della storia in Hegel, Pisa, 2002, pp. 137-156. [34]

Su questa famosa espressione vedi più avanti, pp. 69-70.

[35] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIV, p. 170 (trad. it. cit., vol. II, p. 177). [36] Hegel an Schelling, fine

gennaio 1795, in Briefe von und an Hegel a cura di J. Hoffmeister (voll. I-III) e R. Flechsig (vol. IV), Hamburg, 1952-1960, vol. I, p. 18, trad. it. di P. Manganaro, G.W.F. Hegel, Epistolario 1785-1808,

vol. I, Napoli, 1983, p. 11. [37] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 676 (trad. it. cit., vol. IV, p. 14). [38] Ibidem, p. 881 (trad. it.

cit., vol. IV, p. 151). Cfr. ibid., p. 914 (trad. it. cit., vol. IV, p. 190). [39] Ibid., p. 871 (trad. it.

cit.; vol. IV, p. 139).

[40] Ibid., p. 855 (trad. it.

cit., vol. IV, p. 120). [41] Ibid., p. 871 (trad. it.

cit., vol. IV, p. 139). [42] Ibid., p. 870 (trad. it.

cit., vol. IV, p. 138). [43] Ibid., pp. 875-876 (trad.

it. cit., vol. IV, pp. 143-144). [44] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie,

cit., vol. XV, p. 240 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 2). Questa immagine degli stivali delle sette leghe, che risale a Perrault e alla tradizione popolare, era stata resa d’attualità nel 1813 dal racconto di Chamisso, Peter Schlemihls wundersame Geschichte (trad. it. Storia straordinaria di Peter Schlemihl, Firenze-Viterbo,

1997). [45] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 884 (trad. it. cit., vol. IV, pp. 154155). [46] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 485 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 268). [47] Ibid., vol. XV, p. 250

(trad. it. cit., vol. III, 2, p. 13).

Cfr. ibid., vol. XIV, pp. 170171 (trad. it. cit., vol. II, p. 178). [48] Hegel, Vorlesungen über

die Aesthetik, cit., vol. X1, pp. 248-249 (trad. it. cit., pp. 220, 219). [49] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, cit., § 260 (trad. it. cit., p. 218). [50] Ibid., pp. 190, 191, 193

(trad. it. cit., pp. 169, 171). [51] Cfr. Hegel, Philosophie

der Weltgeschichte, cit., p. 932 (trad. it. cit., vol. IV, p. 212): «La restaurazione della monarchia non poté portare la pace in Francia. Si manifestò di nuovo il contrasto tra il convincimento e la diffidenza. I Francesi s’ingannavano

reciprocamente, quando componevano indirizzi pieni di devozione e amore per la monarchia, per i benefizî da essa arrecati. La farsa durò quindi anni». Dalla fusione di due affermazioni hegeliane Marx ha tratto la sua famosa tesi secondo cui «tutti i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire,

due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa» (Marx, Der achtzehnter Brumaire des Louis Bonaparte, in Marx-Engels, Werke (MEW), Berlin, 19531990, vol. 8, trad. it. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, 2006, p. 19). [52] Hegel, Vorlesungen über

die Aesthetik, cit., vol. X2, p.

231 (trad. it. cit., p. 676). Sullo humour, ma in rapporto a Jean Paul e al Divano occidentale-orientale di Goethe, cfr. A. GethmannSiefert, Einführung in Hegels Aesthetik, München, 2005, pp. 340-347. Con lo humour si acquista per Hegel una maggiore intimità con se stessi (Verinnigung), cfr. T. Pinkard, Hegel’s Naturalism.

Mind, Nature, and the Final Ends of Life, Oxford, 2012, p. 79. Tale maggiore intimità, aggiungo, deriva anche dal vedersi distaccati dagli eventi, perché si è acuita e consumata, fino a prenderne le distanze, la condizione del cristiano in quanto «anfibio» costretto a vivere in due mondi separati, quello terreno, reale con tutti i suoi

conflitti e meschinità, e quello celeste, frutto di speranza. [53] Hegel, Vorlesungen über

die Aesthetik, cit., vol. X3, pp. 527-528 (trad. it. cit., pp. 1336-1337). La tragedia moderna è invece caratterizzata dal prevalere di fini soggettivi piuttosto che dalla collisione delle potenze etiche: «in generale

nella tragedia moderna gli individui non agiscono in vista del lato sostanziale dei loro fini né questo è ciò che si afferma come impulso nella loro passione, bensì è la soggettività del loro cuore e animo, la particolarità del loro carattere quella che preme per essere soddisfatta» (ibid., vol. X3, p. 566, trad. it. cit., p. 1368). Per

alcune considerazioni sul declino dell’eroe in tempi moderni, cfr. R. Bonito Oliva, Fratture e ricomposizioni. Eroi e uomini in cerca di qualità, in Labirinti e costellazioni. Un percorso ai margini di Hegel, Milano-Udine, 2008, pp. 4152. [54] Ibid., vol. X3, p. 580

(trad. it. cit., p. 1380). Anche in questo caso si può

riconoscere nelle parole di Marx l’eco della lezione di Hegel: «Gli dèi della Grecia, che già una volta erano stati feriti a morte nel Prometeo incatenato di Eschilo, dovettero ancora una volta morire comicamente nei Dialoghi di Luciano. Perché la storia procede così? Affinché l’umanità si separi serenamente dal suo passato»

(Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, in MEW, cit., vol. 1, trad. it. Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Id., La questione ebraica, Roma, 1991, p. 55). [55] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 250 (trad. it. cit., vol. III, 2, pp. 13-14).

[56] Ibid., p. 249 (trad. it.

cit., vol. III, 2, p. 12). [57] Ibid., p. 82 (trad. it. cit.,

vol. III, 1, pp. 89-90). Nelle Vorlesungen über die Philosophie der Religion (1821), nuova ed. a cura di W. Jaeschke, 3 voll. Hamburg, 1993-1995, vol. 3, pp. 96-97, Hegel si serve di un altro paragone e dice che la «filosofia è un santuario

separato» e i suoi inservienti (Diener) formano un ceto sacerdotale isolato, che non si mescola con il mondo e ha il compito di custodire la verità. [58] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 15 (trad. it. cit., vol. I, p. 9). [59] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, Z zur

Vorrede (trad. it. cit., p. 302). [60] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 19 Z 3. [61] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichie der Philosophie, cit., vol. XV, p. 552 (trad. it. cit., vol. III, 2, pp. 340-341). [62] Hegel, Vorlesungen über

die Aesthetik, cit., vol. X2, p. 118 (trad. it. cit., p. 580).

[63] Ibid., vol. X1, pp. 193 ss.

(trad. it. cit., pp. 171 ss.). Che il presente fosse un’epoca prosaica era un concetto sviluppato soprattutto da Goethe nelle Geistesepochen. [64] Hegel, Vorlesungen über

die Aesthetik, cit., vol. X2, pp. 216-217 (trad. it. cit., pp. 663664). Sulla lotta delle individualità nel romanzo moderno secondo Hegel, cfr.

F. Rhöse, Konflikt und Versöhnung. Untersuchungen zur Theorie des Romans von Hegel bis zum Naturalismus, Stuttgart, 1978, pp. 18 ss. [65] Hegel, Differenz des

Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie, cit., p. 14 (trad. it. cit., p. 15). [66] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 13 (trad. it. cit., vol. I, p. 7). [67] Hegel, Vorlesungen über

die Aesthetik, cit., vol. X1, p. 42 (trad. it. cit., p. 40). [68] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 396 Z. [69] Hegel, Über das Wesen

der philosophischen Kritik überhaupt, in Jenaer kritische

Schriften, cit., p. 126. [70] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 396 Z. [71]

«L’esser maturi è tutto» (ripeness is all; W. Shakespeare, King Lear, V, II, v. 11). [72] Hegel an Windischmann,

27 maggio 1810, in Briefe, cit., vol. I, pp. 314-315 (trad. it. di

P. Manganaro [e G. Raciti], G.W.F. Hegel, Epistolario 1808-1818, Napoli, 1988 [= vol. 2], pp. 90-91). Questa «crisi di ipocondria», durata «un paio d’anni», probabilmente tra il 1796/1797 e il 1799, è importante da analizzare perché «ha durevolmente inciso sul carattere di Hegel e dunque sulla sua opera» (P.

Osmo, Présentation à K. Rosenkranz, Vie de Hegel suivi de Apologie de Hegel contre le docteur Haym, Paris, 2004, pp. 12-13). Hegel ne aveva parlato anche con il suo discepolo Gabler, dicendo che «chiunque ha in sé qualcosa di più, una volta nella vita deve passare attraverso una ipocondria, durante la quale si dissocia dal

suo mondo precedente e dalla sua natura inorganica» (F. Rosenzweig, Hegel und der Staat, München-Berlin, 1920, trad. it. di A.L. Künkler Giavotto e R. Curino, Introduzione di R. Bodei, Hegel e lo Stato, Bologna, 1976, p. 115). Sul tema, cfr. R. Bonito Oliva, Coscienza, inconscio, follia. Osservazioni intorno alla «Filosofia dello spirito jenese di

Hegel», in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche», XC (1979), pp. 383-407; G. Severino, Inconscio e malattia mentale in Hegel, Genova, 1983 e F.A. Iannaco, Hegel in viaggio da Atene a Berlino. La crisi di ipocondria e la sua soluzione, Roma, 1997, pp. 92114. Dell’ipocondria Hegel aveva trattato nel corso sulla

filosofia dello spirito del semestre invernale 18271828, definendola «sensazione della propria negatività, della propria debolezza […] questa melanconia è spesso congiunta all’impulso suicida, così che la volontà non può imporsi all’impulso, e, se non porta a termine il fatto, accade solo perché

viene ostacolato da altri» (Hegel, Vorlesungen über Philosophie des Geistes (182728), trascrizione a cura di J.E. Erdman e F. Walter [Hegel, Vorlesungen, vol. XIII], Hamburg, 1994, p. 89, trad. it. di R. Bonito Oliva, Lezioni sulla filosofia dello spirito: Berlino, semestre invernale 1827-28, Milano, 2000, p. 195).

[73] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 408 Z. [74] Schelling, Philosophie

der Offenbarung, in Werke, a cura di M. Schröter, München, 1927 ss., volume suppl. VI, p. 299, trad. it. di A. Bausola, Filosofia della rivelazione, Bologna, 1972, vol. I, pp. 378-379.

[75] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 408 Z. Hegel segue qui sostanzialmente le posizioni di Pinel. Cfr. Ph. Pinel, Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale ou la manie, Paris, 1801. Le posizioni di Pinel sono contrapposte da Hegel a quelle, che non gli paiono

all’altezza, di J.C. Reil, Rhapsodien über Anwendung der psychischen Kurmethode auf Geisteszerrüttungen, Halle, 1803, cfr. Hegel, Vorlesungen über Philosophie des Geistes (1827-28), cit., p. 86 (trad. it. cit., p. 193). Sulle cognizioni che Hegel aveva di problemi legati alla psichiatria, cfr. i cenni di H.-Ch. Lucas, Die «souveräne Undankbarkeit» des

Geistes gegenüber der Natur. Logische Bestimmungen, Leiblichkeit, animalische Magnetismus und Verrücktheit in Hegels «Anthropologie», in Psychologie und Anthropologie oder Philosophie des Geistes, Beiträge zu einer HegelTagung in Marburg 1989, a cura di F. Hespe e B. Tuschling, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1991, pp. 269-296

e, più dettagliatamente, da D. Berthold-Bond, Hegel’s Theory of Madness, Albany, 1995. [76] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 408 Z. [77] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 408 Z. Cfr. Hegel, Vorlesungen über die

Aesthetik, cit., vol. X1, p. 62 (trad. it. cit., p. 57): «L’uomo può rappresentarsi cose che non sono reali come se lo fossero». [78] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 408 Z. [79] Ibid. [80] Hegel, Vorlesungen über

Philosophie des Geistes (1827-

28), cit., p. 85 (trad. it. cit., p. 191). [81] Cfr. R. Bodei, Politica e

tragedia in Hölderlin, in «Rivista di estetica», XIV (1969), pp. 382-412. Molto si è scritto e si è discusso, anche a livello psichiatrico, sulla follia di Hölderlin. Egli ha indubbiamente continuato a scrivere magnifiche poesie, ma non

ha certo finto di essere pazzo, come ha sostenuto, seppur con raffinati argomenti, F. Bertaux in Friedrich Hölderlin, Frankfurt a.M., 1978 (su cui si vedano le critiche di U. Henrik, Hölderlin. Wider die These vom edlen Simulanten, Reinbek b.H., 1982). È, invece, più giusto sostenere che «il pensatore era già distrutto

quando il poeta era ancora sano» (R. Haym, Die romantische Schule, Berlin, 19143, trad. it. La scuola romantica, Milano-Napoli, 1965, p. 354). Sul senso che il termine «giacobino» aveva tra i giacobini tedeschi, cfr. Ch. Prignitz, Friedrich Hölderlin. Die Entwicklung seines politischen Denkens unter dem Einfluß der

Französischen Hamburg, 1976. [82]

Revolution,

Sulla figura di Christiane Hegel, cfr. A. Birkert, Auf den Spuren einer ungewöhlichen Frau um 1800, Ostfildern, 2008 e P. Kriegel, Eine Schwester tritt aus dem Schatten. Überlegungen zu einer neuen Studien über Christiane Hegel, in «HegelStudien», 45 (2010), pp. 19-

34. Della malattia della sorella, Hegel parla in una lettera del 31 marzo 1820 al cugino Friedrich Ludwig Göritz, cfr. Ein unbekannter Brief Hegels an Friedrich Ludwig Göritz, comunicata da B. Kortländer, in «HegelStudien», 24 (1989), pp. 9-13 e di lei si occupa, trattando argomenti legati alla quotidianità, in una delle

poche altre lettere salvate, quella del 21 agosto 1825, cfr. «An Madamoiselle Christiane Hegel». Ein unveröffentlicher Brief Hegels und ein Briefkonzept des Dekans Göritz, comunicata e illustrata da H.-Ch. Lucas, in «Hegel-Studien», 22 (1987), pp. 9-16. Sull’amore puro tra sorelle teorizzato da Hegel a proposito di Antigone, cfr.

H.-Ch. Lucas, Zwischen Antigone und Christiane. Die Rolle der Schwester in Hegels Biographie und Philosophie und in Derridas «Glas», in «HegelJahrbuch», 1984/85 [1988], pp. 409-442. [83] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 473 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 257). Sul senso della Wirklichkeit in

Hölderlin, cfr. R. Bodei, Politica e tragedia in Hölderlin, cit., e Id., Hölderlin: la filosofia e il tragico, Saggio introduttivo a Hölderlin, Sul tragico, a cura di R. Bodei, nuova edizione riveduta e ampliata, Milano, 1989 e, sul rapporto tra Hegel e Hölderlin, D. Henrich, Hegel und Hölderlin, in Id., Hegel im Kontext, Frankfurt a.M., 2010,

pp. 9-40. Per la carriera esemplare del «girella» emerito dell’epoca e per le sue motivazioni storiche, cfr. D. Cooper, Talleyrand, trad. it. di M. Vinciguerra, Milano, 19742; R. Calasso, La rovina di Kash, Milano, 19832, e G. Ferrero, Tayllerand a Vienna, a cura di S. Romano, Milano, 1999. [84] K. Rosenkranz, Hegels

Leben, cit., Urkunden, p. 519. [85] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, cit., § 20 A (trad. it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Bari, 19513, p. 31). [86] Ibid., § 81 A (trad. it.

cit., p. 87). Con il concetto di «dialettica negativa», Adorno non fa altro – in

parte senza rendersene conto del tutto e confondendo la «dialettica» di Hegel con la «speculazione» – che riprendere a modo suo l’autentica idea hegeliana di «dialettica»; rimando, per un inquadramento, a R. Bodei, Strappare il vero dal falso, introduzione a Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel,

Frankfurt a.M., 19712 (ora anche in Gesammelte Schriften in zwanzig Bänden, Frankfurt a.M., 2003, vol. 5), trad. it. di F. Serra, rev. di G. Zanotti, Tre studi su Hegel, Bologna, 2014, pp. 7-26. Per una interpretazione della dialettica e del metodo dialettico in Hegel dal punto di vista della filosofia analitica, cfr. F. Berto, Che

cos’è la dialettica. Un’interpretazione analitica del metodo, Prefazione di D. Marconi, Padova, 2005. [87]

Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 82 (trad. it. cit., pp. 31-32). [88] Hegel, Wissenschaft der

Logik, a cura di G. Lasson, Leipzig, 19512, rist., vol. II, p.

58 (trad. it. di A. Moni, revis. di C. Cesa, Scienza della logica, Bari, 1968, vol. II, pp. 490491). [89] Ibid., p. 59 (trad. it. cit.,

p. 492). Per un primo inquadramento, cfr. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, Lewiston, 1992. [90]

Cfr.

W.

Sellars,

Empiricism and the Philosophy of Mind, Cambridge, Mass., 2000, trad. it. Empirismo e filosofia della mente, Torino, 2004 (con Introduzione di R. Rorty); R.B. Brandom, Making it Explicit. Reasoning, Representing and Discursive Commitment, Cambridge, Mass., 1994, e si veda S. Poggi, Attraversare il confine: Interno, esterno, intenzionalità.

Ancora su Brandom interprete di Hegel, in AA.VV., Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti, Milano-Udine, 2009, pp. 303 ss. [91] Cfr. più avanti, pp. 118-

119. [92] Hegel, Vorlesungen über

die Philosophie der Weltgeschichte (trad. it. cit., vol. I, p. 153).

[93] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 393 Z. [94] Hegel, Vorlesungen über

Aesthetik, cit., vol. X1, p. 211 (trad. it. cit., p. 182). [95] Ibid., vol. X1, p. 221

(trad. it. cit., p. 182). [96] Cfr. R. Bodei, Il primo

romanticismo come fenomeno storico e la filosofia di Solger

nell’analisi di Hegel, in «autaut», n. 101, 1967, pp. 3-15 e J. Reid, L’anti-romantique. Hegel contre le romantisme ironique, Québec Ville, 2007. [97] M. Foucault, La folie,

l’absence d’œuvre, in «La table ronde», n. 196 (1964), pp. 1121, inserito poi in appendice alla nuova edizione dell’Histoire de la folie à l’âge classique, Paris, 1976, trad. it.

La follia, l’assenza d’opera. Storia della follia nell’età classica, Milano, 1977, p. 628. Per un chiarimento del concetto di negazione nel contesto della Scienza della logica, cfr. Ch. Iber, Metaphysik absoluter Relationalität, Berlin, 1990, pp. 219-237. Sulla struttura dell’assoluto, V. Rühle, Verwandlung der Metaphysik.

Zur systematischen Darstellung des Absoluten bei Hegel, München, 1989. [98] Cfr. D. Trombadori,

Colloqui con Foucault (1978), Roma, 19992, p. 34; B. Gallagher e A. Wilson, Michel Foucault, an Interview. Sex, Power and Politics of Identity (1982), trad. it. Michel Foucault, un’intervista. Il sesso, il potere e la politica

dell’identità, in Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste, Milano, 1998, p. 298. [99] Tra le tante occorrenze

di questo tema, cfr., in rapporto alla follia, M. Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines (1966), trad. it. Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze

umane, Milano, 1988, p. 14: «la storia della follia sarebbe la storia dell’Altro – di ciò che, per una cultura, è interno e, nello stesso tempo, estraneo, e perciò da escludere (al fine di scongiurarne il pericolo interno) ma includendolo (al fine di ridurne l’estraneità); la storia dell’ordine delle cose sarebbe la storia del

Medesimo – di ciò che, per una cultura, è a un tempo disperso e imparentato, e quindi da distinguere mediante contrassegni e da unificare entro identità». Si vedano, inoltre, G. Deleuze, Différence et répétition, Paris, 1968, trad. it. Differenza e ripetizione, Bologna, 1971; Id., Logique du sens, Paris, 1969, trad. it. La logica del senso,

Milano, 1975; G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie, Paris, 1972, trad. it. L’AntiEdipo. Capitalismo e schizofrenia, Torino, 1975; G. Deleuze e F. Guattari, Rhizome, Paris, 1976, trad. it. Rizoma, Parma, 1977. [100] Sul senso di questa

espressione, cfr. F. Hespe, «Die Geschichte ist der

Fortschritt im Bewußtsein der Freihheit». Zur Entwicklung von Hegels Philosophie der Geschichte, in «HegelStudien», 26 (1991), pp. 193211. [101] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 15 (trad. it. cit., vol. I, p. 9). Cfr. la risonanza di questo tema in Heine, nella prefazione del 1851 alla terza edizione dei

Neue Gedichte: «È una strana e fortunata creatura il poeta; egli vede i boschi di querce che ancora sonnecchiano nella ghianda, e conversa con le generazioni che ancora devono nascere». Anche il filosofo vede con Hegel in una ghianda o in una «culla» il mondo nuovo che sta per sorgere. [102] Shakespeare, Hamlet,

atto I, scena V, trad. it. di G. Baldini, Amleto, in Shakespeare, Opere complete. III: Tragedie, Milano, 1963, p. 716. Su questa metafora shakespeariana, cfr. H. Granville-Barker, Prefaces to Shakespeare. III Series: Hamlet, London, 1951, trad. it. di G. Brunacci, Introduzione all’Amleto, Bari, 1959, p. 55. Come mezzo di contrasto, si

può osservare quanto diversa sia l’immagine della talpa in Schopenhauer, dove rappresenta il cieco avanzare senza scopo degli uomini: «Si consideri per esempio la talpa, questa infaticabile lavoratrice. Scavare faticosamente con le sue enormi zampe a paletta – è l’occupazione di tutta la sua vita, la circonda

la notte perpetua: essa ha i suoi occhi embrionali solo per sfuggire la luce. Essa soltanto è un vero animal nocturnum, non lo sono i gatti, le civette e i pipistrelli, che di notte ci vedono. Ma cosa ottiene poi la talpa per questa vita stentata e vuota di gioia? Cibo e accoppiamento: cioè solo mezzi per proseguire lo

stesso triste cammino, e per incominciare da capo in un nuovo individuo» (Die Welt als Wille und Vorstellung, in Sämtliche Werke, a cura di A. Hübscher, Wiesbaden, 19723, vol. II, pp. 403-404, trad. it. di S. Giametta, Il mondo come volontà e rappresentazione, Supplementi al libro II, cap. 28, Milano, 2006, p. 1665).

[103] Cfr. Herder, Auch eine

Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit (1774), in Sämtliche Werke, a cura di B. Suphan, Berlin, 1884 ss., trad. it. di F. Venturi, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, Torino, 19712, p. 6, e Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 319; B 375-376 in Kants Gesammelte Schriften,

Akademie-Ausgabe, BerlinLeipzig, poi Berlin, 1900 ss., vol. V, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, revis. di V. Mathieu, Critica della ragion pura, Bari, 1966, vol. II, p. 303. [104]

Nietzsche, Morgenröthe, in Kritische Gesamtausgabe, Werke, a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin, 1964-, vol. V/1, Berlin,

1971, pp. 3, 44, trad. it. Aurora, in Aurora e Frammenti postumi (1879-1881), in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. V/1, Milano, 1964, pp. 3, 36. [105] Cfr. N. De Domenico,

La talpa e il folletto. Apologia della doppiezza ed elogio della poiesis in Marx, in AA.VV., Marx e i suoi scritti, Urbino,

1987, pp. 71-93. [106] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. II, p. 58 (trad. it. cit., vol. II, pp. 490491). Sulla natura della contraddizione, da diversa prospettiva, cfr. le interpretazioni di S. Landucci, La contraddizione in Hegel, Firenze, 1978; K. Düsing, Identität und Widerspruch. Untersuchungen

zur Entwicklung der Dialektik Hegels, in «Giornale di Metafisica», n.s., 6 (1984), pp. 315-358; J.-L. Vieillard-Baron, Le dévenir logique: négativité et contradiction, in Hegel. Scienza della logica, numero speciale di «Teoria», XXXIII (2013), n. 1, pp. 49-68. [107] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, cit., § 236 A (trad. it. cit., p. 201).

[108] Questo è il senso del

rapporto necessità-libertà in Hegel. Non rispetto passivo della necessità cieca e inconsapevole (che è poi il risultato resosi autonomo dell’agire di tutti), ma dominio e rettificazione del suo movimento mediante il sapere e l’azione che ne deriva. La libertà non è quindi soltanto coscienza

della necessità immediata e suo assecondamento, ma è dominio di essa nel riconoscimento della sua razionalità. [109]

Hegel,

Vorlesungen

über die Aesthetik, cit., vol. X1, p. 128 (trad. it. cit., p. 115). [110] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 246 Z. Da

un altro punto di vista, sulla natura del «pensiero oggettivo», specie nella Scienza della logica, si vedano i saggi raccolti nel fascicolo di «Verifiche», XXXVI (2007), n. 1-4, dedicato al tema L’oggettività del pensiero. La filosofia di Hegel tra idealismo, anti-idealismo e realismo, a cura di L. Illetterati e con prefazione di F. Chiereghin.

[111]

Hegel, Rede zum Antritt des philosophischen Lehramtes an der Universität Berlin, in Berliner Schriften, cit., p. 19. [112] Hegel, Einleitung in die

Geschichte der Philosophie, a cura di J. Hoffmeister, Hamburg, 1959, pp. 41-42. [113]

über

Hegel, Vorlesungen die Geschichte der

Philosophie, cit., vol. XV, p. 624 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 418). [114]

Marx e Engels, Manifest der Kommunistischen Partei, in MEW, cit., vol. IV, p. 480 (trad. it. di E. CantimoriMezzomonti, Manifesto del partito comunista, Torino, 19706, p. 155). [115] Hegel an Niethammer,

28 ottobre 1808, in Briefe, cit., vol. I, p. 253, trad. it. cit., vol. I, p. 375 e cfr. Hegel, Aphorismen aus der Jenenser Periode, in K. Rosenkranz, Hegels Leben, cit., Urkunden, p. 540, trad. it. di C. Vittone [che, ripubblicandoli (Monza, 2006, pp. 29-94), vi aggiunge una densa Introduzione], Premessa di R. Bodei, Aforismi jenensi (Hegels Wastebook

1803-1806), Milano, 1981, p. 76 nota 80: «La filosofia governa le rappresentazioni e queste governano il mondo. Essa è il suo strumento infinito, dopo vengono fuori baionette, cannoni, corpi, ecc. Ma lo stendardo del dominio del mondo e l’anima del suo condottiero è lo spirito». Anche per Croce la

rivoluzione e la battaglia nel regno delle idee prepara la rivoluzione e la battaglia nel regno della realtà, come egli osserva nel 1920 a proposito dello scoppio della prima guerra mondiale: «la spada segue il pensiero. Prima ancora che la guerra si combattesse nelle trincee e sui campi, era stata preparata e combattuta nelle menti dei

pensatori, dei quali forse la gente non si accorge, solo perché non ci si accorge di solito dell’aria che si respira» (Croce, Pagine sparse, Bari, 19602, vol. II, p. 430). [116] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, cit., § 4 Z (trad. it. cit., pp. 303-304). Il rapporto tra pensiero e volontà coinvolge anche la

dimensione pratica e affettiva dell’agire e il concetto stesso di libertà, cfr. A. Peperzak, Hegels praktische Philosophie. Ein Kommentar zur enzyklopädischen Darstellung der menschlichen Freiheit und ihrer objektiven Darstellung, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1991, e Id., Hegel über Wille und Affektivität, in Psychologie

und Anthropologie oder Philosophie des Geistes, cit., pp. 361-395. [117] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 142 Z. [118] Machiavelli, Il principe,

XV, e cfr. K. Rosenkranz, Hegels Leben, trad. it. cit., pp. 473, 557, 579. Sul rapporto tra Hegel e Machiavelli, da

un un’altra prospettiva, cfr. O. Pöggeler, Machiavelli und Hegel. Macht und Sittlichkeit, in Philosophische Elemente der Tradition des politischen Denkens, a cura di E. Heintel, Wien-München, 1979, pp. 173-198. Sulla difficoltà di tradurre nelle lingue romanze il termine Wirklichkeit, così come altre parole hegeliane, cfr. G.

Baptist, ‘Wirklichkeit’. Zur Übersetzungsproblematik in den romanischen Sprachen, in «Hegel-Studien», 34 (2001), pp. 85-98. Hegel mette in guardia contro la diffusa concezione per cui alla realtà effettuale di ciò che è razionale «si contrappone, da una parte, la veduta che le idee e gl’ideali non siano se non chimere, e la filosofia

un sistema di questi fantasmi cerebrali; e dall’altra, che le idee e gl’ideali siano alcunché di troppo eccellente per avere realtà, o anche di troppo impotente per procacciarsela» (Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 6 A; trad. it. cit., p. 8). L’atteggiamento di scambiare le vuote

astrazioni dell’intelletto, i suoi «sogni» su come la realtà deve essere, non ha soltanto un valore filosofico, ma anche un rilevante peso «nel campo politico» (ibid.). [119] Hegel an Schelling, 16

aprile 1795, in Briefe, cit., vol. I, p. 24 (trad. it. cit., vol. I, p. 18). [120] Kant, Kritik der reinen

Vernunft, A 856; B 884 (trad. it. cit., vol. II, p. 645). [121] Pensées de Napoléon,

Paris, 1913, p. 43. Cfr. Lenin, Filosofskia Tetradi, Moskva, 1933, trad. it. di I. Ambrogio, Quaderni filosofici, Roma, 1971, p. 324. [122] Marx an L. Kugelmann,

11 luglio 1868, in MEW, cit., vol. XXXII, p. 553.

[123]

Sul rapporto pensiero-ricchezza, cfr. più avanti, pp. 362-366, e H.J. Krahl, Bemerkungen zum Verhältniss von Kapital und hegelscher Wesenlogik, in Aktualität und Folgen der Philosophie Hegels, a cura di O. Negt, Frankfurt a.M., 1970, pp. 137-150; R. Bodei, Hegel e l’economia politica, in Hegel e l’economia politica, a cura di S.

Veca, Milano, 1975. [124] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, a cura di J. Hoffmeister, cit., Vorrede, p. 13 e nota (trad. it. cit., p. 12 e nota). [125]

Hegel era stato precettore a Berna presso l’aristocratica famiglia von Steiger (su questo periodo cfr. M. Bondeli, Hegel in Bern,

Bonn, 1990, e Hegel in der Schweiz, a cura di H. Schneider e N. Waszek, Frankfurt a.M., 1997) e a Francoforte presso i ricchi mercanti di vino Gogel. Anche Kant, Fichte, Reinhold, Hölderlin ecc. passarono attraverso il giogo del precettorato e dovettero accettare una posizione subalterna. L’estrazione

sociale dei filosofi dell’idealismo tedesco è relativamente omogenea e rinvia a un ceto sociale generalmente modesto di funzionari, pastori protestanti e artigiani; ma cfr. anche H. Brunschwig, La crise de l’Etat prussien à la fin du XVIIIe siècle et la genèse de la mentalité romantique, Paris, 1947, passim.

[126] Cfr. J. Starobinski, Il

pranzo di Torino, in «Strumenti critici», IV (1970), pp. 243-287. [127] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 281 (trad. it. cit., vol. II, p. 69). [128] Cfr. Diderot, Le neveu

de Rameau, trad. it. di F. Uffredduzzi, Il nipote di Rameau, in Diderot, Il nipote

di Rameau e Jacques il fatalista e il suo padrone, Torino, 1965, pp. 83 ss., e L. Pozzi D’Amico, ‘Le Neveu de Rameau’ nella ‘Fenomenologia dello spirito’, in «Rivista critica di storia della filosofia», XXXV (1980), fasc. III, pp. 291-306. Si vedano anche J. Doolittle, Rameau’s Nephew. A Study of Diderot’s “second Satire”, Genève, 1960;

M. Launay, Sur les intentions de Diderot dans le Neveu de Rameau, in «Diderot Studies», VIII (1966) e J. Mayer, Le thème de la tromperie chez Diderot, in Roman et lumières au XVIIe siècle, Paris, 1971, pp. 327 ss. [129]

Cfr. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Torino, 1955, p. 17.

[130] Cfr. Hegel, Grundlinien

der Philosophie des Rechts, cit., §§ 259 Z e 324 Z. La guerra ha per Hegel sostanzialmente il compito di limitare il consolidamento della proprietà e di evitare la stagnazione dei popoli esponendoli al confronto. Sulla conoscenza hegeliana di Clausewitz, cfr. A.H. Hoffmann von Fallersleben,

Mein Leben. Aufzeichnungen und Erinnerungen, vol. I, Hamburg, 1868, p. 311. Sulla concezione hegeliana della guerra, cfr. C.I. Smith, Hegel on War, in «Journal of History of Ideas», XXVI (1965), pp. 282 ss.; B.S. Mankowski, Aktuelle Probleme der «Philosophie des Rechts» von Hegel, in Studien zu Hegels Rechtsphilosophie in

UdSSR, Moskau, 1966, pp. 4854; D.P. Verene, Hegel’s Account of War, in Hegel’s Political Philosophy, a cura di A.A. Pelczynski, Cambridge, 1971, pp. 168-180; J. D’Hondt, L’appréciacion de la guerre révolutionnaire par Hegel, ora in Id., De Hegel à Marx, Paris, 1972, pp. 74-85; S. Avineri, Das Problem des Krieges im Denken Hegels, in Hegel im

Sicht der neueren Forschung, a cura di I. Fetscher, Darmstadt, 1973, pp. 464-482 e, soprattutto, C. Cesa, Considerazioni sulla teoria hegeliana della guerra, in Id., Hegel filosofo politico, Napoli, 1976, pp. 173-201. [131] Cfr. C.L. von Haller,

Restauration Wissenschaft, 18202,

trad.

der StaatsWinterthur, it.

di

M.

Sancipriano, La restaurazione della scienza politica, vol. I, Torino, 1963, pp. 77 ss. e passim; L.G.A. de Bonald, Législation primitive, Paris, 1802, pp. 93 ss.; W. Scott, Life of Napoleon (1827), con il caustico commento di Hegel, Auszüge und Bemerkungen, in Berliner Schriften, cit., pp. 697698. Per la diffusione di queste idee durante la

Restaurazione, cfr. E. Bagge, Les idées politiques en France sous la Réstauration, Paris, 1952. È noto il duro giudizio di Hegel sull’opera di Haller (Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., § 258 A, trad. it. cit., pp. 215-217), che invece fu accolta con entusiasmo alla corte di Berlino, cfr. E. Reinhard, C.L. von Haller. Ein Lebensbild aus

der Zeit der Restauration, Köln, 1915. Su Hegel, Haller e il circolo del principe ereditario Federico Guglielmo, cfr. F. Meinecke, Weltbürgertum und Nationalstaat, München, 1969, pp. 192 ss. [132]

Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 618 (trad. it. cit., vol. III, 2, p.

411). [133] Hegel an Niethammer, 5

luglio 1816, in Briefe, cit., vol. II, pp. 85-86 (trad. it. cit., vol. II, pp. 304-305). Sul significato di questa lettera in rapporto alla Restaurazione, cfr. J. D’Hondt, Hegel en son temps, Paris, 1968, pp. 85-87. [134] Hegel an Niethammer, 5

luglio 1816, cit., p. 86 (trad. it. cit., p. 305). [135]

Principale responsabile di questa figura di uno Hegel rivoluzionario in privato è Heine, ma essa fu comune a tutta la Sinistra hegeliana. Sulle varie interpretazioni del rapporto tra Hegel e Heine, cfr. J. Zinke, Heine und Hegel. Stationen der Forschung, in

«Hegel-Studien», 14 (1979), pp. 295-312. A questo proposito si vedano le parole di Marx: «Riguardo a Hegel è pura ignoranza dei suoi discepoli che essi spieghino questa o quella caratteristica del suo sistema con compromessi o cose del genere, in una parola moralisticamente. Che un filosofo cada, infatti, in

questa o quella apparente incoerenza per questo o quell’accomodamento, è cosa concepibile; egli stesso può anzi esserne cosciente. Ma quello di cui egli non ha coscienza è che ciò che a lui sembra solo un accomodamento ha la sua più intima radice in una insufficienza o in un insufficiente comprensione

del suo stesso principio. Se quindi un filosofo stringe effettivamente un compromesso, i suoi discepoli hanno il compito di spiegare, partendo dalla sua coscienza intima ed essenziale, ciò che per lui stesso aveva forma di una coscienza esoterica» (Marx, Dissertation, in MEGA, I, 1/1, pp. 137-138). [136]

Cfr.

L.

Salomon,

Geschichte des deutschen Zeitungswesens, vol. III, Oldenburg-Leipzig, 1906, p. 206; M.A. Schenk, The Aftermath of the Napoleonic Wars, London, 1947, p. 99. Sui deliberati di Karlsbad cfr. H. von Treitschke, Deutsche Geschichte im 19. Jahrhundert, Leipzig, 18975, vol. II, pp. 634 ss.; J.A.R. Marriott, The Evolution of Prussia, Oxford,

1953, pp. 286 ss. Scopo di Metternich era quello di approfittare dell’uccisione del pubblicista Kotzebue, una spia zarista, da parte del Burschenschaftler Sand, per colpire ogni discussione politica all’interno delle università. Su Sand, le discussioni contemporanee su questo delitto politico e le idee degli studenti legati alle

Burschenschaften, cfr. K.A. von Müller, Karl Ludwig Sand, München, 19252; K.G. Farber, Student und Politik in der ersten deutschen Burschenschaft, in «Geschichte in Wissenschaft und Unterricht», XXI (1970), pp. 71 ss. Hegel non appoggiò mai, tuttavia, il nazionalismo degli studenti delle Burschenschaften e

neppure quello del Fichte dei Discorsi alla nazione tedesca, tanto che in una lettera sostiene, con un gioco di parole, che tutti i discorsi sul Deutschtum, germanicità, erano per lui Deutschdumm, idiozie alla tedesca (Hegel an Paulus, in Briefe, vol. II, p. 43, trad. it. cit., vol. 2, p. 254, dove Deutschdumm è reso

«Crucconia»). [137] Cfr. J. Hoffmeister,

Anmerkungen ai Briefe, cit., vol. II, pp. 432 ss.; K.-H. Ilting, Einleitung alle Vorlesungen über Rechtsphilosophie, 1818-1831, cit., vol. I, pp. 44 ss. Sulla denuncia di von Cölln a Hegel cfr. M. Lenz, Geschichte der Königlichen FriedrichWilhelms-Universität zu Berlin,

Halle, 1910, vol. II, 1, p. 89. Su Asverus cfr. P. Wentzcke, Ein Schüler Hegels aus der Frühzeit der Burschenschaft. Gustav Asverus in Heidelberg, Berlin-Jena, 1920. [138] Hegel an Creuzer, 30

ottobre 1819, in Briefe, cit., vol. II, p. 220. R.P. Horstmann – nella recensione alle Vorlesungen über Rechtsphilosophie, 1818-

1831, in «Hegel-Studien», 9 (1974), pp. 246-248 – pone in dubbio l’ipotesi dello Ilting, che Hegel, fra l’ottobre 1819 e il giugno 1820, abbia rielaborato un manoscritto già pronto di filosofia del diritto, allo scopo di sfuggire meglio alla censura. Horstmann ritiene, piuttosto, che Hegel si sia comportato come faceva

sempre, abbia cioè avuto intenzione, nell’ottobre del 1819, di cominciare a far stampare solo la prima parte del lavoro, contando di scrivere il resto a stampa iniziata. Ora, è vero che questo era l’abituale modo di composizione dei volumi hegeliani (come la Fenomenologia e l’Enciclopedia di Heidelberg), tuttavia nel

nostro caso sembra che Hegel abbia effettivamente rielaborato un testo già impostato per la pubblicazione, e che il motivo per cui blocca tutto è la censura. Infatti, da una lettera di Hegel al suo editore, datata 9 giugno 1820, risulta che soltanto in quel giorno egli aveva inviato la prima parte del

manoscritto, con la richiesta che non si desse inizio alla stampa prima che l’intero manoscritto non fosse stato rimandato indietro dalla censura (cfr. Hegel an die Nicolaische Buchhandlung, 9 giugno 1820; questa lettera, scoperta dal Croce a Berlino nel 1932, venne pubblicata dapprima su «La critica», XXXVIII, 1940, p. 71 e,

successivamente, in Croce, Pagine sparse, Bari, 19602, vol. III, pp. 313-314, e in Neue Briefe aus Hegels Berliner Periode, comunicate e illustrate da H. Schneider, in «Hegel-Studien», 7, 1972, p. 101). Poiché la prefazione alla Filosofia del diritto è datata 25 giugno 1820 e poiché egli entro il mese di giugno ha consegnato

all’editore il resto del lavoro, pare quasi certo che, fra l’ottobre 1819 e il giugno 1820, Hegel abbia realmente modificato un manoscritto relativamente già pronto. Non è chiaro, semmai, il motivo per cui Hegel volle presentare il testo della sua opera alla censura, dato che la censura preventiva si applicava a scritti inferiori ai

20 fogli (Bogen), mentre le Grundlinien raggiunsero i 24; a meno che egli non conoscesse ancora la mole complessiva del lavoro, una volta stampato, oppure volesse dimostrare di non aver nulla da temere dalla censura. Sul carattere della censura prussiana in questo periodo, cfr. B. Gerhardt, Handbuch der deutschen

Geschichte, Frankfurt a.M., 19608, vol. III, p. 103. Della scomparsa del capo della censura prussiana Hegel parla con ironia in una lettera a Cotta, cfr. Hegel an Cotta, 29 maggio 1831, in Briefe, cit., vol. III, p. 342. Altre indicazioni sul tema in H.-Ch. Lucas, Furcht vor der Zensur? Zur Entstehungs- und Druckgeschichte von Hegels

Philosophie des Rechts, in «Hegel-Studien», 15 (1980), pp. 63-93. [139] Hegel an Niethammer, 9

giugno 1821, in Briefe, cit., vol. II, p. 272. [140]

Cfr. Heine, Geständnisse, cit., p. 171; Id., Briefe über Deutschland, in Werke, cit., vol. 14, p. 484. [141] Cfr. J.A.R. Marriott,

The Evolution of Prussia, cit., p. 286; E. Müsebeck, Das preussische Kultusministerium vor hundert Jahren, BerlinStuttgart, 1918, pp. 208 ss. Su Altenstein, cfr. K.R. Meist, Altenstein und Gans. Eine frühe politische Option für Hegels Rechtsphilosophie, in «HegelStudien», 14 (1979), pp. 3972. Altenstein era succeduto a Wilhelm von Humboldt a

capo del Ministero del culto, ora denominato Ministerium für geistliche Unterrichts- und Medizinangelegenheiten. [142] Cfr. F. Förster, 7.

Sitzungsbericbt der philosophischen Gesellschaft (25-5-1861), in «Der Gedanke», vol. II (1861), fascicolo 1, pp. 76 ss.; K.A. Varnhagen von Ense, Blätter aus der preussischen

Geschichte, Leipzig, 1868, vol. IV, pp. 88 ss.; cfr., per la conoscenza di Mignet e Thiers da parte di Hegel, Hegel an seine Frau, 30 settembre 1827, in Briefe, cit., vol. III, p. 198. Di Mignet Hegel possedeva, inoltre, nella sua biblioteca l’Histoire de la Révolution française depuis 1789-1814, Paris, 1826 (e, sull’incontro di Hegel con

Mignet, si veda anche Y. Kniebiehler, Naissance des sciences humaines: Mignet et l’histoire philosophique au XIXe siècle, Paris, 1973, p. 56). Sulle interpretazioni della Rivoluzione da parte di Thiers e Mignet, cfr. A. Omodeo, Studi sull’età della Restaurazione, Torino, 1970, pp. 253-277. La storia della Rivoluzione francese del

Mignet era già stata tradotta in tedesco (a cura di M.A. Wagner, Jena, 1825). [143] Hegel, Conclusioni del

corso di filosofia speculativa, 18 settembre 1806, in Dokumente zu Hegels Entwicklung, a cura di J. Hoffmeister, Stuttgart, 1936, p. 352. [144] Hölderlin, Das Werden

im Vergehen, in Grosse Stuttgarter Hölderlinausgabe, cit., vol. IV, 1, p. 282, trad. it. di G. Pasquinelli, Il divenire nel trapassare, in Scritti sulla poesia e frammenti, Torino, 1958, p. 96. [145] Cfr. R. Bodei, La storia

congetturale. Ipotesi di Condorcet su passato e futuro, in «Mélanges de l’École Française de Rome (Italie et

Mediterranée)», 108 (1996), n. 2, pp. 457-468. [146] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., pp. 24-25 (trad. it. cit., vol. I, pp. 22-23). [147] Cfr. Hegel, Vorlesungen

über die Philosophie der Religion, a cura di G. Lasson, cit., vol. II, p. 11 (trad. it. cit., vol. I, p. 354). [148] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 246 Z. [149] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, a cura di J. Hoffmeister, cit., Vorrede, pp. 16-17 (trad. it. cit., p. 17). [150] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 396 Z. [151]

Hegel,

Vorlesungen

über die Philosophie der Geschichte, a cura di K. Hegel, in Werke, cit., Berlin, 18402, vol. IX, p. 134. [152] C.G. Jung, Die Symbolik

des Geistes, in Psychologische Abhandlungen, vol. VI, trad. it. di O. Bovero Caporali, La simbolica dello spirito, Torino, 1959, pp. 26-37. [153] Cfr. R. Unger, Herder

und der Palingenesiegedanke, in Herder, Novalis, Kleist. Studien über die Entwicklung des Todesproblem in Denken und Dichtung vom Sturm und Drang zur Romantik, Frankfurt a.M., 1922 (rist. Darmstadt, 1968). Cfr. anche E. Benz, Die ewige Jugend in der christlichen Mystik von Meister Eckart bis Schleiermacher, in «Eranos

Jahrbuch 1971», vol. 40, Leiden, 1973, pp. 1-49. Sulla rivista «Iduna», progettata da Hölderlin, cfr. Th. Schwab, Hölderlins Werke, Stuttgart-Tübingen, 1846, vol. II, p. 299. Come origine immediata di questa idea c’è il filosofo e naturalista ginevrino Ch. Bonnet, Palingénésie philosophique (1769), in Œuvres complètes,

Neuchâtel, 1781, vol. XV. [154] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 296 (trad. it. cit., vol. II, p. 92). Cfr. Hegel, Philosophie der Weltgeschichte, cit., pp. 11-12 (trad. it. cit., vol. I, p. 15): «Il ringiovanire dello spirito non è semplice ritorno alla medesima forma, ma è catarsi, rielaborazione di sé. Attraverso l’adempimento

del suo compito, esso si crea nuovi compiti, moltiplicando la materia del suo lavoro. Così vediamo nella storia lo spirito espandersi in una quantità inesauribile di direzioni, e in ciò godersi e soddisfarsi. Tuttavia il suo lavoro ha l’unico risultato di aumentare di nuovo la sua attività, e di consumarsi di nuovo».

[155] Hegel an Van Ghert, 15

ottobre 1810, in Briefe, cit., vol. I, p. 329 (trad. it. cit., vol. II, pp. 105-106). Cfr. Hegel an Cousin, 5 aprile 1826, in Briefe, cit., vol. III, p. 110: «j’appris de même avec grand plaisir la position intéressante par rapport à la jeunesse dans laquelle vous soutenez et nourrissez le besoin de la pensée; c’est

aux individus qu’est dévolue la conservation des progrès de l’esprit et de la philosophie». [156]

Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 578 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 368). [157]

Hegel, Fragmente historischen Studien, in

Dokumente zu Hegels Entwicklung, cit., pp. 264-265. [158]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, §§ 62-64; Id., Solgers nachgelassene Schriften und Briefwechsel, in Berliner Schriften, cit., pp. 155-220. [159] Hegel, Differenz des

Fichte’schen

und

Schelling’schen Systems der Philosophie, cit., p. 7 (trad. it. cit., p. 6). [160]

Sul ruolo dell’introduzione della coscienza comune alla scienza, cfr. più avanti, pp. 191 ss. e 355 ss. [161] Cfr. Hegel, Jenenser

Realphilosophie II, cit., p. 273 (trad. it. cit., p. 216).

[162]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 42 Z 1. [163]

Hegel, Jenenser Realphilosophie II, cit., pp. 180-181 (trad. it. cit., p. 107). Su questo passo hanno attirato l’attenzione A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel (1947), Paris, 19622, p. 573 (trad. it. di F.

Frigo, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, 1996, p. 716; di questo testo esiste anche la traduzione parziale di P. Serini, con nuova Introduzione di R. Bodei (Il desiderio e la lotta), La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Torino, 1991); A. Massolo, «Die Sprache aber ist das Wahrhaftere», in A. Massolo, La storia della

filosofia come problema, Firenze, 1967, pp. 198-199; V. Verra, Storia e memoria di Hegel, in Incidenza di Hegel, a cura di F. Tessitore, Napoli, 1970, p. 345. [164] Nächtliche Schacht. Mi

scosto qui dalla traduzione del Croce, che rende l’espressione genericamente «fondo tenebroso».

[165] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 453 A (trad. it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., p. 413). Su questo testo e le sue implicazioni, cfr. J. Derrida, Le puits et la pyramide, in Hegel et la pensée moderne, testi pubblicati sotto la direzione di J. D’Hondt, Paris, 1970, pp. 27-83, ora

anche in J. Derrida, Marges de la philosophie, Paris, 1972, pp. 79-127 (trad. it. di M. Iofrida, Il pozzo e la piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel, in Margini della filosofia, Torino, 1997, pp. 105-152). [166]

Hegel, Jenenser Realphilosophie II, cit., p. 184 (trad. it. cit., p. 110). Su questa «notte della

conservazione» si veda C. Mazzocchi, Riconoscimento, libertà e Stato. Saggi sull’etica hegeliana, Pisa, 2012, pp. 85134. [167]

Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, p. 52 (trad. it. cit., vol. I, p. 50). [168] Hegel, Aphorismen aus

der Jenenser Periode, cit., p.

540 (trad. it. cit., p. 61 nota 18). [169] Cfr. Hegel, Vorlesungen

über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, pp. 90-91 (trad. it. cit., vol. I, p. 89). [170]

Heine, Lutetia, in Werke, cit., vol. IX, p. 348. La tematica del sogno e del mondo «notturno» era in

quel periodo assai dibattuta: oltre che da Novalis, da Carus, da Jean Paul, ecc., anche da Gotthilf Heinrich von Schubert, collega di Hegel a Norimberga e autore, nel 1814, di una Simbolica del sogno; cfr. A. Beguin, L’âme romantique et le songe, Paris, 1939, trad. it. di U. Pannuti, L’anima romantica e il sogno, Milano, 1967, in

particolare le pp. 151 ss. Ma sulla radicale differenza fra queste impostazioni romantiche e l’atteggiamento di Hegel, volto alla «veglia» e al dominio del mondo notturno, esistono diversi testi. Curioso, da un punto di vista biografico, è il contrasto fra Hegel e Schubert, quale venne

rilevato da Clemens Brentano durante un viaggio a Norimberga: «Ho visto a Norimberga Hegel, l’onesto uomo di legno; leggeva il Libro degli eroi e i Nibelunghi e se li traduceva in greco per poterne gustare la bellezza! Ma ho incontrato anche Schubert, il filosofo candido, quell’essere così virginale, dolce e commovente; ha

l’aria di un pulcino che abbia spezzato il guscio e resti, attonito, a guardare la luce del giorno» (Clemens Brentano an Joseph v. Görres, inizio 1810, in J. von Görres, Gesammelte Schriften, sezione II, vol. II, Freundesbriefe 1802 bis 1821, München, 1874, p. 75). [171]

über

Hegel, Vorlesungen die Geschichte der

Philosophie, cit., vol. XIV, p. 260 (trad. it. cit., vol. II, p. 272). [172] Ibid., p. 245 (trad. it.

cit., vol. II, p. 257). Per un inquadramento filologico del testo dei quaderni della Storia della filosofia hegeliana su Platone, cfr. J.L. VeillardBaron, Les leçons de Hegel sur Platon dans son Histoire de la philosophie, in «Revue de

Métaphysique et de Morale», LXXVIII (1973), pp. 385-419. [173]

Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIV, p. 240 (trad. it. cit., vol. II, p. 252). [174] Hegel, Die Vernunft in

der Geschichte, a cura di J. Hoffmeister, Hamburg, 19555, p. 149. Sul rapporto

con Rousseau, cfr. R. Polin, Philosophie du droit et Philosophie de l’histoire d’après «Les Principes de la philosophie du Droit», in L’esprit objectif. L’unité de l’histoire. Actes du IIIe Congrès International de l’Association Internationale pour l’étude de la philosophie de Hegel, Lille, 1970, pp. 259 ss. [175] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 3 (trad. it. cit., p. 4). [176]

Hegel,

Vorlesungen

über die Aesthetik, cit., vol. X2, p. 340 (trad. it. cit., p. 772). [177] Cfr. Hegel, Fortsetzung

des «Systems der Sittlichkeit», in Dokumente zu Hegels Entwicklung, cit., pp. 324-325; Hegel, Glauben und Wissen, in

Jenaer kritische Schriften, in Gesammelte Werke, vol. IV, cit., pp. 383 ss. (trad. it. di R. Bodei, Fede e sapere, in Primi scritti critici, cit., pp. 211 ss.). [178] G. Lukács, Ontologie

des gesellschaftlichen Seins. Hegels falsche und echte Ontologie, Neuwied-Berlin, 1971, p. 67. Sebbene Hegel, come rettore del ginnasio di Norimberga nella Baviera

prevalentemente cattolica, imponga per dovere d’ufficio agli allievi cattolici l’obbligo della comunione quotidiana, egli è contrario a un ossequio semplicemente esteriore, come quello teorizzato da Napoleone dopo il concordato con la Chiesa: «Eh bien […], andremo di nuovo a messa, e i miei veterani diranno: –

Questa è la parola d’ordine» (Hegel, Philosophie der Weltgeschichte, cit., p. 887, trad. it. cit., vol. IV, p. 158). Hegel diffida però dell’utopia della Chiesa nei confronti dello Stato, che può degenerare in fanatismo: «il fanatismo della Chiesa consiste nel voler trasportare l’eterno, il regno del cielo in quanto tale sulla terra, cioè in opposizione

alla realtà dello Stato, nel conservare il fuoco nell’acqua» (Hegel, Jenenser Realphilosophie II, cit., p. 270, trad. it. cit., p. 213). Sui rapporti Stato-Chiesa in Hegel, cfr. G. Schmidt, Die Religion in Hegels Staat, in «Philosophisches Jahrbuch», LXXIV (1967), pp. 294-309. Sul valore di posizione della religione, anche in rapporto

allo Stato, nel sistema hegeliano, cfr. A. Chapelle, Hegel et la religion, vol. I, Paris, 1964; vol. II, Paris, 1967 (con qualche spunto interessante) e Hegel and the Philosophy of Religion. The Wofford Symposium, a cura di D.E. Christensen, The Hague, 1970 (dove spicca solo il saggio di D. Henrich, Some Historical Presuppositions of

Hegel’s System, pp. 25-44, peraltro limitato agli scritti giovanili). [179] V. Cousin, Souvenirs

d’Allemagne, cit., p. 617. Cfr. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, a cura di G. Lasson, cit., vol. I, p. 69 (trad. it. cit., vol. I, p. 123): «La religione è per tutti gli uomini. Essa non è la filosofia, che non è per tutti.

La religione è la specie e il modo con cui tutti gli uomini son coscienti della verità e i modi son precipuamente il sentimento, la rappresentazione e poi anche il pensiero intellettuale». [180] Cfr. H. von Treitschke,

Deutsche Geschichte im 19. Jahrhundert, cit., vol. III, p.

401. [181]

Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, a cura di Ph. Marheineke, cit., vol. XII, p. 253. Cfr. Jenenser Realphilosophie II, cit., p. 266 (trad. it. cit., p. 209). [182] This bank and shoal of

time: Shakespeare, Macbeth, atto I, scena 7. Hegel usa

talvolta l’espressione «domenica della vita» anche per la filosofia e per l’arte e, in sostanza, per tutte le articolazioni dello «spirito assoluto» dell’Enciclopedia. [183]

Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, a cura di G. Lasson, cit., vol. I, pp. 2-3 (trad. it. cit., vol. I, pp. 62-63). Sull’idea hegeliana

dell’amore segnalo, tra i tanti contributi, quello di C. Melica, Il concetto dell’amore in Hegel, in Intersubjectivité et théologie philosophique. Textes réunis par M.M. Olivetti, Padova, 2001, pp. 625-649, incentrato soprattutto sulla prospettiva dell’estetica e della religione. [184] Cfr. Hegel, Philosophie

der Weltgeschichte, cit., p. 105

(trad. it. cit., vol. I, p. 122). Sul nesso comunitario che la religione istituisce tra gli uomini e, più in generale, sul significato di Dio in Hegel, cfr. C. Melica, La comunità dello spirito in Hegel, Trento, 2007 (Pubblicazioni di Verifiche 40), in particolare pp. 215-235. [185] Il significato di questo

termine

rinvia

all’espressione latina ius positivum, spesso in contrapposizione allo ius naturale, cui corrisponde la parola tedesca per «legge» Gesetz (dal verbo setzen, porre, nel senso appunto di «porre» o «imporre», per cui, ad esempio, il titolo del saggio hegeliano La positività della religione cristiana si riferisce alla Chiesa, che

dopo i suoi primi tempi, si organizza e, venendo a patti con il mondo, impone con la sua autorità credenze, orientamenti e precetti ai propri fedeli e perfino agli Stati). [186] Tra i paesi protestanti

Hegel comprende tutti i paesi «nordici» (anglosassoni e scandinavi), cfr. W.H. Walsh, Principle and

Prejudice in Hegel’s Philosophy of History, in Hegel’s Political Philosophy. Problems and Perspectives, cit., pp. 181-182. Sulla trasformazione subìta dal cristianesimo in Hegel, «come se Cristo avesse frequentato le sue lezioni», cfr. F. Schnabel, Deutsche Geschichte im 19. Jahrhundert. Die religiöse Kräfte, 4 voll. Freiburg i.B., 1929-1937, trad.

it. di M. Bendiscioli, Storia religiosa della Germania nell’Ottocento, Brescia, 1944, p. 476. [187]

C.L. von Haller, Restauration der StaatsWissenschaft, trad. it. cit., p. 76. [188] Ibid., p. 121. [189] Per il gran numero di

studenti

delle

università

tedesche del tempo, cfr. W. Jacob, A View of Agricolture, Manifacture, Statistics and State of Society of Germany and Parts of Holland and France, London, 1820, p. 231. Per la polemica hegeliana sulla religione, cfr., ad esempio, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, Vorrede all’edizione 1827 e §§ 572 e

573 A (ed. 1830, cfr. trad. it. cit., pp. 515-527). [190] Cfr. Hegel, Vorrede zu

Hinrichs Religionsphilosophie, in Berliner Schriften, cit., pp. 74-75. Sull’antipatia che Hegel provava per Schleiermacher si veda la testimonianza di Karl August Varnhagen von Ense: «A lezione il signor professor Hegel, accennando a Tersite,

lo ha definito un briccone piccolo e gobbo, come oggidì se ne vedrebbero ancora tra i nostri demagoghi intriganti. Da ancor più precisi ragguagli era chiaro che aveva di mira Schleiermacher. Gli studenti si agitarono battendo i piedi in segno di disapprovazione» (Tagebuch, in Blätter aus der preussischen Geschichte,

Leipzig, 1868-1869, vol. II, p. 320 e cfr. L. Sichirollo, Ritratto di Hegel, Roma, 1996, p. 91). Per un bilancio delle loro reciproche posizioni, cfr. A. Arndt, Schleiermacher und Hegel. Versuch einer Zwischenbilanz, in «HegelStudien», 37 (2002), pp. 5567. Tra la vasta letteratura sul tema della religione si veda E.W. Böckenförde,

Bemerkungen zum Verhältnis von Staat und Religion bei Hegel, in «Der Staat», XXI (1982), pp. 481-503. [191] Hegel, Einleitung in die

Geschichte der Philosophie, cit., p. 287. [192] Ibid., p. 286. In questi

periodi, in cui «l’esistenza politica si rovescia, la filosofia ha il suo posto, e

allora capita che non solo in generale si pensa, ma il pensiero precede e rimodella la realtà effettuale (geht der Gedanke voran und bildet die Wirklichkeit um). Infatti, quando una figura dello spirito non è più soddisfacente, la filosofia fornisce un occhio acuto per individuare ciò che non soddisfa» (ibid.). Anche

questo sembra essere il compito della civetta. [193] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, cit., § 268 Z (trad. it. cit., p. 376). [194] Ibid., § 265 Z (trad. it.

cit., p. 375). [195] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. II, p. 410 (trad. it. cit., vol. II, p. 860).

[196]

Hegel, Rede zum Antritt des philosophischen Lehramtes an der Universität Berlin, cit., p. 4. [197] Hegel an Sinclair, inizio

1813, in Briefe, cit., vol. II, p. 6, trad. it. cit., vol. II, p. 216. La libertà di espressione della filosofia – dice Hegel a proposito di Socrate – riposa su «un tacito accordo con lo Stato», perché lo Stato, a sua

volta, poggia «essenzialmente sul pensiero, e la sua sussistenza dipende dai sentimenti degli uomini; esso è di fatti un regno spirituale, non già fisico. E quindi ha massime e principi che ne costituiscono l’ossatura, e se questi vengono assaliti, il governo deve intervenire» (Hegel,

Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIV, p. 95, trad. it. cit., vol. II, p. 98). Cfr. Grundlinien der Philosophie des Rechts, a cura di J. Hoffmeister, cit., Vorrede, p. 11 (trad. it. cit., p. 10), a proposito di Fries e di De Wette, vittime della «persecuzione dei demagoghi»: «Ancora meno è da meravigliarsi, se i

governi hanno rivolto infine l’attenzione a siffatta filosofia, poiché altresì da noi la filosofia non è esercitata, come forse presso i Greci, quale arte privata, ma ha pubblica esistenza, riguardante il pubblico, particolarmente o unicamente al servizio dello Stato. Se i governi han dimostrato ai loro dotti,

consacrati a questa professione, la fiducia del rimettersi del tutto a loro, per lo sviluppo e il contenuto della filosofia […] questa fiducia è stata loro più volte mal compensata». Siamo qui di fronte a una delle posizioni più illiberali di Hegel e a poco serve affermare che Hegel attacca qui Fries per divergenze di

carattere ideologico e non personale (come fa J. D’Hondt, Hegel en son temps, cit., pp. 121 ss.). D’altro canto, non è neppure chiaro se Hegel riconosca ora al filosofo il dovere di entrare in collisione con lo Stato, come nel caso dei philosophes. È probabile che, in un momento di crisi politica quale quella seguìta

ai deliberati di Karlsbad, Hegel ritenesse opportuno usare una tattica più sottile per evitare lo scontro frontale, in ciò d’accordo con gli altri riformisti prussiani. Più tardi, quando si sentirà sicuro, Hegel giungerà persino a respingere le pretese del ministero nel giudicare problemi culturali (cfr. Hegel, Berliner Schriften,

cit., p. 617) e a difendere pubblicamente Cousin arrestato e imprigionato come sovversivo, attirandosi l’inimicizia del capo della polizia von Kamptz. Su questo episodio cfr. P. Becchi, Hegel e Cousin, cit., pp. 220-221. [198] Hegel an Niethammer, 9

giugno 1821, in Briefe, cit., vol. II, p. 271.

[199] Cfr. H.F. Fulda, Das

Recht der Philosophie in Hegels Philosophie des Rechts, Frankfurt a.M., 1968, pp. 29 ss. Sull’opinione pubblica e il suo legame con la coscienza comune, cfr. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., §§ 315-319 (trad. it. cit., pp. 271-277). [200]

Cfr. J. Habermas, Strukturwandel der

Öffentlichkeit, Neuwied, 1962, trad. it. di A. Illuminati, F. Masini e W. Perretta, Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari, 1971, pp. 143 ss. [201] Hegel, Aphorismen aus

der Jenenser Periode, cit., p. 543 (trad. it. cit., p. 63 nota 32). Sulla attività giornalistica di Hegel, cfr. soprattutto W.R. Beyer, Zwischen Phänomenologie und

Logik. Hegel als Redakteur der Bamberger Zeitung, Frankfurt a.M., 1955. Anche Brandes, considerando quel che aveva contribuito di più al progresso dello Zeitgeist in epoca recente, poneva dopo la Rivoluzione francese e l’idea di progresso stessa «la veloce diffusione degli avvenimenti e delle idee del giorno attraverso giornali,

riviste e brochures» (E. Brandes, Betrachtungen über den Zeitgeist in Deutschland in den letzten Dezennien des vorigen Jahrhunderts, Hannover, 1808, p. 180). Sull’abitudine di Hegel di leggere e commentare le notizie politiche, da giornali e riviste, insieme ai discepoli, cfr. K. Hegel, Leben und Erinnerungen, Leipzig,

1900, p. 10. [202] Hegel an Niethammer, 9

giugno 1821, in Briefe, cit., vol. II, p. 271. [203] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, cit., § 279 Z (trad. it. cit., p. 383). [204] Ibid. § 274 Z (trad. it.

cit., p. 381). Cfr. Hegel, Philosophie der Weltgeschichte, cit., p. 932 (trad. it. cit., vol.

IV, p. 212): «La preponderanza esteriore alla lunga è impotente: Napoleone poté costringere tanto poco la Spagna alla libertà, quanto Filippo II l’Olanda alla servitù». Di Napoleone, tuttavia, Hegel ha notoriamente apprezzato l’introduzione in Germania, ai tempi del regno di Vestafalia sotto Girolamo

Bonaparte, del Codice civile napoleonico, mentre il tanto decantato Preussisches Allegemeines Landrecht prussiano che, sul piano penale, sostituiva le pene corporali anche minime con la reclusione, in uno scritto andato perduto gli era apparso molto più crudele: «Non è questa roba da Irochesi, che passano il

tempo a pensare alle pene dei loro nemici prigionieri ed esercitano con voluttà ogni nuovo tipo di tortura?» (citato in K. Rosenkranz, Hegels Leben, trad. it. cit., p. 253). [205] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, cit., § 138 Z (trad. it. cit., pp. 341342).

[206] Ibid., § 47 A (trad. it.

cit., p. 145). [207] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., pp. 924925 (trad. it. cit., vol. IV, p. 203). [208]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 552 A (trad. it. cit., pp. 496-497).

[209] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 925 (trad. it. cit., vol. IV, p. 203). [210]

V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, a cura di F. Nicolini, Bari, 1913, p. 95. Del libro di Cuoco uscì una recensione sulla «Minerva» di Archenholz: cfr., nell’ed. del Saggio storico appena citata, la Prefazione alla

seconda edizione, p. 7. [211]

V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, cit., p. 212. Sulla natura delle rivoluzioni in Cuoco, cfr. ibid., p. 15: «Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell’uomo quel luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia

della natura. Per molti secoli le generazioni si succedono tranquillamente come i giorni dell’anno: esse non hanno che i nomi diversi, e chi ne conosce una le conosce tutte. Un avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita, nuovi oggetti si presentano ai nostri sguardi; e in mezzo a quel disordine

generale, che sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le leggi di quell’ordine, del quale prima si vedevano solamente gli effetti». [212] Hegel an Niethammer,

29 aprile 1814, in Briefe, cit., vol. II, pp. 28-29 (trad. it. cit., vol. II, p. 240): «Grandi cose sono accadute intorno a noi.

È uno spettacolo straordinario vedere un enome genio distruggersi da sé. Questo è il tragikotaton che ci sia. L’intera massa dei mediocri, con un’assoluta, pesante, forza di gravità, preme incessantemente e implacabilmente finché non ha ridotto al suo stesso livello o a un livello inferiore ciò che è superiore».

[213]

Cfr. Hegel, Die Heidelberger Niederschrift der Einleitung (Beginn der Vorlesung am 28. X. 1816), in Einleitung in die Geschichte der Philosophie, cit., p. 4. [214] Cfr. Marriott,

The Evolution of Prussia, cit., p. 289. Sull’atteggiamento di Metternich nei confronti della cultura e sul giudizio negativo che egli dava della

filosofia hegeliana, cfr. H. von Srbik, Metternich. Der Staatsmann und der Mensch, vol. I, München, 1925, pp. 492 ss.; vol. III, München, 1954, p. 184. [215] Cfr. H. Rosenberg,

Bureaucracy, Aristocracy and Autocracy. The Prussian Experience 1660-1815, Cambridge, Mass., 1966, pp. 205 ss.; R.R. Palmer, The Age

of the Democratic Revolution, Princeton, 1959-1964, trad. it. di A. Castelnuovo Tedesco, L’era delle rivoluzioni democratiche, Milano, 1971, pp. 993 ss. Il ministro prussiano Struensee così si esprimeva parlando con un francese: «Quella rivoluzione che voi avete fatto dal basso, si attuerà in Prussia per gradi. Il re, a modo suo, è un

democratico. Sta lavorando costantemente a limitare i privilegi della nobiltà. Fra pochi anni non ci saranno più in Prussia classi privilegiate» (cfr. J. Droz, L’Allemagne et la Révolution française, Paris, 1949, p. 109). «Princìpi democratici in governo monarchico. Questa mi pare la formula per fissare lo spirito dell’epoca»

(Hardenberg, citato in Die Reorganisation des preussischen Staates unter Stein und Hardenberg, a cura di G. Winter, Leipzig, 1931, vol. I, p. 306). Per gli avvenimenti prussiani di questo periodo e per l’opera dei riformisti, cfr. soprattutto Kampf um Freiheit. Dokumente zur Geschichte der Nationalen

Erhebung 1785-1815, a cura di W. Markow e F. Donath, Berlin, 1954; G. Ritter, Stein. Eine politische Biographie, Stuttgart, 19583; W. Gembruch, Freiherr von Stein im Zeitalter der Restauration, Wiesbaden, 1960; R. Koselleck, Staat und Gesellschaft in Preussen 18151848, in AA.VV., Staat und Gesellschaft im deutschen

Vormärz, Stuttgart, 1962, pp. 79-112; R.C. Raack, The Fall of Stein, Cambridge, Mass., 1965. Sulle vicende e la debolezza del riformismo prussiano, cfr. W.F. Simson, The Failure of the Prussian Reform Movement, 1807-1819, Ithaca, N.Y., 1955. Spunti notevoli anche in L. Krieger, The German Idea of Freedom, Boston, 1957. Su Altenstein

come difensore degli studenti perseguitati, cfr. J. D’Hondt, Hegel en son temps, cit., pp. 71 ss. [216] Cfr. Kant, Metaphysik

der Sitten, Rechtslehre, parte I, cap. III, § 41. Sui discepoli di Kant nella burocrazia prussiana, cfr. H. Rosenberg, Bureaucracy Aristocracy and Autocrary. The Prussian Experience 1660-1815, cit., p.

189. Sulla rivoluzione nel regno del pensiero, iniziata da Kant, che dovrà poi rifluire nella realtà, cfr. già l’articolo del «Moniteur» del 3 gennaio 1796, dove si dice che Kant ha portato in Germania una rivoluzione negli spiriti «pareille à celle que les vices de l’ancien régime ont laissé arriver en France dans les choses» (cit.

in G. Eisermann, Die Grundlagen des Historismus in der deutschen Nationalökonomie, Stuttgart, 1956, p. 76) e, inoltre, J. Droz, La pensée politique et morale des Cisrhénans, Paris, 1940, p. 39. [217] Altenstein, cit. in Die

Reorganisation des preussischen Staates unter Stein und Hardenberg, a cura

di G. Winter, cit., vol. I, p. 462. [218] Cfr. R. Koselleck, Staat

und Gesellschaft in Preussen 1815-1848, cit., p. 86 nota. Si vedano anche E. Weil, Hegel et l’État, Paris, 1950, trad. it. Hegel e lo Stato e altri scritti hegeliani, Milano, 1988; R. Hočevar, Hegel und der preussische Staat. Ein Kommentar zur

Rechtsphilosophie von 1821, München, 1973; G. Ahrweiler, Hegels Gesellschaftslehre, Neuwied, 1976; G. Pavanini, Hegel e il Beamtenstand nella Prussia tra riforma e restaurazione, in AA.VV., Per una storia del moderno concetto di politica, Padova, 1977, pp. 257-296; P. Alpino, Stände e Stato nella «Filosofia del diritto», in

«Rivista critica di storia della filosofia», XXV (1980), fasc. III, pp. 252-269; Von der ständischen zur bürgerlichen Gesellschaft. Politisch-soziale Theorien im Deutschland der zweiten Hälfte des 18. Jahrhunderts, a cura di Z. Batscha e J. Garber, Frankfurt a.M., 1981, e la monumentale opera di K. Vieweg, Das Denken der

Freiheit. Hegels Grundlinien der Philosophie des Rechts, München, 2012. Sul variare delle interpretazioni di Hegel rispetto al suo presente storico, cfr. K.R. Meist, Differenzen in Hegels Deutung der ‘Neuesten Zeiten’ innerhalb seiner Konzeption der Weltgeschichte, in Hegels Rechtsphilosophie im Zusammenhang der

europäischen Verfassungsgeschichte, a cura di H.-Ch. Lucas e O. Pöggeler, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1986, pp. 465-504. [219] M. Duncker, Aus der

Zeit Friedrichs des Grossen und Friedrich Wilhelms III, Leipzig, 1876, pp. 503 ss. [220] R. Koselleck, Staat und

Gesellschaft in Preussen 1815-

1848, cit., p. 86. [221] E.G.G. von Bülow-

Cammerow, Preussen, seine Verwaltung, sein Verhältnis zu Deutschland, Berlin, 18432, p. 187. [222] Cfr. O. Camphausen an

R. Camphausen, 10 novembre 1843, in Rheinische Briefe und Akten zur Geschichte der politischen Bewegung 1830-

1850, Essen, 1919, vol. II, p. 609. [223] Cfr. H. Schneider, Der

preussische

Staatsrat,

München-Berlin, 19522, pp. 110 ss. [224] Ibid. Sull’amore dei

tedeschi per i titoli, che ha «un parallelo solo nella ricerca di una lunga lista di nomi da parte degli

spagnoli» e quindi sulla loro identificazione con la funzione ricoperta, cfr. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 394 Z. [225] Hippel an Hardenberg,

13 ottobre 1821, in R. Koselleck, Staat und Gesellschaft in Preussen 18151848, cit., p. 109. Considerazioni analoghe

sull’epoca «veloziferische» erano state espresse da Goethe (cfr. Wilhelm Meister Wanderjahre, in Gesammelte Werke, Weimarer Ausgabe, sezione I, vol. XLII, pp. 170 ss.). [226] Cfr. R. Koselleck, Staat

und Gesellschaft in Preussen 1815-1848, cit., p. 90. [227] E. Gans, Beiträge zur

Revision der preussischen Gesetzgebung, Berlin, 1830, p. 6. Sui rapporti fra Hegel e Gans, cfr. M. Riedel, Hegel und Gans, in AA.VV., Natur und Geschichte. Karl Löwith zum 70. Geburtstag, Stuttgart, 1967, pp. 257-273. [228]

Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, cit., p. 185.

[229] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, cit., § 318 Z (trad. it. cit., p. 391). [230] Ibid., § 316 Z (trad. it.

cit., p. 390). [231] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 28 (trad. it. cit., vol. I, p. 27). Sull’interpretazione hegeliana del Parmenide di Platone si vedano W. Künne,

Hegel als Leser Platos. Ein Beitrag zur Interpretation des platonischen «Parmenides», in «Hegel-Studien», 14 (1979), pp. 109-146; A. Cavarero, Platone e Hegel interpreti di Parmenide, in AA.VV., La scuola Eleatica, Napoli, 1988, pp. 81-99, e R. Santi, Platone, Hegel e la dialettica. In appendice la dissertazione del 1823 di Ch. A. Brandis,

Prefazione di Milano, 2000.

G.

Reale,

[232] Cfr. Hegel, Verhältnis

des Skeptizismus zur Philosophie. Darstellung seiner verschiedenen Modifikationen und Vergleichung des neuesten mit den alten, in Jenaer kritische Schriften, in Werke in zwanzig Bänden, cit., vol. 2, trad. it. di N. Merker, Rapporto dello scetticismo con

la filosofia, Roma-Bari, 1977; e si vedano sul tema: G. Varnier, Lo scetticismo nell’evoluzione della dialettica. Sul suo significato logico e gnoseologico nel primo pensiero jenese di Hegel, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXVI/II (1987), pp. 283-312 (ma, per un più ampio inquadramento del sorgere della dialettica cfr.

Id., Ragione negatività autocoscienza, Napoli, 1990, in particolare pp. 86 ss.); M.N. Forster, Hegel and Skeptizismus, Cambridge, Mass., 1989; K. Vieweg, Philosophie des Remis. Der junge Hegel und das Gespenst des Skeptizismus, München, 1999; Id., Il pensiero della libertà. Hegel e lo scetticismo pirroniano, Pisa, 2007; M.

Biscuso, Hegel, lo scetticismo antico e Sesto Empirico, Napoli, 2005. Un peso, non sempre adeguatamente valutato, ha nella nascita della dialettica anche la dimensione etico-politica, cfr. R. Finelli, Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel 1770-1801, Roma, 1996. [233]

Antritt

Hegel, Rede beim des philosophischen

Lehramtes an der Universität Berlin, cit., pp. 19-20. [234]

Cfr. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, cit.; Id., Entretiens avec Gilles Lapouge, in «La Quinzaine Litteraire», n. 53 (1-15 luglio 1968), cfr. trad. it. di N. De Sanctis, in «Studi Urbinati», n.s. B, XLII (1968), n. 1, pp. 195-203. Questa interpretazione di Kojève si

basa anche sull’interpretazione del «sapere assoluto» come eliminazione del tempo, cfr. più avanti, pp. 212-214. Sul problema, da una prospettiva diversa, cfr. R.K. Maurer, Hegel und das Ende der Geschichte, Stuttgart, 1965; Id., Hegel et la fin de l’histoire, in «Archives de philosophie», XXX (1967), pp.

483-518; G. Bataille, A. Kojève, J. Wahl, E. Weil e R. Queneau, Sulla fine della storia. Saggi su Hegel, a cura di M. Ciampa e F. Di Stefano, Napoli, 1985; R. Bouton, Hegel penseur de la «fin de l’histoire»?, in Après la fin de l’histoire, a cura di J. Benoist e F. Merlini, Paris, 1998, pp. 91-112. Per alcune riflessioni più generali sull’argomento,

cfr. E. Weil, La fin de l’histoire, in «Revue de Métaphysique et de Morale», LXXV (1970), pp. 377-384; M. Vegetti, La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Milano, 1999; Id., Hegel e i confini dell’Occidente. La Fenomenologia nelle interpretazioni di Heidegger, Marcuse, Löwith, Kojève, Schmitt, Napoli, 2005, pp.

255-335 e più avanti, pp. 114-115, 152 nota 95, 224. [235] Hegel, Conclusioni del

corso di filosofia speculativa, 18 settembre 1806, cit., e cfr. sopra, p. 80, e più avanti p. 197. [236] Cfr. F. Fukuyama, The

End of History and the Last Man, New York, 1992, trad. it. La fine della storia e l’ultimo

uomo, Milano, 1992, il quale ritiene che, con la sconfitta del comunismo e la conclusione della Guerra fredda, il capitalismo e la democrazia abbiano raggiunto uno stadio ormai insuperabile. [237] Cfr. D. Auffret, La

philosophie, l’État, la fin de l’histoire, Paris, 2002, e, più in generale, M. Filoni, Il filosofo

della domenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève, Torino, 2008. [238] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. I, p. 5 (trad. it. cit., vol. I, p. 5). [239] Hegel, Verhandlungen

in der Versammlung der Landstände des Königsreichs Württenberg im Jahre 1815 und 1816, in Schriften zur

Politik und Rechtsphilosophie, a cura di G. Lasson, Leipzig, 19232, p. 199, trad. it. Valutazione degli atti a stampa dell’assemblea dei deputati del regno del Württenberg negli anni 1815 e 1816, in Hegel, Scritti politici 1798-1831, a cura di C. Cesa, Torino, 1972, p. 181. Anni ricchi, certo, di storia ma anche di paure e di speranze che non si sono

ancora esaurite: «Ho quasi cinquant’anni e ne ho trascorso trenta in questi tempi inquieti di timore e di speranza e speravo che fosse una buona volta finita con il timore e la speranza. Ora devo constatare che tutto continua come prima e anzi – vien da pensare nelle ore più nere – tutto si inasprisce» (Hegel an Creuzer,

in Briefe, cit., vol. II, p. 219). [240]

Cfr. R. Bodei, «Metaphysik der Zeit» in Hegels Geschichte der Philosophie, in Hegels Logik der Philosophie, a cura di D. Henrich e R.-P. Horstmann, Stuttgart, 1984, pp. 84-85. [241] K. Rosenkranz, Hegels

Leben, trad. it. cit., p. 127: «In autunno andò a Tubinga, in

autunno a Bamberga, in autunno a Norimberga, in autunno a Heidelberg, in autunno a Berlino e in autunno morì; è questo uno di quegli strani aspetti dell’umano destino, di cui si preferirebbe scoprire il motivo nell’individualità stessa, e per cui si potrebbe definire Hegel una natura autunnale, un frutto maturo

e succoso». [242]

Sull’«assioma di chiusura» che sarebbe presente in Hegel, cfr. le osservazioni di S. Veca, Sul Capitale, in Marxismo e critica delle teorie economiche, a cura di S. Veca, Milano, 1974, pp. 191-193: «Il sistema hegeliano si presenta come il massimo possibile di filosofia, come la teoria più

potente compatibile con le condizioni e i limiti della metafora ideologica del filosofico […] La grandezza di Hegel – non il suo limite, come a volte si è banalmente creduto – sta proprio nell’aver saputo e potuto portare il sistema dell’ideologia alla sua chiusura […] Un particolare assioma di chiusura

presiede all’organizzazione della filosofia classica nella forma hegeliana. […] Il problema di Hegel diventa quello di poter pensare, senza residui, il complesso di trasformazioni che danno luogo al dominio del presente. Quali le condizioni di pensabilità del mondo storico-istituzionale del capitalismo? Questo

compito costringe Hegel a misurarsi con la contraddizione; porta al limite estremo di tensione un sistema teorico che deve poter risolvere continuamente e senza residui la discontinuità in continuità, l’eterogeneità in omogeneità, il passato in presente». Sul significato del sistema hegeliano cfr., tra i

tanti testi pubblicati, l’utile e precisa messa a punto di A. Nuzzo, System, Bielefeld, 2003. [243] Cfr. K.R. Popper, The

Poverty of Historicism, London, 1944; Id., Prediction and Prophecy in the Social Science, in Conjectures and Refutations, London, 1963, trad. it. di G. Pancaldi, Previsione e profezia nelle

scienze sociali, in Congetture e confutazioni, Bologna, 1972, p. 588. [244] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 200 (trad. it. cit., vol. I, p. 234). [245] Ibid., p. 174 (trad. it.

cit., vol. I, pp. 201-202). [246] Ibid., p. 897 (trad. it.

cit., vol. IV, p. 170).

[247] Hegel, Die Positivität

der christlichen Religion, in Theologische Jugendschriften, cit., pp. 140-141, trad. it. di N. Vaccaro e E. Mirri, La positività della religione cristiana, in Scritti teologici giovanili, cit., pp. 220-221. [248] Cfr. Hegel, Grundlinien

der Philosophie des Rechts, cit., §§ 244-244 Z-245 (trad. it. cit., pp. 204-205, 370-371).

[249] Cfr. Hegel, Philosophie

der Weltgeschichte, cit., p. 933 (trad. it. cit., vol. IV, p. 213): «La volontà dei molti rovescia il ministero, ed ecco che viene al suo posto quella che era finora l’opposizione; ma questa, in quanto è ora al governo, ha di nuovo i molti contro di sé. Così continua il movimento e l’agitazione. Questa

collisione, questo nodo, questo problema è quello a cui ora è ferma la storia, e che essa deve risolvere nei tempi venturi». [250] Hegel an Zellmann, 23

gennaio 1807, in Briefe, cit., vol. I, p. 138 (trad. it. cit., vol. I, p. 253). Cfr. Philosophie der Weltgeschichte, cit., pp. 927928 (trad. it. cit., vol. IV, p. 207): «I pochi debbono

rappresentare i molti, ma spesso non fanno altro che conculcarli». [251] Cfr. Hegel an Boris von

Yxkull, 28 novembre 1821, in Briefe, cit., vol. II, pp. 297-298; Philosophie der Weltgeschichte, cit., pp. 197 ss. (trad. it. cit., vol. I, pp. 229 ss.). Su questo personaggio, cfr. G. von Rauch, Boris von Uexküll und Hegels Russlandbild, in

«Baltische Hefte», 4 (1957/58), pp. 26-36. Sull’immaturità, anche culturale oltre che geologica, dell’America, cfr. Hegel, Philosophie der Weltgeschichte, Wintersemester 1830/1831, Quaderno di Karl Hegel, cit., pp. 52 ss. Quando Hegel scrive, gli Stati Uniti erano geograficamente meno della metà di oggi; il Far West, il

Texas e le altre regioni furono conquistati successivamente, con la guerra contro il Messico e nel 1849 fu conquistata la California. Dato che però vi era tanta terra libera da coltivare, comprese le grandi praterie, Hegel intravede l’espansione americana verso Ovest quale premessa di egemonia politica.

[252]

B. Brecht, Flüchtlingsgespräche, trad. it. di M. Cosentino, Dialoghi di profughi, Torino, 1962, p. 99. [253] Hegel an Boris von

Yxkull, lettera perduta, citata in K. Rosenkranz, Hegels Leben, trad. it. cit., pp. 699, 701. [254] Cfr. M. Weber, Die

protestantische Ethik und der

Geist des Kapitalismus (1905), in Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Tübingen, 1922, trad. it. di P. Burresi, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, 19652, p. 305. [255] A. Ferguson, An Essay

on the History of Civil Society (1767), a cura di D. Forbes, Edinburgh, 1966, trad. it. di P. Salvucci, Saggio sulla storia

della società civile, Firenze, 1973, pp. 308, 314. [256]

Sulla proprietà privata e la sua difesa, cfr. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., §§ 41-70, e in particolare § 49 A e 62 A (trad. it. cit., pp. 62, 70). Sull’origine della proprietà privata dall’agricoltura, dalla fine del nomadismo e dal

matrimonio, cfr. ibid., § 203 A (trad. it. cit., p. 179): «A buon diritto, il principio proprio e la prima fondazione degli Stati sono stati posti nell’introduzione dell’agricoltura, accanto all’introduzione del matrimonio, perché quel principio importa la lavorazione del terreno e, quindi, la proprietà privata

esclusiva (cfr. § 170 annotaz.) e perché riconduce la vita nomade del selvaggio, che cerca la sua sussistenza nel nomadismo, alla quiete del diritto privato e alla sicurezza dell’appagamento del bisogno, cui si connette la limitazione dell’amore sessuale nel matrimonio e, quindi, l’allargamento di questo vincolo a un’unione

durevole, universale in sé, del bisogno a cura della famiglia, e del possesso a bene della famiglia. Assicurazione, consolidazione, durata dell’appagamento dei bisogni etc., – caratteri, pei quali si raccomandano soprattutto tali istituzioni – sono null’altro, se non forme dell’universalità e aspetti del

come la razionalità, assoluto scopo finale, si fa valere in queste materie». Sulla povertà come «questione che muove e tormenta particolarmente le società moderne», ma che non trova attualmente soluzione, cfr. ibid., §§ 244, 244 Z e 245 (trad. it. cit., pp. 204-205, 370-371). Sulle ascendenze storiche della problematica

hegeliana, cfr. C.B. Macpherson, The Political Theory of Possessive Individualism: Hobbes to Locke, Oxford, 1962, trad. it. a cura di A. Negri, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo da Hobbes a Locke, Milano, 1973. Sul rapporto hegeliano libertàproprietà, cfr. W. Euchner,

Freiheit, Eigentum und Herrschaft bei Hegel, in «Politische Vierteljahresschrift», XI (1970), pp. 531-555, e S. Mercier-Josa, Liberté et propriété. Les apories de la «Doctrine du droit» de Kant et des «Fondaments de la Philosophie du droit» de Hegel, in «La pensée», n. 170, agosto 1973, pp. 67 ss. Sui

legami familiari nella concezione hegeliana, cfr. C. Mancina, Differenze dell’eticità. Amore famiglia società civile in Hegel, Napoli, 1991. [257]

Cfr., ad esempio, Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 482 A (trad. it. cit., pp. 442-443).

[258]

Hegel, Jenenser Realphilosophie I, a cura di J. Hoffmeister, Leipzig, 1932, p. 240, trad. it. di G. Cantillo, in Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 100. Per la cecità dei meccanismi di mercato, cfr. ibid., p. 239 (trad. it. cit., p. 99). [259] Ma per il senso

proprio di espressione, cfr.

questa Hegel,

Phänomenologie des Geistes, cit., pp. 216-228 (trad. it. cit., vol. I, pp. 328-348); J. Hyppolite, Genèse et structure de la «Phénoménologie de l’esprit» de Hegel, Paris, 1946, trad. it. di G.A. De Toni, introd. di M. Dal Pra, Genesi e struttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, Firenze, 1972, pp. 357 ss.; S. Landucci, L’operare umano e la genesi

dello «spirito» nella «Fenomenologia» di Hegel, in «Rivista critica di storia della filosofia», XX (1965), pp. 1650 e 151-181. [260] Sulla metaforica della

luce, cfr., in generale, H. Blumenberg, Licht als Metaphorik der Wahrheit, in «Studium Generale», X (1957), pp. 442-457. Sulla metafisica della luce in

Hegel, in relazione al sorgere dei concetti di riflessione, speculazione, apparenza, riflesso, immagine ecc. cfr. K. Hedwig, German Idealism in the Context of Light Metaphysics, in «Idealistic Studies», II (1972), pp. 16-38. Sull’interesse hegeliano per la teoria dei colori e gli scomodi esperimenti che Hegel compie «steso per

terra» a osservare il gioco dei colori prodotto dalla luce proveniente da una finestra, cfr. K. Rosenkranz, Hegels Leben, trad. it. cit., p. 479, e cfr. ibid., Urkunden, p. 538. S. Sambursky, Licht und Farbe in den physikalischen Wissenschaften und in Goethes Lehre, in «Eranos Jahrbuch 1972», vol. 41, Leiden, 1974, pp. 199 ss. Per una storia del

concetto di luce e i rapporti fra ottica e riflessione, cfr. A.I. Sabra, Theories of Light from Descartes to Newton, London, 1967; Ph. D’Arcy, La réflexion, Paris, 1972, pp. 9 ss., e Pfaff an Hegel, estate 1812, in Briefe, cit., vol. I, p. 407 (trad. it. cit., vol. II, p. 190). Per l’interesse hegeliano alle teorie di Malus, cfr. più avanti, p. 318

nota 44.

Capitolo secondo

Dalla natura alla storia

Il capitolo tratta della relazione tra uomo e natura, in particolare prendendo in esame tre modelli analogici di spiegazione del processo di assoggettamento della natura da parte dell’uomo. Il primo equipara la conoscenza

all’assimilazione, mediante la quale gli oggetti singoli vengono idealizzati e resi proprietà del soggetto; il secondo fa un’analogia fra gli antichi misteri, la comunione cristiana e la consustanziazione del sensibile; l’ultimo propone l’idea che vi

sia un ordinamento teleologico ascendente, in cui ogni gradino, nell’esplicitare il precedente, ne è la "verità". Questi modelli vengono esaminati prima separatamente, per poi venire abbandonati quando

infine rivelano una trama concettuale unitaria, da essi sottesa. Si tratteranno dunque argomenti quali la relazione tra la filosofia della natura e la scienza, l’individuo e il genere, l’animale e l’uomo nonché i tre elementi che lo caratterizzano ovvero

lavoro,

pensiero

e

istinto.

Il mistero è sempre questo: come il pensatore sviluppa – come sorge,

produce dal vecchio il nuovo che è un non ancora esistito nel pensiero? Pfaff a Hegel[1].

1. Le Denkbestimmungen L’endiadi ragioneeffettualità si estende ben oltre la sfera umana e coinvolge tutta la realtà, che è per sua natura conforme al pensiero. Ma quando si dice che il pensiero,

«come oggettivo,

pensiero costituisce

l’intimo nucleo del mondo, può sembrare che si attribuisca coscienza alle cose naturali. Avvertiamo ripugnanza a concepire l’intima attività delle cose nella forma del

pensare, poiché diciamo che l’uomo si distingue da ciò che è naturale mediante il pensiero. Noi dovremmo dunque parlare della natura come del sistema del pensiero inconscio, come di un’intelligenza pietrificata, secondo le

parole Invece

di di

Schelling. usare il

termine “pensiero”, è perciò meglio dire, onde evitare fraintendimenti, “determinazione di pensiero” (Denkbestimmung)»[2]. Le cose hanno in sé una struttura razionale che

il pensiero esplicita, rende per sé. Ma come è possibile trasformare la singolarità delle cose nell’universalità del pensiero, produrre i concetti e le rappresentazioni? «Nel pensare le cose, le trasformiamo in

qualcosa di universale; ma le cose sono singole e il leone in generale non esiste. Noi le trasformiamo in qualcosa di soggettivo, prodotto da noi, appartenente a noi ed invero di proprio a noi in quanto uomini;

infatti le cose della natura non pensano e non sono rappresentazioni o pensieri»[3]. Resta tuttavia da spiegare come l’oggetto si traduca nel soggetto e come il soggetto penetri nell’alterità dell’oggetto

e ne decifri l’elemento di universalità. A questa seconda questione, in un’epoca che ha proclamato la distanza incolmabile fra soggetto e oggetto e l’inconoscibilità delle cose in sé, sanno rispondere meglio gli

animali dei metafisici: «nemmeno le bestie sono stupide come questi metafisici, poiché si dirigono sulle cose, le afferrano e le consumano»[4]. In questa «più bassa scuola della saggezza», in cui si celebrano gli

antichi misteri di Cerere e di Bacco, «il segreto del mangiare il pane e del bere il vino», tutti gli esseri animati mostrano quale sia la «verità» delle cose singole e la loro presunta autonomia e intangibilità di fronte al

soggetto[5]. «Il mangiare e il bere riducono le cose a ciò che sono in sé o in verità»[6]. E possono compiere questa consustanziazione del pane e del vino in carne e sangue del loro corpo in quanto «la natura inorganica che viene

assoggettata al vivente, sopporta questo perché essa è in sé la stessa cosa che la vita è per sé»[7]. Allo stesso modo, lo spirito è assimilazione della natura: «lo spirito nega l’esteriorità della natura, l’assimila a sé e

così la idealizza»[8] e il «concetto è l’anima, lo scopo di un oggetto»[9]. Possiamo già cominciare a intravedere tre modelli analogici, strettamente connessi, di spiegazione del pensiero e del processo di

assoggettamento della natura da parte dell’uomo. Si tratta: a) di una equiparazione della conoscenza alla assimilazione, mediante la quale gli oggetti singoli vengono idealizzati e resi proprietà del soggetto;

b) di una analogia fra gli antichi misteri, la comunione cristiana e la consustanziazione del sensibile; c) dell’idea che vi sia un ordinamento teleologico ascendente, in cui ogni gradino, nell’esplicitare il precedente, ne è la

«verità». dapprima

Esaminiamo

separatamente tali modelli, per poi abbandonarli quando ci avranno rivelato una trama concettuale unitaria, da essi sottesa.

2. Il «comprendere inconscio» della digestione Questa equiparazione fra assimilazione e pensiero non deve sorprendere. A partire dai primi anni di Jena, allora una delle capitali della cultura europea,

l’interesse di Hegel per la fisiologia e per i processi della digestione in particolare fu fortissimo. Egli frequentò in quella cittadina le lezioni di fisiologia di Jakob Fidelis Ackermann[10] e progettò la traduzione

tedesca dei Nouveaux éléments de physiologie di Anthelm Richerand, un giovane allievo di Bichat, ritenendo che in Germania non ci fossero opere di quel livello[11]. Lesse comunque e utilizzò a fondo lo Handbuch der Physiologie

di Johann Ferdinand

Heinrich von

Autenrieth, il medico che curava Hölderlin nella clinica di Tubinga[12]. Ma, oltre a questi autori, più Treviranus e Haller[13], la sua fonte principale è lo Spallanzani degli

Opuscoli di fisica animale e vegetabile. I. Della digestione[14], che conobbe nella versione francese di Jean Senebier, Expériences sur la digestion de l’homme et des différentes espèces d’animaux, Genève, 1784[15].

Quel che Hegel crede di aver appreso da Spallanzani e dalla moderna fisiologia dei processi digestivi è che l’organismo assorbe immediatamente, in quanto potenza universale, il cibo ingoiato, ne «nega» la

sua natura «relativamente» inorganica e lo pone come identico a sé, lo as-simila[16]. Infatti, «la natura animale è l’universale contro le nature particolari, che sono in essa nella loro verità e idealità, poiché

essa è effettivamente ciò che quelle formazioni sono in sé. Allo stesso modo, per il fatto che tutti gli uomini sono in sé razionali, ha potere su di loro l’uomo che si appella al loro istinto della ragione, poiché ciò che egli rivela

ad essi corrisponde subito con qualcosa nel loro istinto che può accordarsi alla ragione esplicita; in quanto il popolo accoglie immediatamente ciò che riceve, la ragione appare in esso come diffusione e infezione, e

con ciò scompare la scorza, la parvenza di una separazione, che era ancora presente. Questa potenza dell’animalità è il rapporto sostanziale, l’elemento più importante nella digestione»[17]. Anche le

idee razionali vengono dunque digerite e assimilate dagli uomini che ne sono affamati e, come nel caso della preparazione della Rivoluzione in Francia, la loro recezione appare come frutto di una congiura e di

un’infezione: «Perciò la comunicazione dell’intellezione pura […] è una penetrante infezione la quale non rendendosi in precedenza osservabile come opposto di contro all’indifferente elemento in cui essa si

insinua, non può quindi venir combattuta. Soltanto quando l’infezione si è diffusa, essa è per la coscienza che le si abbandonò senza nulla sospettare»[18]. Ma quando ci si accorge dell’avvenuta assimilazione di queste

idee, «la lotta vien troppo tardi, e ogni cura riesce soltanto a peggiorare la malattia»[19]; così i philosophes hanno spianato la strada alla rivoluzione. Spallanzani dimostrò che la digestione non

avviene per effetto della fermentazione o della putrefazione degli alimenti, né a causa di una fantomatica «forza triturante»[20]. Dopo lunghi esperimenti condotti su anatre e struzzi, facendo loro ingerire sfere di cristallo

e tubi metallici (qui veramente, secondo l’emblema e il motto creati nel Cinquecento da Paolo Giovio, spiritus durissima coquit), su rane, animali domestici e su se stesso – inghiottendo intrepidamente pezzi di

carne racchiusi in sacchetti di stoffa –, Spallanzani giunse alla conclusione che si digerisce tramite i succhi gastrici[21], di cui non individua comunque l’acidità[22]. Hegel interpreta il risultato delle

esperienze Spallanzani

di come

negazione della teoria per cui nella digestione si avrebbe una scelta meccanica delle parti utilizzabili e delle parti escretibili[23]. Ma, quel che è strano a prima vista, nega – contro le

esplicite dichiarazioni di Spallanzani stesso – il carattere chimico del processo digestivo: «Questo immediato trapasso e metamorfosi è ciò su cui naufraga e trova i suoi limiti ogni chimica e ogni meccanica, giacché esse

sono appunto una comprensione a partire da ciò che è presente ed ha già la sua esteriore uguaglianza […] Il pane, ad esempio, non […] ha alcun rapporto col corpo o il chilo col sangue, che è tutt’altra cosa. Né la chimica né il

meccanismo possono seguire empiricamente la trasformazione del cibo in sangue»[24]. Hegel ha qui allargato il discorso all’intera assimilazione, che ha sì inizio anche per lui con l’azione chimica dei succhi gastrici, ma che

procede poi per potenza «organica». In effetti, seppure in maniera confusa, egli ha colto una delle maggiori difficoltà della fisiologia della nutrizione del tempo, che sarà avviata a soluzione dapprima con la scoperta del

carattere animale della fermentazione e poi degli enzimi[25]. In breve, come è chiaro dalla Scienza della logica, Hegel non rifiuta il meccanismo e il chimismo in quanto tali, ma li subordina negli organismi viventi a un

processo teleologico, in cui essi obbediscono come strumenti, sono servi sotto il dominio dell’organico[26]. Per loro tramite, nell’assimilazione l’organismo compie un «sillogismo», «un fondersi con se stesso

nel suo processo esterno», che realizza una finalità interna e una «soddisfazione razionale»[27]. Questo inserimento del relativamente inorganico nell’organico, attraverso l’assimilazione, è la

comprensione inconscia delle cose: «infatti, il mangiare e il bere fa delle cose inorganiche ciò che sono in sé. È la comprensione inconscia (das bewusstlose Begreifen) di esse, ed esse divengono così qualcosa di tolto, poiché

sono tali in sé […] l’organico si impadronisce immediatamente dell’inorganico nella sua materia organica, perché esso è il genere (Gattung) come semplice Sé e quindi come forza dell’inorganico. Quando

l’organico, attraverso i singoli momenti, porta gradualmente l’inorganico all’identità con sé, questi minuziosi preparativi della digestione attraverso la mediazione di più organi sono invero superflui per

l’inorganico, ma non lo è il percorso dell’organismo in se stesso, che avviene grazie a se stesso, per essere il movimento e con ciò l’effettualità; parimenti, lo spirito è tanto più forte e vitale quanto maggiore era la

contraddizione che ha superato»[28]. Come prove del carattere immediato dell’assimilazione, per l’inorganico, Hegel adduce alcune esperienze accettate dalla scienza del tempo: il caso di quei marinai

inglesi che, avendo terminato le scorte di acqua potabile, sopravvissero bagnando i loro indumenti o i loro corpi in mare, così da assorbire acqua dolce attraverso la pelle; l’assimilazione dell’oppio e

dell’ipercacuana attraverso le ascelle e la zona della pelle corrispondente allo stomaco; la scoperta di Cuvier, secondo cui nei tessuti della Salpa octofora, ma al di fuori dello stomaco, si trovano talvolta parti di

una Anatifera – ingerita probabilmente attraverso l’apertura da cui la Salpa aspira l’acqua – fuse e assorbite dagli organi circostanti della Salpa[29]. Ma, proprio perché ogni organismo vivente è dotato di nisus

formativus o di Bildungstrieb[30], proprio perché esso è teleologicamente orientato, la sua attività consiste «nel gettar via il mezzo dopo aver raggiunto lo scopo»[31]. Ottenuta la «sazietà», esso procede, in una

fase disgiuntiva, all’eliminazione delle scorie. In questo momento l’ironia della natura, dice Hegel con brutale franchezza, quasi a sottolineare l’inferiorità del vivente rispetto al genere di cui è portatore, unisce il più

basso al più alto: «Gli organi dell’escrezione e i genitali, il punto supremo e l’infimo dell’organizzazione animale, coincidono intimamente in molti animali, così come nella bocca la parola e i baci, da un lato, e, dall’altro,

il mangiare, il bere e lo sputare»[32]. Non soltanto il mangiare e il bere sono una «comprensione inconscia» delle cose; anche la cultura consiste per l’uomo «nel consumare la sua natura inorganica e

nell’assimilarsela»[33]. L’individuo singolo, anzi, si appropria velocemente della sostanza dello spirito universale[34], del lavoro di generazioni di uomini, perché esso è già stato metabolizzato nella cultura e nel

linguaggio. Tuttavia, se il singolo vuol nuovamente capire il significato del mondo che si è costituito, se vuol ripercorrere «il calvario dello spirito»[35], deve soffermarsi a tutte le sue «stazioni», digerirlo: il «farsi» dello

spirito, la storia, «presenta un torpido movimento e una successione di spiriti, una galleria d’immagini ciascuna delle quali, provveduta della completa ricchezza dello spirito, si muove con tanto torpore

proprio perché il Sé ha da penetrare e da digerire tutta questa ricchezza della sua sostanza»[36]. Sia che si segua la via spontanea dell’assimilazione attraverso la cultura del senso comune o del linguaggio, sia che si

segua la via speculativa più breve, attraverso il cammino fenomenologico, il pensiero è diventato per l’uomo più che una seconda natura: si pensa come si digerisce, con lo stesso automatismo inconscio,

con la stessa istintività, poiché l’istinto non è altro che «la finalità operante in modo inconsapevole»[37]. Per questo è assurdo affermare che lo studio della logica serva a imparare a pensare: «è proprio come se si

dovesse imparare a digerire o a muoversi solo con lo studio dell’anatomia e della fisiologia»[38]. Oppure: «Questa affermazione farebbe il paio con l’altra, che noi non potessimo mangiare prima di aver acquistato

la conoscenza delle qualità chimiche, botaniche e zoologiche dei mezzi di nutrizione, e che noi dovessimo aspettare a digerire fino a che non avessimo prima compiuto lo studio dell’anatomia e della fisiologia»[39].

Se il irriflesso

pensiero funziona

nell’uomo altrettanto inconsciamente e automaticamente della digestione, si possono allora enunciare alcune conclusioni provvisorie, il cui contenuto dovrà essere ulteriormente

approfondito: 1) Persino sulla più alta vetta dello spirito giunge ancora la relativa cecità dell’istinto; 2) Il pensare non ha a che vedere solo con se stesso, così come il digerire, pur avendo luogo all’interno del soggetto, non è solo

un processo soggettivo; 3) Col pensiero l’uomo assimila il mondo, lo pone in «fluidità» e lo «idealizza»[40], sebbene tale assimilazione avvenga nella maggior parte dei casi solo in maniera spontanea e casuale, mediante

l’appartenenza a una comunità linguistica e culturale; 4) La logica e più in generale la filosofia non insegnano a pensare, ma portano alla luce quelle Denkbestimmungen che sono già inconsciamente

presenti nei singoli e nell’epoca; sotto questo aspetto la filosofia ha solo una funzione eminentemente maieutica: «il compito della filosofia consiste solo nel portare esplicitamente a coscienza quello che,

rispetto al pensiero, da tempo inveterato, è sempre invalso. La filosofia non stabilisce niente di nuovo; ciò che noi estraiamo attraverso la nostra riflessione, è già presupposto immediato di ciascuno»[41], anche se

poi gli uomini riconoscono

si

difficilmente nella trascrizione cosciente, operata dalla filosofia, dei loro stessi «presupposti».

3. Manducatio spiritualis e manducatio corporalis Riprendendo la tradizionale polemica fra luterani, zwingliani e cattolici sulla natura dell’eucarestia, sulla manducatio spiritualis o

corporalis di essa[42], Hegel vede riprodotti al livello teologico anche errori o unilateralità filosofiche. Mentre, infatti, i cattolici considerano l’ostia come una «cosa esterna», che ha realtà indipendentemente dal

soggetto consuma,

che e

la gli

zwingliani la ritengono semplicemente un simbolo con valore commemorativo («et hoc facite in commemorationem meam»), nella chiesa luterana al contrario

«l’ostia come tale vien consacrata ed elevata al Dio presente solo nella fruizione, cioè nell’annullamento dell’esteriorità di essa, e nella fede, cioè nello spirito insieme libero e certo di sé»[43]. Da parte cattolica vi è quindi

prevalenza del sensibile e dell’oggettivo, un residuo della metafisica tradizionale (esaminata da Hegel nella Prima posizione del pensiero rispetto all’oggettività)[44], che riteneva inessenziale l’aggiunta del soggetto alla realtà

della cosa, negava in altri termini l’importanza determinante della «fruizione» distruggitrice e assimilante della soggettività nella digestione dell’oggetto. In questo valore

assoluto attribuito all’oggettivo in sé si trova anche la spiegazione della passività politica o delle rivoluzioni politiche dei paesi cattolici, latini e sudamericani[45]. Il soggetto considera in entrambi i casi la realtà

esterna come alterità, sia che la subisca sia che la rovesci. Non è per Hegel ancora giunto – dinanzi allo strapotere del positivo – a considerare la realtà esterna come assimilabile attraverso un processo di

metabolizzazione. Coscienza e mondo vivono nei paesi cattolici in una relazione di signoriaservitù, in cui i ruoli possono alternarsi, ma in cui non si è raggiunta ancora alcuna conciliazione. La

certezza protestante, la fede luterana, sta proprio in questo potere di assimilazione e di fruizione della realtà mediante la coscienza, nell’identità di manducatio spiritualis e di manducatio corporalis. E Lutero, nell’affermare

contro Carlostadio e Zwingli la presenza del divino nel sensibile («hoc est corpus meum»), poteva dire: «In questa sentenza si stabilisce che il corpo di Cristo e il pane sono una cosa sola, e che quando si spezza sono una cosa

sola, e che, quando si spezza il pane, è come spezzare o distribuire il corpo di Cristo, affinché venga diviso, distribuito e ricevuto tra molti […] Occorre professare che il corpo di Cristo è qui, nel pane: e come il pane spezzato non perde per

questo la sua essenza o il suo nome, e che come continua a essere e a chiamarsi pane, sebbene venga spezzato; così anche il corpo di Cristo rimane qui, sebbene per molti pezzi venga distribuito fra molti»[46]. Il divino è

dunque presente nel mondo, realmente e non simbolicamente, ed esso trapassa negli uomini e solo in essi ottiene verità, consustanziazione. L’oggettività sensibile non ha da un lato valore assoluto, ma dall’altro

non è neppure vuota allegoria del soprasensibile. È questo uno dei punti della dottrina luterana che Hegel mostra di aver meditato più a fondo: è nel presente che si manifesta il razionale, che è perciò Gegenwart,

parousia, non al di là. E l’oggettività sensibile – come vedremo – non è semplice apparenza o fenomeno dietro cui si nasconde un’ipotetica cosa in sé, ma è invece realtà che trova la sua «verità» nella fruizione soggettiva, essa cioè

non viene distrutta – come sostengono quanti attribuiscono a Hegel posizioni platonizzanti[47] – così da rivelare quanto occultava (poiché non occulta nulla), ma soltanto assimilata nel momento della

conoscenza teorica. Nella conoscenza il sensibile e il mondo continuano ad aver esistenza, al pari del meccanismo e del chimismo nella teleologia organica, solo in quanto finalizzati internamente, ossia non

vengono meramente cancellati ma inseriti in un processo che vedremo ritornare all’immediatezza del sensibile. È pur sempre la soggettività, nel «mondo moderno», che guida il processo, ma una

soggettività che è emersa dalla relazione con l’oggettività, che è «identità dell’identità e della non identità»[48]. Una soggettività sorta dal dolore infinito, dalla morte della naturalità, nella notte del Getsemani, «in cui la

sostanza fu tradita e si rese soggetto»[49]. In questo senso non è il Golgota a rappresentare il «gradino» etico più alto che l’umanità avesse fino ad allora superato. È piuttosto il Getsemani, l’Orto degli ulivi, il luogo in cui, in

una notte d’angoscia, l’umanità compì la svolta più importante della propria storia. Fu allora, infatti, che la «sostanza» cominciò a farsi «soggetto». Quando i discepoli si addormentarono e lasciarono Gesù al suo

solitario tormento, a sudare sangue, è come se l’uomo antico – abbandonato dalla comunità, privato dell’appoggio della propria sostanza etica – scomparisse e venisse sostituito da un soggetto nuovo, titolare

di un mondo interiore assai più articolato e profondo, dolorosamente abituato a vivere senza il vigile sostegno degli altri. Da allora il singolo è obbligato a ricostruire su altre basi una vita comunitaria che non

può naturalisticamente

più

presupporre come garantita. Il cristianesimo, riconoscendo quella «soggettività infinita» che era rimasta ignota a Platone e agli antichi, trasformando la

sostanza in soggetto, inaugura la forma moderna dell’individualità. Attraverso il «dolore infinito»[50] ha reso infinita anche la soggettività. Rispetto al Getsemani, il Golgota ha per Hegel

un altro significato, più vicino al senso dello «spirito», che rinasce nella collettività anche attraverso la scomparsa fisica degli individui. Gettando uno sguardo indietro al periodo della loro formazione, sia Hegel, con il Golgota,

che Hölderlin, con l’Etna, hanno voluto rappresentare i luoghi elevati della morte sacrificale, da loro già descritti negli anni 1796-1800, nel periodo in cui il giovane poeta compone l’Empedocle (tragedia in versi di cui

possediamo tre stesure) e il giovane filosofo scrive due saggi incentrati sulla figura di Gesù: La positività della religione cristiana e Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. In tutte queste opere il tema dominante è quello

della trasmissione di un messaggio personale a una collettività che li ha sostanzialmente abbandonati, la celebrazione di sconfitte che possono trasformarsi in vittorie postume: Gesù, che muore in croce sul

Golgota, ed Empedocle, che si getta nell’Etna, sono, infatti, espressione di una crisi che non trova soluzione se non nell’accettare una morte che li distacca entrambi dalle vicende immediate del loro tempo, ma che

riesce a conservare e a trasmettere alle epoche successive il messaggio di vita migliore, sia in campo politico che religioso. Entrambi, Hegel e Hölderlin, constatano le lacerazioni profonde che attraversano il

presente, si interrogano sulla loro origine e sulla possibilità di ricomporle e vogliono capire come mai la «natura» sia diventata vittima della «positività», di imposizioni che costituiscono uno strumento religioso e

politico di dominio. Esse servono, infatti, a mantenere il controllo su una comunità (di fedeli o di sudditi), a soffocare le voci di una vita migliore. Empedocle e Gesù sono latori di un messaggio di liberazione

da una esistenza mutilata e deforme in grado di accorgersi presto che i loro adepti non sono disposti a seguirli sino in fondo nel tentativo di emanciparli, che non capiscono il loro messaggio. Oscillano,

hanno paura di osare, cadono nell’inerzia o, in maggioranza, voltano loro le spalle, diventando così preda dei loro nemici. Il personaggio di Ermocrate nella Morte di Empedocle (ossia nell’ultima stesura, la

terza, della tragedia)[51] o i Farisei nella Positività della religione cristiana (e, ancor prima, nella Vita di Gesù) raffigurano gli esponenti dello spirito formalistico. Sono legati a una tradizione di «positività» che, avendo perso di significato,

impedisce loro di tendere verso il meglio. La poesia, per Hölderlin, e la filosofia, per Hegel, sono gli strumenti vocali attraverso cui la natura violata e repressa – quella interna e quella esterna all’uomo – può

nuovamente esprimersi e smascherare tale forma di oppressione, invitando gli uomini a sforzarsi di cambiare il loro destino. Proprio il «destino» (inteso come riconoscimento della propria vita da parte di

ciascuno, «un ritorno e un avvicinamento a se stesso» nel quale l’uomo sentendo «quel che ha perduto, crea nostalgia per la vita perduta»)[52] caratterizza in Hegel la situazione di Gesù, che avverte il ruolo opprimente di una

religione diventata positiva, ma si trova davanti al dilemma o di accettare il destino del popolo ebraico sottomesso a leggi positive (e di compromettere in tal modo lo slancio verso una vita migliore)

oppure di respingere il destino del suo popolo per conservare in sé, non espressa, l’aspettativa di questa vita migliore. Dopo essersi «innalzato» al di sopra del destino del suo popolo e dopo aver cercato invano di

innalzarvi il suo stesso popolo, Gesù sceglie consapevolmente la seconda alternativa: una via crucis che lo porterà alla morte: «Il destino di Gesù fu di patire per il destino della sua nazione: o farlo suo e sopportare la

necessità, condividere il godimento e unificare il suo spirito con quello della sua nazione, ma sacrificare così la propria bellezza e la propria unione con il divino». «Oppure – continua Hegel – respingere da sé il

destino del suo popolo ma conservare in sé la propria vita non sviluppata e non goduta; in nessuno dei casi compiere la natura: nel primo caso sentire soltanto frammenti di essa e anche questi impuri, nel secondo

portarla pienamente a coscienza ma riconoscerne la forma solo come l’ombra splendente della sua essenza, della verità suprema, rinunciare a sentire tale essenza e a viverla nell’azione e nella realtà. Gesù scelse

il secondo destino, la separazione tra la sua natura e il mondo, e richiese lo stesso ai suoi discepoli: “Chi ama il padre o la madre, il figlio o la figlia più di me, non è degno di me”»[53]. Infatti, la sua unificazione «col tempo

sarebbe stata ignobile e spregevole», mentre la sua separazione, il restare se stesso di Gesù, sarebbe «ciò che vi è di più degno e di più nobile»[54]. Morendo egli trasmette ai secoli venturi la speranza di una vita non più legata

all’osservanza formale della legge (gli ebrei sono per Hegel portatori della scissione tra la morale e l’amore)[55], ma fornita del pleroma, di una pienezza che si manifesta nella forma di un impulso costante verso il cambiamento e

dell’amore in quanto ampliamento della vita stessa. In altri termini, attraverso nessuno di questi due estremi del dilemma Gesù riuscì a compiere la natura, cioè a realizzare quel bisogno di cambiamento

che spinge gli uomini verso una vita migliore. Nel primo caso egli fu in grado di sentire solo frammenti della natura e anche questi impuri; nel secondo, di portare la natura pienamente alla coscienza, ma in maniera ineffettuale,

non godendone. Gesù poteva, dunque, aderire al destino del suo popolo e così sentire la natura, il bisogno di cambiamento, soltanto in aspetti secondari (e quindi ignorare l’esigenza di cambiamento radicale

che la «natura» esigeva) oppure diventarne consapevole, ma nella modalità della «coscienza infelice»[56], secondo il più tardo linguaggio della Fenomenologia dello spirito. Gesù scelse di staccarsi dal mondo, di

ripudiarlo: «L’esistenza di Gesù fu dunque una separazione dal mondo e una fuga da esso verso il cielo, una ricostruzione nell’idealità di una vita che trascorreva vuota»[57]. Tuttavia, al fine di conservare la sua

buona novella, che altrimenti sarebbe andata perduta, poiché il suo tempo e il suo popolo non erano allora preparati a riceverlo, «morì con la fiducia che il suo messaggio non sarebbe andato perduto»[58].

Dopo la notte del Getsemani, ognuno porta da solo la propria croce, ma dopo il Golgota ciascuno, come Giona, deve essere inghiottito dalla balena, deve morire nella «morte di Dio»[59], per poter poi rinascere allo

spirito. Ma neppure Dio, se non è fruito, assimilato dalla coscienza dell’uomo, può avere realtà indipendente. Per questo Hegel può ripetere con Meister Eckart: «Se Dio non fosse io non sarei, e se

io non fossi Egli pure non sarebbe»[60]. La religiosità hegeliana – espressione della «verità» sul piano della coscienza comune – ha appunto questa caratteristica peculiare che ne rende difficile la comprensione e provoca

di volta in volta l’apparenza di ateismo o di conservatorismo: che Dio si rivela nell’uomo; che senza la sua manifestazione sensibile, in carne e ossa, egli non sarebbe, sì che uomo e Dio sono quasi due poli di un

rapporto, l’uomo è, come abbiamo visto, «Dio immediato» e Dio, per converso, si è incarnato, incuneando l’eterno nel tempo: Menschenwerdung. Anche negando alla filosofia hegeliana ogni carattere ‘romantico e

mistico’, non se ne possono comunque tagliare le radici religiose, se la si vuol capire come il proprio tempo appreso in pensieri sul piano della «rappresentazione»[61]. Ogni attualizzazione in senso esclusivamente

politico rischia di fraintendere la portata del pensiero hegeliano, di vederne la filosofia al di fuori dei suoi condizionamenti storici e dei suoi stessi limiti. Peraltro, dato che anche la religione è manifestazione dello

spirito di un’epoca, le corrispondenze e le risonanze di struttura fra religione e politica non solo non mancano, ma sono dichiarate esplicitamente da Hegel, e non c’è dubbio che fra la soggettività cristiana, che ha tradito la

sostanza immobile, e lo sviluppo economico e politico delle società europee basato sulla soggettività degli individui, il loro rialzarsi dopo ogni caduta, vi sia anche per lui uno stretto legame. Non meno unilaterale

dell’attualizzazione estrema in chiave sociopolitica è quindi la ripresa e la riduzione della filosofia hegeliana a teologia secolarizzata, anche se si dà alla teologia (della «speranza», della «morte di Dio» ecc.) un

segno positivo[62]. Come al solito, lo sforzo che va fatto nell’interpretare Hegel, deve tener presenti le contraddizioni e cercare, se possibile, di risolverle o, almeno, di individuarle senza cancellarle.

4. Lo sviluppo della «cosa stessa» Così come il concetto è «lo scopo di un oggetto», anche lo «spirito» è «lo scopo della natura»[63]. Da questo punto di vista, esso è aristotelicamente

la causa finale della natura, ciò che spiega la capacità di quest’ultima a essere compresa dal pensiero. Come causa finale, e non come causa efficiente, lo spirito precede la natura, ne è il telos implicito, e parimenti la

natura ottiene la sua «verità» nello spirito stesso. Ma nel tempo essa viene prima dello spirito e dell’uomo: «La natura è il primo nel tempo, ma l’assoluto prius è l’idea; esso è l’ultimo, il vero inizio, l’A è l’Ω»[64]. Molto

spesso si scambia però in Hegel la causa efficiente con la causa finale, e si crede non solo che sia effettivamente lo spirito, l’Idea «in sé e per sé», a produrre il mondo e a guidare capricciosamente la

danza delle cose (ed è questa la vulgata su Hegel), ma anche che i gradini «superiori» del sistema e della realtà generino, secondo lui, quelli inferiori, ossia, come afferma il giovane Marx, che nella filosofia hegeliana della storia e

della natura «il figlio genera la madre, lo spirito la natura, il risultato il principio»[65]. Ma sebbene Marx abbia qui colto un punto essenziale della filosofia di Hegel (che dovrà essere ancora chiarito su un diverso piano),

quel che Hegel intende dire non è altro che questo: il più complesso segue nel tempo il più semplice, ma lo precede nella comprensione, cioè, per usare le parole dello stesso Marx, «l’anatomia dell’uomo spiega l’anatomia della

scimmia». Anche Hegel, d’altronde, si esprime in termini analoghi a proposito della scala animale, di cui l’uomo «in quanto organismo più perfetto della vitalità, costituisce il gradino supremo»: «Ma per comprendere i

gradini bisogna

più bassi conoscere

l’organismo sviluppato, giacché esso è l’unità di misura o l’Urtier[66] per i meno sviluppati; infatti, poiché in esso tutto è giunto alla sua attività sviluppata, è chiaro che soltanto a partire da

esso si conosce il non sviluppato. Non si possono porre fondamento infusori»[67].

a gli

Hegel, piuttosto che seguire il recente idealismo, è invece qui fedele a una duplice tradizione aristotelica:

che vi sia un primo «per natura» (physei) e un primo «per noi» (pros emas) (hegelianamente, für uns); che la «cosa stessa» (auto to pragma) (hegelianamente, die Sache selbst)[68] tenda irresistibilmente verso la sua «verità», contenga

in nuce il movimento verso la sua realizzazione, che si presenta come scopo. Riguardo al primo punto, Aristotele dice, fra l’altro: «È naturale che si proceda da quello che è conoscibile e chiaro per noi verso

quello che è più chiaro e conoscibile per natura: ché non sono la medesima cosa il conoscibile per noi e il conoscibile in senso assoluto»[69]. Per Hegel, addirittura, rispetto al nesso serie storica / serie logica, esiste

un’inversione, nel senso che ciò che precede nel tempo non può spiegare serialmente quel che segue, ma ciò che segue può spiegare logicamente, post festum, ciò che precede[70]. Così, ad esempio, nel terreno del diritto e dello Stato,

la famiglia ha preceduto lo Stato cronologicamente, ma può essere intesa concettualmente solo all’interno di un tutto più sviluppato e più tardo, che diventa logicamente il prius: «è da notare che i

momenti, il cui risultato è una forma ulteriormente determinata, lo [ossia il concetto] precedono in quanto determinazioni concettuali nello sviluppo scientifico dell’idea, ma non lo precedono nello

sviluppo temporale in quanto configurazioni. Così l’idea, come è determinata in quanto famiglia, ha per presupposto le determinazioni concettuali, come risultato delle quali essa si presenterà in seguito.

Ma il fatto che questi interni presupposti esistano anche per sé, già come formazioni, come diritto di proprietà, contratto, moralità etc., è l’altro lato dello sviluppo, che, soltanto in una civiltà più altamente

compiuta, ha condotto a questa esistenza, peculiarmente formata, dei suoi momenti»[71]. Questa inversione va ulteriormente precisata nelle sue radici più profonde. Per ora, si può osservare che essa non è applicabile

meccanicamente, ed ha delle eccezioni dichiarate (ad esempio, la società civile, in quanto creazione moderna, che segue cronologicamente la formazione dello Stato, invece di precederla)[72]; che riguarda tutta la

«grande catena dell’essere» e non solo il rapporto logica/tempo; e che, inoltre, ha una configurazione particolare in alcune storie speciali, come la storia della filosofia, che corre in generale su binari paralleli rispetto

allo sviluppo logico delle categorie, sebbene valga anche qui il principio che l’ultima filosofia comprende in sé tutte le altre[73]. Di origine aristotelica è anche l’idea di una vis veri, di un’«anima propria del contenuto»

che si fa strada possentemente da sé e raggiunge la sua verità[74]. La dialettica ha in questa prospettiva un movimento oggettivo, un «andamento irresistibile»[75], che è l’intima pulsazione delle

cose stesse[76] e il loro sviluppo immanente: «La più alta dialettica del concetto è produrre e intendere la determinazione non semplicemente come limite e opposizione, ma, traendoli da essa, il contenuto e i risultati

positivi; in quanto unicamente con ciò essa è sviluppo e progresso immanente. Questa dialettica non è, poi, un fare esterno di un pensiero oggettivo, ma l’anima propria del contenuto, la quale fa germogliare i suoi rami

e i suoi organicamente.

frutti Di

questo sviluppo dell’idea, in quanto particolare attività della sua propria ragione, il pensiero è spettatore, soltanto in quanto soggettivo, senza aggiungere, da sua

parte, ingredienti. Considerare qualcosa razionalmente, non significa recare a un oggetto una ragione dall’esterno e con essa elaborarlo, ma significa che l’oggetto è, per se stesso, razionale»[77]. La dialettica hegeliana

è apparsa, in questo senso, una procedura di «assimilazione escludente» che rientra nella tradizione della teologia-politica e che funziona «precisamente separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che

divide mediante la sottomissione di una parte al dominio dell’altra». Tale aspetto risulterebbe evidente soprattutto nel caso della filosofia della religione e in quello della filosofia della storia: «sostenere, come

fa appunto Hegel, che il compito del cristianesimo sia quello di includere al proprio interno ciò che esso ha storicamente superato, è il senso ultimo della teologia politica». Inglobare nell’unità la dualità, nell’identità

l’alterità, ma subordinando il secondo elemento della coppia al primo, è il modo di procedere della dialettica hegeliana: «È quel fenomeno che egli, estendendolo all’intero corso della storia, descrive in termini di

appropriazione dell’estraneo –

della

Persia da parte della Grecia, della Grecia da parte di Roma, della latinità da parte del germanesimo. Facendo proprio ciò che intimamente è altro, quest’ultimo resta allo

stesso tempo incluso e escluso – incluso perché incorporato nel nuovo organismo ed escluso perché privato del suo contenuto, non più utilizzabile in quanto tale»[78]. Questa acuta interpretazione coglie bene le analogie della

posizione hegeliana con quelle di una più ampia tradizione del pensiero occidentale, ma per non fare di ogni erba un fascio, occorrebbe chiarire la specificità della posizione hegeliana[79]. Considerare, inoltre, il

pensiero come spettatore del processo dialettico significa dire che esso non si sovrappone all’oggetto. Da questo punto di vista, la conoscenza non è nostra aggiunta (unsere Zutat)[80], poiché si limita a esplicitare e a

conoscere ciò che è inconsciamente operante nell’oggetto. In tal modo, è vero, «le leggi dei movimenti dei corpi celesti non sono scritte nel cielo»[81], né tantomeno quelle della digestione nello stomaco, ma non sono

perciò stesso invenzione,

nostra bensì

progetto teleologico attivo in modo istintuale, Denkbestimmungen, geroglifici della ragione decifrati. Solo in questo senso, e non realiter, le categorie logiche

precedono nell’Enciclopedia

le

manifestazioni della natura e dello spirito. Non c’è in Hegel alcuna posizione gnostica, alcuna Ur-sophia che esista indipendentemente dal mondo[82]. E anche la

famosa affermazione della Scienza della logica, secondo cui essa, per il suo contenuto, è l’«esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito»[83], non solo è

una similitudine a uso della rappresentazione, introdotta da un «ci si può quindi esprimere così»[84], ma è anche un’allusione probabile a una nota affermazione di Goethe, che definiva la musica di Bach come ciò che si agitava nel

petto di Dio prima della creazione del mondo[85]. L’universale, infatti, non esiste «esteriormente come universale», ma solo come energeia dell’individuale[86] e «l’esempio della creazione del mondo è una rappresentazione.

Dio stesso è questa rappresentazione, Dio questo universale in genere, in sé determinato in molteplice maniera. Ma nella forma della rappresentazione, egli è determinato in questa semplice maniera: da

una parte abbiamo Dio e dall’altra il mondo»[87]. Sia l’universale separato, ante rem o al di fuori di essa, sia l’oggetto singolo senza determinazioni, sono per Hegel astrazioni unilaterali, opposti che hanno realtà effettuale e

«verità» concreto,

solo che

nel è

soppressione/conservazio di essi. Allo stesso modo «al di fuori del mio pensiero non c’è nulla nella cosa; e i miei pensieri al di fuori della cosa non sono nulla»[88]. Tralasciando per il

momento gli aspetti più propriamente sistematici del rapporto logica-filosofia della natura-filosofia dello spirito, di cui tratterò nell’ultimo capitolo, è sufficiente osservare, per l’economia dell’argomentazione,

che le determinazioni di pensiero esistono nella cosa realiter, però in forma ideale. Esistono – dice Hegel – così come nel seme di una pianta sono contenute implicitamente radici, rami, foglie, e non in forma miniaturizzata,

secondo le preformiste

teorie e

dell’«iscatolamento»: «l’ipotesi dell’iscatolamento il cui difetto consiste nel fatto che considera come già esistente ciò che è presente solo in forma ideale. Il lato giusto di

questa ipotesi è invece questo: che il concetto nel suo processo rimane presso se stesso e che per suo tramite non è posto niente di nuovo secondo il contenuto, ma si produce soltanto un mutamento di forma»[89]. Questo

concetto della presenza potenziale di un progetto, che viene esplicitato solo in seguito, è espresso in forma popolare – continua Hegel – nell’idea cristiana della creazione del mondo, che pone l’opposizione

fra Dio e mondo, fra Padre e Figlio, ma nello stesso tempo la toglie nella dottrina trinitaria, per cui il Figlio è stato generato dall’eternità[90], così che il «passaggio» dal Padre al Figlio – come dalla logica alla filosofia della

natura[91] – in realtà esiste solo a livello rappresentativo, poiché non è avvenuto nel tempo. Insomma: anche Dio e mondo, determinazioni logiche e cose, pensiero ed essere sono degli opposti che non hanno

verità in Tuttavia

se

stessi. non

coincidono, e Hegel aveva ragione da parte sua nel difendersi dalle accuse di panteismo[92]. Infatti, queste coppie di termini sono dialetticamente identità dell’identità e della non

identità, ossia processo, teleologicamente in corso, di assimilazione, in cui non c’è l’equilibrio della sostanza, ma il propellente del soggetto e del suo telos.

5. La filosofia della natura e la scienza La differenza fra l’uomo e gli altri esseri naturali è che l’uomo è in grado di rappresentarsi questo telos in forma di pensiero, di universale

per sé. Diversamente dall’animale, che è semplicemente dominato dal concetto oggettivo del genere (Gattung) e non attinge se non la singolarità, l’uomo conosce e riflette l’universale, poiché è l’unico essere che si

sdoppia e ritorna a sé da questa duplicazione: «Non si può indicare l’animale in quanto tale, ma solo e sempre un determinato animale. L’animale non esiste, ma è la natura universale dei singoli animali, e ciascun

animale esistente è un qualcosa di più concretamente determinato, specificato. Ma essere animale, il genere come l’universale, appartiene all’animale determinato e costituisce la sua determinata

essenzialità. Se togliessimo al cane il suo esser-animale, non si potrebbe dire che cosa esso sia. Le cose in generale hanno una natura intima permanente e un esserci esterno. Esse vivono e muoiono, sorgono e

trapassano; essenzialità,

la la

loro loro

universalità è il genere, e questo non si deve intendere semplicemente come qualcosa che hanno in comune […] L’uomo è pensante ed è qualcosa di universale, ma è

pensante solo in quanto l’universale è per lui. Anche l’animale è in sé qualcosa di universale, ma l’universale in quanto tale non è per esso, bensì solo e sempre il singolo. L’animale vede un singolo, per esempio il

suo cibo, un uomo ecc. Ma tutto questo è per esso solo un singolo. Allo stesso modo la sensazione ha sempre a che fare con un singolo (questo dolore, questo buon sapore ecc.). La natura non si porta alla coscienza il nous; solo

l’uomo si sdoppia (verdoppelt sich) così da essere l’universale per l’universale. Questo è dapprima il caso, in quanto l’uomo si sa come io […] L’io è puro essere per sé, in cui ogni particolare è negato e tolto, questo Ultimo,

Semplice e Puro della coscienza. Noi possiamo dire l’io e il pensare sono lo stesso, o, più esattamente, l’io è il pensare in quanto pensante. Ciò che io ho nella coscienza, questo è per me. L’io è questo vuoto, il ricettacolo per

tutto e per ciascuno, per il quale tutto è e che tutto conserva in sé. Ogni uomo è un intero mondo di rappresentazioni sepolte nella notte dell’io»[93]. Nella notte dell’io sono dunque contenuti idealmente i

generi digeriti

delle cose, e posti in

fluidità, e l’uomo ha la possibilità – negata agli animali – di porsi davanti a sé i generi, gli universali oggettivi che ha estratto dalla realtà, compiendone lo scopo. Perché l’uomo si

sdoppiasse, divenisse oggetto a se stesso «pur rimanendo se stesso e non divenendo un altro»[94], c’è voluto tutto il lungo processo di disciplina cominciato col rapporto signoriaservitù e che prosegue in quella marcia della

«libertà» che è per Hegel il corso della storia (non manca in questa idea una visione filosofica della Provvidenza). All’inizio, anche l’uomo era dominato dal genere, che appariva nella sua negatività come morte naturale. Il

vincere la paura della morte è stato perciò il primo elevarsi al di sopra del genere, il primo sguardo a esso rivolto come universale per sé. Ma non tutti gli uomini potevano compiere questo atto di sfida: vi erano quelli che

per «viltà» preferivano sottomettersi al più forte in cambio della conservazione della vita. Il resto è noto: la paura della morte si sviluppa anche nel servo e lo umanizza, mentre il potere del padrone deperisce

nell’ottusità godimento

e

del la

relazione tende a diventare, secondo il metro dell’economia classica, un’interdipendenza impersonale, anonima, di tutti da tutti, mediata dall’interesse e dal

lavoro[95]. Però, quello che per noi è più importante è che in un primo tempo lo sdoppiarsi della coscienza e il ritornare a sé avveniva tramite un altro, fosse esso il servo per il padrone o il padrone per il servo o

fosse Dio come entità esterna all’uomo. Ma solo quando si rientra in sé dallo sdoppiamento senza appoggiarsi ad altri, si è liberi di pensare gli universali oggettivi. Esiste però una forza del positivo che tende a creare

autorità esterne o il dominio dell’abitudine, col conseguente indebolimento dell’attività del pensiero, con un freno al ritmo dialettico di lacerazione/ritorno a sé/nuova lacerazione ecc. Ed ecco che allora

l’universale si fa nuovamente valere nel suo pauroso aspetto negativo, ricordando la sua potenza distruttiva alla «positività», e appare come Terrore nella Rivoluzione francese o «in forma di ussari con sciabole

luccicanti» guerra[96].

nella

Come accade che il genere incorporato nella realtà giunga a rivelarsi nel pensiero? Perché per manifestarsi si deve passare attraverso l’esperienza terrificante e «notturna» della

morte? Per

rispondere

a

queste domande bisogna prima spiegare alcune premesse e seguire Hegel nei suoi sforzi di trovare una soluzione organica. Per far questo, egli sottopone la filosofia a

un’immensa dilatazione di campo, le fa percorrere i risultati tra i più avanzati delle scienze esatte e naturali del suo tempo. Vengono così affrontate l’analisi infinitesimale, la fisica, la meccanica, l’ottica, l’astronomia, la

chimica, la botanica, la zoologia, la geologia, la biologia. Una fama ambigua circonda da tempo tale parte della sua opera, la Filosofia della natura, che è sembrata sempre la parte più debole del sistema, se non

addirittura un coacervo di farneticazioni, dove è possibile toccar con mano i risultati delle costruzioni aprioristiche e della «disonestà» hegeliana[97]. Ma è ormai venuto il momento di leggere seriamente la Filosofia

della natura nella sua integrità, in rapporto alle scienze dell’epoca. E per diversi motivi. In primo luogo, perché, anche ammesso che tutte le accuse di apriorismo e di disinvoltura nel trattare le scienze siano giuste,

resta pur sempre il fatto che non si capisce il pensiero di Hegel se si prescinde dalla sua valutazione della natura e delle scienze naturali e matematiche, e l’asportazione abituale di un blocco così importante non solo

rende inintellegibile l’insieme, ma dà anche alla filosofia hegeliana un sapore maggiormente «idealistico» in senso volgare. In secondo luogo, Hegel non era così digiuno di scienze naturali e di

matematica vuol far

come si credere,

esagerando il pur grave peso dell’infortunio del De orbitis planetarum[98], e, se anche non si desiderasse prestar fede alle sue esplicite dichiarazioni, l’edizione inglese della Philosophy

of Nature, col minuzioso commento del Petry, può mostrare quale enorme ricchezza di documentazione scientifica fosse nelle mani di Hegel, quale approfondita conoscenza egli possedesse di alcuni

settori della meccanica, dell’analisi infinitesimale, della botanica e della zoologia[99]. In terzo luogo, si giudica l’opera a partire dai secchi e stringati paragrafi dell’Enciclopedia, di fatto in sé quasi

incomprensibili, perché considerati da Hegel come schema per le lezioni a uso dei suoi allievi, da completarsi necessariamente con l’insegnamento orale, ora trascritto in quegli Zusätze che a lungo pochi si sono presi la

briga di analizzare[100]. In quarto luogo, le lezioni di filosofia della natura in forma enciclopedica erano rivolte agli studenti dei primi anni di diverse facoltà (costituivano il philosophicum), erano previste in funzione

propedeutica dagli ordinamenti universitari allora vigenti e avevano un carattere precipuamente didattico. Perciò, non vi è da parte di Hegel alcuna pretesa di esaurire lo scibile, di pubblicare una sua

«Bibbia», come è stato detto, ma semplicemente di offrire uno strumento didattico e teorico efficace e penetrante, una visione del mondo organica, ma non certo ritenuta definitiva e perfetta, tanto è vero

che in tredici anni Hegel curò dell’Enciclopedia tre edizioni (1817, 1827, 1830). Ritorneremo poi sulla pretesa che la filosofia sia una «scienza» e, in quanto scienza, debba anche assumere la forma di sistema, ma è meglio dir

subito che l’esposizione enciclopedica era anche un genere letterario di lunga e ampia diffusione, che non implicava affatto la completezza, né la negazione dell’empiria in favore del sistema astratto, così che

persino dare

Bacone poté all’instauratio

magna un assetto enciclopedico[101]. Se guardiamo al contenuto delle scienze trattate, l’atteggiamento hegeliano non è – almeno nelle intenzioni – quello di una

prevaricazione «filosofica» della loro natura, ma di accettazione dei risultati che gli sembrano più avanzati e del loro inserimento in una «rete adamantina», in una «metafisica» diversa da quella degli

scienziati che non riflettono sull’uso delle loro categorie. Su questo punto è molto chiaro e giunge persino ad affermare che la filosofia (moderna) ha per base l’immenso materiale conoscitivo accumulato dalle

scienze, e dalla fisica in particolare: «Non solo la filosofia deve concordare con l’esperienza della natura, ma la nascita e la formazione della scienza filosofica ha per presupposto e condizione la fisica

empirica. Ma altra cosa è il processo di origenazione e i lavori preparatori di una scienza, altra cosa la scienza stessa: nella scienza quelli non possono apparire più come fondamento; il fondamento deve essere

qui la necessità del concetto»[102], ossia l’ordine cronologico e i risultati smembrati delle scienze devono poter essere inseriti, senza forzarne la natura, ma seguendone anzi la teleologia interna, in un insieme

logicamente coerente di categorie. Hegel è però ben conscio dei rischi di questa operazione ed ha costantemente davanti agli occhi l’avventura speculativa di Schelling e dei suoi discepoli, con il loro ammasso «barocco e pretenzioso»

di trovate ‘geniali’ e il loro «brillante fuoco d’artificio» di analogie cervellotiche[103]. Per questo insiste sul carattere problematico della filosofia della natura: «Che cos’è la natura? Essa rimane un problema.

Nell’osservare i suoi processi e le sue metamorfosi, noi vogliamo cogliere la sua semplice essenza, costringere questo Proteo a sospendere le sue metamorfosi, a mostrarsi e a dichiararsi a noi, così che non

perduri nel mostrarsi a noi in forme semplicemente molteplici, sempre nuove, bensì rechi alla coscienza, nella maniera più semplice, nel linguaggio, ciò che esso è»[104]. La

filosofia

della

natura, per Hegel, raccoglie soltanto «il materiale che la fisica ha preparato per essa dall’esperienza, nel punto fino al quale la fisica lo ha portato, e lo rimodella senza porre l’esperienza come unica verifica. La fisica deve

dunque consegnare il suo elaborato alla filosofia, affinché quest’ultima traduca in concetto l’universale dell’intelletto a essa trasmesso, mostrando in qual modo esso, come un tutto in se stesso necessario,

procede dal concetto. La modalità filosofica dell’esposizione non è un arbitrio, un provare a camminare sulla testa – tanto per cambiare –, dopo che per lungo tratto si è camminato coi piedi, o un vedere il proprio viso di tutti i

giorni imbellettato; ma è per il fatto che la modalità della fisica non appaga che si procede avanti»[105]. La filosofia non è barbarie culturale che stravolge i risultati dell’intelletto scientifico; essa pretende solo di

svilupparli dall’interno, di chiarirne le zone d’ombra con la ragione: «Il barbaro si meraviglia quando sente che il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati dei due cateti. Egli ritiene che potrebbe anche essere in altro

modo, ha specialmente

paura

dell’intelletto e resta nell’intuizione. La ragione senza intelletto è nulla, ma l’intelletto senza la ragione è comunque qualcosa. L’intelletto non può essere regalato»[106].

Sotto questo profilo, anche la ragione filosofica è niente se non passa attraverso la conoscenza elaborata dall’intelletto, ricostruendone le contraddizioni latenti, e anche la filosofia è niente se resta sapere

immediato, affidato al sentimento o all’intuizione, e non si costruisce la sua forma scientifica. La filosofia, dunque, non può, da un lato, accontentarsi di essere un semplice istinto della ragione (quale si rivela

nell’opera concreta dello scienziato, guidato operativamente dai suoi successi), ma deve essere esplicitazione della razionalità presente nella scienza, ragione dispiegata, dall’altro, non può sostituirsi alla scienza

nell’elaborazione dei dati dell’empirico: «La filosofia deve partire dal concetto; e anche se essa stabilisce poco, bisogna esserne soddisfatti. È un’aberrazione della filosofia della natura il voler far fronte (Face

machen) a tutti i fenomeni; così accade nelle scienze compiute, in cui tutto vuol essere ricondotto ai pensieri universali (le ipotesi). L’empirico è qui soltanto la convalida dell’ipotesi; tutto quindi deve essere spiegato.

Ma ciò che è conosciuto attraverso il concetto, è chiaro per sé e sta saldo; e la filosofia non ha bisogno di farsi il sangue cattivo se anche tutti i fenomeni non sono ancora chiariti. Io quindi ho buttato giù solo queste basi iniziali

di una considerazione razionale delle leggi matematicomeccaniche della natura, come di questo libero regno della misura. Le persone del mestiere non ci riflettono sopra. Ma verrà il tempo in cui per

questa scienza si esigerà il concetto razionale»[107]. In tali considerazioni epistemologiche hegeliane si innesta ancora una volta una riflessione sul ruolo dei dotti, degli intellettuali e sulla loro

differenziazione. Dopo l’avvenuto «divorzio» tra la filosofia e le altre scienze[108], gli «scienziati» tendono a considerare – d’accordo con la coscienza comune – i filosofi come degli intrusi nel regno delle conoscenze utili e

a credere che la filosofia, quando non è banale rimasticatura, sia in contrasto con l’esperienza. È vero che «in nessuna scienza in effetti si è così soli come nella filosofia», e Hegel stesso riconosce di avvertire «anche

troppo» come i suoi precedenti lavori «risentano della mancanza di contatti e di reciproca influenza»[109], ma è anche vero, per contro, che sono gli scienziati a chiudersi in se stessi, a formare delle

corporazioni o «gilde», in cui si parla un linguaggio da iniziati e in cui si predica il monopolio sulla propria sfera di competenza. Nell’approfondire una zona della realtà ogni scienza tende necessariamente a

isolarsi dalle altre, anche se di fatto mette inconsciamente in luce delle connessioni più vaste che travalicano il proprio campo limitato. Compito della filosofia è tessere le fila di questa cospirazione oggettiva e sotterranea verso l’unità

razionale «concetto»[110],

del di

ricostruire continuamente la «rete adamantina» secondo le linee implicite poste in luce dalla scienza. Anche i tentativi enciclopedici e il pathos sistematico sono in

questo caso una formazione reattiva alla disgregazione apparente del sapere, ed esprimono un’esigenza storica sempre più urgente verso un «campo non-lineare» della scienza, una «enciclopedia delle

scienze unificate»[111]. Per mostrare questa intima cospirazione delle singole scienze verso l’unità, la filosofia deve sì contribuire allo scioglimento delle gilde, ma deve soprattutto apprendere le determinazioni delle

singole scienze, senza saltare oltre, fidandosi delle sole forze della ragione, la quale, come la candida colomba kantiana, non volerebbe se non ci fosse la resistenza dell’aria offerta dalle determinazioni

dell’intelletto. Parlando di una polemica suscitata da alcuni fisici contro la teoria dei colori di Goethe, rifiutata anche sulla base dell’argomento che non si deve dare ascolto a un poeta, Hegel nota: «Solo quelli che sono in

grado di far valere idiotismi, determinate teorie ecc. appartengono al mestiere; ciò che dicono gli altri viene completamente ignorato, come se non esistesse nemmeno. Queste persone vogliono

quindi spesso formare una casta ed essere in esclusivo possesso della scienza, non permettere agli altri alcun giudizio – ad esempio i giuristi. Ma il diritto è per tutti, e altrettanto il colore. In una tale classe si formano determinate

rappresentazioni fondamentali, in

cui

essa si arena. Se non si parla secondo quel linguaggio, si dice che non si è capito nulla, come se solo la gilda dovesse capire qualcosa. Questo è giusto; non si ha

l’intelletto di quella cosa, questa categoria – questa metafisica secondo la quale la cosa deve venir considerata. I filosofi vengono per lo più respinti indietro in questo modo; ma essi devono appunto impadronirsi di quelle

categorie»[112]. Già a Jena, quando Hegel viveva quotidianamente a contatto con i suoi amici naturalisti[113], aveva constatato la tendenza oggettiva delle scienze a rinchiudersi dentro un cerchio magico e a non

comunicare filosofia.

con la Eppure

l’interscambio fra filosofia e scienze potrebbe essere vantaggioso per tutti; infatti la filosofia «così come costituisce, essa che ha per essenza il concetto, il punto di

partenza che giunge alle altre scienze, così, a sua volta, riceve da quelle l’immagine della pienezza del contenuto; e le spinge ad acquisire ciò che loro manca del concetto, così come essa è animata dalle scienze a ritrarsi dalla

mancanza di realizzazione della sua astrazione»[114]. Diversamente dalle altre scienze, la filosofia non ha bisogno di costruirsi una terminologia speciale, di formare una corporazione, perché

essa è tendenzialmente una «scienza per tutti»[115]. Essa «rimodella» i contenuti posti in luce da tutta un’epoca, nella scienza, nella coscienza comune, nel diritto, nello Stato ecc. Perciò la sua forma deve essere quella di

una «enciclopedia delle scienze filosofiche», ossia non delle scienze in quanto tali, con i loro specifici problemi, ma delle scienze, nella misura in cui cospirano verso la totalità del «proprio tempo appreso in pensieri». La filosofia

non scopre niente al livello dell’empirico e dell’intelletto scientifico, ma trasforma il noto in conosciuto[116], rivela cioè alla coscienza comune e alle singole scienze l’architettura di senso del loro operare e

delle loro sfere. Ma questa traduzione non è pacifica e incontra una feroce resistenza a pensare il noto (perché «pensare significa giungere a riconoscere come vero ciò che altri hanno pensato»)[117] e tale resistenza si

manifesta sia da parte della coscienza comune, sia della scienza, che hanno stretto un’alleanza contro la filosofia. Non solo infatti si nega la competenza della filosofia, ma si presume di capirla senza

studiarla, con il sofisma che tutti gli uomini sono provvisti di ragione: «A questa scienza tocca spesso lo spregio che anche coloro che non si sono affaticati in essa, s’immaginano e dicono di comprendere naturalmente di che

cosa si tratti, e d’essere capaci, col solo fondamento di un’ordinaria coltura e in particolare dei sentimenti religiosi, di filosofare e giudicar di filosofia. Si ammette che le altre scienze occorra averle studiate

per conoscerle, e che solo in forza di siffatta conoscenza si sia facoltati ad avere un giudizio in proposito. Si ammette che, per fare una scarpa, bisogni avere appreso ed esercitato il mestiere del calzolaio, quantunque

ciascuno abbia la misura della scarpa nel proprio piede, e abbia le mani e con esse la naturale abilità per la predetta faccenda. Solo pel filosofare non sarebbero richiesti né studio, né apprendimento, né

fatica»[118]. Eppure proprio ciò che è noto è il meno conosciuto, e bisogna saperlo vedere per conoscerlo; ma saper vedere è imparare, e imparare a sua volta è staccarsi dal noto e dai suoi pregiudizi. Cosa c’è di

più noto della particella è, che usiamo quotidianamente? Eppure, sono innumerevoli i nodi di pensiero che si celano in essa: «La cultura consiste in generale in rappresentazioni e scopi universali, nell’ambito

di determinate potenze spirituali, che governano la coscienza e la vita. La nostra coscienza ha queste rappresentazioni, le fa valere come determinazioni ultime, procede in esse come nelle sue connessioni-

guida, ma non le sa; non trasforma esse stesse in oggetti e interessi della sua considerazione. Per dare un esempio astratto, ogni coscienza ha e usa la determinazione di pensiero del tutto astratta: essere. Il sole è

nel cielo, quest’uva è matura; oppure, a un più alto livello di cultura, si tratta del rapporto di causa ed effetto, di forza e di sua manifestazione ecc.; ogni suo sapere e rappresentare è intessuto e governato da

tale metafisica […] Ma questo tessuto e i suoi nodi sono immersi, nella nostra coscienza comune, in un materiale a più strati […] Quei fili universali non vengono evidenziati e fatti per sé oggetti della nostra riflessione»[119]. La

coscienza comune si adagia così nella sua routine e ritiene comprensibile solo quello che le è già noto[120]. E la filosofia, vedremo, è combattuta proprio perché contrasta l’inerzia della coscienza comune e la

chiusura delle scienze nel proprio terreno.

6. L’individuo e il genere nella preistoria della natura Com’è dunque che il genere si sdoppia e acquista esistenza nel

pensiero dell’uomo? Per trovare la risposta, Hegel fa oggetto della sua analisi tutta la realtà naturale quale è filtrata dalle scienze, a partire dall’etere[121] e dalla materia inorganica fino allo sviluppo degli organismi più

complessi. E il «sistema di gradini» della natura[122] gli appare come una progressiva interiorizzazione della materia, dimodoché «l’evoluzione è anche involuzione, nel senso che la materia si involve verso la vita»[123] e la

vita verso la soggettività e il pensiero. Con questa conversione dell’evoluzione nell’involuzione, Hegel cerca di oltrepassare l’unilateralità di due modelli che gli appaiono tipici, l’uno della metafisica orientale,

l’altro della metafisica occidentale: l’emanazione e l’evoluzione. La prima è un tentativo di spiegazione della natura come una caduta dal più perfetto (Dio) al meno perfetto e all’informe; la seconda,

come un’ascesa dall’informe e meno perfetto

al

più

perfetto[124]. Queste concezioni (che corrispondono rispettivamente alla passività asiatica, abituata a ricevere tutto dall’alto, e al concetto

europeo sviluppo)

di

libero sono

entrambe parziali e oscure nella loro nebulosità, in quanto sostituiscono una rappresentazione – una scala discendente o ascendente – alla comprensione

concettuale. particolare, l’idea

In di

evoluzione poggia su una serie temporale indeterminata per spiegare scientificamente la comparsa dei singoli animali o il succedersi delle ere geologiche.

Anche polemica

in

questa hegeliana

contro il concetto di evoluzione bisogna distinguere e non fare di ogni erba un fascio. In senso stretto, Hegel, sebbene creda peraltro all’immobilità delle specie, non aderisce né

al fissismo di Cuvier, né al trasformismo di Lamarck. Al primo, come si vedrà subito, perché non crede che sia possibile stabilire dei confini fissi nei generi animali; al secondo – sebbene conosca e mostri di stimare

Lamarck[125] – perché la teoria dell’adattamento all’ambiente, sostenuta allora già da molti, gli sembra altrettanto debole e indeterminata del concetto di evoluzione: «per quanto si possa trovar giustapposto il folto

pelame alle regioni artiche, o la struttura dei pesci all’acqua, o la struttura degli uccelli all’aria, nel concetto delle regioni artiche non c’è il concetto del folto pelame, nel concetto del mare non c’è quello della struttura dei pesci,

né nel concetto dell’aria quello della struttura degli uccelli»[126]. Ciò non significa che egli consideri falsa questa dottrina, né che neghi la comparsa successiva degli esseri viventi sulla terra e il loro abituarsi al clima e alle situazioni

esterne. Ciò che nega ancora una volta (con una critica storicamente retrograda, ma che aveva colto delle lacune reali, come sappiamo dopo Darwin e Mendel) è il valore esplicativo dell’adattamento e della serie cronologica. Ma se

la serie si accompagna a una struttura concettuale, vera o presunta, come nel caso della metamorfosi delle piante di Goethe, egli non ha difficoltà ad accettarla[127]. D’altro canto, l’indeterminatezza delle

teorie scientifiche non è imputabile esclusivamente allo scienziato. È il Proteo della natura, questo «tutto vivente»[128], che non presenta contorni precisi e che non pone confini fissi ai generi: «Dappertutto la natura

mescola le linee divisorie essenziali con prodotti ibridi e cattivi, che forniscono sempre argomenti contro ogni distinzione rigida; e anche all’interno di generi determinati (ad esempio del genere umano) produce aborti,

che da una parte bisogna annoverare in quel dato genere, mentre dall’altra, mancano di determinazioni, che sarebbero da considerare come caratteri essenziali del genere. – Per poter

giudicare prodotti

siffatti come

manchevoli, cattivi, abortivi, è da presupporre un tipo fisso, che però non potrebbe essere attinto dall’esperienza, giacché questa appunto ci porge anche quei cosiddetti

aborti, mostri, esseri ibridi ecc.: il tipo presuppone, per contrario, l’indipendenza e dignità della determinazione concettuale»[129]. Ma è proprio l’indipendenza della determinazione concettuale che

l’«impotenza della natura» non riesce ad assicurare[130]. A causa di tale inadeguatezza della natura al concetto, tutta la scienza sperimentale moderna, dal Rinascimento in poi, appare a Hegel come un’immane battaglia tra

la ragione che cerca se stessa nella regolarità dei fenomeni e l’esperienza sensibile che mostra sempre nuove eccezioni e casi irrelati[131]. Dopo il disinteresse che il Medioevo avrebbe dimostrato per la realtà,

le scienze naturali si dedicarono all’inventario del mondo, e si appigliarono, per orientarsi, ai segni distintivi delle cose. Ad esempio, per classificare la ‘bella d’erbe famiglia e d’animali’, ricorsero a

«zampe, denti», radici ecc.[132] Tuttavia, tali segni caratteristici, col progresso della scienza guidata dall’«istinto della ragione», si rivelano inadeguati e imprecisi. Allora sorgono nuovi sistemi e nuove tassonomie:

Jussieu sostituisce ai 24 generi di piante stabilito da Linneo la distinzione ‘più razionale’ in monocotiledoni e dicotiledoni[133], mentre Lamarck sostituisce alla vecchia divisione aristotelica fra animali con sangue e animali

senza sangue, o alle più recenti catalogazioni, la distinzione fra vertebrati e invertebrati[134]. Ma di fronte all’inesauribile ricchezza e alla relativa indeterminazione della natura, l’atteggiamento della scienza (che deve

rinunciare necessariamente

ad

abbracciare la natura in un sistema compiuto) può diventare protervia contro la ragione esplicita, glorificazione del dato empirico isolato, come unica certezza dettata dalla

sfiducia. Le scienze naturali erano partite con la convinzione che la realtà fosse realmente scritta in caratteri razionali (cerchi, triangoli), che bastasse «torturare la natura sul cavalletto» per farle confessare i

suoi segreti[135]. Ma poi la ragione scientifica ha compiuto una amara esperienza, non si è riconosciuta a pieno nell’alterità della natura: «dopo aver frugato in tutte le viscere delle cose, dopo averne aperte tutte le

vene aspettandosi quasi di veder sgorgare se stessa»[136], essa non ha avuto questa fortuna, proprio perché la natura è altro da sé rispetto allo «spirito» e c’è uno scarto non colmabile tra le determinazioni di pensiero ancora vaghe

della natura e la fluidità e la determinatezza dei concetti della ragione dispiegata. Qualora la scienza empirica non colga questi limiti, si accanisce nell’empirico sino a reificare, per converso, lo spirituale, a invertire i termini; e

allora, come nella frenologia di Gall, lo spirito diventa «un osso»[137], e le bozze craniche la realtà dello spirituale. Ma l’istinto della ragione può anche non disperare di se stesso, e in questo lavoro di scavo verso

l’esterno riconoscere anche il contemporaneo lavoro di scavo verso l’interno, verso il «sole» della ragione esplicita: «A quel modo che l’istinto dell’animale cerca e consuma il cibo senza produrne cosa diversa da sé,

similmente l’istinto della ragione nel suo cercare trova soltanto lei stessa. L’animale termina col sentimento di sé, mentre l’istinto della ragione è in pari tempo autocoscienza»[138]. Nel riconoscimento che

l’istinto della ragione si prolunga necessariamente nella ragione autocosciente giace la possibilità di una rinnovata alleanza fra filosofia e scienze, sulla base della comune impresa di assimilazione della

realtà. In polemica con l’idea di evoluzione intesa come serie fluida e sfumata, per cui esistono anelli di congiunzione continui nella «grande catena dell’essere», Hegel stabilisce sia barriere

invalicabili fra i tre «regni» della natura (minerale, vegetale, animale), sia una rigida struttura gerarchica. Respinge cioè sia le ipotesi, sostenute da Vallisneri, Bonnet, Robinet ecc., che esistano forme di

transizione fra i tre regni, come le «piante petrose di mare», i tartufi o i fossili[139], sia l’ipotesi, ripresa allora anche da Cuvier, che l’ordinamento degli esseri viventi debba venir rappresentato non come una scala o un

albero, ma secondo un insieme di posizioni in un reticolo di coordinate[140]. In questa impostazione hegeliana – singolarmente vicina a quelle di Lamarck o Bichat – la vita sopraggiunge come un

novum sulla materia, come un «lampo» che la colpisce, o sorge «quale Minerva già armata dalla testa di Giove»[141]. Per cogliere più a fondo mediante il contrasto alcune notevoli analogie e differenze fra Hegel e Lamarck, ci può essere

d’aiuto questa bella pagina di Sainte-Beuve, in cui vengono ricordate le lezioni di Lamarck al Jardin des Plantes: «si mostrava molto ostile ai chimici, agli sperimentatori in piccolo, come li chiamava […] Secondo lui le cose si

andavano facendo da sé, da sole, per continuità, mediante tratti di tempo sufficienti, senza passare per trasformazioni istantanee o crisi, senza subire cataclismi o commozioni generali

[…] Una lunga pazienza cieca, questo era il suo Genio dell’universo […] Anche l’ordine organico, una volta ammesso questo potere misterioso della vita, piccolo ed elementare quanto era possibile, egli supponeva che si

sviluppasse da sé, si complicasse, si facesse a poco a poco; il bisogno sordo, la sola abitudine ad ambienti diversi, faceva nascere a lungo andare gli organi, mentre al contrario il potere della natura, costantemente in

azione, li distruggeva: perché Lamarck separava la vita dalla natura. La natura ai suoi occhi era pietra e cenere, il granito del sepolcro, la morte! La vita vi sopraggiungeva come un accidente strano e singolarmente

industrioso, una lotta prolungata, con occasionali fasi di maggiore o minor successo, di equilibrio più o meno durevole, ma sempre vinta, alla fine: la fredda immobilità avrebbe regnato dopo come

aveva prima»[142].

regnato A

prescindere dalle più ovvie e profonde differenze, vi sono anche, tra Hegel e Lamarck, alcune illuminanti convergenze oggettive: per entrambi la vita è un «accidente

strano» che non si spiega attraverso leggi meccaniche o chimiche, ma che ha una potenza propria; per entrambi essa sorge ancora, negli animali inferiori, attraverso la generatio aequivoca[143]; per entrambi la natura

inorganica è il «granito del sepolcro» o un «cadavere»[144]; per entrambi la vita della Terra è destinata a finire: «Cielo e Terra – dice Hegel, citando Matteo – passeranno»[145], cosicché l’universo

hegeliano, malgrado la marcia trionfale dell’idea nello spirito, contiene anch’esso la sua entropia e autodistruzione. Il giovane discepolo di Hegel, Feuerbach, esprimerà potentemente questi

concetti in uno dei suoi primi scritti, i Pensieri sulla morte e l’immortalità[146]. Del resto Hegel non ha una concezione trionfalistica della storia umana: sa che in essa le pagine di felicità sono «pagine vuote», anche se si cade

in un equivoco quando si attribuisce al suo pensiero l’affermazione che la storia è un «mattatoio» o un «banco di macellaio» (Schlachtbank), dimenticando di aggiungere che egli attribuisce questa

visione guarda

solo gli

a chi eventi

rimanendone in disparte, all’«egoismo che stando sulla riva tranquilla gode sicuro delle lontane visioni di confuse rovine», senza vedere come «la coscienza della libertà»

avanzi malgrado questi drammi[147]. L’organismo vivente è caratterizzato per Hegel – sulla scia di Bichat, Richerand e Lamarck – dalla contraddizione che poi ritorna all’unità indifferenziata della morte[148]. Ma il genere

continua a vivere attraverso la morte degli individui. Invece il pianeta Terra è geologicamente già morto ed inerte, il suo «processo di formazione è un processo passato»[149]: «La storia è in precedenza caduta

sulla Terra, ma ora è giunta alla quiete»[150]. Non si può certo negare che la Terra abbia avuto una storia e sia passata attraverso enormi rivoluzioni, dovute anche al variare dell’inclinazione dell’asse terrestre, come

Hegel afferma seguendo Buffon e Laplace: «La Terra e l’intera natura è da considerare come un prodotto; ciò è necessario secondo il concetto […] Che la Terra abbia avuto una storia, cioè che la sua natura sia il risultato di successivi

mutamenti, lo mostra immediatamente questa natura stessa. Essa indica una serie di gigantesche rivoluzioni, che appartengono a un lontano passato e che hanno bene anche un nesso cosmico, in quanto la posizione

della Terra in relazione all’angolo formato dall’asse col piano dell’orbita poteva esser cambiato»[151]. Hegel, che era stato assessore della «Società mineralogica di Jena», membro della «Società naturalistica della Vestfalia»[152],

studioso appassionato della «nostra cara mineralogia» – come scriveva al filosofo e mineralogo Lenz[153] –, non poteva evidentemente credere che i movimenti tettonici, l’attività dei vulcani, l’erosione

dell’acqua ecc. fossero scomparsi e del resto non si era ancora spento il ricordo della nascita, nel 1707, di un’isola nella baia di Santorini. Egli, inoltre, ritenendo superata la disputa fra il nettunismo di Werner (il quale riteneva che la

Terra fosse stata inizialmente ricoperta da un oceano primordiale e che le formazioni rocciose fossero sorte nell’acqua per «precipitazione», una tesi in parte approvata da Goethe) [154] e il plutonismo o

vulcanismo Hutton[155],

di sostiene

esplicitamente che entrambi i princìpi devono essere riconosciuti e che «nel cristallo della Terra il fuoco è attivo tanto quanto l’acqua: nei vulcani, nelle fonti, nei

processi meteorologici in genere»[156]. In che senso bisogna quindi interpretare la sua teoria che il «cristallo della vita», la Terra, è diventato un «morto organismo»?[157] Nel senso che la terra, come un cristallo che ha

ormai quasi compiuto il suo sviluppo[158], si avvia verso l’equilibrio di un sistema omeostatico. Lo «spirito della terra», dopo essersi agitato nel suo sogno notturno, «si sveglia ed ottiene la sua coscienza

nell’uomo»[159]. Révolution est

La finie!,

questa frecciata di Hegel contro Reinhold si può ora ritorcere contro di lui[160]. Ma perché è finita? È evidente che Hegel ha cercato di «conciliare» le due posizioni divergenti

nella geologia del tempo: la dottrina cataclismatica e quella uniformistica, e con uno sbrigativo giudizio ‘salomonico’ ha attribuito validità alla prima per il passato, alla seconda per il presente: «La storia è dapprima

caduta sulla Terra, ma ora è giunta alla quiete; una vita che, fermentante in se stessa, aveva il tempo in se stessa»[161]. L’esperienza della storia umana dopo il Diluvio, nei presunti 6.000 anni trascorsi, sembrava

dargli ragione[162]. Nessun gran cataclisma si è verificato, e anzi la Terra, lucrezianamente stanca di partorire, mostra nel Nuovo mondo la sua impotenza senile; uomini e animali son più deboli e piccoli e la

vis generativa è alla fine[163]. Nell’Europa, «parte razionale della Terra», si è svegliato lo spirito terrestre giungendo nell’uomo europeo al culmine dell’autocoscienza[164]. Così, da quando il pianeta è diventato

«patria nostra […] patria dello spirito»[165], i suoi movimenti si sono pietrificati e rimane solo una lenta e sporadica opera di modificazione attribuita al fuoco e all’acqua. Nella scenografia del sistema hegeliano, la relativa

immobilità e ciclicità della natura serve come sfondo per far risaltare il movimento di sviluppo dello spirito umano, per il quale la rivoluzione continua: «Nella natura i mutamenti, per infinitamente molteplici

che siano, manifestano soltanto un moto circolare, che si ripete sempre: nella natura non accade nulla di nuovo sotto il sole, e in tal senso il gioco, pur così multiforme dei suoi fenomeni porta con sé una certa noia. Solo nei

mutamenti che hanno luogo sul terreno spirituale nascono le novità […] Se confrontiamo i mutamenti dello spirito e della natura, vediamo che in questa il singolo è sottoposto alla vicenda, nella quale

però le specie restano immobili. Così il pianeta abbandona questo o quel luogo, ma il suo corso complessivo è costante. Lo stesso avviene per le specie animali. Il mutamento è un ciclo, una ripetizione dell’identico […] È vero

che anche la serie delle forme naturali costituisce una graduazione, dalla luce fino all’uomo, in modo che ogni grado è una trasformazione del precedente, un principio superiore, sorto dal superamento e

dall’eliminazione di quel che precede. Ma nella natura questi elementi si separano, e tutti i germogli coesistono l’uno accanto all’altro: il trapasso si manifesta solo allo spirito pensante […] Nella

natura la specie non fa alcun progresso, nello spirito invece cambiamento progresso»[166]. Nel

ogni è

sottolineare

la

distanza fra l’immobilismo della natura e il progresso dello spirito,

nell’indagare sulle zone più oscure del rapporto tra prima e seconda natura, nel respingere quel dominio della natura prima che (alla fine dell’Ottocento) diventerà centrale nella cultura europea, Hegel vuole, da un lato,

considerare la natura come base pre-istorica e finalisticamente subordinata della storia umana in cui l’uomo, giunto al dominio del mondo naturale attraverso le macchine e la scienza, «fa valere il suo diritto e la sua

dignità nell’interdire

solo e

maltrattare la natura, a cui restituisce quella necessità e violenza che ha subìto da essa»[167]. La natura – contro ogni «tenerezza per le cose»[168], contro ogni forma di elevazione

panteistica o romantica – va pertanto sottoposta, secondo Hegel, al dominio dell’uomo, deve diventare serva dopo essere stata a lungo padrona, in quanto l’astuzia umana la mette in contraddizione

con se stessa, utilizza la forza degli elementi naturali (acqua, vento, vapore) per realizzare dei fini sociali, senza creare niente di nuovo[169]; dall’altro lato, vuole far confluire nella suprema idealità del pensiero, come tolti,

tutti i natura

generi della che hanno

invece esistenza in quanto giustapposti spazialmente; in tal modo il pensiero dell’uomo diventa veramente un microcosmo, un percorrere tutto

l’universo senza uscire da sé, perché è l’universo, la materia, la natura che nel pensiero è tornata a sé, si è interiorizzata, ‘involuta’; solo nel pensiero, allora, come materia che ritorna in se stessa, i generi naturali

ottengono determinatezza

quella che

prima mancava loro[170].

In quest’opera di «disantropomorfizzazione della natura[171], Hegel non intende soltanto salvare l’alterità e l’indipendenza relativa dell’oggetto, come «ciò

che sta di fronte» (Gegen-stand) e non si esaurisce nel soggetto (contro Fichte che ne faceva un semplice limite), ma intende stabilirne anche l’assimilazione in posizione subalterna. Ricorrendo alla

terminologia di Adorno, si potrebbe dire che la ratio celebra qui il suo trionfo. Ma la posizione hegeliana è ancora più complessa, perché il dominio sulla natura deve rendere possibile la liberazione dell’uomo, e alla guida di questa

«Befreiung von der Natur» sta la filosofia[172], che ha il suo centro – come Feuerbach non mancherà di osservare – nell’anti-naturalismo e nel distacco dall’immediatezza. Con «sovrana ingratitudine»[173], lo

spirito taglia il cordone ombelicale che lo legava alla natura e inizia una marcia autonoma (che ha pur sempre la natura come presupposto, ma come presupposto dominato) in quelle zone della Terra dove l’uomo è

all’avanguardia, in particolare nella «parte razionale» di essa, ossia l’Europa e i suoi «Annexa», come le Americhe. Si compie con Hegel una rivoluzione teorica: dopo l’epoca dell’assimilazione della

natura, egli cominciata

ritiene l’epoca

dell’assimilazione della storia umana. La talpa dell’istinto della ragione, dopo aver aperto le vene della natura alla ricerca di se stessa, si rivolge ora alla ricerca di un senso della

storia. E malgrado ogni arbitrio costruttivistico, c’è in questo tentativo la volontà (o la presunzione) titanica di appropriarsi e di guidare un movimento finora cieco, di comprendere e sottoporre alla «ragione» anche la

storia umana. Il fatto stesso che questo problema si cominci a porre significa che il lavoro di razionalizzazione può iniziare[174]. La filosofia della storia, nel ricostruire il senso della storia, procede in un

certo modo cuverianamente, attraverso il «principio di corrispondenza» e cerca l’ossatura complessiva dei singoli avvenimenti in strutture di pensiero. La storia cessa così di essere erudizione, «dotta

spazzatura raccogliticci

di

fatti ed

estrinseci» o intreccio gratuito: «Una storia senza siffatto scopo e senza siffatto giudizio sarebbe soltanto un abbandonarsi da idiota alla mera immaginazione: non

sarebbe neppure una fiaba da bambini, giacché anche i bambini vogliono nelle narrazioni un interesse, cioè uno scopo, che si dia loro almeno ad intravvedere, e la relazione degli avvenimenti e delle

azioni a questo scopo»[175]. La storia è un processo teleologico, anche se il nomos è da scoprire, e Hegel crede di individuarlo nel «progresso nella coscienza della libertà»[176], ossia nella progressiva e

inarrestabile distruzione dei condizionamenti esterni all’assimilazione. La storia non è quindi per Hegel un semplice scorrere amorfo, un progresso senza mèta, come lo concepirà anche il successivo

storicismo tedesco, ma è, per così dire, vertebrata, fornita di una struttura in divenire. Nella difesa che Hegel compie di una storia teleologicamente orientata non c’è solo una forma di profetismo secolarizzato[177], ma la

polemica rinascente

contro

il

irrazionalismo di Schelling, von Baader e simili (che negavano la possibilità di conoscere positivamente una qualche direzione degli avvenimenti umani)[178] e contro l’idea dei

teorici della Restaurazione per cui esiste un corso naturale delle cose voluto da Dio che l’uomo non è in grado né di intravvedere né di mutare. Lo spostarsi del baricentro del discorso hegeliano dalla natura

alla storia accentua i caratteri ‘idealistici’ di questa filosofia e produce contemporaneamente quel disprezzo per la naturalità e quell’ammirazione per l’umano che formano l’anima della teoria di

Hegel. È insegnamento

un che

rimarrà impresso nei discepoli diretti e indiretti: dal paragone fra il cielo stellato e un’eruzione cutanea o uno sciame di mosche, ripetuto da Heine[179] all’affermazione,

prediletta da Marx, della superiorità del pensiero di un delinquente rispetto ai più meravigliosi spettacoli della natura: «Spesso gli [cioè a Marx] ho sentito ripetere il detto di Hegel, il maestro di filosofia della sua

gioventù: “Persino il pensiero criminale di un malfattore è più grandioso e sublime delle meraviglie del cielo”»[180]. E questo spiega in parte anche la solennità (ritenuta prussiana) con cui Hegel parla dello Stato: «Ogni

Stato, lo si dichiari anche cattivo secondo i princìpi che si professano, si riconosca in esso questo o quel difetto, – ha sempre in sé, specialmente se appartiene alla nostra epoca civile, i momenti essenziali della sua

esistenza. Ma, poiché è molto più facile scoprire un difetto, che intendere l’affermativo, si cade facilmente nell’errore di dimenticare al di sopra dei suoi aspetti singoli, l’organismo interiore dello Stato stesso. Lo

Stato non è un’opera d’arte; esso sta nel mondo e, quindi, nella cerchia dell’arbitrio, dell’accidentalità e dell’errore; un cattivo comportamento lo può svisare da molti lati. Ma l’uomo più odioso, il reo, un ammalato e uno

storpio, sono sempre ancora uomini viventi; l’affermativo, la vita, esiste, malgrado il difetto; e questo affermativo importa, qui»[181]. Dinanzi alle meraviglie della natura, l’uomo più oscuro ha un valore infinito: «La

religiosità, la moralità di un ristretto tipo di vita – quella di un pastore, di un contadino –, nella sua concentrata interiorità, nel suo restringersi a pochi e affatto semplici rapporti di vita, ha un valore infinito»[182].

7. La teleologia dell’istinto: animale e uomo Seguiamo ancora per un tratto il processo di interiorizzazione della natura sino al sorgere dello spirito. Già nel cristallo la materia comincia a organizzarsi

dall’interno, a partire da un «germe» che le dà forme regolari e simmetriche[183]. Col passaggio «dalla prosa alla poesia della natura»[184], si dipanano poi le diverse manifestazioni della vita: dalla goccia

d’acqua marina, che contiene un «globo vivente» d’infusori, alghe ecc.[185], alla pianta, in cui si avverte la prima «concentrazione delle differenze, uno svilupparsi al di fuori dell’interno»[186], agli

animali, in cui l’individualità organica «esiste come soggettività in quanto la propria esteriorità della figura si è idealizzata»[187]. A differenza della pianta che dipende da una potenza esterna (dalla

luce, quasi «il proprio Dio»)[188], l’animale è mosso da una forza interna, l’istinto. In lui la vita è scopo e mezzo, e la sua «realizzazione è nello stesso tempo un rientrare in sé»[189]. L’organismo animale è, infatti, «il microcosmo,

il centro divenuto per sé della natura, in cui l’intera natura inorganica si è riassunta e idealizzata»[190]. Ma l’animale è tuttavia sottoposto al dominio di un universale, il genere, che resta esterno a lui, non interiorizzato. La

sproporzione fra il singolo e il genere si conclude con la morte del singolo: «la natura organica termina quindi così: per il fatto che il singolo muore, il genere giunge a se stesso, e diventa con ciò oggetto a sé; questo costituisce il

sorgere dello spirito»[191]. Il genere diventa dunque autonomo, si sdoppia attraverso la morte e il sole interiore nasce da questo sacrificio notturno della natura: «Lo scopo della natura è uccidere se stessa […]

bruciarsi come Fenice e rivenir fuori ringiovanita da questa esteriorità come spirito»[192]. Dalla morte della natura scaturisce il pensiero, «l’universale esistente per se stesso», «l’immortale»[193]. La religione cristiana, che

sorge dalla «notte in cui la sostanza fu tradita e si rese soggetto» e che introduce la vita più alta attraverso il sacrificio della naturalità, rappresenta pur sempre il modello di riferimento, ma dietro di esso si affaccia anche

l’immagine della società moderna che vuole asservire la natura, cancellare ogni immediatezza risolvendola nel potere dell’astratto, della mediazione incessante a cui nulla deve sfuggire.

Non riuscendo a rappresentarsi il genere, l’animale agisce per istinto. Nel costruire «nidi, tane, giacigli», si comporta come un «artigiano inconscio», ma solo «nel pensiero, nell’artista umano, il concetto è per se

stesso»[194]. Perciò – dice Hegel, riferendosi agli esempi di Cuvier in Le Règne Animal distribué d’après son organisation[195] – quanto più complessa è l’organizzazione dell’animale, tanto più debole è l’istinto.

L’uomo, invece, «avendo coscienza del reale come ideale, cessa di essere qualcosa di puramente naturale, dedito solo alle sue immediate intuizioni e tendenze, alla loro soddisfazione e produzione. Che egli

abbia coscienza di questo si manifesta nel fatto che egli frena i suoi istinti: tra l’impulso dell’istinto e la sua soddisfazione egli pone l’ideale, il pensiero. Nell’animale i due momenti coincidono; esso non scinde da sé

questo nesso, che può essere interrotto solo dal dolore o dal timore. Nell’uomo l’istinto sussiste prima o senza che esso lo soddisfi: potendo frenare o dar corso ai suoi istinti, egli agisce secondo fini, si determina secondo

l’universale. È lui che deve determinare quale fine debba riconoscere come valido: e può porre come suo fine persino il puro universale. Quel che lo determina in ciò sono le rappresentazioni di ciò che egli è o vuole. In

questo è l’autonomia dell’uomo: ciò che lo determina, egli lo sa […] Per l’animale le rappresentazioni non sono realtà ideale, effettiva […] Esso non può intercalare nulla fra il suo istinto e la sua soddisfazione; non ha

volontà, non può passare all’inibizione. Lo stimolo si genera nel suo interno e presuppone un’esecuzione immanente. L’uomo è autonomo non perché il movimento comincia in lui, ma perché egli lo

può frenare, rompendo in tal modo la sua immediatezza e naturalità»[196]. In questo senso, dato che anche per Hegel «il lavoro non è un istinto, bensì un atto razionale»[197], «attività in sé riflessa»[198], che

ha a fondamento una rappresentazione, vale qui quanto riaffermato da Marx: «Il nostro presupposto è il lavoro in una forma nella quale esso appartiene esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che

assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che

egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla nella cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente

idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del

suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà»[199].

8. Lavoro, pensiero, istinto Il problema del lavoro e della finalità cosciente o inconscia nell’operare dell’uomo coinvolge

direttamente anche quello della teleologia, lungamente dibattuto nella cultura europea da Aristotele a Kant e spesso sottoposto, in età moderna, a critiche distruttive. A partire da Spinoza, si è, infatti, ridotta ogni causa finale

a causa efficiente: «La causa così detta finale, poi, non è se non la voglia umana, in quanto considerata come principio o causa primaria di qualcosa. Per esempio, quando diciamo che l’abitazione è stata la causa finale di

questa o di quella casa, altro non intendiamo se non che un uomo, essendosi immaginato i vantaggi della vita domestica, ha avuto voglia di costruire una casa. Per cui l’abitazione, in quanto considerata come causa

finale, non è altro che questa singola voglia, che in verità è causa efficiente, considerata come causa prima per il fatto che gli uomini ordinariamente ignorano le cause di ciò che vogliono»[200]. In seguito si è attaccata la

teleologia insita nelle filosofie della storia per giungere, infine, al suo netto e globale rifiuto. Da allora grava su di essa il sospetto dell’inutilità o dell’inganno (che bari cioè quando introduce surrettiziamente ipotesi

che nascondono l’ignoranza dei fenomeni che intende affrontare). È largamente noto come la scienza moderna sia sorta, in polemica contro determinate tradizioni attribuite

all’aristotelismo, anche sulla base dell’eliminazione dal suo ambito delle cause finali. Esse vengono ridicolizzate nei loro ultimi malinconici sostenitori, in coloro che – secondo le caustiche espressioni di

Voltaire – ritengono che Dio abbia creato le maree «affinché i battelli entrino più agevolmente in porto e per impedire che l’acqua del mare imputridisca» o sostengono «che le gambe sono fatte per

essere calzate e i nasi per portare gli occhiali»[201]. Il ricorso alle cause finali viene perciò considerato un pregiudizio teologico e antropologico da cui lo scienziato e il filosofo devono ben guardarsi. In questo modo, il

finalismo diventa un tabù culturale e il meccanicismo trionfa erigendosi a modello di ogni sapere, postulando leggi esclusivamente causali-efficienti e rinunciando solennemente al presupposto che la

natura sia regolata da fini, specie se utili all’uomo. Dopo lo sviluppo delle scienze della vita e il loro relativo autonomizzarsi dal riduzionismo meccanicistico, si è però costretti a riconoscere

che gli organismi viventi sono pur sempre regolati da leggi che non sembrano esclusivamente meccanico-efficienti. Per mantenere il tabù anti-teleologico e rimanere fedele al suo ideale di scientificità,

Kant è pertanto costretto a ricorrere a una geniale soluzione di compromesso, dichiarando la finalità una «idea regolativa» e non un concetto scientifico: si può solo dire che è «come se» in natura ci fosse un

ordinamento teleologico. Questo è il primo grande sintomo di imbarazzo e di disagio nei confronti sia dell’accettazione che del rifiuto della finalità. Malgrado ogni assalto vittoriosamente sferrato contro il finalismo, è,

appunto, «come se» il compito di bandirlo non fosse mai terminato e ciò che è stato cacciato dalla porta rientrasse, camuffato, dalla finestra. Sebbene la lotta nei confronti del finalismo abbia spesso costituito una forma di

igiene mentale, il prezzo sembra essere stato una rimozione mal riuscita. Compromessi analoghi sono stati stipulati anche in tempi più vicini a noi attraverso l’uso di categorie quali «teleonomia», «quasi-

finalità» o «bricolage». Ampi settori della biologia contemporanea hanno interpretato il formarsi e lo strutturarsi della materia vivente in base al modello dello stabilizzarsi del caso e delle mutazioni:

dapprima si producono combinazioni aleatorie – ad esempio, catene di aminoacidi e di proteine – e solo dopo la cellula tende teleonomicamente alla riproduzione di se stessa, alla reduplicazione secondo

il metodo del ne varietur (dimodoché costituisce problema più la permanenza che l’innovazione evolutiva). La natura prende ciò che trova: non è un architetto, ma un bricoleur. In von Wright l’uso del termine

«quasi-finalità» sostituisce quello

di

«teleologia», accreditandosi come alternativo: quando diciamo, sostiene, che il nostro cuore batte più in fretta sotto sforzo «per» essere così in grado di ossigenare

maggiormente i tessuti, diamo una spiegazione quasi finalistica, che esclude sia la finalità cosciente che un disegno prestabilito e si riduce al modello omeostatico della compensazione e della eliminazione degli

elementi di disturbo[202]. Il problema della stabilizzazione del caso passa così in secondo piano rispetto alla riproduzione di un equilibrio alterato. Rimane da chiedersi – al di là dell’indubbio spessore scientifico e

culturale di queste teorie – se, da un punto di vista categoriale, termini come «teleonomia» «quasifinalità» o «bricolage» non siano degli eufemismi per evitare di pronunciare la parola «teleologia» e di

evocarne il concetto pur godendone dei vantaggi, se non nascondano cioè le difficoltà (da notare il «quasi» nella «quasifinalità») in luogo di portarle più radicalmente alla luce. Resta da domandarsi in che misura abbia

ragione il biologo francese Grassé, il quale – parafrasando La Rochefoucauld – ha affermato che la teleonomia rende alla teleologia lo stesso omaggio che il vizio rende alla virtù[203]. È solo con Hegel che,

in età post-kantiana, la teleologia viene riabilitata e ottiene un nuovo diritto di cittadinanza nel pensiero filosofico. Ciò accade in due modi. In primo luogo, Hegel considera il lavoro come soluzione del conflitto

teoretico che opponeva in Kant il meccanicismo al teleologismo, ossia come vera cerniera tra oggettività e soggettività[204]. Egli è certo d’accordo con la tradizione scientificofilosofica moderna secondo cui la natura

non è fatta per l’uomo: le pietre cadono, i fiumi scorrono, il vento soffia, il vapore si innalza, i fiori sbocciano, le mucche danno latte e tutto ciò accade indipendentemente dalla volontà e dalla progettualità umane.

Esistono, dunque, forme di legalità naturale, che agiscono secondo i propri princìpi, senza bisogno di consapevolezza, ma il lavoro e il sapere umani, proprio in quanto coscienti, hanno appreso a comandare la

natura obbedendole, rispettando al massimo le sue leggi per potersene poi servire in vista di fini esclusivamente umani. In tal modo le case si costruiscono con pietre e mattoni che seguono le leggi della gravità, la

corrente del fiume muove da sé le pale dei mulini, il vento, soffiando dove vuole, gonfia le vele, con la sua forza espansiva il vapore aziona le macchine, dai fiori di genziana, che crescono spontaneamente, si

producono liquori e dal latte che esce dalle gonfie mammelle delle mucche, delle pecore e delle capre si fa il formaggio. L’astuzia del lavoro e della scienza consiste quindi nell’assecondare le leggi naturali prive di

finalità, nel trasformarle in mezzi per i fini introdotti dall’uomo, che si impossessa di tali forze e le piega al proprio scopo. Egli usa pertanto l’energia dell’acqua di un torrente per far girare le pale di un mulino, in

modo da mettere in movimento la macina che trita il grano, trasformandolo in farina. Ma il grano non cresce per noi, così come il vento non soffia per farci piacere. Noi raggiungiamo dunque il nostro scopo unendo e

combinando forze naturali separate messe talvolta in contrasto tra loro e sfidiamo la natura sul suo stesso terreno. In questo senso, l’astuzia delle macchine, progettata dal lavoro che cattura le energie naturali, è

analoga all’«astuzia della ragione» (List der Vernunft) che si serve nella storia delle passioni degli uomini, come energie inconsce naturali, per raggiungere risultati preterintenzionali e inattesi, che sorpassano

gli scopi individui[205].

degli

In secondo luogo, Hegel allarga la sfera di validità della teleologia, distinguendo tra finalità esterna e finalità interna e dichiarando che solo la prima deve essere espunta dal

pensiero scientifico, mentre la seconda costituisce un concetto indispensabile per comprendere non solo l’attività lavorativa e progettuale umana, ma anche il suo nesso con la natura e con la storia. Di nuovo – come prima

in Aristotele e poi in Max Weber – la razionalità appartiene per lui soltanto al regno dei mezzi, degli strumenti e non dei fini. Vi è un passo noto, che occorre meditare nuovamente in questo senso: «A cagione del

suo essere finito, lo scopo ha inoltre un contenuto finito. Perciò non è un assoluto, o addirittura in sé e per sé un razionale. Il mezzo è poi il termine medio esteriore di quel sillogismo in cui consiste la realizzazione

dello scopo. In esso se ne dà quindi a conoscere la razionalità come quella che si conserva in cotesto altro esteriore e precisamente per via di cotesta esteriorità. Perciò il mezzo è un che di superiore agli scopi

finiti e alla finalità esterna; – l’aratro è più nobile che non siano i godimenti che esso procura e che costituiscono gli scopi. Lo strumento si conserva, mentre i godimenti immediati passano e vengono

dimenticati. Coi suoi strumenti l’uomo domina la natura esteriore, anche se per i suoi scopi le resta anzi soggetto»[206]. La «finalità interna» mantiene il suo primato, ma, nello stesso tempo, anche il

mezzo conserva la sua indipendenza: «Una casa, un orologio possono apparire come scopi rispetto agli strumenti adoprati per produrli; ma le pietre, le travi, le ruote, gli assi etc., che costituiscono la realtà dello scopo,

adempiono ad esso soltanto colla pressione che sopportano, coi processi chimici cui coll’aria, la luce e l’acqua sono abbandonati, mentre ad essi sottraggono l’uomo, col loro attrito, etc. Adempiono dunque alla

destinazione loro soltanto col loro uso e logorio, e soltanto colla loro negazione corrispondono a quel che devono essere»[207]. Nello stabilire dei fini, nel rappresentarsi l’universale e nell’inibire il godimento

immediato l’uomo entra in contraddizione con se stesso, diventa un anfibio che ritorna continuamente alla naturalità, per poi strapparsi di nuovo a essa, e la «cultura moderna» ha «acutizzato» questa

contraddizione che appartiene in se stessa a ogni civiltà: «L’educazione spirituale, l’intelligenza moderna, producono nell’uomo questa opposizione che lo rende anfibio in quanto egli deve vivere in due

mondi che contraddicono

si e,

sballottato da un lato e dall’altro, è incapace di trovare per sé soddisfazione nell’uno e nell’altro. Infatti, da un lato noi vediamo l’uomo prigioniero della realtà comune e della

temporalità terrena, oppresso dal bisogno e dalla necessità, angustiato dalla natura, impigliato nella materia, in fini sensibili e nel loro godimento, dominato e lacerato da impulsi naturali e da passioni, dall’altro egli

si eleva a idee eterne, a un regno del pensiero e della libertà, si dà come volontà leggi e determinazioni universali, spoglia il mondo della sua animata, fiorente realtà e la risolve in astrazioni»[208]. In

questa contraddizione l’uomo diventa campo di battaglia, negazione estrema dell’immediatezza: «Io non sono uno dei due contendenti, io sono entrambi i contendenti, io sono la contesa stessa»[209]. Ma

nell’uscire dalla pace dell’animale, nel ricevere il «privilegio del dolore» e della «follia»[210], egli abbandona la ciclicità e la cattiva infinità del genere naturale e ottiene un soddisfacimento più

alto: «Le bestie vivono in pace con se stesse e con le cose intorno a loro, ma la natura spirituale dell’uomo produce il dualismo e la lacerazione nella cui contraddizione egli s’affanna. Infatti l’uomo non può trattenersi

nell’interno come tale, nel puro pensiero, nel mondo delle leggi e della loro universalità, ma ha anche bisogno dell’esistenza sensibile, del sentimento, del cuore, dell’animo ecc. La filosofia pensa all’opposizione che da

qui deriva, quale essa è, nella sua compenetrante universalità e procede al superamento di essa opposizione in modo egualmente universale; ma l’uomo, nell’immediatezza della vita, tende a un

soddisfacimento immediato. Nel modo più diretto tale soddisfacimento ad opera della dissoluzione di quell’opposizione è da noi trovato nel sistema dei bisogni sensibili. Fame, sete, stanchezza, mangiare,

bere, sazietà, sonno ecc., sono in questa sfera esempi di tale contraddizione e della sua soluzione. Ma in quest’ambito naturale dell’esistenza umana il contenuto del soddisfacimento è di specie finita e limitata;

il soddisfacimento non è assoluto e procede quindi senza posa a sempre nuovi bisogni; il mangiare, il sonno, la sazietà non giovano a nulla, la fame, la stanchezza incominciano di bel nuovo al mattino.

Nell’elemento dello spirituale, poi, l’uomo tende al soddisfacimento ed alla libertà nel sapere e nel volere, in conoscenze ed azioni»[211]. Solo il pensiero, non la sensibilità, ha per Hegel la capacità di

emancipare l’uomo, e il godimento naturale resta sempre insoddisfazione che pungola verso qualcosa di più elevato, un ubi consistam dove il disagio si placa alla luce del sole interiore, la vita più alta del pensiero e

dell’azione razionale[212].

Volendo

nuovamente guardare la filosofia hegeliana in negativo, è possibile vedere qui la paura di una ricaduta nella naturalità delle società pre-moderne: nella «violenza senza storia

del tempo» che subisce un popolo quando è solo una «nazione, una tribù»[213], nel torpore asiatico o nell’«universale campo di battaglia dei particolarismi» che è il mondo medievale, in cui il pensiero, il vero

universale, vive avulso dal particolare e conduce un’esistenza umbratile nelle istituzioni (Chiesa e Impero) e nei chiostri[214]. Affinché non si subisca la «violenza senza storia» o il

predominio cieco dell’epoca, Hegel non esige tuttavia l’eliminazione dell’istinto nel senso del dovere o nell’imperativo kantiano, ritiene anzi che la sua permanenza sia essenziale, in quanto, come istinto

della ragione, esso è la guida nell’intrico delle contraddizioni, il punto sensibile di orientamento inconscio che spinge sempre verso l’unità e la conciliazione dei contrasti. C’è nell’uomo un istinto di verità che

lo accompagna in ogni suo pensiero e azione, e Hegel lo illumina con un’altra metafora animale, citando Dante: Io veggio ben che già mai non si sazia nostro

intelletto, se ’l ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si spazia. Posasi in esso come fera in

lustra, tosto che giunto l’ha; e giunger pòllo: se non, ciascun disìo sarebbe frustra[215].

Questo

istinto

di

verità, di accordo fra il pensiero e l’essere, di realizzazione dell’essere nel pensiero, è il tacito presupposto di ogni nostro agire e pensare, anche in coloro che dubitano della possibilità del pensiero di attingere il mondo:

«Quelli che non capiscono niente di filosofia si mettono le mani ai capelli quando sentono questa frase: Il pensare è l’essere. Eppure, alla base di ogni nostro agire c’è il presupposto dell’unità del pensiero e

dell’essere. Come esseri pensanti, questo presupposto noi lo rendiamo razionale. Bisogna tuttavia distinguere accuratamente se noi siamo solo pensanti o se ci sappiamo anche come pensanti. Pensanti

lo siamo in ogni circostanza; il sapere di pensare ha luogo invece in maniera perfetta solo se ci siamo sollevati al pensare puro»[216]. La realtà effettuale è già «ragione immediatamente esistente» (seiende

Vernunft) e il sapere è, per converso, essere che è giunto alla ragione; «sommo fine» della filosofia «è da considerare il produrre, mediante la conoscenza di questo accordo, la conciliazione della ragione cosciente di sé

con la ragione quale è immediatamente, con la realtà effettuale»[217]. Il problema diventa ora: Come viene enucleato nella storia umana il pensiero puro dal pensare istintivo? Come avanza la ragione autocosciente, la

selbstbewusste Vernunft?

[1] Pfaff an Hegel, estate

1812, in Briefe, cit., vol. I, p. 405 (trad. it. cit., vol. II, pp. 187-188). [2] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 24 Z. Sul concetto di Bestimmung

(«determinazione, destinazione, virtualità»), cfr. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, pp. 110-111 (trad. it. cit., vol. I, pp. 120121). [3] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 246 Z. [4] Ibid. [5] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 69 (trad. it. cit., vol. I, pp. 90-91). [6]

Hegel, Jenenser Realphilosophie II, cit., p. 120. [7] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 219 Z. [8] Ibid., § 381 Z. [9] Hegel, Vorlesungen über

die Philosophie der Religion, a

cura di G. Lasson, cit., vol. I, p. 220 (trad. it. cit., vol. I, p. 258). [10] Cfr. K. Rosenkranz,

Hegels Leben, trad. it. cit., p. 523. J.F. Ackermann (17651835), professore di anatomia a Jena e, dal 1805, a Heidelberg, è autore della Darstellung der Lebenskräfte, Frankfurt a.M., 1799-1800, utilizzata da Hegel, cfr.

Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 396 Z. Tutta la tematica hegeliana della «vita», negli ultimi anni di Francoforte e a Jena, non ha perciò solo un tono mistico o religioso, come spesso si è creduto, ma si riferisce a ricerche di fisiologia e di biologia. Su Jena centro della cultura scientifica e

filosofica europea di questi anni cfr. P. Ziche, Naturforschung in Jena zur Zeit Hegels. Materialien zum Hintergrund der spekulativen Naturphilosophie, in «HegelStudien», 32 (1997), pp. 9-40; AA.VV., Die Universität Jena. Tradition und Innovation um 1800, Stuttgart, 2001; K. Vieweg, La Roma della filosofia: Jena intorno al 1800

(lezione all’università di Siena del 2002), in Id., Il pensiero della libertà. Hegel e lo scetticismo pirroniano, cit., pp. 11-20 e, sull’attività didattica svolta da Hegel in questa città, si veda K. Düsing, Hegels Vorlesungen an der Universität Jena, in «HegelStudien», 26 (1991), pp. 1524. [11]

Cfr.

G.

Nicolin,

Verlorenes aus Hegels Briefwechsel, in «HegelStudien», 3 (1965), p. 92. Cfr. A. Richerand, Nouveaux éléments de physiologie, Paris, 1801; cfr. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 354 Z. [12] Cfr. J.H.F. Autenrieth,

Handbuch der empirischen menschlichen Physiologie, Tübingen, 1801-1802. Cfr.

Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, §§ 354 Z, 362 Z, 364 Z; Sinclair an Hegel, 23 maggio 1807, in Briefe, cit., vol. I, p. 165 (trad. it. cit., vol. I, p. 281). L’interesse per questi temi era già vivo nel giovane Schiller, cfr. Schiller, Philosophie der Physiologie, in Friedrich Schillers medizinischphilosophische Jugendarbeiten,

Berlin, 1959, pp. 33 ss. [13] Cfr. G.R. Treviranus,

Biologie oder Philosophie der lebendigen Natur für Naturforscher und Ärtzte, Göttingen, 1802-1822; A. von Haller, Elementa physiologiae corporis humani, Lausanne, 1757-1766. Cfr. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 356 Z. Sulla

concezione hegeliana della biologia si veda A. De Cieri, Filosofia e pensiero biologico in Hegel, Napoli, 2002. [14] Cfr. L. Spallanzani,

Opuscoli di fisica animale e vegetabile, Modena, 1776, in Le opere di Lazzaro Spallanzani, Milano, 1932, vol. I, pp. 213-411 (ora anche in L. Spallanzani, Della digestione, in Opere scelte, a

cura di C. Castellani, Torino, 1978, pp. 864-1115 e si veda, inoltre, Id., Il giornale della digestione, a cura di C. Castellani, Firenze, 1994). Sul problema della digestione in Spallanzani, cfr. J. Rostand, Les origines de la biologie expérimentale et l’abbé Spallanzani, Paris, 1951, trad. it. Lazzaro Spallanzani e le origini della biologia

sperimentale, Torino, 19632, pp. 86-96; P. Di Pietro, Lazzaro Spallanzani, Modena, 1979, pp. 211-216. [15]

Dell’opera di Spallanzani uscì poco dopo una traduzione tedesca (a cura di C.F. Michaelis, Leipzig, 1786). Sul processo digestivo, cfr. A. Richerand, Nouveaux éléments de physiologie (cito dalla III ed.,

Paris, anno XII [1804]), t. I, pp. 28 ss., 143-248; J.H.F. Autenrieth, Handbuch der empirischen menschlichen Physiologie, cit., §§ 551-625. [16] Cfr. Hegel, Enzyklopädie

der philosophischen Wissenschaften, 365 A (trad. it. cit., pp. 332-333) e § 365 Z. [17] Ibid., § 365 Z. [18] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 295 (trad. it. cit., vol. II, p. 91). [19] Ibid., p. 387 (trad. it.

cit., vol. II, p. 92). [20] Cfr. L. Spallanzani,

Opuscoli di fisica animale e vegetabile…, in Le opere di Lazzaro Spallanzani, cit., vol. I, pp. 213 ss. Spallanzani sviluppava alcune teorie di Réaumur, cfr. R.A. Ferchault

de Réaumur, Observations sur la digestion des oiseaux, in Mémoires de l’Académie des Sciences, 1752, t. I, pp. 266 ss., t. II, pp. 461 ss. Cfr. J. Torlais, Réaumur. Un esprit encyclopédique en dehors de l’Encyclopédie, Paris, 1961, pp. 347-363. [21] Cfr. J. Rostand, Les

origines de expérimentale

la et

biologie l’abbé

Spallanzani, trad. it. cit., pp. 94 ss. [22] La loro natura venne

scoperta da B. Carminati, Ricerche sulla natura del succo gastrico, Milano, 1785. [23] Cfr. Hegel, Enzyklopädie

der philosophischen Wissenschaften, 365 A (trad. it. cit., p. 333). [24] Ibid., § 365 Z.

[25] Per la scoperta del

carattere animale della fermentazione, cfr. C.C. Delatour, in «L’Institut», III (1835), pp. 133-134. Per la presenza della pepsina nel succo gastrico, cfr. Th. Schwann, Über das Wesen des Verdauungsprozesses, in «Müller Archiv», 1836, p. 90. [26] Cfr. Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. II, pp. 383

ss. (trad. it. cit., vol. II, pp. 883 ss.) e Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 195 Z, per cui il meccanismo vale «in dienender Stellung», in posizione servile o subordinata. Per un commento ai testi hegeliani corrispondenti alle discipline trattate da Hegel, si veda L. Illetterati, Sul

meccanismo, il chimismo, l’organismo e il conoscere, in «Quaderni di Verifiche 7», Trento, 1996. Per la teleologia Hegel ha molto meditato, oltre che ovviamente sulla Critica del giudizio di Kant, anche sulla Fisica di Aristotele, in particolare sul cap. VIII del libro II (cfr. Aristotele, Phys., 198 b-200 b). Sulla teleologia

in Hegel, cfr. J. D’Hondt, Téléologie et Praxis dans la logique de Hegel, in Hegel et la pensée moderne, cit., pp. 1-26; J.N. Findlay, Hegel’s Use of Teleology, in New Studies in Hegel’s Philosophy, a cura di W.E. Steinkraus, New York, 1971, pp. 92-107; N. Badaloni, Teleologia ed idea del conoscere nella logica di Hegel, in Per il comunismo,

Torino, 1972, pp. 13-53; C. Warnke, Aspekte des Zwecksbegriffs in Hegels Biologieverständniss unserer Zeit, in Zu Hegelverständniss unserer Zeit. Beiträge marxistich-leninistischer Hegelforschung, a cura di H. Ley, Berlin, 1972, pp. 244252. E cfr. più avanti, pp. 167, 178, 295, 344. [27] Cfr. Hegel, Enzyklopädie

der philosophischen Wissenschaften, § 365 A (trad. it. cit., pp. 332-333). [28] Ibid., § 365 Z. Vale la

pena di ripetere questo passo della Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, pp. 58, 59 (trad. it. cit., vol. II, pp. 490491, 492): «Poiché di fronte ad essa [alla contraddizione] l’identità non è che la determinazione del semplice

immediato, del morto essere; la contraddizione invece è la radice di ogni movimento e vitalità; […] Qualcosa è dunque vitale solo in quanto contiene in sé la contraddizione ed è propriamente questa forza di comprendere e sostenere in sé la contraddizione». [29] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen

Wissenschaften, § 365 Z. Sul racconto dei marinai inglesi, cfr. W. Bligh, A Voyage to the South Sea…, London, 1790, pp. 191-238. [30] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 365 Z. Egli interpreta così, in senso teleologico, il concetto di nisus formativus elaborato da J.F. Blumenbach, Über den

Bildungstrieb und das Zeugungsgeschäfte, Göttingen, 1781, e si veda P.H. Reill, Vitalizing Nature in the Enlightenment, Berkeley-Los Angeles, 2005. Di Blumenbach Hegel aveva nella sua biblioteca lo Handbuch der vergleichenden Anatomie, Göttingen, 1805. [31] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen

Wissenschaften, § 365 Z. [32]

Ibid. Cfr. Phänomenologie des Geistes, cit., p. 192 (trad. it. cit., vol. I, pp. 290-291). [33] Ibid., p. 25 (trad. it. cit.,

vol. I, p. 23). Secondo H. Schmitz, Hegels Begriff der Erinnerung, in «Archiv für Begriffsgeschichte», IX (1964), p. 39, la metafora

della nutrizione applicata alla vita spirituale si trova già in Novalis. Ma qui, come vedremo, si tratta di qualcosa di più che una semplice metafora accidentale. [34]

Cfr. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 25 (trad. it. cit., vol. I, p. 22).

[35] Ibid., p. 564 (trad. it.

cit., vol. II, p. 305). [36] Ibidem, p. 563 (trad. it.

cit., vol. II, p. 305). [37] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 360 A (trad. it. cit., p. 329). [38] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 4 (trad. it. cit., vol. I, p. 4).

[39] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 2 A (trad. it. cit., p. 3). Cfr. ibidem, § 19 Z 2. [40] Cfr. ibid., §§ 365 Z e 376

Z. [41] Ibid., § 22 Z. [42] Per un inquadramento

di questo dibattito, cfr. E. De Negri, La teologia di Lutero, Firenze, 1967, in particolare

pp. 210-237; A. Asendorf, Luther und Hegel. Untersuchungen zur Grundlegung einer neuen systematischen Theologie, Wiesbaden, 1982, e T. Guz, Zum Gottesbegriff G.W.F. Hegels im Rückblick auf das Gottesverständnis Martin Luthers, Frankfurt a.M., 1998. Per un inquadramento più ampio, cfr. H. Bornkamm,

Luther im Spiegel der deutschen Geschichte, Göttingen, 19702, pp. 31-35, 225-237. [43] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 552 A (trad. it. cit., p. 496). Cfr. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, p. 90 (trad. it. cit., vol. I, p. 88): «La comunione in senso luterano è divina

soltanto nella fede, nel godimento, non è più venerata come ostia». [44] Cfr. Hegel, Enzyklopädie

der philosophischen Wissenschaften, §§ 26-36 e, in particolare, § 30 (trad. it. cit., pp. 36-42). [45] Cfr. Hegel, Philosophie

der Weltgeschichte, cit., pp. 195, 931 ss. (trad. it. cit., vol.

I, p. 227; vol. IV, pp. 213 ss.). [46]

Lutero, in Werke, Kritische Gesamtausgabe, Weimar, 1883 ss., vol. XVIII, pp. 199-200; cfr. E. De Negri, La teologia di Lutero, cit., pp. 225-226. [47] Come, ad esempio,

Ernst Bloch o, in Italia, la scuola del Della Volpe. [48] Hegel, Differenz des

Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie, cit., p. 64 (trad. it. cit., p. 79). [49] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 377 (trad. it. cit., vol. II, pp. 219-220). [50] Hegel, Glauben und

Wissen, cit., p. 413 (trad. it. cit., p. 252). [51] Hölderlin, Empedokles,

prima stesura, Empedokles auf dem Aetna, vv. 171 ss., in Grosse Stuttgarter Hölderlinausgabe, cit., vol. IV, 1, pp. 9 ss., trad. it. di F. Borio, Empedocle, Torino, 1961, pp. 31 ss. Ermocrate attacca Empedocle proprio perché mette in discussione la positività delle leggi religiose e civili: «E quanto innanzi a lui buon tempo e

legge, / Arte e costume han maturato, e santa / Tradizione, rovescia e gioia e pace / Non vuol più sopportare tra i viventi» (ibid., p. 11, trad. it. cit., p. 33). Sull’Empedocle e sulla concezione della tragedia in Hölderlin rinvio a R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, cit., pp. 7-71 e a M. Pezzella, La concezione tragica

in Hölderlin, Bologna, 1993. [52] Hegel, Der Geist des

Christentums und sein Schicksal, in Theologische Jugendschriften, a cura di H. Nohl, Tübingen, 1907, p. 282, trad. it. di E. Mirri, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, Napoli, 1972, p. 395. [53] Ibid., pp. 328-329 (trad.

it. cit., p. 442). E cfr. ibid., p. 261 (trad. it. cit., p. 373). [54] Hegel, Systemfragment

von 1800, in Theologische Jugendschriften, cit., p. 351, trad. it. Frammento di sistema 1800, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 479. [55] Cfr. J. Cohen, Le Spectre

juif de Hegel, Paris, 2005. [56] Cfr. P. Vinci, «Coscienza

infelice» e «anima bella». Commentario della Fenomenologia dello spirito di Hegel, Milano, 1999. [57] Hegel, Der Geist des

Christentums und sein Schicksal, cit., p. 329 (trad. it. cit., p. 443). [58] Ibid., p. 331 (trad. it.

cit., p. 445). [59] Hegel, Glauben und

Wissen, cit., p. 414 (trad. it. cit., p. 252). Cfr. Phänomenologie des Geistes, cit., p. 188 (trad. it. cit., vol. II, p. 283). [60] Hegel, Vorlesungen über

die Philosophie der Religion, a cura di G. Lasson, cit., vol. I, p. 228 (trad. it. cit., vol. I, p. 228). [61]

In

questo

senso

Lukács, in Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen Gesellschaft, Berlin, 19542, trad. it. di R. Solmi, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Torino, 1960, si è lasciato trascinare troppo dalla polemica contro Dilthey, Nohl e Kroner e ha attenuato gli apporti teologici reali al pensiero

hegeliano. Come utile correttivo all’interpretazione di Lukács si possono vedere H. Niel, De la Médiation dans la philosophie de Hegel, Paris, 1945, e A. Peperzak, Le jeune Hegel et la vision morale du monde, La Haye, 1960. [62] Per questa ripresa in

chiave teologica della problematica hegeliana, cfr. H. Küng, Menschenwerdung

Gottes. Eine Einführung in Hegels theologisches Denken, als Prolegomena zu einer künftigen Christologie, Freiburg i.B., 1970. [63] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 376 Z. [64] Ibid., § 248 Z. [65] Cfr. E. Bloch, Subjekt-

Objekt.

Erläuterungen

zu

Hegel, cit., p. 410 (trad. it. cit., p. 427). [66] Sull’idea goethiana di

Urtier, tratta da Robinet, cfr. R. Berthelot, Lamarck et Goethe: l’evolutionnisme de la continuité au début du XIX siècle, in «Revue de Métaphysique et de Morale», XXXVI (1929), pp. 285 ss., e A.O. Lovejoy, The Great Chain of Being, Cambridge, Mass.,

1936, trad. it. di L. Formigari, La Grande Catena dell’Essere, Milano, 1966, pp. 302-303; E. Callot, La philosophie biologique de Goethe, Paris, 1971, pp. 87 ss. [67] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 368 Z. [68]

Si veda anche Aristotele, Topici, 108 a;

Metafisica, 984 b; cfr. anche G. Romeyer-Dherbey, Les choses mêmes. La pensée du réel chez Aristote, Lausanne, 1948; A. Ferrarin, Hegel and Aristotle, Cambridge, 2001, pp. 47-54 e R. Bodei, La vita delle cose, Roma-Bari, 2009, pp. 11-19. Per altri aspetti dell’idea di Sache selbst in Hegel, cfr. R. Bubner, Die ‘Sache selbst’ im Hegels

System, in AA.VV., Seminar: Dialektik in der Philosophie Hegels, Frankfurt a.M., 1978, pp. 101-123. Sull’interpretazione hegeliana di Aristotele, cfr. W. Kern, Die Aristoteles Deutung Hegels. Die Aufhebung des aristotelischen ‘Nous’ in Hegels ‘Geist’, in «Philosophisches Jahrbuch», 78 (1971), pp. 237-259; P.

Aubenque, Hegel et Aristote, in Hegel et la pensée grecque, a cura di J. D’Hondt, Paris, 1974, pp. 97-120; D. Janicaud, Hegel et le destin de la Grèce, Paris, 1975, pp. 285 ss.; G. Lebrun, Hegel lecteur d’Aristote, in «Les études philosophiques», JullietSeptembre 1983, pp. 329-347 e K. Düsing, Soggettività in Hegel e Aristotele, in

Soggettività e autocoscienza. Prospettive storico-critiche, a cura di P. Palumbo e A. Le Moli, Milano-Udine, 2011, pp. 45-60. Sull’autocoscienza in Hegel come causa finale, che consiste «nel portare al concetto l’implicita forma di vita che ci fa essere quegli uomini che siamo, e al cui ulteriore sviluppo agendo (handelnd) partecipiamo», cfr.

P. Steckeler-Weithofer, Philosophie des Selbstbewusstseins. Hegels System als Formanalyse von Wissen und Autonomie, Frankfurt a.M., 2005, p. 10. [69] Aristotele, Phys., 184 a. [70] Cfr. B. De Giovanni,

Hegel e il tempo storico della società borghese, Bari, 1970, in particolare pp. 19 ss. e A.

Schmidt, Geschichte und Struktur. Fragen einer marxistischen Historik, München, 1971, trad. it. di G. Marramao, Storia e struttura. Problemi di una teoria marxista della storia, Bari, 1972, pp. 68 ss. [71] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, cit., § 32 A (trad. it. cit., p. 47).

[72] Cfr. ibid., § 182 Z (trad.

it. cit., p. 356). [73] Cfr. Hegel, Vorlesungen

über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 623 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 417). Su questo punto si veda R. Bodei, Die «Metaphysik der Zeit» in Hegels Geschichte der Philosophie, cit., pp. 79-98 e K. Düsing, Hegel und die Geschichte der

Philosphie, Darmstadt, 1983, pp. 7-39. [74] Cfr. H. Blumenberg,

Paradigmen zu einer Metaphorologie, trad. it. cit., pp. 11-19. [75] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 36 (trad. it. cit., vol. I, p. 36). Questo «andamento irresistibile» non è lineare, ma

discontinuo, a salti, cfr. G. Buck, ‘Die Freundlichkeit jenes Ursprungs…’. Negativität, Diskontinuität und die Stetigkeit des Bios, in Positionen der Negativität, a cura di H. Weinreich, München, 1975, pp. 155-176 e, nello stesso volume, W. Hübner, Sprung bei Leibniz und Hegel, pp. 487-491. [76] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 16 (trad. it. cit., vol. I, p. 16). [77] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, cit., § 31 A (trad. it. cit., p. 46). [78] R. Esposito, Due. La

macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Torino, 2013, pp. 5, 32. [79] Si veda quanto detto in

precedenza, pp. 57 ss., 137 e,

più avanti, 204. [80] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 61 (trad. it. cit., vol. I, p. 77). [81] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 21 Z. [82] Cfr. E. Bloch, Subjekt-

Objekt. Erläuterungen zu Hegel, cit., pp. 161 ss. (trad. it. cit., pp. 165 ss.). C’è però

nel sistema hegeliano – almeno nella forma presentata dall’Enciclopedia – la reminiscenza dello schema di Proclo: mone, prosodos, epistrophe, cfr. W. Beierwaltes, Hegel und Proklos, in Hermeneutik und Dialektik, a cura di R. Bubner, K. Kramer e R. Wiehl, Tübingen, 1970, vol. II, pp. 243-272. Sugli apporti

neoplatonici al pensiero di Hegel, cfr. W. Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, Frankfurt a.M., 1972, passim. Sull’importanza che Hegel attribuisce a Damascio, cfr. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 93 (trad. it. cit., vol. III, 1, p. 86). [83] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 31 (trad.

it. cit., vol. I, p. 31). [84]

Cfr. L.B. Puntel, Darstellung, Methode und Struktur. Untersuchungen zur Einheit der systematischen Philosophie G.W.F. Hegels, volume suppl. 10 delle «Hegel-Studien», Bonn, 1973, p 106. [85] E. Bloch, Subjekt-Objekt.

Erläuterungen zu Hegel, cit., p.

161 (trad. it. cit., p. 165). [86] Cfr. Hegel, Enzyklopädie

der philosophischen Wissenschaften, § 21 Z. Cfr. ibid., § 142 Z, sulla differenza fra Platone che considera l’idea come dynamis e Aristotele che la considera come energeia. [87] Hegel, Vorlesungen über

die Philosophie der Religion, a

cura di G. Lasson, cit., vol. I, p. 113 (trad. it. cit., p. 164). [88] Frase di una lettera

perduta di Hegel a Pfaff, riportata virgolettata nella risposta di Pfaff, cfr. Pfaff an Hegel, estate 1812, in Briefe, cit., vol. I, p. 408. (trad. it. cit., vol. II, p. 190). [89] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen

Wissenschaften, § 161 Z. [90] Ibid. [91] Cfr. più avanti, pp. 353

ss. [92] Cfr. G. Lukács, Zur

Ontologie des gesellschaftlichen Seins. Hegels falsche und echte Ontologie, Neuwied-Berlin, 1973, pp. 37 ss. [93] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 24 Z 1. [94] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, p. 34 (trad. it. cit., vol. I, p. 31). [95] In Hegel non c’è la

prospettiva sottintesa da Kojève, del servo criptoproletario che rovescia la sua subordinazione – sul

modello della marxiana lotta di classe. La dialettica signoria-servitù si conclude nella società civile, che è dipendenza di tutti dai bisogni sociali e dalla modalità di soddisfarli, e autonomia di tutti sotto forma di egoismo e di ricerca del proprio privato interesse. Su questo aspetto rinvio a R. Bodei, Il desiderio e la lotta,

cit., pp. VII-XXIX e Id., Auf den Würzeln des Verhältnisses von Herrschaft und Knechtschaft, in Hegels Phänomenologie des Geistes. Ein kooperatives Kommentar zu einem Schlüsselwerk der Moderne, a cura di K. Vieweg e W. Welsch, Frankfurt a.M., 2008, pp. 238-252. Ma si veda anche, da una differente prospettiva, J. McDowell, The

Apperceptive I and the Empirical Self. Toward a Heterodox Reading of ‘Lordship and Bondage’ in Hegel’s Phenomenology, in «Bulletin of the Hegel Society of Great Britain», 47/48 (2003), pp. 116. [96] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, cit., § 324 Z (trad. it. cit., p. 392).

[97]

Sulle farneticazioni della filosofia hegeliana della natura, cfr. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, in Saggio sullo Hegel, Bari, 1913, pp. 117 ss. Sulla «disonestà» hegeliana, cfr. K.R. Popper, The Open Society and Its Enemies, trad. it. cit., vol. II, pp. 42 ss. [98] Cfr. K. Rosenkranz,

Hegels Leben, trad. it. cit., pp. 383-391. Su Hegel e le scienze, cfr. F. Kaulbach, Hegels Stellung zu den Einzelwissenschaften, in Weltaspekte der Philosophie. R. Berlinger zur 26. Oktober 1972, a cura di W. Beierwaltes e W. Schrader, Amsterdam, 1972, pp. 181-206; G. Buchdahi, Hegel’s Philosophy of Nature, in «The British

Journal of Philosophy of Science», XXIII (1972), pp. 257 ss.; J.A. Doull, Hegel’s Philosophy of Nature, in «Dialogue», XI (1972), pp. 379-399. Sul De orbitis planetarum, in particolare, cfr. la Préface alla traduzione francese di D. Dubarle, G.W.F. Hegel, Les orbites des planètes (Dissertation de 1801), Paris, 1979 e Hegel,

Dissertatio Philosophica de Orbitis Planetarum / Philosophische Erörterung über die Planetenbahnen, curato, introdotto e commentato da W. Neuser, Weinheim, 1986; e si vedano Th.G. Bucher, Wissenschaftstheoretische Überlegungen zu Hegels Planetenschrift, in «HegelStudien», 18 (1983), pp. 65137 e C. Ferrini, Guida al «De

orbitis planetarum» di Hegel ed alle sue edizioni e traduzioni. La pars destruens (con la collaborazione di M. Nasti De Vincentis), BernStuttgart-Wien, 1995. Della stessa autrice si veda anche Scienze empiriche e filosofie della natura nel primo idealismo tedesco, Milano, 1996, pp. 81-90. [99] Cfr. Hegel’s Philosophy

of Nature, trad., introd. e note esplicative a cura di M.J. Petry, London-New York, 1970. Come segno dell’interesse dei paesi di lingua inglese per la filosofia della natura di Hegel, si può notare che, contemporaneamente a quella del Petry, è stata pubblicata a Oxford un’altra traduzione: cfr. Hegel’s

Philosophy of Nature, Being Part two of the Encyclopaedia of the Philosophical Sciences (1830), trad. dall’edizione di Nicolin e Pöggeler (1959) e dagli Zusätze nel testo di Michelet (1847), a cura di A.W. Miller, con prefazione di J.N. Findlay, Oxford, 1970. Della filosofia della natura sono state pubblicate anche le lezioni del 1819-1820, cfr.

Hegel, Philosophie der Natur, vol. I, Die Vorlesung von 1819/20, in collaborazione con K.-H. Ilting a cura di M. Gies, Napoli, 1980. [100] L’Enciclopedia sorge

per Hegel come «filo conduttore» (Leitfaden) per le lezioni (cfr. Heidelberger Enzyklopädie 1817 = Enzyklopädie der philosophischen

Wissenschalten im Grundrisse, zum Gebrauche seiner Vorlesungen von Georg Wilhelm Friedrich Hegel…, Heidelberg, 1817, p. III, trad. it. di F. Biasutti et al., Enciclopedia (Heidelberg 1817), «Quaderni di Verifiche 6», Trento, 1987, p. 1: «Il bisogno di dare in mano ai miei uditori un filo conduttore per le mie lezioni di filosofia

è l’occasione prossima per cui faccio uscire questo sguardo d’insieme sull’intero ambito della filosofia prima di quanto sarebbe stato il mio intendimento»). Cfr. Hegel an Cousin, 1o luglio 1827, in Briefe, cit., vol. III, p. 169, a proposito della seconda edizione (1827) dell’Encidopedia: «ce livre

n’est qu’une suite de thèses, dont le développoment et l’éclaircissement est réservé aux cours». E si vedano anche più avanti, le pp. 155, 158, 352 ss. Hegel aveva cominciato a riflettere sul concetto di enciclopedia fin dai tempi in cui era rettore del Ginnasio di Norimberga, allorché aveva indirizzato nel 1812 al suo amico

Niethammer una Memoria sull’insegnamento della filosofia nei ginnasi, misurandosi con la tradizione francese e con quella tedesca, che risaliva almeno a Leibniz (su cui cfr. U. Dierse, Enzyklopädie. Zur Geschichte eines philosophischen und wissenschaftlichen Begriffs, Bonn, 1977). Le divergenze

rispetto all’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert diventeranno esplicite nella Enzyklopädie der Philosophischen Wissenschaften del 1817, in quanto per Hegel non si tratta di analizzare i contenuti secondo vari principi ordinatori o di intendere il termine «systématique» nel senso di

«dogmatico», come sono soliti fare i francesi, ma di mostrare attraverso un unico principio come la ragione operi in tutti i campi dello scibile (cfr. W. Tega, Tradizione e rivoluzione. Scienza e potere in Francia (1815-1840), Firenze, 2013, pp. 37-46) e si vedano, più avanti, le pp. 349-350. [101] Per la diffusione e la

storia delle enciclopedie (alfabetiche e sistematiche) nella cultura europea, cfr. R. Collinson, Encyclopaedias: Their History throughout the Ages, New York-London, 1964 e, anche rispetto a Hegel, J. Henningen, Enzyklopädie. Zur Sprach- und Bedeutungsgeschichte eines pädagogischen Begriffs, in «Archiv für

Begriffsgeschichte», X (1966), pp. 287 ss.; U. Dierse, Enzyklopädie. Zur Geschichte eines philosophischtheoretischen Begriffs, Bonn, 1977; L’ideale enciclopedico e l’unità del sapere, a cura di W. Tega, con introduzione e indicazioni bibliografiche, Bologna, 1984. Sulla struttura enciclopedica, con riguardo all’Encydopédie di

Diderot e d’Alembert cfr. J. Starobinski, Remarques sur l’Encyclopédie, in «Revue de Métaphysique et de Morale», LXXV (1970), pp. 377-384. Sull’insoddisfazione hegeliana per la propria Enciclopedia, cfr. Hegel an Daub, 15 agosto e 19 dicembre 1826, in Briefe, cit., vol. III, pp. 125-126 e 147150.

[102] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 246 A (trad. it. cit., p. 204). [103]

Ibid., § 246 Z dell’Einleitung alla Philosophie der Natur (cfr. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, cit., vol. 9, pp. 9-10).

[104] Ibid., Betrachtungsweise

der Natur, vol. 9, p. 12. Per un altro aspetto del tema, cfr. R. Wahsner, Die Macht des Begriffs als Tätigkeit (§ 208). Zu Hegels Bestimmung der Betrachtungsweisen der Natur, in Preprint 196 del MaxPlanck-Institut für Wissenschaftsgeschichte; Ead., Zur Kritik der Hegelschen Naturphilosophie. Über ihren

Sinn im Lichte der heutigen Naturerkenntnis, Frankfurt a.M., 1996 (con preziose indicazioni comparative rispetto alle conquiste attuali delle scienze); Ead. e H.H. von Borzeszkowski, Erkenntnis statt Erbauung. Hegel und das naturwissenschaftliche Denken der Moderne, in Preprint 412 del Max-Planck-Institut für

Wissenschaftsgeschichte, Berlin, 2011, pp. 34. [105] Ibid., § 246 Z. [106] Hegel, Aphorismen aus

der Jenenser Periode, cit., p. 546 (trad. it. cit., p. 68 nota 46). [107] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 270 Z.

[108]

Hegel, Vorwort all’edizione 1827 dell’Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften (a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, cit., vol. 8, p. 15). [109] Hegel an Daub, 20

agosto 1816, in Briefe, cit., vol. II, p. 116 (trad. it. cit., vol. II, p. 337).

[110]

Sulla cospirazione oggettiva delle scienze, cfr. J. d’Alembert, Discours préliminaire all’Encydopédie (cfr. d’Alembert, Discorso preliminare, in Enciclopedia 1751-1772, a cura di A. Pons, trad. it. di A. Devizzi, Milano, 1966, vol. I, p. 30): bisogna «porre, per così dire, il filosofo al di sopra di questo vasto labirinto delle

conoscenze, in un punto di vista molto elevato, donde gli sia possibile scorgere contemporaneamente le scienze e le arti principali, vedere con un sol colpo d’occhio gli oggetti delle sue speculazioni e le operazioni che può fare su questi oggetti; distinguere le branche generali delle conoscenze umane, i punti

che le separano e le accompagnano, ed intravedere persino, a volte, le vie segrete che le uniscono. È una specie di mappamondo che deve mostrare i principali paesi, la loro posizione e le loro vicendevoli dipendenze»; A. Richerand, Nouveaux éléments de physiologie, cit., t. I, p. III: «Più di un lettore

sarà colpito dall’identità che esiste nella direzione che seguono oggi tutti coloro che coltivano le scienze dell’uomo, di questa analogia di vedute e di principi che si osserva nei loro scritti, felice conformità che prova la certezza dei loro risultati e la bontà del loro metodo. Capita ai fisiologi dell’epoca attuale

come a molti uomini che, posti sulla cima di una stessa montagna, vedono tutti la stessa estensione di paesaggio dispiegarsi ai loro sguardi, e che, rendendo conto delle loro osservazioni, hanno necessariamente nei loro racconti più punti di contatto e di similitudine». Cfr. inoltre, per gli sviluppi

più rilevanti della confluenza delle scienze in organismi sistematici, il libro, che ha aperto un nuovo campo di ricerca, di L. von Bertalanffy, General System Theory, New York, 1968, trad. it. di E. Bellone, Teoria generale dei sistemi, Milano, 1971, pp. 63 ss., e, per una recente messa a punto, G. Minati, Strutture di

mondo. Il pensiero sistemico come specchio di una realtà complessa, 2 voll. Bologna, 2010-2013. [111]

Sull’enciclopedia hegeliana delle scienze come «campo non-lineare», cfr. M. Kosok, The Dialectics of Nature, in «Telos», Fall 1970, n. 3, pp. 47-103, trad. it. di A.M. Sioli, Verso una nuova dialettica della natura, Milano,

1973, pp. 25 ss., 61 ss. e, per l’articolata vastità della trattazione, M. Rossi, Hegel e l’enciclopedia delle scienze, in Enciclopedia ’72, a cura dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1971, pp. 107-195. Per una difesa di Hegel dalle accuse di aver voluto imporre i suoi astrusi schemi alle scienze della natura, cfr. E. Renault, Hegel.

La naturalisation de dialectique, Paris, 2001.

la

[112] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 320 Z. [113] Cfr. K. Rosenkranz,

Hegels Leben, trad. it. cit., pp. 523-524. [114] Hegel an Voss, maggio

1805, in Briefe, cit., vol. I, p. 101 (trad. it. cit., vol. I, p.

207). [115] Cfr. il testo jenese

riportato in Dokumente zu Hegels Entwicklung, cit., p. 342: «C’è da notare brevemente che la filosofia, in quanto scienza della ragione, per il modo universale del suo essere e secondo la sua natura è scienza per tutti. Non tutti riescono a giungere ad essa,

ma questo c’entra così poco come l’osservazione che non tutti gli uomini riescono a diventar prìncipi. Ciò che è fastidioso nel fatto che alcuni uomini stiano al di sopra di altri, è solo l’affermare che essi sono diversi per natura, che essi sono esseri di un’altra specie». [116]

Cfr.

Hegel,

Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, p. 11 (trad. it. cit., vol. I, p. 11). [117] Hegel, Aphorismen aus

der Jenenser Periode, cit., p. 552 (trad. it. cit., p. 74 nota 66). [118] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 5 A (trad. it. cit., p. 6).

[119] Hegel, Einleitung in die

Geschichte der Philosophie, cit., pp. 41-42. Cfr. Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 3 A (trad. it. cit., p. 4). [120] Cfr. Hegel, Einleitung

in die Geschichte der Philosophie, cit., pp. 50-51 e Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 3 A (trad. it.

cit., p. 5). [121] Per la storia e la

diffusione di questo concetto, che ritorna spesso in Hegel, cfr. E. Whittaker, History of the Theories of Aether and Electricity, London, 1951. [122]

Cfr.

Enzyklopädie philosophischen

Hegel, der

Wissenschaften, § 249 (trad. it. cit., p. 207). [123] Ibid., § 252 Z. [124] Ibid., § 249 Z. [125] Cfr. ibid., § 368 Z, dove

Lamarck è definito un «geistreicher Franzose» ed è citata spesso la Philosophie zoologique, Paris, 1809. Cuvier, conterraneo e quasi coetaneo di Hegel, aveva

studiato a Stoccarda, prima di trasferirsi in Francia come precettore. Su Hegel, Cuvier e l’ambiente svevo, cfr. F. Courtès, George Cuvier et l’origine de la négation, in «Revue d’histoire des sciences», XXIII (1970), pp. 13 ss. [126]

Cfr. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., pp. 132 ss. (trad. it. cit.,

vol. I, p. 216). Ma cfr. anche Aristotele, Phys., 198 b. [127]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 345 Z. Cfr., sull’argomento, A. Portmann, Goethe und der Begriff der Metamorphose, in «Goethe-Jahrbuch», XC (1973), pp. 11-21.

[128] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 251 (trad. it. cit., p. 210). [129] Ibid., § 250 A (trad. it.

cit., pp. 209-210). Hegel riferisce esplicitamente questa teoria dell’indeterminatezza della natura e dei mostri a Locke, cfr. Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit.,

vol. XV, p. 388 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 165). Cfr. Locke, An Essay concerning Human Understanding, vol. III, cap. III, § 17 (trad. it. di C. Pellizzi, Saggio sull’intelligenza umana, Bari, 1972, libro III, p. 25). [130] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 250 (trad. it. cit., p. 208).

[131] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., pp. 132 ss. (trad. it. cit., vol. I, pp. 193 ss.). [132] Ibidem, p. 140 (trad. it.

cit., vol. I, p. 207). [133]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 280 Z. [134] Ibid., § 368 Z.

[135]

Noi non ci meravigliamo più – dice Hegel – che la natura sia retta da leggi razionali, perché ormai ci siamo abituati a questa idea, che è una conquista storica (cfr. Die Vernunft in der Geschichte, cit., p. 37). Egli afferma così, implicitamente, che anche la presenza della ragione nella storia potrebbe un

giorno essere considerata comunemente accettabile. [136] Hegel, Phanomenologie

des Geistes, cit., p. 138 (trad. it. cit., vol. I, p. 203). [137] Ibid., p. 190 (trad. it.

cit., vol. I, p. 287). [138] Ibid., p. 147 (trad. it.

cit., vol. I, p. 218). [139]

Cfr.

Hegel,

Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 339 Z. Secondo Vallisneri, le «piante petrose del mare» erano esseri intermedi fra vegetali e animali, al pari dei tartufi per Bonnet, mentre per Robinet i fossili costituivano forme di transizione dalla materia inorganica alla materia

vivente (cfr. J.-B.-R. Robinet, Vue philosophique de la gradation naturelle des formes de l’être, Paris, 1768; M.J.S. Rudwick, The Meaning of Fossils. Episodes in the History of Paleontology, London, 1972). L’accenno hegeliano ai fossili presenti nel calcare (cfr. Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 340 Z) ha

fatto pensare al Findlay che i fossili siano per Hegel «imitazioni e anticipazioni delle forme organiche, ma prodotte da forze che erano inorganiche» cfr. J.N. Findlay, Hegel: A Reexamination, London, 1958, trad. it. di L. Calabi, Hegel oggi, Milano, 1972, p. 295. Ma il testo hegeliano è oscuro e potrebbe riferirsi

semplicemente al fatto che spesso non si capisce se i fossili siano di natura vegetale oppure animale. [140] Cfr. G. Cuvier, Leçons

d’anatomie comparée, Paris, anno VIII [1800], vol. I, pp. 59-60; J.-B. Lamarck, Discours d’ouverture de l’an X, trad. it. di P. Omodeo, Prolusione al corso dell’anno X, in Lamarck, Opere, a cura di P. Omodeo,

Torino, 1969, p. 78; L. Febvre, Un chapitre de l’histoire de l’esprit humain: les sciences naturelles de Linné à Lamarck et à Georges Cuvier, in «Revue de synthèse historique», XLIII (1927), pp. 42-43. Su Cuvier e la sua opera, cfr. W. Coleman, Georges Cuvier, zoologist, Cambridge, Mass., 1966; D. Outram, Georges Cuvier: Vocation, Science and

Authority in Post-Revolutionary France, London, 1984, e M.J.S. Rudwick, Georges Cuvier, Fossil Bones, and Geological Catastrophes, Chicago, 1997. [141] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 339 Z. Cfr. J.-B. Lamarck, Histoire naturelle des animaux sans vertèbres, trad. it. di P. Omodeo, Storia naturale degli

invertebrati, in Opere, cit., pp. 143 ss.; M.F.X. Bichat, Recherches physiologiques sur la vie et la mort, Paris, 1800, che nega ogni continuità tra l’inorganico e il vivente. Bichat ha stabilito che «la vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte», che vi è, dunque, un conflitto incessante per arginare le forze distruttive

che condurranno l’individuo a una fine inevitabile. Se, infatti, tutto tende a distruggere gli organismi, la vita è resistenza a questi attacchi. Bichat ha però anche osservato che esiste nell’uomo una doppia vita: quella «organica», caratterizzata dalla spontaneità e dal ripiegamento in se stessa

(circolazione sanguigna, respirazione ecc.), e quella «animale», che regola le attività motorio-sensorie e intellettuali ed è rivolta all’esterno. La vita organica è continua, anche durante il sonno, mentre la vita animale è intermittente. La prima domina e guida l’uomo con i suoi automatismi, la seconda è

sostanzialmente al traino. Schopenhauer tradurrà tale dicotomia nella polarità tra Volontà di vivere e rappresentazione. Su Bichat, cfr. N. Dobo e A. Role, Bichat, la vie fulgurante d’un génie, Paris, 1989. [142] Ch. A. de Sainte-

Beuve, Volupté, Paris, 1834, pp. 136 ss.

[143]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 341 Z. Cfr. J.-B. Lamarck, Histoire naturelle des animaux sans vertèbres, trad. it. cit., p. 221. Questa teoria era d’altronde stata accettata anche da Diderot, d’Holbach e Buffon, e si dovettero attendere gli esperimenti di Pasteur

perché tutto. [144]

scomparisse

Cfr.

del

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 339 Z. [145]

Ibid. Cfr. Matteo,

24,35. [146]

Cfr. Feuerbach, Gedanken über Tod und Unsterblichkeit, in Sämtliche

Werke, nuova ed. a cura di W. Bolin e F. Jodl, Stuttgart, 1903-1910, volumi supplementari a cura di H.M. Sass, Stuttgart, 1962 ss., vol. XI, pp. 73 ss.; cfr. C. Cesa, Il giovane Feuerbach, Bari, 1963, pp. 133 ss.; L. Casini, Storia e umanesimo in Feuerbach, Bologna, 1974, pp. 57 ss. [147] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., pp. 71, 58 (trad. it. cit., vol. I, pp. 82, 68). Hegel allude all’incipit del secondo libro del De rerum natura di Lucrezio (vv. 1-4), dove lo spettatore di un naufragio gode, non dei mali altrui, ma dello stare al sicuro, sulla terraferma: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis / e terra magnum alterius spectare

laborem; / non quia vexari quamquamst iocunda voluptas, / sed quibus ipse malis careas quis cernere suave est. Su questa immagine, che ha avuto una lunga storia, cfr. H. Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer, Frankfurt a.M., 1979, trad. it. Naufragio con spettatore, Bologna, 1985. [148] Cfr. M.F.X. Bichat,

Recherches physiologiques sur

la vie et la mort, cit.; A. Richerand, Nouveaux éléments de physiologie, cit., t. I, p. 13; J.-B. Lamarck, Recherches sur les causes des principaux faits physiques, Paris, 1792, vol. II, p. 289. È questa un’idea che ha larga eco in Hölderlin, nel conflitto fra l’organico e l’«aorgico», e nel giovane Schelling. In Hölderlin

l’organico è la forza che unisce e determina le figure particolari, mentre l’aorgico è la potenza infinita e panica che le confonde, cfr. H. Schwerte, Aorgisch, in «Germanisch-Romanische Monatsschrift», 34 (1953), pp. 29-38. [149]

Cfr.

Enzyklopädie philosophischen

Hegel, der

Wissenschaften, § 339 (trad. it. cit., p. 313). [150] Ibid., § 339 Z. [151] Ibid. Sul susseguirsi

delle epoche della natura e il loro rapporto con l’inclinazione dell’asse terrestre, cfr. G.-L. Leclerc comte de Buffon, Époques de la nature (1778), in Œuvres philosophiques, a cura di J.

Piveteau, Paris, 1954, trad. it. di M. Renzoni, Epoche della natura, Torino, 1960, pp. 31 ss. [152] Cfr. K. Rosenkranz,

Hegels Leben, trad. it. cit., p. 523. [153] Hegel an Lenz, 17

novembre 1807, lettera fino ad allora inedita, di cui F. Nicolin ha riportato un

estratto in Hegel 1770-1970. Leben, Werk, Wirkung, Stuttgart, 1970, p. 34, ma che ora è riportata integralmente in traduzione italiana in Hegel, Epistolario I, cit., p. 310: «la nostra cara mineralogia al cui studio sotto la Sua direzione mi sono appassionato». Johannes Georg Lenz aveva fondato a Jena nel 1796 la

Società mineralogica di cui Hegel era assessore. [154] Su Werner e la sua

influenza quale scienziato (autore, soprattutto, della Neue Theorie über die Entstehung der Gänge, Freiberg, 1791) e direttore della Accademia mineraria di Freiberg in Sassonia – dove studiarono e si formarono personaggi

influenti in tutti i campi della cultura, tra cui Franz von Baader, Alexander von Humboldt, Friedrich von Hardenberg (Novalis), Henrik Steffens e August von Herder – si veda, da ultimo, il bell’articolo di A. Bonchino, L’«oscuro abisso della terra». Werner e la filosofia romantica della natura (1788-1799), in

«Intersezioni», XXXIV (2014), n. 1, pp. 73-95. Per le posizioni di Goethe, che sarebbero state più vicine a quelle di Werner, cfr. W. von Engelhardt, Goethe in Gespräch mit der Erde. Landschaft, Gesteine, Mineralien und Erdgeschichte in seinem Leben und Werk, Weimar, 2003. Goethe, con maggiore cautela, sembra

tendenzialmente favorevole alla conciliazione tra nettunismo e plutonismo, così come viene rappresentata nel Faust II (vv. 10075-10121) attraverso il dialogo tra Mefistofele, ovviamente sostenitore del plutonismo (nel cui fuoco sotterraneo situa l’inferno) e Faust, più incline, invece, al nettunismo. Ma si veda

anche J.P. Erdmann, Gespräche mit Goethe, 18 maggio 1824, Zürich, 1948, p. 555. [155] Cfr. J. Hutton, Theory

of Earth, Edinburgh, 1795, su cui S.I. Tomkieff, James Hutton and the Philosophy of Geology, in «Transactions of the Royal Society of Edinburgh», LXVII (1950), pp. 387-400; W.F. Cannon, The

Uniformitarian-Catastrophist Debate, in «Isis», LI (1960), pp. 38-55; R. Hooykaas, The Principle of Uniformity, Leiden, 1963; Id., Continuité et discontinuité en géologie et biologie, trad. franc., Paris, 1970; R. Laudan, From Mineralogy to Geology. The Foundation of a Science 16501830, Chicago, 1987, e D.R. Oldroyd, Die Biographie der

Erde. Zur Wissenschaftsgeschichte der Geologie, Frankfurt a.M., 1998. Lamarck, come già abbiamo visto attraverso Sainte-Beuve, era per l’uniformismo (cfr. J.-B. Lamarck, Sur les fossiles des environs de Paris, Paris, 18021806), mentre il suo avversario Cuvier era su posizioni opposte (cfr. G.

Cuvier, Essai sur la géographie minéralogique des environs de Paris, Paris, 1808). [156]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 339 Z. Per alcune puntualizzazioni, cfr. J.-M. Barrande, ‘Géo-logique’ (Hegel et les sciences de la Terre), in «Annales publiés par l’Université de Toulous-

Le Mirail», XIII (1977), n. 6, pp. 5-21; B. Fritscher, Hegel und die Geologie um 1800, in Hegel und die Lebenswissenschaften, a cura O. Breidbach e D. von Engelhardt, Berlin, 2002, pp. 55-74 e C. Ferrini, From Geological to Animal Nature in Hegel’s Idea of Life, in «HegelStudien», 44 (2009), pp. 4593.

[157] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 341 (trad. it. cit., p. 314). [158] Secondo le teorie di

Romé de L’Isle e di R.J. Haüy, le maggiori autorità dell’epoca in materia, i cristalli si formavano per effetto di un «germe invisibile» presente nell’acqua, cfr. J.-B. Romé de

L’Isle, Cristallographie, Paris, 1783, vol. I, p. 13; R.J. Haüy, Traité de minéralogie, Paris, 1801 (ben noto a Hegel, cfr. Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, §§ 315 Z, 324 Z). Cfr., sull’argomento, R. Hooykaas, La naissance de la cristallographie en France au XVIIIe siècle, trad. franc., Paris, 1953.

[159] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 339 Z. [160] Cfr. Hegel, Differenz

des Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie, cit., p. 81 (trad. it. cit., p. 100). [161] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 339 Z.

[162] Hegel segue nella

cronologia una posizione tradizionalistica. [163] Cfr. A. Gerbi, La

disputa del nuovo mondo. Storia di una polemica 17501900, cit., pp. 475 ss. [164] Cfr. il citato passo di

Hegel in Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 339 Z. Cfr.

Pietro Rossi, Storia universale e geografia in Hegel, in Incidenza di Hegel, cit., pp. 369-407. [165] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 280 Z. [166] Hegel, Die Vernunft in

der Geschichte, cit., pp. 149, 151. [167]

Hegel,

Vorlesungen

über die Aesthetik, cit., vol. X1, p. 72 (trad. it. cit., p. 65). [168] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 48 A (trad. it. cit., p. 52). [169] Cfr. Hegel, Jenenser

Realphilosophie II, cit., pp. 206-207 (trad. it. cit., pp. 126127); Wissenschaft der Logik, cit., vol. II, p. 402 (trad. it.

cit., vol. II, p. 852). Su questo punto, cfr. R. Bodei, Dialettica e controllo dei mutamenti sociali in Hegel, in R. Bodei e F. Cassano, Hegel e Weber. Egemonia e legittimazione, Bari, 1977, pp. 51 ss. e passim e Id., Macchine, astuzia, passione. Per la genesi della società civile in Hegel, in L. Lugarini, M. Riedel e R. Bodei, Filosofia e società in

Hegel, Trento, 1977, pp. 6169. [170]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 368 Z.

[171] Cfr. G. Lukács, Zur

Ontologie des gesellschaftlichen Seins. Hegels falsche und echte Ontologie, cit., p. 37. [172]

Cfr.

Hegel,

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 376 Z.

der

[173] Ibid., § 381 Z. [174]

Cfr. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 49 (trad. it. cit., vol. I, p. 60): «Dobbiamo persuaderci che la natura del vero è quella di farsi largo quando è arrivato il

suo tempo, e che solo allora appare, quando il tempo è venuto: e che quindi non appare mai troppo presto, né trova un pubblico non maturo». [175] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 549 A (trad. it. cit., pp. 489-490). [176] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 40 (trad. it. cit., vol. I, p. 47). [177] Come sostengono, ad

esempio, Popper e Löwith. [178] Cfr. G. Lukács, Die

Zerstörung der Vernunft, Berlin, 1953, trad. it. di E. Arnaud, La distruzione della ragione, Torino, 1974, rist., vol. I, pp. 160 ss., 185 ss. [179]

Cfr.

Hegel,

Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, §§ 268 Z e 341 Z (cfr. anche LogikMetaphysik-Naturphilosophie, in Jenaer Systementwürfe II, cit., p. 192). Cfr. Heine, Geständnisse, in Werke, cit., vol. X, pp. 171 ss.; Briefe über Deutschland, in Werke, cit., vol. IX, p. 484. Su questa immagine si è poi

soffermato C. Cattaneo, Prolusione a un corso di filosofia civile (1852), in Storia universale e ideologia delle genti. Scritti 1852-1864, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, Torino, 1972, p. 15. [180] P. Lafargue, Das Recht

auf Faulheit und persönliche Erinnerungen an Karl Marx, a cura di I. Fetscher, Frankfurt-Wien, 1966, p. 62.

[181] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, § 258 Z (trad. it. cit., p. 372). [182] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 88 (trad. it. cit., vol. I, p. 102). [183]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 310 Z. [184] Ibid., § 336 Z.

[185] Ibid., § 341 Z. [186] Ibid., § 381 Z. [187] Ibid., § 350 (trad. it.

cit., p. 319). [188] Ibid., § 344 Z. [189] Ibid., § 352 Z. [190] Ibid. [191] Ibid., § 367 Z.

[192] Ibid., § 376 Z. Qualche

dato, anche non legato alla teologia, si può ricavare da A. Brunkhorst-Hasenklever, Die Transformierung der theologischen Deutung des Todes bei G.W.F. Hegel, Frankfurt a.M., 1976. [193] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 376 Z. Cfr. Einleitung in die Geschichte der

Philosophie, cit., p. 97, dove il pensiero è definito in termini stoici l’egemonikon. [194] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 365 Z. [195] Cfr. ibid., e G. Cuvier,

Le Règne Animal distribué d’après son organisation, vol. I, Paris, 1817, pp. 47-55. Di Cuvier Hegel conosce anche,

e cita, le Recherches sur les ossements fossiles des quadrupèdes, Paris, 1812 (cfr. Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 368). [196] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 34 (trad. it. cit., vol. I, pp. 40-41). [197]

Hegel, Jenenser Realphilosophie I, cit., p. 236

(trad. it. cit., p. 95). [198]

Ibid., pp. 205-206 (trad. it. cit., p. 125). [199] Marx, Das Kapital,

Berlin, 1962, vol. I, p. 193, trad. it. di D. Cantimori, Il capitale, Roma, 1956, vol. I, pp. 1, 196. Sul finalismo umano nel lavoro in rapporto a Marx, cfr. C. Luporini, Le «radici» della vita

morale, in AA.VV., Morale e società, Roma, 1966, pp. 52 ss.; G. Lukács, Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, cit. [200] Spinoza, Ethica, IV,

praef., mi servo dell’Etica, edizione critica del testo latino e traduzione italiana a cura di P. Cristofolini, II ed. riveduta e aggiornata (che innova il testo rispetto alla classica edizione di Spinoza,

Opera, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, a cura di C. Gebhardt, 4 voll. Heidelberg, s.d. [ma 1924], vol. II, grazie alla copia manoscritta recentemente scoperta presso la Biblioteca Vaticana e a suo tempo utilizzata per condannare l’opera e, in seguito, per metterla all’Indice), Pisa, 2014, p. 241.

[201] Voltaire, Causes finales

/ Cause finali, in Dictionnaire philosophique / Dizionario filosofico, trad. it. con testo francese a fronte di D. Felice e R. Campi, Milano, 2013, p. 839. [202] Cfr. G.H. von Wright,

Explanation and Undestanding, Ithaca, N.Y., 1971, trad. it. Spiegazione e comprensione, Bologna, 1977.

[203]

Cfr. P. Grassé, L’Évolution du vivant, Paris, 1973, p. 277. [204]

Cfr. Hegel, Reisetagebuch durch die Berner Oberalpen, in K. Rosenkranz, Hegels Leben, cit., Urkunden, pp. 470-490, trad. it. di T. Cavallo, Diario di viaggio sulle Alpi bernesi, Como-Pavia, 1990, pp. 54 ss., e cfr. R. Bodei, ibid., Introduzione, pp.

20 ss.; Hegel, System der Sittlichkeit, in Schriften zur Politik und Rechtsphilosophie, a cura di G. Lasson, Leipzig, 1923, trad. it. di A. Negri, Sistema dell’eticità, in Scritti di filosofia del diritto, 1802-1803, Bari, 1971, pp. 186-187 (su cui si veda S. Schmidt, Hegels System der Sittlichkeit, Berlin, 2004, con un articolato commentario di questo

saggio, giudicato uno dei testi più difficili di tutta la storia della filosofia). Per alcune approfondite analisi sul tema della teleologia, specie nell’ambito della Scienza della logica, si vedano V. Giacché, Il problema «teleologia» nella sezione «soggettività» della Scienza della logica, in «Rivista di storia della filosofia», 43

(1988), pp. 45-75; L. Lugarini, Finalità kantiana e teleologia hegeliana, in «Archivio di storia della cultura», V (1992), pp. 87-103 e T. Pierini, Theorie der Freiheit. Der Begriff des Zwecks in Hegels Wissenschaft der Logik, München, 2006, pp. 75-207. Sulla finalità in Aristotele e in Kant in rapporto all’uso dell’idea di vita in Hegel, cfr.

A. De Cieri, Filosofia e pensiero biologico in Hegel, cit. [205] Per alcuni di questi

aspetti cfr., al livello della filosofia della storia, H.D. Kittsteiner, Listen der Vernunft. Motive geschichtsphilosophischen Denkens, Frankfurt a.M., 1998, e W. Jaeschke, Die List der Vernunft, in «HegelStudien, 43 (2008), pp. 87-

102. [206] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. II, p. 398 (trad. it. cit., vol. II, pp. 848849). [207] Ibid., vol. II, p. 402

(trad. it. cit., vol. II, p. 852). [208]

Hegel,

Vorlesungen

über die Aesthetik, cit., vol. X1, pp. 71-72 (trad. it. cit., p. 65).

[209]

Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, a cura di Ph. Marheineke, in Werke, cit., vol. XI, Berlin, 18402, p. 39. [210] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, §§ 359 Z, 408 Z. [211]

Hegel,

Vorlesungen

über die Aesthetik, cit., vol. X1,

pp. 127-128 (trad. it. cit., pp. 114-115). [212] Per le forme di «vita

buona» come antecedenti classici della posizione hegeliana, cfr. Aristotele, Eth. Eud., 1249 b, Eth. Nic., 1177 a-1178 b e, in generale, A. Grilli, II problema della vita contemplativa nel mondo grecoromano, Milano-Roma, 1953, pp. 125 ss.; H. Arendt, The

Human Condition, Chicago, 1958, trad. it. di S. Finzi, Vita activa, Milano, 1964, passim. Per converso, sul potere liberatorio della sensibilità in Feuerbach, cfr. A. Schmidt, Emanzipatorische Sinnlichkeit. Ludwig Feuerbachs anthropologischer Materialismus, München, 1973, in particolare pp. 75 ss. [213]

Hegel,

Vorlesungen

über die Aestbetik, cit., vol. X2, p. 45 (trad. it. cit., p. 517). [214] Cfr. Hegel, Philosophie

der Weltgeschichte, cit., pp. 814 ss. (trad. it. cit., vol. IV, pp. 71 ss.). [215] Dante, Paradiso, IV, vv.

124-130 (cfr. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 440 Z).

Sull’istinto di verità che penetra all’interno dei sistemi filosofici al di là della consapevolezza stessa del filosofo, ad esempio di Kant quando si imbatte nell’idea di triplicità, cfr. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 36 (trad. it. cit., vol. I, p. 40). [216] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen

Wissenschaften, § 465 Z. [217] Ibid., § 6 (trad. it. cit.,

p. 7).

Capitolo terzo

Apparenza ed epoca

Con la filosofia occidentale e la comparsa dell’essere fermo rispetto al mutamento si infrange la muraglia della rappresentazione, tanto che fin dal principio la filosofia è paradosso e scandalo e può nascere solo

laddove ci sia libertà politica e al contempo dove viene meno ogni certezza. Il capitolo si occupa del legame tra realtà e apparenza, e le sue conseguenze etiche e politiche. Si può concepire l’universale perché esso è apparso nella realtà, sotto forma di

popolo libero che si dà un’organizzazione politica, sottoposta non alla volontà del singolo o al diritto consuetudinario, ma alla legge oggettiva e riconosciuta della polis. Per questo vengono trattati qui temi quali il legame tra apparenza e

rovesciamento, apparenza e rivoluzione, tempo e eternità, fino a considerare la possibilità dello spirito come revoca dell’alienazione.

Dai tempi più

remoti gli uomini comuni hanno opposto ai maggiori filosofi cose che anche i bambini e gli infanti

capirebbero. Si sta a sentire, si legge e ci si meraviglia che sì grandi uomini abbiano ignorato cose sì

comuni che uomini notoriamente piccoli avrebbero potuto insegnare loro. Nessuno pensa che probabilmente

essi tutte queste cose le sapevano, altrimenti come avrebbero potuto nuotare in tal modo contro la

corrente dell’evidenza? Schelling, Idee per una filosofia della natura[1].

1. L’universale nella storia

Il primo pensiero puro che appare nel mondo, la prima categoria esposta nella Storia della filosofia e nella Scienza della logica è, com’è noto, l’essere. Con Parmenide ha inizio la filosofia come scienza[2] e,

contemporaneamente, la prima rivoluzione attuata col «coraggio» della ragione[3] contro l’evidenza sensibile. Nel tener fermo l’essere dinanzi al mutamento, si infrange quella muraglia della rappresentazione da cui

la maggior parte degli uomini, e il mondo orientale in blocco, resta ancora circondato. La filosofia è quindi, fin dalle origini, paradosso e scandalo: è una sfida non solo all’autorità della tradizione, ma anche all’autorità dei

sensi. Essa può nascere, da un lato, solo in presenza della libertà politica (nell’area greca e non nell’Asia dispotica), dall’altro, solo in un periodo in cui vien meno ogni salda certezza, in cui la realtà effettuale vacilla sotto i

colpi dell’apparenza, quando un sole esteriore è al tramonto. Nell’Oriente, dove domina – secondo lo schema diffuso da Montesquieu – il timore o la paura[4], c’è unicamente l’inizio del sapere e della civiltà

umana (Timor Domini initium sapientiae)[5], ma non il distacco da esso che giunge fino alla sapienza come universalità per sé. Neppure il despota, colui che tratta i sudditi come schiavi, si innalza al di sopra della

coscienza naturale e dell’arbitrio: «L’uomo che vive col timore, e chi domina l’uomo col timore, si trovano entrambi al medesimo livello; la differenza sta solo nella maggiore energia della volontà, che può condurre a

sacrificare ogni cosa finita a uno scopo particolare»[6]. Per questo, il rapporto signoria-servitù è posto all’inizio della storia dell’autocoscienza. In Grecia, invece, la libertà di «alcuni» – che coesiste con la

schiavitù[7] – permette di cogliere un’universalità, per quanto ristretta: «il singolo spirito concepisce il proprio essere come universale; l’universalità è costituita per l’appunto da questa relazione con

se stesso. Questo essere presso di sé, questa personalità e infinità dell’io costituisce l’essere dello spirito; esso è così, né può essere altrimenti. Un popolo che si sa libero, lo è soltanto in quanto universale: ecco il fatto

che costituisce l’essere suo, il principio che costituisce tutta la sua vita sia nel campo etico sia in ogni altro»[8]. Si può concepire l’universale perché esso è apparso nella realtà, sotto forma di popolo libero che si dà

un’organizzazione politica, sottoposta non alla volontà del singolo o al diritto consuetudinario, ma alla legge oggettiva e riconosciuta della Polis: con Creonte il potere sotterraneo del legame di sangue, la forza della

natura, è spezzato in favore del nomos universale a cui tutti devono obbedienza[9].

2. La filosofia come rovesciamento dell’evidenza Parmenide e Zenone,

l’inventore della dialettica[10], negando il mutamento e presentando le aporie del moto, facevano sì violenza alla coscienza comune, ma istituivano anche nessi razionali più vasti e comprensivi, in grado di ricostruire,

una volta sviluppati adeguatamente, l’esperienza a un livello di maggiore articolazione. Definire sofismi tali aporie significa non vedere il pungolo razionale che essi costituiscono per l’ampliamento

dell’esperienza stessa. Significa restar fermi all’immediato «percepire empirico, secondo il procedimento (così lampante per il senso comune) tenuto da Diogene, il quale avendo un dialettico mostrata la

contraddizione contenuta nel

moto,

non si sarebbe più oltre sforzato di confutarlo con la sua ragione, ma lo avrebbe ripreso in maniera visibile con un muto andare avanti e indietro[11] – asserzione e confutazione certo più

facili, che non di entrare a fondo nei pensieri, tenendo fermi e risolvendo col pensiero stesso i viluppi cui il pensiero (e propriamente il pensiero addestrato, ma appunto formantesi nella coscienza

ordinaria) conduce»[12]. Diogene ha così mostrato di ragionare coi piedi e non con la testa, ha rovesciato meccanicamente la posizione a testa in giù della coscienza comune rispetto alla scienza[13]. Da questo aneddoto

deriva probabilmente l’immagine hegeliana, ripresa e resa famosa da Marx, del poggiare sulla testa e del conseguente rovesciamento. Ogni nuova filosofia e ogni grande scoperta scientifica produce un rovesciamento, una

rivoluzione nel senso comune di un’epoca. Anche la «rivoluzione copernicana» nella scienza moderna non è forse un’apparente distruzione dell’apparenza, un capovolgimento dei dati più immediati dei sensi,

per cui la Terra sta ferma e il Sole le gira attorno? Anche Goethe aveva osservato: «Ciò che ci inganna tanto, quando dobbiamo riconoscere l’idea del fenomeno, è che essa spesso e volentieri contraddice i sensi. Il

sistema copernicano si basa su un’idea che era difficilmente afferrabile e che ancora oggi contraddice i nostri sensi»[14]. Conoscere realmente qualcosa vuol dire attraversare le aporie che si generano dai sensi e dalle

credenze del senso comune, nonché dai «sistemi» scientifici vigenti, ed esporla in un modello di pensiero che inquadri i fenomeni in misura più estesa, «salvandone» un maggior numero. Ma nel momento stesso in cui

la nuova struttura concettuale allarga il raggio dell’esperienza, la filosofia diventa sempre meno intelligibile al senso comune. Tale incomprensibilità «nasce in parte da un’incapacità, che è in

sé soltanto mancanza di abitudine, di pensare astrattamente, cioè di tener fermi innanzi allo spirito pensieri puri e muoversi in essi. Nella nostra coscienza ordinaria i pensieri sono vestiti e uniti con la consueta materia

sensibile e spirituale, e nel nostro ripensare, riflettere e ragionare noi mescoliamo sentimenti, intuizioni e rappresentazioni con pensieri (in ogni proposizione – per esempio: ‘questa foglia è verde’, – sono già

mescolate categorie come l’essere e l’individualità)»[15]. Trascinato dalle «onde del pensiero», il senso comune si sente sperso; rotto «il circolo delle rappresentazioni abituali», gli sembra di essere capitato in «casa

del diavolo»[16]. La ripulsa della filosofia è anche una manifestazione di paura. La filosofia non si adagia quindi passivamente sul senso comune di un’epoca, non riflette l’epoca, ma la pensa, ossia la

concepisce in movimento, in divenire. Perciò, quando lo storico della filosofia Dietrich Tiedemann afferma che «Gorgia è andato molto oltre il segno cui può giungere un uomo di buon senso»[17], Hegel commenta: «Questo

avrebbe potuto dirlo d’ogni filosofo: infatti ogni filosofo va oltre il sano intelletto umano, perché ciò che suol chiamarsi sano intelletto umano, non è filosofia, e spesso tutt’altro che sano[18]. Il sano intelletto umano

contiene il modo di pensare, le massime e i pregiudizi della propria età, ed è governato dal pensiero determinato di essa senza averne coscienza. In questo senso certamente Gorgia è andato più in là del sano intelletto degli

uomini. Similmente prima di Copernico sarebbe stato contrario a ogni intelletto umano sostenere che la Terra gira attorno al Sole; e prima della scoperta dell’America dire che da quella parte c’era un altro continente.

Similmente nell’India o nella Cina sarebbe ancor oggi contrario a ogni sano intelletto umano un governo repubblicano»[19]. In questa prospettiva, la filosofia precorre i tempi rispetto alla coscienza comune, e si

chiarisce quanto Hegel scriveva a Schelling già nel 1795: «Il tuo sistema avrà lo stesso destino di tutti i sistemi elaborati da uomini il cui spirito ha precorso la fede e i pregiudizi del loro tempo. Li hanno screditati, li hanno

confutati a partire dal proprio sistema; nel frattempo la cultura scientifica ha proseguito silenziosamente il suo cammino, e cinquant’anni più tardi, la folla, che si lascia trascinare solo dalla corrente del proprio

tempo, scopre con meraviglia – appena accidentalmente le capita tra le mani una di quelle opere, che in una polemica di seconda mano essa aveva imparato a conoscere come piena di errori già da lungo tempo

confutati – che quest’opera racchiudeva il sistema dominante del tempo»[20]. Nell’andare contro la corrente del proprio tempo, il filosofo risale la massa dei pregiudizi in circolazione e anticipa la coscienza

comune.

3. Apparenza e rovesciamento Provehimur portu, terraeque urbesque recedunt. Virgilio,

Aen. III, 72[21].

Alla

coscienza

comune, che non si è sottomessa alla «fatica del concetto», la filosofia appare come mondo capovolto, assurdità: «Ai profani essa [cioè la filosofia

speculativa] deve apparire, secondo il suo contenuto, come un mondo rovesciato (eine verkehrte Welt), in contrasto con tutti i concetti cui sono abituati e con ciò che essi prima ritenevano valido secondo il

cosiddetto intelletto

sano umano»[22].

L’opposizione fra coscienza comune e scienza, fra fenomenologia e logica, è però un’opposizione reciproca: ognuna appare all’altra come capovolta[23]. Nessuna

filosofia può essere veramente efficace finché non oltrepassa questa situazione di stallo, non esce fuori da quella «logica dell’apparenza» che era per Kant il risultato necessario della dialettica della

ragione[24]. Non appena, secondo Kant, si scambia il focus imaginarius dell’idea regolativa con la realtà, «per noi sorge veramente qui l’illusione, come se queste linee direttive si diramassero (come gli

oggetti son veduti dietro la superficie dello specchio) da un oggetto stesso, che giaccia fuori dal campo della conoscenza empirica possibile»[25]. E l’illusione che si genera è un fatto naturale e inevitabile, «come non

possiamo evitare che il mare nel mezzo non ci apparisca più alto che alla spiaggia, poiché lì noi lo vediamo per raggi più alti che qui, o come anche lo stesso astronomo non può impedire che la luna al levarsi non gli apparisca

più grande, quantunque egli non si lasci ingannare da tale apparenza»[26]. Come lo stesso Kant osserva anche nell’Antropologia pragmatica, la stessa illusione è generata anche in altri casi comuni: «le calze

bianche fanno apparire le gambe più piene delle calze nere; un fuoco acceso nella notte sopra un’altura sembra più grande di quello che sia alla misurazione»[27]. Compito di Hegel sarà quello di fondare la realtà dell’apparenza,

mostrare come essa non sia semplice illusione; istituire anzi una scienza dell’apparenza, unendo fra loro due termini contraddittori e rendendo il giusto tributo alla coscienza comune, ossia al terreno in cui le forze di

un’epoca si muovono inconsciamente. Se si riesce a portare la coscienza comune al livello del proprio tempo appreso nel pensiero e se si riesce a far ridiscendere la filosofia dal suo polemico distacco nei confronti

della coscienza comune e dell’opinione, c’è la possibilità di affrettare il trapasso, il superamento delle condizioni attuali, il «balzo» in avanti che lo spirito si appresta a eseguire[28]. L’apparenza va perciò riconosciuta

come ineliminabile manifestazione della realtà e della «verità»: «L’apparenza è un sorgere e un passare che né sorge né passa, ma che è in sé e costituisce l’effettualità e il movimento della vita della verità»[29]. La

filosofia hegeliana è una filosofia che parte dall’assimilazione della coscienza comune, che la comprende in sé prima di prenderne congedo e di iniziare la sua marcia fra i concetti puri. Essa non può, dunque, prescindere

dalla «corrente del proprio tempo» anche quando nuota in direzione opposta all’immediato presente. Attenersi al pensiero, contro la naturalità e l’apparenza del concreto, significa salvare i fenomeni, far

vedere come l’apparenza non è vuoto fantasma. Nel dipanare il finito, la «trama aperta» dei concetti[30], si produce la totalità come struttura processuale che contiene le singole determinazioni, che si

mostrano come apparenze solo finché non sono comprese nell’insieme in divenire. Con Hegel il mondo non ha più doppi fondi: finisce la più che bimillenaria tradizione (schematicamente: da Aristotele a Kant) per

cui ciò che appare è sostenuto da una qualche ousia, ypokeimenon, substantia o cosa in sé che funge da supporto o da Atlante del reale, o, per ricorrere a un’immagine della mitologia indiana utilizzata da Hegel, non

c’è più alcuna tartaruga che sorregge un elefante che a sua volta sorregge il mondo[31]. Scomparso ogni punto di sostegno solido, immediato, poggiante su se stesso, la verità non può essere che un sistema di relazioni, in cui ogni

singolo elemento ha il suo senso solo in base al suo valore di posizione nel tutto. La filosofia porta così alle estreme conseguenze lo sviluppo della scienza moderna: trasforma il mondo in un insieme di nessi, lo spolpa di ogni

sostanzialità, ma, nello stesso tempo, vuol trovare una coerenza a queste relazioni in un ordito di concetti, in una «rete adamantina». Se non c’è più alcun Atlante che regge il mondo, se la dialettica rovescia anche

quest’ultimo residuo tolemaico, allora le cose e gli avvenimenti non sono altro che «punti nodali»[32], più o meno stabili, di relazioni. Dalla bipartizione kantiana in fenomeni o noumeni si passa a una complessa articolazione

gerarchica di gradi di verità, a un ordine teleologico in cui tutto ha, topologicamente, un valore di posizione.

4. Apparenza e rivoluzione: i segni premonitori

I Farisei, inaccessibili agli insegnamenti di fede di Gesù che metteva loro dinanzi l’insufficienza della moralità

della loro condotta legalistica, esigettero diverse volte da lui, come convalida del suo discorso che negava

valore alla loro legislazione, un qualsiasi straordinario segno celeste, così come il loro Geova aveva

sanzionato la sua solenne rivelazione. Gesù rispose loro: «A sera voi dite: “Domani sarà un bel

tempo, perché il cielo ha un bel rosso”; se invece il mattino è di un rosso cupo voi ne presagite

pioggia. Così voi comprendete l’aspetto del cielo per pronosticare il tempo e non conoscete i segni del tempo

per giudicarli? Non avvertite che negli uomini si sono ridestati bisogni superiori? Che si è ridestata

la ragione che avanzerà pretese di fronte ai vostri insegnamenti e principi arbitrari, al vostro avvilimento del fine

ultimo dell’uomo, della virtù e in particolare di fronte alla coercizione con cui volete mantenere salda tra

il popolo l’autorità della vostra fede e dei vostri precetti?». Hegel, Vita di Gesù[33].

Un’epoca di crisi è

un’epoca dominata dall’apparenza e dall’oscuro bisogno di un «mondo nuovo». L’immediatezza del costume e della fede si è scissa: da una parte le vecchie leggi, civili o religiose, non esercitano più una attrazione

sufficiente per ottenere un’obbedienza spontanea, dall’altra, proprio a causa della loro debolezza, se ne richiede un’osservanza scrupolosa. Nasce così l’ipocrisia, il farisaismo, fenomeni oggettivi (non colpe individuali) che si

manifestano ogniqualvolta si crea un vuoto storico fra una nuova situazione in movimento e le vecchie istituzioni e idee che non riescono a capirla e a sintonizzarvisi. All’interno di questo spazio, apparenza e

positività, dissoluzione e irrigidimento del vecchio appaiono insieme e offuscano la visibilità dei sintomi premonitori del tempo e la comprensione dei «bisogni superiori» degli uomini. La totalità dei fenomeni che si riflette

nella coscienza assume così un aspetto di contraddizione inconciliabile, in cui però gli opposti sembrano avere ciascuno la loro dignità e verità e, contemporaneamente, la loro immoralità e

falsità. Mancando qualsiasi comprensione unitaria del mondo che riporti i fenomeni a un fondamento esplicativo, la realtà si presenta alla coscienza in forme contraddittorie ma complementari: come vanità, degenerazione,

fatuità, minaccia, attesa messianica e ‘pantoclastica’, passività o surriscaldamento dell’immaginazione. Il costume si irrigidisce nel formalismo o si lascia andare sregolatamente a nuove esperienze morali e

religiose, le sètte si moltiplicano, l’inquietudine politica aumenta, ma l’attesa di una soluzione si fa spasmodica e attira e orienta le coscienze come un invisibile campo magnetico. Si fa allora avanti una

dottrina, religiosa o filosofica, che dà voce ai muti bisogni, che interpreta i segni premonitori, che diventa una diagnosi e, insieme, una terapia collettiva. Ma prima di giungere a questa svolta rivoluzionaria, allo

scoprirsi del nuovo mondo, che diventerà a posteriori il fondamento esplicativo della molteplicità irrelata dei fenomeni precedenti, si passa attraverso una fase depressiva, ipocondriaca: lo spirito del «mondo nuovo» che

si innalza sull’orizzonte della realtà, a fugare le ombre dell’apparenza dal loro isolamento, «dissolve brano a brano l’edificio del suo mondo precedente; lo sgretolamento che sta cominciando è avvertibile per sintomi

sporadici: la fatuità e la noia che invadono ciò che ancor sussiste, l’indeterminato presentimento di un ignoto sono segni forieri di qualcosa di diverso che è in marcia»[34]. È questo il momento della «rivoluzione intima e

silenziosa», descritta anche da Ferguson, i cui modelli Hegel aveva già trovato in Montesquieu e Gibbon, per la caduta dell’Impero romano[35], e in Diderot per la società francese dei decenni immediatamente

precedenti il 1789: «Alla vigilia di una tale rivoluzione nei costumi […] quando si avvicinano a questo stato di cose [gli uomini di rango elevato], privi, come sono, di ogni occupazione, avvertono una scontentezza e un

abbattimento che non sanno spiegarsi. Deperiscono nel mezzo di godimenti apparenti, o, per la varietà instabile e il capriccio, che caratterizzano le diverse occupazioni e divertimenti, manifestano uno stadio

di agitazione e di ansia che, come l’inquietudine provocata da una malattia, lungi dall’essere il segno del godimento e del piacere, esprime uno stato di sofferenza e di pena. Alcuni scelgono di preoccuparsi di edifici,

di carrozze o di banchetti; altri solo di svaghi letterari o di qualche altra occupazione frivola. Gli sport locali, i diversivi offerti dalla città, il tavolo da gioco, i cani, i cavalli e il vino sono le risorse alle quali si

ricorre per riempire il vuoto di una vita svogliata ed inutile»[36]. Anche per Hegel prima della rivoluzione esplicita si manifesta un malessere veramente sotterraneo nella società, e il lavoro di scavo che conduce alla

rivoluzione non è opera della talpa ma di un popolo sommerso: «Lo stesso accade in una rivoluzione che sconvolge lo Stato. Noi possiamo rappresentarci il popolo sepolto sotto uno strato di terra, che ha un lago

sopra di sé. Ciascuno crede di lavorare per sé e per la conservazione del tutto quando prende, dall’alto, una pietra per servirsene nella sua universale costruzione sotterranea. Ma in tal modo comincia a modificarsi

la tensione dell’elemento

dell’aria,

universale, ed essa fa sorgere il desiderio dell’acqua. Con un senso di malessere non sanno cosa manchi loro e per far qualcosa continuano a scavar più in alto, nella

convinzione di poter migliorare la loro costruzione sotterranea. La superficie diventa trasparente. Qualcuno se ne accorge e grida: “Acqua”, toglie l’ultimo diaframma ed il lago precipita nell’interno di questa sacca e li affoga

nel mentre dà loro da bere»[37]. La «fatuità, che avverte se stessa»[38] crede persino, per non annoiarsi, di poter introdurre il nuovo senza danno per il vecchio, di farli coesistere entrambi.

Così in un passo del Nipote di Rameau, sottolineato da Hegel, il pubblico francese si illude di poter introdurre la nuova musica italiana di un Pergolesi, di uno Jommelli, di un Duni, nei propri teatri senza

che la musica nazionale ne abbia a soffrire, non accorgendosi che questa creatura più robusta la distruggerà. Succede così che i frequentatori dell’Accademia reale e dell’Opéra, i «vecchi parrucconi che ci vanno da più di trenta o

quarant’anni tutti i venerdì, invece di spassarsi come in passato, si annoiano e sbadigliano senza saper perché; se lo chiedono ma non trovano risposta»[39], finiscono inconsapevolmente, dopo tanti sbadigli, per

rivolgersi alla musica nuova: «Che brava gente! Hanno rinunciato alle loro sinfonie per far eseguire le sinfonie italiane. Han creduto che si sarebbero fatti l’orecchio a queste senza danno per la loro musica vocale […] Han

creduto di poter provare incessantemente con quale facilità, flessuosità, mollezza, con che armonica prosodia, le ellissi, le inversioni della lingua italiana si prestassero alla espressione artistica, al movimento,

ai giri del canto, al valore ritmico dei suoni e continuare a ignorare al tempo stesso fino a che punto la loro lingua sia rigida, sorda, pedantesca e monotona. Eh, sì; si son convinti che dopo aver mescolato le loro

lacrime al pianto di una madre che si dispera per la morte del figlio, dopo aver rabbrividito al comando di un tiranno che ordina un delitto, non si sarebbero annoiati delle loro scene di fate, della loro insipida mitologia, dei

loro meschini e dolciastri madrigali rivelatori a un tempo del cattivo gusto del poeta e della miseria della musica che se ne appaga […] Il dio forestiero si pone umilmente sull’altare accanto all’idolo

indigeno; si fa più forte poco alla volta e un bel giorno dà un urtone al suo compagno; patatrac, ed ecco l’idolo caduto. Così, si narra, i gesuiti hanno introdotto il cristianesimo in Cina e in India e, per quanto criticato dai giansenisti,

questo metodo politico che marcia diritto allo scopo senza baccano, senza versamento di sangue, senza martiri e senza torcere un capello, mi sembra di gran lunga il migliore di tutti»[40]. Questa marcia «senza baccano» è la

rivoluzione silenziosa, inconsciamente prodotta o gesuiticamente preparata, che precede il «patatrac» dei grandi mutamenti politici: «Le grandi e folgoranti rivoluzioni devono essere precedute da una

rivoluzione intima e silenziosa nello spirito dell’epoca che non a tutti è visibile, meno ancora osservabile dai contemporanei, ed è tanto difficile da esporre a parole quanto da discernere»[41]. La

rivoluzione,

politica o spirituale, è realmente «folgorante», perché il nuovo mondo appare fra bagliori temporaleschi e nella sua semplicità non sviluppata. Compito dei fondatori di nuove religioni (come Gesù), o dei filosofi, è quello di

articolare il nuovo mondo, bonificare il terreno dell’apparenza o negandone interamente la realtà, contrapponendo il mondo terreno a un mondo celeste, o legando l’apparenza a una ossatura

concettuale che funge da supporto. Hegel va ancora più avanti: instaura una scienza dell’apparenza, la «fenomenologia», appunto, in quanto ‘sintomatologia generale’ della coscienza nell’atto in

cui si compie la svolta storica, il «patatrac», il momento in cui lo spirito fa «un balzo». Sotto questo punto di vista, la fenomenologia è una guida al nuovo mondo, realizzata mediante una serie di rivoluzioni della

coscienza, di esperienze che la coscienza attraversa per giungere alla comprensione della grande e folgorante rivoluzione collettiva compiuta dallo spirito umano. Come per d’Alembert, anche per Hegel si devono

conoscere le «révolutions de l’esprit humain»[42] per comprendere il proprio tempo. Ma nel cammino fenomenologico alla coscienza pare che la rivoluzione interiore non avvenga in se stessa, bensì in un oggetto esterno:

«Sembra invece comunemente che in un altro oggetto noi facciamo esperienza della non-verità del nostro primo concetto; in un altro oggetto che noi troviamo accidentalmente ed esteriormente, per

modo che in noi cada soltanto il puro accogliere ciò che è in-sé e per-sé. In quel modo di vedere, invece, il nuovo oggetto si mostra come divenuto mediante un rovesciamento della coscienza stessa

(Umkehrung Bewusstseins

des selbst).

Nostra aggiunta è una tale considerazione della cosa, per cui la serie delle esperienze della coscienza si elevi ad andatura scientifica: considerazione che non è per la coscienza da noi

considerata»[43]. Attraverso questo succedersi di rivoluzioni interiori, la coscienza comune ritorna così continuamente sui piedi, per essere poi rimessa di nuovo sulla testa dalla figura successiva, fino a

quando, nel «sapere assoluto», non ha assorbito tutte le inversioni ed è pronta a comprendere il percorso della scienza senza più l’apparenza dell’alterità. Il movimento dialettico è lo sforzo continuo del pensiero

nella coscienza attiva per far sì che il mondo usuale di rappresentazioni non poggi tranquillamente sui piedi, ma venga disturbato nella sua inerzia. Per usare una espressione italiana di Jacobi e di Sinclair, si

può dire che Hegel fa compiere alla coscienza una serie di «salti mortali»[44], mediante i quali la coscienza – superato di volta in volta il momento di straniamento prodotto da una nuova figura, il momento della testa

all’in giù (ossia l’effetto di sbalordimento generato dalle scoperte scientifiche e filosofiche, nonché dalle rivoluzioni religiose sui «pregiudizi» di un’epoca) – ritorna sui piedi. Coscienza comune e coscienza

filosofica vengono così saldate attraverso queste Umkehrungen des Bewusstseins, ma anche il sapere, a sua volta, abbandona la fase del suo apparire ed entra in una nuova congiunzione con lo spirito del tempo, di cui

diventa ora adeguata[45].

forma

L’apparenza e il sensibile vengono in tal modo recuperati e reintegrati nell’insieme tramite la negazione della negazione eseguita dal «salto mortale». Vedere in Hegel

unicamente distruzione

la

dell’apparenza e del sensibile è prendere in considerazione solo la prima parte del processo, quella che per comodità possiamo chiamare della testa all’in giù, e non la

seconda, quella del salto mortale, con il quale si poggia nuovamente sui piedi, ma dopo essere passati attraverso il rovesciamento. Nel primo movimento, nel porre la testa all’in giù, non sono inoltre l’apparenza o il

sensibile in quanto tali a essere distrutti, ma la loro inesprimibilità[46]. Ritornare sui piedi è spiegare, all’interno di un quadro più vasto, di un «sistema» più comprensivo, un maggior numero di fenomeni o di concetti

precedentemente irrelati, è

dare

soddisfazione alle aporie che si erano presentate. Tale soddisfazione non è però data dalla sola filosofia, ma dall’epoca nuova che ha offerto il fondamento oggettivo, il

fuoco virtuale per farvi convergere l’immagine del mondo. Col salvataggio del sensibile e dell’apparenza Hegel vuole appunto evitare il platonismo, presentare, secondo le parole di Goethe, un mondo «che non ha nocciolo né

corteccia», in cui la «verità» appare e in cui l’apparire è la sua natura essenziale[47].

5. Riflessione e cultura di un’epoca Per Schelling la riflessione è una

malattia dello spirito, una scissione metastorica: «Non appena l’uomo si pone in opposizione con il mondo esterno […] è fatto il primo passo verso la filosofia. Con quella separazione ha inizio la riflessione;

d’ora in poi egli separa ciò che la natura aveva unito per sempre, separa l’oggetto dall’intuizione, il concetto dall’immagine, e alla fine, facendosi oggetto a se stesso, separa sé da sé […] La mera riflessione è

dunque una malattia dello spirito dell’uomo, soprattutto in quanto essa instaura la sua signoria su tutto quanto l’uomo, signoria che uccide in embrione la sua più alta esistenza e alle radici la sua vita spirituale che rampolla

soltanto dall’identità. Essa è un male, che accompagna l’uomo nella vita e distrugge in lui ogni intuizione anche per i più comuni oggetti della conoscenza. La sua opera di separazione non si limita al mondo

fenomenico; separando da questo il principio spirituale, riempie il mondo intellettuale di chimere contro le quali non è possibile lotta alcuna, perché esse stanno del tutto al di là della ragione. Essa rende permanente la

separazione dell’uomo dal mondo, considerando quest’ultimo come una cosa in sé, che né intuizioni, né immaginazione, né intelletto, né ragione riescono a raggiungere. Di fronte a essa sta la

filosofia che considera la riflessione in generale semplicemente come un mezzo. La filosofia deve presupporre quella separazione originale, ché senza di quella non avremmo bisogno di filosofare»[48]. Malgrado questi temi

schellinghiani condivisi anche

– da

Hölderlin e Sinclair[49] – abbiano lasciato una traccia durevole in Hegel, per lui la riflessione che separa l’uomo dal suo mondo non è un destino, ma il risultato di una crisi

storica. E anche il bisogno della filosofia è una risposta alle contraddizioni di un’epoca, un superamento dei limiti delle vecchie filosofie, possibile solo quando si sono infrante o stanno per infrangersi le

vecchie storiche.

barriere Di

conseguenza, «la confutazione di una filosofia ha il senso che ne vengono oltrepassati i limiti e che il principio determinato di essa viene degradato a un momento ideale»[50]. Ma

se questi limiti non vengono realmente superati, si resta prigionieri dell’apparenza. Il proprio tempo viene allora rispecchiato passivamente e frammentariamente dalla riflessione, e la

coscienza, qualora non riesca ad «acclimatarsi» alla scissione, si aggira smarrita nella fantasmagoria dei fenomeni. Non è capace di superare la soglia oltre la quale comincia la scienza, ossia una coscienza che è,

insieme, spiegazione dell’apparenza. La Reflexionsphilosophie, anche quando si propone di non farsi dominare dalle contraddizioni del tempo, ma di assoggettarle, resta in loro balìa, come mostra

l’io fichtiano: «così la beatitudine in cui l’io ha tutto come opposto, tutto sotto i piedi, è una manifestazione del tempo, che ha in fondo lo stesso significato di quella di dipendere da un essere assolutamente estraneo,

che

non

può

farsi

uomo»[51]. Infatti, se «la separazione è infinita, allora il fissare del soggettivo o dell’oggettivo è indifferente»[52]. Il titanismo di Fichte, la sua volontà di piegare il non-io rendendolo

evanescente, è anch’esso simbolo di sudditanza all’epoca. Quando la filosofia non coglie in pieno i bisogni di un’epoca, gli opposti rimangono separati o uniti artificiosamente nella cattiva infinità: «Se il bisogno della

filosofia non raggiunge il suo centro, mostra separati i due lati dell’assoluto (che è a un tempo esteriore e interiore, essenza e manifestazione), in particolare l’essenza interiore e la manifestazione

esteriore»[53]. La vera filosofia adeguata ai bisogni del tempo vuole liberarsi dal mero riflesso del tempo, non però dalla sua comprensione concettuale. Essa è presa di coscienza di ciò che nella riflessione

appare come semplice rispecchiamento passivo. Per questo la filosofia si muove rettificando continuamente la sua rotta fra le contraddizioni segnalate dalla riflessione, avendo per

guida i bisogni superiori dell’epoca e l’istinto della ragione, prima di raggiungere il sistema. Per questo, essa non può costruirsi se non in relazione polemica o di attualizzazione del pensiero e della cultura generale del proprio

tempo. Tale

rapporto

intenzionale con la cultura e l’esperienza della propria epoca è sfuggito a critici come Haym, che osservava a proposito dei contenuti della Fenomenologia: «Lo spirito del mondo non

viene rappresentato come si è sviluppato realmente, bensì come esso avrebbe potuto e dovuto svilupparsi, qualora in certo modo si fosse adattato allo schema dell’astratta dottrina della coscienza. In tal modo sono gettate

alla rinfusa le figure storiche. La scelta è assolutamente arbitraria. Come all’autore una figura storica era o particolarmente familiare o particolarmente presente per una

recente lettura, allora essa viene afferrata e bollata come simbolo di uno stadio della coscienza, sedicente necessario e inevitabile. E invero, se lo spirito della Rivoluzione francese viene elevato a questa dignità, non è

assolutamente comprensibile

perché

quello spirito caratteristico del puritanesimo nella sua lotta contro Carlo I non appaia ugualmente degno di considerazione»[54]. In effetti – a prescindere

da un certo margine di arbitrarietà, ma il problema non sta qui[55] – il motivo per preferire la Rivoluzione francese al puritanesimo o ad altri eventi risiede nel fatto che Hegel riproduce solo le figure sintomatiche della

cultura e dell’esperienza storica del tempo, quelle che servono da punti di riferimento e da bersagli per la costruzione della filosofia coi materiali dell’epoca: «La vera peculiarità di una filosofia è l’interessante

individualità, in cui, con i materiali da costruzione di una determinata epoca, la ragione si è organizzata una figura»[56]. Non si tratta soltanto di servirsi dei contenuti delle figure come di «segnali indicatori» agli

«incroci» della storia[57], ma di utilizzarli realmente come materiale. Senza il riferimento a essi, la filosofia non sarebbe «il proprio tempo appreso nel pensiero». La costellazione delle figure evocate o

«ricordate» è quella delle «stazioni» del calvario che servono alla resurrezione della nuova figura dello spirito. La Fenomenologia non è un qualsiasi innalzarsi della coscienza comune alla scienza o un qualsiasi

sorgere della scienza a se stessa, ripetibili in modo invariato in ogni tempo, tanto è vero che lo stesso Hegel – pur senza sminuire il valore della Fenomenologia, che considerò in seguito un lavoro giovanile peculiare, da non

rielaborare prevista

nella seconda

edizione – la giudicò legata al periodo della composizione[58] e cercò altre forme di introduzione al sistema, più adeguate alle nuove situazioni storiche, più comprensibili agli

studenti, più funzionali all’insieme già sviluppato del suo pensiero. Su questi differenti «vestiboli» al sistema e sul perché del loro variare (Logica di Jena, Fenomenologia, Preliminari e Posizioni del pensiero rispetto

all’oggettività dell’Enciclopedia) si è di recente sviluppata una complessa discussione di carattere filologico e teorico, specie fra studiosi tedeschi e francesi. In particolare ci si chiede se la Fenomenologia sia

un’introduzione interna o esterna al sistema, se abbia o no la stessa estensione di esso, se percorra o no gli stessi contenuti in una diversa dimensione, se Hegel giudichi terminato o no il tempo in cui il sapere deve apparire e

giustificarsi di fronte alla coscienza comune[59].

6. Tempo ed eternità: ricordo e oblio della continuità La Fenomenologia è dunque un cammino

storicamente tracciato e datato, la preparazione di una determinata svolta storica, in cui la coscienza comune e il sapere di un’epoca sono chiamati a raccolta nell’imminenza del balzo perché non si cancellino le tracce del

processo che ha portato al costituirsi del «mondo nuovo». Infatti, «soltanto la memoria conserva poi come una storia, non si sa bene in qual modo trascorsa, la morta guisa della precedente figura dello spirito»[60]. Ora lo spirito

vuol conservare nel suo «balzo» il ricordo della propria continuità e identità attraverso la serie delle rivoluzioni della coscienza, vuole riconoscersi come un prodotto storico, prima di costituirsi come un sistema in cui l’ordine

cronologico interiorizzato

viene o

invertito. La novità di quest’ultima rivoluzione dello spirito e della filosofia che la esprime è che entrambe si sanno per la prima volta come risultato di un lungo dipanarsi di révolutions

de l’esprit humain e intendono conservare la loro connessione con la storia e il divenire. La filosofia è sempre stata il proprio tempo appreso in pensieri, ma solo ora lo sa. Solo ora il movimento della storia e della realtà irrompe

nel tranquillo mondo dei concetti, li mette in tensione, dà loro l’apparenza di una autokynesis. La filosofia cessa di essere sapere analitico, analisi di concetti per saggiarne la validità e i limiti, e diventa processo

genetico[61], costruzione di un sistema con il fluido materiale di un’epoca. Penetrando coscientemente nel regno del pensiero, il movimento dell’epoca lo stana dal suo immobilismo, dalla sua tendenza inerziale a

cristallizzarsi in formule e idee rigide. La Fenomenologia è la ricapitolazione del cammino dimenticato che ha condotto alla formazione inconscia dello spirito di un’epoca, alla coscienza comune e alla Reflexionsphilosophie,

che lo contengono in modo contraddittorio e non lo sanno esprimere se non per frammenti. In questo senso, l’opera di Reinhold (autore degli Elemente der Phänomenologie, l’antecedente immediato della

Fenomenologia hegeliana) [62] è «immersa completamente» nel «bisogno del tempo»[63], ma non lo sa afferrare. Anche a lui del truncus ficulnus o del granito del Monte Bianco dell’epoca resta in mano solo un «Mercurietto

maledettamente piccolo» o una scheggia: «Uno illumina l’epoca, l’altro la esalta col sentimento in sonetti, la educa, la riflette, la eleva con intuizioni e preghiere. L’epoca è per tutti il truncus ficulnus, dal cui insieme ognuno

vuol fabbricare un Mercurio. Ma il diavolo gli porta via sottobanco il truncus, ovvero, per dirla con un’altra metafora, il granito del Monte Bianco, e gliene lascia solo una piccola scheggia o un granello, di modo che, quando

uno vuole osservare alla luce il proprio lavoro ormai finito, ne ha tirato fuori un piccolo, maledetto Mercurietto, e non potrà mai abbastanza insultare la cattiveria dei tempi e del diavolo»[64]. La filosofia deve dunque

uscire da immersione

questa nella

superficiale immediatezza dello spirito del tempo, deve rifiutare le briciole e tendere alla totalità e può farlo soltanto congiungendo il tempo all’eterno e il relativo

all’assoluto. Se nella Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling vi è soltanto l’affermazione secondo cui «il vero togliere del tempo è un presente senza tempo o eternità»[65], più tardi il superamento del tempo

attraverso la conservazione

sua

nell’eternità condurrà all’esplicita conciliazione tra eternità e tempo e tra verità e storia. La storicizzazione dell’assoluto potrà così venire formulata con

maggiore chiarezza. Infatti, solo dopo i tentativi non riusciti (risalenti al periodo che precede immediatamente la stesura della Fenomenologia) di legare il tempo della natura con quello dello spirito,

Hegel sarà infine in grado di mostrare, contestualmente, sia il dispiegarsi dell’assoluto nel tempo, sia la circolarità delle tre dimensioni del tempo stesso, sia il processo dello sciogliersi della fissità delle categorie

logiche atemporali nel tempo della natura, della storia e dello spirito[66]. L’assoluto – pur nella sua ascendenza spinoziana dall’idea di sostanza in cui il finito è inconcepibile qualora venga separato

dall’infinito – si configura ora come «divenire», eternità che non procede all’annullamento del tempo, bensì alla sua «bella unificazione» con esso: «Porsi […] nella prospettiva del conoscere assoluto

dell’assoluto concepire

significa ogni

determinazione finita nel tutto e quindi intuirla come espressione dell’eterno […] Pertanto lo spirito si pone insieme nella distensione e dispersione della natura

e del suo tempo, ma non è abbandonato alla fuga senza fine del tempo, in quanto esso è finalmente colto nella sua realtà di concetto»[67]. In questo senso il tempo è eterno e «lo spirito è tempo»[68].

Hegel ha in questo modo trovato una via d’uscita all’alternativa tradizionalmente posta fra un’eternità statica e immutabile e un tempo che si autodistrugge, ossia, parallelamente, fra una verità senza storia e una storia senza

verità. Nello sforzo di conciliare, non senza difficoltà e ambiguità, il tempo e l’eternità, il divenire e l’assoluto, Hegel ha però considerato, almeno al livello della parte finale della Fenomenologia, l’assoluto stesso, da un

lato, come «verità e certezza del suo trono» (Wahrheit und Gewißheit seines Throns), dall’altro, come «calvario» (Schädelstätte) e, questo, per evitare che l’assoluto stesso fosse «solitudine senza vita» (lebloses Einsame).

Eppure, acuto

secondo un interprete,

«calvario e trono non sono su un piede di parità: l’eterno non è il tempo, bensì lo contiene in sé, ne tiene insieme i singoli momenti, le figure astratte della coscienza

e le figure reali del mondo, e lo ha ad oggetto». Il sapere assoluto non può, quindi, dare esaurientemente conto della sua storia: resta uno iato tra la sua conclusione e ciò che la precede. I tre sillogismi

dell’Enciclopedia «dovrebbero essere la risposta al problema [alla convergenza di questi due aspetti]. E anche lo sarebbero, se questo circolo venisse inteso e presentato come tale che il ritorno del circolo su di sé è

determinato da ciò, che ogni rapporto lascia sempre fuor di sé qualcosa, sì che il circolo di circoli lascia sempre fuori della ragione un irraggiungibile residuo»[69]. Un problema ulteriore

insito in rinnovato

questo concetto

hegeliano di tempo, ma poco visibile se non lo si guarda da una prospettiva a noi cronologicamente più vicina, è quello relativo alla realtà del tempo stesso. Per

comprenderlo, si deve partire dagli studi del filosofo hegeliano inglese McTaggart, che hanno affermato, nel 1908, l’esistenza di due diverse strutture temporali, rivelatesi reciprocamente intraducibili: 1) Quelle

che si dispongono secondo la cosiddetta Aserie di determinazioni «tensionali» (passato, presente e futuro) all’interno di un modello dinamico e aperto, eracliteo, in cui dal tronco del passato si protendono i molti rami

dei futuri possibili (irreali finché non si attualizzano nel presente, il quale cambia però continuamente, dislocandosi in istanti sempre successivi). Tale modello corrisponde a una versione stilizzata

della nostra esperienza intuitiva del tempo, in cui ciò che esiste viene equiparato al suo essere attuale nel tempo. 2) Quelle costituite dalle determinazioni «atensionali» della Bserie, articolate dal «prima-

di/contemporaneoa/dopo-di»[70]. Esse sono statiche, parmenidee, in quanto non presuppongono né il venire all’attualità nel presente di ciò che era soltanto possibile o irreale, né l’arretramento nel

passato e nel nonessere di quanto ora è. In base a tali determinazioni, la realtà possiede, dunque, un carattere sostanzialmente atemporale e il futuro risulta altrettanto determinato del

passato. I fatti atensionali di cui si compone il mondo sono, in quest’ottica, indipendenti dal tempo. Tale temporalità statica viene talvolta spiegata dai suoi fautori mediante l’analogia con i singoli fotogrammi di

una pellicola cinematografica, che esistono simultaneamente pur venendo proiettati in successione. Anche in termini logici, gli enunciati di tipo atensionale esprimono verità immutabili che

trascendono il tempo di asserzione, sia in modo onnitemporale, ossia valido in ogni tempo, sia in modo atemporale, valido fuori dal tempo. A essi si applica il «principio di bivalenza», per cui qualsiasi proposizione al tempo

futuro o passato è vera o falsa a prescindere dal momento dell’enunciazione. Gli enunciati tensionali del genere «sono le ore 8:00» assumono, al contrario, un valore di verità in rapporto al momento in cui

vengono pronunciati, in quanto subito prima o subito dopo sono falsi (proprio questa, per inciso, è la «certezza sensibile» di cui Hegel ha mostrato l’autodissoluzione nel capitolo iniziale «Coscienza» della

Fenomenologia spirito).

dello

La serie A è dinamica, perché l’istante si sposta costantemente, è un moving now, mentre la serie B è statica, permanente, priva di sviluppo. Nella prima un evento è situato in

un particolare momento del tempo che viene incessantemente oltrepassato (ad esempio, l’uccisione di Cesare ha luogo in una certa ora delle Idi di marzo del 44 a.C., a cui seguono innumerevoli altri minuti, ore, giorni,

anni e secoli); nella seconda, la battaglia di Filippi avviene dopo la morte di Cesare e la proposizione che lo asserisce vale sempre. La serie A è considerata da McTaggart incoerente, in quanto un evento passato non

può essere presente o futuro, un evento presente non può essere passato o futuro e un evento futuro non può essere passato o presente. Eppure, ogni dimensione del tempo contiene le altre due (l’evento passato sarà

presente e futuro; quello futuro sarà stato presente e passato; e quello presente sarà futuro e passato). Si potrebbe obiettare che l’incoerenza può esserle attribuita solo nel caso in cui si presupponga che lo stesso evento

contenga simultaneamente tutte e tre le dimensioni del tempo. Ma questa confutazione vale solo se presuppone un’altra serie A, il che è contraddittorio e conduce a un circolo vizioso. Dalla

sovrapposizione della serie B alla serie A sorge una serie C, che non è temporale, in quanto possiede un ordine ma non una direzione, nel senso che un determinato evento si pone tra altri eventi, ma non prima o dopo di

essi. In questo senso, conclude McTaggart (ma la sua ipotesi non è del tutto persuasiva), nel suo trascorrere il tempo è irreale. Per dimostrarne l’irrealtà, basterà provare che questa serie è intrinsecamente

contraddittoria e non può esistere. Inizia così il secondo momento della sua riflessione, in cui è contenuto il noto paradosso. Il filosofo osserva che i termini della serie A si presentano come caratteristiche di eventi

tra loro incompatibili, ossia, come si è già detto, un evento passato non può essere presente o futuro; un evento presente non può essere passato o futuro; un evento futuro non può essere passato o presente.

Ora, il punto è che in Hegel non esiste un’idea dell’irrealtà del tempo nel senso di McTaggart, autore, fra l’altro, di un ancora valido commento alla Scienza della logica[71]. Nella sua concezione «speculativa», Hegel

considera il tempo come ciò che non si annulla, ma coesiste contraddittoriamente con l’eternità, perché, partendo dall’immediata contraddizione del tempo stesso in quanto «l’essere che, mentre è,

non è, e mentre non è, è», passa da questo «divenire intuìto»[72] (un divenire, come già sappiamo, che non coincide con il movimento) al divenire speculativamente pensato come proprio dell’eternità.

Ma perché sia possibile tendere all’eternità che coesiste con la storia bisogna dominare il proprio tempo dall’interno, conoscerne la genesi e non dimenticarla. Rompere l’alleanza con lo spirito del tempo nel

suo momento stagnazione

di e

rinnovarla nel momento di avanzata. All’oblio delle origini di tutte le filosofie del passato, la filosofia del presente deve contrapporre l’Erinnerung, il ricordo interiorizzante,

l’appropriazione e l’universalizzazione del passato nel presente. La verità, aletheia, diventa un’altra volta uscire dal Lete dell’oblio[73], memoria, e la musa della storia, Mnemosyne, presiede, nel «sapere assoluto» al

passaggio Fenomenologia

dalla al

sistema. Un parallelo implicito con Cartesio chiarisce la posizione hegeliana. Il cogito si presenta in Cartesio come certezza immediata di essere ogni realtà, ma è una

certezza astratta che ha dimenticato e cancellato le orme del suo precedente cammino. La coscienza «che è tale verità ha lasciato dietro le spalle e obliato quel cammino quando essa sorge immediatamente come ragione; ossia:

questa ragione nel suo immediato affacciarsi si presenta soltanto come certezza di quella verità. Essa meramente asserisce di essere ogni realtà, ma non riconduce al concetto la sua asserzione; infatti quell’obliato cammino è

la giustificazione concettuale di questa affermazione espressa in modo immediato»[74]. Cartesio, «come più tardi anche Fichte, prende le mosse dall’io come da quel che è senz’altro certo: io so che in me si affaccia

qualche cosa. Con ciò la filosofia è d’un tratto trasferita su un terreno e in un punto di vista affatto nuovi, nella sfera, cioè, della soggettività»[75]. Ma è una soggettività che ignora la sua genesi storica, per quanto in

Fichte ci sia già l’oscuro presentimento di una «storia prammatica» dello spirito umano. La coincidenza di certezza e verità è così presentata – sotto forma di cogito o di primo principio – come punto di partenza, non come

risultato di un itinerario, di un viaggio, Erfahrung[76], della coscienza, e il sapere si fonda unicamente su se stesso. Lo straordinario statuto della Fenomenologia hegeliana è invece quello di essere contemporaneamente

movimento della

inconscio coscienza,

teleologia spontanea, oblio delle origini dopo ogni passaggio, accompagnati, nel für uns, dalla consapevolezza del fine storicamente già raggiunto, di essere

quindi talpa e civetta insieme all’interno della stessa filosofia[77]. Da una parte, la ‘mano invisibile’ dell’istinto guida la coscienza a fare esperienza da sé delle contraddizioni, dall’altra, la coscienza vigile, che conosce la

strada in precedenza percorsa dallo spirito, sta a guardare; la riflessione si intreccia alla speculazione. Si danno in tal modo due piani fenomenologici, quello della spontaneità (o della buona riflessione) e quello

della speculazione, e il ricordo è la loro saldatura nel processo oggettivo per cui la scienza si innalza a se stessa. Un automatismo simile, una teleologia del contenuto, Hegel la ritrova nel calcolo matematico, nell’analisi

infinitesimale, memore forse del detto di d’Alembert «Allez en avant, la foi vous viendra», e sicuramente delle osservazioni di Laplace, sulla ‘buona riflessione’ che si lascia andare all’oggetto: «La cattiva riflessione è la

paura di sprofondarsi nella cosa, riflessione che scavalca sempre la cosa e torna in sé. L’analista, come dice Laplace, si abbandona al calcolo e gli sfugge il compito, e cioè la visione d’assieme e la dipendenza dei singoli

momenti del calcolo dal tutto. Non solo la considerazione della dipendenza del singolo dal tutto è l’essenziale, ma anche che ogni momento stesso, indipendentemente dal tutto, è il tutto, e questo è lo sprofondarsi nella

cosa»[78]. La buona riflessione si identifica quindi con la spontaneità del pensiero quando segue la cosa, che è «spesso migliore della coscienza» su di essa[79], cioè della «cattiva riflessione». Per questo –

afferma Hegel – quando si intraprende lo studio di una scienza è «necessario non lasciarsi frastornare dai princìpi», ma andare avanti, in un primo momento, secondo il fluire del ragionamento, senza voler capire e

dimostrare subito ogni singolo passaggio: «All’inizio la coscienza è torbida […] si va avanti a leggere tra la veglia e il sonno […] Così io ho studiato il calcolo differenziale e altro. Così ho sentito di altri, che studiarono la Critica

della ragion pura di Kant»[80]. Ma a questo automatismo della coscienza in trance, a rimorchio della cosa stessa, si intreccia nella Fenomenologia lo «sguardo d’assieme» del für uns – assente nel calcolo –, che tocca il

culmine assoluto,

nel

sapere nella

congiunzione di certezza e verità. Qui finalmente questo scavare inconscio dello spirito cessa e si raggiunge il sole del concetto, dove il movimento cosciente

del für uns procede di pari passo con «la cosa stessa», il pros emas con l’auto to pragma. Avendo giustificato la sua apparenza di mondo alla rovescia ed essendo diventata trasparente a se stessa nel suo cammino, la scienza

può ora iniziare la sua marcia apparentemente autonoma, e la filosofia, superata la soglia di soggettività avulsa dal mondo, dirigersi verso quella «mèta raggiunta la quale sia in grado di deporre il nome di amore del sapere per

essere vero sapere»[81]. Fin

dalla

pubblicazione della Fenomenologia il «sapere assoluto» è sembrato presunzione o punto debole della filosofia hegeliana. Da un lato, lo si è interpretato come pretesa di aver capito

tutto o attingimento

come di una

saggezza conclusiva, dall’altro, come deludente ricaduta anamnestica dopo il torrente impetuoso delle figure precedenti. Ma sapere assoluto è sapere non più

inconsciamente condizionato dall’epoca, slegato quindi dai presupposti che lo vincolavano, è un sapere povero, addirittura vuoto, ma capace di produrre un nuovo inizio. Non è quindi sapienza

onnisciente, capace di dare un senso a tutto, o scienza senza limiti. Il suo vuoto è, per così dire, la camera di compensazione per abituare la coscienza al puro «etere»[82] del sapere sistematico, del mondo nuovo in

potenza che ora appare come una «ghianda». Il sapere, insomma, è qui «assoluto» perché può ora cominciare, come in Cartesio o in Fichte, a costruire da sé, ma avendo alle spalle il ricordo della strada percorsa: «Consistendo

la sua perfezione nel sapere perfettamente ciò ch’esso è, ossia la sua sostanza, questo sapere è il suo insearsi, nel quale lo spirito abbandona il suo esserci e ne consegna la figura alla memoria. Nel suo insearsi lo spirito è

calato nella notte dell’autocoscienza; ma ivi è conservato il suo dileguato esserci; e questo tolto esserci, – quello di prima, ma rinato or ora dal sapere, – è il nuovo esserci, un mondo nuovo e una nuova figura spirituale.

In essa e con la sua immediatezza, lo spirito ha da ricominciare da principio, in modo altrettanto fresco, e da farsi grande partendo da essa, come se tutto ciò che precede fosse per lui perduto, ed esso non avesse imparato nulla

dall’esperienza degli spiriti antecedenti. Ma la memoria li ha conservati ed è l’interno e la forma, in effetto più elevata, della sostanza. Se dunque questo spirito ricomincia da principio la sua cultura sembrando prender le

mosse soltanto da sé, tuttavia esso comincia in pari tempo da un grado più alto»[83]. L’Erinnerung del sapere assoluto non è dunque, come sostiene Bloch, rinuncia all’aspetto progressivo della dialettica a favore di

una ruminazione del passato, di un conoscere platonicamente uguale al ricordare, di una «malia dell’anamnesi»[84], non è ricordo come mera catalogazione di dati, una sorta di contenitore o ripostiglio in cui si

raccolgono frammenti del passato, ma è piuttosto

vicino

alla

platonica ἀνάµνεσις, al rimando reciproco di ricordi che, nella loro somiglianza, rinviano al futuro in quanto proiezione dell’indagine intrapresa (sarei tentato

di tradurre proustianamente questo termine con recherche): «Se uno, veduta una cosa o uditala o avutane comunque un’altra sensazione, non solamente venga a conoscere quella cosa, ma anche gliene venga

in mente un’altra – un’altra di cui la cognizione non è la medesima, ma diversa», allora, al pari degli «innamorati che, vedendo la lira, rivedono la figura dell’amato», egli sta compiendo una ricerca,

creando un tessuto connettivo di pensieri, sentimenti e immagini, articolando e arricchendo la propria esperienza»[85]. L’anamnesis è quindi, anche per Hegel, conservazione dell’«esistenza

precedente» nell’interiorizzazione del ricordo (Er-innerung) sottratto al suo essere sprofondato nella «notte» della coscienza che lo conserva. È raccoglimento prima del balzo; è, come Hegel dice in un testo coevo al

capitolo sul «sapere assoluto», ossia la Prefazione della Fenomenologia[86], una ricapitolazione delle figure depotenziate dello spirito prima di affrontare un’ulteriore avanzata: «L’individuo percorre questo suo

passato, la cui sostanza è quello spirito che sta più in su, proprio come colui che è sul punto di avventurarsi in una scienza superiore, percorre le cognizioni preparatorie, già in lui da lungo tempo implicite, per rendersi

presente il loro contenuto; e le rievoca senza che quivi indugi il suo interesse»[87]. In genere questo aspetto resta nascosto per due motivi: a) perché non si vede la Fenomenologia come parte di un insieme sistematico –

quale Hegel progettava –, e

lo si

considera il suo finale davvero un finale «assoluto», invece che un inizio «in pari tempo da un grado più alto»; b) perché l’apparente punto morto dell’Erinnerung viene

interpretato come un ripiegamento in se stessi e non, contemporaneamente, come il punto di inversione – l’apparente velocità zero al culmine della traiettoria, analoga all’exaiphnes platonico, al momento improvviso,

inclassificabile (atopos) ed extraterritoriale al tempo[88] – che precede e accompagna ogni rivoluzione dello spirito. Perciò anche Fries, in una lettera a Jacobi del 20 dicembre 1807, aveva inteso il sapere assoluto come semplice ristagno:

per Hegel, dice, «non ha valore alcuna verità stabile, bensì solo la verità nel suo fluire […] Ma in quanto Hegel, al culmine di tutte queste panoramiche del mondo, pone di nuovo il sapere assoluto, che deve essere qualcosa di

più che non gli altri modi del conoscere, contraddice se stesso. Infatti, la verità vera non è più il fluire, ma soltanto il Mar Morto dell’assoluto, in cui si riversa e alla cui spiaggia finalmente giungiamo»[89]. Hegel

stesso però aveva offerto la giusta chiave di lettura della sua opera, come sapere in divenire e prima parte di un sistema, nell’autopresentazione (Selbstanzeige) della Fenomenologia apparsa sulla «Allgemeine

Literaturzeitung» di Jena del 28 ottobre 1807: «Questo volume espone il sapere in divenire. La fenomenologia dello spirito deve prendere il posto delle spiegazioni psicologiche o delle più astratte discussioni sul fondamento del sapere.

Essa considera la preparazione alla scienza da un punto di vista per cui essa stessa è una nuova, interessante scienza prima della filosofia. Essa abbraccia le diverse figure dello spirito come stazioni della strada in

sé, attraverso le quali esso diviene sapere puro o spirito assoluto […] La ricchezza dei fenomeni dello spirito, che si presenta a un primo sguardo come caos, è portata a un ordine scientifico […] Un secondo volume

conterrà il sistema della logica, come filosofia speculativa, e le due rimanenti parti della filosofia, le scienze della natura e dello spirito». Ma, si sa, con la «catastrofe jenese», Hegel fu ridotto dalla guerra alla miseria, ebbe

la casa saccheggiata dai soldati francesi, dovette abbandonare il suo posto all’università e ricominciare da capo una nuova vita, a trentasette anni e in una situazione precaria: dapprima come giornalista a Bamberga,

quotidianamente a caccia di notizie e in lotta con la censura, poi, come rettore del ginnasio di Norimberga, carico di lavoro e con preoccupazioni finanziarie. Il progetto di un secondo volume fu costretto ad aspettare

e, nel frattempo, a modificarsi, anche sulla base di circostanze esteriori. Così, quando nel 1812 apparve infine il primo tomo della Scienza della logica, Hegel poté scrivere a Niethammer: «Non è poco scrivere, nel primo

semestre del proprio matrimonio, un libro di trenta fogli del più astruso contenuto. Ma iniuria temporum!, io non sono un accademico; per dargli forma conveniente avrei dovuto impiegare ancora un anno, mentre

ho bisogno di denaro per vivere»[90]. Tuttavia, malgrado ogni mutamento di prospettiva, mai la Fenomenologia fu considerata un’opera a sé, conchiusa. Soprattutto dalle sue pagine finali è però

derivata la tesi di Kojève secondo cui il sapere assoluto coincide con la «Saggezza», la capacità di dare un senso al Tutto una volta giunti alla «fine della storia»[91]. L’idea di «Saggezza» è, infatti, esplicitamente

connessa alla nozione hegeliana di «Sapere assoluto (= Saggezza o Verità discorsive)», che «risulta dalla ‘comprensione’ o dalla ‘spiegazione’ della storia integrale (o integrata entro e mediante questo stesso Sapere) per

mezzo di un ‘discorso coerente’ (Logos)»[92]. Nel Sapere assoluto la storia coincide secondo Kojève con l’eternità (ossia, per lui, con la totalità del tempo umano). Finché non si è giunti a questo stadio, il filosofo non è ancora un

saggio. Può, dunque – e deve – partecipare alla politica, influire sulla prassi.

7. Assimilare la tradizione vivente Bisogna che l’eredità

della filosofia classica tedesca sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare vita operante. Gramsci,

Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce[93].

«L’animale compie presto la sua educazione: ma non si deve considerare ciò come un benefizio della

natura per l’animale. Il suo crescere è solo un rinforzarsi qualitativamente»[94]. L’uomo invece, rispetto all’animale, ha un’infanzia più lunga e un’educazione più prolungata, ma in compenso in quest’arco

di tempo si impadronisce di tutta l’esperienza storica accumulata dal genere. «Nelle altre classi di animali – dice Ferguson – l’individuo avanza dall’infanzia alla maturità e, nel giro di una singola vita,

acquista tutta la perfezione che la sua natura è in grado di conseguire; ma, per quello che concerne gli uomini, c’è progresso sia nella specie, sia nell’individuo. Essi costruiscono in ogni età successiva, su

fondamenta che sono state poste nell’età precedente e, nella successione degli anni, tendono a un grado di perfezione, nell’esercizio delle loro facoltà, che è il risultato di una lunga esperienza o dello sforzo congiunto

di più generazioni»[95]. Anche Hegel delinea così l’educazione dell’individuo rispetto al genere umano, con l’aggiunta significativa che il singolo, nel rifare la strada del genere, trova il cammino spianato: «Il singolo

deve ripercorrere i gradi di formazione dello spirito universale, anche secondo il contenuto, ma come figure dello spirito già deposte, come gradi di una via già tracciata e spianata. Similmente noi, osservando come

nel campo conoscitivo ciò che in precedenti età teneva all’erta lo spirito degli adulti è ora abbassato a cognizioni, esercitazioni e fin giochi da ragazzi, riconosceremmo quasi in silhouette [im Schattenrisse], nel

progresso pedagogico, la storia della civiltà»[96]. Le grandi scoperte scientifiche, che avevano posto a testa in giù la coscienza comune dei contemporanei, vengono nell’educazione riportate a cognizioni da

ragazzi, entrano a far parte di una costruzione logico-didattica che ha un ordine diverso da quello cronologico, articolandosi in un insieme coerente di passaggi, non previsti, di volta in volta, dai singoli scienziati o

pensatori, guidati nello sviluppo della verità solo dall’istinto della ragione. Ora, invece, in qualsiasi manuale di geometria, di fisica, di botanica, in parte di storia della filosofia, quelle scoperte che hanno «tenuto all’erta»

le menti degli uomini più svegli, meno dormiglioni, «berretti da notte», sono lì, allineate e articolate in concatenazioni sistematiche. Oppure: l’azione collettiva di tutte le generazioni – e non solo degli individui

che hanno segnato la storia universale, i cosiddetti «individui cosmico-storici», che la organizzano – si cristallizza negli istituti giuridico-politici dello «spirito oggettivo» o si fa avanti nel divenire della storia. Ogni

individuo assimilando

vive questo

prodotto di generazioni, di tutti e di ciascuno, senza dover partire ogni volta da zero. Certo, lo spirito oggettivo, questo prodotto collettivo spesso domina i

produttori, tragga la

sebbene propria

esistenza solo dal loro lavoro e dal loro consenso implicito. Così, ad esempio, le forme della famiglia, della società civile, dello Stato, la lingua, il costume e la cultura si

generano sviluppano

e

si per

oggettivazione o alienazione (Entäusserung, nel senso etimologico di «estrinsecazione», ossia il contrario della interiorizzazione, dell’Erinnerung, che è la

revoca dell’Entäusserung) [97]; ma poi avvolgono l’individuo fin dalla nascita nella loro atmosfera impalpabile, ne organizzano la vita secondo binari relativamente rigidi, penetrano nei suoi più intimi recessi, lo pre-

condizionano. Hegel

aspira

alla

libertà degli individui all’interno della società, ma – per fare in modo che essi non ne vengano assorbiti, che non siano annullati nello «spirito oggettivo», nelle istituzioni e nella storia,

per non consegnarli quindi all’alienazione – deve concepire la società, lo Stato e la storia come prodotti del loro agire, in parte inconscio e sottoposto all’eterogenesi dei fini[98]. Nell’eticità (Sittlichkeit) hegeliana il

singolo è libero e trova un senso al suo agire quando i rapporti sociali in cui è inserito gli appaiono razionalmente giustificabili, seppure all’interno degli inevitabili conflitti e dei valori storicamente vigenti nella comunità

di cui fa parte. Questo stadio, per Hegel, è stato raggiunto solo in età moderna, per effetto della scoperta delle armi da fuoco, che tolgono valore all’eroismo individuale, e, soprattutto, della Riforma, che ha abolito

la «positività» della vita religiosa tra i popoli germanici (che includono non solo i tedeschi, ma gli scandinavi, i britannici, gli svizzeri e gli olandesi, con l’ovvia anomalia degli austriaci) [99].

Finché questo processo inconscio di assorbimento dello spirito oggettivo è soltanto subìto dal singolo, questi è costretto ad accettare passivamente o con un senso di inspiegabile malessere quelle

istituzioni oscuramente

che avverte

come inadeguate. Ma quando prende coscienza dello spirito oggettivo, quando procede alla revoca della alienazione – che, malgrado tutto, Hegel ha distinto

dall’oggettivazione e dall’estraneazione[100] –, alla assimilazione di tutto ciò che dapprima gli appare come «sua natura inorganica», allora può veramente farla sua, interiorizzarla, trasformarla in cibo adeguato e modificarla.

La dialettica Entäusserung-Erinnerung ha soprattutto questo significato. Al pari della comunione luterana, anche qui le istituzioni, lo «spirito oggettivo», non hanno alcun valore senza la fruizione del singolo, senza il

ritornare soggetto,

in

sé,

nel

dall’alienazione. Per questo il soggetto è vuoto qualora non si riversi continuamente nella Wirklichkeit e la Wirklichkeit si degrada a «positività» qualora non venga ravvivata dal

consenso dei soggetti. Se non si è capaci di togliere alle istituzioni l’apparenza di esteriorità o di estraneità rispetto ai singoli, esse non vivono a lungo ed è giusto che vengano rovesciate. Anche la cultura, del

resto, senza veramente

essere fruita,

diventa una «collezione di mummie»[101]. Per questo il consenso è necessario alle istituzioni, e lo spirito è, inoltre, da intendersi sostanzialmente come epistrophe, ritorno

dall’alienazione, presa di possesso di quanto è stato prodotto dagli uomini in modi relativamente inconsci, Itaca spirituale in cui ciascuno incontra finalmente se stesso per come è divenuto grazie alle istituzioni e alla

civiltà in cui si è trovato a vivere e che ha contribuito, seppur in misura minima, a modificare. Vi è qui implicito il riconoscimento che è esplicito nella Filosofia della storia: nei suoi progetti e nelle sue

azioni, l’uomo è mosso soprattutto dalla passione, che è «qualcosa di animalesco»[102], da opachi interessi i cui portatori perseguono istintivamente i loro scopi, senza ben conoscerli. Eppure,

malgrado il fatto che il prodotto collettivo delle azioni di tutti e di ciascuno non sia immediatamente riconosciuto dal singolo anche come opera propria, esso si origina dal complicarsi delle intenzioni e dei

comportamenti (consapevoli o,

più

spesso, inconsapevoli) degli individui. Ogni nostro atto entra nel circolo della società e della storia come quantità evanescente che incide però sul tutto e che, una volta

raggiunto cumulativamente

un

certo grado, si trasforma in un rapporto nuovo, in grado di creare e di distruggere determinate situazioni proporzionalmente alla sua forza d’urto: «Talora vediamo il più vasto

corpo di un interesse generale procedere con maggior difficoltà e disgregarsi, lasciato in preda a un infinito complesso di piccoli rapporti; talora vediamo nascere il piccolo da un enorme spiegamento di forze, e l’enorme da ciò

che appariva insignificante»[103]. Ma il nostro contributo non sempre si distingue perché le passioni e i progetti si elidono a vicenda e la razionalità nasce proprio da questa elisione, dall’utilizzare le passioni contro le

passioni, l’animalità contro l’animalità o gli elementi contro gli elementi, come accade quando si costruisce una casa: «tutti gli elementi debbono aiutarlo [l’uomo] nell’impresa. Eppure la casa è lì per proteggere

gli uomini contro gli elementi […] In modo analogo si soddisfano le passioni: esse attuano se stesse e i loro fini secondo la loro finalità naturale, e fanno sorgere l’edificio della società umana, in cui hanno conferito al

diritto e all’ordine il potere contro loro medesime»[104]. Ma le passioni non sono che un ingrediente, l’«ingrediente attivo», è vero; ma l’altro ingrediente è «il momento razionale»[105], quello in

cui lo spirito ritorna in sé dall’alienazione e dall’animalesco e procede al riconoscimento del già fatto e alla preparazione del da farsi, in una continua oscillazione che è però una crescita esponenziale della

realtà, un arricchimento continuo attraverso la reciproca conversione dei due ingredienti. Nessuno dei due, del resto, può esistere separatamente, perché la ragione costruisce con l’«animalesco» e questo, a sua volta,

contiene già la ragione come sua causa finale, anche se la causa efficiente delle passioni è l’interesse. È bensì vero, sotto questo aspetto, che la storia umana è per Hegel un processo di alienazione cominciato

da sempre, un «processo senza soggetto», oggettivamente impersonale[106]. Ma con l’aggiunta che, secondo Hegel, al di sopra della storia c’è lo «spirito assoluto», il ritornare in sé dall’alienazione dello spirito nello spirito

oggettivo e nella storia, la mediazione del singolo con l’universale, ossia, in un linguaggio diverso, l’esistenza di meccanismi di riappropriazione e di comprensione del proprio agire e della propria sfera di vita in

istituzioni transstoriche: nell’arte, nella religione e nella filosofia (o scienza). In esse il soggetto, che emerge da quella che Hegel aveva chiamato nella Fenomenologia dello spirito la «sostanza», si prende la rivincita e fruisce al

livello più alto dei prodotti collettivi del genere umano, intuisce, sente o sa di appartenere a un tutto che non è soltanto processo senza soggetto, meramente oggettivo e alienato, ma anche progetto di

riappropriazione del processo oggettivo, messo, appunto, in opera dall’energia della soggettività giunta all’universale. Che poi la soluzione sia inadeguata, in quanto non coglie alla radice le cause dell’opacità

dell’agire umano o di quei conflitti di interessi talmente antagonistici che la loro composizione resta un mistero per il singolo, è qualcosa che per ora non ci riguarda, così come non ci tocca ancora direttamente

l’ipotesi che lo spazio dell’alienazione, la dialettica di un estrinsecarsi inconscio e di un recupero cosciente, corrisponda a una prassi storica o di classe reale. Prima di rispondere a questi problemi,

bisognerà ancora una volta spiegare la realtà dell’apparenza, domandarci perché Hegel si rappresenti il proprio tempo come una gigantomachia spirituale (ammettendo che questa sia l’immagine che ne ha),

ricordando quanto Marx sostiene nel Capitale, allorché spiega perché all’interno di una determinata società i rapporti fra uomini si presentino fenomenicamente come rapporti fra cose, o perché il «capitalista

pratico» concepisca, senza alcuna malafede, lo scambio salariolavoro come un contratto equo, uno scambio di equivalenti e non riesca invece a scorgere in esso la dissimmetria del pluslavoro e dello

sfruttamento, lo scambio ineguale[107]. Secondo i noti e ampiamente discussi passi del Capitale, anche la merce, al pari delle categorie hegeliane, contiene il segreto del nesso realtà/apparenza: essa è «una cosa

imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici». Un tavolo, ad esempio, come valore d’uso non ha niente di incomprensibile, ma non «appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa

sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giú, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse

spontaneamente ballare»[108]. Ma

a per

capire l’essenza della merce non è sufficiente rimettere il tavolo coi piedi per terra, così come non basta camminare alla maniera di Diogene per confutare le aporie del

movimento. La realtà dell’apparenza trova la sua soluzione solo in un modello più ampio che salvi i fenomeni. In tal modo, il sistema copernicano, ad esempio, spiega meglio di quello tolemaico le «apparenze» delle

stazioni, retrogradazioni ed elongazioni dei pianeti, e rende superflua la teoria degli epicicli e dei deferenti; del pari, il Capitale spiega l’«arcano della merce» o la coscienza del «capitalista pratico» non solo con un

meccanico rovesciamento

(come,

fino a un certo punto, fece Aristarco di Samo per l’eliocentrismo), ma con un ritornare sui piedi, un legittimarsi dell’apparenza, attraverso i molteplici passaggi e le diverse

Umkehrungen del sistema complessivo. In breve, comprendere l’apparenza è sottrarla al suo isolamento inserendone le ragioni in una cornice concettuale più grande. Anche interpretare Hegel significa, in

questo quadro, rovesciarlo nella misura in cui il nostro tempo appreso in pensieri non è più il suo, comprenderlo all’interno di un orizzonte che spieghi anche le sue apparenze; ma con l’avvertenza di

non considerarlo un «cane morto», proprio perché spiegare la realtà delle sue apparenze è il modo migliore per commisurare il nostro tempo appreso in pensieri con il suo tempo e con il suo pensiero, capire cosa ci

tenga ancora legati a lui per decifrare il senso di problemi ancora aperti che ci riportano apparentemente indietro. Per questo, come segno dei nostri tempi, si può osservare come la filosofia hegeliana, dopo essere

stata a lungo vilipesa nell’ambito del pensiero anglossassone del Novecento (soprattutto dai filosofi analitici), goda negli ultimi decenni di una attenzione e di un prestigio tale che – in particolare rispetto agli

Stati Uniti – si parla ormai di una consolidata HegelRenaissance, i cui rappresentanti maggiori sono Stanley Rosen, Charles Taylor, Robert B. Brandom, Terry Pinkard e Robert B. Pippin[109], i quali piegano

comprensibilmente il pensiero hegeliano alle loro tradizioni culturali. Solo quando ci si appropria di quel passato che agisce ancora nel presente, ed è leibnizianamente gravido di futuro come una molla compressa,

solo allora si entra nel corso della tradizione viva, del «fiume impetuoso che tanto più si ingrossa quanto più si allontana dall’origine». Esso cessa così di essere un indecifrabile «geroglifico» e alimenta in maniera non

«positiva» la vita dei popoli e dei singoli: «La tradizione non è soltanto una massaia che si limita a custodire fedelmente quel che ha ricevuto e a conservarlo e a trasmetterlo immutato ai posteri […] La tradizione non è una

statua immobile, ma vive e rampolla come un fiume impetuoso che tanto più s’ingrossa quanto più s’allontana dalla sua origine. Il contenuto di essa è costituito da ciò che il mondo spirituale ha prodotto; e lo spirito

universale non riposa mai […] E ciò che in tal modo ogni generazione ha fatto nel campo della scienza, della produzione spirituale, è un’eredità, cui ha contribuito con i suoi risparmi tutto il mondo anteriore, è un

santuario, alle cui pareti gli uomini d’ogni stirpe, grati e felici, hanno appeso ciò che li ha aiutati nella vita, ciò che essi hanno attinto alle profondità della natura e dello spirito. E quest’eredità è a un tempo un ricevere e far

fruttare l’eredità. Questa plasma l’anima di ogni generazione seguente, ne forma la sostanza spirituale sotto forma d’abitudine, ne determina le massime, i pregiudizi, la ricchezza; e nello stesso tempo il patrimonio ricevuto

diventa a sua volta materiale disponibile, che viene trasformato dallo spirito. In guisa che ciò che si è ricevuto viene mutato, e la materia elaborata grazie appunto all’elaborazione s’arricchisce e al tempo

stesso si conserva. Questa è precisamente la posizione e la funzione dell’età nostra, come di ogni altra: impadronirsi della scienza già esistente, assimilarla, e in tal modo appunto svolgerla e portarla a grado più

elevato. Nell’appropriarcela, noi ne facciamo qualche cosa di nostro in confronto a ciò ch’essa era precedentemente»[110]. La tradizione diventa forza viva, continuità creatrice dell’esperienza

del genere, quanto più è compenetrata e rinnovata dai singoli, quanto più essi sanno modificarla dall’interno, essere non migliori del proprio tempo, ma «il proprio tempo nel modo migliore»[111]. Nel mobilitare tutto il

passato comprendere

per il

presente, nell’intendere il presente non come epoca statica, ma come fronte che avanza in una compatta «falange corazzata», Hegel ha colto una nuova dimensione della storia

moderna. L’area dei soggetti attivi aumenta nel mondo in proporzione all’estendersi della «libertà di tutti»: la storia ha finito di essere gestita nell’interesse esclusivo dei Grandi della Terra per divenire,

in un processo sempre in corso, opera collettiva; lo scavare della talpa è ora più che mai risultato dell’agire di tutti. E persino i cosiddetti «individui cosmico-storici» non sono per Hegel eroi alla Carlyle, ma funzionari

della storia, interpreti e realizzatori di bisogni collettivi, che restano in sella allo «spirito del mondo» solo finché sono in grado di trottare o galoppare al suo passo, finché rivelano agli altri la direzione dei loro interessi

oscuramente percepiti: «Essi attingono il loro fine e la loro missione non dal sistema tranquillo e ordinato, dal consacrato corso delle cose. La loro giustificazione non è nello stato di cose esistente; è un’altra

sorgente quella a cui attingono. È lo spirito nascosto, che batte alle porte del presente, che è tuttora sotterraneo, che non è ancora progredito a esistenza attuale ma che vuole prorompervi; lo spirito per cui il mondo presente non è

che un guscio, il quale contiene in sé un nocciolo diverso da quello che converrebbe al guscio […] Essi conoscono bensì e vogliono la loro opera, perché è giunto il suo tempo. Essa è ciò che già esiste nell’intimo.

Loro compito era conoscere questo universale, cioè il grado necessario e supremo del loro mondo, proporselo come fine e mettere in esso la loro energia. Essi hanno attinto a se medesimi l’universale che hanno

recato in atto […] In quanto l’attingono dall’intimo, da una fonte che prima non sussisteva ancora, sembra che essi lo traggano soltanto da loro stessi; e le nuove situazioni mondiali, le gesta che essi

realizzano come loro

appaiono creazioni,

loro interesse e loro opera. Ma essi hanno il diritto dalla loro, perché sono i veggenti; essi sanno quale sia la verità del loro mondo e del loro tempo, quale sia il concetto, l’universale

prossimo a sorgere; e gli altri, come si è detto, si riuniscono intorno alla loro bandiera, perché essi esprimono ciò di cui è giunta l’ora […] Lo stato del mondo non è ancora conosciuto; il fine è di produrlo. Questo è lo scopo degli

uomini cosmico-storici, ed essi vi trovano la loro soddisfazione»[112]. Sotto la veste di creazione «popolare», sulla scia di Herder, Hegel ha preso coscienza del potere del collettivo nella «società moderna»: i veri

protagonisti della storia non sono i singoli, ma i popoli. Gli individui eminenti, i «geni», sono soltanto le espressioni più alte del popolo o del tempo, sue variabili dipendenti, ma nello stesso tempo suoi incrementi, fini della

tradizione vivente che in essi giunge a compimento. Così è nella politica e nelle altre attività umane; così è nell’arte: «L’opera d’arte della mitologia ha le sue radici nella tradizione vivente. Come le stirpi crescono

nella progressiva liberazione della loro coscienza, così anch’essa cresce, si purifica e diventa matura. Tale opera d’arte è tanto un bene universale che un’opera di tutti. Ogni generazione la

tramanda alla seguente abbellita oppure continua a lavorare per la liberazione della coscienza assoluta. Coloro che si chiamano geni hanno acquistato una qualche particolare abilità con cui trasformano in opera

propria le forme del popolo, come altri trasformano altro. Ciò che essi producono non è una loro invenzione, ma l’invenzione di un intero popolo, ossia il ritrovamento di ciò che un popolo ha trovato nella propria essenza.

Quel che appartiene all’artista in quanto singolo è la sua attività formale, la sua particolare abilità in tale tipo di rappresentazione e a questa stessa egli è stato educato dalla abilità universale. Egli è simile a colui che si

trova fra dei muratori che costruiscono un arco di pietra, la cui armatura è presente in modo invisibile come idea. Ognuno aggiunge la sua pietra. Lo stesso vale per l’artista. Gli capita casualmente di essere l’ultimo; in

quanto pone la pietra, l’arco sostiene se stesso. Vedendo che, poiché ha posto questa pietra, l’intero è diventato un arco, lo dice ed è ritenuto l’inventore dell’arco. Lo stesso succede fra gli operai che scavano alla ricerca

di una sorgente: colui a cui tocca il compito di portar via l’ultimo strato di terra ha lavorato come gli altri, ma chi fa sgorgare l’acqua è lui»[113]. Allo stesso modo, anche la filosofia non deve essere ricerca di originalità a ogni

costo, «idiosincrasia di alcune teste trascendentali», ma «patrimonio comune» (Gemeingut): il suo compito è di rendere «evidente, comunicabile» e accresciuto questo lascito collettivo, di elaborarlo

scientificamente; infatti solo una «filosofia formata scientificamente già nel suo stesso ambito rende giustizia al pensare determinato e alle conoscenze fondate, e il suo contenuto, l’universale delle

relazioni spirituali e naturali, conduce di per sé immediatamente alle scienze positive, le quali mostrano a essa in forma concreta ulteriori compimenti e sviluppi, tanto che, inversamente, il loro studio si dimostra

necessario per una profonda comprensione della stessa»[114].

filosofia

Da ciò deriva l’intima storicità di tutte le manifestazioni dello spirito, sebbene, per la forma, si pongano al di sopra dell’immediata

storia del presente. Esse rivelano quanto si viene producendo da parte del genere umano in intuizioni, rappresentazioni e pensieri. Arte, religione e filosofia sono quindi il linguaggio più pieno di comunicazione

dell’intero: prendiamo

in esse coscienza

del Tutto, che si muove altrimenti inavvertito, lontano o al di fuori del nostro sguardo. Anche nella pittura, ad esempio, ricreiamo soggettivamente, «nell’elemento sensibile

del colore e della luce», quel mondo storico che ci circonda e di cui generalmente non ci accorgiamo. Lo strappiamo all’immediatezza del noto e del già visto e lo riscopriamo all’interno del più vasto processo di

produzione spirituale, riconoscendo in esso, anche come fruitori, la nostra partecipazione. Nella pittura olandese si manifesta così, ad esempio, la nuova attenzione che lo spirito moderno dedica alla vita terrena, quotidiana,

e ai suoi bisogni, dopo aver raffigurato per secoli angeli, santi e Madonne: «In tal modo per es. la pittura olandese ha saputo trasmutare in mille e mille effetti le esterne, fuggevoli parvenze della natura in quanto

ricreate dall’uomo. Velluto, splendore di metalli, luce, cavalli, servi, vecchie, contadini che soffiano il fumo dalla pipa, il brillare del vino in bicchieri trasparenti, gente in giacche bisunte che giuoca con vecchie

carte, questi e cento altri soggetti di cui nella vita quotidiana appena ci curiamo – giacché anche noi quando giochiamo a carte, beviamo e chiacchieriamo di questo o di quello, siamo pieni di tutt’altri

interessi – ci sono posti dinanzi in questi quadri»[115]. Parimenti, al livello religioso, anche nel culto egizio degli animali si manifesta il momento storico in cui la soggettività umana viene per la prima volta

colta e rappresentata, ma sotto forma inconscia e naturale: «Se Dio non è conosciuto come spirito, ma come la potenza in genere, questa potenza è azione inconscia, qualche cosa di genericamente vivente:

tale potenza inconscia si esprime poi in una fıgurazione, dapprima nella forma animale. L’animale stesso è inconscio, conduce una vita rinchiusa in sé, oscura e ottusa di fronte al libero arbitrio dell’uomo, cosicché può

sembrare che abbia in sé questa potenza inconscia che agisce nel tutto. In modo specialmente strano e caratteristico ci si presenta la figurazione per cui sacerdoti e scribi appaiono spesso nelle rappresentazioni

plastiche e nelle pitture con maschere animali; altrettanto facevano gli imbalsamatori per le mummie. Quel raddoppiamento con una maschera esteriore, che nasconde sotto di sé un’altra forma, dà a vedere che la coscienza

non è soltanto sprofondata nell’ottusa vitalità animale, bensì si sa anche separata da essa e in ciò si riconosce un ulteriore significato»[116]. Nel culto degli animali gli egizi prendono coscienza del loro

ambiente geografico, dell’«infinito brulicare della vita animale» lungo il Nilo[117] e si innalzano al di sopra dei culti solari o astrali, iniziando la scoperta dell’interiorità dal suo gradino più basso: «gli Egizi hanno intuito nel

mondo animale l’intimo e l’incomprensibile. Anche noi, contemplando la vita e il comportamento degli animali, ammiriamo sorpresi i loro istinti, la loro attività indirizzata a un fine, la loro irrequietezza, mobilità e

vivacità: essi sono infatti estremamente agili e abili per il raggiungimento dei loro scopi vitali, e nello stesso tempo muti e chiusi. Non si sa cosa sia celato in questi esseri, e non si può aver fiducia in loro. In un

gatto nero, dagli occhi ardenti, ora strisciante ora balzante, si sentiva la presenza di un essere cattivo, una specie di spettro incompreso e chiuso in sé»[118]. La sfinge, metà figura umana, metà animale, è l’enigma degli egiziani,

il loro intendere l’uomo ancora come un ibrido, legato all’inconscia natura ferina. La sfinge viene uccisa da un greco, che rivela il suo enigma nell’uomo: «Una sfinge, l’immagine egiziana dell’enigma stesso, comparve in

Tebe, e propose un enigma così concepito: “Che cosa è ciò che la mattina cammina su quattro piedi, a mezzodì su due, e alla sera su tre?”. Il greco Edipo risolse l’enigma, e precipitò la sfinge dalla rupe, dicendo che era

l’uomo. Questo è giusto: l’enigma degli Egizi è lo spirito, l’uomo, la consapevolezza della sua essenza peculiare. Ma questa antica soluzione di Edipo, che si manifesta in ciò come colui che sa, si accoppia in lui alla più enorme

ignoranza circa se stesso e circa ciò che fa. Il sorgere della chiarità spirituale nella vecchia reggia è ancora legata agli orrori nascenti dall’ignoranza. È il vecchio dominio patriarcale, cui il sapere è qualcosa di

eterogeneo, e che ne è perciò dissolto. Questo sapere viene purificato solo da leggi politiche; nella sua immediatezza esso è pernicioso»[119]. Edipo ha quindi indovinato l’uomo dietro la sfinge, ma si tratta di un uomo

ancora immerso nell’ignoranza, nell’inconscio della sostanza. Per risolvere più a fondo l’enigma bisogna trasformarlo in mistero, indovinare Dio dietro l’uomo, attendere la notte del Getsemani «in cui la sostanza fu

tradita e si rese soggetto». Per concepire l’uomo come spirito, come attività, «Dio presente»[120], essere che attraverso il «dolore infinito» ha soggiogato la sua animalità e la natura, si deve trovare una soluzione più alta di

quella dei greci, che hanno sviluppato il pensiero fino a giungere all’idea, ma non lo hanno colto come spirito[121]: «Cristo, rappresentato uomo, è un enigma completamente diverso da quello egizio. Questo

è il corpo animale dal quale scaturisce un viso umano – ma là è un corpo umano dal quale scaturisce il Dio»[122].

8. Lo spirito come revoca dell’alienazione

Il fanciullo lancia delle pietre nel fiume ed ammira i cerchi che si disegnano nell’acqua come

opera in cui acquista l’intuizione di ciò che è suo. Hegel, Estetica[123].

Lo spirito si perpetua nella tradizione vivente, nella storia che si

rinnova, in cui ogni generazione consegna alla successiva il suo lascito perché lo faccia «fruttare». Così, nella prolusione di Heidelberg, del 28 ottobre 1816, Hegel espone con accenni commossi questa

trasmissione della propria esperienza filosofica: «Sennonché anche a noi l’angustia dei tempi e l’interessamento destato dai grandi eventi mondiali […] hanno impedito di poter attendere a fondo e con

serietà alla filosofia, e hanno allontanato da questa l’attenzione generale. È avvenuto pertanto che mentre le tempre meglio dotate si volgevano verso la vita pratica, in filosofia alzavano la voce e si facevano largo la

fiacchezza e la fatuità […] Richiamare la filosofia dal deserto in cui essa ha trovato rifugio: ecco il compito cui dobbiamo ritenerci chiamati dal profondo genio dell’età. Salutiamo l’alba di un’età più bella, in cui lo

spirito finora attratto verso l’esterno potrà ripiegarsi su se stesso e rientrare in sé conquistando spazio al suo proprio regno […] Noi vecchi, che diventammo uomini fra le tempeste dell’età nostra, possiamo

considerare ben felici voi che vivete in un tempo in cui potete dedicare senza preoccupazioni la vostra gioventú alla verità e alla scienza […] Prima condizione della filosofia è possedere il coraggio della verità, la

fede nella potenza dello spirito. L’uomo che è spirito, può e deve ritenersi degno delle cose più elevate, deve avere la più completa fiducia nella grandezza e potenza del suo spirito; con questa fiducia niente vi sarà di

così refrattario e resistente da non svelare il suo intimo. L’essenza dell’universo, in un primo tempo celata e chiusa, non ha forza da resistere al coraggio che vuol conoscerla: deve schiuderglisi dinanzi

agli occhi e mostrargli e fargli godere la sua ricchezza profondità»[124].

e

Come nell’arte l’uomo intuisce il cammino dello spirito e nella religione lo rappresenta, allo stesso modo nella filosofia lo pensa, con

un massimo profondità,

di

articolazione e di fluidità rispetto alle due forme precedenti. Per lo spirito umano – diversamente dal succedersi delle ere geologiche o dal ciclo delle specie animali – le

rivoluzioni non sono finite, le stratifcazioni della coscienza vengono continuamente sconvolte dallo «spirito nascosto, che batte alle porte del presente». Proprio a causa di questo sviluppo incessante è necessaria

l’interiorizzazione, propria dell’Erinnerung, che universalizza e conserva le tappe del mutamento. Nell’uomo, in misura eminente, l’evoluzione è «involuzione», ritorno a sé; schellinghianamente Odissea dopo l’Iliade.

Ma per Hegel ciò non significa che la verità abiti nell’uomo interiore; al contrario, essa abita nel tutto di cui il singolo è parte e di cui deve prender coscienza in un continuo alienarsi e revocare l’alienazione.

Lo spirito, opera di tutti e di ciascuno[125], pervade l’intera realtà, ma è presente già nell’individuo, e questo ne rende possibile l’assimilazione: «Per esempio, considerando ciò che un libro è, nella sua essenza, io posso

astrarre dalla rilegatura, dalla carta, dai caratteri, dalle parole, dalle migliaia di lettere che esso contiene; ma il semplice contenuto generale, come essenza, non è esterno al libro. Parimenti la legge non è fuori dall’individuo, ma

costituisce il vero modo d’essere dell’individuo. Pertanto l’essenza del mio spirito risiede nel mio spirito stesso, non fuori; è il mio essere essenziale, la mia sostanza medesima, altrimenti io sarei privo di essenza. Questa

essenza rappresenta, per così dire, la sostanza infiammabile, che può venire accesa e illuminata dalla sostanza universale, in quanto tale, in quanto oggettiva; e solo in quanto nell’uomo esiste questo fosforo, è

possibile il capire, sono possibili la fiamma e la luce»[126]. Da questo punto di vista, lo spirito non è «una specie di astrazione della natura umana»[127], ma una vivente presenza in ciascuno, che si trasforma in cultura,

tradizione, costume,

lingua, istituzioni,

storia, e si riassorbe in arte, religione, filosofia, scienza. Lo spirito è pensiero, sentimento, fantasia, sensibilità, azione, creazione collettiva che plasma i singoli ed è plasmato da

essi, che permea persino il corpo umano, somatizzandosi: «All’espressione umana appartiene, per esempio, il portamento eretto in genere, la formazione in ispecie della mano come l’istrumento assoluto,

della bocca, riso, pianto ecc., e il tono spirituale diffuso sul tutto, il quale manifesta immediatamente il corpo come l’aspetto esterno di una natura più alta […] Per l’animale, la forma umana è il modo più

alto in cui lo spirito gli appare. Ma, per lo spirito, la forma è solo la sua prima apparizione; e la lingua è la sua espressione più completa»[128]. In questa «somatizzazione» (Verleiblichung), lo spirito si manifesta soprattutto

nel viso – «sede vera e propria dello spirituale» –, nella posizione eretta, prodotto non solo della natura, ma frutto della «energia della volontà» umana (mentre «l’orang-utan riesce a stare diritto solo appoggiandosi a un

bastone»), e nella mano, «strumento degli strumenti»[129]. Perciò «la figura umana non è, come quella animale, la corporeità solo dell’anima, bensì lo è dello spirito. Spirito e anima, in effetti, vanno essenzialmente distinti.

Infatti l’anima è soltanto questo ideale semplice essere per sé del corporeo come corporeo, mentre lo spirito è l’essere per sé della vita cosciente e autocosciente, con tutti i sentimenti, le rappresentazioni e i fini

di questa esistenza cosciente»[130]. Ogni atteggiamento umano, esteriore o interiore, è compenetrato dallo spirito: come esiste nel «pensiero criminale di un malfattore», lo spirito si rispecchia anche nell’accidentalità

e nella banalità delle espressioni quotidiane: «Così, per es. osservando nei gesti e nel sembiante le persone che si incontrano per le strade, soprattutto nelle piccole città, si vede che molti, anzi la maggior parte,

sono presi solo da se stessi, dai loro ornamenti e vestiti, in generale dalla loro particolarità soggettiva oppure dagli altri passanti e dalle loro eventuali eccentricità e bizzarrie»[131]. Lo spirito di un’epoca penetra così

dovunque, anche nelle manifestazioni esteriori o più frivole della moda, che corrispondono però a bisogni reali, sono espressione di essi e della loro mutevolezza: «Le nostre maniche strette e i nostri pantaloni seguono i

contorni delle figure e, rendendo visibile l’intera forma delle membra, sono di minimo impedimento al camminare e al gestire. Le lunghe ed ampie vesti e i calzoni a sbuffo degli orientali sarebbero invece del tutto

incompatibili con il nostro modo di vita, così vivace e così pieno di occupazioni, ma si adattano solo a gente che, come i Turchi, se ne sta seduta tutto il giorno con le gambe incrociate o che cammina lentamente e

con estrema gravità […] Ciononostante il moderno modo di vestire presenta a sua volta numerose difficoltà, per il fatto che è soggetto alla moda ed è comunque mutevole. Infatti la razionalità della moda consiste nel

fatto che essa esercita sul gusto dell’epoca il diritto di rinnovarlo continuamente. Un abito passa ben presto di moda nel suo taglio, e per piacere è necessario appunto che sia alla moda. Ma se essa è passata, cessa anche

l’assuefazione e quel che pochi anni prima ancora piaceva, diviene subito ridicolo»[132]. Lo spirito che si manifesta nel gestire e nel vestire è lo stesso che pervade ogni aspetto della realtà: «Qui bisogna ribadire

che vi è solo uno spirito, solo un principio, il quale si esprime nello Stato politico, così come si manifesta nella religione, nell’arte, nell’eticità, nella socialità, nel commercio e nell’industria»[133]. Da questa impostazione di

fondo deriva: a) che la conoscenza dello spirito non si può attingere soltanto dal «pozzo notturno» dell’io, ma dal «giorno dell’effettualità»; si deve cioè esplorare ogni aspetto della realtà spirituale, che è

espressivo del tutto perché già lo contiene; b) che la filosofia deve abbandonare la solitudine del cogito e invadere tutte le manifestazioni della realtà, per poter procedere poi, rientrando in sé, a

ricostruire i tratti fondamentali dell’intero in un «sistema»; c) che il sistema è l’unico modo adeguato di cogliere una totalità già esistente nella realtà stessa. Quando si parla di spirito siamo abituati a pensare a un fantasma

o a qualcosa immateriale,

di di

evanescente, che possiede una sedicente nobiltà nei confronti della materia. Ma questo non è affatto il senso hegeliano, che indica piuttosto la totalità vivente

nell’unione indissolubile con le parti, come nella parabola evangelica della vite e dei tralci o nell’idea di esprit che ha Montesquieu nell’Esprit des lois (la legislazione animata da un tutto vivente, come avviene per il corpo grazie alla

circolazione del sangue, che prefigura a suo modo un modello anche per l’idea di «sistema»), oppure, ancora, nel Volksgeist herderiano[134]. Lo spirito è, semmai, il contesto in movimento, contrapposto alla

lettera, al limitato, al morto. Perciò lo spirito si distingue dalla natura, esteriorità reciproca delle parti, ed è la «verità» della ragione[135], in quanto questa è ritorno dalla dispersione e dalle scissioni dell’intelletto.

Alterità, conflitto,

resistenza, alienazione

costituiscono le matrici dello spirito che si rafforza quanto più duri sono gli ostacoli da superare per ritornare in sé. Lo spirito è la rinnovata vittoria dell’unità sulla

dispersione, l’affermazione

della

continuità della vita attraverso la distruzione delle parti. Guardando ‘in negativo’ il concetto hegeliano di spirito, vi potremmo riconoscere lo sforzo immane di dominare la

disgregazione reale del suo mondo e, contemporaneamente, l’idea di un soggetto collettivo, che si alimenta dei singoli individui, ma guida esso stesso la danza e compone gli avvenimenti; potremmo

vederci la proiezione ingigantita di una realtà che effettivamente si autonomizza, un’astrazione che vive e comanda su «uomini in carne ed ossa» di una determinata forma di società e che Marx ha descritto. Ma, insieme,

nel suo aspetto sovrumano o disumano, l’idea hegeliana di spirito contiene anche il tendere a ciò che non si è realizzato ancora, all’umanizzazione del mondo; nella sua crescita cieca c’è anche il segno della

redenzione, del ritorno, della nostalgia di una realtà conciliata. Lo stato del mondo, infatti, «non è ancora conosciuto» e lo spirito è divenire, progresso che «si affatica intorno agli oggetti solo finché resta in essi qualcosa di

segreto, di non rivelato»[136]. Lo spirito non svolge in proprio alcun lavoro concreto: la sua forza consiste invece nell’analisi, nell’astrazione, nella scomposizione del concreto in molti lati astratti[137] e poi nel

riassorbimento nell’assimilazione

e di

quanto ha scomposto. Lo spirito hegeliano non è affatto negazione dell’esistenza reale del mondo, come banalmente si è creduto, ma negazione della sua irresistibilità,

refrattarietà e chiusura di fronte al «coraggio» del conoscere. L’oscurità del reale, il lavoro sotterraneo della talpa potrebbero scomparire solo se l’«essenza dell’universo» potesse svelarsi completamente. Ma questo, per Hegel,

non è possibile, perché eliminata la resistenza, si elimina anche lo spirito, che deve perciò procedere con il doppio regime dell’inconscio e del suo recupero cosciente, del progetto cosciente e del suo trasformarsi inconscio e

così via. Nello spirito assoluto l’opacità del reale e la devastazione del mondo vengono drammaticamente conciliati in un sistema carico di tensioni, teso ad addomesticare il lato animale dell’epoca, con

la certezza di riuscirvi, malgrado la «tragedia dell’etico». Diversa e illuminante per contrasto è la posizione dei due grandi avversari di Hegel, Schopenhauer e del tardo Schelling, in cui la crisi storica e le lacerazioni dell’epoca

non sono soggiogate al «coraggio» dello spirito, non vengono risolte dalla luce apollinea del pensiero, ma rimangono potenze ctonie, inquietanti[138], divengono causa della disperazione che si manifesta nelle parole

di «Veramente

Schelling: egli,

l’uomo, mi spinge alla suprema domanda, piena di disperazione: perché in generale c’è qualcosa? Perché non è il nulla?»[139]. La vita allora acquista così un senso oscuro e

sotterraneo e la talpa, per così dire, assume il comando e pone la civetta della filosofia al suo servizio. L’uomo non è più strumento di uno spirito proiettato in avanti, ma di una insondabile Volontà di vivere, come insegnava

Schopenhauer, l’ammiratore di Bichat, in passi che meritano di essere meditati come potente chiave di lettura del lato oscuro dell’epoca: «È davvero incredibile vedere in che modo insignificante e privo di senso, guardata

da fuori, scorra la vita della stragrande maggioranza degli uomini. È un fiacco struggersi e torturarsi, un barcollare come in sogno attraverso le quattro età della vita fino alla morte, accompagnati da una

serie di pensieri banali. Sono come orologi che vengono caricati e camminano senza sapere perché; e ogni volta che viene generato e nasce un uomo, l’orologio della vita umana viene caricato di nuovo, per ripetere

ancora una volta, frase per frase e battuta per battuta, con variazioni minime, la sua musica, suonata e risuonata già innumerevoli volte […] Se poi si volessero mettere sotto gli occhi di ognuno gli orribili dolori e tormenti, a cui

la vita di tutti è costantemente esposta, si sarebbe colti da raccapriccio; e se si volesse condurre il più impenitente ottimista per gli ospedali, i lazzaretti, le camere di tortura e le stalle degli schiavi, sui campi di

battaglia e nei tribunali, e aprirgli poi tutti i tenebrosi alloggi della miseria, dove essa si rincantuccia per sfuggire agli sguardi della fredda curiosità, e fargli gettare uno sguardo a conclusione nella torre della fame di

Ugolino, anch’egli finirebbe col capire di che specie sia questo meilleur des mondes possibles. Da dov’altro mai ha preso Dante la materia per il suo inferno se non da questo nostro mondo reale? E tuttavia è

venuto fuori un inferno in piena regola»[140]. Il deperimento oggettivo dell’individualità e il condizionamento economico vengono qui rappresentati in squarci indicativi della vita quotidiana: «Il desiderio è, per sua natura,

dolore; il conseguimento genera rapidamente sazietà: la meta era solo apparente; il possesso toglie l’attrattiva; sotto una nuova forma si ripresenta il desiderio, il bisogno; dove no, segue la desolazione, il vuoto,

la noia, contro cui la lotta è altrettanto tormentosa che contro la necessità […] Ma alla parte di gran lunga maggiore degli uomini i puri godimenti intellettuali non sono accessibili; della gioia che c’è nel puro

conoscere, sono quasi del tutto incapaci […] Le ingenue manifestazioni di questo modo di essere si possono cogliere da piccolezze e fatti quotidiani; così ad esempio scrivono il loro nome sui monumenti che visitano, per reagire

in tal modo, per agire sul monumento, visto che esso non ha agito su di loro. Inoltre, non sanno facilmente limitarsi a contemplare un animale esotico e raro, ma devono provocarlo, stuzzicarlo, giocare con esso, solo

per sentire azione e reazione»[141]. Il presupposto del pensiero hegeliano sullo spirito è invece la possibilità di tradurre la realtà in ragione, di non lasciare in linea di principio, niente di inaccessibile al

«coraggio» dello spirito. Ciò è possibile all’uomo perché la realtà naturale da cui proviene e il mondo storico che egli ha creato non sono l’assoluto altro: c’è l’ostacolo, ma c’è anche la trasparenza conquistata,

l’assimilazione. O, come dice Weil: «L’uomo può parlare di ciò che è perché ne fa parte: ne rappresenta il linguaggio. Ma la manifestazione non si manifesta in un discorso unico. L’uomo non è puro spirito, sopra

o fuori della natura. Parla perché agisce e agisce perché parla. Agisce e pensa insomma perché dispone di una piccola parola: no. L’uomo è nella natura. Ma non è natura come il minerale o l’animale: è scontento,

insoddisfatto di ciò che è, e nel suo discorso parla di ciò che non è, di ciò che egli vuole introdurre nell’essere»[142]. In Hegel non è stata ancora oscurata l’idea di progresso, la sicurezza di poter prefigurare il

futuro come un’avanzata del gigante. Il movimento dello spirito non ha in lui un motore isolato; è tutta la realtà che si muove insieme, anche se a passi più o meno veloci. In questo senso «non si può dire che la storia

politica sia la causa della filosofia, perché un ramo non è la causa dell’albero, ma entrambe hanno una radice comune, lo spirito dell’epoca, cioè il determinato grado di formazione dello spirito di un’epoca, che ha la

causa prossima nel grado precedente, ma, in generale, in una forma dell’idea. Disegnare questa unità, rappresentare tutta questa pianta, concepirla come procedente da una sola radice, è un oggetto

della storia filosofica del mondo»[143]. Se, dunque, lo spirito ha in Hegel molti rami paralleli e una sola radice nell’epoca, non c’è evidentemente alcun modo di stabilire un settore della realtà «determinante in ultima

istanza», non c’è – in termini marxisti – alcuna distinzione fra struttura e soprastruttura. Lo spirito, nel suo aspetto «olistico», resta una spiegazione debole, indeterminata, una visualizzazione, se si

vuole, sfuocata della realtà, che non coglie in maniera sufficientemente chiara il luogo da cui si irradia il mutamento e la complessa articolazione scientifica che lo rispecchia. D’altro canto, Hegel sapeva

molto bene che la società civile, al proprio livello, è una sorgente di contraddizioni irrisolte, ma a differenza di Marx, pensava che questi antagonismi non dovessero essere cancellati bensì strumentalizzati,

inseriti in un processo teleologico e che esistessero ancora gli strumenti ‘soprastrutturali’ per mitigarne la virulenza. È tuttavia completamente errato credere che in Hegel sia la ‘soprastruttura’ dello

spirito trainare

assoluto a la realtà:

l’«elemento attivo» sono pur sempre le passioni, quegli stessi interessi che agiscono selvaggiamente nella società civile e che poi vengono utilizzati come materiale da

costruzione nelle sfere superiori. Arte, religione, filosofia sono modalità di prendere coscienza dello spirito, di quel regno che è «ciò che vien prodotto dall’uomo» come seconda natura, per rendere il «mondo

conforme al concetto» dello spirito stesso[144]; sono forme mobili che accolgono e organizzano le contraddizioni (sorgenti dal basso, dagli strati in cui l’animalità e la passione sono maggiori e la razionalità esplicita minore) per

trovar loro una soluzione nel presente e nel futuro. Arte, religione, filosofia sono, per così dire, terminali delle contraddizioni, meccanismi di autoregolazione dell’insieme o, con immagini hegeliane

riferite alla «scandagli»

filosofia, del

razionale o «stella polare»[145]. È nel particolare impasto di passione e di ragione, di finalità inconscia e di coscienza che si deve cercare il senso del discorso hegeliano sullo

spirito. Esso adombra inoltre l’unificazione del genere umano, al di sopra di ogni divisione statale e di ogni conflitto storico, la percezione che il discorso umano abbraccia ormai l’intero pianeta, con il

sottofondo che l’Europa e i suoi Annexa (i continenti extraeuropei ormai abitati prevalentemente da europei)[146] sono destinati a esportare la «ragione» nel mondo, a diffondervi, per usare il linguaggio di Marx – in

questo caso non lontano dalle affermazioni di Hegel, specie quelle relative ai corsi berlinesi di filosofia del diritto[147] – la missione «civilizzatrice del capitale»[148]. Infatti, a differenza del mondo antico e, soprattutto, di

quello romano, in cui «è fine dello Stato che gli individui, nella loro vita etica, vengano sacrificati ad esso»[149], nel mondo moderno la politica non soddisfa più l’uomo, l’organizzazione dello Stato non gli appare più

come sua essenza totale. Egli cerca nello spirito assoluto «una garanzia e sanzione più alta […] la regione di una verità più alta e sostanziale, in cui tutte le opposizioni e contraddizioni del finito possano trovare la loro

ultima soluzione, e la libertà il suo pieno soddisfacimento»[150]. Sono anche le carenze dello «Stato moderno» e i conflitti della storia, che non si istituzionalizzano in forme sovrastatali, a spingere verso il «pieno

soddisfacimento» dello spirito assoluto. La «ragione» che si trova nello Stato non è sufficiente a garantire l’appagamento dello spirito, perché dallo Stato lo spirito stesso non ritorna in sé del tutto soddisfatto.

Anche la storia delle comunità umane continua a essere dominata da forze sconosciute: «Gli scontri tra le innumerevoli volontà e attività singole creano sul terreno storico una situazione che è assolutamente

analoga a quella che regna nella natura incosciente. Gli scopi delle azioni sono voluti, ma i risultati che succedono effettivamente alle azioni non sono voluti oppure, se anche sembrano a tutta prima

corrispondere allo scopo voluto, in conclusione hanno delle conseguenze del tutto diverse da quelle volute. Gli avvenimenti storici sembrano dunque, nel loro complesso, dominati essi pure dal caso. Ma laddove, alla

superficie, regna il caso, ivi il caso stesso è retto sempre da intime leggi nascoste, e non si tratta che di scoprire queste leggi»[151]. Così Engels, in un testo di taglio molto hegeliano. Ma come è possibile conoscere e

specialmente eliminare le cause di questa opacità e inadeguatezza dei fini singoli al fine generale, sottrarre allo spirito e alla ragione collettiva la sua «astuzia», che si beffa delle azioni individuali? Sembra ora chiaro che

lo «spirito» assoluto è il contrappeso della spontaneità inconscia delle passioni e che questo spettro non potrà essere fugato se non quando, e nella misura in cui, saranno diventati trasparenti i rapporti fra gli uomini,

sarà ‘bonificato’ l’agire e il pensare inconscio attraverso forme di società in cui si raggiunga il «pieno soddisfacimento». Finché questa mèta non sarà realmente prefigurata e conquistata in un lungo

processo, finché la vita individuale e sociale non si svilupperà fuori, non dagli antagonismi e dalle contraddizioni, ma dagli antagonismi e dalle contraddizioni cieche, la civetta della filosofia non potrà veramente scomparire

«dalla nostra sera»[152], il suo sguardo notturno sarà adeguato a scrutare l’oscurità effettiva del mondo. Fino ad allora lo «spirito assoluto» corrisponderà a un bisogno reale, a un surrogato di una società che non esiste, ma

anche alla nostalgia, sempre tenuta viva nell’assenza di una «conciliazione» esistente, di un ritorno a sé dalla contraddizione, che è poi il godimento e la soddisfazione[153] e, contemporaneamente, la vera «mediazione» fra

individuale e universale. Fino ad allora lo spirito hegeliano sarà prevalenza dell’universale resosi autonomo ed estraneato, proiezione di un potere sociale collettivo che non ha ancora raggiunto la

comprensione e il controllo su se stesso e che appare perciò come padrone degli uomini, ed essi come suoi servi o strumenti inconsci (almeno nella loro maggioranza). Hegel non è così «spiritualista» in senso

deteriore da non sapere che è una «scissione» reale nella «vita degli uomini» a spingerli verso forme di compensazione religiosa o filosofica, né ignora che la conciliazione deve avvenire nella realtà

effettuale, nella sfera politica e storica e non solo nella rappresentazione e nel pensiero: «Questo è il fine della storia del mondo: che lo spirito si plasmi in una natura, in un mondo che gli sia adeguato, così che il

soggetto trovi il suo concetto di spirito in questa seconda natura, in questa realtà effettuale prodotta mediante il concetto dello spirito, e abbia in questa oggettività la coscienza della sua libertà e razionalità

soggettiva»[154]. E neppure nega, in linea di principio, che le trasformazioni debbano avvenire in forma rivoluzionaria – qualora il positivo non si possa rovesciare che con la violenza –, giacché, abbiamo visto, i

cataclismi della Terra sono finiti, ma non quelli dello spirito verso il raggiungimento di una forma a esso più adeguata. Ciò che a Hegel ancora sfugge, ciò che in parte ci sfugge ancora, è il progetto articolato, il piano

storico per giungere alla realizzazione di questa «seconda natura» che non sia cieca come la prima[155]. Ciò che ancora gli sfugge, perché è al di là del suo orizzonte storico, e che giustifica l’apparenza di una chiusura della

storia, è la concreta individuazione degli ostacoli da rimuovere perché sia possibile un mutamento reale, che si trasmetta poi sullo «spirito assoluto». Ma proprio perché questo processo storico è «der lange Verlauf»[156] –

presuppone cioè un lungo cammino –, anche la filosofia hegeliana continua con esso ad aver corso.

[1] Schelling, Einleitung alle

Ideen zu einer Philosophie der Natur, in Werke, a cura di M. Schröter, cit., vol. I, p. 669

(trad. it. di G. Preti, Introduzione alle Idee per una filosofia della natura, in Schelling, L’empirismo filosofico e altri scritti, Firenze, 1967, p. 9). [2] Cfr. Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. I, pp. 73-74 (trad. it. cit., vol. I, p. 78): «cominciamento della scienza, compiuto da Parmenide, il quale

chiarificò ed elevò il suo rappresentarsi (epperò anche il rappresentarsi di tutti i tempi che verranno poi) fino al puro pensiero, all’essere come tale, che creò l’elemento della scienza. Quello che è il primo della scienza si dové dimostrare storicamente come il primo». Ci si è spesso soffermati sulla

cosidetta prima «triade» di concetti esposta nella Scienza della logica (essere, nulla, divenire) per affermare che le categorie utilizzate da Hegel si sviluppano – secondo uno schema diffusissimo ma falso, anche perché Hegel non si è mai servito di questi termini – al ritmo di «tesi», «antitesi», «sintesi». In

realtà, il «superamento» (Aufhebung) degli opposti in conflitto avviene nel senso del tollere latino, in particolare dell’espressione Ecce agnus qui tollit peccata mundi, che «toglie» i peccati nel senso che ne toglie il peso, senza, però, dimenticare ciò che è accaduto, il passato. La presunta «sintesi» consiste

nel non dimenticare o cancellare le opposizioni di partenza, che servono astrattamente a pensare il concetto che ne risulta, nel passare dalla «dialettica» alla «speculazione». Nel caso della cosiddetta prima triade, il «divenire» è pensabile in quanto categoria che, nello stesso tempo, include e cancella

l’«essere» e il «nulla». Lo sviluppo delle successive categorie, fino alla conclusione della Scienza della logica, appare come un auto-movimento, un loro spontaneo dispiegarsi in cui il pensiero soggettivo fa da spettatore, cfr. sopra, pp. 147-148. [3] Hegel, Rede zum Antritt

des philosophischen Lehramtes

an der Universität Berlin, cit., p. 6. [4] È il tema della crainte

affrontato da Montesquieu, a proposito della schiavitù nell’Esprit des lois (cfr. trad. it. di S. Cotta, Lo spirito delle leggi, Torino, 1952, vol. I, pp. 403 ss.). Sul dispotismo cinese e il dominio della crainte in Montesquieu, cfr. E. Carcassonne, La crainte

dans l’‘Esprit des lois’, in «Revue d’histoire littéraire de France», XXXI (avril-june 1924), pp. 193 ss. Cfr. anche P. Jameson, Montesquieu et l’esclavage: étude sur les origines de l’opinion antiesclavagiste en France au XVIIIe siècle, Paris, 1911, pp. 306 ss.; V. Goldschmidt, État de nature et pacte de soumission chez Hegel, in

«Revue philosophique de la France et de l’Étranger», LXXXIX (1964), pp. 45 ss.; S. Landucci, Note sulla «Fenomenologia dello spirito», Capitolo IV A, in AA.VV., Studi in memoria di Carlo Ascheri, Urbino, 1970, pp. 139-148; A. Grosrichard, Structure du Sérail. La fiction du despotisme asiatique dans l’Occident classique, Paris, 1979, pp. 34

ss., 49 ss. Sulla concezione hegeliana dell’Oriente e del dispotismo, cfr. E. Schulin, Die weltgeschichtliche Erfassung des Orients bei Hegel und Ranke, Göttingen, 1958; D.-U. Song, Die Bedeutung der asiatischen Welt bei Hegel, Marx und Max Weber, Diss., Frankfurt a.M., 1972, pp. 2563; M. Hunlin, Hegel et l’Orient, suivi de la traduction

annotée d’un essay de Hegel sur la Bhagvad-Gîtâ, Paris, 1979. [5] Prov., 9,10. Cfr. Hegel,

Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, p. 113 (trad. it. cit., vol. I, p. 113). [6] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, pp. 113-114

(trad. it. cit., vol. I, p. 113). [7] Ibid., p. 116 (trad. it. cit.,

vol. I, p. 116). [8] Ibid. (trad. it. cit., vol. I,

pp. 115-116). [9]

Cfr. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., pp. 242-260 (trad. it. cit., vol. II, pp. 13-36). [10] Cfr. Hegel, Vorlesungen

über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, p. 282 (trad. it. cit., vol. I, p. 287). [11] Cfr. Diogene Laerzio,

VI, 39; Sesto Empirico Pyrrh. Hyp., § 66. Su Diogene il Cinico che passeggia per dimostrare l’esistenza del moto, cfr. Spinoza, Principi della filosofia di Cartesio, trad. it. di F. Mignini, in Opere, a

cura di F. Mignini, Milano, 2007, p. 298. Nella prima edizione delle Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, a cura di K.L. Michelet, in Werke, cit., vol. XIII, Berlin, 1833, p. 314, l’aneddoto continuava così: «Quando un discepolo si dichiarò soddisfatto di tale confutazione, Diogene prese a picchiarlo, perché, se il

maestro aveva discusso con argomenti, egli doveva far valere anche contro di lui una confutazione motivata. Non si deve dunque star paghi della certezza sensibile, ma bisogna capire». [12] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 192 (trad. it. cit., vol. I, pp. 211-212). Cfr. ibid., vol. II, p. 493 (trad.

it. cit., vol. II, p. 944). [13]

Per la coscienza comune la scienza è dapprima una violenza, cfr. più avanti, pp. 195 ss. [14] Goethe, Maximen und

Reflexionen, in Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche, a cura di E. Beutler, Zürich, 1949, vol. IX, a cura di P. Stöcklein, p. 505.

[15] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 3 A (trad. it. cit., pp. 4-5). [16] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 19 Z. Interessante il commento di Feuerbach a questa esigenza del pensiero posta da Hegel ai suoi contemporanei: «L’arte era l’être suprême.

Schiller pose l’educazione estetica come la vera educazione. In connessione a questo periodo, è da riconoscere il significato che Schelling ne dà nella filosofia dell’arte e la facile entratura, applauso e gloria che Schelling così presto trovò nello spirito dei giovani. Non c’è da meravigliarsi se,

predominando il sentimento estetico, l’intuizione, l’interesse per il pensiero, il senso per il pensare serio retrocedettero. Hegel entrò dunque in assoluto contrasto con il suo tempo ponendo l’imperativo categorico: pensa! solo nel pensiero la verità si trova nella sua vera figura. La richiesta di pensare era per la gente un vero

Memento Mori. Essi si spaventarono e inorridirono davanti a esso come se fosse l’Uomo Nero (der Sensenmann). Persino ora non si sono ancora rimessi, il concetto aleggia pur sempre come uno scheletro dinanzi alla loro fantasia» (Feuerbach, Vorlesungen über die Geschichte der neueren Philosophie, edite da C.

Ascheri e E. Thies, Darmstadt, 1974, p. 148; si tratta delle lezioni di Erlangen del 1835/1836, scoperte da Carlo Ascheri e pubblicate dopo la sua scomparsa). [17] D. Tiedemann, Geist

der spekulativen Philosophie, Marburg, 1791-1797, vol. I, p. 362.

[18] In tedesco ‘buon senso’

suona ‘sano intelletto umano’ (gesunder Menschenverstand). [19] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie (1840), cit., vol. XIV, pp. 3334 (trad. it. cit., vol. II, pp. 3233). [20] Hegel an Schelling, 30

agosto 1795, in Briefe, cit.,

vol. I, p. 31 (trad. it. cit., vol. II, p. 225). [21] Citato da Laplace come

esergo per il secondo libro dell’Exposition du système du monde, Paris, 1797. Il testo di Laplace (che Hegel conosce assai bene, cfr. Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 270 Z e Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., § 270 A, trad. it.

cit., p. 233 n.) tocca in questo punto il tema dei moti apparenti nell’astronomia: «Trascinati da un movimento comune a tutto ciò che ci circonda, noi assomigliamo a un navigante che i venti trasportano sul mare con il suo battello. Egli si crede immobile, e la riva, le montagne, tutti gli oggetti

fuori dal battello gli sembrano muoversi. Ma confrontando l’estensione della costa e delle pianure, l’altezza delle montagne alla piccolezza del suo battello, egli riconosce che il loro movimento non è che un’apparenza prodotta dal suo movimento reale. I numerosi astri sparsi nello spazio celeste sono nei

nostri riguardi ciò che la costa e le montagne sono in rapporto al navigante, e gli stessi motivi per cui egli è sicuro della realtà del suo movimento ci provano quello della Terra» (P.S. Laplace, Exposition du système du monde, cit., trad. it. di O. Pesenti Cambusano, Esposizione del sistema del mondo, in Opere, Torino,

1967, p. 471). [22] Hegel an Van Ghert, 18

dicembre 1812, in Briefe, cit., vol. I, p. 426 (trad. it. cit., vol. II, p. 209). Su questo concetto, cfr. M. Moneti, Hegel e il mondo alla rovescia. Una figura della Fenomenologia dello spirito, Firenze, 1986. [23]

Cfr. R. Problemgeschichte

Bubner, und

systematischer Sinn einer Phänomenologie, in «HegelStudien», 5 (1969), pp. 149150. Sulla fenomenologia della verkehrte Welt, cfr. H.-G. Gadamer, Die verkehrte Welt, in Materialen zu Hegels «Phänomenologie des Geistes», a cura di H.F. Fulda e D. Henrich, Frankfurt a.M., 1973, pp. 106-130. [24] Cfr. Kant, Kritik der

reinen Vernunft, A 293, B 349 (trad. it. cit., vol. II, p. 285). Kant stesso aveva ipotizzato la possibilità di una scienza «semplicemente negativa» da far precedere alla «metafisica» e l’aveva chiamata Phaenomenologia generalis, riferendosi a J.H. Lambert, Neues Organon oder Gedanken über Erforschung und Bezeichnung des Wahren

und dessen Unterscheidung von Irrtum und Schein, Leipzig, 1764 (cfr. Kant an J.H. Lambert, 2 settembre 1770, in Briefwechsel, in Gesammelte Schriften, a cura della Königliche Preussische Akademie der Wissenschaften zu Berlin, vol. X, Berlin, 1900, p. 94). [25] Kant, Kritik der reinen

Vernunft, A 644-645; B 672-

673 (trad. it. cit., vol. II, p. 504). [26] Ibid., A 297, B 353-354

(trad. it. cit., vol. II, p. 288). [27] Kant, Anthropologie in

pragmatischer Hinsicht, in Kants Gesammelte Schriften, cit., vol. VII, p. 137 A, trad. it. di G. Vidari e A. Guerra, Antropologia pragmatica, Roma-Bari, 1985, p. 20 nota.

[28] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., pp. 14-15 (trad. it. cit., vol. I, pp. 8-9); Lezione conclusiva del corso di filosofia speculativa, 18 settembre 1806, in Dokumente zu Hegels Entwicklung, cit., p. 352. [29] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 35 (trad. it. cit., vol. I, pp. 37-38).

[30] J.N. Findlay, Hegel: A

Re-examination, trad. it. cit., p. 15 «l’attualità di Hegel risiede principalmente nel suo riconoscimento della “trama aperta”, dei lati oscuri di tutti i concetti vivi, nel fatto che essi implicano più di quanto coprano manifestamente». Findlay, che parte da posizioni vicine a quelle di Wittgenstein,

chiarisce così la sua affermazione: «la dialettica diventa un riflessivo far la spola tra concetti di cui si sa che sono interdipendenti e correlativi e a livelli ancor più alti diventa un mero sviluppo dei nostri concetti, il più ristrettamente astratto non facendo che accrescersi in quello più “concreto” e ricco di “lati”» (ibid., p. 57). La

dialettica vale per Findlay negli interstizi, negli intermundia dei concetti: «La dialettica hegeliana assolve in realtà a una funzione complementare rispetto al pensiero dei Principia mathematica e di sistemi analoghi: essa è il pensiero degli interstizi che esistono fra concetti ben delimitati, assiomi fissi e catene

deduttive rigorose; gli interstizi nei quali non ci è ancora ben chiaro che cosa i nostri concetti coprano e che cosa non coprano, nei quali costantemente li stiriamo e li costringiamo mano a mano che li mettiamo alla prova applicandoli a un materiale nuovo, nei quali ci preoccupiamo di guardare a

essi dal di fuori e di vedere se compiano bene o male una certa opera concettuale, nei quali ci occupiamo di innumerevoli rapporti reciproci di concetti, rapporti allentati, mobili, sfumati, ma non meno importanti per il fatto di essere allentati» (La pertinenza contemporanea di Hegel, ibid., pp. 404-405).

[31] Cfr. Hegel, Glauben und

Wissen, cit., p. 367 (trad. it. cit., p. 191) e D. Henrich, Die «wahrhafte Schildkröte». Zu einer Metapher in Hegels Schrift «Glauben und Wissen», in «Hegel-Studien», 2 (1963), pp. 281-291. Sul senso della distinzione kantiana fra fenomeni e noumeni (che richiama la separazione platonica dei phainomena dal

noumenon in Platone, Tim. 51 D, cfr. E. Fink, Sein, Wahrheit, Welt. Vor-Fragen zum Problem des Phänomen-Begriffs, den Haag, 1958, pp. 92 ss.), cfr. E. Stenius, On Kant’s Distinction between Phenomena and Noumena, Lund, 1963, e G. Prauss, Erscheinung bei Kant, Berlin-New York, 1971. Per un’interpretazione della cosa in sé dal punto di vista

della conoscenza in vista dell’azione, cfr. E. Weil, Penser et connaître, la foi et la chose-en-soi, in Problèmes kantiens, Paris, 19702, pp. 1355. [32] Cfr. Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. I, p. 16 (trad. it. cit., vol. I, p. 16). [33] Hegel, Leben Jesu, in

Theologische

Jugendschriften,

cit., p. 103 (trad. it. cit., pp. 151-152). [34] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., pp. 14-15 (trad. it. cit., vol. I, p. 9). [35] Cfr. K. Rosenkranz,

Hegels Leben, trad. it. cit., p. 199. [36] A. Ferguson, An Essay

on the History of Civil Society, trad. it. cit., pp. 293-294. La

noia delle classi alte è vista anche come un effetto del «lusso», cfr. d’Holbach, La politique naturelle, ou Discours sur les vrais principes du gouvernement, Londres, 1773, t. II, pp. 242-243: in una nazione in cui vi è interesse solo per il danaro e per l’opulenza «la sazietà la intorpidisce, il continuo cambiamento diviene

necessario, il languore e la noia, carnefici costanti dell’opulenza, tengono dietro ai bisogni soddisfatti. Per trarre i ricchi fuori da questo letargo, l’ingegno è costretto a immaginare continuamente nuove sensazioni: i piaceri si moltiplicano, la novità, la rarità, la bizzarria hanno esse sole il potere di

risvegliare esseri per i quali i piaceri semplici sono divenuti insipidi» (mi servo della trad. it. di C. Borghero, in La polemica sul lusso nel Settecento francese, Torino, 1974, pp. 155-156). [37] Hegel, Frammento di

testo jenese, in Dokumente zu Hegels Entwicklung, cit., p. 337.

[38] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 285 (trad. it. cit., vol. II, p. 75). [39] Diderot, Le neveu de

Rameau, trad. it. cit., p. 97. [40] Ibid., pp. 98-99. Cfr.

Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., pp. 395-396 (trad. it. cit., vol. II, p. 92): La «malattia» del nuovo, l’«infezione» erompe «in

sintomi e manifestazioni sporadiche», ma poi colpisce in pieno. Infatti: «Essendo un invincibile e inavvertibile spirito, essa si insinua attraverso le parti nobili, impadronendosi a fondo di ogni viscere e di ogni membro dell’idolo incosciente, e un bel mattino dà una gomitata al compagno e – patatrac –

l’idolo è a terra». [41] Hegel, Die Positivität der

christlichen Religion, cit., p. 220 (trad. it. cit., p. 311). Su questo passo, cfr. O. Pöggeler, Philosophie und Revolution beim jungen Hegel, in Enciclopedia ’72, cit., p. 225, e, in un contesto più generico, F.G. Nauen, Revolution, Idealism and Human Freedom Schelling,

Hölderlin and Hegel and the Crisis of Eearly German Idealism, The Hague, 1971. [42] Cfr. d’Alembert, Essai

sur les éléments de la philosophie (1759) in Œuvres complètes, Paris, 1821, vol. I, p. 123, e E. Behler, Die Geschichte des Bewusstseins. Zur Vorgeschichte eines hegelschen Themas, in «HegelStudien», 7 (1972), pp. 190 ss.

[43] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., pp. 60-61 (trad. it. cit., vol. I, p. 77). [44] Cfr. Jacobi, Über die

Lehre des Spinoza in Briefen an den Herrn Moses Mendelssohn, in Werke, Leipzig, 1812-1825, vol. IV, 1, p. XL (trad. it. di F. Capra, revis. di V. Verra, La dottrina di Spinoza. Lettere al signor Moses Mendelsshon, Bari, 1969, p. 25); I. von

Sinclair, Philosophische Aufzeichnungen 1796, testo dello Hölderlin-Archiv di Stoccarda (ST GT, cod. hist. 4o 668, II 3 b, 1-11 Werner Kirchner Nachlass), trad. it. di R. Bodei, in R. Bodei, Un documento sulle origini dell’idealismo. Le «Note filosofiche» di Isaak von Sinclair, in «Annali della Scuola Normale Superiore di

Pisa», serie III, vol. II, 2 (1972), pp. 722, 725 e cfr. H. Hegel, Isaak von Sinclair zwischen Fichte, Hölderlin und Hegel, Frankfurt a.M., 1971, pp. 246 ss. [45] Cfr. Heidegger, Hegels

Begriff der Erfahrung, in Holzwege, Frankfurt a.M., 1950, trad. it. di P. Chiodi, Il concetto hegeliano di esperienza, in Sentieri

interrotti, Firenze, 1968, pp. 129-130, per il quale l’apparire del sapere, e non già l’itinerario della coscienza, è il tema della Fenomenologia. Per un approfondimento della posizione di Heidegger nei confronti della Fenomenologia dello spirito di Hegel si veda il Commento all’Introduzione della Fenomenologia dello

spirito di Hegel (1942), contenuto nel volume Hegel, Frankfurt a.M., 1993 [Gesamtausgabe, Frankfurt a.M., 1975-, vol. LXVIII], trad. it. di C. Gianni e a cura di G. Moretti, Hegel, Rovereto, 2010, pp. 65-149. [46] Cfr. J. Simon, Das

Problem der Sprache bei Hegel, Stuttgart, 1966, p. 25.

[47] Cfr. Hegel, Enzyklopädie

der philosophischen Wissenschaften, § 140 A (trad. it. cit., p. 131) e Vorlesungen über die Aesthetik, cit., vol. X1, p. 12 (trad. it. cit., p. 13): «Ma la parvenza è essenziale all’essenza, la verità non sarebbe, se non paresse e apparisse (wenn sie nicht schiene und erschiene), se non fosse per qualcosa, per se

stessa quanto lo spirito in generale». Secondo W. Marx, Die Bestimmung der Philosophie im Deutschen Idealismus, Stuttgart, 1964, pp. 1-32, l’idealismo tedesco cercherebbe la parousia del Logos mediante l’Erscheinung, l’apparenza o il fenomeno. Può darsi che sia così per alcuni aspetti, ma è chiaro che non si può

ridurre tutto a un problema teologico e che dietro il fenomeno sta la tematica della scienza e della tradizione gnoseologica. Per un inquadramento di questa tematica nell’ambito della cultura filosofica del tempo, cfr. G. Tagliavia, Critica della parvenza: Kant, Hegel, Schelling, Milano-Udine, 2006.

[48]

Schelling, Einleitung alle Ideen zu einer Philosophie der Natur, cit., pp. 663-664 (trad. it. cit., pp. 3-4). Anche per Rousseau, specie nella prefazione al Narcisse, l’uomo è nato per pensare e agire e, come notoriamente dice nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, l’uomo che riflette è un

«animale degenerato». [49]

Cfr. R. Bodei, Un documento sulle origini dell’idealismo. Le «Note filosofiche» di Isaak von Sinclair, cit., pp. 703-735. [50] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 86 Z. [51] Hegel, Systemfragment

von 1800, in Theologische

Jugendschriften, cit., p. 351 (trad. it. di N. Vaccaro e E. Mirri, Frammento di sistema del 1800, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 479). Sulla polemica hegeliana contro la Reflexionsphilosophie, cfr. W. Marx, Hegels Phänomenologie des Geistes. Die Bestimmung ihrer Idee in «Vorrede» und «Einleitung», Frankfurt a.M., 1971, pp. 59 ss.

[52] Hegel, Systemfragment

von 1800, cit., p. 351 (trad. it. cit., p. 479). [53] Hegel, Differenz des

Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie, cit., p. 91 (trad. it. cit., p. 112). [54] R. Haym, Hegel und

seine Zeit, Berlin, 1857 (rist. Hildesheim, 1962), p. 242.

[55]

Sulla tormentata stesura del testo della Fenomenologia e sulle fasi della sua pubblicazione, cfr. già Th. Haering, Entstehungsgeschichte der Phänomenologie des Geistes, in Verhandlungen des dritten Hegelkongresses in Rom, Tübingen-Haarlem, 1934, pp. 118-138 (su cui cfr. Lukács, Der junge Hegel und die

Probleme der kapitalistischen Gesellschaft, trad. it. cit., p. 625); O. Pöggeler, Zur Deutung der Phänomenologie des Geistes, in «HegelStudien», 1 (1961) pp. 255294 (trad. franc., leggermente modificata: Qu’est-ce que la «Phénoménologie de l’Esprit»?, in «Archives de Philosophie», XXIX, 1966, pp.

189-236); Id., Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, Freiburg-München, 1973; Id., Introduction à la lecture de la Phénoménologie de l’esprit, Paris, 1979; P.-J. Labarrière, Structures et mouvement dialectique dans la Phénoménologie de l’esprit de Hegel, Paris, 1968, pp. 17-30. [56] Hegel, Differenz des

Fichte’schen

und

Schelling’schen Systems der Philosophie, cit., p. 12 (trad. it. cit., pp. 12-13). [57] Cfr. Lukács, Der junge

Hegel und die Probleme der kapitalistischen Gesellschaft, trad. it. cit., p. 650. Cfr. G. Bedeschi, Storia e politica in Hegel, Bari, 1973, pp. 117 ss. [58]

In un appunto dell’autunno 1831, scritto in

vista della II ed. della Fenomenologia, è detto: «Eigentümliche frühere Arbeit nicht umarbeiten, auf die damalige Zeit der Abfassung bezüglich», cfr. J. Hoffmeister, Zur Feststellung des Texts, in appendice a Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 578 (si veda anche l’Editorialischer Bericht, nell’edizione delle

Gesammelte Schriften, cit., pp. 474 ss.). Per un approfondimento, cfr. R. Bodei, La Fenomenologia dello spirito: un «viaggio di scoperta», in «Iride», 52 (dicembre 2007), pp. 559-563. [59] Su questo dibattito fra

Fulda, Gauvin, Puntel, Labarrière ecc. cfr. più avanti, pp. 355 ss.

[60] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 296 (trad. it. cit., vol. II, p. 92). Il compito della Fenomenologia vuol essere proprio il contrario della cancellazione della storia che Jähnig le attribuisce, cfr. D. Jähnig, Die Beiseitigung der Geschichte durch «Bildung» und «Erinnerung», in «Praxis», VIII (1971), pp. 63-72 e, per

contro, A. Nuzzo, History and Memory in Hegel’s Phenomenology, in «Graduate Faculty Philosophy Journal», 29 (2008), pp. 161-198. [61] Su questo passaggio da

una concezione «analitica» della filosofia a una concezione «genetica» in Fichte e «dialettica» in Hegel, cfr. A. Massolo, Per una lettura della «Filosofia

della storia» di Hegel (1959), ora in A. Massolo, La storia della filosofia come problema, cit., pp. 175 ss. [62] Cfr. K.L. Reinhold,

Elemente der Phänomenologie oder Erläuterung des rationalen Realismus durch seine Anwendung auf die Erscheinung = Beyträge zur leichtern Übersicht des Zustandes der Philosophie

beym Anfange des Jahrhunderts, fasc. Hamburg, 1802.

19. 4,

[63] Hegel, Differenz des

Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie, cit., p. 7 (trad. it. cit., p. 5). [64] Hegel, Aphorismen aus

der Jenenser Periode, cit., p. 555 (trad. it. cit., p. 82 nota

100). L’espressione truncus ficulnus è tratta da Orazio ed è riferita – Hegel cita a memoria – non a Mercurio, ma a Priapo: Olim truncus eram ficulnus, inutile lignum / cum faber, incertum faceretne Priapum, maluit esse Deum (Satire, I, 8). [65] Hegel, Differenz des

Fichte’schen und Schelling’schen Systems der

Philosophie, cit., p. 47 (trad. it. cit., p. 56). Ciò è possibile anche perché – classicamente, secondo il modello aristotelico – il divenire non è soltanto legato al movimento, ma anche all’attività, all’energeia; cfr. L. Ruggiu, Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, Milano-Udine, 2013, pp. 112113. Sulla circolarità del

tempo e sul nesso tempoeternità in quanto eternizzazione del tempo e temporalizzazione dell’eternità, cfr. ibid., pp. 18, 19, 22. Come testo d’appoggio a questa convergenza di tempo ed eternità, cfr. Hegel, Heidelberger Enzyklopädie 1817, trad. it. cit., p. 135: «Ciò che è naturale è quindi

sottoposto al tempo in quanto è finito; il vero, al contrario, l’idea, lo spirito, è eterno. Il concetto dell’eternità quindi non deve essere compreso nel senso che essa sia il tempo tolto e nemmeno nel senso che l’eternità venga dopo il tempo; in tal caso l’eternità diventerebbe il futuro, un momento del tempo;

nemmeno dev’essere inteso nel senso che neghi semplicemente il tempo e che l’eternità sia la semplice astrazione da esso, bensì il tempo nel suo concetto è come in generale il concetto stesso, l’eterno, e perciò anche assoluto presente». Sul concetto hegeliano di tempo, come appare in diversi scritti e periodi, si

veda anche l’ampio studio di G. Grießer, Geist zu seiner Zeit. Mit Hegel die Zeit denken, Würzburg, 2005. [66]

Sul concetto di «eternità» in Hegel come eterno presente che negli scritti jenesi non riesce ancora a conciliarsi con il tempo e non mette ancora a fuoco il rapporto tra il tempo naturale dell’esteriorità

reciproca delle sue parti e il tempo storico e spirituale, cfr. F. Frilli, Tempo naturale e tempo storico nelle Realphilosophien jenesi di Hegel, in «Verifiche», XLII (2013), n. 4, pp. 33-68. Per gli sviluppi successivi sono da vedere G. Wohlfahrt, Über Zeit und Ewigkeit in der Philosophie Hegels, in «Wiener Jahrbuch für Philosphie», 13

(1980), pp. 150-154; M. Murray, Time in Hegel’s Phenomenology of Spirit, in «The Review of Metaphysics», 14 (1981), pp. 682-705; O.D. Brauer, Dialektik der Zeit. Untersuchungen zu Hegels Metaphysik der Weltgeschichte, cit.; G. Rametta, Il concetto del tempo. Eternità e Darstellung speculativa nel pensiero di

Hegel, Milano, 1989; S. Majetschak, Die Logik des Absoluten. Spekulation und Zeitlichkeit in der Philosophie Hegels, Berlin, 1992 e, soprattutto, L. Ruggiu, Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, cit. Dato che l’oggetto della speculazione è l’assoluto (cfr. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 384 A), con

un cambio di prospettiva è necessario che l’assoluto inglobi la vita, cfr. K. Drilo, Leben aus der Perspektive des Absoluten. Perspektivwechsel und Aneignung in der Philosophie Hegels, Würzburg, 2003. Sulla relazione tra tempo, eternità e memoria, cfr. anche più avanti, pp. 220 ss., 291 ss., 316 ss. Sul rapporto tra tempo ed

eternità, inteso come il momento infinito, divino, assoluto, eterno dello spirito si rapporti a quello temporale, finito, oggettivo, umano, politico dandogli senso, cfr. B. Bourgeois, Éternité et historicité de l’esprit selon Hegel, Paris, 1991. [67] Cfr. S. Majetschak, Die

Logik des Absoluten. Spekulation und Zeitlichkeit in

der Philosophie Hegels, cit., pp. 245, 268, 281. [68]

Hegel, Jenaer Systementwürfe. Das System der spekulativen Philosophie, in Gesammelte Werke, cit., vol. 6, a cura di K. Düsing e H. Kimmerle, Hamburg, 1975, p. 4 (nota al margine): «Der Geist ist Zeit, er hat die Vergangenheit, seine Erziehung vernichtet». Va detto che per

Hegel «il tempo non è, per così dire, un contenitore in cui tutto è posto come in una corrente, che scorre e da cui tutto viene trascinato via e sommerso. Il tempo è solo questa astrazione del consumare. Poiché le cose sono finite, per ciò sono nel tempo; non perché sono nel tempo, perciò sprofondano, bensì le cose stesse sono

l’elemento temporale (das Zeitliche)» (Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 258 Z). [69] V. Vitiello, Hegel: la

solitudine della ragione comunitaria, in AA.VV., Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti, cit., pp. 59, 61-62. Sui tre sillogismi si veda l’ampia trattazione più

avanti, pp. 355 ss. [70] J.M.E. McTaggart, The

Unreality of Time, in «Mind», 17 (1908), pp. 457-474, trad. it. L’irrealtà del tempo, a cura di L. Cimmino. Milano, 2006. [71] Cfr. J.M.E. McTaggart,

Commentary on Hegel’s «Logic», Cambridge, 1910. [72] Hegel, Enzykopädie der

philosophische Wissenschaften,

§ 258 (trad. it. cit., p. 217). Nel tempo, come è detto nelle lezioni del semestre invernale 1821-1822, «L’essere si converte immediatamente in nonessere, e altrettanto il nonessere in essere»: Hegel, Hegels Raum-Zeit Lehre, a cura di W. Bonsiepen, in «HegelStudien», 20 (1985), pp. 72. Su questi temi, per alcuni

aspetti del confronto non solo tra le posizioni di Hegel e le tesi di McTaggart, ma anche del dibattito attuale all’interno della filosofia analitica, tra fautori delle tesi statiche e di quelle dinamiche del tempo, cfr. F. Perelda, Hegel e la filosofia del tempo contemporanea, in «Verifiche», XXXIX (2010), n. 1-4, pp. 135-185.

[73]

Sull’aletheia come memoria, commemorazione di avvenimenti che non devono cadere nell’oblio, e il suo primitivo legame con la poesia greca arcaica (᾽Αλήϑεια è il nome di una nutrice di Apollo), cfr. M. Detienne, Les maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, Paris, 1967, pp. 3233 e 130 ss. [74] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 133 (trad. it. cit., vol. I, pp. 195-196). [75] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 308 (trad. it. cit., vol. III, 2 p. 77). [76] Erfahrung, da fahren

(«viaggiare») è così inteso da Heidegger: «Il procedere è uno studiare la direzione da prendere» (Heidegger, Hegels

Begriff der Erfahrung, trad. it. cit., p. 168). Di Heidegger cfr. anche l’edizione delle lezioni friburghesi del semestre invernale 1930/1931 sulla Fenomenologia: Hegels Phänomenologie des Geistes, in Gesamtausgabe, Frankfurt a.M., 1975 ss., vol. 32. [77] Da vedere, in questo

contesto, l’interpretazione – interessante, ma

filologicamente poco attendibile – che della Fenomenologia dello spirito dà Robert B. Brandom sia nel saggio del 1999, Some Pragmatist Themes in Hegel’s Idealism: Negotiation and Administration in Hegel’s Account of the Structure and Content of Conceptual Norms, in «European Journal of Philosophy», 7 (1999), pp.

164-189, sia nelle lezioni tenute all’IMU di Monaco nel 2012, che si possono ascoltare in Podcast (https://itunes.apple.com/it/itu u/hegel-lectures-by-robertbrandom/id447762850? mt=10) e scaricare in iTunes. La prima di queste lezioni si trova anche su Youtube: http://www.youtube.com/wat v=WtFS7Or-X_E.

[78] Hegel, Aphorismen aus

der Jenenser Periode, cit., p. 548 (trad. it. cit., p. 70 nota 50). [79] Ibid., p. 545 (trad. it.

cit., p. 66 nota 43). [80] Ibid. [81] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 11 (trad. it. cit., vol. I, p. 4).

[82] Sulla ricorrenza di

questa metafora del «puro etere del pensiero», cfr. E. Bloch, Das Materialismusproblem, seine Geschichte und Substanz, Frankfurt a.M., 1972, pp. 236239. Sul sapere assoluto inteso come idea della scienza, cfr. L. Lugarini, Sapere assoluto e filosofia speculativa, in Hegel dal

mondo storico alla filosofia, Roma, 1973, pp. 153-180. Sul sapere assoluto, prodotto, da un lato dalla «dottrina dell’esperienza», dall’altro dalla «nostra aggiunta» (unsere Zutat, secondo l’espressione hegeliana), cfr. F. Grimmlinger, Zum Begriff des absoluten Wissens in Hegels «Phänomenologie», in Geschichte und System.

Festschrift für Erich Heintel zum 60. Geburtstag, a cura di H.-D. Klein e E. Oeser, München-Wien, 1972, pp. 279-300. Per un inquadramento e un commentario, cfr. G.W.F. Hegel, Le savoir absolu. Introduction, commentaire, notes par B. Rousset, Paris, 1977, e, per alcuni aspetti, AA.VV., Che cos’è il sapere

assoluto?, in «Verifiche», XXXVII (2008), n. 1-3. [83] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 433 (trad. it. cit., vol. II, pp. 304-305). [84] Cfr. E. Bloch, Subjekt-

Obiekt. Erläuterungen zu Hegel, cit., pp. 473 ss. (trad. it. cit., pp. 495 ss.); Id., Über Methode und System bei Hegel, Frankfurt a.M., 1970, pp. 49

ss. [85]

Come molti altri interpreti, Bloch ignora il fatto che Platone mette questa famosa teoria del conoscere come ricordare in bocca a un filosofo pitagorico, Cebete, discepolo di Filolao. Inoltre, non tiene conto della differenza in Platone tra la mneme (che designa la memoria come

una specie di cassettiera o di ripostiglio) e l’anamnesis, che è un procedimento euristico, un genere di ricerca che sembra partire dal passato, ma che invece, andando avanti, ritrova le connessioni, le giunture interne del sapere come accade in un teorema. Rinviene cioè quella che Platone chiama oikeia

episteme, alla lettera «scienza domestica, a noi familiare», ma, per meglio dire, sapere connaturato all’anima: «Poiché, d’altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l’anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l’anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola

cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca» (Plato, Meno, 81 C-D, trad. it. di F. Adorno, Menone, Platone, Opere complete, vol. 5, Roma-Bari, 1990, p. 270). Per Platone (Fedone, 73 C-D), l’anamnesis è un percorso di rimandi reciproci, che si muove, comunque, in avanti: avanza

rammemorando qualcosa per mezzo di qualcos’altro. In sostanza si basa non sull’intentio recta, ma sull’intentio obliqua, nel senso che A mi ricorda B (Simmia mi ricorda Cebete, per citare un esempio platonico) e da queste associazioni, per somiglianza o dissomiglianza, scaturisce una rete aperta di

riferimenti, mobile e potenzialmente infinita. L’anamnesis, come accennato, procede a zigzag: «Se uno, veduta una cosa o uditala o avutane comunque un’altra sensazione, non solamente venga a conoscere quella cosa, ma anche gliene venga in mente un’altra – un’altra di cui la cognizione non è la

medesima, ma diversa» (Menone, 73 C). Per le complesse implicazioni di questo tema, si vedano L. Robin, Sur la doctrine de la réminescence, in «Revue des Études Grecques», XXXII (1919), pp. 541-561; J.M. Paisse, Le thème de la réminescence dans les dialogues de Platon, in «Les Études Classiques», XXIII

(1965), pp. 225-252, 377-400; Id., Réminescence et dialectiques platoniciennes, ibid., XXV (1967), pp. 225-248; E.G. McClain, The Pythagorean Plato, Boulder, Colo., 1978; V. Meatini, Anamnesi e conoscenza in Platone, Pisa, 1981; J.T. Bedu-Addo, Senseexperience and the Argument for Recollection in Plato’s Phaedo, in «Phronesis»,

XXXVI (1991), pp. 27-60; J.-L. Chrétien, L’inoubliable et l’inespéré, Paris, 1991. Secondo alcuni interpreti, la teoria del conoscere come ricordare viene trattata nel Fedone in forma di mito o in vista della sua indiretta confutazione (cfr. T. Ebert, Sokrates als Pythagoreer und die Anamnesis in Platons Phaidon, München, 1974),

perché una memoria ciclica, legata alle infinite reincarnazioni dell’anima nel tempo – dato che il mondo è eterno, non ha nascita, è agenetos – condurrebbe a un regresso all’infinito e non a una oikeia episteme, in cui le nozioni si incastrano le une con le altre fuori dal tempo (per un semplice accenno, cfr. J.

Klein, A Commentary on Plato’s Meno, Chapel Hill, N.C., 1965, pp. 94-99, in particolare, p. 96). [86] La Prefazione, com’è

noto, venne scritta per ultima, e quindi, verosimilmente, subito dopo il capitolo sul sapere assoluto. [87] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., pp. 24-25 (trad. it. cit., vol. I, p. 22). Sulla memoria come caratteristica delle scienze storiche, cfr. d’Alembert, Discours préliminaire all’Encyclopédie, trad. it. cit., vol. I, pp. 76, 89. [88] Cfr. Platone, Parmenide,

156 C-D. [89] Fries an Jacobi, 20

dicembre 1807, in Aus F.H. Jacobi’s Nachlass, a cura di R. Zoeppritz, Leipzig, 1869, vol. II, p. 20. [90] Hegel an Niethammer, 5

febbraio 1812, in Briefe, cit., vol. I, p. 393 (trad. it. cit., vol. II, p. 174). Della prima edizione 1812 del primo libro della Scienza della logica è stata curata una ristampa fotostatica, che permette di

controllare più agevolmente l’alto numero di varianti e di aggiunte introdotte nella seconda edizione del testo curato da Hegel nel 1831, cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik. Erster Band, Erstes Buch, Das Sein, facsimile della 1a ed. del 1812, a cura di W. Wieland, Göttingen, 1966 (citata in seguito: Wissenschaft der Logik 1812).

Sulla situazione di Hegel dopo la battaglia di Jena, cfr. K. Rosenkranz, Hegels Leben, trad. it. cit., pp. 539 ss. e W.R. Beyer, Zwischen Phänomenologie und Logik. Hegel als Redakteur der Bamberger Zeitung, cit., passim. [91]

Cfr. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, cit.

[92] A. Kojève, Tyrannie et

sagesse, in L. Strauss, De la tyrannie, Paris, 1954, trad. it. Tirannide e saggezza, in L. Strauss e A. Kojève, Sulla tirannide, Milano, 2010, p. 186. [93] Gramsci, Il materialismo

storico e la filosofia di B. Croce, cit., p. 200. [94] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 35 (trad. it. cit., vol. I, p. 42). [95] A. Ferguson, An Essay

on the History of Civil Society, trad. it. cit., p. 7. [96] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 25 (trad. it. cit., leggermente modificata per rendere meglio l’immagine della silhouette, vol. I, pp. 22-23).

[97]

In generale sul significato di questo termine, cfr. A. Massolo, «Entäusserung»-«Entfremdung» nella Fenomenologia dello spirito (1966), ora in La storia della filosofia come problema, cit., pp. 202-215; M. D’Abbiero, «Alienazione» in Hegel. Usi e significati di Entäusserung, Entfremdung, Veräusserung, Roma, 1970; K.

Boey, L’aliénation dans la ‘Phénoménologie de l’esprit’ de G.W.F. Hegel, Paris-Brügge, 1970. [98]

L’aspirazione hegeliana a integrare l’individuo nella società moderna sotto il segno della libertà è stata al centro non solo della lettura di Ch. Taylor in Hegel, CambridgeNew York, 1975 e in Hegel

and Modern Society, Cambridge-New York, 1979 (trad. it. Hegel e la filosofia moderna, Bologna, 1984), ma anche di diversi rappresentanti americani della cosiddetta Hegel Renaissance (sulla recezione americana di Hegel cfr. AA.VV., Contemporary Hegel. La recezione americana di Hegel a confronto con la

tradizione europea, Milano, 2003, e si veda più avanti, pp. 232-233), come, ad esempio, F. Neuhouser in Foundations of Hegel’s Social Theory. Actualizing Freedom, Cambridge, Mass., 2000, che considera la «libertà sociale» come il più importante contributo di Hegel alla teoria politica. Essa sottrae, infatti, l’individuo a una

concezione puramente negativa e privata della libertà, legandola, in quanto autodeterminazione, alla razionalità. Come chiarisce G. Cesarale, Hegel nella filosofia pratico-politica anglosassone dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, Milano-Udine, 2011, p. 126, sul piano della libertà sociale «l’individuo deve,

cioè, sapere che, in primo luogo, le istituzioni sono lo scopo del suo agire; che, in secondo luogo, esse sono la sua essenza; che, infine, esse sono il prodotto della sua attività». E si veda più avanti, pp. 366-367 nota 160. [99] Per questo aspetto si

vedano le argomentazioni di R.B. Pippin in Hegel’s Idealism. The Satisfactions of

Self-Consciousness, Cambridge, 1989; The Persistence of Subjectivity, Cambridge, 2005, e Hegel’s Practical Philosophy, Cambridge, 2008; Hegel on Self-Consciousness. Desire and Death in Hegel’s Phenomenology of Spirit, Princeton, N.J., 2010 (ma, per una critica delle sue posizioni, condotta da uno

studioso che non ha aspettato la Hegel Renaissance per dare il giusto peso alle ragioni del filosofo di Stoccarda, cfr. A. Peperzak, Modern Freedom. Hegel’s Legal, Moral, and Political Philosophy, Dordrecht, 2001). La questione del riconoscimento, già toccata da Kojève, è stata tematizzata esplicitamente

da L. Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie. Untersuchungen zu Hegels Jenaer Philosophie des Geistes, FreiburgMünchen, 1979, ma ha avuto maggiore risonanza grazie all’opera di A. Honneth, Kampf um Anerkennung. Grammatik sozialer Konflikte, Frankfurt a.M., 1992, trad. it. Lotta per il riconoscimento.

Proposte per un’etica del conflitto, Milano, 2002, e Id., Das Ich im Wir, Frankfurt a.M., 2010 (in quest’ultima opera si sostiene che Hegel ha cercato per tutta la vita di esaminare lo «spirito oggettivo», vale a dire le istituzioni giuridiche e politiche, quali stratificazioni del riconoscimento, presupposti

concreti della libertà umana come, ad esempio, lo sono, nella Filosofia del diritto, la famiglia, la società civile e lo Stato). Il dibattito, sollevato da Honneth, ha trovato eco e sviluppi notevoli in diversi altri autori, tra cui F. Neuhouser in Foundations of Hegel’s Social Theory. Actualizing Freedom, cit. Per la dialettica del

riconoscimento cfr. anche R. Bodei, Le prix de la liberté, Paris, 1995, e Id., Il desiderio e la lotta, Introduzione a A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, cit. [100]

Cfr. A. Massolo, «Entäusserung»-«Entfremdung» nella Fenomenologia dello spirito, cit., sulla differenza fra alienazione dello spirito, come strada per il ritorno a

sé (senso positivo), e alienazione della personalità (senso negativo), cfr. Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., § 66 A (trad. it. cit., p. 73): «Esempi di alienazione della personalità sono: la schiavitù, la servitù, l’incapacità di possedere proprietà, la non-libertà della medesima etc.; un’alienazione della

razionalità intelligente, della moralità, dell’eticità, della religione, si presenta nella superstizione, e nell’autorità e nel potere, ceduto ad altri, di determinare e di prescrivere a me ciò che io debbo compiere come azioni (quando uno si impegna espressamente alla rapina, all’omicidio e così via, o alla possibilità del delitto), a me,

che cosa sia obbligo di coscienza, verità, religione etc.». In breve non è sempre vero che l’alienazione sia per Hegel un processo positivo coincidente con l’oggettivazione. [101] Hegel, Differenz des

Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie, cit., p. 9 (trad. it. cit., p. 10).

[102] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 79 (trad. it. cit., vol. I, p. 93). [103] Ibid., p. 10 (trad. it.

cit., vol. I, p. 14). [104] Ibid., pp. 61-62 (trad.

it. cit., vol. I, pp. 72-73). [105] Ibid., p. 62 (trad. it.

cit., vol. I, p. 73). [106] Cfr. L. Althusser, Sur

le rapport de Marx à Hegel, in Hegel et la pensée moderne, cit., pp. 106-107, rist. in Lenin et la philosophie, Paris, 1972, trad. it. di F. Madonia, Lenin e la filosofia, Milano, 1972, pp. 68-69. Ma sul «processo senza soggetto» che accomunerebbe per Althusser Hegel a Marx, cfr. le osservazioni di C. Luporini, Marx secondo Marx,

ora in Dialettica e materialismo, Roma, 1974, pp. 239 ss. [107] Marx, Das Kapital, cit.,

vol. I, pp. 85 ss., vol. III, pp. 784, 877 ss. (trad. it. cit., vol. I, 1, pp. 84 ss., vol. III, 3, trad. it. di M.L. Boggeri, Roma, 1956, pp. 182, 286 ss.). Sullo scambio ineguale di salario e lavoro e la sua apparenza (meglio: parvenza, Schein),

cfr. anche Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Berlin, 1953, pp. 194-195, 368, 566 (trad. it. di E. Grillo, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, 1969-1970, vol. I, p. 267 e vol. II, pp. 86, 363-364) e R. Rosdolsky, Zur Entstehungsgeschichte des Marxschen «Kapital»,

Frankfurt a.M.-Wien, 1968, trad. it. di B. Maffi, Genesi e struttura del «Capitale» di Marx, Bari, 1971, pp. 239 ss. [108] Marx, Das Kapital, cit.,

vol. I, p. 85 (trad. it. cit., vol. I, 1, pp. 84-85). [109] Per la ricostruzione di

queste vicende si vedano Hegel contemporaneo. La ricezione americana di Hegel a

confronto con la tradizione europea, a cura di L. Ruggiu e I. Testa, Milano, 2003; G. Cesarale, Hegel nella filosofia pratico-politica anglosassone dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, cit., e Hegel and the Analytic Tradition, a cura di A. Nuzzo, London-New York, 2010. Di Stanley Rosen, che può essere considerato uno dei pionieri della Hegel

Renaissance, cfr. G.W.F. Hegel. An Introduction to the Science of Wisdom, New HavenLondon, 1974. Sui vari aspetti della ricezione di Hegel in ambito anglosassone, cfr. sopra, pp. 227-228. È da ricordare che nella filosofia americana Peirce, James e Dewey furono invece grandi estimatori di Hegel. Le

ragioni della diffidenza per la filosofia hegeliana nel mondo anglosassone sono ben riassunte da Pippin quando sotttolinea il contrasto tra la sua influenza e la sua incomprensibilità: «Hegel è uno dei più idolatrati e vilipesi filosofi di tutta la storia e, nello stesso tempo, si ritiene diffusamente che

nessuno sappia realmente di cosa parli» (R.B. Pippin, Hegel’s Idealism. The Satisfaction of SelfConsciousness, Cambridge, cit., p. 3). [110]

Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, pp. 13-14 (trad. it. cit., vol. I, pp. 10-12). Per una parziale revisione dei tradizionali

accostamenti fra lo sviluppo storico, la tradizione e la Rivoluzione francese in Hegel e in Burke, a proposito della continuità storica, cfr. anche J.F. Suter, Burke, Hegel and the French Revolution, in Hegel’s Political Philosophy, cit., pp. 72 ss. [111]

Cfr. la poesia hegeliana Entschluss del 1801: «Strebe, versuche du

mehr als das Heut und das Gestern / So wirst du / Besseres nicht, als die Zeit, aber auf’s Beste sie sein!» («Sforzati, tenta, più di oggi e di ieri! / Così tu non sarai migliore del tempo, ma il [tuo] tempo nel modo migliore!») (Dokumente zu Hegels Entwicklung, cit., p. 388), e cfr. Hegel, Aphorismen aus der Jenenser Periode, cit., p. 550

(trad. it. cit., n. 52, p. 72): «Ognuno vuole e ritiene essere migliore di questo suo mondo. Chi migliore è, esprime solo questo mondo meglio degli altri». [112] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., pp. 75-77 (trad. it. cit., vol. I, pp. 88-90). Sulla concezione hegeliana degli individui «cosmicostorici», cfr. G.V. Plechanov,

La funzione della personalità nella storia, trad. it. di P. Flores d’Arcais, in La concezione materialistica della storia, Roma, 1970, pp. 77113. Questa tematica è da vedere anche alla luce del risultato dell’anonimo operare di tutti e di ciascuno, cfr. S. Landucci, Hegel: la coscienza e la storia. Approssimazioni alla

‘Fenomenologia dello spirito’, Firenze, 1976, e É. Balibar, Zur ‘Sache selbst’. Comune e universale nella ‘Fenomenologia’ di Hegel, in «Iride», n. 52, XX (dicembre 2007), pp. 553-558. [113] Hegel, Frammento di

testo jenese, in Dokumente zu Hegels Entwicklung, cit., pp. 336-337.

[114] Hegel an Friedrich von

Raumer, 2 agosto 1816, in Briefe, cit., vol. II, pp. 100-101 (trad. it. cit., vol. II, p. 319). [115]

Hegel,

Vorlesungen

über die Aesthetik, cit., vol. X1, p. 209 (trad. it. cit., p. 185). È interessante osservare come uno degli allievi di Hegel, Heinrich Gustav Hotho, abbia scritto una storia della pittura tedesca: Geschichte

der deutschen Malerei, Berlin, 1842-1843. Sulla «inabitabilità della vita moderna», ma sulla capacità degli olandesi, come appare nella loro pittura, di porre energia in tutto ciò che fanno, in ogni compito, per banale che sia, così da rendere il mondo familiare, cfr. T. Pinkard, Hegel’s Naturalism. Mind, Nature, and

the Final Ends of Life, cit., pp. 147-172. [116]

Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, a cura di G. Lasson, cit., vol. II, 1, p. 233 (trad. it. cit., vol. I, p. 543). [117] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 478 (trad. it. cit., vol. II, p. 250). [118] Ibid., p. 477 (trad. it.

cit., vol. II, p. 248). [119]

Ibid., pp. 510-511 (trad. it. cit., vol. II, p. 287). Cfr. Vorlesungen über die Philosophie der Religion, a cura di G. Lasson, cit., vol. II, 1, p. 234 (trad. it. cit., vol. I, p. 544). Per il rapporto Diouomo nella filosofia della religione di Hegel, cfr. M. Wendte, Gottmenschliche Einheit bei Hegel. Eine logische

und theologische Untersuchung, Berlin, 2007. [120]

Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, a cura di Ph. Marheineke, in Werke, cit., Berlin, 1832, vol. XII, p. 253. [121] Cfr. Hegel, Vorlesungen

über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, p. 118 (trad. it. cit., vol. I, p.

118). [122] Hegel, Auszüge und

Bemerkungen, in Schriften, cit., p. 702. [123]

Hegel,

Berliner

Vorlesungen

über die Aesthetik, cit., vol. X1, p. 42 (trad. it. cit., p. 40). [124] Hegel, Die Heidelberger

Niederschrift der Einleitung (Beginn der Vorlesung am 28. X. 1816), cit., pp. 4-6 (trad. it.

in Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., vol. I, pp. 23). [125]

Cfr. S. Landucci, L’operare umano e la genesi dello «spirito» nella «Fenomenologia» di Hegel, cit., passim. [126]

Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, p. 91

(trad. it. cit., vol. I, p. 89). [127] Cfr. Hegel, Philosophie

der Weltgeschichte, cit., p. 31 (trad. it. cit., vol. I, p. 37). [128]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 411 A (trad. it. cit., pp. 387-388). Sulla mimica e la spiritualizzazione del corpo

umano, cfr. I. Fetscher, Hegels Lehre vom Menschen, Stuttgart, 1970, pp. 92-94. [129] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 411 Z. [130]

Hegel,

Vorlesungen

über die Aesthetik, cit., vol. X2, pp. 370-371 (trad. it. cit., p. 800). [131] Ibid., p. 374 (trad. it.

cit., p. 803). Sembra di sentire le osservazioni di Walter Benjamin in Angelus Novus relative al flanieren nella poesia di Baudelaire À une passante, al vagare privo di scopo dell’individuo che gode nel perdersi nella confusione della folla (cfr. W. Benjamin, Angelus Novus, in Schriften, Frankfurt a.M., 1955, trad. it. di R. Solmi,

Angelus Novus, Torino, 1962, p. 100). [132]

Hegel, Vorlesungen über die Aesthetik, cit., pp. 410, 415 (trad. it. cit., pp. 834, 838-839). In queste considerazioni sulle mode degli orientali c’è forse la reminiscenza di un passo di Volney, cfr. C.-F. Volney, Voyage en Syrie et en Egypte, trad. it. di E. Del Panta, a

cura di S. Moravia, Viaggio in Egitto e in Siria, 1782-1785, Milano, 1974, pp. 441 ss., 453-455. [133] Cfr. Hegel, System und

Geschichte der Philosophie, a cura di J. Hoffmeister, Leipzig, 1944, p. 148. [134] Sul rapporto Hegel-

Montesquieu e sul concetto hegeliano di spirito cfr. G.

Planty-Bonjour, De l’«Esprit» général selon Montesquieu au «Volksgeist» hégélien, in «Recherches hégéliennes», Poitiers, 1971, pp. 9 ss.; R.C. Salomon, Hegel’s Concept of Geist, in «Review of Metaphysics», XXIII (19691970), pp. 642-661. Sulla storia del concetto di «spirito», cfr. in generale, E. Schweizer, Pneuma,

pneumatikos, in Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, a cura di G. Friedrich, Stuttgart, 1959, vol. VI, pp. 330-450; R. Hildebrand, Geist, Halle, 1926, rist. Darmstadt, 1966. [135]

Cfr. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, p. 6 (trad. it. cit., p. 6). [136]

Hegel,

Vorlesungen

über die Aesthetik, cit., vol. X2, p. 231 (trad. it. cit., p. 676). [137] Cfr. Hegel, Jenenser

Realphilosophie II, cit., pp. 224-225 (trad. it. cit., p. 147). [138] Cfr. l’interpretazione

del passo eschileo delle Eumenidi, vv. 566 ss. (giudizio di Apollo su Oreste) in Über die wissenschaftliche Behandlungsarten des

Naturrechts, in Hegel, Schriften zur Politik und Rechtsphilosophie, a cura di G. Lasson, Leipzig, 19232, p. 381 (trad. it. di A. Negri, Le maniere di trattare scientificamente il diritto naturale, in Scritti di filosofia del diritto, 1802-1803, Bari, 1971, p. 113). Per un’ampia e approfondita trattazione di questo testo e dell’idea della

«tragedia dell’etico» ivi contenuta, cfr. M. Schulte, Die ‘Tragödie des Sittlichen’. Zur Dramentheorie Hegels, München, 1992. [139] Schelling, Philosophie

der Offenbarung, cit., p. 7 (trad. it. cit., vol. I, p. 103). [140]

Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, cit., §§ 58, 59, vol. I, pp. 379,

383 (trad. it. cit., pp. 629, 635). Su Schopenhauer e Bichat, cfr. Die Welt als Wille und Vorstellung, cit., vol. II, Ergänzungen, pp. 300-304; F. Colonna d’Istria, La psychologie de Bichat, in «Revue de Métaphysique et de morale», XXXIII (1926), p. 34. [141] Ibid., § 57, vol. I, pp.

370-371 (trad. it. cit., pp. 613,

615). Su questa ricerca di emozioni, cfr. la risonanza del tema schopenhaueriano in W. Benjamin, Angelus Novus, trad. it. cit., pp. 110111. [142] E. Weil, Hegel (1956),

ora in Essais et conférences, Paris, 1970, pp. 133-134; cfr. L. Sichirollo, Dialettica, Milano, 1973, pp. 149-155.

[143] Hegel, System und

Geschichte der Philosophie, cit., p. 154. [144] Hegel, Die Vernunft in

der Geschichte, cit., pp. 50 ss., 256-257. Cfr. R. Bodei, Dialettica e controllo dei mutamenti sociali in Hegel, cit., pp. 111 ss. e passim. [145] Cfr. Hegel, Grundlinien

der Philosophie des Rechts, a

cura di J. Hoffmeister, cit., Vorrede, p. 14 (trad. it. cit., p. 13), Rede zum Antritt des philosophischen Lehramtes an der Universität Berlin, cit., p. 20. [146] Cfr. Hegel, Philosophie

der Weltgeschichte, cit., pp. 365, 936 (trad. it. cit., vol. II, pp. 117-118; vol. IV, p. 217), Die Vernunft in der Geschichte, cit., p. 214. Sullo spirito

come progetto idealistico di unificazione culturale del genere umano, cfr. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, p. 142: «Ciò che gli idealisti chiamano “spirito” non è un punto di partenza, ma d’arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e oggettivamente universale

e non già un presupposto unitario». [147] Cfr. più avanti, pp.

368-369. [148]

Cfr. R. Bodei, Systematische Aspekte und Perspektiven einer Epoche in Hegels Philosophie der Weltgeschichte, in L’esprit objectif. L’unité de l’histoire, cit., pp. 48-49.

[149] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 661 (trad. it. cit., vol. III, p. 161). Nel periodo di massimo dominio di questo universale astratto, che è l’organizzazione politica romana, la filosofia si ritira in se stessa, cerca nel pensiero e non nella realtà la conciliazione, promette agli individui angosciati dal

mondo l’imperturbabilità di fronte a esso, cfr. ibid., p. 718 (trad. it. cit., vol. III, p. 229). La religione cristiana, e non la filosofia stoica o epicurea, era in quel periodo storico la forma più alta dello spirito. [150]

Hegel,

Vorlesungen

über die Aesthetik, cit., vol. X1, p. 130 (trad. it. cit., p. 116). [151]

Engels,

Ludwig

Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie, Berlin, 1946, trad. it. di P. Togliatti, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Roma, 19722, p. 63. [152] Per una cruda critica

a Hegel, che anticipa le posizioni più radicali che l’autore assumerà in seguito, si veda questo passo di

Antonio Negri, Rileggendo Hegel, filosofo del diritto, in Incidenza di Hegel, cit., pp. 269-270: «La realtà non è dialettica ma parziale, autonoma, singolare; la realtà non è universale, ma radicalmente unilaterale; è prassi che si anticipa e rischia se stessa nel costruirsi come potere particolare. Finalmente fuori

dalla dialettica, fuori da ogni processo compositivo che è solo processo di mistificazione, fuori dal lavoro come sintesi di opposti, – fuori dalla filosofia come terreno di usurpazione ideale del reale, del particolare: così il rifiuto del lavoro trae le conseguenze della scoperta della Rechtsphilosophie come indice

supremo dell’ideologia borghese e della pratica capitalistica dell’organizzazione dello sfruttamento. Qui il pensiero del particolare col liberarsi della dialettica del lavoro si libera della filosofia come apparizione notturna di una comprensione apologetica del reale; la nottola di Minerva scompare dalla

nostra sera […] Forse solo l’odio, come espressione della particolarità insubordinata nella quale cresce il nostro pensiero, può ancora definire la qualità di un rapporto con Hegel. Eppure tuttavia proprio questo sentimento, con la sua intensità, ci lega ancora contraddittoriamente a lui».

[153] Il godimento infatti,

anche come soddisfazione dei bisogni più elementari, è per Hegel un ritornare a sé dalla scissione, cfr. Hegel, System der Sittlichkeit, in Schriften zur Politik und Rechtsphilosophie, cit., pp. 418-419 (trad. it. di A. Negri, Sistema dell’eticità, in Scritti di filosofia del diritto, 1802-1803, cit., pp. 168-169).

[154] Hegel, Die Vernunft in

der Geschichte, cit., pp. 256257. [155] Ha ragione Trotsky a

dire che «i rapporti sociali continuano a formarsi alla maniera delle isole coralline» (Storia della rivoluzione russa, Milano, 1969, vol. II, p. 1258)? [156] Hegel, Die Vernunft in

der Geschichte, cit., p. 62.

Capitolo quarto

L’esperienza e le forme: analisi infinitesimale e linguaggio

La filosofia hegeliana vuole essere l’erede e la conciliazione sia dell’empirismo che del razionalismo: dell’empirismo, con la 'Fenomenologia', scienza dell’esperienza della coscienza, in cui il sapere apparente è condotto al sapere

assoluto o scientifico; del razionalismo, perché dopo la 'Fenomenologia', la ragione può costruire a partire da se stessa, ma avendo alle spalle il ricordo del cammino fenomenologico percorso e l’energia potenziale di seimila anni di storia. Questo

legame ora evidenziato dopo un percorso millenario tra esperienza e universale, tra esperienza e filosofia, tra analisi infinitesimale e genesi dell’esperienza stessa, così come la nascita dell’idealismo avvenuta a seguito

dell’idealismo, sono il punto di partenza per un incontro tra scienza, Io e spirito. Si indaga infine il nesso che Hegel seppe cogliere e porre tra linguaggio ed esperienza storica dei popoli.

È stata una grande epoca quella in cui sorse questo principio dell’esperienza quando l’uomo cominciò

a vedere, a sentire, a gustare da sé, a dar valore alla natura, a far valere la testimonianza dei sensi come

qualcosa di importante, di sicuro, a ritener vero solo quel che veniva conosciuto mediante i sensi. Questa

convinzione sicura, immediata, attraverso i sensi era il fondamento di questa filosofia così chiamata; da questa

testimonianza dei sensi sono appunto scaturite le scienze naturali. E questa testimonianza dei sensi è stata contrapposta

alle precedenti maniere di considerare la natura: in precedenza si partiva da princìpi metafisici.

In quanto si partì da rappresentazio sensibili, si entrò in conflitto con la religione e lo Stato. Non è però soltanto

la testimonianza dei sensi che è stata opposta alla metafisica dell’intelletto, ma un’altra testimonianza

ancora è stata tenuta in alta considerazione e cioè questa, che il vero può aver valore solo in

quanto si trova nell’animo, nell’intelletto dell’uomo; e mediante questo intelletto, questo pensare e sentire

autonomo si è venuti a contrasto ancor di più con il positivo della religione e delle costituzioni statali di

allora. L’uomo imparò ora a osservare, pensare e farsi rappresentazio da sé contro le verità stabilite, i

dogmi della Chiesa e allo stesso modo contro il diritto statuale vigente; o, perlomeno

ha cercato nuovi princìpi per il vecchio diritto statuale, per rettificarlo secondo questi

princìpi. Hegel, Einleitung in die Geschichte der Philosophie[1].

1. L’esperienza dell’universale Come

ci

si

impossessa, in modo adeguato all’epoca, del «lungo percorso» finora compiuto dallo spirito nella sua storia millenaria? Con quali tratti peculiari la filosofia moderna rispecchia questa «nuova figura» dello

spirito e ne utilizza l’energia potenziale accumulata in «seimila anni»? Infatti, lo «spirito del mondo presente è il concetto che lo spirito si fa di se stesso; è esso che si tien su e governa il mondo; ed è il risultato delle fatiche di

seimila anni, ciò che lo spirito ha effettuato attraverso il lavorio della storia del mondo, ciò che è dovuto risultare da questo lavoro»[2]. Per capire, dobbiamo iniziare dalla fine del Medioevo, dal periodo in

cui, con la filosofia scolastica, «erano stati cavati gli occhi all’uomo»[3]. Allora il «punto centrale» era quello «dell’individuo separato dal mondo e chiuso in se stesso»: «Di fronte alla vita religiosa c’era il mondo esteriore,

in quanto mondo naturale, mondo dei sentimenti, delle inclinazioni, della natura dell’uomo, che aveva valore soltanto in quanto veniva superato»[4]. Ma con lo svanire, «dopo lunghe tempeste» della «lunga,

terribile, gravida di conseguenze notte del Medioevo»[5], l’«occhio dell’uomo si rischiarò, la sua recettività fu eccitata, il pensiero si accinse a un’opera di chiarificazione. Era per gli uomini come se solo allora Dio avesse creato

il sole, la luna, le stelle, le piante e gli animali, come se solo allora fossero state fissate le leggi: ché solo adesso gli uomini presero interesse a queste leggi, riconoscendo la loro ragione in quella ragione, e scoprendo

l’universale nella natura e nell’intelletto»[6]. Con ciò viene reso onore al finito e al presente, e da un lato si procede per estensione alla scoperta dell’universo, aguzzando lo sguardo e ampliando il dominio dei sensi con strumenti

che permettono di vedere l’infinitamente lontano e l’infinitamente piccolo, da un lato intensivamente, scavando dentro se stessi alla ricerca di una conciliazione fra pensiero ed essere: «La

filosofia moderna

dell’età […] porta

all’opposizione il punto di vista del Medioevo, la diversità del pensato e dell’universo esistente e ha da fare con la sua soluzione. L’interesse precipuo adunque non è tanto di pensare gli

oggetti nella loro verità, quanto di pensare il Pensare e il Concepire gli oggetti, di pensare questa medesima unità, che in sostanza è il divenire cosciente di un oggetto presupposto»[7]. Nell’era moderna – come già si è accennato

– l’invenzione della polvere da sparo modifica i rapporti sociali ed elimina le forme di dipendenza personale, così che la forza e l’abilità del singolo abdicano a favore dell’organizzazione

collettiva e della dipendenza di ciascuno dall’insieme, che è guidato dallo spirito come «momento direttivo»: «Le fortificazioni dei castelli, gli strumenti dell’isolamento individuale, armature e

corazze, queste preziose armi di difesa del singolo furono rese inutili: la distinzione fra signore e servo perdette così ogni sua forza […] Si può ben deplorare la fine o la decadenza del valore dell’eroismo personale (l’uomo più

coraggioso e più nobile può essere ucciso da lontano da un vile appiattato in un angolo). Ma, in realtà, l’arma da fuoco fece nascere il coraggio superiore, quello più spirituale, più razionale, più cosciente; il momento direttivo

divenne ora la cosa principale»[8]. L’umanità si distacca ridendo dal suo passato, e nel Don Chisciotte si inverte il rapporto servo-padrone e ci si beffa del nobile eroismo dei cavalieri erranti, mentre il sanguigno e sensato

Sancho consapevole

Panza, dei

molteplici bisogni dell’uomo e alieno dai misteri della fede e della cavalleria, diventa il prototipo del nuovo uomo della società civile[9]. L’isolamento del singolo viene

incrinato dall’abolizione

anche del

celibato ecclesiastico da parte di Lutero. In tal modo, «l’uomo, attraverso la famiglia, entra nella comunità, nel reciproco rapporto di dipendenza della società, e questo vincolo

è etica: mentre i monaci, separati dalla società etica, costituiscono l’esercito stanziale del papa, come i giannizzeri la base della potenza turca. Col matrimonio del sacerdote scompare anche la differenza

esterna fra laici ed ecclesiastici (Geistliche). Parimenti anche l’astensione dal lavoro non fu più ritenuta cosa santa, ma si considerò come superiore il fatto che l’uomo, nel suo stato di dipendenza, si rendesse autonomo con

la sua attività, intelligenza e diligenza. È più onesto che colui che ha denaro lo spenda, anche se per bisogni superflui, invece di regalarlo a oziosi e mendicanti, e per lo meno a condizione che essi abbiano

attivamente lavorato. L’industria, i mestieri hanno ormai acquistato dignità etica, e sono scomparsi gli ostacoli che venivano opposti a essi da parte della chiesa. Questa aveva infatti dichiarato peccaminoso il prestar

danaro per interesse; ma la necessità delle cose portò proprio all’opposto»[10]. In questa difesa dello ‘spirito del capitalismo’ ci sono i tratti più caratteristici di quella che Hegel definisce l’età moderna: dominio

collettivo del prodotto dell’«attività» e del lavoro di tutti; interdipendenza degli uomini; natura astratta e impersonale dei legami che li uniscono; elogio del lavoro produttivo; prevalenza, al livello economico,

della forma monetaria sui «bisogni» concreti. Ma la più grande rivoluzione che si compie con la fine del Medioevo è la conquista della certezza soggettiva: l’autorità cessa di essere verità insondabile, fondata

sulla tradizione e sulla parola di Dio, e deve esibire la sua legittimità. Le «due linee»[11], infine convergenti, l’empirismo e il razionalismo, sono unite da questa comune ricerca di una certezza indipendente da ogni

autorità esterna. La differenza consiste nel fatto che l’empirismo si appoggia ai sensi, al mondo esterno (senza accorgersi che da essi non può ricavare leggi universali e che l’esperienza non è un mero vedere, toccare

ecc. ma un’articolazione di conoscenze che coinvolge il soggetto conoscente e tutte le manifestazioni della sua epoca), mentre invece il razionalismo si appoggia all’intelletto e alla metafisica, senza rendersi conto del

cammino percorso per giungere al sapere, e anzi cancellandone le tracce in concetti e proposizioni generali definiti fondanti. Empiristi e razionalisti tuttavia, nel loro momento di verità, sono entrambi accompagnati

dall’istinto della ragione[12], che li spinge di fatto a oltrepassare la loro unilateralità e le loro stesse intenzioni. Così i primi, seguendo l’esperienza sensibile, giungono alle teorie generali, e credendo di aver a che fare solo col

mondo esterno, penetrano invece nel «quieto mondo delle leggi»[13], che è l’opposto intellettuale di ogni mutevole fenomeno. Succede in tal modo loro quel che era successo a Newton: «Dalle esperienze egli

trasse punti di vista generali, che pose poi a fondamento, e su questo costruì l’individuale: ecco le teorie […] Ma nel far questo Newton è talmente barbaro nei concetti, che gli capita quel che è accaduto a

un altro suo connazionale, che fece le gran meraviglie e si rallegrò quando apprese che in tutta la sua vita aveva parlato in prosa, non essendosi mai accorto di possedere questa capacità. Newton, come i fisici in

generale, non se ne accorse invece mai, non seppe mai di pensare e d’aver a che fare con concetti; credeva di aver a che fare soltanto con le cose fisiche»[14]. I razionalisti invece, pur partendo dall’intelletto, scoprono nessi reali nel

mondo, sperimentano il potere della ragione inconscia nel rivelare il mondo e teorizzano allora: ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum. Empirismo e razionalismo lavorano entrambi istintivamente

alla costruzione di un nuovo modello di ragione coincidente con l’effettualità; nella loro ricerca di certezza prefigurano l’autocoscienza dello spirito, la raggiunta consapevolezza storica del suo cammino,

assimilabile dall’individuo

nel

percorso fenomenologico. La filosofia hegeliana vuole essere appunto l’erede e la conciliazione sia dell’empirismo che del razionalismo: dell’empirismo, con la

Fenomenologia, scienza dell’esperienza della coscienza, in cui il sapere apparente è condotto al sapere assoluto o scientifico (col mostrare alla coscienza, attraverso una serie di rovesciamenti,

Umkehrungen, che essa non ha a che fare solo con oggetti esterni, ma che l’esperienza è proprio questo continuo intreccio di soggetto e oggetto, di singolo e sostanza universale); del razionalismo, perché dopo la Fenomenologia, la

ragione può costruire a partire da se stessa, ma avendo alle spalle il ricordo del cammino fenomenologico percorso e l’energia potenziale di seimila anni di storia. Sapere apparente e sapere costituito, ordine

naturale-cronologico e ordine logico-scientifico, si presuppongono ora a vicenda nell’insieme, e questo spiega infine perché ognuno appaia all’altro come un mondo rovesciato. L’apparenza è penetrata nella scienza e la scienza

nell’apparenza. Fenomeno e ragione non si escludono più, e anche dal punto di vista storico la verità è baconianamente filia temporis, proprio tempo appreso in pensieri. Ma ciò non è accaduto, come in Kant – la cui

filosofia è da Hegel considerata essenzialmente fenomenologia e sviluppo dell’empirismo[15] – trasformando tutto il sapere in fenomeno e risolvendo il contrasto empirismo/razionalismo

con i «giudizi sintetici a priori», bensì assimilando il fenomeno nel sapere senza ridurre il sapere a fenomeno e attribuendo al movimento generale «dello spirito», e non alle trovate dei filosofi, la capacità di conciliare

i due opposti versanti della verità e della certezza.

2. Il patrimonio dell’esperienza e la filosofia La filosofia moderna poggia su un patrimonio di conoscenze

scientifiche concrete che la filosofia antica non possedeva e che danno al movimento della filosofia moderna l’apparenza di un movimento autonomo, di un’«aeronave» (Luftschiff) dei Fernromanen, termine

che ha la sua traduzione più adeguata nel nostro «romanzi

di

fantascienza»[16]. Poggiando sulle spalle di questo gigante che avanza con gli stivali delle sette leghe (ossia lo spirito moderno, e non quello degli antichi,

su cui posa il nano, come nella famosa querelle)[17], la filosofia tocca il suo «etere» e sembra tagliare dietro di sé tutti i ponti con l’esperienza, con le scienze, col proprio tempo. Così dice infatti Hegel, in un passo

significativo riferito a Bacone: «L’empiria non è un puro osservare, udire, sentire, ecc., un percepire il singolo, ma tende essenzialmente a scoprire generi, universalità, leggi. Nel compiere questo viene a imbattersi nel campo

del concetto, qualcosa,

genera che

appartiene all’ambito dell’idea: prepara quindi il materiale empirico per il concetto, sicché questo è allora in grado di accoglierlo così preparato. Senza dubbio, quando la

scienza è già costituita, l’idea deve procedere da se stessa; la scienza come scienza non prende più inizio dall’empirico. Ma perché la scienza giunga all’esistenza è necessario il procedimento dal

singolo e dal particolare al generale: attività questa, ch’è reazione alla materia data dall’empiria per elaborarla. L’esigenza del conoscere a priori, quasi che l’idea costruisca dal proprio interno, non è dunque

altro che un ricostruire, come fa in sostanza il sentimento nella religione. Senza l’elaborazione delle scienze sperimentali per sé, la filosofia non avrebbe potuto oltrepassare il punto cui erano giunti gli antichi.

Il tutto dell’idea in se stessa è la scienza compiuta; l’altro però è l’inizio, il corso del suo sorgere. Questo processo del sorgere della scienza è diverso dal corso di essa in se stessa quando è già compiuta, allo stesso

modo che il corso della storia della filosofia è diverso dal corso della filosofia medesima. In ogni scienza si procede da princìpi, che da principio risultano dal particolare; ma quando la scienza è compiuta, si prendono le mosse da

essi. Così accade anche nella filosofia: l’elaborazione del lato empirico è diventata in tal modo condizione essenziale perché l’idea possa pervenire al suo svolgimento e alla sua determinazione. Per esempio, perché ci

possa essere la storia della filosofia moderna, occorre la storia della filosofia in generale, il percorso della filosofia attraverso tanti millenni: questo lungo viaggio ha dovuto compiere lo spirito per produrre quella

filosofia. Nella coscienza essa prende poi allora una posizione come se tagliasse dietro a sé tutti i ponti: pare che non faccia altro che lasciarsi andare liberamente nel proprio etere, che si spieghi in questo mezzo senza resistenza: altra

cosa è però la conquista di questo mezzo e la possibilità di spiegarvisi. Non dobbiamo perder di vista che senza aver così proceduto la filosofia non sarebbe mai giunta all’esistenza, poiché lo spirito è essenzialmente come una lavorazione

fatta da altro»[18]. La filosofia moderna non costruisce quindi dal proprio interno, ma poggiando sul cumulo dell’esperienza, e l’enorme dilatazione della filosofia hegeliana nell’accogliere l’intera realtà, questo lavoro

ciclopico, dipende dal fatto che essa ha voluto passare attraverso l’esperienza: «niente viene saputo che non sia nell’esperienza», «tutto deve essere sperimentato»[19]. L’esperienza stessa è stata inoltre ampliata al

soggetto e alla filosofia ed ha coinvolto nel suo movimento il conoscente e la «verità». Per questo Hegel, per quanto appaia, per altri versi, un nemico dell’empiria, è in realtà «uno dei più forti empirici»[20]. Ma tale

affermazione di Korsch, oggettivamente condivisa anche da Adorno, è vera solo se riferita al sapere apparente nel suo costituirsi. L’empirismo resta infatti, come il razionalismo coevo, qualcosa di unilaterale,

istinto della ragione che non può ancora innalzarsi al pensiero puro, perché a ciò i tempi non erano ancora maturi: «Dall’empirismo si levò un grido: lasciate l’aggirarvi a tentoni in astrazioni vuote, guardate le vostre mani,

cogliete il qui dell’uomo o della natura, godete il presente – e non è da disconoscere che in esso è contenuto un momento essenzialmente giustificato […] Trovare una determinazione infinita era in generale

l’istinto della ragione; ma non era ancora giunto il tempo di trovarla nel pensiero»[21]. L’empirismo non è sbagliato, è solo unilaterale, perché considera unicamente la forma fenomenica del

sapere, il presentarsi

suo alla

coscienza, e non la sua organizzazione in un edificio razionale e insegnabile, a prescindere dalla certezza soggettiva dello sperimentare: «Certo, ognuno sa che quando

la sua coscienza si svolge empiricamente, egli prende le mosse da sensazioni, da circostanze affatto concrete; e che, in ordine di tempo, soltanto più tardi appaiono le rappresentazioni

generali, concreto

che

col della

sensazione hanno il legame di esservi contenute. Per esempio lo spazio viene nella coscienza più tardi della spazialità, la specie più tardi del singolo; ed è soltanto l’attività della

mia coscienza il separare il generale dal particolare della rappresentazione ecc. Il sentire a ogni modo è la guisa più bassa, la guisa animalesca dello spirito; ma lo spirito in quanto pensa, vuol trasformare il sentire a suo modo.

Sicché il procedimento seguito da Locke è perfettamente corretto; sennonché egli trascura affatto la considerazione dialettica, in quanto si limita ad analizzare il generale dall’empiricamente

concreto»[22]. È anche esatto, per Hegel, dire che «l’uomo muove dall’esperienza quando vuole pervenire a pensieri». In effetti, «tutto è esperienza, non solo il sensibile, ma anche ciò che determina e muove il mio spirito.

Quindi la coscienza ha certamente tutte le rappresentazioni e tutti i concetti dall’esperienza e nell’esperienza»[23]. Ma bisogna intendersi sul significato del termine «esperienza»: essa non è altro che «la forma

dell’oggettività», come sapere immediato, percezione, presupposto fondamentale: «È assurdo che si sappia alcunché ecc., che non sia nell’esperienza: per esempio l’uomo, sebbene non sia necessario ch’io li abbia

veduti tutti, lo conosco certamente per esperienza, giacché, in quanto sono uomo, attività, volere, ho coscienza di quel che sono io e di quel che sono gli altri. Il razionale è, ossia è nella forma di un esistente

per la coscienza, vale a dire questa ne ha esperienza; dev’essere veduto, udito, esserci o esserci stato come fenomeno cosmico. Sennonché, in secondo luogo, questa unione dell’universale con l’oggettivo non è la

forma unica: altrettanto assoluta ed essenziale è quella dell’in sé, vale a dire il concepirsi dello sperimentato, ossia il togliersi di questa apparenza dell’esser altro, e il conoscersi la necessità della cosa per se stessa. Ed è del tutto

indifferente che si prenda questo come un che di sperimentato, come una serie di concetti sperimentali, se così può dirsi, o di rappresentazioni, oppure si assuma la stessa serie come serie di pensieri, vale a dire di

termini che sono in sé»[24]. Il concepirsi dello sperimentato non era però stato afferrato in tutta la sua estensione e l’empirismo fece un passo avanti rispetto al razionalismo di Cartesio e di Spinoza, in quanto

rifiutò di partire da definizioni come sostanza, infinito, modi, estensione ecc. e cercò l’origine delle idee, kantianamente la «noogonia»[25]. Locke allora, per quanto sotto forma prevalentemente psicologica, compì il

tentativo di dedurre i concetti universali[26]. Per far questo fu costretto ad attaccare l’innatismo, a dimostrare che i concetti sono dei derivati, non un prius assoluto e indeducibile, come le vecchie autorità

medievali. Tuttavia, secondo Hegel, l’idea di concetti innati conteneva un elemento importante, che Locke ha sfiorato appena: «il loro vero significato è ch’essi sono in sé, momenti essenziali della natura del

pensiero, proprietà di un germe, che non esistono ancora; solo rispetto a quest’ultima determinazione c’è del giusto nell’osservazione di Locke»[27]. Ciò che sfugge sia a Locke che ai razionalisti è la differenza fra primo per

noi e primo in sé, fra concreto della sensibilità o della rappresentazione e concreto del pensiero, passato attraverso l’esplicitazione dei germi delle Denkbestimmungen; è, in breve, la differenza fra il

sorgere della scienza e la scienza già costituita, fra il concreto sensibile o rappresentativo e il concreto del pensiero: «Sentimento e intuizione sono il primo, il pensiero l’ultimo; per questo il sentimento ci sembra più concreto del

pensiero, che è attività d’astrazione, d’universalità. In realtà però avviene tutto il contrario. È innegabile che la coscienza sensibile in generale è più concreta, e sebbene la più povera di pensieri, è tuttavia la

più ricca di contenuto. Dobbiamo quindi distinguere il concreto naturale dal concreto del pensiero, il quale a sua volta è povero di sensibilità»[28]. Del resto, non esiste per Hegel il sensibile allo stato puro, la sensazione vergine e

innocente: in tutte le manifestazioni della vita psichica umana è già presente il pensiero che universalizza, ritaglia, collega, nomina, anche se mediante processi così veloci e abitudinari che la coscienza comune non

riesce ad avvertirli. Adorno ha perciò stabilito un rapporto fra questa concezione hegeliana e quella della Gestaltpsychologie. Infatti, anche la «teoria della Gestalt ha messo in chiaro che non si dà mai il sensibile isolato e non

qualificato, ma che esso è sempre già strutturato»[29]. Hegel, dunque, cercando di armonizzare le posizioni di Locke e di Leibniz, sostiene che la vita psichica dell’uomo è un amalgama di diverse facoltà, che non vanno

concepite come «sacchi», ma come forze operanti, con il dominio alterno di un momento o dell’altro, ma nella compresenza del tutto. Si passa così da un minimo di pensiero nel sensibile a un massimo nel pensiero puro, ma

non secondo lo schema leibniziano della continuità e del passaggio dall’oscuro al chiaro, bensì secondo lo schema teleologico della linea dall’implicito all’esplicito e dalla subordinazione del momento più basso a

quello più alto. In questo senso, il detto «che si suole falsamente attribuire ad Aristotele», nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu, deve essere integrato con il suo opposto: «nihil est in sensu, quod non fuerit in intellectu»[30]. Se tutto è

perciò compenetrato dal pensiero, anche l’esperienza non potrà restare un al di là inesprimibile e limitato, ma dovrà costituirsi in sapere organizzato, in scienza dell’esperienza e poi in scienza senza aggettivi. Questo

processo si compie nel corso di un secolo circa, a partire dal Saggio di Locke. Con l’illuminismo «il pensiero fu insediato nel trono»[31] e si sono prodotte le condizioni generali per un incontro fra ragione ed

effettualità, fra ragione ed esperienza. Attraverso la Rivoluzione francese è stato idealmente tolto il positivo, e ora il pensiero procede dovunque – secondo i diversi «princìpi locali» – a consolidare il suo

regno, a far diventare consapevole il suo cammino. Le scienze naturali e la matematica, abbandonate le vecchie diatribe, sono giunte senza saperlo ai confini della ragione dialettica e, talvolta, li hanno

oltrepassati, nell’analisi

come

infinitesimale con Lagrange e Carnot. Tuttavia esse hanno ancora paura di affrontare le contraddizioni che si generano all’interno dei loro stessi campi: «La

rappresentazione della polarità, che è di tanto uso nella fisica, contiene in sé la più esatta determinazione dell’opposizione; ma, benché la fisica, nel suo modo di considerare i pensieri, si attenga alla logica ordinaria

(gewöhnliche Logik), essa si spaventerebbe se svolgesse la polarità e giungesse ai pensieri che in quella sono contenuti»[32]. La filosofia hegeliana vuole assimilare e tradurre in termini concettuali la nuova problematica che

sorge sul terreno della scienza, prolungarne idealmente le linee di tendenza implicite ed eliminarne le rappresentazioni inadeguate. Questo vale soprattutto per l’avanguardia di questa nuova scienza, il calcolo

infinitesimale, e anche qui, seppur al livello di intenzioni, Hegel è molto chiaro: la filosofia, come non può assumere una veste matematizzante, alla Spinoza, così non deve pretendere di creare una «matematica

filosofica». Essa deve anzi conservare alla matematica «il vantaggio che ha di fronte alle altre scienze della medesima sorta, e non lo si turbi col mescolarvi il concetto a essa eterogeneo, o gli scopi empirici»[33]. Il

compito della filosofia, nell’assorbire le scienze empiriche, intellettuali e confinanti con la ragione dialettica è sempre lo stesso, già in parte esposto: «La genesi della filosofia dal bisogno […] ha per suo punto di partenza

l’esperienza, la coscienza immediata e raziocinante. Da ciò eccitato come da uno stimolo, il pensiero si comporta essenzialmente così che, dalla coscienza naturale, sensibile e raziocinante, si solleva

nel puro elemento di se stesso, e così si pone dapprima in una relazione negativa verso quel punto di partenza da cui s’è allontanato […] Tale stimolo strappa il pensiero da quell’universalità e da quella soddisfazione

che si è procacciata soltanto in sé, e lo spinge a svolgersi movendo da se stesso. Questo svolgimento, da una parte, è semplicemente ad accogliere il contenuto con le sue molteplici determinazioni date;

dall’altra parte, plasma questo in modo che proceda liberamente, nel senso del pensiero originario, e seguendo la necessità della cosa stessa»[34].

3. Analisi infinitesimale e genesi dell’esperienza

Non posso non fare un’osservazion sul vecchio Hegel, al

quale Lei nega la più profonda conoscenza nel campo della matematica e delle scienze naturali.

Hegel sapeva tanta matematica che nessuno dei suoi scolari fu in grado di pubblicare i

numerosi manoscritti del suo lascito. L’unica persona, a quanto ne so, che capisce abbastanza di matematica

e di filosofia per poterli pubblicare, è Marx. Engels a Lange[35].

Il calcolo infinitesimale, nei suoi più recenti sviluppi,

contiene per Hegel implicitamente sia il concetto di «vero infinito», sia il modello astratto del processo mediante il quale la massa delle variazioni minime si risolve in «rapporti» e costituisce lo sviluppo

dell’esperienza verso il concetto. Dividerò l’argomentazione hegeliana – nel suo intreccio con la matematica dell’epoca – in tre aree intersecantesi: 1) La relazione finito-infinito nell’interpretazione del

calcolo differenziale e integrale; 2) L’analisi infinitesimale e l’immagine del sistema; 3) Il problema della ‘distruzione’ del sensibile e il fluire dell’esperienza. I matematici posseggono, secondo

Hegel, il vero infinito, ma non lo evidenziano: si accontentano dello «sbrigativo: Développons»[36] e dei successi operativi ottenuti, ma «il successo non giustifica di per sé la maniera di procedere»[37]. Nel

calcolare il differenziale (o, newtonianamente, la flussione) dx, non si può infatti né uguagliare dx a zero, né attribuirgli una quantità finita. Bisogna che l’«infinitamente piccolo», la «quantità evanescente», sia

contemporaneamente conservata e soppressa (proprio aufgehoben, come gli opposti dialettici), utilizzata e ripudiata, sia = 0 e non lo sia. Altrimenti l’edificio del calcolo non regge, e, ad esempio, l’integrale definito

f

(x) dx = 1 non ha alcun senso, perché esso vale solo a condizione che sia dx ≠ 0, per quanto dx si rapporti invece a x come se fosse effettivamente = 0[38]. A causa di questa contraddizione concettualmente non

risolta nella sfera matematica, il calcolo è travagliato «dall’apparenza dell’inesattezza»[39] ed è costretto a ricorrere per giustificarsi o all’immaginazione, all’analogia cinematica di un punto che scorre

su una retta, o all’ipotesi nebulosa di quantités négligeables, così piccole che nel complesso possono essere trascurate. All’analista, però, rimane, come retrogusto, il sospetto che qualcosa non

quadri. Anche qui, come nell’economia politica classica, si cerca la spiegazione del miracolo operativo mediante la «mano invisibile» che guida il calcolo, la ratio. Malgrado l’infinito matematico non riesca

a fondare la legittimità se

sua non

attraverso l’esibizione dei risultati conseguiti, esso ha per Hegel una funzione decisiva perché annienta il concetto di «infinito metafisico», di un infinito cioè

assolutamente opposto al finito: «Dal punto di vista filosofico l’infinito matematico è però importante per questo, che, nel fatto, vi sta in fondo il concetto del vero infinito, e ch’esso sta molto al di sopra del cosiddetto infinito

metafisico, in base al quale si muovono le obiezioni contro il primo. Da queste obiezioni la scienza della matematica non sa spesso salvarsi altro che rigettando la competenza della metafisica,

coll’affermare di non aver nulla da spartire con questa scienza, né di doversi curare dei concetti di essa, purché rimanga conseguente a sé sul suo proprio terreno. La matematica non avrebbe cioè da ricercare ciò che è vero

in sé, ma ciò che è vero nel campo suo proprio. La metafisica colle sue obiezioni contro l’infinito matematico non sa negare né abbattere i brillanti resultati dell’uso di esso, e la matematica non sa venire in chiaro

circa la metafisica del suo proprio concetto e quindi nemmeno circa la deduzione delle maniere di procedere, che l’uso dell’infinito rende necessarie»[40]. In effetti, c’è stato, secondo Hegel, negli ultimi tempi un fecondo

movimento convergenza

di tra

metafisica e calcolo infinitesimale, e con il Sur les principes métaphysiques du calcul infinitésimal di d’Alembert, con la Théorie des fonctions analytiques di Lagrange e

con le Réflexions sur la métaphysique du calcul infinitésimal di L.N.M. Carnot[41] si sono attinte vedute profonde. In precedenza, se si prescinde dall’intuizione spinoziana di un infinitum actu[42], le

concezioni dell’infinito, in particolare dell’infinitamente piccolo, erano inadeguate, «conformemente alle condizioni in cui il metodo scientifico si trovava a quell’epoca»[43], ossia

non facevano che spiegare «quel che si doveva intendere sotto una determinata espressione». Così Newton, nei Principia (libro I, lemma XI, scolio), considera i divisibili evanescenti come limites di somme e

di rapporti nel momento in cui svaniscono (quacum evanescunt), né prima né dopo[44]. Oppure si procedeva, come il Marchese de l’Hospital, nell’Analyse des infiniment petits, pour l’intelligence des lignes courbes, o come Wolff,

nel Der Anfangs-Gründe aller mathematischen Wissenschaften letzter Theil[45], circondati dalla «nebbia dell’infinitamente piccolo»[46], a trattare il dx in quanto stato di una grandezza così piccola, secondo le

immagini di Wolff, che la si potrebbe paragonare a un granello di sabbia che il vento abbia portato via dalla cima di una montagna – senza per questo renderla più bassa –, o così insignificante e

indiscernibile come il profilo delle asperità della superficie terrestre nell’ombra proiettata dalla Terra sulla Luna durante un’eclissi[47]. Dopo d’Alembert, con lo scritto sopra ricordato e con le voci Différentiel e Limite dell’Encyclopédie, il

più acuto indagatore delle implicazioni teoriche dell’infinito fu, alla fine del Settecento, Lagrange. Quando era ancora a Berlino come successore di Eulero al dipartimento matematico dell’Accademia delle

scienze, egli fece indire nel 1784 un concorso sul tema: trovare «une théorie claire et précise de ce qu’on appelle Infini en Mathématique»[48]. Il premio fu vinto da Simon L’Huilier, con la Principiorum calculi differentialis et integralis

expositio elementaris, pubblicata a Tubinga solo nel 1795, quando Hegel era ormai a Berna[49]. Successivamente Lagrange, dopo il suo trasferimento a Parigi, decise di dedicarsi di persona alla soluzione

del problema prendendo una nuova strada, nelle sue intenzioni puramente algebrica, che avrebbe eliminato le nozioni di limite e di infinitamente piccolo, come è programmaticamente annunciato nel

sottotitolo stesso della Théorie des fonctions analytiques: Les principes du calcul différentiel, dégagés de toute considération d’infiniment petits ou de limites. In tal modo, riprendendo il modello newtoniano della serie, Lagrange

ottenne estremo

risultati di rilievo:

dimostrò la formula di Taylor, con l’espressione del resto (resto di Lagrange) come integrale, valutabile attraverso il teorema della media. Tuttavia, malgrado

l’impostazione di Lagrange avesse dato tutti questi frutti e poste le basi del metodo di Weierstrass sulla teoria delle funzioni di una variabile complessa (nonché delle moderne serie formali algebriche), essa fu «in

relazione al suo scopo immediato […] un passo indietro piuttosto che un progresso»[50]. La tendenziale rimozione del concetto di limite contrasta infatti singolarmente con la nuova direzione che l’analisi assumerà di lì a

poco con Abel, Gauss e Cauchy[51]; inoltre la formula di sviluppo di Lagrange non ha valore generale, ma è estensibile solo a un determinato gruppo di funzioni. Per Hegel, invece, «la scuola francese», ossia

Lagrange e l’ultima leva di matematici francesi, hanno toccato il punto più alto della matematica contemporanea[52]. Egli considera determinante il principio lagrangiano per cui «la differenza, senza che diventi zero,

può esser presa così piccola, che ciascun termine della serie superi in grandezza la somma di tutti i seguenti»[53]. Disgraziatamente per lui, la «fastidiosa serie» non è un di più: «La serie, poiché non è

dessa che nel fatto vien cercata, si porta dietro un troppo, nel levar daccapo il quale consiste la superflua fatica. Da questa fatica è oppresso anche il metodo di Lagrange, che nuovamente ha di preferenza accolto la

forma della serie»[54]. Nel sovrapporre il «concetto» filosofico al reale piano operativo della matematica, Hegel ha qui lasciato cadere quell’aspetto seriale che, da J.B. Fourier in poi, avrebbe assicurato alla matematica i

maggiori successi[55]. L’analisi infinitesimale ha imboccato storicamente una strada diversa da quella indagata da Hegel, il quale tuttavia ha intuìto l’importanza della serie di potenze[56] ed è stato inoltre – come

riconoscerà B. Bolzano – forse l’unico filosofo che, grazie al rifiuto della forma seriale, ha concepito l’infinito in un punto: «Così una parte semplice del tempo o dello spazio (un punto nel tempo o nello spazio) non possiede

alcun limite, piuttosto viene

ma esso

stesso considerato come un limite (di un intervallo di tempo o di una linea); la maggior parte delle persone infatti lo definisce proprio così, come se questa fosse la sua vera

e propria essenza; ma con tutto ciò non si è mai dato che qualcuno (con l’eccezione forse di Hegel) scorgesse un’infinità in un semplice punto»[57]. È altresì interessante osservare come Hegel abbia utilizzato la

possibilità offerta da Lagrange di presentare il tempo, all’interno della meccanica, come quarta dimensione dello spazio, e abbia dialetticamente esposto il passaggio dallo spazio al tempo in questi termini: «Poiché,

dunque, lo spazio è solo questa intima negazione di se stesso, così il togliersi da sé dei suoi momenti è la sua verità; il tempo è ora appunto l’esserci di questo continuo togliersi da sé; il punto ha, dunque, realtà

effettuale nel tempo»[58]. La

diffidenza

hegeliana nei confronti della forma seriale si spiega con la sua avversione nei confronti del «cattivo infinito», evocato nuovamente dalla serie. Così, secondo lui, l’infinito

affermativo effettivamente racchiuso

è come

rapporto in e non nel suo sviluppo seriale (per a < 1), sotto forma di 1 + a + a2 + a3 …, in cui la totalità contenuta in deve essere rincorsa invano

all’infinito[59]. Analogamente, l’infinito affermativo è racchiuso nella frazione e non in 0,285714… Nel coefficiente differenziale

, in

quanto «unico segno indivisibile»[60], e non nel dx, in quanto

«infinitamente piccolo». Nel coefficiente differenziale



il

quantum è tolto come tale e la determinazione qualitativa, negata dalla quantità, ritorna in sé dalla sua differenza, oltrepassando i limiti e le barriere

quantitative[61]. La quantità, attraverso l’infinitesimo, si trasforma in rapporto. Già nella Logica di Jena (1804/1805) il rapporto finito-infinito è mutuato dal calcolo infinitesimale, interpretato come

campo in cui la grandezza scompare e lascia come residuo dei rapporti: «Una cosa non svanisce nell’assolutamente piccolo, come non va oltre di sé nell’assolutamente grande; lo svanire non

diviene comprensibile mediante aumento o diminuzione, poiché la grandezza è essenzialmente questo: non è una determinatezza della cosa stessa […] Nell’infinitamente piccolo, in verità,

scompare interamente la grandezza»[62]. Con la scomparsa della quantità e la sua trasformazione in rapporto si genera l’insieme come sistema di momenti, in cui ciascuno di essi si conserva proprio nel

suo essere tolto, superato: «Un sistema di momenti è un’unità di opposti che non sono nulla al di fuori di questa opposizione, al di fuori di questo rapporto, e neppure hanno, per così dire, più un resto l’uno rispetto

all’altro per cui sarebbero per sé, ma si regolano in un certo modo l’uno sull’altro, così che, in effetti, si tolgono nell’atto stesso in cui vengono rappresentati nella loro opposizione al sistema come unità […]

L’irrequietezza annientante dell’infinito è soltanto attraverso l’essere di ciò che annienta; il tolto è proprio assoluto in quanto è tolto; nasce dal suo trascorrere, perché il trascorrere è soltanto in quanto è qualcosa

che scompare. Ciò che in verità è posto nell’infinito è che esso è il vuoto in cui tutto si toglie»[63]. Nella rete di rapporti che si viene così a costituire, ogni momento ha valore non in sé ma in quanto si riferisce ad altro, si

rettifica continuamente sulla base di tutti gli altri, diventa variabile dipendente del tutto. Il quanto infinito, come momento, «è in unità essenziale col suo altro, solo come determinato mediante questo suo altro, vale a dire ha un

significato solo in relazione a qualcosa che sta con lui in rapporto. Fuor di questo rapporto è zero»[64]. Attraverso il calcolo infinitesimale Hegel oltrepassa la concezione di Schelling, dell’«Assoluto» come insieme di differenze

meramente quantitative,

e

sostituisce alla serie schellinghiana delle «potenze» (all’interpretazione della realtà come una base identica con diversi esponenti successivi: a, a2, a3, a4 …) il concetto

dialettico di qualitativo,

salto di

trasformazione della quantità dei quanta in rapporto in cui riaffiora la qualità. E in questo stesso modo Hegel interpreta i mutamenti della sua epoca: il vecchio mondo si

dissolve, si «sbocconcella», ma non cade nel nulla. Come il dx, è contemporaneamente = e ≠ 0. Resta di esso una negazione determinata, un fitto reticolo di rapporti in continua modificazione e

rettificazione reciproca; una totalità di dx quasi impercettibili che non si risolve in lente modificazioni, ma in rivoluzioni, in nuovi rapporti, nel «nuovo mondo». Si ricordi ancora la Prefazione alla

Fenomenologia: «Del resto non è difficile a vedersi come la nostra età sia un’età di gestazione e di trapasso a una nuova èra; lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino a oggi; esso sta per calare tutto ciò

nel passato e versa in un travagliato periodo di trasformazione. Invero lo spirito non si trova mai in condizione di quiete, preso com’è in un movimento sempre progressivo. Ma in quel modo che nella creatura, dopo lungo

placido nutrimento, il primo respiro, – in un salto qualitativo, – interrompe quel lento processo di solo accrescimento quantitativo, e il bambino è nato; così lo spirito che si forma matura lento e placido

verso la sua nuova figura e dissolve brano a brano l’edificio del suo mondo precedente»[65]. Ma il nuovo mondo che sorge non è mai un mondo senza articolazioni nuove, un puro incremento quantitativo del

vecchio: esso è anche qualitativamente diverso, irripetibile. Perciò lo studio della storia non insegna niente; perciò Hegel attacca ferocemente le utopie come semplici inversioni positive del presente; perciò, infine,

è così duro con Fries e quanti propongono la distruzione dei rapporti politici ‘razionali’ attraverso il richiamarsi alla confusa immediatezza del sentimento, in cui tutto si risolve in una pappa: «È questo il principale

intento della superficialità: collocare la scienza, invece che nello sviluppo del pensiero e del concetto, più tosto nell’osservazione immediata e nell’immaginazione accidentale; far

dissolvere, quindi, la ricca membratura dell’ethos in sé, che è lo Stato, l’architettonica della sua razionalità, che con la determinata distinzione delle cerchie della vita pubblica e dei suoi diritti e col rigore della misura, nella quale

si regge ogni pilastro, arco e sostegno, fa nascere la forza del tutto dall’armonia delle sue parti; – far dissolvere, dico, questa plastica costruzione nella pappa del “cuore, dell’amistà e dell’ispirazione”»[66].

Pensare il proprio tempo secondo il modello offerto da questa interpretazione del calcolo infinitesimale significa anche, per Hegel, tradurre questi piccoli mutamenti, ‘da talpa’, in mutamenti rivoluzionari (la caduta

della «crosta terrestre»); oppure concepire l’avanzata del «gigante» quale «un movimento impercettibile come quello del sole», lento ma inesorabile. I segni premonitori della rivoluzione non consistono quindi, come

nella storiografia antica, nell’apparizione di fenomeni soprannaturali o mostruosi[67], ma nella capacità di trasformare concettualmente queste impercettibili modificazioni in rapporti di tendenza, in

linee di frattura non ancora evidenti a tutti; nel vedere cioè l’epoca come insieme di relazioni che si modificano continuamente, rettificandosi a vicenda, in uno spazio complesso in cui continuo e

discontinuo si negano dialetticamente in salti qualitativi o in una «linea nodale» (Knotenlinee)[68]. Il movimento complessivo dell’epoca infrange continuamente i limiti precedentemente posti e questo movimento

deve riprodursi nella filosofia, altrimenti si colgono soltanto gli aspetti parziali, come nella Reflexionsphilosophie, e dell’insieme dell’epoca restano in mano i «Mercurietti» o i «granelli» del Monte

Bianco, cioè l’infinitamente piccolo e insignificante nel senso di Wolff.

4. Distruzione del finito e idealismo La cosiddetta ‘distruzione’ del finito e del sensibile da parte di

Hegel – sulla quale ha particolarmente insistito storiografia

certa filosofica

italiana[69] – non nasce tanto sul terreno della mistica o del ritorno a Platone, quanto sulla base del calcolo infinitesimale e della

sua «metafisica», della trasformazione del dx in . La polemica condotta contro la ‘cancellazione’ del sensibile e del finito in Hegel ha tuttavia degli aspetti che non si possono ridurre a una semplice

interpretazione di testi. Essa acquista il suo senso pieno e il suo versante positivo in una situazione storica, più o meno fra il 1948 e il 1962[70], in cui la rivendicazione del sensibile, dell’«uomo in carne e ossa» come

soggetto di bisogni sociali e agente della trasformazione, contrastava sia con la tradizione culturale idealistica, sia con l’egemonia di forze religiose e politiche. In questo contesto, la ripresa e lo sviluppo di

temi di Feuerbach o del giovane Marx, l’accenno posto sulla scientificità della filosofia, sull’astrazione «determinata» o sull’intelletto, aveva un peso diverso rispetto a oggi, a un periodo in cui, fra l’altro, l’interesse per

le funzioni dell’astratto, delle forme, dei sistemi, deriva dalla percezione storica del loro potere sul «concreto»; a un periodo, insomma, in cui il problema del sensibile va riformulato[71]. Nell’atteggiamento

hegeliano nei confronti del sensibile e del finito non è il platonismo l’elemento caratterizzante, ma la mancanza di «tenerezza per le cose»[72], l’affermazione – ideologica, se si vuole – della prevalenza del

movimento e della mediazione sulla stasi del riposante su se stesso e dell’immediatezza. La soppressioneconservazione del finito e del sensibile da parte di Hegel è il pendant del rafforzamento dei

concetti di Wirklichkeit e di Gegenwart. Contro il sublime kantiano del «cielo stellato sopra di me» e della «legge morale in me», Hegel vuole operare una convergenza di questi due elementi insondabili sul presente

effettuale, sull’infinito affermativo che esso contiene; di fronte al progresso infinito di Fichte, al rifugiarsi negli ideali dei romantici e dei «giovani», di fronte alla «mestizia» che provoca la dissoluzione del finito, il suo è un

invito all’immanenza, ad accettare e a guardare in faccia il «negativo» con la sua «mostruosa potenza» (ungeheure Macht) e senza fuggire, a dominare la «devastazione» e a ritornare in sé da essa:

«Il finito non solo si muta, come il qualcosa in generale, ma perisce; e non è già soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l’essere delle cose finite, come tale, sta nell’avere per loro essere dentro di

sé il germe del perire: l’ora della loro nascita è l’ora della loro morte. Il pensiero della finità delle cose porta con sé questa mestizia, perché una tal finità è la negazione qualitativa spinta al suo estremo, perché alle cose, nella

semplicità di codesta determinazione, non è più lasciato un essere affermativo distinto dalla loro destinazione a perire»[73]. Ma il finito non si riduce a nulla, esso vive nel suo stesso annullarsi, nell’integrale dell’intero: «Ché se il

finito non dovesse perire nell’affermativo, ma si dovesse intendere la sua fine come il nulla, allora saremmo da capo a quel primo, astratto nulla, che è esso stesso perito da un pezzo»[74]. Invece esso esiste nel movimento del tutto e

astrattamente stesso

ha lo valore

dell’infinito separato dal finito, per cui si potrebbe anche dire, da questo punto di vista, che Hegel distrugge l’infinito, come del resto fu affermato da quanti gli attribuivano la

negazione trascendenza

della di Dio.

Difatti, «tanto il finito quanto l’infinito son così questo movimento, di tornare ciascuno a sé per mezzo della propria negazione. Essi son soltanto come mediazione in sé, e

l’affermativo ambedue contien

di la

negazione di ambedue, ed è la negazione della negazione […] L’intelletto recalcitra tanto contro l’unità del finito e dell’infinito, solo perché presuppone come persistenti tanto il

termine e il finito quanto l’essere in sé. Con ciò gli sfugge la negazione di ambedue, la quale si trova di fatto nel progresso infinito; come anche gli sfugge che il finito e l’infinito stan costì solo come momenti di un tutto, e

che vi si presentano ciascuno solo per mezzo del suo opposto, ma insieme, essenzialmente, per mezzo del togliere del suo opposto»[75]. L’idealismo è appunto per Hegel la negazione della realtà del finito al

di fuori del suo rapporto all’insieme: «La proposizione che il finito è ideale, costituisce l’idealismo. L’idealismo della filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come un vero essere».

Al livello di «coscienza comune» si associa l’idealismo di Hegel alla negazione della realtà esterna in quanto tale, al credere che esso consideri il sensibile come vuota apparenza. Ma idealismo non significa affatto questo:

è il risvolto negativo del concetto di spirito («il vero e proprio idealista»)[76], ossia esprime quella stessa totalità, espressa dallo spirito come confluenza del tutto, sotto forma negativa del tutto di contro alle parti. Il

dissolversi del finito e del sensibile in rapporti permette al pensiero e allo spirito la sua estrema mobilità: le cose e gli avvenimenti vengono ora strappati dalla loro immediatezza ed elaborati. L’altro grande modello

ausiliario della relazione ideale col finito è infatti il lavoro umano: a differenza dell’«appetito» (Begierde) che consuma l’oggetto (anche se poi ne segue il processo di assimilazione), il lavoro non distrugge l’oggetto

ma lo plasma, lo «idealizza» secondo un fine. Da qui la frequenza delle metafore hegeliane sul «lavoro dello spirito» e la natura stessa del suo operare[77], una frequenza che colpì molto Adorno[78].

L’idealismo si presenta, dunque, piuttosto come volontà di lavorare e assimilare il mondo, di varcarne continuamente i limiti, che come negazione di esso. In questo senso, è affermazione della fluidità del mondo

contro ogni zona di stagnazione, ogni difesa dei propri limiti. È «coraggio» del conoscere al quale l’essenza dell’«universo» deve squadernarsi davanti nel suo processo.

5. Genesi e fluire dell’esperienza Nell’interpretare le Réflexions sur la métaphysique du calcul infinitésimal di Carnot, Hegel osserva che il conservarsi del rapporto attraverso il dileguare dei quanti è possibile

grazie alla «legge della continuità». Essa esprime la «vera natura della cosa», poiché non produce un cattivo infinito, ma un passaggio al «vero infinito», in cui ciò che è continuo è solo il rapporto: «Esso è tanto

continuo e tanto si conserva, che anzi non consiste che nel mettere in rilievo il puro rapporto e nel far dileguare la determinazione irrelativa, la determinazione cioè che un quanto, il quale è

lato o termine di un rapporto, sia ancora un quanto, anche quando sia posto fuor di questa relazione»[79]. A questo punto Hegel aggiunge significativamente: «Questa depurazione del rapporto quantitativo non è

quindi altro che ciò che accade quando un esistere empirico viene concepito. Cotesto esistere viene allora elevato sopra se stesso, per modo che il suo concetto contiene bensì le medesime determinazioni che

sono in esso, ma però comprese nella loro essenzialità e nell’unità del concetto, dove hanno perduto la loro sussistenza indifferente e inconcettuale»[80]. Come si deve intendere questo passo? In prima approssimazione, si può

dire che Hegel istituisce un parallelismo o una proporzione fra il processo per cui il dileguare dei quanti si trasforma in rapporto e quello per cui l’«esistere empirico» si trasforma in concetto: a : b = c : d. In entrambi i casi, il

primo elemento delle due relazioni (a e c) viene «elevato sopra se stesso», non cancellato, e tradotto in rapporti che contengono le stesse determinazioni di partenza ma «nell’unità» (b e d). In altri termini, il rapporto,

così come il coefficiente differenziale , deve essere inteso, al pari del concetto, come contenente «l’identità dell’identità e della non identità», cioè le determinazioni del rapporto condotte all’unità, sottratte

all’immediato, al fluire quantitativo e al fluire dell’esperienza e inserite nella fluidità dei rapporti concettuali dialettici. Lo svanire del sensibile e il suo progressivo tradursi in relazioni percettive, intellettuali e razionali è

da Hegel esposto sia nella Fenomenologia (col passaggio dalla «certezza sensibile» alla «percezione», all’«intelletto» e alla «ragione»), sia, per quanto riguarda il linguaggio, che è «l’uccisione» del

sensibile[81], nella Realphilosophie di Jena e nell’Enciclopedia. Per cogliere il senso del discorso hegeliano bisogna riferirsi a Kant. Dietro la trattazione del calcolo infinitesimale sta la critica alle Anticipazioni della

percezione, e cioè al principio kantiano per cui: «In tutti i fenomeni il reale che è oggetto della sensazione ha una quantità intensiva»[82]. Kant si pone qui il problema del passaggio dalla coscienza empirica, la percezione,

«quella coscienza in cui c’è insieme la sensazione», alla coscienza pura. C’è qualcosa nella sensazione che si può conoscere a priori ed è il grado, ossia la sua intensità reale. Noi possiamo così sapere in

anticipo che ogni sensazione ha un grado e che l’assenza di sensazioni nella coscienza è = 0. Da zero in poi c’è un continuo fluente, che viene però appreso istantaneamente dalla coscienza, e non

attraverso sintesi successive. Ma poiché spazio e tempo sono «quanta continua», punti e istanti sono allora limiti o, newtonianamente, quantità fluenti: «Quantità di questo genere si possono

chiamare anche fluenti, poiché la sintesi (dell’immaginazione produttiva) è nella loro formazione un processo nel tempo, la cui continuità si suole indicare in particolare coll’espressione fluire (scorrere)»[83]. Il grado è

irrappresentabile nello schema spaziotemporale dell’estetica trascendentale e presenta notevoli difficoltà teoriche nella costruzione della Critica della ragion pura; infatti, esso, con il suo carattere «granulare» è aspaziale

e atemporale[84]. Per Hegel invece non esiste, in primo luogo, quantità intensiva che non sia anche estensiva: «Il grado di calore, p. es. il 10o, il 20o ecc., è una sensazione semplice, è un che di soggettivo. Ma questo grado ci è anche

presente come una grandezza estensiva, come dilatazione di un liquido, dell’argento vivo nel termometro, dell’aria oppure dell’argilla ecc. Un più alto grado di temperatura si esprime con una più lunga

colonna di mercurio oppure con un più ristretto cilindro di argilla; esso riscalda uno spazio più grande nella stessa maniera che un grado inferiore riscalda soltanto lo spazio più piccolo […] Così pure nello spirituale l’alta

intensità del carattere, del talento, del genio, è insieme un esistere che arriva lontano, di una efficacia estesa e di un concetto multilaterale. Il più profondo concetto ha il significato e l’applicazione più universali»[85]. Inoltre, in

secondo luogo, per Hegel nella formazione dell’esperienza non si tratta tanto di un’apprensione istantanea del quantitativo, di una sintesi del fluente, ma della sua trasformazione in

rapporti; nell’elevare la sensazione al di sopra di se stessa, la quantità intensiva e quella estensiva vengono entrambe tradotte e condensate in relazioni concettuali. E questo sia perché nell’uomo, come si è detto, non esiste il

sensibile allo stato puro («L’uomo è perciò sempre pensante, anche quando intuisce; se considera un qualche cosa lo considera sempre come un universale, se fissa un singolo, lo pone in evidenza, allontanando

la sua attenzione da altro»)[86]; sia perché – contro Kant – allo spirituale compete una ben altra intensità che non quella quantitativa: «Allo spirito compete certamente l’essere, ma di una tutt’altra intensità che non quella

del quanto intensivo, anzi, di una intensità tale, che la forma dell’essere soltanto immediato e tutte le categorie di esso vi stanno come tolte. Non bisognava soltanto concedere la rimozione della categoria del

quanto estensivo, ma rimuovere addirittura quella del quanto in generale. Altra cosa è poi di conoscere come nella eterna natura dello spirito sia, e come da essa sorga, l’esistere, la coscienza, la finità, senza che lo spirito

diventi perciò una cosa»[87], Nello «spirituale» del pensiero umano il sensibile è conservato nel movimento dei rapporti, e l’esperienza si potrebbe appunto definire, da questo angolo visuale, come un

processo incessante di trasformazione dell’essere empirico e del finito in relazioni che tendono esse stesse, per la vis veri, al concetto e alla sua totalità, giacché la totalità non è una sommatoria, un cumulo

quantitativo di determinazioni, ma la loro articolazione dialettica nell’unità del concetto. La totalità è già presente implicitamente nel finito e nelle parti, che vi alludono e la cercano, allo stesso modo che il

singolo organo allude all’intero organismo e lo presuppone[88]. Il «concepirsi dello sperimentato», ossia la sua concettualizzazione, non è allora altro se non il porre in evidenza l’organizzazione implicita del finito,

visibile solo nella sua connessione e articolazione totale. In termini hegeliani, anche qui il finito ha la sua «verità» nell’insieme dei rapporti. Al livello fenomenologico, del come dalla natura dello spirito sorga il sapere

per se stesso e per la coscienza, l’Erinnerung si rivela quindi come il ricordo universalizzante dello svanire del finito nel flusso, e come possibilità di fissare il fluire dell’esperienza attraverso il ricordo in quanto ‘legge della

continuità’. Pur

nel

legame,

Lagrange aveva tenuto sempre distinti calcolo matematico ed esperienza[89], e Hegel nota che nella «moderna forma analitica della meccanica», le leggi

vengono enunciate «senza guardare se abbiano per sé in se stesse un senso reale, cui corrisponda cioè una esistenza e senza preoccuparsi di fornire di ciò una prova»[90]. In tal modo, mentre i matematici precedenti

presentavano i loro calcoli in costruzioni geometriche, ora con il metodo analitico «si dà come un trionfo della scienza, di trovare al di là dell’esperienza, per mezzo del semplice calcolo, delle leggi, cioè dei principi

dell’esistenza, i quali non hanno alcuna esistenza»[91]. Prima, con l’ausilio delle costruzioni geometriche, accadeva spesso che ciò che doveva essere dimostrato attraverso il calcolo veniva

solamente attraverso

intuìto la

raffigurazione spaziale; ora invece, col prescindere dall’esperienza, si vogliono distinguere dalla realtà le proposizioni matematiche. La «via

semplice e giusta» che Hegel sostanzialmente approva è quella di Lagrange nella Théorie des fonctions analytiques[92]: separare il «miscuglio di esperienza e riflessione» che c’è nella matematica[93] e tenere

distinti, anche se ovviamente non estranei, i suoi dominii da quelli della fisica. Finché non sia stato chiarito «il divario tra quelli che son soltanto termini dello sviluppo analitico e quelle che sono esistenze fisiche,

lo spirito scientifico non può affinarsi in modo da arrivare a condursi in maniera rigorosa e pura»[94]. Lagrange, da un lato, prende così le leggi del moto, «com’è qui legittimo, dall’esperienza, e poi vi applica la trattazione

matematica»[95]; tali leggi, infatti, «scoperte immortali che fanno il più grande onore all’analisi dell’intelletto», hanno bisogno di una conferma analitica, di una «dimostrazione non empirica […] onde si

vede che anche la scienza, che si fonda sull’esperienza, non è soddisfatta del dimostrare o mostrare meramente empirico»[96]. Dall’altro lato, presuppone l’indipendenza della trattazione matematica

e applica le funzioni alla meccanica, distinguendo, per s = ft, fra ft anche bt2, che si trova nella natura, e s = ct3, che «non si presenta nella natura»[97]. In ambedue i casi, piano fisico-empirico e piano matematico-analitico

sono tenuti distinti. Per quanto l’analisi sia una trascrizione rigorosa dell’esperienza, essa – alla pari, come vedremo, del linguaggio e delle categorie logiche – si solleva al di sopra dell’esperienza immediata e già

compiuta, e si sviluppa in forma autonoma e pura.

6. Linguaggio ed esperienza storica dei popoli Così il pane e il vino non

valgono solo per l’intelletto, non sono soltanto un oggetto; l’azione del mangiare e del bere non è

semplicemente un’unificazion avvenuta fra di loro per mezzo dell’annientam del cibo e della bevanda, né la sensazione

è quella di una semplice degustazione di essi. Lo spirito di Gesù in cui i suoi discepoli sono uno è divenuto

presente come oggetto per il sentire esterno, è divenuto un reale. Ma l’amore reso oggettivo,

questo elemento soggettivo divenuto cosa, torna di nuovo alla sua natura, ridiventata soggettivo nel

mangiare. Questo ritorno può forse da questo punto di vista essere paragonato al pensiero che

diventa cosa nella parola scritta e che con la lettura, da qualcosa di morto, da oggetto, riacquista

la sua soggettività. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino[98].

Anche il linguaggio è una soppressione del sensibile e dell’immediato, ma,

nello stesso tempo, è il prodotto e la produzione di una esperienza più alta e collettiva rispetto a quella del singolo. Nel linguaggio «l’immagine viene uccisa e la parola sta al posto dell’immagine. Il

linguaggio è la potenza umana più alta […] Il linguaggio è l’uccisione del mondo sensibile nella sua esistenza immediata»[99]. In tal modo, tuttavia, «il discorso e il sistema di questo, il linguaggio, dà alle sensazioni,

intuizioni rappresentazioni

e una

seconda esistenza, più alta di quella immediata, un’esistenza in universale, che ha vigore nel dominio della rappresentazione»[100]. Attraverso una complessa serie di

passaggi ‘notturni’, che coinvolgono l’Erinnerung, la fantasia, la memoria meccanica e la «memoria produttiva», attraverso un lungo «lavorio interno»[101], si produce il risveglio dello spirito nel regno dei nomi,

trasformati in sudditi e in servi: «Il mondo, la natura non è più un regno di immagini, interiormente tolte e che non hanno alcun essere, bensì un regno di nomi. Quel regno delle immagini è lo spirito sognante, che ha

da fare con un contenuto, che non (è) alcuna realtà, alcuna esistenza. Il risveglio dello spirito è il regno dei nomi […] L’io è dapprima in possesso dei nomi, e deve conservarli nella sua notte, come servi, che a lui

ubbidiscono»[102]. Nel «deposito generale» dell’io sono stivate le immagini che poi si traducono in segni, si manifestano come esteriorizzazione dell’interno nella loro arbitrarietà[103]. Il rapporto fra il segno e

l’intuizione ivi contenuta è quello della «piramide, nella quale si è messa e si serba un’anima straniera»[104]. La memoria, connessa all’abitudine, fissa e rielabora i segni nello «spazio» dell’io[105]. Quando il linguaggio

si costituisce nella sua autonomia dalle immagini, noi possiamo pensare, parlare e leggere senza appoggiarci a nessuna figura, senza che ci appaiano più le «fantasmagoriche rappresentazioni

notturne» delle teste insanguinate e delle bianche figure[106]. Ora, senza il sillabario dell’immaginazione, pensiamo nel nome: «Pel nome leone, noi non abbiamo bisogno né dell’intuizione di un tale animale, e neppure

dell’immagine; ma il nome, in quanto noi l’intendiamo, è la rappresentazione semplice e senza immagine. Noi pensiamo nel nome»[107]. L’io, così, in quanto «potenza dominatrice dei nomi

diversi» è «il legame vuoto, che rafforza in sé le serie di essi e le tiene in ordine fermo»[108]. Anche le immagini metaforiche sono perciò asservite, a loro volta, al sistema linguistico, che, procedendo verso il pensiero, tende a

subordinarle ai ‘legami vuoti’ e a restringere lo spazio dell’immaginazione. Ciò produce, tra l’altro, una divisione all’interno della storia del mondo: mentre infatti gli abitanti dell’Europa, della «parte razionale

della Terra», hanno sviluppato il pensiero astratto, il «legame vuoto», a spese dell’immaginazione, gli Orientali e in genere tutti i popoli extraeuropei sono ancora alla prevalenza dell’immaginazione e

della metafora[109]. La stessa scrittura geroglifica è il segno di questo restare chiusi all’immediato concreto sensibile e rappresentativo: «la scrittura per geroglifici designa le rappresentazioni

mediante spaziali; la

figure scrittura

alfabetica, invece, suoni, che sono gia essi stessi segni. Questa consiste perciò di segni di segni, e in modo da risolvere i segni concreti del linguaggio fonico, le parole, nei loro elementi

semplici, e designare questi elementi. Leibniz si è fatto traviare dal suo intellettualismo a porre come cosa molto desiderabile un completo linguaggio scritto, formato alla maniera geroglifica: il che ha luogo

parzialmente con la scrittura alfabetica (come nei nostri segni dei numeri, dei pianeti, delle materie chimiche, ecc.): dovrebbe essere una lingua universale scritta pel commercio dei popoli, e specialmente dei dotti.

Ma bisogna ritenere per contrario che il commercio dei popoli (come forse accadde in Fenicia, e accade presentemente in Kanton: si veda il Viaggio di Macartney di Staunton)[110] ha piuttosto prodotto il

bisogno della scrittura alfabetica e l’ha fatta sorgere. Inoltre, non è da pensare a un esteso linguaggio geroglifico stabile: gli oggetti sensibili, sì, sono capaci di segni permanenti; ma pei segni della spiritualità il progresso

nella coltura del pensiero, il progressivo svolgimento logico, produce vedute nuove intorno ai loro rapporti interni, e quindi intorno alla loro natura; onde da ciò dovrebbe nascere una nuova determinazione

geroglifica […] Solo al carattere stazionario della coltura spirituale cinese la scrittura geroglifica è adeguata; e inoltre, questo modo di scrittura può essere proprio solo di quella più piccola parte di un popolo, che si tiene in

esclusivo possesso della coltura spirituale […] Un linguaggio di scrittura geroglifica richiederebbe una filosofia tanto stazionaria, quanto è in generale la coltura dei cinesi»[111]. Questo genere di scrittura, con la molteplicità dei suoi

segni e con il suo carattere rigido, favorisce da un lato il monopolio della cultura e della vita spirituale in poche mani, dall’altro la lenta marcia della storia orientale, che può per Hegel essere accelerata solo dall’esterno. La

scrittura alfabetica, invece, è il supporto dello sviluppo più generale e più veloce della vita spirituale e della storia: «in essa, la parola, che è per l’intelligenza il modo più caratteristico e degno di manifestare le

sue rappresentazioni, è messa dinanzi alla coscienza e fatta oggetto della riflessione. Nel lavorio dell’intelligenza intorno a essa, la parola viene analizzata; cioè la creazione dei segni viene ridotta ai suoi pochi e semplici

elementi (i gesti originari dell’articolare). Essi sono il materiale sensibile del discorso, recato nella forma dell’universalità; il quale, in questa maniera elementare, raggiunge insieme la piena determinatezza e

purità»[112]. Infatti, «la nostra scrittura è assai semplice da imparare, in quanto noi analizziamo la lingua parlata risolvendola in circa 25 suoni (col che essa viene determinata, è limitata la quantità dei suoni possibili, e sono

eliminate le tonalità medie poco chiare); noi non dobbiamo imparare che questi segni e la loro composizione. Quando presso di noi un individuo conosce i 25 segni dei suoni ed è capace di comprenderli nel loro nesso, tutte le

scritture gli accessibili.

sono Le

rappresentazioni, invece, sono infinitamente più svariate che gli elementi che, presso di noi, compongono le parole. Per poter dire che un Cinese sa leggere, si

calcola che debba conoscere novemila segni»[113]. Inserendosi nella grande discussione contemporanea sulla natura del linguaggio che si svolgeva accanto a lui con Friedrich Schlegel, Franz Bopp,

Jacob Grimm e Wilhelm von Humboldt[114], Hegel distingue tra la «forma» grammaticale di una lingua, opera di un «istinto logico», e le sue altre manifestazioni lessicali e fonetiche. È, a prima vista, abbastanza sorprendente che il

linguaggio dei popoli più colti «abbia la grammatica più imperfetta; e che un medesimo linguaggio, in uno stadio più incolto del popolo cui appartiene, ne abbia una più perfetta che non nello stadio più

colto»[115]. Tale dato, che Hegel desume direttamente dall’opera di Wilhelm von Humboldt, Über den Dualis[116], era nel complesso il risultato delle osservazioni di molti viaggiatori e studiosi, che

modificavano in parte l’idea che i selvaggi, i barbari o i rappresentanti di civiltà stazionarie dovessero avere strutture linguistiche altrettanto imperfette[117]. Hegel fornisce di questa apparente incongruenza

la seguente spiegazione: «È un fatto provato dai monumenti che le lingue hanno raggiunto un grado di sviluppo estremamente alto già in un’età in cui i popoli che le parlavano non erano ancora evoluti: l’intelletto, evolvendosi,

aveva ampiamente

preso possesso

di questo campo teoretico […] È inoltre un fatto che, con il progredire della civilizzazione nella società e nello Stato, questo sistematico intervento dell’intelletto

si attutisce, e la lingua diviene in ciò più incolta e più povera; – ed è un fenomeno caratteristico che lo sviluppo, il quale in sé si spiritualizza generando e costituendo la razionalità, trascuri quell’esattezza ed

esaustività intellettuale, la trovi d’impaccio, e la renda superflua o almeno non indispensabile»[118]. Accade così, anche al livello della grammatica, che l’istinto della ragione prema sui confini

dell’intelletto, faccia assumere a quel «corpo del pensare» (Leib des Denkens)[119] che è il linguaggio andamenti più sciolti. Quel che di determinatezza e di precisione perde la lingua, a un determinato livello del

suo sviluppo, guadagnato

viene dal

pensiero. Certo, le «forme del pensiero sono anzitutto esposte e consegnate nel umano»[120] grammatica «sviluppata

linguaggio e la stessa e

sistematizzata, è opera del pensiero, che vi mette in luce le sue categorie»[121]. Ed è anche vero che «in tutto ciò che l’uomo fa suo si è insinuato il linguaggio; e quello di cui l’uomo fa linguaggio e ch’egli estrinseca nel

linguaggio, contiene, in una forma inviluppata e meno pura, oppure all’incontro elaborata, una categoria […] Il vantaggio di una lingua sta nell’essere ricca di espressioni logiche, proprie cioè e separate, per le determinazioni

stesse del pensiero. Fra le proposizioni e gli articoli, molti appartengono già a rapporti tali che hanno per base il pensiero. La lingua cinese, nel suo svolgimento, sembra esser andata innanzi poco o nulla, da questo

lato. Ma coteste particelle si presentano in una forma del tutto dipendente, solo un poco più separata, come aumenti, segni di flessione ecc. Molto più importante è che in una lingua le determinazioni del pensiero sian venute

a mettersi in rilievo come sostantivi e verbi, ricevendo così l’impronta dell’oggettività»[122]. Tutto questo è giusto, ma il pensiero non coincide col linguaggio, col suo corpo, ed è stato l’errore di Hamann

quello di aver compiuto questa identificazione[123]. Infatti, anche le lingue più provviste di «spirito speculativo», come il tedesco, in cui molte parole posseggono «la proprietà di aver significati non solo

diversi, ma opposti»[124], hanno pur sempre una struttura troppo rigida per poter esprimere immediatamente nuove forme di pensiero. Ovviamente il pensiero si manifesta attraverso il linguaggio, ma lo deve piegare e asservire,

dimodoché ogni nuova filosofia, pur non utilizzando una speciale terminologia, forza la grammatica, la «forma» di una lingua, fino a farne sprigionare tutte le possibilità nascoste. Ad esempio, una delle maggiori difficoltà che

la forma di alcune lingue (noi diremmo qui la sintassi) oppone al pensiero dialettico è la struttura della proposizione, nel suo aspetto di giudizio, poiché «il giudizio è una relazione identica fra soggetto e predicato. Nel

giudizio si prescinde da ciò che il soggetto ha altre determinatezze oltre a quella del predicato, come vi si prescinde da ciò che il predicato è più esteso del soggetto. Se ora il contenuto è speculativo, anche il non identico,

del soggetto e predicato, è

del un

momento essenziale; ma questo nel giudizio non è espresso. L’aspetto paradossale e bizzarro che una gran parte della filosofia moderna assume per chi non ha familiarità

col pensare speculativo, dipende spesso dalla forma del semplice giudizio, quando viene adoperata a esprimere i resultati speculativi»[125]. Per rimediare a questa unilateralità della proposizione, si

aggiunge allora «la proposizione contraria», e dopo aver affermato, ad esempio che essere e nulla sono la stessa cosa, si deve dire che essere e nulla non sono la stessa cosa, ma «così sorge un altro difetto, il difetto cioè che queste

proposizioni non son fra loro collegate, epperò presentano il contenuto soltanto nell’antinomia, mentre d’altra parte il contenuto loro si riferisce a uno stesso, e le determinazioni, che si trovano espresse nelle due proposizioni,

debbono assolutamente essere unite (unione che si può allora designare solo come una inquietudine d’incompatibili, o come un movimento)»[126]. In questo senso è da intendersi anche la metafora adorniana:

«Per usare un paragone anacronistico, le pubblicazioni di Hegel sono più film del pensiero che testi. Come l’occhio inesperto fa più fatica a trattenere i dettagli di un film rispetto a quelli di un’immagine in quiete,

lo stesso accade con i suoi scritti»[127]. Da qui le difficoltà di intendere il pensiero dialettico, la relativa inadeguatezza del linguaggio in quanto prodotto dell’«intelletto». Da qui, inoltre, la resistenza della dialettica

hegeliana a essere ricondotta a una logica formale diacronica, a una «filiazione di strutture»[128], a un calcolo proposizionale[129]. Il movimento dialettico infrange infatti per sua natura «l’ordine del

discorso»[130] attingendo al

e, novum

della storia[131], si pone esso stesso nello sviluppo del linguaggio, produce nuove forme linguistiche, sposta in avanti, con le barriere dell’intelletto, quelle della coscienza comune.

Il pensiero, in sostanza, assimila anche qui il linguaggio e lo plasma nella tradizione vivente. Per quanto riguarda la comprensione dei processi cognitivi, Jean Piaget, nel suo ultimo libro, apparso appena quattro mesi prima

della morte, Les formes élémentaires de la dialectique (Paris, 1980), giunge, per certi versi, a conclusioni innovative involontariamente simili a quelle di Hegel[132]. In lui la dialettica è una fase della ricerca (e, dal

punto di vista dell’età evolutiva, una fase tarda dello sviluppo del pensiero dell’adolescente), che si apre quando non si riescono più a risolvere i problemi in cui ci si imbatte, a eliminare cioè le antinomie e le

dissonanze cognitive che permangono in un dato insieme di teorie, ipotesi o credenze. Comincia allora l’esplorazione a tentoni di paradigmi alternativi. Le anomalie – passando gradualmente, dai margini al centro

dell’attenzione vengono allora

– viste

all’interno delle loro contraddizioni e dei loro conflitti. Dopo una tormentata rielaborazione ci si accorge infine di essere giunti a una nuova, soddisfacente teoria,

che ingloberà retroattivamente, après coup, le teorie di partenza, restringendone la vanità, ma riconoscendole come propri casi particolari. In tal modo, a cose fatte, a risultato conseguito,

sembra – aggiungo – che il percorso trovato per prove ed errori sia l’unico giusto, che costituisca una «via regia», come per Euclide il metodo seguito negli Elementi. E non solo: sembra che sia ‘sempre stato lì’, che si trattava

soltanto di vederlo con maggiore perspicacia e che ci si poteva arrivare prima. Se si considera la questione dal punto di vista dell’inizio dell’indagine, questo stesso cammino risulta tuttavia costruito,

appare come una procedura che si è mostrata efficace, una strada che ha prolungato rischiosamente se stessa, una rotta che si è scoperta quasi accidentalmente e che in seguito è, tuttavia,

diventata insegnabile e ripercorribile da altri. La dialettica si mostra così in Piaget quale soluzione creativa di antinomie, strategia per pilotare crisi di trasformazione, ponte gettato verso soluzioni capaci di spiegare e

giustificare il perché le antinomie si sono formate e di sbloccare quindi, secondo una espressione di Wittgenstein, determinati «crampi del pensiero». Anche in questo senso, Hegel ha già

prima completamente rinnovato la concezione della dialettica. Mentre, da Aristotele a Kant, essa designava soprattutto la conoscenza del probabile e dell’incerto (sillogismi dialettici sono quelli che,

partendo da premesse probabili, conducono a conclusioni probabili e sillogismi analitici sono quelli, al contrario, che, partendo da premesse certe, conducono a conclusioni certe, una posizione tradotta da Kant nella distinzione

tra Analitica trascendentale e Dialettica trascendentale), con Hegel la dialettica diventa quella mossa audace che erode le certezze e conduce, attraverso una navigazione azzardata, verso la conoscenza

«speculativa», che passa dal finito kantiano, dai limiti posti alla conoscenza di ciò che cade al di fuori dell’esperienza all’infinito speculativo, dalla analitica alla dialettica, dalla logica formale all’ontologia. Se

quindi Kant paragonava la conoscenza vera, basata sull’esperienza, al solido terreno di un’isola dai confini immutabili, in contrapposizione alla dialettica, alla metafisica, al pensiero puro (rappresentati

come un nordico mare tempestoso, pieno di nebbia e di ghiacci)[133], per Hegel l’attraversamento dell’incertezza conduce invece alle certezze della ragione speculativa[134]. L’elemento

mobile,

infido, su cui naviga la filosofia, il suo mare procelloso, è dato dal non poter presupporre alcuno stabile e certo terreno di partenza. In quanto la filosofia «non ha il vantaggio, del quale godono le altre scienze, di poter

presupporre oggetti

i

suoi come

immediatamente dati dalla rappresentazione»[135], succede che su di essa cada il discredito e l’accusa di incomprensibilità: «Alla conoscenza della verità

si contrappone la pavidità. Per uno spirito pigro è facile dire: non venga in mente di prendere sul serio il filosofare. Certo, ascoltiamo anche delle lezioni di logica, ma questo deve lasciare il tempo che trova. Si

crede che se il pensiero va oltre la sfera abituale delle rappresentazioni, prende una brutta strada; questo vorrebbe dire avventurarsi in un mare dove si è sbattuti qua e là dalle onde del pensiero e, alla fine, ci si trova sulla spiaggia di

questa temporalità che si è abbandonata per niente e niente di niente. I risultati di un tal modo di vedere sono alla luce del sole. Si possono acquisire capacità e conoscenze di ogni genere, diventare esperti

funzionari e per il resto coltivarsi per scopi particolari. Ma è cosa ben diversa formare il proprio spirito anche per ciò che è più elevato e sforzarsi di raggiungerlo»[136]. Hegel è un nuovo Cristoforo Colombo della filosofia,

un esploratore

coraggioso dei mari

ignoti della dialettica che giunge al Nuovo Mondo della «speculazione» o è invece un avventuriero della filosofia, kantianamente destinato al naufragio

che può tuttavia rivendicare per sé il detto bene navigavi nunc, cum naufragium feci?[137]

[1] Hegel, Einleitung in die

Geschichte der Philosophie, cit., pp. 159-160. [2] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., pp. 165166 (trad. it. cit., vol. I, pp. 189-190). Non sembra che Hegel – cui erano ben noti naturalisti e geologi come Buffon, Lamarck, Cuvier, Werner e Hutton – accetti qui la cronologia biblica dell’età del mondo ridotta a pochi millenni. Egli si riferisce piuttosto agli inizi delle civiltà umane, della

loro storia che – secondo gli insegnamenti di Condorcet – subisce una forte accelerazione dopo la fase in cui si passa dal nomadismo all’agricoltura. [3] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 245 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 7). [4] Ibid., p. 239 (trad. it. cit.,

vol. III, 2, p. 1). [5] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 871 (trad. it. cit., vol. IV, p. 139). [6] Ibid., p. 912 (trad. it. cit.,

vol. IV, p. 188). [7] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 242 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 4).

[8] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 855 (trad. it. cit., vol. IV, pp. 120121). [9] Cfr. Hegel, Vorlesungen über die Aesthetik, cit., vol. X2,

pp. 231-232 (trad. it. cit., p. 676): «Ma se l’arte ha rivelato da tutti i lati le concezioni essenziali del mondo contenute nel suo concetto e la cerchia del contenuto che

a esse appartiene, essa si è liberata di questo contenuto che è di volta in volta determinato per un popolo e un’epoca particolari; e il vero bisogno di riaccoglierlo si ridesta esclusivamente a quello di volgersi contro il contenuto che era finora unicamente valido così come per es., in Grecia Aristofane si è volto contro il

suo presente e Luciano contro il suo passato greco, e come in Italia e in Spagna nel declino del Medioevo Ariosto e Cervantes incominciarono a volgersi contro la cavalleria». Su Sancho Panza che – contrariamente a Don Chisciotte – non ama i misteri e preferisce farsi dare in anticipo la soluzione

degli indovinelli, cfr. Hegel, Aphorismen aus der Jenenser Periode, cit., p. 545 (trad. it. cit., p. 67 nota 46). Sull’arte, che non solo seppellisce il passato o il presente divenuto inessenziale, ma che annuncia il futuro, cfr. Philosophie der Weltgeschichte, cit., p. 869 (trad. it. cit., vol. IV, p. 137), a proposito del fiorire della pittura italiana

ai tempi di Giotto, che prelude alla conciliazione dell’arte rinascimentale in Europa: «Lo spirito, non potendo trovare soddisfazione, si costruiva mercé la fantasia immagini più belle, e di guisa più serena e libera, di quelle che offriva la realtà. In Italia sorge un’arte nuova. L’uomo ha cessato di contentarsi

solo di una pietà che non nasce da se stessa, e di lasciare d’altro canto il sensibile nella sua mera materialità: egli lo vuole ormai spiritualizzare». [10] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., pp. 888889 (trad. it. cit., vol. IV, pp. 159-160). [11] Cfr. Hegel, Vorlesungen

über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 299 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 67). [12]

Cfr. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., pp. 140 ss. (trad. it. cit., vol. I, pp. 207 ss.); Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 38 Z.

[13] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 96 (trad. it. cit., vol. I, p. 130). [14] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 402 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 180). Per l’antinewtonianesimo di Hegel, cfr. Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, pp. 353-354 (trad. it. cit., vol. I, pp. 383384); Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, §§ 266 A (trad. it. cit., pp. 228-229); 267 A (polemica indiretta, trad. it. cit., pp. 231-232); 270 A (trad. it. cit., p. 236); 270 Z; D. Dubarle, La critique de la mécanique newtonienne dans la philosophie de Hegel, in L’esprit objectif. L’unité de l’histoire, cit., pp. 113-136; E. Oeser, Der Gegensatz von Kepler und

Newton in Hegels ‘Absoluter Mechanik’, in «Wiener Jahrbücher für Philosophie», III (1970), pp. 69-93. [15] Cfr. Hegel, Enzyklopädie

der philosophischen Wissenschaften, §§ 40 (trad. it. cit., p. 45) e 415 A (trad. it. cit., p. 390). [16] Hegel, Unveröffentlichte

Vorlesungsmanuskripte, a cura

e con commento di H. Schneider, in «HegelStudien», 7 (1972), p. 17. [17] Sul significato della

querelle, cfr. le osservazioni di G. Macchia, I nani sulle spalle dei giganti, in Il paradiso della ragione, Bari, 1964, pp. 111-127 e di Paolo Rossi, I filosofi e le macchine 14001700, Milano, 1962, passim.

[18] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, pp. 258-259 (trad. it. cit., vol. III, 2, pp. 2122). [19] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 429 (trad. it. cit., vol. II, p. 298); Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, 420 Z.

[20]

Cfr. K. Korsch, L’empirismo nella filosofia di Hegel, conferenza tenuta a Berlino il 27 ottobre 1931 alla Società per la filosofia empirica pubblicato da un dattiloscritto inedito in K. Korsch, Dialettica e scienza nel marxismo, a cura di G.E. Rusconi, Bari, 1974, pp. 1141; Th.W. Adorno, Der Erfahrungsgehalt der

Hegelschen Philosophie, in Drei Studien zu Hegel, cit., trad. it. cit., pp. 83-114, per il quale inoltre la dialettica hegeliana è «lo sforzo inflessibile di costringere insieme l’autocoscienza critica della ragione e l’esperienza critica degli oggetti» (Aspekte der hegelschen Philosophie, in Drei Studien zu Hegel, trad. it.

Aspetti, in Tre studi su Hegel, cit., p. 41). Per i fraintendimenti del rapporto hegeliano fra ragione ed esperienza, valga come esempio H. Reichenbach, The Rise of Scientific Philosophy, Berkeley-Los Angeles, 1951, trad. it. di D. Parisi e A. Pasquinelli, La nascita della filosofia scientifica, III ed., Bologna, 1972, pp. 76-81. Sul

concetto di esperienza in Hegel si veda la puntuale analisi di D. Emunds, Erfahren und Erkennen. Hegels Teorie der Wirklichkeit, Frankfurt a.M., 2012, pp. 23166. [21] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 38 Z. [22] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 379 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 155). Cfr. Unveröffentlichte Diktate aus einer Enzyklopädie-Vorlesung Hegels, pubblicati a cura di F. Nicolin, in «Hegel-Studien», 4 (1969), p. 19: «L’altra strada consiste nel prendere le mosse empiricamente dalla percezione, di trovare in essa ordine, unità, leggi, e di

sollevarla a punti di vista universali. Se questa strada empirica procedesse coerente e razionale, essa elaborerebbe e preparerebbe l’esperienza della natura interna ed esterna – che è l’immagine della ragione –, così che i suoi risultati sarebbero suscettibili di essere accolti nella filosofia».

[23] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 382 (trad. it. cit., vol. III, 2, pp. 158-159). [24] Ibid., pp. 382-383 (trad.

it. cit., vol. III, 2, p. 159). [25] Cfr. Kant, Kritik der

reinen Vernunft, A 271; B 327 (trad. it. cit., vol. I, p. 268). [26] Cfr. Hegel, Vorlesungen

über

die

Geschichte

der

Philosophie, cit., vol. XV, pp. 378-379 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 154). [27] Ibid., p. 380 (trad. it.

cit., vol. III, 2, p. 156). [28] Ibid., vol. XIII, p. 54

(trad. it. cit., vol. I, p. 51). Sulla coscienza sensibile, si veda, fra l’altro, A.F. Koch, Sinnliche Gewißheit und Wahrnehmung. Die beiden

ersten Kapitel der Phänomenologie des Geistes, in Hegels Phänomenologie des Geistes, cit., pp. 135-152. Sulla questione dell’indicibile, affrontata da Hegel nella giovanile poesia Eleusis, del 1796, dedicata a Hölderlin, cfr. G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Torino, 1982, pp. 13-23. Sul peculiare senso del concetto di

«astratto» in Hegel, in relazione al saggio Wer denkt abstrakt? del periodo di Bamberga (ora in edizione critica, a cura di A. Bennholdt-Thomsen, con commento, in «HegelStudien», 5 (1969), pp. 161164 e 165-199), cfr. R. Racinaro, Sul concetto hegeliano di «astratto»: la «riconciliazione alla Kotzebue»,

in «Critica marxista», X (1972), n. 5, pp. 78-107. [29] Th.W. Adorno, Der

Erfahrungsgehalt der Hegelschen Philosophie, trad. it. cit., p. 77. [30] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 8 A (trad. it. cit., p. 11). [31] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 920 (trad. it. cit., vol. IV, p. 197). [32] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 119 A (trad. it. cit., p. 119). [33] Ibid., § 259 A (trad. it.

cit., p. 220). [34] Ibid., § 12 (trad. it. cit.,

pp. 15-16).

[35] Engels an F.A. Lange, 29

marzo 1865, in MEW, cit., vol. XXXI, pp. 467-468. Per la conoscenza dell’analisi infinitesimale da parte di Marx cfr. K. Marx, Matematiceskie rukopisi, Moskva, 1968. Hegel si era dedicato con passione allo studio della matematica fin dai primi tempi del soggiorno jenense: «Ella sa

che mi sono occupato moltissimo […] anche di matematica, e recentemente di analisi superiore, del calcolo differenziale […]» (Hegel an Paulus, 30 luglio 1814, in Briefe, vol. II, cit., p. 31, trad. it. cit., vol. II, p. 242). Popper fa dell’ironia su affermazioni simili, ritenendole frutto di millanteria, il che è falso

(cfr. K.R. Popper, The Open Society and Its Enemies, trad. it. cit., vol. II, p. 43). Dal semestre invernale 18051806 e per tre semestri di seguito – nel periodo cioè in cui componeva la Fenomenologia dello spirito – Hegel infatti insegnò aritmetica e geometria all’università di Jena, sulla base, come era l’uso, di

alcuni affermati manuali. Cfr. l’annuncio delle lezioni per il semestre 1805-1806: «Ge. Wilh. Frid. Hegel, D a) Mathesin puram, et quidem Arithmeticam ex libro: Stahls Anfangsgründe der reinen Arithmetik, 2te Auflage. Geometriam ex libro Lorenz erster Cursus der reinen Mathematik 2te Auflage» (cfr. H. Kimmerle, Dokumente zu

Hegels Jenaer Dozententätigkeit (1801-1807), in «HegelStudien», 4 (1967), pp. 55, 69, 83). I testi utilizzati sono quelli di C.D.M. Stahl, Reine Mathematik, Arithmetik und Geometrie. Parte I: Anfangsgründe der Arithmetik zum Gebrauche bey Vorlesungen, Jena-Leipzig, 18022, e J.F. Lorenz, Grundrisse der reinen und

angewandten Mathematik oder der erste Cursus der gesamten Mathematik, Helmstedt, 17982. Lorenz è l’autore della prima grande traduzione tedesca di Euclide: Euclids Elemente, aus dem Griechischen übersetzt von Johann Friedrich Lorenz. Zweyte durchhaus verbesserte Ausgabe, Halle, 1798. È da osservare, per

inciso, che l’aritmetica e la geometria, al pari della logica formale, non hanno mai rappresentato per Hegel un problema di fondazione. Come la maggior parte dei suoi contemporanei, Hegel le considerava scienze solide e chiare di per sé. Durante il suo insegnamento a Norimberga, egli aveva però progettato di pubblicare un

manuale di matematica per i ginnasi, cosa che poi non ebbe seguito: «Avrei in mente già da tempo di redigere un compendio circa il modo di svolgere l’insegnamento teoretico della geometria e dell’aritmetica nei ginnasi, perché tanto a Jena che qui ho trovato nelle mie lezioni che questa scienza, senza

mescolarvi la filosofia, che non c’entra, può essere trattata in modo più intellegibile e sistematico del solito, mentre in genere non si riesce a scorgere da dove provenga il tutto e dove sia diretto, dal momento che non vi è indicata norma teoretica alcuna» (Hegel and Niethammer, 24 marzo 1812,

in Briefe, cit., vol. I, p. 398; trad. it. cit., vol. II, p. 179). Su alcuni aspetti del rapporto di Hegel con la geometria, cfr. A.L.T. Paterson, Hegel’s early Geometry, in Hegel-Studien», voll. 39/40 (2004/2005), pp. 61-124. Su Hegel e la matematica, con particolare riguardo al calcolo infinitesimale, sono da vedere: H. Schwarz, Versuch

einer Philosophie der Mathematik verbunden mit einer Kritik der Austellungen Hegels über den Zweck und die Natur der höheren Analysis, Halle, 1853; W.R. Smith, Hegel and the Methaphysics of the Fluxional Calculus, in «Transactions of the Royal Society of Edinburgh», XXV (1869), pp. 491-511; R. Baer, Hegel und die Mathematik, in

Verhandlungen des zweiten Hegelkongresses von 18. bis 21. Oktober 1931, BerlinTübingen, 1932, pp. 104-120; M. Rehm, Hegels spekulative Deutung der Infinitesimalrechnung, Dissertation Köln, discussa il 16 dicembre 1963; D. Dubarle, La critique de la mécanique newtonienne dans la philosophie de Hegel, cit., pp.

118 ss.; V. Verra, Hegel critico della filosofia moderna: matematica e filosofia, in Enciclopedia ’72, cit., pp. 8395; N. Badaloni, Teleologia ed idea del conoscere nella logica di Hegel, cit., pp. 35-40; E. Doumit, Hegel et l’infinitésimal, in AA.VV., Les signes et leur interprètation, Lille, 1972, pp. 75-93; J.-T. Desanti, Notes sur

l’épistémologie hégélienne, in «Dialectiques», n. 1-2, settembre 1973, pp. 55-87; M. Vadée, Nature et fonction des Mathematiques et de leur histoire dans le système dialectique hégélien, in «HegelJahrbuch», 1972 [1973], pp. 33-39; J.O. Flockenstein, Hegel’s Interpretation der Cavalierischen Infinitesimalmethode, in

«Hegel-Studien», vol. suppl. 11, Bonn, 1974, pp. 117-124; T. Pinkard, Hegel’s Philosophy of Mathematics, in «Philosophy and Phenomenological Research», 41 (1981), pp. 452464; A. Moretto, Hegel e la ‘matematica dell’infinito’, Trento, «Quaderni di Verifiche 8», 1984; P. Ziche, Mathematische und

Naturwissenschaftliche Modelle in der Philosophie Schellings und Hegels, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1996. Più in generale si veda Ch. Houzel, Philosophie et calcul de l’infini, Paris, 1976. [36] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 306 (trad. it. cit., vol. I, p. 333). [37] Ibid., vol. I, p. 241 (trad.

it. cit., vol. I, p. 266). [38] Sullo sviluppo delle

matematiche in questo periodo e sui problemi teorici del calcolo infinitesimale, cfr. J.-B. Delambre, Rapport historique sur les progrès des sciences mathématiques depuis 1789, Paris, 1810; L. Geymonat, Storia e filosofia del calcolo infinitesimale moderno,

Torino, 1947; O. Toeplitz, Die Entstehung der Infinitesimalrechnung, Berlin, 1949; C.B. Boyer, The History of the Calculus and its Conceptual Development, New York, 1949; N. Bourbaki (pseudonimo di un gruppo di matematici, fra cui Cartan, Dieudonné, A. Weyl ecc.), Éléments d’histoire des mathématiques, Paris, 1960,

trad. it. di M.L. Vesentini Ottolenghi, Elementi di storia della matematica, Milano, 1963, pp. 161-211; H. Cohen, Das Prinzip der Infinitesimalrechnung und seine Geschichte, ristampa, Frankfurt a.M., 1968; I. Grattan-Guiness, The Development of the Foundation of the Mathematical Analysis from Euler to Riemann,

Cambridge, Mass., 1970; G. Birkhoff, A Source Book in Classical Analysis, Cambridge, Mass., 1973. [39] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 241 (trad. it. cit., vol. I, p. 266). [40] Ibid., vol. I, p. 240 (trad.

it. cit., vol. I, pp. 264-265). [41] Cfr. d’Alembert, Sur les

principes métaphysiques du

calcul infinitésimal, in Mélanges de littérature, d’histoire et de philosophie, nuova edizione, Amsterdam, 1768, t. V, pp. 207-219 (non risulta tuttavia che Hegel avesse una conoscenza diretta di questo scritto mentre è assai verosimile che conoscesse di d’Alembert le voci Différentiel e Limite dell’Encyclopédie); J.L.

Lagrange, Théorie des fonctions analytiques, Paris, 1797 (ora anche in Œuvres, t. IX, Paris, 1881, di questa prima edizione del 1797 uscì subito una traduzione tedesca: J.-L. Lagrange, Théorie der analytischen Funktionen…, Berlin, 17981799; anche della seconda edizione francese del 1813 uscì la traduzione tedesca

nel 1823, cfr. A.L. Crelle, Lagranges mathematische Werke, vol. I, Berlin, 1823); L.N.M. Carnot, Réflexions sur la métaphysique du calcul infinitésimal, Paris, 1797 (trad. tedesca: L.N.M. Carnot, Betrachtungen über die Theorie der Infinitesimalrechnung, Frankfurt a.M., 1800). Di Carnot Hegel possedeva anche Neue Eigenschaften der

Vierecke. Mit einer Kupfertafel. Frei aus dem Französische übersetzt… von Karl Friedrich Schelling, Dresden, 1802. Su Lagrange come uno degli iniziatori del calcolo simbolico, cfr. L.A. Lusternik e S.S. Petrova, Les premières étapes du calcul symbolique, in «Revue d’histoire des sciences», XXV (1972), pp. 202 ss. Devo alla

cortesia dei colleghi dello «Hegel-Archiv» di Bochum la conoscenza anticipata della lista dei libri della biblioteca privata di Hegel (non tutti, ma quelli che erano stati venduti all’asta): Verzeichniß der von dem professor Herrn Dr. Hegel und dem Dr. Herrn Seebeck hinterlassenen BücherSammlungen […], Berlin, Gedruckt bei G.F. Müller,

1832. Mancano in questa lista quelli che riguardano il calcolo infinitesimale e che Hegel ha comunque letto e citato. Si vedano, in ordine cronologico rispetto alla data di pubblicazione: G.-F.A. de L’Hospital, Analyse des infiniment petits, pour l’intelligence des lignes courbes, Paris, 1696 (II ed. 1716); L. Euler, Einleitung in die

Analysis des Unendlichen, tradotto da Michelsen, 3 voll. Berlin, 1788-1791; Id., Differentialrechnung, 2 voll., tradotto da Michelsen, Berlin, 1790-1793; J.Ph. Grüson, Supplement zu Eulers Differential, Berlin, 1798; S.F. Lacroix, Traité du calcul différential et du calcul intégral, Paris, An VIII [1800]; J.-L. Lagrange, Traité des

différences et des series, Paris, An VIII [1800]; C. Bunzengeiger, Über die wahre Darstellung des DifferentialCalculs, Ansbach, 1808; J.-L. Lagrange, Traité de la résolution des équations numeriques de tous les degrès…, Paris, 1808; F.W. Spur, Neue Prinzipe des Fluentcalculs, Brauschweig, 1826.

[42] Cfr. Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. I, pp. 250251 (trad. it. cit., vol. I, pp. 275-276): «L’esempio matematico, con cui egli illustra (Epist. XXIX) [nella numerazione odierna è la XII] il vero infinito è uno spazio fra due circoli diseguali, l’uno dei quali cade dentro l’altro senza toccarlo, e che non sono

concentrici […] “I matematici dic’egli, concludono che le ineguaglianze, che son possibili in un tale spazio, sono infinite, non già a cagione dell’infinita moltitudine delle parti, perocché la sua grandezza è determinata e limitata e io posso porre simili spazi più grandi e più piccoli ma

perché la natura della cosa sorpassa ogni determinazione”». Cfr. Spinoza, Epistulae, in Opera, cit., vol. IV, trad. it. di A. Droetto, Epistolario, Torino, 1951, pp. 82-83. Hegel aveva aiutato Paulus nell’edizione delle opere di Spinoza – Benedicti de Spinoza operae quae supersunt omnia…, Jena, 1802-1803, controllando le

traduzioni francesi, cfr. K. Rosenkranz, Hegels Leben (trad. it. cit., p. 533). Per un succinto e chiaro inquadramento del problema dell’infinito, cfr. P. Zellini, Breve storia dell’infinito, Milano, 19932. [43] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 256 (trad. it. cit., vol. I, p. 282).

[44] Cfr. Hegel, Wissenschaft

der Logik 1812, cit., p. 42: «Queste grandezze sono nel loro svanire, ma non prima del loro svanire e neppure dopo, perché altrimenti sarebbero grandezze finite». È da tener presente che nella Wissenschaft der Logik del 1812 – a prescindere dalle aggiunte e correzioni minori – mancavano, rispetto alla

seconda edizione che Hegel ebbe il tempo di curare, poco prima della morte, le note II e III della Sez. II, Quantità, cap. II, Il Quanto (corrispondenti a Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, pp. 278-322, cfr. trad. it. cit., vol. I, pp. 305-350). Dall’ampiezza della trattazione si può vedere quale importanza centrale

avesse per Hegel il calcolo, e come sia quindi inadeguato considerare queste parti della Wissenschaft der Logik come un semplice excursus che squilibra l’insieme. Tale, ad esempio è la posizione di H. Rademaker, Hegels objektive Logik. Eine Einführung, Bonn, 1969, pp. 46 ss. (sulla quale cfr. V. Verra, Hegel critico della

flosofia moderna: matematica e filosofia, cit., p. 88). [45]

Cfr. Marquis de L’Hospital, Analyse des infiniment petits, cit. (è il primo trattato di calcolo differenziale pubblicato, in buona parte un plagio dell’opera di Johann Bernoulli, composta nel 1691, ma rimasta poi inedita fino al 1924: J. Bernoulli, Die

Differentialrechnung, Leipzig, 1924); Ch. Wolff, Der Anfangs-Gründe aller mathematischen Wissenschaften letzter Theil, welcher so wohl die gemeine Algebra, als die Differential = und Integral = Rechnung… in sich begreift…, Halle, 1750. Cfr. Hegel, Logik-MetaphysikNaturphilosophie, in Jenaer Systementwürfe II, cit., p. 18;

Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, pp. 259-260 (trad. it. cit., vol. I, pp. 285-286). [46] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 276 (trad. it. cit., vol. I, p. 304). [47] Cfr. Ch. Wolff, Der

Anfangs-Gründe aller mathematischen Wissenschaften letzter Theil, cit., pp. 1800 ss.

[48] Nouveaux Mémoires de

l’Académie Royale des Sciences et Belles Lettres, Berlin, 1784, p. 12. Sulla figura e il ruolo di Lagrange nella cultura dell’epoca, cfr. J.J. Virey, Précis historique sur la vie et la mort de Joseph-Louis Lagrange, Paris, 1813, e M.T. Borgato e L. Pepe, Lagrange. Appunti per una biografia scientifica, Torino, 1990.

[49] Anche le Réflexions sur

la métaphysique du calcul infinitésimal di Carnot erano state scritte in origine in vista del concorso berlinese (al quale non furono poi presentate). Nel settembre 1822 Hegel andò a trovare il vecchio Carnot, a Magdeburgo, cfr. Hegel an seine Frau, 15 settembre 1822, in Briefe, vol. II, cit., p.

340 e K. Rosenkranz, Hegels Leben (trad. it. cit., p. 821): «A Magdeburgo non poté fare a meno di visitare Carnot, che viveva in esilio in quella città, e di rallegrarsi per l’amichevole accoglienza fattagli da questo eroe della Rivoluzione, dell’Impero e della scienza». [50] N. Bourbaki, Éléments

d’histoire des mathématiques,

trad. it. cit., p. 209. [51]

Buona parte delle ricerche di questi autori si svilupparono mentre Hegel era ancora in vita. L’impulso determinante fu dato da A.L. Cauchy con il Cours d’analyse de l’École Royale Polytechnique, I. Partie: Analyse algébrique, Paris, 1821, e con il Résumé des leçons… sur le calcul infinitésimal, Paris, 1823. Sul

rapporto tra Hegel e Cauchy, cfr. M. Wolff, Hegel und Cauchy. Eine Untersuchung zur Philosophie und Geschichte der Mathematik, in Hegels Philosophie der Natur. Veröffentlichungen der Internationalen HegelVereiningung. vol. 15, a cura di R.-P. Horstmann e M.J. Petry, Stuttgart, 1986, pp. 197-263. A Berlino Hegel

strinse amicizia con il matematico E.H. Dirksen, autore di una Analytische Darstellung der Variationsrechnung, pubblicata nel 1823, e di un articolo sui «Berliner Jahrbücher» del 1827, scritto forse su invito di Hegel, che di fatto dirigeva la rivista (cfr. Hegel an Van Ghert, 10 agosto 1823, in Briefe, vol. III,

cit., pp. 22-23; Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, p. 272, trad. it. cit., vol. I, p. 299), ma non sembra che abbia recepito nulla di questi sviluppi dell’analisi infinitesimale. Per lui ormai Lagrange e Carnot rappresentavano quasi una «figura» nello svolgimento dell’analisi. Su Cauchy e la disputa sulla priorità

rispetto a Bolzano di alcune scoperte, cfr. H. Sinaceur, Cauchy et Bolzano, in «Revue d’histoire des sciences», XXVI (1973), pp. 97-112. Di Gauss Hegel possedeva però, in altri campi della matematica, le Theorematis fundamentalis in doctrina de residuis quadracticis demonstrationes et ampliationes novae,

Göttingen, 1818 e l’Allgemeine Auflösung der Aufgabe: die Theile einer gegebenen Fläche… in kleinsten Theilen ähnlich wird. Als Beantwortung der von der Königlichen Societät der Wissenschaften in Copenhagen für 1822 aufgegebenen Preisträger. [52] Cfr. Hegel an Van Ghert,

18 dicembre 1812, in Briefe,

cit., vol. I, p. 426 (trad. it. cit., vol. II, p. 209): «Per penetrare più profondamente in questo campo [l’astronomia] si esige prontezza nel calcolo differenziale e integrale, in particolare secondo le nuove esposizioni francesi». [53] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 268 (trad. it. cit., p. 296).

[54] Ibid., vol. I, p. 309 (trad.

it. cit., vol. I, p. 336). [55] Cfr. J.-T. Desanti, Notes

sur l’épistémologie hégélienne, cit., p. 83. Sullo sviluppo del problema in Fourier, cfr. I. Grattan-Guiness (in collaborazione con J.R. Ravotz), Joseph Fourier, 17681830, Cambridge, Mass., 1972, passim. Sulla forma seriale dell’analisi in

Newton, cfr. Ph. Kitscher, Fluxions, Limits and Infinite Littleness, in «Isis», LXIV (1973), n. 221, pp. 33-49. [56] Cfr. J.-T. Desanti, Notes

sur l’épistémologie hégélienne, cit., p. 78. [57] B. Bolzano, Paradoxien

des Unendlichen, Leipzig, 1851, trad. it. di C. Sborgi, I paradossi dell’infinito, Milano,

1965, p. 10. [58] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, cit., § 257 Z. Sulla quarta dimensionetempo in rapporto a Lagrange e a Hegel, cfr. A.M. Bork, The Fourth Dimension in Nineteenth-Century Physics, in «Isis», LV (1964), n. 181, p. 327 e M.J. Petry, Hegel’s Philosophy of Nature, cit., vol.

I, p. 314. [59] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, pp. 246-251 (trad. it. cit., vol. I, pp. 271277). [60] Ibid., vol. I, p. 269 (trad.

it. cit., vol. I, p. 297). [61] Cfr. ibid., vol. I, pp. 236

ss. (trad. it. cit., vol. I, pp. 261 ss.).

[62]

Hegel, LogikMetaphysik-Naturphilosophie, in Jenaer Systementwürfe II, cit., pp. 17, 18. Cfr. Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, p. 236 (trad. it. cit., vol. I, p. 261): «Il quanto infinito, come infinitamente grande o infinitamente piccolo, è esso stesso in sé progresso infinito; è quanto perciò ch’è un grande o un piccolo, ed è

in pari tempo non essere del quanto. L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo son quindi figure della rappresentazione, che a una considerazione più particolare si danno a vedere come vana nebbia e ombra». [63]

Hegel, LogikMetaphysik-Naturphilosophie, in Jenaer Systementwürfe II, cit., p. 36. Per un commento

alla logica hegeliana del 1804/1805 si veda C. Meazza, L’occhio e il testimone: dalla logica alla fenomenologia in Hegel, Pisa, 1992, in particolare pp. 101-130. [64] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 244 (trad. it. cit., vol. I, p. 269). [65] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., pp. 14-15

(trad. it. cit., vol. I, pp. 8-9). [66] Hegel, Philosophie des

Rechts, cit., Vorrede, p. 9 (trad. it. cit., Prefazione, pp. 8-9). [67]

Sul concetto di rivoluzione nel mondo antico e in termini comparativi, si vedano questi due testi ormai classici: H. Ryffel, Metabolé politeion. Der Wandel der

Staatsverfassungen, Bern, 1949; H. Arendt, On Revolution, New York, 1965, trad. it. Sulla rivoluzione, Milano, 1983, passim e, per una messa a punto della questione, L. Bertelli, Metabolè politeion, in «Filosofia politica», III (1989), pp. 275-326. Per i prodigi che annunciano i grandi mutamenti politici basterà

ricordare, fra i tanti passi, quelli di Plutarco per la morte di Cesare e di Tacito per la guerra civile fra Galba, Otone e Vitellio, cfr. Plutarco, Caes., 63, trad. it. di C. Carena, Cesare, in Plutarco, Vite parallele, 2 voll. Torino, 1958, vol. II, p. 348: «Ma il destino sembra che si possa più facilmente prevedere, che evitare. Segni

e visioni miracolose si dice che siano apparse durante quei giorni. Luci che brillarono nel cielo, fragori che durante la notte trascorsero un po’ dappertutto, uccelli solitari che vennero a posarsi nel Foro […] il filosofo Strabone dice che si videro intere folle d’uomini correre in preda al fuoco; e che lo schiavo di un

soldato gettò una lunga fiammata dalla mano, tanto che gli astanti credettero bruciasse, e invece quando il fuoco si spense, videro che non aveva riportato nessun danno. Cesare stesso fece un sacrificio e non trovò il cuore della vittima: prodigio terribile, dice Strabone, poiché in natura non esistono animali cui manchi

il cuore». E cfr. Tacito, Hist., I, 3. trad. it. di C. Giussani, Storie, in Opere, Torino, 1968, p. 545: «E a codesto turbine di umani eventi, aggiungi i prodigi del cielo e della terra, le minacce della folgore, i presagi del futuro, lieti o tristi, misteriosi o palesi; né mai con più terribili colpi al popolo romano, mai con più eloquenti segni apparve

manifesto che gli dèi, non di proteggerci hanno cura, ma di punirci». Sul moderno concetto di rivoluzione, cfr. in particolare, K. Griewank, Der neuzeitliche Revolutionsbegriff, Jena, 1955, trad. it. Il concetto di rivoluzione nell’età moderna, Firenze, 1979. [68] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 381 (trad.

it. cit., vol. I, p. 411). [69] Cfr. soprattutto G.

Della Volpe, Logica come scienza positiva, MessinaFirenze, 19562, pp. 113 ss.; M. Rossi, Introduzione alla storia delle interpretazioni di Hegel, Messina, 1953, pp. 71 ss.; L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Introduzione a V.I. Lenin, Quaderni filosofici, Milano, 1958, pp. XI-XXVI; N. Merker,

Le origini della logica hegeliana, Milano, 1961, passim. [70]

Come date convenzionali si possono scegliere, appunto, il 1948 (Convegno di studi hegelianomarxisti presso l’Istituto di filosofia del diritto dell’università di Roma, con la partecipazione, oltre che di Della Volpe, di Massolo, Panzieri, Spirito, S.

Timpanaro senior ecc.; cfr. gli atti sul «Costume politico-letterario», maggio ottobre 1948, ora riprodotti in «Studi urbinati», nuova serie B, XLI (1967), pp. 183248) e il 1962 (discussione del rapporto Hegel-Marx fra studiosi marxisti sulle colonne di «Rinascita»). Su questi punti e le loro implicazioni, cfr. anche L.

Ricci Garotti, Interpreti italiani di Hegel nel dopoguerra, in Heidegger contra Hegel, Urbino, 1965, pp. 113 ss.; M. Rossi, Galvano della Volpe: dalla gnoseologia critica alla logica storica, in «Critica marxista», VI (1968), n. 4-5, pp. 186 ss.; N. Badaloni, Il marxismo italiano degli anni sessanta, Roma, 1971, pp. 31 ss.

[71] È una tendenza questa

che, sotto la pressione della realtà storica e la mediazione culturale della Scuola di Francoforte e di una nuova lettura di Marx, si è avvertita anche in Italia fin dagli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, cfr. B. De Giovanni, Hegel e il tempo storico della società borghese, cit., pp. 183 ss. e Id.,

Prefazione a F. Papa, Logica e Stato in Hegel, Bari, 1973, pp. 12-17. Sulla diffusione di analoghe interpretazioni in Francia cfr. L. Marino, Recenti studi hegeliani in lingua francese, in «Rivista critica di storia della filosofia», XXIX (1974), pp. 57 ss. [72]

Cfr. R. Bodei, «Tenerezza per le cose del mondo»: sublime, sproporzione

e contraddizione in Kant e in Hegel, in Hegel interprete di Kant, a cura di V. Verra, Napoli, 1981, pp. 181-218. [73] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 117 (trad. it. cit., vol. I, pp. 128-129). La negazione del carattere perituro del finito e l’immagine stessa dell’evanescenza graduale e dell’infinitamente piccolo è

anche un modo per esorcizzare il nascere e il perire, la dialettica qualitativa e la distruzionecreazione che la accompagna. Cfr. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, pp. 383-384 (trad. it. cit., vol. I, pp. 413-414): «Ogni nascita e morte, invece di essere un continuo A poco a poco, sono anzi un troncarsi

dell’A poco a poco e il salto dal mutamento quantitativo nel mutamento qualitativo […] La gradualità del nascere si basa sull’immaginarsi che ciò che nasce esista già sensibilmente o, in generale, realmente, e che solo a cagione della sua piccolezza non sia ancora percepibile; parimenti nella gradualità del perire si suppone che il

non essere o l’altro che subentra in luogo di ciò che perisce esista pur esso, ma soltanto non sia ancora osservabile […] Con ciò si toglie via in generale il nascere e il perire». Il salto qualitativo ha per Hegel anche un significato politico, poiché mutamenti qualitativi, si verificano nello Stato quando si supera

una determinata soglia quantitativa, cfr. Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, p. 384 (trad. it. cit., vol. I, p. 414) e C. Schmitt, Le categorie del politico, saggi raccolti per l’edizione italiana e trad. it. di P. Schiera, Bologna, 1972, pp. 146-147. [74] Hegel, Wissenschaft der

Logik, vol. I, p. 118 (trad. it.

cit., vol. I, p. 130). [75] Ibid., vol. I, pp. 136-137

(trad. it. cit., vol. I, p. 151). [76] Ibid., vol. I, pp. 145-146

(trad. it. cit., vol. I, pp. 159160). [77] Sul rapporto spirito-

lavoro, cfr. B. Lakebrink, Geist und Arbeit im Denken Hegels, in «Philosophisches Jahrbuch», LXX (1962), pp.

107-108. [78] Adorno ha spesso

rilevato l’analogia esistente in Hegel tra «lavoro» e «spirito»: «Il primato del logos fu sempre un pezzo di morale del lavoro. […] Infatti in ogni pensiero c’è anche quel momento di sforzo violento – riflesso del bisogno vitale – che caratterizza il lavoro; fatica e

sforzo del concetto non sono metaforici» (Adorno, Drei Studien zu Hegel, trad. it. cit., p. 52). Non sempre, tuttavia, Hegel idealizza il lavoro e gli dà un significato positivo. All’interno della società civile, inoltre, esso non ha per lui un valore autonomo, ma dipende dalle leggi dello Stato. Per un approfondimento di questi

temi, cfr. R. Bodei, Hegel e l’economia politica, cit., pp. 2977. [79] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 258 (trad. it. cit., vol. I, p. 284). [80] Ibid. Nel porre in

evidenza questo passo, Badaloni nota: «[…] per Hegel la coscienza sensibile assume il suo significato

nell’atto del suo svanire entro la rete dei rapporti che la penetrano. La immaginazione sensibile non è il contrario del vero, ma invece essa è la manifestazione evanescente di eventi che assumono il loro significato solo in nesso al reticolo delle forme e, fuor di questo, svaniscono […] Tutta la teoria hegeliana

dell’esperienza ha alle sue spalle questa riduzione» (N. Badaloni, Teleologia ed idea del conoscere nella logica di Hegel, cit., p. 39). [81] Hegel, Philosophische

Propädeutik, in Werke, a cura di H. Glockner, vol. III, Stuttgart, 19583, § 159, p. 211 (trad. it. di G. Radetti, Propedeutica filosofica, Firenze, 1951, p. 225).

[82] Kant, Kritik der reinen

Vernunft, B 207 (trad. it. cit., vol. I, p. 183). [83] Ibid., A 270, B 211-212

(trad. it. cit., vol. I, p. 186). Su questo punto, cfr., in particolare, L. Scaravelli, Saggio sulla categoria kantiana della realtà, Firenze, 1947 (ora, col titolo Kant e la fisica moderna, in L. Scaravelli, Scritti kantiani, Firenze, 1973,

pp. 5-189) e C. Luporini, Spazio e materia in Kant, Firenze, 1961, pp. 205 ss. (anche sul rapporto fra grado e analisi infinitesimale). Cfr. anche G. Mihaud, La connaisance mathématique et l’idéalisme transcendental, in «Revue de Métaphysique et de Morale», XII (1904), pp. 393 ss., e G. Böhme, Über Kants

Unterscheidung von extensiven und intensiven Grössen, in «Kant-Studien», LXV (1974), fasc. 3, pp. 239-259. [84] Cfr. L. Scaravelli, Kant e

la fisica moderna, cit., pp. 38 ss., 87 ss. [85] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, pp. 219-220 (trad. it. cit., vol. I, pp. 241242).

[86] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 24 Z 1. [87] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, pp. 220-221 (trad. it. cit., vol. I, p. 244). [88]

Cfr. L. Landgrebe, Hegels Systembegriff, in Phänomenologie und Geschichte, Gütersloh, 1968, trad. it. di M. von Stein,

Fenomenologia e storia, Bologna, 1972, pp. 84 ss. Si tratta di un concetto chiaramente aristotelico, cfr. Aristotele, Politica, I, 1253 a, trad. it. di R. Laurenti, Bari, 1966, pp. 9-10: «il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla parte, infatti, soppresso il tutto, non ci sarà più né piede né mano se non per analogia verbale,

come se si dicesse una mano di pietra (tale sarà senz’altro una volta distrutta)». Cfr. il passo in Hegel, col relativo commento, in Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIV, p. 354 (trad. it. cit., vol. II, p. 371). [89]

Sul rapporto matematica-esperienza in Lagrange, cfr. A.L. Crelle,

Lagranges mathematische Werke, vol. I, cit., p. 572; M.J. Petry, Hegel’s Philosophy of Nature, cit., vol. I, p. 337. [90] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 276 (trad. it. cit., vol. I, p. 303). [91] Ibid. [92] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 267 A (trad.

it. cit., p. 231); cfr. J.L. Lagrange, Théorie des fonctions analytiques, cit., parte III, cap. I, art. 4. [93] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 277 (trad. it. cit., vol. I, p. 305). [94] Ibid. [95] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 267 A (trad.

it. cit., p. 232). [96] Ibid. (trad. it. cit., p.

230). La posizione hegeliana sul rapporto esperienzateoria è in sostanza questa: «Il vero problema consiste nel far sì che le due operazioni, lo svolgimento del particolare dall’idea, e la sussunzione del particolare sotto l’universale, si vengano incontro. I

fenomeni del mondo fisico e spirituale debbono incominciare, sotto il loro aspetto particolare, a essere elaborati e avviati a concetto, perché le altre scienze possano ricavarne leggi e principi generali: soltanto allora la ragione speculativa può esprimersi nei pensieri determinati, e recare compiutamente a

coscienza il loro nesso, che è interiore» (Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIV, pp. 375-376, trad. it. cit., vol. II, p. 394). Ma nella matematica la teoria va distinta dall’esperienza. [97] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 267 (trad. it. cit., p. 232). Per un refuso,

nella traduzione italiana c’è s = ct2, invece di s = ct3. Su queste funzioni di Lagrange cfr. anche Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, p. 266 nota (trad. it. cit., vol. I, p. 294 nota). [98] Hegel, Der Geist des

Christentums und sein Schicksal, in Theologische Jugendschriften, cit., p. 299 (trad. it. cit., p. 412).

[99] Hegel, Philosophische

Propädeutik, cit., § 159, p. 211 (trad. it. cit., p. 225). Sul problema del linguaggio in Hegel, cfr. J. Simon, Das Problem der Sprache bei Hegel, cit., assai dettagliato; K. Löwith, Hegel und die Sprache, in Vorträge und Abhandlungen. Zur Kritik der christlichen Überlieferung, Stuttgart, 1966, pp. 97-118; T.

Bodammer, Hegels Deutung der Sprache. Interpretationen zu Hegels Äusserungen über die Sprache, Hamburg, 1969; M. Zuefle, Prosa der Welt. Die Sprache Hegels, Einsiedeln, 1968; I. Fetscher, Hegels Lehre vom Menschen, cit., pp. 170 ss. [100] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 459 A (trad.

it. cit., p. 420). Per un commento e per le fonti di questa problematica, cfr. Hegel, Philosophie des subjektiven Geistes, trad. e cura di M.J. Petry, 3 voll. Dordrecht, 1978. [101] Ibid., §§ 453-457. Su

questi nessi, cfr. J. Habermas, Arbeit und Interaktion. Bemerkungen zu Hegels «Jenenser Philosophie

des Geistes», in Technik und Wissenschaft als «Ideologie», Frankfurt a.M., 1966, pp. 947; V. Verra, Storia e memoria in Hegel, cit., pp. 344 ss. Nella sua biblioteca Hegel aveva anche un libro di mnemotecnica: A.L. Kästner, Mnemonik oder die Gedächtniskunst der Alten systematisch gearbeitet, Leipzig, 18052.

[102]

Hegel, Jenenser Realphilosophie II, cit., pp. 184, 186 (trad. it. cit., pp. 110, 112). [103]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, §§ 455-458. Come osserva M. Rossi, Hegel definisce il segno willkürlich, ossia arbitrario, e non convenzionale, secondo la

tradizione (cfr. M. Rossi, Hegel e l’enciclopedia delle scienze, cit., p. 178). Sul rapporto tra memoria e linguaggio, cfr. G. Cantillo, Natura umana e senso della storia, Napoli, 2005, pp. 9-38. [104] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 458 A (trad. it. cit., p. 419). Su questo punto e su questa

immagine, cfr. J. Derrida, Le puits et la pyramide, cit., pp. 27 ss. Si veda, inoltre, Hegel, Philosophie der Weltgeschichte, cit., pp. 492 ss. (trad. it. cit., vol. II, pp. 265 ss.). [105] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 463 (trad. it. cit., p. 427). [106] Cfr. sopra, p. 87.

[107] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 462 A (trad. it. cit., p. 426). [108] Ibid., § 463 (trad. it.

cit., p. 427). [109]

Cfr., ad esempio, Hegel, Vorlesungen über die Aesthetik, cit., vol. X1, pp. 544-545 ss. (trad. it. cit., pp. 464 ss.); Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 573 A (trad. it. cit., pp. 519 ss.). [110] Des Grafen Macartney

Gesandschaftsreise nach China… in den Jahren 1792 bis 1794…, von sir Georg Staunton, trad. dall’inglese, 3 voll. Berlin, 1797-1799. Sir George Staunton era segretario di Macartney durante l’ambasciata in

Cina. Il testo esisteva nella biblioteca di Hegel nell’edizione Zürich, 179899. [111] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 459 A (trad. it. cit., pp. 421-422, 424). Hegel trae le sue nozioni sulla lingua e la cultura cinese soprattutto dal grande sinologo francese

Abel Rémusat, che insegnava il cinese al Collège de France ed era stato fondatore della Società Asiatica di Parigi (Hegel lo conobbe personalmente e fu da lui invitato a una seduta della Académie des Inscriptions, cfr. Hegel an seine Frau, 19 settembre 1827, in Briefe, vol. III, cit., p. 189) e dall’opera di W. von

Humboldt, Lettre à M. Abel Rémusat sur la nature des formes grammaticales en général et sur le génie de la langue chinoise en particulier, Paris, 1827. Per quanto riguarda l’interesse dell’epoca per la lingua e la cultura dell’Oriente, cfr. Th. Benfey, Geschichte der Sprachwissenschaft und orientalischen Philologie in

Deutschland, München, 1869, e R. Gérard, L’Orient et la Pensée romantique allemande, Nancy, 1963; R.F. Merkel, Herder und Hegel über China, in «Sinica», XVII (1942), pp. 11 ss.; J. Schinckel, Hegels China. China Hegels, in Aktualität und Folgen der Philosophie Hegels, a cura di O. Negt, Frankfurt a.M., 1970, pp. 183-194; D. De Pretto,

Oriente assoluto. India, Cina e «mondo buddista» nell’interpretazione di Hegel, Milano-Udine, 2011. In relazione poi all’antico Egitto e ai geroglifici, c’è appena il bisogno di ricordare l’attualità della questione, sia per la recente decifrazione (1822) di tale scrittura, da parte di Champollion, sia per le

polemiche seguitene, cfr. M. Brown, Aperçu sur les hiéroglyphes d’Egypte et les progrès faits jusqu’à présent dans leur déchiffrement, traduzione dall’inglese, Paris, 1827; H. Hartleben, Champollion, sein Leben und sein Werk, Berlin, 1906, passim; B. Bravo, Philologie, Histoire, Philosophie de l’histoire. Étude sur J.G.

Droysen historien de l’antiquité, Wroclaw-Varsovie-Cracovie, 1968, pp. 191-205, per il quale rinvio alla mia recensione, in «Rivista di filologia e di istruzione classica», 98 (1970), pp. 483490. [112] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 459 A (trad. it. cit., pp. 422-423).

[113] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 314 (trad. it. cit., vol. II, p. 59). [114] Già Friedrich Schlegel,

in Über die Sprache und Weisheit der Indier, Heidelberg, 1808, aveva posto l’accento sulla grammatica come forma organica del linguaggio. In seguito Franz Bopp, collega di Hegel a Berlino, e Jacob

Grimm avevano fondato la grammatica storica e comparata (per Grimm si veda H. Jendreieck, Hegel und Jacob Grimm, Berlin, 1975); cfr. F. Bopp, Über das Conjugationssystem, Frankfurt a.M., 1816; Id., Vergleichende Grammatik, Berlin, 1833; J. Grimm, Deutsche Grammatik, vol. I, Göttingen, 1819; S. Lefman, Franz Bopp, sein

Leben und seine Wissenschaft, in appendice a W. von Humboldt, Briefwechsel mit Bopp, Berlin, 1897. Ma fu soprattutto Humboldt a distinguere tra la «forma» di una lingua e il suo «carattere». Sulla filosofia del linguaggio del tempo, la figura di Humboldt e la discussione sulla natura delle singole lingue, cfr. E.

Fiesel, Die Sprachphilosophie der deutschen Romantik, Tübingen, 1927; L. FontaineDe Visscher, La pensée du language comme forme. La «forme intérieure» du language chez W. von Humboldt, in «Revue philosophique de Louvain», terza serie, LXVIII (1970), pp. 449-472; Id., La notion de ‘grammaire’ chez W. von Humboldt, in «Revue

philosophique de Louvain», LXXV (1977), pp. 436-452; O. Hansen-Love, La Révolution copernicienne dans l’oeuvre de Wilhelm von Humboldt, Paris, 1972; S. Timpanaro, Il contrasto fra i fratelli Schlegel e Franz Bopp sulla struttura e la genesi delle lingue indoeuropee, in «Critica storica», nuova serie, X (1973), pp. 553-590 (che pone in luce anche il

rapporto tra grammatica comparata e anatomia comparata di Cuvier in Friedrich Schlegel). [115] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 459 A (trad. it. cit., p. 421). [116] Cfr. ibid. e W. von

Humboldt, Über den Dualis, Berlin, 1828, I, 10, 11 (ora in

Gesammelte Schriften, a cura della Königlich-preussische Akademie der Wissenschaften, Berlin, 1903 ss., vol. VI, pp. 4-30). W. von Humboldt polemizza qui contro coloro che disprezzavano le lingue dei «selvaggi» in quanto legate «alla stupidità dell’esistenza naturale» e osserva, a proposito degli Indiani

dell’America del Nord: «Le assemblee che tengono le nazioni dell’America del Nord, i discorsi di certi loro capi ci forniscono, se dobbiamo credere ai resoconti di cui disponiamo, una tutt’altra idea. Numerosi sono i passaggi di questi discorsi che testimoniano di una eloquenza possente, e anche

se è vero che questi popoli intrattengono strette relazioni con i cittadini degli Stati Uniti, le espressioni che essi impiegano portano il segno irrefutabile di una originalità che è loro propria. Se essi rifiutano di cambiare la libertà delle loro foreste e delle loro montagne per il lavoro dei campi e una dimora fissa, conservano

però nella loro vita nomade un’anima intrisa di verità e di nobiltà […] Le lingue parlate da uomini che sanno dare alla loro espressione tanta chiarezza, tanta forza, tanta vita, non possono essere indegne dell’attenzione dei linguisti» (W. von Humboldt, Über den Dualis, in Gesammelte Schriften, cit., vol. VI, p. 6

nota, cfr. Über die Verschiedenheiten des menschlichen Sprachbaues, ibid., p. 140). Il duale è un esempio tipico di questa estrema specificazione del linguaggio. Esso si trova quindi nell’antico dialetto attico, nel groenlandese, nel neozelandese ecc., mentre è scomparso dalle moderne lingue europee, o si conserva

al massimo in certi idiomi dialettali di aree isolate, come in Polonia o in Bretagna, dimodoché in Europa la grammatica più ricca è in effetti quella delle lingue morte o quella dei dialetti (cfr. W. von Humboldt, Über den Dualis, cit., pp. 11-15). Sul rapporto Hegel-Humboldt, cfr. H. Steinthal, Die

Sprachwissenschaft W. von Humboldts und die Hegelsche Philosophie, Berlin, 1848. [117]

Sull’estrema specificazione delle lingue dei ‘primitivi’ hanno in tempi più vicini a noi posto l’accento (traendone vaste implicazioni teoriche) Frazer e Lévi-Strauss, cfr. J.G. Frazer, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion,

London, 1922, trad. it. di L. De Bosis, Il ramo d’oro, Torino, 1965, vol. II, pp. 391 ss.; C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Paris, 1962, trad. it. di P. Caruso, Il pensiero selvaggio, Milano, 1964, pp. 151-234. [118] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 147 (trad. it. cit., vol. I, pp. 169170). In questa perdita di

rigidità del linguaggio si può forse vedere il risultato della grande mobilità della vita sociale ed economica europea dei «commerci» e della divisione del lavoro, che stimolano la rapidità e la varietà delle associazioni, cfr. Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., § 197 (trad. it. cit., p. 176): «Nella molteplicità della

destinazione degli oggetti che interessano, si sviluppa l’educazione teoretica, non soltanto una molteplicità di rappresentazioni e conoscenze, ma anche una mobilità e rapidità del rappresentare e del trapassare da una rappresentazione all’altra, il comprendere le relazioni intricate e universali etc., –

l’educazione dell’intelletto in generale e, quindi, anche del linguaggio». Sul lavoro come produttore dell’educazione teoretica e del linguaggio, cfr. J. Simon, Das Problem der Sprache bei Hegel, cit., pp. 92 ss. [119] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 145 Z. È curioso osservare che ci fu

anche una grammatica di tipo hegeliano: G.L. Städler, Wissenschaft der Grammatik, Berlin, 1833 (cfr. K. Rosenkranz, Psychologie, Königsberg, 18633, p. 378). [120] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. I, p. 9 (trad. it. cit., vol. I, p. 10). [121] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 147

(trad. it. cit., p. 169). [122] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. I, p. 10 (trad. it. cit., vol. I, p. 10). [123]

Hegel, Hamanns Schriften, in Berliner Schriften, cit., pp. 270 ss. [124] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. I, p. 10 (trad. it. cit., vol. I, p. 10).

[125] Ibid., p. 76 (trad. it.

cit., p. 80). La «dialettica» e la «speculazione» trovano in Hegel la loro giustificazione proprio nei limiti del linguaggio (si potrebbe aggiungere: più specificamente nelle lingue ‘indo-europee’) e dei correlativi giudizi in forma di proposizione. Ciò spiega sia perché la filosofia

hegeliana appaia particolarmente oscura, sia perché Hegel venga spesso costretto a contorsionismi espressivi, peraltro non sempre indispensabili. Che egli non avesse grandi abilità retoriche lo avevano già notato i suoi professori al Seminario di Tubinga, da cui era definito orator haud magnus (cfr. Rosenkranz,

Hegels Leben, trad. it. cit., p. 111). Più tardi, nelle lezioni berlinesi, i suoi scolari, come Heinrich Gustav Hotho, hanno testimoniato le oggettive difficoltà del loro maestro nel formulare i concetti: «Spossato, corrucciato, sedeva là afflosciato a testa china, e parlando continuava a sfogliare e a cercare nelle

lunghe pagine di quaderno, avanti e indietro, su e giù; il continuo tossire e schiarirsi la voce intralciava il flusso del discorso, ogni frase se ne stava isolata, e usciva con sforzo, spezzata e gettata alla rinfusa […] Un’eloquenza scorrevole presuppone la completa padronanza interiore ed esteriore del suo oggetto, e

la destrezza formale può scivolare loquace con tutta la grazia possibile in ciò che è incompleto e banale. Ma lui doveva estrarre i pensieri più potenti dai fondi più remoti delle cose, e se volevano agire come pensieri vivi dovevano, anche se già sviscerati ed elaborati ogni volta e per anni, prodursi di nuovo in

lui stesso, in un sempre vivo presente» (H.G. Hotho, Vorstudien für Leben und Kunst [1835], Stuttgart-Bad Cannstatt, 2002, trad. it. di G. Zanotti, in appendice alla trad. it. di Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., p. 182). [126] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., p. 76 (trad. it. cit., vol. I, pp. 80-81). Sul problema del giudizio e della

proposizione speculativa, cfr. J. Simon, Das Problem der Sprache bei Hegel, cit., pp. 191 ss. e H. Lenk, Kritik der logischen Konstanten. Philosophische Begründungen der Urteilsformen von Idealismus bis zur Gegenwart, Berlin, 1968, pp. 257 ss. Cfr. anche S. Otto, Die Kritik der historischen Vernunft innerhalb der Denkfigur des hegelschen

«Vernunftschlusses», in «Philosophisches Jahrbuch», LXXXI (1974), pp. 30-49. [127]

Th.W. Adorno, Skoteinos oder Wie zu lesen sei, in Drei Studien zu Hegel (trad. it. cit., p. 126). [128] Per questo genere di

studi di logica diacronica, che ha una spiccata tradizione culturale in

Polonia, cfr. R. Suszko, Logika formalna a niektore zagadnienia teorii poznania (Diachroniczna logika formalna), in «Mysl Filozofiezna», nn. 2-3, 1957, o S. Rogowski, Logika Kierunkowa. A Hegelowska Teza O Sprzecznosci Zmiany, in «Studia scientiarum Torunensis» (testi citati da L. Apostel, Logique et dialectique,

in AA.VV., Logique et connaissance scientifique, volume pubblicato sotto la direzione di Jean Piaget, Paris, 1967, p. 371). Secondo Rogowski, a quanto si può ricostruire attraverso Leo Apostel, esiste la possibilità di tradurre la dialettica, almeno in parte, secondo una logica modale a quattro valori, con simboli come

cioè p comincia a essere vero o cioè p cessa di essere vero. Sulla dialettica come «filiazione di strutture» e sul rapporto struttura-genesi e sul pensiero dialettico, cfr. J. Piaget, Les courants de l’épistémologie contemporaine, in AA.VV., Logique et connaissance scientifique, cit., pp. 1241 ss. [129]

Per

evitare

l’inadeguatezza del calcolo proposizionale applicato alla dialettica hegeliana, Dubarle ha costruito un complesso edificio concettuale, una sorta di algebra «iperbooleana», che ha il suo «termine vuoto» (più altre tre costanti) e tre operatori. La dialettica viene così espressa in termini di logica matematica, cfr. D. Dubarle,

Logique formalisante et logique hégélienne, in Hegel et la pensée moderne, cit., pp. 114159, cfr. D. Dubarle e A. Doz, Logique et dialectique, Paris, 1971. Una delle ricerche più singolari – sul piano della formalizzazione della dialettica hegeliana –, condotta attraverso l’Air Force Office of Scientific Research degli Stati Uniti, è

quella di G. Günther, Das Problem einer Formalisierung der transzendentaldialektischen Logik, unter besonderer Berücksichtigung der Logik Hegels, in «HegelStudien», volume suppl. 1, Heidelberger Hegel-Tage 1962, Bonn, 1964, pp. 65-123, zeppa di grafici e di «morfogrammi». Per altri tentativi di formalizzazione,

cfr. M. Kosok, The Formalization of Hegel’s Dialectical Logic, ora in AA.VV., Hegel. A Collection of Critical Essays, a cura di A. MacIntyre, Garden City, N.Y., 1972, pp. 237-287; R. Kaher, Materialien zur Formalisierung der dialektischen Logik, in appendice a G. Günther, Idee und Grundriss einer nichtAristotelischen Logik,

Hamburg, 19782, pp. 5-117. Più in generale, si veda La formalizzazione della dialettica. Hegel, Marx e la logica contemporanea, a cura di D. Marconi, Torino, 1980. Sui tentativi di W. Harich, G. Klaus e G. Günther di formalizzare la dialettica, cfr. anche R. SimonSchaefer, Dialektik. Kritik eines Wortgebrauchs,

Stuttgart-Bad Cannstatt, 1973, pp. 136 ss. e R. Schaefer, Die Dialektik und ihre besonderen Formen in Hegels Logik, in «HegelStudien», volume suppl. 45, 2001. Per una rinnovata visione della dialettica, cfr. F. Berto, Che cos’è la dialettica. Un’interpretazione analitica del metodo, cit., e, soprattutto, P. Masciarelli, Un’apologia della

dialettica, Bologna, 2014. [130] Diamo all’espressione

il senso di Foucault, di limiti istituzionali che ogni forma di discorso umano assume all’interno delle diverse società, sebbene Foucault sembri negare alla dialettica hegeliana la funzione di modificare positivamente l’«ordine del discorso», cfr. M. Foucault, L’ordre du

discours (testo della lezione inaugurale al Collège de France del 2 dicembre 1970), trad. it. di A. Fontana, L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, Torino, 1972, in particolare su Hegel, pp. 54 ss. [131] Cfr. J. Simon, Das Neue

in der Geschichte, in «Philosophisches Jahrbuch»,

LXXIX (1972), pp. 269-287. [132] Cfr. J. Piaget, Les

formes élémentaires de la dialectique, Paris, 1981. In una prospettiva diversa da quella da me presentata, sul rapporto tra Piaget e Hegel si vedano: P. Dammerow, Handlung und Erkenntnis in der genetischen Erkenntnistheorie Piagets und in der Hegelschen Logik, in

«Hegel-Jahrbuch», 1977/78, pp. 136-160; J. Lawler, Dialektische Philosophie und Entwicklungspsychologie: Hegel und Piaget über Widerspruch, in Zur Ontologie dialektischer Operationen, a cura di K.F. Riegel, Frankfurt a.M., 1978, pp. 7-29; Th. Kesselring, Entwicklung und Widerspruch. Ein Vergleich zwischen Piagets genetischer

Entwicklungstheorie und Hegels Dialektik, Frankfurt a.M., 1981; Id., Die Produktivität der Antinomie, Frankfurt a.M., 1984. [133] Cfr. Kant, Kritik der

reinen Vernunft, A 236; B 294 (trad. it. cit., vol. I, p. 243): «Noi abbiamo fin qui non solo percorso il territorio dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni

parte; ma l’abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma questa terra è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettatore!) circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza, dove nebbie grosse e ghiacci,

prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo. Ma, prima di affidarci

a questo mare, per indagarlo in tutta la sua distesa, e assicurarci se mai qualche cosa vi sia da sperare, sarà utile che prima diamo uno sguardo alla carta della regione, che vogliamo abbandonare, e chiederci anzitutto se non potessimo in ogni caso star contenti a ciò che essa contiene; o anche, se non dovessimo

accontentarcene per necessità, nel caso che altrove non ci fosse assolutamente un terreno, sul quale poterci fabbricare una casa; e in secondo luogo, a quale titolo noi possediamo questa stessa regione, e come possiamo assicurarla contro ogni nemica pretesa». [134]

Cfr.

R.

Bodei,

Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, Torino, 1987, pp. 61-73. Da un diverso punto di vista, si veda A. Arndt, Hegels Begriff der Dialektik im Blick auf Kant, in «Hegel-Studien», 38 (2003), pp. 105-120. [135]

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 1.

der

[136] Ibid., § 19 Z 1. [137] La frase, utilizzata per

la prima volta da Zenone di Cizio con allusione al suo fortunato naufragio che lo portò a conoscere il proprio maestro Cratete (cfr. Diogene Laerzio, Vite e opinioni dei filosofi, VII, 4), resa in latino da Erasmo, Adagia (2,9,78: Bene navigavi nunc, cum naufragium feci),

ripresa da Schopenhauer nei Parerga e paralipomeni, viene ripetutamente citata da Nietzsche e amata da Jaspers.

Capitolo quinto

Movimento logico, sistema e mutamento storico

In questo ultimo capitolo si indaga la relazione tra movimento logico, sistema e mutamento storico, passaggio centrale della filosofia hegeliana. Il punto di partenza è la 'Scienza della logica', testo nel quale Hegel poneva la logica come una

materia metodica e insegnabile come la geometria – e per poter fare questo la filosofia deve esprimere il contenuto concreto del proprio tempo al massimo livello di astrazione. La logica è per Hegel la dimensione astratta della vita spirituale,

mostrando l’innalzamento dell’Idea fino al grado da cui diventa creatrice della natura e passa alla forma di una immediatezza concreta, il cui concetto rompe da capo questa forma per diventare a se stesso quale spirito concreto.

Per tali ragioni la logica, l’ordine, il movimento sistematico sono punti imprescindibili nella filosofia hegeliana, che ha lasciato comunque alcuni problemi aperti esposti qui in chiusura di capitolo.

[…] soltanto il metodo è in grado di mettere le redini al pensiero, di condurlo alla cosa

e di mantenervelo. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche[1].

1. Le due strade per giungere alla logica

Per attraversare il deserto di ghiaccio delle astrazioni della logica hegeliana si possono prendere due strade: o partire dal concreto e dalle singole scienze, per ritrovare nelle categorie il tessuto connettivo di ogni

conoscenza, immergersi

o subito

«nella incolore e fredda semplicità delle […] determinazioni pure»[2]. Le due strade, pur convergendo, non hanno lo stesso significato: «Altro è la logica per chi si accosta

per la prima volta a essa e in generale alle scienze, e altro è la logica per chi dalle scienze ritorna a lei. Colui che comincia a imparar la grammatica trova nelle sue forme e leggi delle astrazioni aride, delle regole

accidentali, in generale una moltitudine isolata di determinazioni, le quali lascian soltanto vedere il valore e il senso di ciò che sta nel loro significato immediato: il conoscere non conosce dapprima in quelle altro che loro

stesse. Se all’incontro uno è padrone di una lingua e insieme è in grado di confrontarla con altre, a lui soltanto si può far sentire lo spirito e la civiltà di un popolo nella grammatica della sua lingua; quelle stesse

regole e forme hanno ormai un valore pieno, vivente. Attraverso la grammatica costui può conoscere l’espressione dello spirito in generale, la logica. Così chi si accosta alla scienza trova dapprima nella logica un sistema

isolato di astrazioni che è limitato a se stesso e non si estende sopra altre cognizioni e scienze»[3]. Si prospettano quindi immediatamente due modi di leggere la Scienza della logica e di connetterla

all’articolazione sistematica. Dal punto di vista didattico della costruzione scientifica, essa precede il concreto, dal punto di vista genetico, lo segue. Allo stesso modo gli uomini hanno parlato secondo regole grammaticali o

emettendo determinati suoni prima che queste regole venissero individuate o i suoni caratterizzati secondo lettere dell’alfabeto, ma per imparare a scrivere o a parlare correttamente bisogna iniziare dalla semplice

intelaiatura del concreto: «Accade come quando si impara a leggere, allorché non si può cominciare ad un tratto leggendo l’intera parola, come hanno preteso i super-acuti pedagogisti[4], ma si deve cominciare con

l’astrazione, dalle singole aste. Così nel pensare, nella logica, proprio ciò che è più astratto è ciò che è più ricco, in quanto è del tutto semplice, puro e non mescolato. Solo gradualmente si può procedere a esercizi di

pensiero sul sensibile e sul concreto, quando quei semplici suoni si sono adeguatamente fissati nelle loro differenze»[5]. Storicamente, «il bisogno di occuparsi di puri pensieri presuppone un lungo

cammino, che lo spirito umano deve aver percorso. È per così dire il bisogno del già soddisfatto bisogno di necessità, il bisogno nascente dalla mancanza di ogni bisogno»[6]. Questa situazione di libertà dai

bisogni si riproduce nella vita di un individuo durante la gioventù, prima di affrontare «il serio della vita», ed è allora che lo studio della logica vale come «lavoro preliminare»[7]. Nella scuola, che costituisce il

luogo di «transizione dalla famiglia alla società civile»[8], il «sistema dei bisogni» di quest’ultima non è ancora sorto, ma già si fa valere la disciplina dell’universale contro l’immediatezza naturale dell’«amore» della

famiglia: il giovane infatti ha valore nella misura in cui riesce a impadronirsi dell’astratto[9], a cui solo in un secondo momento potrà dare il riempimento dell’effettualità. Per ora «pensieri e concetti

devono appresi

essere come

ben si

apprende che c’è un singolare e un plurale, tre persone, le diverse parti del discorso»[10]. Fissati dall’abitudine e dalla memoria, ricordati e interiorizzati dall’Erinnerung,

assimilati nella Bildung come una seconda natura, essi forniranno ai giovani la «rete adamantina» entro cui cogliere e inquadrare il proprio tempo; un tempo in cui l’«aggrovigliata situazione della vita

civile e politica […] non concede all’animo […] di liberarsi verso fini superiori»[11], in cui sorge persino il dubbio (nella distrazione «cagionata dalla grandezza e dalla molteplicità degli interessi dell’epoca» e

dal «rumoroso tumulto dei nostri giorni») che non ci sia più spazio per «la serena calma della conoscenza semplicemente pensante»[12]. Questo tipo di educazione, che parte dal più astratto per giungere al più

concreto, acquisizioni

dalle dello

«spirito» o del genere umano per giungere all’esperienza individuale, è conforme alle vigenti condizioni storiche, al bisogno di attenersi a «punti di vista generali e di

regolare di conseguenza il particolare, cosicché forme universali, leggi, doveri, diritti, massime valgono come motivi determinanti e sono ciò che fondamentalmente ci guida»[13]. Nell’età moderna l’astratto si trova già elaborato,

pronto per essere consumato dal singolo, e il cumulo attuale delle conoscenze non potrebbe essere altrimenti fruito che a partire dalle esperienze già cristallizzate nella cultura e nel linguaggio: «Il genere di studio

proprio dell’antichità si differenzia da quello dei tempi moderni, perché era propriamente il processo di formazione della coscienza naturale. Allora, l’individuo, esercitandosi dettagliatamente in

ciascuna parte della sua esistenza e filosofando su ogni accadimento, si educò a una universalità intimamente concretata. Nei tempi moderni egli trova invece bella e preparata la forma astratta […] Ora, quindi, il compito

non consiste tanto nel purificare l’individuo dal modo dell’immediata sensibilità per renderlo una sostanza pensata e pensante, quanto piuttosto nell’opposto: nell’attuare, cioè, l’universale e

nell’infondergli spirito, togliendo i pensieri determinati e solidificati. È peraltro assai più difficile rendere fluidi i pensieri solidificati, che render fluida l’esistenza sensibile»[14]. Inizialmente, dunque,

la forma astratta già preparata si presenta all’apprendimento come qualcosa di estraneo o di rigido, che deve essere poi posto in fluidità dall’esperienza concreta e, al livello più alto, dalla filosofia: «Già al bambino viene offerta

la riflessione. Gli viene ad esempio assegnato il compito di connettere aggettivi con sostantivi. Qui ha da stare attento e da distinguere; deve ricordarsi una regola e applicarla secondo il caso particolare. Ma la regola non è nient’altro

che un universale, e il bambino deve rendere il particolare conforme a questo universale»[15]. Nella difesa del «cominciamento» astratto, e del carattere isagogico della logica per i giovani, c’è anche un risvolto polemico nei

confronti di Fries e delle Burschenschaften, dell’affermazione che i giovani abbiano in se stessi la verità: «Si è dato a intendere alla gioventù che essa sia già in possesso del vero (nella religione e nell’etico), così come

esso realmente è. In particolare si è detto anche, sotto questo aspetto, che tutti gli adulti sono immersi, sclerotizzati e ossificati nella non-verità. Alla gioventù sarebbe apparsa l’aurora, ma il mondo dei più anziani

si troverebbe nel pantano, nella palude del quotidiano»[16]. In effetti – dice Hegel, proponendo questa disciplina mediante l’astratto –, bisogna riporre in generale delle speranze nella gioventù solo perché non

rimanga «come è, ma si assuma il duro lavoro (saure Arbeit) dello spirito»[17], ossia vada al di là del sapere immediato e produca il «mondo nuovo», passando però attraverso la comprensione del

vecchio. La Scienza della logica va vista anche all’interno della paideia hegeliana, senza staccarla dalla Propedeutica che ne costituisce la premessa di insegnabilità[18]. «Io sono un uomo di scuola,

che deve insegnar filosofia, è forse anche per questo che reputo che la filosofia debba diventare una costruzione metodica, al pari della geometria, insegnabile come questa»[19]. Per acquistare tale natura la

filosofia deve esprimere il contenuto concreto del proprio tempo al massimo livello di astrazione (che è poi non soltanto la massima concretezza del pensiero, ma il miglior punto di diffusione, di

comunicabilità, una volta depurato dall’accidentalità delle esperienze soggettive), deve diventare perciò «evidente, comunicabile e capace di essere un patrimonio comune»[20]. Hegel aveva difeso questa concezione

dell’astratto contro le

anche autorità

scolastiche della Baviera, che, sotto il pretesto di evitare lo spirito opprimente dei sistemi e di dare ai giovani una conoscenza più immediata della realtà, imponevano le

esercitazioni pratiche nell’insegnamento della logica: «Nei chiarimenti ufficiali del programma dell’autunno 1810 è indicato espressamente di non insegnare un tutto sistematico, ma di assegnare esercizi pratici nel pensiero

speculativo. Ma questa appunto mi sembra la cosa più difficile di tutte. Volgere in forma speculativa un oggetto concreto o una situazione reale, prepararlo e sgrossarlo in modo che possa essere compreso

speculativamente, questa è certo la cosa che deve venire da ultima, come nell’insegnamento musicale il giudicare un pezzo secondo il basso fondamentale. Come esercizio pratico nel pensiero speculativo,

non so intendere altro che trattare i concetti puri, reali, nella loro forma speculativa, e questa è la logica stessa nel suo nucleo più intimo. Al pensare speculativo, in quanto articolazione del significato, può e deve

precedere il pensare astratto, il concetto intellettuale astratto nella sua determinatezza; ma la serie dei medesimi è di nuovo un tutto sistematico»[21]. La logica è infatti la dimensione astratta

della vita spirituale, «la semplice impalcatura interna delle forme dello spirito»[22]. Sotto questo profilo, essa è «scienza formale», che non può contenere ancora «quella realtà che è il contenuto delle altre successive parti

della filosofia, cioè delle scienze della natura e dello spirito. Queste scienze concrete riescono a ogni modo ad una forma più reale dell’Idea, che non la logica, ma in pari tempo non quasi si volgessero daccapo a quella realtà,

che la coscienza elevatasi al di sopra della sua apparenza fino a farsi scienza ha abbandonata, o quasi nuovamente tornassero all’uso di forme, come son quelle categorie e quelle determinazioni della riflessione, la cui

finità e non verità si è fatta vedere nella logica. Anzi la logica mostra l’innalzamento dell’Idea fino al grado da cui diventa creatrice della natura e passa alla forma di una immediatezza concreta, il cui concetto però

rompe da capo questa forma per divenire a se stesso quale spirito concreto. A fronte di queste scienze concrete, che però hanno e conservano il logico (das Logische) ossia il concetto performatore interno come l’avevano

per preformatore, la logica stessa è a ogni modo la scienza formale, ma scienza della forma assoluta, la quale è in sé totalità e contiene la pura idea della verità stessa»[23]. Sono oggetto della logica solo le

determinazioni pure del pensiero, a prescindere da ogni applicazione particolare ad un campo specifico[24]. Ma questo non vuol dire che la logica sia forma e astrazione vuota, che poi debba applicarsi dall’esterno ai singoli

contenuti: essa è tale solo didatticamente, nel momento della sua insegnabilità sistematica, in quanto le singole categorie logiche, dopo essere state al culmine dell’attività spirituale delle singole epoche,

ridiventano «cognizioni

«aste» o […] da

ragazzi».

2. La via breve Per chi giunge invece alla logica dal cammino della esperienza matura oppure dopo aver percorso le singole

scienze, la logica è un risultato, non l’inizio del sistema, ma il suo coronamento. In quanto punto d’approdo, essa è filosofia o scienza della logica, appartiene cioè alla forma più alta dello spirito assoluto, del ritornare in sé

dall’alienazione, e non al punto di partenza, alla logica come scienza «formale» che precede didatticamente nella Enciclopedia il concreto della natura e dello spirito. È evidente che la logica in sé è sempre la stessa, ma che,

mutando il suo valore di posizione nell’insieme, muta anche il suo senso, fino ad assumere significati opposti. Sorge così, ad esempio, il problema, in genere male impostato, del «doppio cominciamento»[25]

oppure l’universale effetto ottico di un Logos che crea demiurgicamente il mondo. Malgrado la tradizionale compattezza di questa interpretazione della logica di Hegel, che ne ratifica l’«idealismo»,

essa si fonda sulla parzialità del punto di vista (quello della costruzione didattica) e sull’oblio del cammino storico e fenomenologico percorso. È già strano, inoltre, che colui che ha tanto sottolineato il

legame della filosofia col proprio tempo, abbia poi potuto capovolgere le proprie posizioni sino a rovesciarle, senza rendersene conto, ed è veramente ridicolo attribuire a un pensatore con tanto senso della realtà delle

costruzioni teoriche così ingenue. Né si può rimediare a queste difficoltà concettuali con dei piccoli trucchi, certo empiricamente utili ma insufficienti, come quello di Litt, che consiglia di leggere l’Enciclopedia a rovescio,

cominciando

dalla

fine[26]. Si deve piuttosto capire alla base questa presunta incongruenza, vedere le categorie logiche come risultato del processo storico, come serie dialettica di espressioni concettuali delle diverse epoche

storiche, incapsulate nella struttura in movimento dell’ultima epoca storica considerata dalla filosofia, e tutte convergenti come patrimonio collettivo attualmente fruito e assimilato. Il pensare

puro è geneticamene,

infatti, il

prodotto di un lungo tirocinio che la ragione umana ha compiuto sul concreto del mondo naturale e sociale. Tale bene comune (Gemeingut) cumulativo e trasmissibile si

presenta solo a prima vista come immediato: «Un difficile pezzo per pianoforte può essere facilmente suonato dopo che è stato ripetuto parecchie volte in singoli passaggi; ogni singola nota si è impressa nella

coscienza e il tutto, che può apparire immediato, è solo il risultato di molte mediazioni. Così è della natura del pensiero; questa identità con se stesso, questa pura trasparenza dell’attività con sé, è in sé la

negazione del negativo ed è il risultato che si fa immediato, che appare come immediato»[27]. È da cercarsi qui la spiegazione del perché la Scienza della logica, l’opera che contiene il più di idealismo, sia anche quella che ha in

sé «il più materialismo» e

di del

perché Lenin possa fare questa constatazione: «Quando Hegel si studia (e talora persino si sforza e si spreme) di ricondurre l’attività finalistica umana sotto le categorie della logica,

dicendo quest’attività

che è il

‘sillogismo’ (Schluss), che il soggetto (l’uomo) ha la funzione di un “termine” nella “figura” del “sillogismo”, ecc., questa non è soltanto una forzatura, non è soltanto un gioco. C’è qui un

contenuto molto profondo, puramente materialistico. Bisogna ribaltare la cosa: la attività pratica umana ha dovuto condurre la coscienza dell’uomo a ripetere miliardi di volte le diverse figure logiche, affinché tali figure potessero assumere il

significato di assiomi»[28]. In parte, questo ribaltamento della «cosa» è già presente in Hegel, anche se egli non procede dall’«attività pratica umana» in quanto tale, ma dalle operazioni della coscienza, mediate

tuttavia dal lavoro. Se la filosofia, quindi, non è altro che «immediatezza ripristinata»[29]; se «la serie dei sistemi filosofici quale si presenta nella storia, è uguale alla successione che si presenta nella

deduzione logica delle determinazioni concettuali dell’idea»[30], allora si può affermare che la logica («deduzione delle determinazioni concettuali dell’idea») è la trascrizione concettuale abbreviata

di tutta la ricchezza delle singole epoche, lo stenogramma teorico di tutta la storia umana, e che, di conseguenza, la successione delle categorie, che si presenta come autokynesis (o come autarchia)[31], ha già

ricevuto il suo impulso, il suo nisus dall’epoca, poiché il suo movimento è lo stesso movimento storico al livello del pensiero. Al pari delle figure fenomenologiche – il cui contenuto «è già l’effettualità affievolita

nella possibilità, l’immediatezza già forzata, è la figurazione già ridotta alla sua abbreviazione (Abbreviatur), alla semplice determinazione di pensiero»[32] –, anche le categorie, nel loro uso

«naturale» e non riflesso, valgono come «abbreviazioni» nelle quali è «riassunta (epitomiert) una infinita moltitudine di rappresentazioni, di attività, di stati o condizioni etc.»[33]. Le tappe percorse dal

pensiero umano con lungo e faticoso sforzo vengono così accorciate e facilitate per poter essere rapidamente fruibili dal singolo, sebbene in tal modo scompaia allo sguardo quella tensione dello spirito che, a suo tempo,

ha tessuto o evidenziato ciascuno dei punti nodali della «rete adamantina». In quanto abbreviazioni, le categorie hanno rispetto alla realtà lo stesso rapporto che il danaro ha rispetto alla totalità dei bisogni; infatti,

anche il «danaro è l’abbreviazione di tutti i bisogni esteriori»[34]. Tuttavia, nella Scienza della logica, a Hegel non interessa tanto il momento storicogenetico del sorgere delle categorie, l’«itinerario»

dell’esperienza o della storia della filosofia (che viene qui presupposto), quanto il loro articolarsi apparentemente autonomo di «via che costruisce se stessa»[35], l’esperienza categoriale che il pensiero di una determinata epoca fa su

se stesso e la propria origine, ma al livello delle «forme» in cui è stata colta la successione delle diverse epoche e in vista dell’autocomprensione del presente. A partire dall’«essere» parmenideo, il

contenuto concreto di ciascuna epoca è considerato da Hegel ormai intimamente inglobato nella categoria, assimilato nella sua inquietudine dialettica che già fu storica, conservato come sfondo soppresso,

al pari del dx. L’effetto di autarchia e di chiusura del pensiero in se stesso che la logica hegeliana produce deriva dal fatto che questa grammatica del proprio tempo viene vista dimenticando completamente il suo rapporto con la serie

delle epoche colte nel pensiero, come grammatica cui non corrisponda alcuna lingua storica, una sorta di esperanto bizzarramente e arbitrariamente costruito[36]. Nella sfera logica – al

di fuori della successione meramente cronologica e dell’opposizione nella coscienza di certezza e verità – si assiste al sistematico dipanarsi della «rete adamantina» del presente, quale si è venuta intrecciando

attraverso patrimonio

tutto il collettivo

del pensiero umano. Non è che, plotinianamente, il tempo sia «nientificato, quando l’anima si unisce all’intellegibile»[37]; è vero piuttosto che, nella

sua trascrizione concettuale, il tempo viene strutturato mediante forme più complesse che non quella della semplice serie lineare, viene strutturato nientemeno che dalla totalità delle categorie (non solo

logiche) della filosofia di volta in volta dominante, dal «sistema». Per Hegel il tempo cronologico, nella sua forma seriale, è unicamente la modalità più povera di unificazione e comprensione del

molteplice storico. Ma anche il sistema, nel suo specifico terreno, non ha affatto cancellato quell’aspetto ‘diacronico’, di «filiazione di strutture», che caratterizza la cadenza dialettica. Lo ha universalizzato

nell’Erinnerung del «sapere assoluto», prima di lasciarlo sviluppare nell’«etere» del pensiero puro, come carenza avvertita in ogni singola categoria e vis veri.

3. Concatenazione e autarchia logica Impieghi bene il tempo. Corre via così presto! Ma a guadagnarlo le sarà

d’aiuto l’ordine. Quindi, amico caro, il mio consiglio è, anzitutto, Collegium Logicum. La mente

sua sarà là dentro così bene ammaestrata e stretta in calzari spagnoli che più prudente poi percorrerà la strada

del pensiero. E a destra e a manca non sfarfalli come le lucciole, di qua e di là. Quello

che tutti subito fanno da sé, ad esempio bere e mangiare, per vari giorni le insegneranno che in tre tempi si

deve fare. In realtà, la fabbrica dei pensieri va come va un telaio: pigi il pedale, mille fili

si agitano le spole volano di qua e di là, i fili corrono invisibili, un colpo lega mille maglie. A questo

punto entra il Filosofo e le dimostra che così dev’essere. Mefistofele, in Goethe, Faust I, vv. 1908-

1929[38].

Il

pensiero

logico

permea costantemente la vita quotidiana dell’uomo, in maniera altrettanto spontanea (una volta acquisito e ritornato all’immediatezza), della digestione o del respiro:

«Se, ad qualcuno,

esempio, in una

mattina d’inverno, appena sveglio, ode per strada stridere le ruote delle carrozze e da questo è portato a fare la considerazione che potrebbe esserci stata una bella gelata, egli

esegue una operazione sillogistica, e questa operazione noi la ripetiamo quotidianamente fra le più molteplici complicazioni. Dovrebbe quindi, perlomeno, essere di non poco interesse diventare

esplicitamente consapevoli di questo proprio fare quotidiano, in quanto fare di un uomo che pensa, allo stesso modo che è di riconosciuto interesse il prendere conoscenza non solo delle funzioni della nostra vita

organica (quali digestione,

la la

formazione del sangue, la respirazione ecc.), ma anche degli eventi e dei prodotti della natura che ci circonda»[39]. In quanto scienza, la logica non ha altro compito che evidenziare e

ordinare in un tutto sistematico le categorie e i procedimenti di quel pensare che è presente in tutti gli uomini: «Depurare pertanto queste categorie, che operano soltanto istintivamente come impulsi, e che son

dapprima portate nella coscienza dello spirito come isolate, epperò come mutevoli e come intralciantesi, mentre procuran così allo spirito una realtà a sua volta isolata e malsicura, depurarle, e sollevar con ciò in esse

lo spirito alla libertà e alla verità questo è il più alto compito logico»[40]. Il concetto puro, così enucleato, si manifesta non come una morta ossatura del sensibile, bensì come «la semplice pulsazione vitale tanto degli oggetti stessi,

quanto del loro pensiero soggettivo»[41]. Esso appare tuttavia alla coscienza – con una reminiscenza schilleriana e con un significativo rovesciamento del platonico mito della caverna[42] – sotto

l’aspetto di una pallida ombra: «Il sistema della logica è il regno delle ombre. Il mondo delle semplici essenzialità, libero da ogni concrezione sensibile. Lo studio di questa scienza, la dimora e il lavoro in questo regno

delle ombre è l’assoluta educazione e disciplina della coscienza»[43]. Il soggiorno in questo mondo diafano, in cui diventa percettibile la rete «adamantina», altrimenti invisibile ai sensi, richiede una potente capacità di

astrazione e di rinuncia ai sensi e alle rappresentazioni[44]. In compenso, però, è qui che si attinge la verità formale del sensibile e del rappresentativo, che si conoscono – è il caso di dirlo – quelle eminenze grige che

governano la vita non soltanto teoretica; ed è qui, infine, che le categorie, lungi dall’essere immobili essenze, si presentano dotate di quell’energia cinetica che è l’espressione del movimento già

compiuto dallo spirito e del suo attuale tendere. Che la scienza della logica riproduca, con sequenza rigorosa di arricchimento dell’astratto del pensiero, un processo che in parte si è già svolto, in parte continua

a svolgersi, è detto nuovamente da Hegel: «Quindi la scienza logica, in quanto tratta quelle determinazioni che attraversano in generale il nostro spirito istintivamente e senza che se ne abbia coscienza,

mantenendosi non oggettive, inavvertite, anche quando entrano a far parte del linguaggio, è insieme anche la ricostruzione di quelle altre, che sono state rilevate dalla riflessione, e da essa fissate quali forme soggettive,

esterne alla materia e alla sostanza»[45]. La logica – e più in generale la filosofia, in quanto «sistema nello sviluppo»[46] – si impadronisce infatti dello «spirito nuovo, che è sorto per la scienza non meno che per la

realtà»[47]. Finora esso non si è fatto sentire molto nella logica, che vien sempre ammirata da lontano come un edificio venerabile in sé compiuto e bisognoso, al massimo, di qualche restauro. E di fronte all’esigenza diffusa di

una logica radicalmente nuova (ossia di un nuovo reticolo formale per il proprio tempo) si è risposto con dei surrogati di spiegazione antropologica o psicologica (Fries e Kant)[48]. Ma, da un lato, quando una «forma

sostanziale» dello spirito è mutata, è «vano voler ritenere le forme di una cultura anteriore. Coteste forme sono allora foglie flaccide, che vengono spinte via dalle nuove gemme già sorte al loro piede»[49]; dall’altro,

l’impostazione antropologica

e

psicologica riguarda il concetto nel suo «apparire» e non nella sua concatenazione scientificamente insegnabile. Al pari delle «aste» nello scrivere o del «punto e la linea» in

geometria[50], la partenza della logica dall’astratto ha due ulteriori motivazioni, una storica e una didattica: storica, perché la realtà si rivela nel pensiero progressivamente, in un crescendo di

concretezza concettuale che corrisponde al processo ‘a valanga’ di accumulazione dell’esperienza collettiva e di complicazione della vita sociale; didattica, perché la successione delle categorie forza

nella coscienza del singolo la via di minor resistenza, non solo in quanto essa è quella di fatto già spianata, ma anche in quanto le «differenze sincrone», in cui si risolve la successione, sono «i lati necessari di un unico

principio»[51], cioè, le singole categorie, che nella loro epoca erano ciascuna il concretissimo del pensiero, sono di per sé astratte ed hanno concretezza solo nella totalità dell’orizzonte strutturato dell’ultima

filosofia dominante. In tal modo è il loro stesso nisus che le fa convergere nel punto focale di quell’unico principio egemonico. Nella sequenza teleologica delle categorie si scopre la cospirazione tramata

dall’istinto della ragione (sul terreno «formale») a favore dell’«unica» filosofia egemone in ciascun periodo. Questa «comprende in se stessa tutti gli stadi, è il prodotto e la conclusione di tutte le filosofie precedenti»[52].

In quanto tale, «la filosofia più tarda, più recente, più giovane, più nuova, è anche la più progredita, ricca, profonda. Essa deve conservare e contenere tutto quello che a prima vista sembra passato, e deve essere essa stessa

il riflesso di tutta la storia. Il primordio è il più astratto, appunto perché è primordio e non ha ancora proceduto innanzi; l’ultima forma, che nasce da questo moto progressivo inteso come progressiva

determinazione, è anche la più concreta. Questa, bisogna subito rilevarlo, non è affatto presunzione orgogliosa della filosofia contemporanea: infatti lo spirito di tutta la presente esposizione consiste nel considerare

la più progredita filosofia d’un periodo posteriore come risultato, in sostanza, del precedente lavoro dello spirito pensante; sicché essa, stimolata e sospinta da queste vedute anteriori, non è spuntata come un

fungo, dal nulla»[53]. Una filosofia non è però più progredita per il semplice fatto di venire dopo, ma solo in quanto riesca a impossessarsi dei princìpi di tutte le filosofie precedenti, a essere «il riflesso di tutta la storia» e non

dell’immediato presente; e il presente (la Gegenwart) che l’ultima filosofia riflette non è unicamente la propria epoca racchiusa entro precisi confini cronologici, ma il fronte del presente, che è alla testa di tutto il passato

inquadrato secondo le sue direttive ed è in marcia verso il futuro, è la «falange corazzata» della lettera a Niethammer. Un sistema filosofico non dipende per Hegel da «un principio limitato e diverso da altri: è, per

contrario, principio di vera filosofia contenere in sé tutti i princìpi particolari»[54]. L’unica filosofia egemone in ciascun periodo è lo sforzo immane di fondare l’autocomprensione del proprio tempo sul

terreno dall’intero

ereditato processo

storico. Che il progetto hegeliano di inserire coscientemente nella propria filosofia tutto il patrimonio collettivo della storia umana sia riuscito o no, resta pur sempre l’audacia

dell’impresa e fecondità della

la sua

direzione, nonché la significativa ottica di un pensatore e di un’epoca che si sentono eredi diretti, malgrado ogni discontinuità rivoluzionaria, dell’intero passato. La

Rivoluzione francese e Napoleone, la Restaurazione e la Rivoluzione di luglio avevano generato l’esperienza storica del riassorbimento delle lacerazioni e della rottura degli equilibri, trasformato in

avvenimenti sofferti lo schema sottostante della continuità attraverso la discontinuità e il salto qualitativo. E la polemica hegeliana contro il «cattivo infinito» è, da questo punto di vista, rivolta

contro la paralisi nell’avviare a soluzione i problemi del proprio tempo, con una fuga in avanti o con la dispersione nei dettagli marginali. Solo nel previo riconoscimento che la soluzione si trova già dentro le

contraddizioni della realtà effettuale e che gli equilibri vigenti non sono eterni, solo nel rendersi conto che il processo di formazione del mondo storico è un travaglio millenario, è possibile per Hegel non cadere in una passiva

disperazione o in una velleitaria utopia. Ma si può anche fuggire all’indietro – e non unicamente nei vagheggiamenti romantici del Medioevo o negli ideali da ancien régime della Restaurazione –, bensì

ritornando dalle contraddizioni, poste in luce efficacemente dall’intelletto, alla certezza sensibile. Questo è l’atteggiamento più generale al livello della coscienza comune, della religione e anche delle

scienze, e ciò spiega l’asprezza della lotta hegeliana: l’intelletto individua il «necessario contrasto» delle proprie determinazioni, ma non compie «il gran passo negativo» di risolvere dialetticamente le contraddizioni; infatti,

la riflessione «non si accorge che la contraddizione è appunto il sollevarsi della ragione sopra le limitazioni dell’intelletto, e il risolver queste. Invece di muover di qui l’ultimo passo in alto, la

conoscenza insoddisfacenti

delle

determinazioni intellettuali è fuggita indietro all’esistenza sensibile, persuasa di possedere in questa la stabilità e la concordia»[55]. Si

può

ormai

constatare certezza

come la sensibile

moderna sia meno che mai ingenua, come sia piuttosto una certezza sensibile di ritorno, che nasconde nell’immediatezza le contraddizioni irrisolte dell’intelletto, una falsa

coscienza che reifica le contraddizioni irrisolte nel concreto sensibile. Ecco perché il «qui» e «l’ora» contengono già l’universale: essi sono una incertezza che si spaccia per certezza sensibile, ma che si fonda in realtà sulla

retroazione dell’astratto, e si serve del sensibile come àncora per fissare le determinazioni dell’intelletto nella loro rigidità. Da tale prospettiva, l’indugiare sul sensibile o su ciò che si ritiene il sensibile è

per Hegel uno dei più diffusi segni di inadeguatezza nei confronti dello spirito dei tempi, di quella fluidità continua e di quel ritmo fatto di scissioni, provvisoria revoca di esse, nuove scissioni a più alto

esponente e così via. Certo, «l’interesse dell’umanità di questo tempo» è che l’uomo vuole «soddisfazione per sé»[56], ed è più facile credere di «possedere la stabilità e la concordia» poggiando sul substrato sensibile

che non dimorando nel «regno delle ombre» in cui il pensiero si muove. Ma tale dimora non è tuttavia per Hegel un al di là, una fuga, bensì un passaggio necessario tanto dell’educazione, quanto dell’esperienza, sia quella della

coscienza comune che quella delle scienze: «Così la logica deve a ogni modo impararsi sulle prime come qualcosa che certamente s’intende e si penetra, ma di cui però da principio non si sa vedere l’estensione,

la profondità e l’ulteriore importanza. Solo in seguito a una più profonda conoscenza delle altre scienze l’elemento logico si eleva per lo spirito soggettivo fino a valere non già semplicemente come un universale

astratto, ma l’universale

come che

abbraccia in sé la ricchezza del particolare. In egual maniera una stessa sentenza morale non ha, nella bocca del giovinetto, che pur l’intende perfettamente,

quel significato e quella portata che ha nello spirito di un uomo ormai esperto della vita, per il quale, pertanto, esprime l’intiera forza della sostanza contenutavi. Così l’elemento logico non ottiene la giusta

estimazione del suo valore, se non in quanto sia divenuto il resultato dell’esperienza delle scienze. Esso si presenta allora allo spirito come la verità universale, non come una conoscenza particolare accanto ad altra materia e ad altre

realtà, ma come l’essenza di tutto questo rimanente contenuto»[57]. Subìta la disciplina logica, il suo agire ritorna sotterraneo; le categorie, una volta interiorizzate (erinnerte), divengono nuovamente

potere inconscio, dimodoché nella logica il più di coscienza si ribalta nel più di inconscio; talpa e civetta scambiano i loro ruoli: «Ma soprattutto il pensiero arriva con ciò [con la dimora nel regno delle ombre] a

sussistere per sé e a essere indipendente. Esso si familiarizza coll’astratto e coll’avanzare attraverso a concetti senza substrato sensibile, diventa il potere inconscio di accoglier nella forma razionale la

rimanente molteplicità delle cognizioni e delle scienze, di afferrarle e tenerle ferme in ciò che hanno di essenziale, di spogliarle dell’estrinseco, e di estrarne in questa guisa l’elemento logico, – o, ch’è lo stesso, il

pensiero diventa con ciò il potere inconscio di riempire colla sostanza d’ogni verità quell’astratta base logica già acquistata per mezzo dello studio, e di dare all’elemento logico il valore di un universale, che non sta

più come un particolare accanto a un altro particolare, ma si impone sopra a tutto questo ed è la sua essenza, l’assolutovero»[58]. Rispetto alle altre forme dello spirito, le categorie logiche hanno

una vischiosità

maggiore e

permanenza, formano un reticolo di più lunga durata, proprio perché coinvolgono l’intera comprensione della realtà. Il fatto stesso che da Aristotele in poi la logica non abbia fatto

un passo avanti (giacché i mutamenti consistono «quasi per intiero in semplici omissioni»), implica per Hegel non solo la lentezza con cui si producono le variazioni su questo terreno, ma anche il bisogno, ormai maturo,

di un suo «totale rifacimento». In effetti, «un continuo lavoro di duemil’anni deve aver procurato allo spirito una più alta coscienza intorno al suo pensare, e intorno alla sua pura essenzialità in se stessa»[59]. Le nuove

categorie non sono state tuttavia finora compenetrate e sistemate, e inoltre, durante tutto il Medioevo, per quanto la coscienza si sia sviluppata e abbia prodotto delle «figure», non c’è stata

l’acquisizione di alcuna nuova categoria logica. Dopo la caduta del mondo antico, gli arabi, diversamente dai barbari insediatisi in Europa, «con la stessa rapidità con cui grazie al loro fanatismo si estesero sul mondo

orientale e occidentale, percorsero anche i vari stadi della civiltà, e in breve tempo si procurarono una cultura molto superiore a quella dell’Occidente»[60]. Essi però seguirono la stessa direzione che la filosofia e le scienze avevano

seguito anteriormente tra i Greci e non fecero quindi progredire la filosofia[61]. Neppure gli Scolastici in Occidente fecero progredire la filosofia, ma nell’esercizio del pensiero, analogo all’esercizio delle armi

nei tornei cavallereschi[62], essi imposero alla coscienza la dura disciplina del regno delle ombre, e fu proprio la lunga incubazione nella «notte» del Medioevo, in luogo della rapida assimilazione da parte

degli arabi, che estrasse il nuovo pensiero a partire dalla barbarie. Lo «sprofondarsi in sé» dell’Occidente nel sole interiore, il suo sottosviluppo, di contro all’«espansione» della civiltà islamica[63], fu la premessa di uno

sviluppo accelerato. Ma il «giogo» inizialmente imposto alla rozzezza barbarica fu tremendo, anche se aveva come scopo «l’infinita elasticità» e come premio «la libertà dello spirito»[64]. La nuova verità, l’assoluto, si

rivelò in maniera concreta e immediata già nella figura del Cristo, in cui l’abbandono della naturalità assunse la forma tragica e individuale della morte[65]. Perciò la filosofia cristiana fu, fin

dalle origini, «un torbido agitarsi nelle profondità dell’idea, nelle configurazioni di essa, che ne costituiscono i momenti, un aspro combattimento della ragione, che non riesce a farsi strada dalla fantasia e dalla

rappresentazione concetto»[66].

al Nel

Medioevo la verità infinita, sotto forma di spirito e sotto la parvenza dell’alterità, venne affidata «a un popolo di barbari, che non posseggono la coscienza della loro

umanità spirituale, che hanno bensì petto umano, ma non ancora spirito umano. La verità assoluta ancora non si realizza, non diventa ancora presente nella coscienza reale, ché anzi gli uomini sono strappati fuori di se

stessi. Per gli uomini, questo contenuto dello spirito si trova ancora deposto in loro come in un vaso estraneo, pieno dei più intensi stimoli della vita fisica e spirituale, ma come una pietra pesantissima, di cui possono soltanto

sentire l’enorme pressione, ma ch’essi non digeriscono e non ancora assimilano coll’istinto»[67]. Tuttavia, proprio perché spiritus durissima coquit, anche questo masso viene dapprima sbriciolato e poi assimilato. Il

compito della Scolastica è stato, appunto, quello di trasformare la rozzezza del sensibile e della fantasia nella forma dell’intelletto. Parallelamente, la grande rivoluzione apportata dal cristianesimo in questo

periodo è stata quella di diffondere l’intellegibile fra le masse, tradurre la filosofia nel linguaggio della coscienza comune, ampliando così il numero degli individui consapevoli e ponendo le premesse di una svolta qualitativa della

storia europea: «in virtù della nuova religione il mondo intellegibile della filosofia è diventato mondo della coscienza comune; perciò il Gellert afferma: – “Oggi i bambini sanno di Dio ciò che nell’antichità seppero

soltanti i maggiori sapienti”. Ma perché tutti possano sapere la verità, è necessario che quest’idea pervenga loro come un oggetto, non per la coscienza pensante e coltivata filosoficamente, ma per la coscienza sensibile,

ancora ferma ad un modo rozzo di rappresentarsi le cose […] Nel Cristianesimo questo essere in sé e per sé del mondo intellettuale, dello spirito, è diventato coscienza generale»[68]. Per

combattere

la

rozzezza della rappresentazione, gli Scolastici procedono, per così dire, ad una sorta di iconoclastia del sensibile e dell’esperienza, fondando un «regno del pensiero» che, evangelicamente, non è

ancora un regno di questo mondo, ma nella sua aridità si oppone a esso; o meglio, proprio la sua separazione dal mondo sensibile è la cifra di questa scissione esistente. La Scolastica ha nel Medioevo la stessa funzione di

ginnastica mentale che in precedenza aveva svolto la Sofistica: «Come i Sofisti greci si erano aggirati in concetti astratti a servizio della realtà, così fecero gli Scolastici al servizio del loro mondo intellegibile»[69]. Essi

astraggono completamente

infatti

dall’esperienza nel forgiare i propri concetti, perché disprezzano la realtà e non provano alcun interesse per essa, e fanno camminare il pensiero senza l’apporto

di ciò che è esterno[70]. In un periodo in cui la Chiesa si garantisce «dagli attacchi dei potenti coi terrori dell’inferno»[71], anche la filosofia, per difendersi dalla cattiva realtà dell’esistente, si arrocca nella cittadella

dell’intelletto e costituisce lo scenario superiore e complementare del mondo degli inferi. Dopo un lungo periodo di diffidenza, anche la filosofia è ammessa nella civitas Dei e tende a identificarsi con questa

realtà soprannaturale. Il cristianesimo era sorto, infatti, dal sentimento giudaico della propria «nullità», e contro tale «miseria» aveva innalzato «il mondo intiero […] in questo elemento del nulla […] ma appunto però in

base a questo principio s’innalzò nel regno del pensiero, in quanto quel nulla si cangiò in una conciliazione positiva. È stata questa una seconda creazione del mondo, seguita alla prima»[72]. Di una simile seconda creazione del

mondo, cominciata con la tragedia della croce, il pensiero è il segreto artefice. Solo che la rosa della conciliazione non è ancora fiorita e se ne ha un vago sentore unicamente nel suono delle campane o nella debole luce dei ceri, che

sostituisce il sole esteriore e illumina la «notte» di quest’epoca: «Ciò che la coscienza di sé aveva da superare era da un lato questa immediatezza sensibile del suo mondo intellegibile, d’altro lato l’opposta immediatezza

sensibile della realtà, che per la sua coscienza vale come nulla. Essa esclude il sole, lo sostituisce con candele, si adorna soltanto d’immagini; la conciliazione è avvenuta soltanto in sé, nell’interno, non per la

coscienza: per l’autocoscienza non c’è che un mondo peccaminoso, malvagio. Giacché il mondo intellegibile della filosofia non aveva appunto ancora in sé finito di farsi anche mondo reale, di

conoscere nel l’intellegibile,

reale

nell’intellegibile il reale»[73]. Nella Fenomenologia, laddove la coscienza sperimenta la conciliazione interiore come pensiero devoto, «il suo pensare, come devozione, resta

un vago brusio di campane o una calda nebulosità, un pensare musicale che non arriva al concetto, che sarebbe l’unica e immanente guisa oggettiva»[74]. C’è voluto del tempo prima che il mondo intellegibile assorbisse il

mondo reale, prima che l’idea si innestasse nella realtà, giungendo infine – con la Rivoluzione francese, che ha posto il pensiero «sul trono», e con energica determinazione lo ha concretamente applicato – a governarla.

La conciliazione ha dovuto abbandonare la sua calda intimità, la luce delle sue candele, per diventare «aurora» rivoluzionaria dell’esistente. Essa ha tolto, nell’endiadi ragione-effettualità, le astrazioni unilaterali di

un cattivo esistente e di un pensiero ultraterreno, ed ha trasformato il salto utopico in un regno che non è di questa terra, nel continuo trascendere i limiti di questa terra stessa. Ha eliminato la duplice

immagine di un mondo superno fatto solo di luce, di verità e di amore e di un mondo terreno fatto di tenebre, di errore e di odio: «Ci si potrebbe bene immaginare una comunione universale dell’amore, un mondo di

pii e di santi, un mondo di fratellanza, di agnellini e di frivolezze spirituali, una repubblica divina, un cielo sulla terra. Ma così non vanno le cose del mondo: perciò quelle fantasie si indirizzano al cielo, cioè altrove, cioè

alla morte. Ogni realtà vivente esige invece ben altri sentimenti, istituzioni e azioni. Al primo apparire è stato detto “il mio regno non è di questo mondo”: ma la realizzazione doveva e non poteva non essere nel mondo. In altri

termini, le costumi,

leggi,

i gli

ordinamenti politici, e in generale tutto quello che appartiene alla realtà della coscienza spirituale, debbono diventare razionali»[75]. La verità ormai non è più – come nella

tradizione del pensiero antico medievale – phos noetos o lux intellegibilis[76], ma differenza e contrasto, dialettica di un mondo che ha in se stesso, e non al di fuori, il negativo e il positivo: «è facile accorgersi che

nell’assoluta chiarezza non ci si vede né più né meno che nell’assoluta oscurità, e che così l’uno come l’altro vedere sono un puro vedere, un veder nulla. La pura luce e la pura oscurità son due vuoti, che son lo stesso. Solo nella luce

determinata – e la luce è determinata nell’oscurità –, quindi solo nella luce intorbidata, si può distinguer qualcosa. Parimenti qualcosa si distingue solo nell’oscurità determinata – e

l’oscurità è determinata dalla luce –, quindi solo nell’oscurità rischiarata»[77]. Il mondo moderno, di fronte a quello medievale, è contrasto che si supera dentro la realtà effettuale stessa, è la contraddizione

accompagnata da una redenzione immanente. Il mondo intellegibile, discendendo dal suo isolamento, procede qui veramente a una seconda creazione e rifondazione dell’esistente, progettata dal pensiero.

La sua marcia è più o meno violenta, a seconda delle diverse nazioni, più o meno percepibile, ma è costante e inarrestabile. Appunto perché il pensiero sta già dettando legge dal suo «trono» invisibile, lo

studio logica

della nuova assume un

diverso valore, e la pedagogia a essa collegata non è semplice iniziazione a un mondo qualsiasi, statico e uniforme, ma introduzione a questo mondo particolare

dominato dall’universale esistente. Il nuovo principio egemone del mondo moderno – come si è ricordato in precedenza – si presenta anch’esso, al pari di ogni nuovo elemento, caratterizzato da una

faziosa inimicizia nei confronti del vecchio mondo: «Nel suo primo apparire, la nuova creazione suole abbandonarsi a una ostilità fanatica contro la larga sistematizzazione del principio precedente.

Essa suole anche in parte aver paura di perdersi nell’estensione del particolare, in parte, poi, rifuggire dal faticoso lavoro necessario al perfezionamento della costruzione scientifica, onde in mancanza di

quello si attacca per lo più dapprima ad un vuoto formalismo»[78]. Tale ostilità fanatica si presenta nella storia ogniqualvolta il principio nuovo, ancora astratto, vuole affermarsi nella sua immediatezza e unicità

contro tutte le restanti determinazioni concrete. Per imporsi deve allora ricorrere alla violenza. Così avviene durante la caccia alle streghe, quando il sorgere della «coscienza della soggettività dell’uomo»,

dell’interiorità delle sue decisioni, porta con sé «questa fede nel male, come forza immensa della mondanità»[79]. E così avviene nell’islamismo, il cui principio era «la religion et la terreur, come presso Robespierre era la liberté

et la terreur»[80]. Così avviene, appunto, con il Terrore della Rivoluzione francese, quando l’immediatezza dell’universale, della «volontà generale» del citoyen, vuole cancellare subito la particolarità esistente degli individui

in una società tuttora atomizzata. In ciascuno di questi casi – che hanno in comune solo l’impatto che il nuovo subisce a contatto del vecchio e la spietata difesa che esso fa di se stesso, il suo ineliminabile aspetto di

negatività – al terrore si accompagna il sospetto, e la pena è sempre la negazione astratta, la morte. Vi ricorrono i califfi arabi per imporre la fedeltà e vi ricorrono cattolici e protestanti contro le streghe fino al 1780, quando l’ultima fu

bruciata a Glarus in Svizzera. Queste «povere donne, chiamate streghe, dovevano limitarsi alla soddisfazione di piccole vendette contro le vicine, guastando il latte alla vacca o facendo ammalare il

bambino»[81]. La caccia alle streghe fu «come una immensa peste, che imperversò fra i popoli, soprattutto nel Cinquecento. Sua ragione principale fu la sospettosità. Con lo stesso spaventoso carattere questo

principio del sospetto si manifesta nel dominio imperiale a Roma e sotto il terrore di Robespierre, quando veniva punita anche l’intenzione come tale»[82]. Una volta passato il primo necessario

«periodo fermentazione»[83],

di

l’impulso rivoluzionario si cristallizza e muore oppure la sua tensione si abbassa e si intreccia con una tensione opposta che ne riduce l’aggressività e ne muta la natura o, ancora, la

rivoluzione si codifica e, abbandonata l’immediatezza devastatrice, si articola in istituzioni, procedendo ad un ritmo più lento ma più sicuro. Abbiamo quindi tre sbocchi esemplari di un principio nuovo, con la

progressiva riduzione della durata di virulenza e di riflusso: l’Islam, la religione cristiana in età moderna, la Rivoluzione francese. Nell’Islam, dopo la rapida assimilazione della cultura superiore, si assiste ad un lento

declino, intervallato da «ondate» via via più deboli di vitalità: «Raffreddatosi il fanatismo, nessun principio etico era rimasto negli animi. L’Oriente precipitò nella più grande dissolutezza […] Presentemente

l’Islam, ricacciato verso l’Asia e l’Africa, e tollerato in un angolo d’Europa solo dalla reciproca gelosia delle potenze cristiane, è già da lungo tempo scomparso dal piano della storia del mondo, e ricaduto nell’inerzia e

tranquillità orientale»[84].

Nella

religione cristiana, invece, il fanatismo, la superstizione e la caccia alle streghe si scontrano col pensiero, e nella lotta fra il pensiero e la superstizione, quale è descritta nella

Fenomenologia, religione, e

la in

particolare quella protestante, è costretta a mediare la sua immediatezza, a divenir cosciente della razionalità e a fare i conti con essa (per quanto l’ostilità latente

tra fede e sapere non sia ancora finita, né possa in assoluto finire). L’impulso rivoluzionario, attenuato nel suo principio terroristico interno allo Stato, si conserva invece nella Francia napoleonica: il

Code Napoléon ha infatti riconosciuto in parte le conquiste della Rivoluzione, ma contemporaneamente, sul piano del diritto privato, ha riconosciuto anche quella particolarità soggettiva che il Terrore voleva

assorbire immediatamente nella volontà generale. Dopo la Rivoluzione, infatti, già con il Direttorio, si era affacciata l’esigenza di un ritorno ad una situazione più ‘normale’: «si costituisce di nuovo

l’organizzazione delle masse spirituali, nelle quali viene distribuita la folla delle coscienze individuali. Queste, che hanno provato la paura del loro signore assoluto, la morte, si rassegnano di nuovo alla negazione e alle

differenze, si ordinano sotto le masse e ritornano a un’opera frazionata e limitata; ma, con ciò, anche alla loro effettualità sostanziale»[85]. Il Terrore viene ora interiorizzato in dominio della morte in

guerra e trasferito all’esterno, nei campi di battaglia dell’Egitto e dell’Europa. Ma la guerra ha il suo limite nella proprietà, così come questa ha il suo correttivo nella guerra, nella necessaria insicurezza del

possesso, onde evitare che la vita privata, il particolare, prenda il sopravvento sulla vita pubblica, l’universale. Riconoscimento della particolarità sotto il controllo dell’universale, diffidenza nei confronti

dell’universalità vuota e astratta (che rievoca fantasmi giacobini), assenza di ogni «tenerezza» per le cose e per gli uomini: questi sono i punti di contatto oggettivi, filtrati attraverso l’esperienza globale dell’epoca, fra

Napoleone e Hegel. Anche Hegel, a modo suo, ha voluto codificare nel sistema il nuovo principio dispiegato, «sorto per la scienza non meno che per la realtà»; ha voluto enucleare dalla «ghianda» del nuovo

mondo il concettuale

codice che

comincia già a imporsi non solo nella realtà, ma anche sul terreno della filosofia, dove il periodo della «fermentazione» del nuovo sembra «ormai passato». Si tratta ora di

abbandonare il «vuoto formalismo» che lo ha caratterizzato e di porgere ascolto all’esigenza di un universale concreto nella forma di sistema, come risposta al sistema di fatto già vigente nell’epoca: «Il

bisogno di una elaborazione e di una sapiente trasformazione del materiale diventa ora tanto più urgente». Vale la pena di rileggere quanto segue: «V’è un periodo nella formazione di un’epoca storica, come

nell’educazione di un individuo, in cui si tratta soprattutto della conquista e dell’affermazione del principio nella sua intensità non sviluppata. Un compito superiore è però di far sì che quel principio

diventi scienza»[86]. La

struttura

del

presente è contenuta nel sistema come totalità, ma essa si manifesta anche nella dimensione logica, nella «rete adamantina». Qui l’insieme potrebbe essere esposto con

«rigore di immanente plasticità», in una concatenazione analoga a quella della geometria di Euclide, ma «l’inquietudine e la dissipazione propria della nostra coscienza moderna»[87] impediscono uno

sviluppo senza intralci della «cosa stessa». Si deve così procedere con digressioni, soffermarsi continuamente a riflettere su qualche aspetto che l’abitudine rende non chiaro, rettificare le rappresentazioni

inadeguate, richiamare la coscienza al filo dell’argomento dalla sua dispersione, costringerla a sollevarsi, con una sorta di argano fenomenologico, dal concreto sensibile e dal noto, farla pensare. È vero infatti che il

pensiero domina questo tempo, ma più sotto forma di riflessione che sotto forma di speculazione. La speculazione, tuttavia, non può ormai prescindere dalla riflessione: deve concederle spazio, se

vuol penetrare nella coscienza del singolo; deve momentaneamente aderire alla sua inquietudine e dissipazione, se vuole trascinarlo nel regno delle ombre. Non

sono

soltanto

l’arte e la religione a essere insidiate nella loro autonomia dalla riflessione; è anche la filosofia, almeno finché non riesce a subordinarla ai suoi scopi, a trasformarla in appigli ausiliarî per la coscienza. C’è in questa

impostazione hegeliana del rapporto concatenazione rigorosa/digressioni un nodo complesso, che rinvia non tanto al problema del pubblico al quale un’opera filosofica si rivolge[88], quanto alla convinzione

di fondo che ora non esiste più, come nella metafisica antica e medievale, una verità oggettiva che sta per sé, indifferente nei confronti della coscienza; oggi la verità esiste solo nella sua fruizione soggettiva, nel

rivivificare soggettivamente

la

«lettera» mediante lo «spirito»: «lo spirito non significa se non ciò che è dentro coloro i quali si accostano alla lettera per intenderla e vivificarla spiritualmente, vale a

dire che sono le rappresentazioni che uno si porta seco, quelle che si debbono far valere nella lettera […] È vero che l’affermazione che lo spirito deve vivificare la nuda lettera è più precisamente intesa nel senso ch’esso

debba limitarsi a spiegare il dato: esso dovrebbe cioè lasciare intatto il senso di quanto è contenuto immediatamente nella lettera. Ma si dà prova di cultura non molto progredita, se non si scorge l’inganno

contenuto in questo rapporto. È impossibile “spiegare” senza che intervenga il nostro spirito, quasi che il significato fosse soltanto un dato. Spiegare vuol dire render chiaro, e propriamente chiaro a

me: ora non può diventar chiaro a me se non ciò ch’è già in me. Esso deve corrispondere al mio modo di giudicare soggettivo, ai bisogni del mio sapere, del mio conoscere, del mio cuore ecc.: soltanto così è per me. Si trova

ciò che si cerca, e nell’atto in cui io me lo rendo chiaro, vi faccio valere la mia rappresentazione, il mio pensiero: altrimenti esso è un che di morto, di esteriore, che non esiste affatto per me»[89].

L’individuo si impossessa dunque del vero traducendolo nel suo linguaggio, ma deve anche, nello stesso tempo, depurare la propria coscienza degli aspetti meramente soggettivi e arbitrari e «sprofondarsi nella

cosa». Perché questo sia possibile, perché si formi un antidoto nei confronti della soggettività vuota e delle sue presunte certezze, è necessario il «sistema», che non vuol essere una modalità di prevaricazione sul

concreto, ma un mettere alla prova il sapere e l’esperienza raggiunti, un verificarne la tenuta dinanzi a tutte le possibili obiezioni soggettive: «Un filosofare senza sistema non può esser niente di scientifico; e oltreché un

siffatto filosofare per sé preso esprime piuttosto un modo di pensare soggettivo, è, rispetto al suo contenuto, accidentale. Un contenuto ha la sua giustificazione solo come momento del tutto, e fuori di questo è

un presupposto infondato o una certezza meramente soggettiva: molti scritti filosofici si restringono in tal modo a esprimere soltanto pareri e opinioni»[90]. Il sistema non è la diabolica tentazione del serpente

dell’Eden di rendersi uguali a Dio con una conoscenza globale della realtà, ma lo sforzo supremo di pensare il proprio tempo con la massima coerenza e profondità[91], proprio perché, al livello di

pensiero, le categorie si stringono fra loro con «nodi più fermi» (festere Knoten) di quelli delle intuizioni o delle rappresentazioni[92]. È la filosofia stessa, giunta a una certa epoca, che esige il pensare sistematico (almeno

asintoticamente, ossia come avvicinamento progressivo a una meta irraggiungibile, ma irrinunciabile) come unico modo di esprimere e articolare coerentemente la verità, di darle una paradossale fondazione senza

fondamento, nella quale la fissità di un astratto «cominciamento» (che dovrebbe, comunque, essere infondato, assiomatico, per evitare il pericolo del regressus ad infinitum) sia scardinata e il principio si mostri quale

dinamico processo di autoproduzione. L’operazione hegeliana consiste, dunque: nell’«eliminare l’idea di una fondazione riposante su un substrato o centrata su un primum fisso»; nel «sostituire a tale

substrato un processo che produca se stesso insieme alle leggi del proprio movimento e alle regole della sua comprensione razionale; e infine – e questa è l’idea veramente cruciale ed essenziale della

posizione hegeliana – [nel] fare di questo autogenerarsi della forma nei suoi contenuti (la ‘forma assoluta’) il principio logico di una struttura sistematica»[93] Per tale motivo l’inizio deve potersi ricongiungere

circolarmente fine[94].

alla

4. Ordine e movimento sistematico È triste che soltanto dopo aver

lungo tempo dietro la guida di un’idea che giace nascosta in noi raccolte rapsodicament molte conoscenze

ad essa relative, a guisa di materiali da costruzione e messele magari insieme per lungo tempo tecnicamente

diventi possibile per noi vedere l’idea in piena luce e abbozzare un tutto secondo gli scopi della

ragione architettonicam I sistemi paiono, come i vermi, essere nati per una generatio aequivoca dal

semplice concorso di concetti raccolti assieme, da prima mutili, poi, col tempo, formati completament

quantunque avessero tutti il loro schema, come germe originario, nella ragione che semplicemente

si sviluppa; e perciò non soltanto ciascuno per sé è organato secondo un’idea, ma inoltre

tutti, a loro volta, sono tra loro riuniti opportunamen come membri di un tutto, in un sistema

di conoscenza umana, e permettono un’architetton di tutto il sapere umano; la quale, oggi che già tanta materia è

stata raccolta o può essere presa dalle rovine delle antiche costruzioni crollate, non

soltanto sarebbe possibile, ma non sarebbe neanche tanto difficile […] Kant, Critica della

ragion pura[95].

Sistema è, com’è noto, un termine di origine stoica (systema) che designa l’ordine dell’universo. Tale significato si è conservato a lungo, attraverso l’astronomia,

e non è andato perduto neppure dopo che il concetto di «sistema» si estese a diversi campi. In Condillac, infatti, che col Traité des Systèmes del 1749 aprì il dibattito moderno sulla teoria dei sistemi, il legame con la natura resta

paradigmatico (in precedenza il termine «sistema» era stato usato in contesti medici o, dagli stoici, in rapporto al kosmos)[96]: «Un sistema non è altro che la disposizione delle diverse parti di un’arte o di una scienza in un

ordine in cui esse si sostengono a vicenda, e dove le ultime si spiegano attraverso le prime. […] I sistemi sono più antichi dei filosofi: la natura ne fa fare, e non se ne facevano di cattivi quando gli uomini non

avevano che essa per padrona»[97]. E ancora in Schelling: «Come è possibile in generale un sistema? Risposta: prima che l’uomo pensasse a farne uno, esisteva da molto tempo un sistema – il sistema dell’universo»[98]. Con

Condillac inizia anche la polemica contro l’esprit de système, la pretesa di costruire un edificio coerente e astratto di conoscenze, secondo massime generali non comprovate dall’esperienza. A una tale struttura secondo

princìpi, Condillac contrappone l’insieme delle ipotesi controllate, e affaccia l’idea – che ritorna poi in Fichte con segno positivo – che il «sistema astratto» rifletta soltanto le passioni e il carattere del filosofo che lo

prospetta: sono «di solito le passioni [che] decidono tutte da sole. Uno spirito, naturalmente dolce e benevolo, adotterà i princìpi che si traggono dalla bontà di Dio […] Infine, un carattere chiuso, melanconico,

misantropo, odioso a sé e agli altri, avrà predilezione per queste parole: destino, fatalità, necessità, caso»[99]. D’ora in avanti, la disputa sui sistemi diventerà più accesa, rivelando da un lato la tendenza del sapere a presentarsi in

forma organica, a seguire una tendenza ‘architettonica’, dall’altro il timore che l’elemento estetico, di simmetria e di completezza, costringa il concreto a piegarsi all’arbitrio di schemi precostituiti. Per

limitarci all’immediato retroterra del discorso hegeliano, è interessante osservare come nella cultura filosofica tedesca e nella cultura scientifica francese del tempo il concetto di sistema fosse ritenuto in genere

essenziale strutturazione

alla del

sapere e lo si ritrovi anche in autori che hanno, sotto questo profilo, una fama migliore di Hegel. Così per Kant il filosofo è il legislatore dell’umana ragione, che riporta a

quest’unica fonte tutte le manifestazioni del sapere e trasforma un aggregato di conoscenze in scienza: «Sotto il governo della ragione le nostre conoscenze in generale non possono formare una rapsodia, ma devono costituire un

sistema […] Per sistema poi intendo l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto una idea […] L’unità del fine, a cui tutte le parti si riferiscono, riferendosi intanto, nell’idea del fine stesso, anche tra loro, fa che ciascuna

parte non mancare

possa nella

conoscenza delle altre, e che non possa esserci alcuna addizione accidentale, o alcuna grandezza indeterminta di perfezione, che non abbia i suoi limiti determinati a priori. Il

tutto è quindi organizzato (articulatio) e non ammucchiato (coacervatio); può crescere dall’interno (per intussusceptionem), ma non dall’esterno (per appositionem), come un corpo animale il cui crescere non aggiunge

nessun membro, ma, senza alterazione della proporzione, rende ogni membro più forte e più utile […] Nessuno tenti di fare una scienza senza avere un’idea a base […] la filosofia è la scienza della relazione di ogni conoscenza al

fine essenziale della ragione umana (teleologia rationis humanae); e il filosofo non è un ragionatore, ma il legislatore dell’umana ragione»[100]. Come vedremo, il modello analogico dell’organismo animale

sostiene spesso l’idea di sistema e tende anzi a sovrapporsi al modello astronomico precedente, facendo cadere l’accento sul «sistema nello sviluppo». Tale è la prima posizione di Schelling, nel 1797: «Ma questo

sistema generale non è una catena che scenda verso il basso, nella quale ogni anello penda dall’altro all’infinito, bensì una organizzazione, in cui ogni singolo membro è reciprocamente fondamento e

conseguenza, mezzo e fine, rispetto a ogni altro. Ogni progresso in filosofia è quindi soltanto un progresso mediante sviluppo»[101]. In seguito Schelling sarà più guardingo e dirà: «I maggiori sistemi filosofici sono mere

costruzioni, più o meno ben trovate, dei loro inventori: equivalgono press’a poco ai nostri romanzi storici»[102]. In Hegel, invece, lo schema organicistico raggiunge la sua massima espansione, e il sistema diventa veramente una

creatura viva che si sviluppa nel tempo, seppure in quanto «riflesso di tutta la storia». Il filosofo ne scruta i movimenti con paterna trepidazione, al pari dei «genitori» quando fanno esperienza per la prima

volta della crescita spontanea del loro bambino e «si vedono davanti una specie di miracolo»[103]. La ‘filosofica famiglia’ è in effetti per Hegel una realtà vivente, un rapportarsi commosso all’eredità degli avi per

farla fruttare, una continuità ideale tra le generazioni: «come per la contadina sono il fratello e lo zio morti, così per il filosofo sono Platone, Spinoza ecc.»[104]. Il sistema è così opera collettiva di tutti i filosofi

precedenti, è un portare a compimento le grandi filosofie del passato, superandone i limiti rispetto al presente e scoprendone la nascosta finalità. L’ultimo sistema apparso nel tempo è perciò il più ricco, perché esprime

un presente più ricco; è il più adeguato, perché è la risposta a problemi che sono sorti sul terreno del presente e ai quali i pensatori del passato non potevano dare risposta. È inutile quindi volersi rifare ad una filosofia del passato

(e ciò vale per Hegel stesso) e proporre impossibili ritorni: «Non dobbiamo credere di poter trovare negli antichi la risposta agl’interrogativi della nostra coscienza, agl’interessi del mondo odierno: tali

interrogativi presuppongono

una

determinata educazione del pensiero. Ogni filosofia, per il fatto di rappresentare un particolare stadio di svolgimento, appartiene al tempo suo ed è chiusa nella sua

limitatezza. L’individuo è figlio del suo popolo, del suo mondo, di cui egli non fa altro che manifestare la sostanza, sebbene in una forma peculiare. Il singolo può ben gonfiarsi quanto vuole, ma non potrà mai uscire dal proprio

tempo, come non può uscire dalla propria pelle […] Ogni filosofia è filosofia dell’età sua, è un anello della catena complessiva dello svolgimento spirituale, e può dar soddisfazione soltanto agli interessi del suo tempo»[105]. Il

voler tornare indietro, in filosofia, è una fuga dinanzi alle difficoltà del presente, corrisponde ad una forma di regressione psicologica, a una «stoltezza simile a quella d’un uomo che volesse sforzarsi di

ritornare alle idee che aveva da giovinetto, o di un giovinetto che volesse ridiventar fanciullo o bambino»[106]. Ma che necessità c’è allora di conoscere le filosofie del passato? Tanto più che ogni filosofia non è

trasferibile e imitabile nel tempo: essa è «in sé compiuta ed ha, come un’autentica opera d’arte la totalità in sé. Come le opere di Apelle e di Sofocle, se Raffaello e Shakespeare le avessero conosciute, non sarebbero potute

loro apparire di per sé come semplici esercizi preparatorî – bensì espressioni di uno spirito affine – così anche la ragione nelle sue precedenti figure non può vedervi esercizi preliminari semplicemente utili. E

proprio perché Virgilio ha considerato Omero, rispetto a sé e alla sua epoca più raffinata, un esercizio di quel genere, il suo poema è rimasto un esercizio di imitazione»[107]. Un’opera d’arte non si può smembrare per

sottrarne delle parti da utilizzare in seguito; così un sistema filosofico del passato non si può assimilare in quanto tale: bisogna negarlo nella sua storica immediatezza e trovare soluzioni più alte che rispondano anche agli

interrogativi posti da esso. Si studiano le filosofie del passato per trovare in esse la «radice»[108] del presente e del suo sistema concettuale, per scoprire le fondamenta del proprio tempo e del suo movimento. Il

passato è sistemato

dunque

continuamente dal ‘campo magnetico’ del presente in mutamento, ed ha la sua «verità» nella struttura che di volta in volta assume all’interno dell’orizzonte temporale dell’ultima

epoca. Se la verità è nel tempo, non ha senso per Hegel chiedersi quale sia la verità di un sistema in assoluto: esso è valido nella misura in cui riesce a fornire la rete adamantina (o parte di essa) per la decifrazione

della propria epoca. E le affinità elettive che fanno rivolgere il sistema più evoluto alle filosofie del passato – ad alcune più o piuttosto che ad altre – si spiega col bisogno di attualizzare quegli aspetti di esse che

possono fornire un embrione di risposta ai nuovi interrogativi posti dal proprio tempo. Attualizzare le filosofie del passato è indirizzarle verso il futuro. L’Erinnerung è anche qui il ripiegamento in vista di

un’avanzata. Ma se in tal modo i filosofi precedenti non sono «cani morti», è vero però che il riferirsi al passato è solo un momento, il momento che precede la soluzione dei problemi del presente. Quando un’epoca si

attarda nelle filosofie del passato, come il Medioevo, con la Scolastica, questo è un segno di crisi, della mancanza di sbocchi immediati per il presente. Allora l’Erinnerung diventa un lungo «sprofondarsi» in

sé, la sotterranea preparazione del nuovo attraverso un’immane attività di assimilazione della tradizione e dell’esistente. E il sistema è solo una summa, un resoconto dettagliato di quest’opera di

conquista, ma non una scoperta consapevole del nuovo. Anche il periodo della Reflexionsphilosophie, dopo la rivoluzione kantiana, mostra, sotto l’opposto profilo dell’originalità soggettiva e della

proliferazione dei sistemi, l’incapacità di formulare concettualmente la realtà globale del nuovo, e la fuga nella dissipazione quantitativa: «Un’epoca che ha dietro di sé come passato una tale

abbondanza di sistemi filosofici sembra dover pervenire a quell’indifferenza che la vita raggiunge dopo essersi cimentata in tutte le forme. Quando l’individualità fossilizzata non rischia più se stessa nella vita,

l’impulso alla totalità si esprime ancora come impulso alla totalità delle conoscenze. Essa cerca di procurarsi, attraverso la molteplicità di ciò che ha, l’apparenza di ciò che non è»[109]. Per innalzarsi formalmente

al di sopra dei contenuti del proprio tempo, il sistema che ne è l’espressione deve sì poggiare sulle filosofie del passato, ma le deve negare nella loro rigidità, inserendole in funzione subordinata al suo interno, così da

comprendere il loro esser-divenute come un «divenire», un processo sempre aperto e sempre apribile. Nel divenire il sistema più compiuto rimodella la sostanza resa fluida del passato, che non appare più in età moderna come un

duro e opprimente macigno, ma come un materiale con cui plasmare il presente. Neppure il passato deve sfuggire alla presa di quest’epoca ‘totalitaria’, che si specchia in un sistema onnicomprensivo, che

coinvolge nel suo corso l’intero pianeta ormai sostanzialmente esplorato e circumnavigato, che ha posto per la prima volta in contatto reciproco tutti i popoli della Terra, facendone confluire i prodotti e le ricchezze

verso un centro, nella «parte razionale» di essa, l’Europa. Il pathos di Hegel nel trattare la coppia indissolubile totalità-sviluppo riflette la diffusa esperienza storica dell’epoca, come impossibilità di sfuggire ormai

all’interdipendenza dall’intero – fin nei suoi contraccolpi più remoti – e al mutamento storico, resosi in larga misura autonomo dalla volontà cosciente dei singoli. Tale condizione era stata efficacemente espressa anche da

Hölderlin nella poesia Zeitgeist (Spirito del tempo): Già da troppo tempo tu domini sopra il mio capo, Tu nella oscura

nuvola, dio del Tempo! ovunque Io guardi tutto va in frantumi o vacilla. Ah! come un fanciullo

mi affiso al suolo sovente, Cerco uno scampo da te nella grotta e vorrei, Stolto, trovare un luogo

Dove non fossi tu che tutto sconvolgi! Concedimi infine, o padre, d’affrontarti Con fermo ciglio! Non

hai dunque, per primo, lo spirito Suscitato in me col tuo raggio, non m’hai Splendidame alla vita portato, o padre! –

[110]

.

L’enfasi che investe in Hegel la potenza divina del tempo, la totalità e lo sviluppo organico, in quanto rivelatrice di una situazione storica, non ha nulla di neutro o di innocente. Ogni sottolineatura

manifesta l’urgenza di arginare il principio opposto, avvertito come pericolo, di venire a patti con esso, riconoscendogli un diritto subordinato. Il sistema appare così come dominio sul caos[111];

la

totalità

come modo esorcizzare

di la

disgregazione atomistica della società; l’insistenza sulla vitalità delle idee come rivalsa contro «l’arida vita di intelletto»[112] a cui gli uomini sono condannati dalla divisione del

lavoro e dall’ottusità mentale prodotta dalla ripetizione nelle fabbriche di poche e monotone operazioni[113]; la sublimità dello Zeitgeist come confessione di debolezza nei confronti di forze imperscrutabili

o nascoste. La questione, qui, non è più tanto quella di vedere Hegel in negativo, ma di capire in che modo il sistema e la dialettica – in quanto risposta agli «interrogativi» dell’epoca – siano

appunto sottomissione

e

la la

gestione del pericolo rappresentato dall’opposto negativo nella dinamica del processo, istituzionalizzato in nessi concettuali. La soluzione hegeliana non

è tuttavia ideologica,

soltanto né

tantomeno il sistema è in Hegel – come voleva Solger – la manifestazione del «militärischer Geist» dei tempi che intende imporre a tutti la sua «uniforme»[114].

E

d’altronde in Hegel, in contrasto con l’opinione di Condillac, il sistema è appunto una garanzia contro l’intrusione delle passioni e dei sentimenti personali in filosofia, da cui egli tendeva a separare la sua opera: «Quel che vi

è di personale nei miei libri, – disse a questo proposito Hegel a una commensale che lo guardava ammirata come se fosse un tenore e si sentiva onorata di sedere accanto a una figura così interessante –, quel che vi è di

personale nei miei libri è falso»[115]. Alla base della forma sistematica vi sono importanti problemi reali di carattere storico-sociale e scientifico. Come è possibile, ad esempio, orientarsi in un mondo in sé aperto alla

dimensione planetaria quando l’esperienza diretta del singolo si fa sempre più ristretta e settoriale, rendendo impossibile la personale verifica di tutta la congerie di informazioni che lo colpiscono? Quando si crea un

rapporto di proporzionalità inversa fra l’allargarsi del mondo e del patrimonio collettivo dell’umanità come genere e le capacità dell’individuo di tener dietro a questi sviluppi? Quando le epitomi e le

abbreviazioni tendono a ridurre la complessità, semplificando e diventando sbrigative, come accadde nel tardo impero romano, ai tempi di Eutropio, che nel Breviarium ab urbe condita riassumeva Tito Livio, Svetonio e altri

perché sapeva che i suoi potenziali lettori avevano meno tempo per opere di maggior mole? Quando la politica e la religione non sono più (o non sono ancora) in grado di dare un inquadramento pieno alla vita, così che

il «regno del pensiero», trasformatosi in luogo di raccolta di molti esuli insoddisfatti dalla realtà, lascia alla filosofia solo il compito di «darsi da fare con la religione» e ai filosofi, una volta affievolitasi la fede religiosa, di

sostituirsi ai parroci, di predicare la conciliazione?[116] Il sistema, nel suo aspetto dinamico, svolge allora una funzione pedagogica in senso lato, offre un orientamento più solido e organico di quanto

non facciano, spontaneamente, la tradizione, la cultura limitata, l’opinione pubblica o i giornali. Sembrava inoltre giunto il momento – per Hegel e diversi suoi contemporanei – di ordinare il cumulo delle

conoscenze, alla maniera di Cuvier in paleontologia o di Franz Bopp nello stabilire le relazioni tra le lingue indoeuropee, secondo un modello sorto «nella scienza non meno che nella realtà», di dar loro una sistemazione meno

casuale, di scoprire le segrete corrispondenze fra elementi diversi, nella certezza che tale riorganizzazione non solo non avrebbe nuociuto all’esperienza successiva o l’avrebbe resa superflua, ma che anzi si sarebbe

riverberata su di essa e le avrebbe indicato nuove strade. Persino le numerose forzature hegeliane su questioni di fatto, i suoi fraintendimenti, i suoi ritardi rispetto alla scienza o alla politica del tempo, vanno

guardati in questa luce e commisurati allo sforzo gigantesco compiuto; e non per malintesa indulgenza, per inutili apologie o per la mera rettifica di critiche filologicamente ingiustificate, ma perché altrimenti sfugge

il nucleo essenziale dei problemi e la complessità degli elementi che entrano in gioco. Nel diffuso giudizio negativo sui sistemi in quanto tali pesa il fastidio per le orge speculative che in loro nome sono state

celebrate, diffidenza

la giusta contro i

«ragni» di baconiana memoria, i quali secernono le loro elucubrazioni traendole semplicemente da se stessi, e il sospetto, formulato da Rosenzweig, Benjamin e

Adorno, che il ricorso alla totalità, in un mondo scisso e attraversato da lacerazioni attualmente non componibili, sia un mezzo per occultare i conflitti reali e quindi, in ultima analisi, una patente di legittimità

rilasciata al cattivo esistente, concepito in termini armonicistici. Si dovrebbe quindi, da questa prospettiva, contrapporre a Hegel il motto adorniano «l’intero è il falso»; al sistema, il pensiero volutamente

frammentario, l’aforisma che secondo Kraus «non coincide mai con la verità; o è una mezza verità o una verità e mezzo»[117]; alla totalità plastica, ancora perseguita da Lukács sulle orme dei classici (Goethe, Hegel, Ricardo),

l’allegoria benjaminiana della totalità, a cui le parti possono soltanto alludere, pur restando incommensurabili, oppure la «dialettica negativa» come forma antagonistica di ogni «conciliazione forzata»; allo sviluppo

teleologicamente orientato dell’insieme, la «stella redenzione» Rosenzweig[118]. Le

posizioni

della di

di

Benjamin, di Rosenzweig e di Adorno, tese a denunciare quello che appare loro un

sacrificio dell’individualità, costituiscono un’utile pietra di paragone per mostrare la grandezza, ma anche le peculiari malformazioni, della dialettica hegeliana. Interessante è, soprattutto, la posizione

di Benjamin, che, per evitare che la totalità schiacciasse il particolare, aveva opposto a quella hegeliana la sua Dialektik im Stillstande, una dialettica in quiete che si articola sia in un movimento in grado di

arrestarsi e cristallizzarsi in

di una

monade, sia in una universalità che si individualizza, sia, infine, in una filosofia che è anche filologia. L’idea leibniziana di monade gli permette di rinchiudere la ricchezza

del mondo e del divenire in un punto di vista singolo che non contrasta con l’universale, ma ne seleziona un’angolatura. La monade, la contrazione della realtà in unità, è impoverimento che si

rivela ricchezza:

autentica «L’idea è

monade – ciò significa in breve: ogni idea contiene l’immagine del mondo. Alla sua rappresentazione è posto il compito, nientedimeno, che di disegnare in scorcio

precisamente immagine

questa del

mondo»[119]. La dialettica, che hegelianamente è «inquietudine», viene così bloccata. Benjamin insiste costantemente sulla necessità di salvare il dettaglio,

l’individuale, il piccolo, e – a partire da esso e con esso – di salvare l’universale. Tutti questi insegnamenti li raccoglie da più autori di riferimento: dai fratelli Grimm (a causa della loro «devozione […] per il piccolo»)[120],

dal Freud della Psicopatologia della vita quotidiana, che lavora sui residui e sugli scarti del mondo fenomenico, e dai romanzi di Proust e di Joyce. Il suo sforzo è rivolto a evitare che la dialettica diventi quello che Sartre – più tardi e

in polemica con il marxismo – chiamerà un «bagno di acido solforico» in cui l’individualità e la particolarità si dissolvono. Il secondo problema reale, di carattere scientifico, che il

sistema pone è quello della sua utilizzazione in campi diversi dalla filosofia, e del modo in cui veniva inteso. Nell’anatomia comparata, nello studio delle lingue, nella cristallografia, nella ‘teratologia’ del tempo il

concetto di sistema è euristicamente fecondo e pressoché universalmente affermato. Che esistano delle strutture oggettive simmetriche (ad esempio la costanza degli angoli diedri di un cristallo), che le parti

siano solidali

strettamente col tutto è

esemplarmente affermato nel principio di corrispondenza di Cuvier, nella sua nota affermazione di poter ricavare da un singolo osso la forma dell’intero scheletro

dell’animale[121]. Nelle lingue indoeuropee, parole apparentemente lontanissime fra loro (greche, latine, germaniche, indiane) venivano ricondotte a radici comuni e sottoposte a una complessa dinamica di

trasformazioni che non escludeva un fondamento unitario. Ma ancora più caratteristico è che, contemporaneamente, queste strutture acquistassero anche una forma di movimento (Bildung) e

perdessero l’aspetto di forma statica (Gestalt). La ‘dialettica’ – nel senso più lato di movimento di forme, di sviluppo sistematico mediante opposizione o contraddizione – si era presentata già da tempo sul terreno delle scienze

naturali (nel passaggio dal germe invisibile alla struttura cristallina in Romé de L’Isle, nel concetto di polarità in fisica, nella «vita» come insieme di funzioni che si oppongono alla morte in Bichat e Richerand, nel goethiano

svolgimento degli esseri organici dalla Urpflanze e dall’Urtier), della linguistica storica, dell’analisi infinitesimale ecc., stringendo in un nodo sempre più stretto processo e struttura. Quel che vi era di nuovo

rispetto a concezioni molto più antiche, era che lo sviluppo veniva segnato attraverso modificazioni di forme per salti qualitativi, veniva cioè spezzata in diversi punti la «grande catena dell’essere», ad esempio quando Bichat

sostiene l’impossibilità di spiegare la fisiologia attraverso leggi fisiche e chimiche, o quando Lamarck considera i tre regni della natura come nettamente separati. Oppure nella chimica, aspetto sottolineato da Hegel, attento lettore

dell’Essai de Statique Chimique di Berthollet e dell’Essai sur la théorie des proportions chimiques di Berzelius: «Nelle combinazioni chimiche si presentano, col progressivo mutarsi dei rapporti di mistione, tali nodi e salti qualitativi,

che due sostanze, in certi particolari punti della scala di mistione, formano prodotti i quali mostrano particolari qualità. Questi prodotti non si distinguono già semplicemente uno dall’altro per un più o meno, né li abbiamo già

dinanzi (quasi in un grado più debole) con quei rapporti che stanno accanto a cotesti rapporti nodali, ma son legati proprio a cotesti punti. Per esempio, le combinazioni dell’ossigeno e dell’azoto danno i

diversi ossidi di azoto e acidi nitrici, che si producono solo con determinati rapporti quantitativi della mistione, ed hanno essenzialmente qualità diverse, in modo che coi rapporti di mistione intermedii non hanno

luogo combinazioni

nessune di

esistenze specifiche»[122]. Non è questa la sede per articolare una casistica tratta dalla storia della scienza; quello che immediatamente mi preme di rilevare è

come in Hegel ci fosse – dilatata all’intero universo delle conoscenze – la stessa fiducia nella possibilità di scoprire il movimento razionale delle forme che animò, ad esempio, la storia della chimica e della scienza in genere

dalle notazioni di Berzelius al sistema periodico degli elementi di Mendeleev, e come infine i suoi modelli dialettici non fossero solo la storia, l’economia capitalistica o la trinità cristiana, ma anche la complessa

‘dialettica della natura’ che la scienza stava portando alla luce e ai cui confini era giunta. La metafora hegeliana del sistema come «circolo», che si svolge a partire da un punto, o come circolo di circoli»[123], ha

contribuito anch’essa alla rappresentazione del sistema come sistema chiuso. Ma l’immagine del circolo ha un significato dinamico, rinvia ad un movimento circolare di progressiva estensione[124] (si

vedano però le riserve e i limiti a questa tesi)[125]. Sebbene l’Enciclopedia di Hegel costituisca una ripresa in senso etimologico del tema della circolarità del sapere, essa rappresenta una novità sia rispetto al modello

delle scienze ad albero, che era proprio della tradizione[126], sia rispetto all’idea di circolarità enciclopedica che non partiva da un unico principio e non si articolava nella forma di «sistema in movimento» di tutti i circoli.

Solo in quanto sistema la filosofia può per Hegel essere «scienza»[127]. Certo, ogni sistema esige la completezza, è concluso. Eppure, Hegel non ha mai pensato a una chiusura definitiva rispetto al futuro, non

ha mai creduto che la sua filosofia fosse il culmine di ogni filosofia e che dopo di essa non ci sarebbe stato più niente di importante da dire (una interpretazione, a ben pensare, assurda, ma sostanzialmente

accettata da Kojève che l’approva e la fa sua traendone però notevoli implicazioni). Questo perché il «bisogno della filosofia» di eliminare le scissioni che attraversano la vita e che, in forma nuova, si riproducono in ogni

epoca, non può esaurirsi[128]. Hegel ha individuato queste scissioni e, con la sua filosofia, ha cercato di depotenziarle comprendendole. E lo ha fatto proprio in un’epoca che invecchia, che è entrata nel

crepuscolo sotto gli occhi di civetta della sua filosofia, la quale è però consapevole del fatto che la talpa della storia continua a scavare le sue sotterranee (e quindi per ora invisibili) gallerie. Il sistema ricapitola,

trasformandone il senso e interiorizzandolo nell’Er-innerung, il percorso compiuto con maggiore consapevolezza grazie all’esperienza accumulata nell’intero cammino: «il vero contenuto non è altro,

pertanto, che l’intero sistema, il cui sviluppo abbiamo finora considerato. Si può quindi anche dire che l’idea assoluta sia l’universale, non semplicemente come forma astratta, alla quale si contrappone il

contenuto particolare come qualcosa d’altro, bensì come forma assoluta, in cui sono ritornate tutte le determinazioni, l’intera pienezza del contenuto posto per loro tramite. L’idea assoluta, sotto questo aspetto, è

paragonabile al vecchio che pronuncia le stesse frasi religiose del fanciullo, ma per il vecchio queste frasi hanno il significato di tutta quanta la sua vita […] Se anche il fanciullo comprende il contenuto religioso, questo vale

per lui certo soltanto come qualcosa al di fuori del quale sta ancora la sua vita intera e il suo intero mondo […] Allo stesso modo anche il contenuto dell’idea assoluta è l’intera espansione che avevamo finora davanti

a noi»[129]. Nelle sue opere Hegel ha sempre posto l’accento sul carattere di infinita perfettibilità, ed è quasi incredibile che a molti interpreti sfuggano passi di lampante evidenza, come questo, tratto

dalla Prefazione alla seconda edizione della Scienza della logica, datata «Berlino, 7 novembre 1831», una settimana esatta prima della morte del filosofo: «A proposito dell’esposizione platonica, a chi lavora a

innalzar di nuovo, nei tempi moderni, un edifizio indipendente di scienza filosofica si può ricordare il racconto che Platone rifacesse sette volte i suoi libri sulla repubblica. Questo ricordo – un confronto, in quanto può sembrare

che ne contenga appunto uno – potrebbe solo far nascere tanto più forte il desiderio che per un’opera, la quale, appartenendo al mondo moderno, ha un più profondo principio, un oggetto più difficile e un più ampio materiale

innanzi a sé da elaborare, fosse stato concesso agio di rifonderla settantasette volte. L’autore invece, considerando l’opera sua di fronte alla vastità del compito, dové contentarsi di quello ch’essa poté diventare,

in mezzo circostanze di

alle una

esterna necessità»[130]. Ortega y Gasset ha scritto, con spirito polemico che rafforza una critica tradizionale, che la filosofia hegeliana (in particolare quella della storia) è

«chiusa al domani» e che il suo è «un pensiero da faraone, che guarda il formicaio dei lavoratori affannati nel costruire la sua piramide»[131]. Queste non erano certo le sue intenzioni. Semmai, Hegel ha elaborato, per

così dire, un’immagine della filosofia come scienza rigorosa che conserva elementi fin troppo euclidei o spinoziani. Per questo il sistema deve potersi chiudere, in qualche modo, alla maniera del quod erat

demonstrandum, mediante la forzatura (spesso consapevole) di non lasciare residui nel trattare lo sfuggente e profondo «principio» moderno rispetto all’«ampio materiale […] da elaborare». È come se, nel cercare la

perfezione formale e nel voler far tornare i conti, Hegel non si contentasse di accettare come inevitabili le circostanze esterne in cui l’Enciclopedia era stata composta e rivista per ben tre volte (1817, 1829 e 1830), cosciente,

peraltro, che, in quella forma, essa è uno strumento didattico, un compendio a uso degli studenti, scritto in uno stile «conciso, formale e astratto», che deve «ricevere le spiegazioni necessarie per mezzo dell’esposizione

orale»[132]. Si potrebbe, quindi, affermare che Hegel non intende lasciare didatticamente residui a livello del sistema, anche se diventa sempre più conscio della difficoltà di articolare il «principio» moderno

nella sua complessità e profondità ora che, giunto allo zenit del suo sviluppo, comincia a tramontare. Dato che il sistema è un circolo di circoli, non dovrebbe esistere un ingresso privilegiato a esso, nel senso che il

«cominciamento» potrebbe situarsi ovunque. Ma se si accetta questa ipotesi fino in fondo, allora la progressione canonica logica-natura-spirito (il «sistema hegeliano», per antonomasia, dell’Enciclopedia) cessa di

essere vincolante, e cadono o si trasformano radicalmente tutti quei ‘classici’ problemi che si trascinano fin dai tempi di Schelling e di Trendelenburg, su come sia possibile, ad esempio, all’idea logica licenziare o «lasciar

uscire liberamente» (frei entlassen) da sé la natura, sul carattere premondano delle categorie ecc.[133] Infatti, sarebbe allora possibile – ciò che Hegel sembra fare – considerare la triade maggiore del sistema come un

sillogismo, in cui ogni membro è a turno il termine medio. In tal modo, lo schema di progressione dell’Enciclopedia sarebbe soltanto il primo dei tre sillogismi ottenibili: 1) Logica-naturaspirito

2) Natura-spiritologica 3) Spirito-logicanatura (?).

Considerate le importanti conseguenze che deriverebbero da una soluzione, in un senso o in un altro, di questo problema dei tre

sillogismi, la contrapposizione di tesi fortemente divergenti nelle interpretazioni, nonché la stringatezza e l’oscurità dei §§ 574-577 dell’Enciclopedia del 1830, sui quali verte la polemica, è utile presentare i testi per

esteso: § 574 Questo concetto della filosofia è l’Idea che pensa se stessa, la verità che sa (§ 236), la logicità, col significato che essa è l’universalità convalidata dal

contenuto concreto come dalla sua realtà. La scienza è, per tal guisa, tornata al suo cominciamento; e la logicità è il suo risultato come spiritualità: dal giudizio

presupponente, in cui il concetto era solo in sé e il cominciamento alcunché d’immediato, e quindi dall’apparenza, che aveva colà, la spiritualità si è elevata al suo puro principio

come a elemento.

suo

§ 575 Questo apparire è ciò che fonda dapprima lo svolgimento ulteriore. La prima apparenza è costituita dal sillogismo, che

ha per base, come punto di partenza, la logicità; e la natura per termine medio, che congiunge lo spirito con se stesso. La logicità diventa natura; e la natura, spirito.

La natura, che sta tra lo spirito e la sua essenza, non si scinde in estremi di astrazione finita, né si separa da essi facendosi alcunché d’indipendente, che congiunge gli altri soltanto

come un altro; giacché il sillogismo è nell’idea e la natura è essenzialmente determinata come un punto di passaggio e momento negativo, ed è in sé l’idea; ma la

mediazione del concetto ha la forma estrinseca del trapasso, e la scienza quella dell’andamento necessario, cosicché la libertà del concetto è posta soltanto nell’uno degli estremi

come il suo congiungersi con se stesso. § 576 Questa apparenza è soppressa nel secondo sillogismo, in quanto questo è già il punto di vista dello

spirito stesso; il quale è il mediatore del processo, presuppone la natura, e la congiunge con la logicità. È il sillogismo della riflessione spirituale nell’idea: la

scienza appare come un conoscere soggettivo, il cui fine è la libertà, ed esso stesso è la via di produrla. § 577 Il terzo sillogismo è l’idea della

filosofia, la quale ha per termine medio la ragione che sa se stessa, l’assolutamente universale: termine medio, che si dualizza in spirito e natura, fa di quello il

presupposto come processo dell’attività soggettiva dell’idea, e di questa l’estremo universale, in quanto processo dell’idea, che è in sé e oggettivamente. L’autogiudizio

dell’idea nelle due apparenze (§§ 575-6) determina queste come le sue manifestazioni (manifestazioni della ragione, che sa se stessa); e si riunisce in essa in modo

che è la natura della cosa, il concetto, ciò che si muove e svolge, e questo movimento è altresì l’attività del conoscere. L’idea, eterna in sé e per sé, si attua, si produce e gode se stessa

eternamente come spirito assoluto[134].

Le maggiori difficoltà di interpretazione riguardano almeno due punti, sui quali le divergenze, di carattere estremamente tecnico, sono nette e su cui si

richiede, ragione

proprio in della loro

importanza, l’attenzione e la pazienza del lettore, ammesso che le voglia esaminare: a) Secondo Lasson, Van der Meulen e Puntel, i tre sillogismi corrispondono a tre diverse scienze

filosofiche (identificate rispettivamente, e nell’ordine, come enciclopedia, fenomenologia, complesso delle lezioni, e in enciclopedia, fenomenologia, una scienza x, impossibile da determinare) o a tre

ordini sistematici diversi, che hanno la loro base nell’origine comune di logica, fenomenologia e ‘noologia’[135]; secondo Fulda e Gauvin, essi corrispondono invece ad una suddivisione interna all’Enciclopedia,

alla modalità con cui l’elemento logico appare nelle parti della scienza già trattate[136]; b) Il terzo sillogismo (§ 577) è anomalo?[137] Ha la logica o no come termine medio?[138] Accanto al suo sviluppo, come Spirito-logica-

natura, va posto un visibile punto interrogativo? Sullo sfondo di questo dibattito stanno delle ulteriori domande, sulla natura della Fenomenologia (se sia un’introduzione o meno al sistema, se sia

interna o esterna a esso) e sulla possibilità di distinguere fra un sistema in senso stretto (Enciclopedia) e un sistema in senso lato (Fenomenologia + Enciclopedia + Storia della filosofia)[139]. Che le difficoltà siano serie lo

indica indirettamente lo stesso Hegel; infatti, nell’Enciclopedia di Heidelberg del 1817 il testo è assai diverso da quello del 1830, mentre nella seconda edizione del 1827 la dottrina dei tre sillogismi manca addirittura.

Coscienti di queste difficoltà e del fatto che dietro certi bizantinismi filologici si nasconde un problema essenziale per la comprensione del pensiero hegeliano, si può tentare un abbozzo di risposta, anche alla luce di quanto sono

venuto dicendo. In primo luogo, è certo che con i §§ su «la filosofia» dell’Enciclopedia, la logica, come punto di partenza, si è trasformata in risultato, si è riempita di contenuto attraverso tutto il percorso

enciclopedico; non è più l’arida grammatica dell’esempio hegeliano, ma una forma vivente. Il nocciolo della questione è qui: come avviene il passaggio della logica in quanto prius didatticoscientifico alla logica come «spiritualità»,

scienza dello spirito, ritorno a sé dall’«espansione» nel concreto? E, per converso, come si retrocede – nell’assimilazione abbreviata della «spiritualità» da parte del singolo – dalla logica

come sapere

culmine del autocosciente

alla logica come costruzione astrattamente insegnabile, dal concreto di nuovo alle «aste»? Con due strade, lo sappiamo già, convergenti. Ora, quel

che Hegel vuol dire è che sia il percorso didattico-scientifico (primo sillogismo), sia il «conoscere soggettivo», l’essere immersi nella riflessione (secondo sillogismo), nei confronti dell’«idea della filosofia», della

logica in quanto vetta dell’attività spirituale, sono due apparenze. Ossia: la verità più alta non è né la costruzione didattica (che deve ricorrere alla «forma estrinseca del trapasso»), né l’accostarsi soggettivo

alla scienza (che ha tutti gli svantaggi della riflessione e della soggettività), bensì il movimento unitario nel conoscere della Sache selbst, che solo astrattamente si può distinguere nel movimento oggettivo

del primo sillogismo e in quello soggettivo del secondo. È «la natura della cosa, il concetto, ciò che si muove e svolge, e questo movimento è altresì l’attività del conoscere» (§ 577); è, insomma, quella stessa

«pulsazione vitale tanto degli oggetti stessi, quanto del loro pensiero soggettivo» che abbiamo già incontrato o, con significativa allusione ad Aristotele[140], è il sistema in quanto risultato, pensiero che pensa se stesso,

superando nella sua energeia le opposte apparenze di processo semplicemente oggettivo e di processo semplicemente soggettivo conoscere.

un

un

del

Se questa ipotesi di soluzione è corretta, le conclusioni che se ne possono trarre per la comprensione dell’intera filosofia hegeliana non sono insignificanti. Intanto, sia il preteso ordine scientificamente

oggettivo dell’Enciclopedia, sia il preteso ordine scientificamente soggettivo della Fenomenologia o dell’esperienza in genere, si dimostrano «apparenza», manifestazioni parziali

della «ragione che sa se stessa». La «verità» del sistema è allora da cercare nel terzo sillogismo, non esposto in nessuna opera perché presente come totalità (e perciò, a prima vista, introvabile, punto interrogativo), né,

d’altronde esponibile secondo un ordine privilegiato, didatticooggettivo o temporalesoggettivo, in quanto è il «semplice fuoco» sul quale convergono i due ordini, la possibilità di intendere dialetticamente il tutto

come «circolo di circoli». Qui realmente Hegel – come dice Kierkegaard – chiede all’uomo di parlare con la «lingua degli dèi», di pensare, in altri termini, i due ordini come conservati e soppressi nella conoscenza assoluta e

di considerare la ragione autocosciente come astrattamente scindibile in un processo oggettivo e in uno soggettivo; chiede, per servirci di un paragone matematico, che il tutto sia pensato come un geometrale,

ossia come un solido geometrico (cubo, piramide ecc.) qualora si potesse vedere contemporaneamente da tutti i lati. Questa totalità di prospettive è certamente impossibile all’intuizione sensibile e all’immaginazione, ma

non al pensiero e al concetto, giacché quando penso a un solido non ho bisogno di appoggiarmi ad alcuna immagine e posso quindi prescindere, per intenderlo come tutto, da ogni prospettiva, ciò che equivale,

hegelianamente, affermare che

ad il

concetto di un solido conserva tutte le prospettive come tolte o le contiene come lati parziali e modi di apparire. Tale è l’idea del sistema nel suo punto più alto, nel

ricongiungersi della logica come inizio alla logica come ritorno in sé. E questo spiega anche perché vi sia nell’itinerario dell’esperienza (Fenomenologia) o in quello del sapere sistematico (Enciclopedia)

un rapporto apparenza e

di di

inversione reciproca. Infatti, da una parte, il cammino dell’esperienza della coscienza non è solo soggettivo – poiché contemporaneamente sorge il sapere –,

dall’altra, il cammino del sapere che si costituisce non è solo oggettivo, verità neutrale – poiché contemporaneamente, nella marcia verso lo spirito assoluto, si produce e si esalta la ‘soggettività’, che si

svincola continuamente dal suo contrario. La verità è autocoscienza che rientra in sé e fonde in sé, nella sua attività ‘soggettiva’, mediata dall’oggettività astratta e dalla soggettività astratta, i due processi dell’oggettività e della

soggettività generare il

per «sapere

assoluto»[141]. Vi è in Hegel quindi una fame di oggettività che lo induce a rifiutare sia l’idealismo soggettivo, sia la mera empiria, così da giungere a una forma di oggettività che

costituisce la base della soggettività concreta, a un pensiero oggettivo (objektiver Gedanke)[142]. Egli illustra tale concezione per mezzo della Fiaba goethiana del barcaiolo, del serpente e dei tre re (d’oro, d’argento e di bronzo).

Parlando del re di bronzo, Hegel dice che: «un’autocoscienza umana lo pervade grazie alle vene dell’oggettività, sicché egli sta dritto come una statua; queste vene sono svuotate dall’idealismo

trascendentale formale di modo che la statua si accascia, ed è una via di mezzo tra forma e ammasso informe, ripugnante a vedersi»[143]. In maniera analoga, anche il soggetto si regge soltanto finché il sangue

dell’oggettività (e del sistema) continua a circolare in lui: altrimenti crolla, rivelando il proprio vuoto interiore[144]. Per fare il punto in relazione alle altre interpretazioni, si può affermare: a) che

l’ordine di successione dei paragrafi dell’Enciclopedia è un ordine didattico e subalterno rispetto all’intero della «ragione che sa se stessa»; esso non è dunque l’ordine scientifico in assoluto, in quanto segue nella

successione natura-spirito

logicauna

tradizione enciclopedica consolidata sotto forma di divisione in scienza di Dio, scienza della natura e scienza dell’uomo[145]; b) che, sebbene non manchino nel primo e nel secondo sillogismo

le allusioni all’Enciclopedia e alla Fenomenologia, non è necessario presupporre il riferimento immediato a opere diverse dall’Enciclopedia, e si può ben concedere (questa volta d’accordo con Fulda) che i tre

sillogismi l’articolazione

siano interna

del sistema, con la precisazione che il terzo sillogismo esprime la «vera» natura del sistema, che non è quindi nemmeno necessario ricorrere alla macchinosa distinzione

fra sistema in senso stretto e sistema in senso lato; c) che nel terzo sillogismo il termine medio è sì la logica, come «ragione che sa se stessa, l’assolutamente universale», ma anche come punto d’arrivo e

ragione autocosciente; d) che il terzo sillogismo non si riferisce a una scienza misteriosa o impossibile, ma all’«idea» stessa della filosofia e del sistema in cui essa deve essere espressa; e) che il punto d’accesso al sistema

non è indifferente, il «cominciamento» non può essere astrattamente dovunque, bensì è funzionale ai diversi scopi (didattici, fenomenologici, per chi parte senza esperienza, per chi ritorna

dall’esperienza) e si conclude comunque nel «sole» del concetto, nella «pulsazione vitale» tanto degli oggetti, quanto del soggetto; f) che la «coscienza intorno alla forma dell’interno muoversi del suo contenuto»[146]

non è altro che il «metodo» dialettico inseparabile dal contenuto del sistema; non vi sono dunque tre itinerari a scelta in assoluto, secondo la progressione dei tre sillogismi, ma un ‘geometrale dialettico’

di ordine superiore rispetto ai primi due itinerari, dimodoché non è più nemmeno il caso di far ricorso a comuni radici noologiche per spiegare quella «Elementarstruktur» che sembra in Puntel

giustificare l’intercambiabilità delle tre forme di unità sistematica e la permanenza di uno stesso schema, con successive estensioni, nella logica, nella natura e nello spirito[147]. In conclusione, non esiste

realiter alcun passaggio dalla logica alla natura se non per la rappresentazione espositiva dell’Enciclopedia, che non coincide con il sistema in quanto tale. Anche ammettendo, dunque, che la

Fenomenologia e l’Enciclopedia abbiano la stessa ampiezza – espongano cioè la totalità sistematica secondo due diverse dimensioni, soggettiva e didattica – non è il loro itinerario in quanto tale a costituire l’idea di

sistema, ma il sapersi della totalità autocosciente al quale entrambe conducono. Da questo punto di vista, la domanda posta da Ernst Bloch se, oltre il metodo dialettico, si possa in Hegel rovesciare anche il

sistema[148], deve ottenere una risposta diversa da quella di una mera inversione dell’ordine dell’Enciclopedia (dal leggere a rovescio, secondo il già ricordato suggerimento di Litt). E la risposta è che il

sistema si rovescia, assieme al metodo – che ne è la «coscienza» inscindibile – quando il campo degli interrogativi posti dall’epoca storica come tutto non trova più una soluzione adeguata e organica. Ma ciò che fa

saltare il sistema, non è una sua semplice obsolescenza, il fatto che sia passato del tempo, bensì il fatto che si sia presentata un’altra filosofia a rivelare l’inadeguatezza della precedente. E se la nuova filosofia si

riferisce con insistenza a un sistema o a sistemi precedenti, è segno, appunto, che esso o essi non sono ancora completamente inattivi o esauriti. E se la filosofia hegeliana non è certo la più alta espressione del nostro

tempo «appreso in pensieri», tuttavia la sua presenza insistente «nella nostra sera» non può essere senza significato.

5. Espansione del sistema e problemi aperti

La vera confutazione deve penetrare dov’è il nerbo dell’avversario e prender posizione là dove risiede la sua forza.

Hegel, Scienza della logica[149].

Il «circolo di circoli» del sistema non è chiusura al nuovo, ma piuttosto la sua costante assimilazione per espansione e ritorno in

sé. Come risulta ormai dall’intero contesto – nonché da un’ulteriore possibilità di raffronti più precisi –, la circolarità del sistema è un ininterrotto processo di «arricchimento», analogo alla «ricchezza circolante», la quale

aumenta ogni volta la sua massa in proporzione alle dimensioni già raggiunte, inglobando il concreto, attraverso contraddizioni, e trasformandolo nella sua «abbreviazione», il danaro. Guardiamo

ancora più da vicino questo aspetto, che ci permette di presentare anche alcuni scorci significativi delle lezioni berlinesi. Partiamo, per ora, da questo passo della Scienza della logica in cui il processo di «arricchimento» del

pensiero nel «circolo di circoli» è presente già con la massima precisione: «Quella determinatezza che era un resultato è, come si è mostrato, a cagione della forma della semplicità in cui si è ristretta e fusa, essa

stessa un nuovo cominciamento. In quanto questo cominciamento è distinto, appunto per questa determinatezza, dal suo cominciamento precedente, il conoscere si va svolgendo da contenuto a contenuto.

Prima di tutto, questo avanzare si determina per ciò che comincia da determinatezze semplici, e le susseguenti diventano sempre più ricche e concrete. Infatti il resultato contiene il suo cominciamento e

questo si è nel suo corso arricchito di una nuova determinatezza. L’universale costituisce la base; quindi l’avanzamento non è da prendersi come uno scorrere da altro ad altro. Nel metodo assoluto il concetto si

conserva nel suo esser altro, l’universale si conserva nella sua particolarizzazione, nel giudizio e nella realtà; a ogni grado di ulterior determinazione, l’universale solleva tutta la massa del suo contenuto precedente, e

non solo col suo avanzare dialettico non perde nulla, né nulla lascia indietro, ma porta con sé tutto quello che ha acquistato e si arricchisce e si condensa in se stesso. Questo allargamento si può riguardare come il

momento del contenuto e, nell’insieme, come la prima premessa; l’universale è comunicato alla ricchezza del contenuto, è conservato immediatamente in lui. Ma il rapporto ha anche il secondo lato, il lato

negativo o dialettico. L’arricchimento progredisce nella necessità del concetto, è contenuto da questo, e ogni determinazione è una riflessione in sé. Ogni nuovo grado dell’andar fuori di sé, cioè di ulterior

determinazione, è anche un andare in sé, e la maggior estensione è parimenti la più alta intensità. Il più ricco è quindi il più concreto e il più soggettivo, e quello che si ritira nella più semplice profondità è il più potente e

invadente»[150]. arricchimento

Tale del

pensiero, mediante ‘circolazione allargata’ – che è ad un tempo aumento di intensità (ed ecco perché nell’ambito spirituale quantità estensive e quantità intensive non si

possono separare) – è anche lo schema di sviluppo economico e politico di tutta la civilisierte Welt, poiché tutti i fenomeni più diversi hanno la radice comune nello Zeitgeist che ha «dato l’ordine di avanzare» e di

ingrandire le proprie forze. Ormai «la morta ricchezza esiste […] solo nei tesori dei Cosacchi, dei Tartari; nel mondo civilizzato si tratta della ricchezza circolante», che, tuttavia, si distribuisce in maniera estremamente

disuguale: «Nella stessa proporzione in cui si accresce la ricchezza, si accresce pure la miseria, se non si provvede a deviarla diversamente tramite ad esempio la colonizzazione»[151]. Uno dei meriti maggiori

della francese,

Rivoluzione con

l’abolizione del feudalesimo, è stato appunto per Hegel l’impulso dato alla proprietà e alla ricchezza circolanti, sia pure all’interno di laceranti

contraddizioni[152]. La dialettica del «danaro» e del «Kapital» si presenta in forma assai articolata soprattutto nelle Vorlesungen über Rechtsphilosophie del 1824-1825. Il danaro e le banche appaiono qui come strutture portanti

non solo della vita economica, ma anche della vita politica delle nazioni: «Poiché il danaro è il grande mezzo, il ceto commerciale è ora tanto legato alla politica. Esso è, così, particolarmente occupato con i bisogni

dei diversi Stati in quanto corpi politici, e il commercio del danaro, le banche, ha ottenuto questa grande importanza […]; dato che gli Stati hanno bisogno di danaro per i loro interessi, essi dipendono da questa

circolazione di danaro (Geldverkehr) in sé indipendente»[153]. Nel periodo che precede immediatamente la Rivoluzione di luglio – che avrebbe visto i Laffitte, i Périer e i Rothschild assumere anche il controllo del

potere politico – non era sfuggito a Hegel il fatto nuovo che il danaro, in veste di potenza astratta e «indipendente», limitava nella sua assolutezza persino la sovranità di quel dio terreno, di quel

«geroglifico della ragione» che è lo Stato. Del resto, a prescindere dalla traduzione filosofica compiuta da Hegel con acutezza di questi temi, essi non erano poi tanto reconditi per un contemporaneo del

primo Balzac, per un amico di banchieri e di uomini d’affari, quali Beer e August Friedrich Bloch, per un conoscitore attento, attraverso i giornali e attraverso Cousin, della grande politica londinese o parigina[154],

per un frequentatore del salotto di Rahel, la signora Varnhagen von Ense, dove si discuteva di economia politica e di saint-simonismo[155]. È l’abitudine consolidata a vedere Hegel come filosofo «puro» che fa guardare ancora a

questa sua tematica con l’occhio rivolto a semplici «precorrimenti» di Marx, mentre in realtà si tratta di problemi ampiamente dibattuti (in quell’epoca ‘prosaica’ seguita alla caduta del mito eroico

napoleonico), che Hegel ha comunque saputo cogliere «nel pensiero». Il Kapital, oltre a possedere questa caratteristica di dettare legge ai governi, ha anche la mirabile capacità di crescere per forza propria, di

sconfiggere i concorrenti più deboli e di costringere gli operai a lavorare a salari più bassi: «Quanto più grande è il capitale, più grandi sono le imprese che si possono condurre a termine, e il possessore del capitale

può accontentarsi di un profitto minore, per cui il capitale viene di nuovo ingrossato […] In una situazione di grande miseria, il capitalista trova molta gente che lavora per un salario minore e ciò ha, a sua volta, come

conseguenza che i capitalisti più piccoli cadono in miseria»[156]. La «logica» del capitale è un circolo di espansione, di lievitazione dialettica, ma non è facile entrare dentro di esso, né è facile lo sviluppo se non

si è raggiunto un certo grado quantitativo. Infatti, tale logica si riassume nella proposizione hegeliana: «A chi ha già, a questo vien dato», e, per converso, a chi ha poco, anche questo poco vien tolto. La ricchezza si

alimenta della povertà dei più: «La ricchezza, come ogni massa, diventa forza. L’accumulazione della ricchezza si verifica in parte per caso, in parte per l’universalità prodotta dalla divisione. È un punto magnetico in

un modo tale che esso getta il suo sguardo su tutto il resto e lo raccoglie in sé – come una massa grande attira a sé la massa più piccola. A chi ha già, a questo vien dato. Il guadagno diventa un sistema multilaterale, che

dà profitto da tutti i lati, che un’impresa più piccola non può utilizzare»[157]. Inoltre: «Chi ha capitale, può guadagnare. Questa però è soltanto la condizione di base, l’elemento principale è costituito dall’abilità. Ma essa, a sua volta, è

condizionata capitale, poiché

dal [per

conseguirla] ci vogliono spese, da investire solo sul soggetto, senza che nel frattempo questi produca dapprima qualcosa di scambiabile (ein Vertauschbares)»[158]. L’avanzare della

ricchezza e del capitale avviene – come è noto anche dalla Filosofia del diritto del 1821 – attraverso immani rivolgimenti sociali e la condanna di grandi masse d’uomini all’abbrutimento, alla «ribellione interiore» e

al risentimento della povertà. L’introduzione delle macchine ha provocato, da un lato, un vertiginoso aumento della produzione, dall’altro l’ottundimento spirituale del lavoro di fabbrica, i bassi salari e

la disoccupazione. Tuttavia, per Hegel, non si può tornare indietro a improbabili stati di natura, a ‘robinsonate’, né si può utopisticamente immaginare una qualche soluzione immediata, bisogna

accettare le contraddizioni e trovare una soluzione che passi attraverso di loro: Hic Rhodus, hic salta![159] Certo, la miseria generata dal capitale e dall’industria è impressionante: «Non possiamo neppure

immaginare come a Londra, questa città infinitamente ricca, siano spaventosamente grandi indigenza, miseria, povertà. Accrescendosi, la ricchezza si concentra in poche mani; e una volta verificatasi questa

differenza per cui grossi capitali sono in poche mani, ciò permette di guadagnare vendendo a prezzi più bassi di quelli consentiti da un capitale più ridotto, sicché la differenza diviene sempre più grande»[160]. Gli operai

se la prendono con le macchine e le spaccano: «in Inghilterra sono [state] in parte distrutte da operai disoccupati (brodtlose Arbeiter); ma gli uomini potrebbero essere utilizzati per qualcosa di meglio che non per le operazioni

che sono in grado di svolgere le macchine»[161]. Il fatto è, però, che il lavoro, una volta ricondotto a poche operazioni semplicissime, secondo la scissione imposta dall’«intelletto», non richiede più uomini, ma

soltanto macchine: «Non appena il lavoro è diventato del tutto semplice, astratto, allora si può sostituire l’uomo con le macchine. L’Inghilterra avrebbe bisogno di molte centinaia di migliaia di uomini per sostituire il

lavoro delle macchine. Gli operai, soprattutto gli operai di fabbrica, che perdono il loro sostentamento a causa delle macchine, divengono facilmente scontenti, e bisogna necessariamente schiudere loro nuovi

settori»[162]. Hegel sembra adombrare molto cautamente l’ipotesi che il lavoro delle macchine (dato che aumenta il prodotto sociale complessivo, pur sacrificando i singoli) possa essere alla fine uno strumento di

liberazione, nel senso che le macchine potrebbero svolgere quei compiti per i quali l’uomo è sprecato e gli uomini potrebbero fare «qualcosa di meglio»: «L’industria sarà certo abbandonata spontaneamente, ma

col sacrificio di questa generazione e l’accrescimento della povertà»[163]. Passato un determinato periodo, presumibilmente non limitato a «questa generazione», sarà forse lecito liberarsi dagli effetti negativi,

individuali e sociali, dell’industrializzazione e del lavoro meccanico: «Inoltre, l’astrazione del produrre rende il lavoro sempre più meccanico e, quindi, alla fine, atto a che l’uomo ne sia rimosso e possa essere introdotta, al suo posto,

la macchina»[164]. Ma attualmente, questa soluzione è prematura e la difficoltà di trovare uno sbocco nel presente alle contraddizioni spinge verso l’ottativo o il passato remoto: «L’orripilante descrizione della

miseria, la impedisce

quale la

soddisfazione dei bisogni, la troviamo particolarmente in Rousseau e in alcuni altri. Si tratta di uomini profondamente colpiti dalla miseria del loro tempo, del loro popolo,

di uomini conoscono

che

profondamente ed espongono in modo commovente la corruzione etica che ne deriva, la rabbia, la ribellione degli uomini per la loro miseria, per la contraddizione fra ciò

che essi sono in grado di pretendere e la condizione in cui si trovano, la esasperazione per tale contraddizione, la vergogna per questa situazione e con ciò l’interna amarezza, la cattiva volontà che ne

scaturisce. Tutto questo è causato veramente dalla società civile (bürgerliche Gesellschaft), e, nella ribellione contro tutto ciò, quegli spiriti, che pensavano e sentivano profondamente, l’hanno rifiutata e son passati ad

un altro estremo. Essi non hanno visto altra salvezza in quanto tale che nell’abbandonare interamente un sistema (ein System ganz aufzugeben) e, giacché non potevano negare i vantaggi della società civile, hanno ritenuto

più vantaggioso sacrificarla interamente e ritornare ad una situazione che sia senza bisogni così molteplici, ad uno stato di natura come quello dei selvaggi del Nord-America, presso i quali la miseria e l’infelicità non può

aver luogo così»[165]. Non si sono accorti che non è più possibile tornare indietro e che, anzi, persino quelle zone residue di naturalità e di limitazione dei bisogni stanno per essere travolte da un «sistema»

economico che ha necessità di non lasciare fuori di sé il diverso non assimilato, di espandersi se non vuol morire, un sistema che è costretto ad «avanzare»: Esso deve artificialmente svegliare i bisogni dei popoli per

poter esportare, e deve esportare per infrangere

di volta in volta il circolo sovrapproduzione/sottoco In tal modo, le nazioni che più soffrono di quest’ultima contraddizione irrisolta, e della sua più macroscopica

conseguenza sociale (il contrasto fra grande ricchezza e grande povertà), cercano l’espansione nella conquista di nuovi mercati non saturati, esportando contemporaneamente «corruzione» negli

ordinamenti dei paesi che ricevono le merci, e civiltà: «Con gli inglesi ciò avviene soprattutto mediante donazioni di armi, polvere da sparo, stoffe, acquavite, [mediante] fiere. La felice situazione di una tale nazione che ha un

commercio mondiale è che il suo benessere è connesso al benessere del mondo intero, la sua cultura alla cultura di tutti i popoli; il suo benessere è fondato sul benessere cosmopolitico di tutte le nazioni. In quanto queste nazioni

imparano a conoscere i bisogni, escono dallo stato di natura, vengono corrotte; d’altro canto esse devono creare i mezzi per i loro bisogni – i regali si fanno solo all’inizio – hanno necessità di lavorare, sono spinte all’attività,

sono portate a prender coscienza di ciò, a questa autocoscienza; ne scaturisce sicurezza della proprietà, rispetto dei trattati, e tali nazioni pervengono così alla cultura (Bildung) etica»[166]. Il «circolo di circoli»,

la totalità in movimento, si plasma così nella realtà e nella coscienza attraverso la corruzione portata dall’astratto, dal danaro e dal pensiero, dai nemici di ogni immediatezza naturale, rappresentati

socialmente dalla «classe industriale» (che comprende tutti i ceti produttivi, ossia, oltre agli industriali in senso stretto, gli operai e gli artigiani), nella quale si manifesta maggiormente la «coscienza della

libertà»[167]. Ma la loro prevalenza è, per converso, un indice della crisi e del «tramontare» di un mondo reale, che si manifesta con la formazione della «plebe» e l’atomismo della società civile. Al

pari delle astrazioni giuridiche dominanti nell’antica Roma (in presenza di una plebe corrotta e di governanti incapaci di frenare il declino e la caduta dell’impero), anche in età moderna astrazione e disgregazione sociale,

«scienza» e «rovina» di un popolo, si presentano assieme. L’importanza assunta dalla società civile, e la forte sottolineatura del ruolo dello Stato, devono ricondursi a questa crisi storica, alla necessità di subordinare

e controllare disgregazione,

la di

arginare gli interessi dei singoli convogliandoli verso l’«universale concreto», la mediazione attiva di universalità e particolarità. Il tramonto sul quale si

innalza la civetta della filosofia è per Hegel questa dissoluzione etica: «Il fenomeno del tramontare ha le sue diverse forme; la corruzione prorompe dall’interno, le cupidigie si scatenano, le entità singole cercano la loro

soddisfazione, modo lo

in tal spirito

sostanziale viene sconfitto e distrutto. Gli interessi singoli attirano a sé le energie e le capacità che prima erano dedicate al tutto […] Gli individui si racchiudono in sé e

tendono a fini propri; abbiamo già fatto osservare come ciò sia la rovina del popolo; ognuno si propone i suoi fini secondo le proprie passioni. Ma nel tempo stesso, in questo ritirarsi dello spirito in sé, il pensiero si fa

innanzi particolare

come realtà, e

nascono le scienze. Così le scienze e la rovina, il declino di un popolo vanno sempre di pari passo»[168]. Tuttavia – a differenza delle epoche precedenti – esiste per Hegel nel suo tempo la

possibilità di guidare la crisi, di gestire in qualche misura il mutamento gettando luce sui lati più distruttivi e corrosivi delle presenti forme di vita associata. Perché ciò accada, si devono scoprire nel

pensiero e realizzare nel mondo le istituzioni atte a canalizzare creativamente l’energia potenziale degli elementi che generano la crisi. Infatti, da un lato non è pensabile l’eliminazione degli egoismi e delle

contraddizioni della società civile senza un regredire astratto allo stadio dei «selvaggi del Nord-America», senza rinunciare allo sviluppo; dall’altro, son proprio questi egoismi scatenati – come espressione individuale di rapporti

sociali – a produrre la corruzione del presente, di cui la filosofia è la coscienza e il tentativo di andare oltre. Nell’urgenza stessa della questione del sistema in Hegel, nell’architettonica della relazione fra il tutto e le

parti si ha la cifra della situazione storica del tempo, l’allegoria filosofica più alta ed ‘abbreviata’ dell’epoca trascritta in pensieri: la ricerca di una perpetua ricomposizione della totalità che, stimolata dalla contraddizione e

dalla disgregazione, si realizzi mediante l’espansione; l’avvertito bisogno – se non si vuol scardinare il «sistema» della realtà sociale – di conservare in posizione subalterna, teleologicamente asservita, quella stessa

cecità istintuale che è «l’elemento attivo» della crisi. Ma con la Rivoluzione di luglio in Francia e con il progetto di riforma elettorale in Inghilterra, per Hegel l’orizzonte storico si oscura di nuovo: i conflitti si

fanno più acuti e le soluzioni più difficili[169]. Come potrà rappresentare l’interesse collettivo quello stesso Stato che è subordinato alla ricchezza dei privati? Come potrà trovarsi un equilibrio politico

stabile, dopo la già ricordata «farsa» dei quindici anni della Restaurazione[170], che tocca ormai molti aspetti dell’esperienza comune? Come potrà porsi rimedio alla povertà, che ha assunto proporzioni tali che

neppure lo sbocco della colonizzazione, presentato nella Filosofia del diritto, sembra più sufficiente? «Si è proposto di fondare colonie per far partire il sovrappiù dei poveri, ma perché questa misura sia efficace

dovrebbe assicurare l’esodo di almeno un milione di abitanti; e come ottenere questo risultato?»[171]. In Inghilterra, inoltre – dove maggiore è lo sviluppo economico e sociale, ma anche il divario di ricchezza e

povertà – i contrasti, provocati dalla tenace difesa dei privilegi da parte della classe dirigente, presentano un’asprezza estrema: «l’attività legiferante del parlamento resta, anche dopo la riforma elettorale, nelle mani di

quella classe che è tenuta dai suoi interessi, e più ancora dalle sue caparbie abitudini, nell’ambito del vigente sistema di proprietà, e che finora si è preoccupata soltanto di affrontare le conseguenze del

sistema quando il bisogno e la miseria diventano troppo clamorosi, ma con palliativi (come il Subletting Act) o con pii desideri (che chi possiede beni in Irlanda vi stabilisca la sua residenza, e simili)»[172].

L’ottusa difesa dei privilegi feudali da parte dell’aristocrazia terriera britannica (nella quale è soprattutto «radicato e imperturbabile il pregiudizio che colui al quale nascita e ricchezza danno una carica, riceva insieme

l’intelligenza necessaria a esercitarla»)[173] porta a stridenti ingiustizie: «Nell’Inghilterra vera e propria ai contadini vien reso impossibile possedere dei campi: ridotti al rango di fittavoli o di giornalieri, cercano, in parte, quel

lavoro che è offerto dall’opulenza inglese, e in particolare dalle immense fabbriche, quando sono in periodo di prosperità; ma assai più di questo, a proteggerli dalle conseguenze della estrema miseria sono le

leggi sui poveri, che fanno obbligo a ogni parrocchia di provvedere ai suoi poveri»[174]. Ancor più duramente i proprietari inglesi si comportano con i contadini irlandesi: «se trovano più redditizia una

cultura agricola per la quale abbiano bisogno di minor mano d’opera, cacciano dalle loro campagne, che non erano proprietà degli abitanti, centinaia e migliaia di contadini i quali, proprio come i servi della gleba, erano

legati a quel suolo per il loro sostentamento, e le cui famiglie da secoli abitavano capanne edificate su quella terra, e la coltivavano; così a coloro che erano già senza alcuna proprietà, viene tolta anche la patria, e la tradizionale

possibilità di lavoro, e tutto ciò per via legale. Ed è legale che i proprietari, onde cacciare una volta per tutte i contadini da quelle capanne, ed evitare che ritardino la partenza, o che tornino di soppiatto sotto quel

tetto, le facciano incendiare»[175]. Dalla Francia la scossa rivoluzionaria si è propagata in Europa, e in Inghilterra ha portato alla formulazione di un Reformbill per abolire i «borghi putridi» e per ammettere in

parlamento anche i rappresentanti della ricca borghesia. In tal modo è sorto «il timore da una parte, e la speranza dall’altra, che la riforma del sistema elettorale porterà con sé altre riforme materiali»[176]. La

«plebe» dà ora segni di maggior inquietudine: spacca le macchine a vapore in Inghilterra e prende in Francia iniziative politiche che dovrebbero spettare al governo[177]. Hegel è indubbiamente preoccupato e inquieto

per questo riaprirsi di prospettive rivoluzionarie in tal forma, forse perché esse incrinano «trop la base sur laquelle repose la liberté»[178] e comunque perché possono sfuggire a ogni controllo ‘razionale’. Ma si sforza

di comprenderne il senso, di prestar loro ascolto: l’aristocrazia inglese ritiene superfluo indagare i fondamenti dell’organizzazione politica e del diritto vigente, «mentre i popoli che ne sentono l’oppressione, sono

stimolati a far ciò dalle miserie esteriori, e dal bisogno della ragione che esse suscitano»[179]. L’oppressione e le miserie esteriori spingono nuovamente la filosofia all’indagine, alla prefigurazione di soluzioni razionali per

una crisi reale. Dopo le giornate parigine del luglio 1830 la talpa ha ripreso a scavare più alacremente in un mondo che comincia a farsi più buio, anche se non è ancora giunto alla «notte polare di fredde tenebre e di stenti»[180],

quale si manifesterà più tardi. L’atteggiamento hegeliano diventa allora più «amletico»[181], ma nel senso della talpa: in un appunto che egli aveva preparato per l’introduzione al corso di filosofia del diritto del 1831-1832, al posto

tenuto dalla civetta nella Prefazione del 1820, compare ora la «talpa»[182], quasi a significare che l’avvenire è segnato dalle oscure forze dell’istinto e che l’unica cosa che gli occhi di civetta della filosofia

sembrano ora cogliere è proprio l’incertezza del futuro. Il mondo ha di nuovo accelerato il suo movimento inconscio, costringendo la filosofia a portare i propri ‘lumi’ in un crepuscolo su cui incombe lo «spirito nascosto, che batte alle

porte del presente». Il lavoro di decifrazione della realtà effettuale attraverso il pensiero non può, dunque, giungere a compimento.

[1]

Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften. Vorrede zur

zweiten Ausgabe, cit., vol. I, pp. 14-15. [2] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 40 (trad. it. cit., vol. I, p. 40). [3] Ibid., p. 39 (trad. it. cit.,

vol. I, pp. 39-40). [4] Allusione al metodo

pedagogico l’apprendimento lettura di H.

per della Stephani,

Handfibel oder Elementarbuch zum Lesenlernen, Erlangen, 1802; Id., Fibel für Kinder von edler Erziehung, nebst der Methode für Mutter, die Kinder in kurzer Zeit zu lesen zu lehren, Erlangen, 1807. [5] Hegel an Niethammer, 10

ottobre 1811, in Briefe, cit., vol. I, p. 390 (trad. it. cit., vol. II, p. 168: ho modificato la traduzione).

[6] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 12 (trad. it. cit., vol. I, p. 12). [7] Ibid., p. 13 (trad. it. cit.,

vol. I, p. 13). [8] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 396 Z. [9] Ibid. [10] Hegel an Niethammer, 24

marzo 1812, in Briefe, cit., vol. I, p. 398 (trad. it. cit., vol. II, p. 179). [11] Hegel, Vorlesungen über

die Aesthetik, cit., vol. X1, p. 15 (trad. it. cit., p. 15). [12] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 22 (trad. it. cit., vol. I, p. 22). [13] Hegel, Vorlesungen über

die Aesthetik, cit., vol. X1, p.

15 (trad. it. cit., p. 15). [14] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 28 (trad. it. cit., vol. I, pp. 26-27). [15] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 21 Z. [16] Ibid., § 19 Z 1. [17] Ibid. [18] Sulle idee e l’attività

pedagogica di Hegel, cfr. G. Schmidt, Hegel in Nürnberg. Untersuchungen zum Problem der philosophischen Propädeutik, Tübingen, 1960; F. Heer, Hegel und die Jugend, in «Frankfurter Hefte», XXII (1967), fascicolo 5, pp. 323332; F.L. Luqueer, Hegel as Educator (1896), rist., New York, 1967. Su Hegel a Norimberga, nel periodo di

composizione della Wissenschaft der Logik, cfr., oltre ai classici lavori biografici, anche W.K. Schultheiss, Geschichte der Schulen in Nürnberg, Nürnberg, 1853-1854; W.R. Beyer, Hegel «Lokal-Schulrat», in Hegeliana, a cura di L. Sichirollo, Urbino, 1965, pp. 61-69; K. Hussel, Hegel rettore e insegnante del Gymnasium,

ibid., pp. 70-79; Georg Wilhelm Friedrich Hegel in Nürnberg 1808-1816, con contributi di W.R. Beyer, K. Lanig e K.H. Goldmann, Nürnberg, 1966; Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Rektor in Nürnberg 1808-1816, s.l. e s.d. (ma Nürnberg, 1967: commemorazioni del Gymnasium di Norimberga per il centocinquantesimo anniversario – 1816-1966 –

della partenza di Hegel dalla città). [19] Hegel an Sinclair, metà

ottobre 1810, in Briefe, cit., vol. I, p. 332 (trad. it. cit., vol. II, p. 108). [20] Hegel an Von Raumer, 2

agosto 1816, in Briefe, cit., vol. II, p. 100 (trad. it. cit., vol. II, p. 319). [21] Hegel an Niethammer, 24

marzo 1812, in Briefe, cit., vol. I, p. 397 (trad. it. cit., vol. II, p. 178). I clericali bavaresi della Schulplans-Sozietät, diretta dal conservatore Cajetan Weiller (autore della Einleitung zur freien Ansicht der Philosophie, München, 1804), avevano elaborato e fatto introdurre dal governo, nel 1804, un piano di insegnamento per i ginnasi

che limitava (per poter legare gli insegnanti) lo studio della filosofia alla storia della filosofia, vietando cioè ogni esposizione sistematica e libera delle filosofie più recenti, sospettate di tendenze rivoluzionarie. Il § 45 di questo Lehrplan für alle kurpfälzischen Mittelschulen oder für die sogenannten

Realklassen (Prinzipien), Gymnasien und Lyceen, München, 1804 e l’Über das Verhältnis des philosophischen Versuchs zur Philosophie, München, 1812, insistevano appunto sulla necessità di coltivare il sentimento contro la «costrizione sistematica». Sul carattere «oscurantista» di questi piani cfr. Hegel an

Niethammer, 20 maggio 1808, Briefe, cit., vol. I, p. 231 (trad. it. cit., vol. I, p. 353), dove si dice che il sistema è considerato dai bavaresi come «un chiodo in testa» e, in generale, S.H. Löwe, Die Entwicklung des Schulkampfes in Bayern, bis zum vollständigen Sieg des Neuhumanismus, Berlin, 1917 (e il maggior rappresentante

del neoumanismo proprio Niethammer).

era

[22] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. II, p. 224 (trad. it. cit., vol. II, p. 662). [23] Ibid., vol. II, pp. 230-231

(trad. it. cit., vol. II, p. 669). Sulla logica, nel suo carattere di «scienza formale», cfr. L.B. Puntel, Darstellung, Methode und

Struktur. Untersuchungen zur Einheit der systematischen Philosophie G.W.F. Hegels, cit., pp. 52 ss., che paragona il passaggio dalla logica alla filosofia della natura al convertirsi o capovolgersi (das Umschlagen) della forma nel contenuto, cfr. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 133 A (trad.

it. cit., p. 127). Tale carattere formale ha fatto erroneamente pensare che anche la logica si trovi ancora sul piano della «riflessione», mentre essa è già una dimensione dello speculativo, della totalità sistematica (per la riduzione della logica a riflessione, cfr. M. Wetzel, Reflexion und Bestimmtheit in Hegels

Wissenschaft der Logik, Hamburg, 1968, ma sulla «riflessione» si vedano anche M. Theunissen, Sein und Schein. Die kritische Funktion der Hegelschen Logik, Frankfurt a.M., 1980; L. Hüllen, Herkunft und Bedeutung der Reflexionsbestimmungen in Hegels Wesenslogik, Diss. Universität Bonn, 2006 [on

line: http://hss.ulb.unibonn.de/2006/0899/0899.htm]) Sul rapporto logica-sistema, come passaggio da una parte al tutto, cfr. M. Clark, Logik and System, The Hague, 1971 e, in particolare, sul problema della soggettività nella logica, K. Düsing, Das Problem der Subjektivität in Hegels Logik. Systematische und entwicklungsgeschichtliche

Untersuchungen zum Prinzip des Idealismus und zur Dialektik, in «Hegel-Studien», vol. suppl. 16, Bonn, 1976, in particolare pp. 209 ss. [24] Cfr. Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. II, p. 414 (trad. it. cit., vol. II, p. 864). [25] Cfr. più avanti, pp. 353

ss. [26] Cfr. Th. Litt, Hegel.

Versuch einer kritischen Erneuerung, Heidelberg, 1961. [27] Hegel, Vorlesungen über

die Philosophie der Religion, a cura di G. Lasson, cit., vol. I, p. 144 (trad. it. cit., vol. I, p. 191). [28]

Lenin, Filosofskia Tetradi, trad. it. cit., pp. 176177. Una conferma di questo modo hegeliano di

procedere viene, da tutt’altro punto di vista, dall’articolo di K. Düsing, Syllogistik und Dialektik in Hegels spekulativer Logik, in Hegels Wissenschaft der Logik, a cura di D. Henrich, Stuttgart, 1986, pp. 15-38. [29]

Hegel, Jenenser Realphilosophie II, cit., p. 272 (trad. it. cit., p. 215). Cfr. Phänomenologie des Geistes,

cit., p. 433 (trad. it. cit., vol. II, pp. 304-305). [30] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, p. 43 (trad. it. cit., vol. I, p. 41). Cfr. Einleitung in die Geschichte der Philosophie, cit., p. 34. Ma il parallelismo fra la logica e la storia della filosofia non è privo di vuoti o di distorsioni: ad esempio, se

Leucippo corrisponde al livello logico dell’«essereper-sé», manca tuttavia chi rappresenti nella storia della filosofia la categoria del Dasein: «Veramente quando si procede per via logica dall’essere e dal divenire a questa determinazione del pensiero, appare prima l’essere determinato ma questo rientra nella sfera

della finità, e non può quindi diventar principio della filosofia. Se dunque anche lo svolgimento storico della filosofia deve corrispondere allo svolgimento della logica filosofica, anche in quest’ultima devono trovarsi dei punti, che nello svolgimento storico invece non appaiono. Se per esempio si volesse

considerare come principio l’esistenza, s’avrebbe ciò che noi abbiamo nella nostra coscienza: vale a dire che esistono cose, che esse sono finite, che hanno relazione l’una con l’altra; insomma, s’avrebbe la categoria della nostra coscienza priva di pensiero, della parvenza» (Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit.,

vol. XIII, p. 326, trad. it. cit., vol. I, p. 333). Hegel si contenta di dire, alludendo alle discrepanze fra serie logica e serie storica delle filosofie, che la spiegazione «ci porterebbe troppo lontano dal nostro scopo» (Einleitung in die Geschichte der Philosophie, cit., p. 35). Un ulteriore macroscopico esempio di non-coincidenza

fra logica e storia della filosofia è, come vedremo, il Medioevo, che, pur essendo rappresentato nella Storia della filosofia, non porta alcun contributo categoriale alla Scienza della logica. [31] Secondo Th. Litt, Hegel.

Versuch einer kritischen Erneuerung, cit., la logica hegeliana sarebbe appunto «autarchica» rispetto alla

realtà e ne prescinderebbe. [32] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 26 (trad. it. cit., vol. I, p. 24). [33] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 13 (trad. it. cit., vol. I, p. 13). [34] Hegel, Auszüge und

Bemerkungen, in Berliner Schriften, cit., p. 731. È curioso, ma anche

indicativo, l’abbondante uso di abbreviazioni fatte da Hegel nei suoi manoscritti (cfr. l’elenco nell’Editorischer Bericht a Hegel, Jenaer Systementwürfe II, cit., pp. 354-355). [35] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 7 (trad. it. cit., vol. I, p. 7). [36] Sulla «chiusura del

pensiero» in se stesso che ci sarebbe in Hegel cfr. H. Kimmerle, Das Problem der Abgeschlossenheit des Denkens. Hegels «System der Philosophie» in den Jahren 1800-1804, in «HegelStudien», volume suppl. 8, Bonn, 1970 e, in particolare, pp. 286, 294-295: «Il riferimento a quello che non è pensare viene in Hegel in

tal modo interrotto. Il pensare viene sviluppato come cerchio che ritorna su se stesso, cerchio in cui fin dall’inizio è da presupporre ciò che deve divenire, e in cui non diviene nient’altro se non ciò che è già contenuto nel presupposto […] Il problema hegeliano dell’andare al di là della scissione ha invero la sua

risposta solo mediante il pensare, mediante la filosofia, ma non solo nel pensare, nella filosofia, come un sistema in sé conchiuso». [37] Plotino, Enneadi, III,

7,12. Per un inquadramento del testo, cfr. Plotino, L’eternità e il tempo (Enneade III 7), trad. e commento di F. Ferrari e M. Vegetti, Milano, 1991. Per l’interpretazione,

secondo cui la logica annullerebbe il tempo, cfr. A. Massolo, Ricerche sulla logica hegeliana (1944), in Logica hegeliana e filososofia contemporanea, a cura di P. Salvucci, Firenze, 1967, p. 27. [38] Goethe, Faust I, vv.

1908-1929 (cfr. Goethe, Faust, trad. it. di F. Fortini, Milano, 1970, p. 147). I calzari spagnoli erano strumenti di

tortura. [39] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 183 Z. [40] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 16 (trad. it. cit., vol. I, p. 17). [41] Ibid., p. 16 (trad. it. cit.,

vol. I, p. 16). [42] Cfr. Schiller, Das Ideal

und das Leben, e Hegel, Vorlesungen über die Aesthetik, cit., vol. X1, p. 201 (trad. it. cit., p. 179). [43] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 41 (trad. it. cit., vol. I, p. 41). [44] A proposito della «rete

adamantina» e delle metafore della trasparenza è da ricordare l’interesse di

Hegel (e di Goethe) per le teorie di Malus, cfr. E.-L. Malus, Théorie de la double refraction de la lumière dans les substances cristallisées, Paris, 1810, che tratta ampiamente delle proprietà della luce in rapporto ai corpi diafani (su Malus cfr. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 278 A, trad.

it. cit., pp. 248-249). [45] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 19 (trad. it. cit., vol. I, p. 19). Su questa logica naturale delle categorie, che resta inavvertita, cfr. K. Harlander, Absolute Subjektivität und kategoriale Anschauung. Eine Untersuchung der Systemstruktur bei Hegel,

Meisenheim am Glan, 1969, pp. 40 ss. [46] Hegel, Einleitung in die

Geschichte der Philosophie, cit., p. 32. [47] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, pp. 4-5 (trad. it. cit., vol. I, p. 5). [48]

Cfr. Hegel an Niethammer, 20 maggio 1808, in Briefe, cit., vol. I, p. 229

(trad. it. cit., vol. I, p. 352): «nessuno sa più intraprendere alcunché con questa vecchia logica; ce la si trascina dietro come un vecchio lascito e questo unicamente perché non esiste ancora un altro surrogato, il cui bisogno è universalmente sentito». Per un giudizio tagliente sulla logica di Fries, fondata

sull’antropologia, cfr. Hegel an Niethammer, 10 ottobre 1811, in Briefe, cit., vol. I, pp. 388-389 (trad. it. cit., vol. II, pp. 166-167). [49] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 5 (trad. it. cit., vol. I, p. 5). [50] Ibid., vol. II, p. 459

(trad. it. cit., vol. II, p. 911). [51] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 623 (trad. it. cit., vol. III, 2, p. 417). [52] Ibid., p. 623 (trad. it.

cit., vol. III, 2, p. 417). [53] Ibid., vol. XIII, p. 55

(trad. it. cit., vol. I, p. 53). [54] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 14 A (trad. it. cit., p. 19).

[55] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 27 (trad. it. cit., vol. I, p. 27). [56] Hegel, Aphorismen aus

der Jenenser Periode, cit., p. 551 (trad. it. cit., p. 73 nota 59). [57] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 40 (trad. it. cit., vol. I, p. 41). [58] Ibid., p. 41 (trad. it. cit.,

vol. I, pp. 41-42). [59] Ibid., p. 33 (trad. it. cit.,

vol. I, p. 33). [60] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 110 (trad. it. cit., vol. III, 1, p. 117). [61] Cfr. ibid., pp. 113-114

(trad. it. cit., vol. III, 1, pp. 120-121).

[62] Cfr. Hegel, Philosophie

der Weltgeschichte, cit., p. 859 (trad. it. cit., vol. IV, p. 124): «Come l’Europa offriva in generale l’universale spettacolo di lotte cavalleresche, di guerre e di tornei, così essa era anche il teatro dei tornei del pensiero. È infatti incredibile lo sviluppo a cui furono portate le forme astratte del

pensiero e l’abilità degli individui nel muoversi in esse». [63] Cfr. Hegel, Vorlesungen

über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 108 (trad. it. cit., vol. III, 1, p. 115). [64] Ibid., p. 140 (trad. it.

cit., vol. III, 1, p. 149). [65] Ibid., pp. 88-89 (trad. it.

cit., vol. III, 1, pp. 94-95). [66] Ibid., p. 108 (trad. it.

cit., vol. III, 1, p. 115). [67] Ibid., pp. 179-180 (trad.

it. cit., vol. III, 1, pp. 188-189). [68] Ibid., pp. 92, 106 (trad.

it. cit., vol. III, 1, pp. 98, 112). Il testo di Michelet ha «Tertulliano» al posto di «Gellert».

[69] Ibid., p. 128 (trad. it.

cit., vol. III, 1, p. 137). [70] Ibid., p. 126 (trad. it.

cit., vol. III, 1, pp. 134-135). [71] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 830 (trad. it. cit., vol. IV, p. 90). [72] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 106 (trad. it. cit., vol. III, 1, p. 113).

[73] Ibid., p. 107 (trad. it.

cit., vol. III, 1, pp. 113-114). [74] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 125 (trad. it. cit., vol. I, p. 180). [75] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, p. 106 (trad. it. cit., vol. III, 1, p. 112). [76]

Sull’interpretazione aristotelica dell’on mediante

il phos (Aristotele, De anima, 418 b, a cui Hegel allude in Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, p. 78, trad. it. cit., vol. I, p. 82), cfr. W. Beierwaltes, Lux intellegibilis. Untersuchungen zur Lichtmetaphysik der Griechen, München, 1957, pp. 15 ss. [77] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, pp. 78-79 (trad. it. cit., vol. I, p. 83).

[78] Ibid., p. 5 (trad. it. cit.,

vol. I, p. 5). [79] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 891 (trad. it. cit., vol. IV, p. 163). [80] Ibid., p. 729 (trad. it.

cit., vol. IV, p. 43). Sulla proiezione di stereotipi europei relativi al mondo islamico, cfr. A. Grosrichard, Structure du Sérail. La fiction

du despotisme asiatique dans l’Occident classique, cit. Che tali stereotipi non fossero peraltro del tutto privi di fondamento, in particolare relativamente all’uso del terrore nel califfato abbasside, lo mostra, tra gli altri, il classico libro di K.A. Wittfogel, Oriental Despotism. A Comparative Study on Total Power, New Haven, Colo.,

1957, trad. it. di R. Pavetto, Il dispotismo orientale, Firenze, 1968, vol. I, pp. 233-234. Cfr. anche L. Ventura, Hegel e l’Islam, Pomigliano D’Arco, 2013. [81] Ibid. Il confronto è fatto

con Faust, che cercava una soddisfazione ben maggiore. [82] Ibid., p. 892 (trad. it.

cit., vol. IV, p. 164).

[83] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 5 (trad. it. cit., vol. I, p. 5). [84] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., p. 797 (trad. it. cit., vol. IV, p. 50). [85] Hegel, Phänomenologie

des Geistes, cit., p. 321 (trad. it. cit., vol. II, p. 132). [86] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 5 (trad. it.

cit., vol. I, p. 5). [87] Ibid., pp. 19-20 (trad. it.

cit., vol. I, pp. 19-20). [88] Il problema dei ‘generi

letterari’ delle opere di Hegel andrebbe affrontato con attenzione, distinguendo cioè il diverso tipo di redazione e di pubblico al quale sono rivolte, il loro carattere eventuale di

manuali, di appunti di lezioni ecc. L’unico tentativo specifico che è stato compiuto in questa direzione, con risultati non entusiasmanti, è quello di A. Léonard, La structure du systéme hégélien, in «Revue philosophique de Louvain», LXIX (1971), pp. 495-524, che collega i generi espositivi a quattro diversi tipi di

sillogismo. Un’analisi di testi filosofici con gli strumenti di un Genette, di un Bachtin o di una Kristeva potrebbe portare anche in questo campo (si pensi alla struttura ‘narrativa’ della Fenomenologia) a chiarimenti utili e a spunti nuovi. [89] Hegel, Vorlesungen über

die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XV, pp. 97-98 (trad.

it. cit., vol. III, 1, pp. 103-104). Più in generale, sul concetto di metafisica tradizionale e la critica che Hegel ne compie, cfr. B. Longuenesse, Hegel et la critique de la métaphysique, Paris, 1981. [90] Hegel, Enzyklopädie der

philosophischen Wissenschaften, § 14 A (trad. it. cit., p. 19).

[91] Nell’idea hegeliana del

serpente e del paradiso terrestre come mito originario ci sarebbero ascendenze libertine, cfr. G. Schneider, Der Libertin. Zur Geistes- und Sozialgeschichte des Bürgertums im 16. und 17. Jahrhundert, Stuttgart, 1970, trad. it. di G. Panzieri, Il libertino. Per una storia sociale della cultura borghese nel XVI e

XVII secolo, Bologna, 1974, p. 72 nota. [92] Hegel, Wissenschaft der

Logik, cit., vol. I, p. 16 (trad. it. cit., vol. I, p. 16). [93] A. Nuzzo, Logica e

sistema. Sull’idea hegeliana di filosofia, Genova, 1992, p. 19. [94] Cfr. più avanti, pp. 357

ss.

[95] Kant, Kritik der reinen

Vernunft, A 834-835; B 862863 (trad. it. cit., vol. II, pp. 629-630). [96]

La nozione di «sistema» appare dapprima in Ippocrate, Platone (Leg. 686 B), Aristotele (Eth. Nic. 1168 b) e negli stoici (SVF, III, fr. 327 ss.), generalmente in contesti medici relativi all’organismo, ma per gli

stoici anche al kosmos (cfr. fr. 527). Nell’espressione systema mundi in età moderna è, soprattutto, un termine legato all’astronomia, ma con Spinoza, indirettamente, e con il Système nouveau di Leibniz, direttamente, il termine entra nel vocabolario filosofico, diventando infine un

problema con Kant, cfr. Ch. Krijnen, Philosophie als System. Prinzipientheoretische Untersuchungen zum Systemgedanke bei Hegel, im Neukantianismus und in der Gegenwartsphilosophie, Würzburg, 2008, pp. 10-25. [97] Condillac, Traité des

Systèmes, in Œuvres philosophiques, ed. critica a cura di G. Le Roy, Paris, 1947,

vol. I, pp. 121, 124. Sul concetto di sistema in Condillac e in generale, cfr. O. Ritschl, System und systematische Methode in der Geschichte des wissenschaftlichen Sprachgebrauchs und der philosophischen Terminologie, Bonn, 1906. La critica della filosofia sistematica attraversa, del resto, tutto

l’Illuminismo francese: Buffon, Maupertuis, d’Alembert o Voltaire, cfr. P. Kondylis, Die Aufklärung im Rahmen des neuzeitlichen Rationalismus, Stuttgart, 1981, pp. 298 ss. Nella celebre Professione di fede del vicario savoiardo Rousseau attribuisce la nascita dei sistemi filosofici alla ricerca di originalità e all’egoismo

dei singoli. Per una diversa concezione dell’idea di sistema in Hegel, cfr. B. Heimann, System und Methode in Hegels Philosophie, Leipzig, 1927; H.F. Fulda, Das Problem einer Einleitung in Hegels Wissenschaft der Logik, Frankfurt a.M., 1965, in particolare pp. 173 ss.; H. Kimmerle, Zur Genesis des Hegelschen Systembegriffs, in

«Neue Zeitschrift für systematische Theologie und Religionsphilosophie», XIV (1972), pp. 294-314; A. Doz, Hegel et l’idée de système, in «Hegel-Jahrbuch», 1973, pp. 81 ss. Più in generale, oltre al già citato von Bertalanffy, cfr. R. Mac Rae, The Problem of the Unity of the Sciences. Bacon to Kant, Toronto, 1961, pp. 89-106; J.

Pucelle, Note sur l’idée de système, in «Les études philosophiques», 1948, pp. 254-267; O. Lange, Wholes and Parts. A General Theory of System Behaviour, trad. ingl. Oxford-London-EdinburghNew York-Paris-Frankfurt a.M., 1995; W. Marx, On the Necessity of Transformation of the Philosophical Concept of System, in «Ratio», XX, 2

(December 1978), pp. 92-102; Ch. Strub, System, in Historische Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter, K. Gründer e G. Gabriel, vol. X, Darmstadt, 1998, coll. 475493; H.F. Fulda e Ch. Krijnen, Einleitung. Systemphilosophie als Selbestekenntnis?, in Einleitung. Systemphilosophie als Selbestekenntnis, a cura di H.F. Fulda e Ch. Krijnen,

Würzburg, 2006, pp. 9-23 (i quali ultimi, argomentando contro il sistema, considerato quale un rigido contenitore di elementi eterogenei, fanno però notare come i più grandi filosofi della modernità – Spinoza, Kant, Hegel – abbiano considerato la sistematizzazione dei loro pensieri non come un

bisogno secondario o un istinto di potenza, ma qualcosa che è nell’interesse di «una radicale autoillustrazione della libertà umana» [einer radikaler Selbstaufklärung und menschlicher Freiheit]). E si veda anche H.F. Fulda, Methode und System bei Hegel. Das Logische, die Natur, der Geist als universale

Bestimmungen einer monistischen Philosophie, ibid., pp. 25-50. È interessante notare come vi sia stata, al livello delle singole scienze e di quello dei rapporti fra diversi campi del sapere, una sorta di rinascita, con segno positivo, del concetto di sistema e di sistematica, tanto che ne è scaturita, ormai da diversi decenni,

una «teoria generale dei sistemi», come scienza «ufficiale» che raggruppa studiosi di varia provenienza (cfr. sopra, pp. 158-159 nota 110). [98] Schelling, Stuttgarter

Vorlesungen, in Werke, cit., vol. IV, p. 309 (trad. it. di G. Preti, Lezioni di Stoccarda, in L’empirismo filosofico e altri scritti, cit., p. 89). Si veda

anche l’Introduzione di C. Tatasciore alla sua nuova traduzione delle Stuttgarter Vorlesungen: Lezioni di Stoccarda, Napoli-Salerno, 2013, pp. 7-34. [99] Condillac, Traité des

Systèmes, cit., p. 126. Cfr. Fichte, Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre (1797), in Sämtliche Werke, a cura di I.H. Fichte, vol. I, Berlin,

1845, p. 434 (trad. it. di L. Pareyson, Prima introduzione alla Dottrina della scienza, in «Rivista di filosofia», XXXVII, 1946, pp. 190-191): «Quale filosofia si scelga dipende da quale uomo si è; perché un sistema filosofico non è una suppellettile inanimata che si possa prendere o lasciare a nostro capriccio, ma è animato dall’anima

dell’uomo che lo possiede». [100] Kant, Kritik der reinen

Vernunft, A 832-839; B 860867 (trad. it. cit., vol. II, pp. 629-634). Cfr. sull’argomento, E. Kraus, Der Systemgedanke bei Kant und Fichte, in «Kant-Studien», fascicolo suppl. 37, Berlin, 1916; A. Schurr, Philosophie als System bei Fichte, Schelling und Hegel, Stuttgart-Bad

Cannstatt, 1974. [101] Schelling, Aus dem

allgemeinen Übersicht der neuesten philosophischen Literatur, in Werke, cit., vol. I, p. 382. [102] Schelling, Stuttgarter

Vorlesungen, cit., p. 309 (trad. it. cit., p. 89). [103] Hegel, Einleitung in die

Geschichte der Philosophie, cit.,

p. 33. [104] Hegel, Aphorismen aus

der Jenenser Periode, cit., p. 539 (trad. it. cit., p. 59 nota 11). [105]

Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, p. 59 (trad. it. cit., vol. I, p. 57). [106] Ibid., p. 60 (trad. it.

cit., vol. I, p. 58).

[107] Hegel, Differenz des

Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie, cit., p. 12 (trad. it. cit., p. 13). [108]

Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XIII, p. 60 (trad. it. cit., vol. I, p. 58). [109] Hegel, Differenz des

Fichte’schen

und

Schelling’schen Systems der Philosophie, cit., p. 9 (trad. it. cit., p. 9). [110] Hölderlin, Zeitgeist,

trad. it. di G. Vigolo, in Hölderlin, Poesie, Torino, 1963, p. 37. [111] Sul «caos al di fuori

del sistema», cfr. F. Schlegel, Ideen, in «Athenaeum», III, 1 (1800), n. 55 (Minor).

[112] Hegel, Freiheit und

Schicksal, in Schriften zur Politik und Rechtsphilosophie, cit., p. 140 – ora anche in Gesammelte Werke, cit., vol. V, Schriften und Entwürfe (1799-1808), a cura di M. Baum e K.R. Meist in collaborazione con T. Ebert, Hamburg, 1998, pp. 16-18 – (trad. it. di C. Luporini, Libertà e destino, ora in Hegel,

Scritti politici 1798-1831, cit., p. 10). Per un’ampia e articolata analisi di questo testo, cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, cit., pp. 4-58. [113]

Sull’ottusità e la degradazione degli operai prodotte dall’estrema divisione del lavoro di fabbrica, cfr. Hegel, System

der Sittlichkeit, cit., pp. 428, 443 (trad. it. cit., pp. 187, 195), Jenenser Realphilosophie I, cit., p. 239 (trad. it. cit., p. 99); Jenenser Realphilosophie II, cit., pp. 214, 256-257 (trad. it. cit., pp. 147, 197-198); Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit. § 198 (trad. it. cit., p. 176), Vorlesungen über Rechtsphilosophie 1818-1831, cit., vol. III, pp. 611-612, trad.

it. in Le filosofie del diritto, cit., p. 250: «Il lavoro diviene sempre più ottuso, non vi è più alcuna molteplicità per l’indagine dell’intelletto. La dipendenza degli operai è una conseguenza delle fabbriche; in questo lavoro essi ottundono lo spirito, diventano totalmente dipendenti, del tutto unilaterali, e in pratica non

hanno nessun’altra possibilità di guadagnarsi da vivere, dato che sono immersi in quest’unico lavoro, solo a esso sono abituati». [114] Cfr. K.W.F. Solger,

Philosophische Gespräche, Berlin, 1817, p. 247. [115]

E. Bloch, SubjektObjekt. Erläuterungen zu

Hegel, cit. (trad. it. cit., p. 35). [116] Hegel, Aphorismen aus

der Jenenser Periode, cit., p. 551 (trad. it. cit., n. 59, p. 73). [117] K. Kraus, Sprüche und

Widersprüche, München, 1955, trad. it. di R. Calasso, Detti e contraddetti, Milano, 1972, p. 165. [118]

Cfr. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft, trad.

it. cit., pp. 308 ss.; W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Frankfurt a.M., 1963 (ora anche in Gesammelte Schriften, in collaborazione con Th.W. Adorno e G. Scholem, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a.M., 1972 ss.), trad. it. di E. Filippini, Il

dramma barocco tedesco, Torino, 1971, pp. 9 ss.; Th.W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, BerlinFrankfurt a.M., 1951, trad. it. di R. Solmi, Minima moralia, Torino, 19792, pp. 5 ss., 48 e passim; Id., Erpresste Versöhnung. Zu Georg Lukács’ «Wider den missverstandenen Realismus», in Noten zur

Literatur II, Frankfurt a.M., 1961, pp. 152-187; Id., Negative Dialektik, Frankfurt a.M., 1966, trad. it. di P. Lauro, Torino, 2004, pp. 3-53 e 123-186; F. Rosenzweig, Stern der Erlösung, Frankfurt a.M., 1921. [119]

W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit. (trad. it. cit., p. 31).

[120]

W. Benjamin, An Th.W. Adorno, 9 dicembre 1938, in Briefe, Frankfurt a.M., 1966, vol. II, p. 794 (trad. it. Lettere 1913-1940, Torino, 1978, pp. 371-372). [121] Da un ossicino di

animale preistorico Cuvier riteneva, infatti, di poter ricostruire l’intero scheletro: «ogni individuo organizzato costituisce di per sé un

sistema unico e chiuso, le cui parti corrispondono l’una all’altra e concorrono a produrre un certo risultato definito, per reazione reciproca. Alcune di queste parti possono cambiare senza che anche le altre cambino; e pertanto ognuna di esse, presa separatamente indica tutte le altre». Egli giungeva così alla

conclusione secondo cui «cominciando da ciascun [singolo osso], chi possieda razionalmente le leggi dell’economia organica, potrebbe rifare tutto l’animale» (Discours sur les révolutions de la surface du globe, Paris-Amsterdam, 1825, pp. 95, 99). [122] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. I, p. 382

(trad. it. cit., vol. I, p. 412). Cfr. C.L. Berthollet, Statique Chimique, Paris, 1803 (su cui Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 324 A, trad. it. cit., p. 292; 332 Z; 333 e A, trad. it. cit., pp. 303-304; Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, pp. 369 ss., trad. it. cit., vol. I, pp. 401 ss.); J.J. Berzelius, Essai sur la théorie

des proportions chimiques et sur l’influence chimique de l’électricité, Paris, 1819 (su cui Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 330 A, trad. it. cit., pp. 300-302; 333 Z; Wissenschaft der Logik, cit., vol. I, pp. 370 ss., trad. it. cit., vol. I, pp. 402 ss.). Su questi punti, cfr. A. Doz, Commentaire e G.W.F. Hegel,

Théorie de la mésure, trad. e commento della sezione III del libro I della Scienza della logica, Paris, 1970, passim e, ma generico, D. von Engelhardt, Das chemische System der Stoffe, Kräfte und Prozesse in Hegels Naturphilosophie und der Wissenschaft seiner Zeit, in «Hegel-Studien», vol. suppl. 11, Bonn, 1974, pp. 125-139;

Id., Hegel und die Chemie. Studien zur Philosophie und Wissenschaft der Natur um 1800, Wiesbaden, 1976 e U. Rusch, Chemische Einsichten wider Willen. Hegels Teorie der Chemie, in «Hegel-Studien», 22 (1987), pp. 173-179. Sull’impostazione logica della struttura della chimica nella «misura», cfr. B. Lakebrink, Kommentar zu

Hegels ‘Logik’ in seiner ‘Enzyklopädie’ von 1830. I. Sein und Wesen, FreiburgMünchen, 1979, pp. 171 ss.; D.G. Carlson, A Commentary to Hegel’s Science of Logic, New York-London, 2007, pp. 197248 e, più in generale, C. Cesa, Problemi della misura, nel numero speciale di «Teoria», XXXIII (2013), cit., pp. 87-99. Per un

inquadramento storico, si veda H. Doebling, Die Chemie in Jena zur Goethezeit, Jena, 1928. Per un esame più ampio della «Logica dell’essenza» nella Scienza della logica, cfr. G. Martin, Die Wesenlogik in Hegels “Wissenschaft der Logik”, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1994. [123] Cfr. Hegel, Jenenser

Realphilosophie I, cit., p. 264; Wissenschaft der Logik, cit., vol. II, p. 504 (trad. it. cit., vol. II, p. 955), Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 15 (trad. it. cit., p. 19). [124] Cfr. F. Kümell, Platon

und Hegel. Zur ontologischen Begründung des Zirkels in der Erkenntnis, Tübingen, 1968, e, in senso dinamico W.R.

Beyer, Das Sinnbild des Kreises im Denken Hegels und Lenins, Meisenheim am Glan, 1971, pp. 9 ss. [125]

Cfr. A. Peperzak, Autoconoscenza dell’assoluto. Lineamenti della filosofia dello spirito hegeliana, Napoli, 1988, p. 142. [126]

W. Tega, L’ideale enciclopedico e l’unità del

sapere, cit. [127] Cfr. T. Rockmore,

Hegel’s Circular Epistemology, Bloomington, Ind., 1986 (di cui si veda, per un inquadramento generale, anche il volume Hegel, Idealism, Analytical Philosophy, New HavenLondon, 2005, pp. 165-228); V. Verra, Su Hegel, Bologna, 2007, pp. 199-216 e W. Tega,

Tradizione e rivoluzione. Scienza e potere in Francia (1815-1840), cit., pp. 40-41. Che nella teoria hegeliana del circolo di circoli vi sia una chiara reminiscenza del finale della Metafisica di Aristotele del Dio che pensa se stesso, è mostrato da K. Düsing, Noesis Noeseos und absoluter Geist in Hegels Bestimmung der “Philosophie”,

in Hegels enzyklopädisches System. Von der “Wissenschaft der Logik” zur Philosophie des absoluten Geistes, a cura di H.-Ch. Lucas, B. Tuschling e B. Vogel, Stuttgart-Bad Cannstatt, 2004, pp. 459-480. La differenza tra il modello dell’enciclopedia hegeliana e quello della Grande enciclopedia francese credo si possa trovare in una frase

di d’Alembert in cui si dice che l’intenzione dell’opera è quella di mostrare «per quanto è possibile, l’ordine e la concatenazione delle conoscenze umane» (d’Alembert, Discours préliminaire de l’Encyclopédie, in Id., Mélanges de Littérature, d’Histoire, et de Philosophie, Leyde, 1783, p. 11, trad. it. Discorso preliminare, cit., vol.

I, p. 7). «Per quanto è possibile», appunto, lasciando, dove non lo sia, vuoti e residui. [128] Cfr. Hegel, Differenz

des Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie, cit., pp. 11, 14 (trad. it. cit., pp. 13, 15): «La scissione è la fonte del bisogno della filosofia […] Quando la potenza

dell’unificazione scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni hanno perduto il loro rapporto vivente, la loro azione reciproca e guadagnano l’indipendenza, allora sorge il bisogno della filosofia». [129]

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, § 237 Z.

der

[130] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. I, pp. 21-22 (trad. it. cit., vol. I, p. 22). Cfr. ibid., vol. II, p 212 (trad. it. cit., vol. II, p. 650). [131] J. Ortega y Gasset,

Hegel y America, in Obras completas, Madrid, 2004, vol. I, p. 566; C. Cantillo, La ragione e la vita. Ortega y Gasset interprete di Hegel, Soveria Mannelli (CZ), 2012,

p. 5. [132]

Cfr. A. Peperzak, Autoconoscenza dell’assoluto, cit., pp. 14-16 e si veda anche L. De Vos, Hegels Enzyklopädie 1827 und 1830: Die Offenheit des Systems?, in «Hegel-Studien», 31 (1996), pp. 99-112. [133]

Enzyklopädie

Cfr.

Hegel, der

philosophischen Wissenschaften, § 244 (trad. it. cit., p. 199); Schelling, Münchener Vorlesungen. Zur Geschichte der neueren Philosophie und Darstellung des philosophischen Empirismus, in Werke, cit., vol. V, pp. 223 ss. (trad. it. di G. Durante, Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna ed esposizione

dell’empirismo filosofico, Firenze, 1950, pp. 180 ss.); F.A. Trendelenburg, Logische Untersuchungen, Leipzig, 1840, vol. II, pp. 344 ss. Sulle critiche di Schelling a Hegel, cfr. X. Tillette, Schelling contre Hegel, in «Archives de philosophie», XXIX (1966), pp. 89-108; G. Semerari, La critica di Schelling a Hegel, in Incidenza di Hegel, cit., in

particolare, pp. 490 ss. Sulle obiezioni di Trendelenburg, cfr. N. Merker, Le origini della logica hegeliana, cit., passim, e E. Grillo e N. Dazzi, Sulla crisi della filosofia hegeliana: Adolph Trendelenburg, in Enciclopedia ’72, cit., pp. 199-205. Sul senso dell’espressione hegeliana «lasciar uscire liberamente» e sul passaggio dalla logica alla filosofia

della natura, cfr. H. Braun, Zur Interpretation der Hegel’schen Wendung: frei entlassen, in L’esprit objectif. L’unité de l’histoire, cit., pp. 51-64 e D. Wandschneider e V. Hösle, Die Entäusserung der Idee zur Natur und ihre zeitliche Entfaltung als Geist bei Hegel, in «Hegel-Studien», 18 (1983), pp. 173-199. Per l’interpretazione della logica

come «prima epoca speculativa di Dio», cfr. invece I. Iljin, Die Philosophie Hegels als contemplative Gotteslehre, Bern, 1946, pp. 203 ss. [134]

Cfr.

Hegel, der

Enzyklopädie philosophischen Wissenschaften, §§ 575-577 (trad. it. cit., pp. 527-529).

[135] Cfr. G. Lasson, Was

heisst Hegelianismus, Berlin, 1916, pp. 31 ss.; Id., Hegel und die Gegenwart, in «KantStudien», XXXVI (1931), p. 267; J. van der Meulen, Hegel. Die gebrochene Mitte, Hamburg, 1958, pp. 339 ss.; L.B. Puntel, Darstellung, Methode und Struktur. Untersuchungen zur Einheit der systematischen Philosophie

G.W.F. Hegels, cit., pp. 322 ss. La «noologia» è in Puntel ciò che Hegel nell’Enciclopedia chiama «psicologia». Sull’ipotesi che la dialettica hegeliana abbia un’origine sillogistica, cfr. H. Schmitz, Hegel als Denker der Individualität, Meisenheim am Glan, 1957, pp. 122-126. [136] Cfr. H.F. Fulda, Das

Problem einer Einleitung in

Hegels Wissenschaft der Logik, cit., pp. 284 ss., J. Gauvin, recensione al libro di Fulda, in «Hegel-Studien», 4 (1967), p. 247. La dottrina dei tre sillogismi era stata affrontata per la prima volta da K.Ph. Fischer, Spekulative Charakteristik und Kritik des Hegelschen Systems, Erlangen, 1845, p. 186. Sulla dottrina hegeliana dei tre sillogismi e

l’ampio dibattito che ha sollevato, cfr. M. Theunissen, Hegels Lehre von absoluten Geist als theologischpolitischer Traktat, Berlin, 1970, pp. 308-322; A. Léonard, La structure du système hégélien, cit.; Th. Geraets, Les trois lectures philosophiques de l’Encyclopédie ou la réalisation du concept de la philosophie

chez Hegel, in «HegelStudien», 10 (1975), pp. 231254 (che considera i tre sillogismi come le tre possibili letture dell’Enciclopedia); Id., Lo spirito assoluto come apertura del sistema hegeliano, Napoli, 1985, pp. 72-98; J. Beaufort, Die drei Schlüsse. Untersuchung zur Stellung der “Phänomenologie” in Hegels

System der Wissenschaft, Würzburg, 1983; D. SoucheDagues, Le cercle hégélien, Paris, 1986; W. Jaeschke, Die Schlüsse der Philosophie (§ 574-577), in Hegels “Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften” (1830). Ein Kommentar zum Systemgrundriß, a cura di H. Schnädelbach, Frankfurt

a.M., 2000, pp. 375-501; AA.VV., Hegels enzyklopädisches System. Von der “Wissenschaft der Logik” zur Philsophie des absoluten Geistes, cit.; N. Füzesi, Hegels drei Schlüsse, FreiburgMünchen, 2004 (secondo cui «i tre sillogismi della filosofia garantiscono la conclusione del sistema hegeliano in quanto lo

autofondano. Questa autofondazione non è da interpretarsi solo a partire dalla prospettiva delle strutture logiche della sola logica speculativa, ma metafisicamente dalle strutture gesamtsystematische del sistema» [ibid., p. 16]) e A. Peperzak, Autoconoscenza dell’assoluto, cit., pp. 150-189. In Hegel i tre sillogismi

corripondono alle tre Posizioni del pensiero rispetto all’oggettività dell’Enciclopedia, §§ 26-78 e cfr. ibid., § 187 A. [137]

Sul rapporto tra autocoscienza e soggettività, cfr. G. Varnier, La teoria hegeliana dell’autocoscienza e della sua razionalità, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXX

[LXXXII], fasc. 1 (gennaioaprile 1991), pp. 35-75; Ch. Iber, In Zirkeln ums Selbstbewußtsein. Bemerkungen zu Hegels Theorie der Subjektivität, in «HegelStudien», 35 (2000), pp. 5175; O. Balaban, Is there a real Subject in Hegel’s Philosophy?, in «Hegel-Studien», 43 (2008), pp. 37-66 e, per un inquadramento del tema, R.

Bodei, Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, cit., pp. 51-55, 76-78. [138] Per i passi hegeliani

relativi a questa espressione e per il loro commento e interpretazione, cfr. W. Jaeschke. Objektives Denken. Philosophische Erwägungen zur Konzeption und zur Aktualität der spekulativen Logik, in «The Independent Journal of

Philosophy», 3 (1979), pp. 2337. [139] Hegel, Glauben und

Wissen, cit., p. 332 (trad. it. cit., p. 146) e cfr. Goethe, Märchen, in Werke, Weimarer Ausgabe, Weimar, 18871919, p. 299. Sui rapporti tra Hegel e Goethe, cfr. R. Bubner, Hegel und Goethe, Heidelberg, 1978. Si potrebbe aggiungere che la vita che

circola in queste vene è la verità stessa, ma cfr., da un’altra angolatura, M. Spieker, Wahres Leben denken. Über Sein, Leben und Wahrheit in Hegels Wissenschaft der Logik, Hamburg, 2009. [140] Per E. Fackenheim,

The Religious Dimension in Hegel’s Tought, Bloomington, Ind.-London, 1967, pp. 75 ss.,

il terzo sillogismo non è altro che l’Enciclopedia. Per G. Jarczyk, Système et liberté dans la logique de Hegel, Paris, 1980, pp. 274-282, il sistema è invece un sillogismo di sillogismi e i tre sillogismi non formano che un solo sillogismo nel terzo. [141] W. Wallace, nel suo

commento al terzo libro dell’Enzyklopädie (nella trad.

inglese dell’opera: Hegel, Philosophy of Mind, Oxford, 1894, p. 196), intende il termine medio come la logica mentre per Petry si tratta invece dello spirito, cfr. M.J. Petry, Introduction a Hegel’s Philosophy of Nature, cit., vol. I, p. 93. [142] Cfr. H.F. Fulda, Das

Problem einer Einleitung in Hegels Wissenschaft der Logik,

cit., pp. 3 ss.; P.-J. Labarrière, Structures et mouvement dialectique dans la Phénoménologie de l’esprit de Hegel, cit., pp. 243 ss., Id., La Phénoménologie de l’esprit comme discours systematique, cit., pp. 131 ss. [143]

Cfr. la citazione hegeliana di Aristotele, Met. 1072 b 18-30 nel finale dell’Enciclopedia (manca nella

prima edizione del 1817). [144] Hegel, Glauben und

Wissen, cit., p. 332, trad. it. cit., p. 146 e cfr. Goethe, Märchen, in Werke, Weimarer Ausgabe, Weimar, 18871919, vol. XVI, p. 299. La Fiaba fu pubblicata a Tubinga nella rivista «Die Horen» (Stück 10, pp. 145 ss.), ma l’allusione dovrebbe riferirsi alla quarta favola,

quella del re composito, e non alla terza, quella del re di bronzo. Tra i contributi più rilevanti sul tema dell’oggettività vale la pena ricordare, in rapporto all’«autosvolgimento del contenuto» nella Scienza della logica, S. Opiela, Le réel dans la logique de Hegel, Paris, 1983 e il fascicolo di «Verifiche», XXXVI (2007), n.

1-4 dedicato da vari autori a L’oggettività del pensiero. La filosofia di Hegel tra idealismo, anti-idealismo e realismo. [145]

Cfr. d’Alembert, Discours préliminaire, trad. it. cit., vol. I, pp. 78, 86. Sulla successione enciclopedica secondo lo schema della Trinità, cfr. C. Bruaire, Logique et religion chrétienne dans la philosophie de Hegel,

Paris, 1964, passim. [146] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. I, p. 35 (trad. it. cit., vol. I, p. 36). [147]

Cfr. L.B. Puntel, Darstellung, Methode und Struktur. Untersuchungen zur Einheit der systematischen Philosophie G.W.F. Hegels, cit., pp. 174 ss., 279 ss. Sull’inseparabilità di metodo

e sistema insiste anche S. Opiela, Le réel dans la logique de Hegel, cit., pp. 17-51. [148] Cfr. E. Bloch, Über

Methode und System bei Hegel, cit., p. 75. [149] Hegel, Wissenschaft

der Logik, cit., vol. II, p. 218 (trad. it. cit., vol. II, p. 656). [150] Ibid., p. 502 (trad. it.

cit., vol. II, pp. 953-954).

[151]

Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, 18181831, cit., vol. IV, Philosophie des Rechts. Nach der Vorlesungsnachschift von K.G. v. Griesheim 1824-25, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1974, § 195, p. 494, trad. it. in Le filosofie del diritto, cit., p. 227. [152] Cfr. Hegel, Freiheit und

Schicksal, cit., p. 140 (trad. it.

cit., p. 10). Per un inquadramento, cfr. C. Borghero, in La polemica sul lusso nel Settecento francese, cit. [153]

Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, 18181831, cit., vol. IV, § 204, pp. 520-521. [154] Cfr. K. Rosenkranz,

Hegels Leben (trad. it. cit., pp.

815, 851-872 e passim). [155] Sull’ambiente e le

teorie che vi circolavano, cfr. I. Drewitz, Berliner Salons. Gesellschaft und Literatur zwischen Aufklärung und Industrie-Zeitalter, Berlin, 1965; F. List, Das nationale System der politischen Oekonomie (18443), trad. it. di G. Mori, Il sistema nazionale di economia politica, Milano,

1972, pp. 26-27. Sulla figura di Rahel Varnhagen von Ense, animatrice del salotto in cui confluiva la vita intellettuale berlinese, cfr. H. Arendt, Rahel Varnhagen. The Life of a Jewess, New York, 1958, trad. it. Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, Milano, 1988. Su Oelsner, il corrispondente da Parigi della «Minerva» di

Archenholz durante il periodo della Rivoluzione (incontrato da Hegel a Berna) e diffusore in Germania delle idee saintsimoniane, e sul suo rapporto con Rahel, cfr. J.E. Spenlé, Rahel. Madame Varnhagen von Ense, Paris, 1910, pp. 210 ss.; J. D’Hondt, Hegel et les socialistes, in «La pensée», n. 157, giugno 1971,

p. 20. Sulla conoscenza che Hegel aveva del pensiero di Saint-Simon attraverso la lettura di «Le Globe» e la pubblicazione di testi sugli «Jahrbücher der wissenschaftlichen Kritik» del 1830, da lui di fatto diretti, cfr. N. Waszek, SaintSimonismus und Hegelianismus. Einführung in das Forschungsfeld, in AA.VV.,

Hegelianismus und SaintSimonismus, Paderborn, 2007, pp. 20-24. [156]

Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, 18181831, cit., vol. IV, § 244, pp. 609-610. [157]

Hegel, Jenenser Realphilosophie II, cit., pp. 232-233. Cfr. A. Smith, An Inquiry into the Nature and

Causes of the Wealth of Nations, trad. it. di F. Bartoli, C. Camporesi e S. Catuso, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano, 1973, p. 92: «Generalmente un grande capitale, anche se dà piccoli profitti, aumenta più velocemente di uno piccolo, che dà grandi profitti. Denaro, dice il proverbio, fa

denaro; quando ne avete ottenuto un po’ è spesso più facile ottenerne di più. La grossa difficoltà è ottenere quel poco». [158]

Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, 18181831, cit., vol. III, Philosophie des Rechts. Nach der Vorlesungsnachschrift von H.G. Hotho, 1822-23, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1974, § 200, p.

619. [159]

Sull’origine e la diffusione di questa espressione di Esopo, cfr. P.M. Schul, Hic Rhodus, hic salta, in «Revue philosophique de la France et de l’Étranger», XCII (1967), pp. 468-469. [160]

Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, 1818-

1831, cit., vol. IV, § 195, p. 494, trad. it. in Le filosofie del diritto, cit., pp. 227-228 [trad. modificata]. Queste considerazioni sembrano derivare a Hegel (lettore di giornali e riviste inglesi e scozzesi) da un articolo di Robert Southey apparso sulla «Quarterly Review», cfr. Hegels Exzerpte aus der «Quarterly Review» 1817-1818,

comunicati e illustrati da N. Waszek, in «Hegel-Studien», 21 (1986), p. 19. Per un’integrazione di questi dati e prospettive, cfr. A. Arndt, Zur Herkunft und Begriff des Arbeitsbegriffs in Hegels Geistesphilosophie, in «Archiv für Begriffsgeschichte», 29 (1985), pp. 99-115. Sul problema della povertà in

Hegel si vedano anche N. Waszek, Hegels schottische Bettler, in «Hegel-Studien», 19 (1984), pp. 311-316; J. Anderson, Hegel’s Implicit View on How to Solve the Problem of Poverty: the Responsible Consumer and the Return of the Ethical to Civil Society, in Beyond Liberalism and Communitarianism. Studies on Hegel’s Philosophy

of Right, a cura di R.R. Williams, New York, 2001, pp. 185-205. Sull’incepparsi, nella Filosofia del diritto, delle mediazioni tra i vari elementi della società civile (famiglia, povertà, bisogno, lavoro, consumo, ceti) e sul passaggio dalla società civile allo Stato (scuola, colonizzazione), cfr. le pertinenti osservazioni

critiche di G. Cesarale, La mediazione che sparisce. La società civile in Hegel, Roma, 2009. [161]

Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, 18181831, cit., vol. III, § 198, p. 613, trad. it. in Le filosofie del diritto, cit., p. 246. [162] Ibid., vol. IV, § 198, p.

503 (trad. it. cit., pp. 268-

269). È alla società civile che spetta l’obbligo di dare a ciascuno la possibilità di guadagnarsi da vivere e quello di procurare il lavoro ai disoccupati, cfr. Hegel, Philosophie des Rechts. Die Vorlesung von 1819/20 in einer Nachschrift, cit., p. 192. [163]

Hegel, Jenenser Realphilosophie II, cit., p. 233 (trad. it. cit., p. 169).

[164] Hegel, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, cit., § 198 (trad. it. cit., p. 176). [165]

Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, 18181831, cit., vol. IV, § 185, pp. 477-478. [166] Ibid., § 200, p. 508

(trad. it. cit., pp. 268-269). [167] Hegel, Philosophie des

Rechts. Die Vorlesung von

1819/20 in einer Nachschrift, cit., p. 166. [168] Hegel, Philosophie der

Weltgeschichte, cit., pp. 47, 48-49 (trad. it. cit., vol. I, pp. 56, 57). Grande importanza è attribuita al problema della plebe (Pöbel) in Hegel da F. Ruda. Hegel’s Rabble. An Investigation in Hegel’s Philosophy of Right, afterword by S. Žižek, London, 2009.

Cfr. Hegel an Schelling, 16 novembre 1803, in Briefe, cit., vol. I, p. 78 (trad. it. cit., vol. I, p. 185): «Tutta la crisi del nostro tempo sembra rivelare, proprio in questo momento, una molteplice attività individuale quantunque gli elementi fondamentali sembra che siano già dissociati, e appunto per questo ognuno

cerca d’entrare in possesso, dopo il crollo dell’universale, di ciò che gli spetta per natura. E quando l’operazione sarà finita, anche quelli che non hanno occhi per vedere o non hanno voluto averne, dovranno per forza considerare il danno e meravigliarsene altamente». [169] Rimando, per questi

aspetti, al mio saggio Filosofia e politica nello Hegel berlinese, in Incidenza di Hegel, cit., pp. 311-337. [170] Cfr. Hegel, Philosophie

der Weltgeschichte, cit., p. 932 (trad. it. cit., vol. IV, p. 212). [171]

Hegel, Über die englische Reformbill, in Schriften zur Politik und Rechtsphilosophie, cit., p. 299

(esiste ora una nuova ed. in Schriften und Entwürfe II (1826-1831), a cura di F. Hogemann e Ch. Jamme, Hamburg, 2001, in Gesammelte Werke, cit., vol. XVI), trad. it. di C. Cesa, Il progetto inglese di riforma elettorale, in Scritti politici, 1798-1831, cit., p. 289. [172] Ibid. (trad. it. cit., p.

290). Il Sub-letting Act, del

1826, era un atto parlamentare teso a porre un limite alla suddivisione delle terre date in affitto, poiché la piccolezza degli appezzamenti moltiplicava «la classe dei mendicanti», cfr. Hegel, ibid., p. 299 (trad. it. cit., p. 289). [173]

Ibid., pp. 301-302 (trad. it. cit., p. 292).

[174]

Ibid., pp. 297-298 (trad. it. cit., p. 288). [175] Ibid., p. 298 (trad. it.

cit., pp. 288-289). [176] Ibid., p. 290 (trad. it.

cit., p. 280). [177] Cfr. Hegel, Zweites

Fragment des Aufsatzes «Über die englische Reformbill», in Berliner Schriften, cit., p. 782. Sulle fonti dell’articolo

hegeliano cfr. F. Hogemann, Zur Frage der Quellen von Hegels Reformbill-Aufsatz, in «Hegel-Studien», 34 (1999), pp. 11-37. [178]

Cfr. V. Cousin, Souvenirs d’Allemagne, cit., pp. 616-617: «En politique, M. Hegel est le seul homme d’Allemagne avec lequel je me suis toujours le mieux entendu. Il était, comme

moi, pénétré de l’esprit nouveau […] Je puis attester qu’ayant souvent revu M. Hegel depuis 1817 jusqu’à sa mort survenue en 1831, je l’ai toujours trouvé dans les mêmes pensées, à ce point que la révolution de 1830, qu’il ne désapprouvait pas en principe, lui semblait très dangereuse en ce qu’elle ébranlait trop la base sur

laquelle repose la liberté. Et lorsque, deux mois avant sa mort, je pris congé de lui à Berlin, il était aussi sombre sur notre avenir que M. Royer-Collard lui-même et par les mêmes motifs. Il craignait de jour en jour davantage que la royauté résistât mal à l’épreuve qu’elle traversait. Je me souviens très distinctement

que je lui fis un sensible plaisir en lui apprenant que le grand ministre qui tenait alors si fermement les rênes du gouvernement français avait tout fait pour sauver l’ancienne dynastie et empêcher jusqu’au dernier moment une révolution, que le général Sébastiani, que M. Hegel avait vu chez moi à Paris en 1827, avait pensé et

agi comme M. Casimir Périer, qu’ainsi, tant qu’il verrait ces deux hommes d’état à la tête de nos affaires, il ne devait pas désespérer de la France». Sono qui segnati esattamente i limiti del pensiero politico di Hegel dinanzi alla Rivoluzione di luglio: la sua preoccupazione è che la rivoluzione sfugga

di mano e dilaghi tanto che Sébastiani e Casimir Périer gli appaiono come garanti dei congelamento della situazione. L’ordine può regnare a Parigi, oltre che a Varsavia. È quindi eccessivo vedere, come fanno Ilting e Beyer, degli atteggiamenti in qualche modo assolutamente favorevoli di Hegel alla Rivoluzione di

luglio (cfr. K.-H. Ilting, Einleitung des Herausgebers alle Vorlesungen über Rechtphilosophie 1818-1831, cit., vol. IV, pp. 60 ss.; W.R. Beyer, Der Stellenwert der französischen Juli-Revolution von 1830 im Denken Hegels, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», XIX, 1971, pp. 628-643). Sull’influenza di Hegel nell’orientare la

concezione della storia di Cousin e, indirettamente, la sua organizzazione, da ministro, degli studi filosofici in Francia, cfr. A. Cornelius, Die Geschichtslehre Victor Cousins unter besonderer Berücksichtigung des Hegelschen Einflusses, Genève, 1958. La conferma di questo atteggiarnento hegeliano di profonda

preoccupazione per le prospettive politiche aperte dalla Rivoluzione di luglio ci è offerta da Varnhagen von Ense e dal figlio stesso di Hegel (cfr. K.A. Varnhagen von Ense an K. Rosenkranz, 24 aprile 1840, in Briefwechsel zwischen Varnhagen von Ense und Karl Rosenkranz, a cura di A. Warda, Königsberg, 1926, pp. 88 ss.; K. Hegel, Leben und

Erinnerungen, cit., p. 15). D’altro canto, però, l’inquietudine di Hegel non si può ridurre a mera chiusura o terrore. Vale sempre per lui la necessità di comprendere il reale e di prestar ascolto alla talpa dello spirito. Persino in questo turbamento, Hegel ci dà ancora una volta un’immagine non conciliata

della sua filosofia. [179]

Hegel, Über die englische Reformbill, cit., p. 303 (trad. it. cit., p. 293). [180] Cfr. M. Weber, Politik

als Beruf, trad. it. di A. Giolitti, La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Torino 19642, p. 120. Cfr. Wissenschaft als Beruf, trad.

it. di A. Giolitti, La scienza come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, cit., p. 42, dove Weber ricorda l’ormai famoso canto della scolta idumea: «Una voce chiama da Seir in Edom: Sentinella! quanto durerà la notte? E la sentinella risponde: Verrà il mattino, ma è ancor notte. Se volete domandare,

tornate un’altra volta». La fiducia di Hegel è anche questa, che dopo la notte – secondo le parole di Michelet – si potrà sentire, anche grazie all’opera della filosofia, il canto del gallo di un nuovo giorno. [181]

È questa la definizione che Rosenzweig dà dell’atteggiamento politico esitante di Hegel, di

fronte alle diverse possibilità, cfr. F. Rosenzweig, Hegel und der Staat, München-Berlin, 1920, vol. II, p. 236 (trad. it. cit., p. 463). [182]

Cfr. Hegel, Vorlesungsnotizen 1831, in Vorlesungen über Rechtsphilosophie, 1818-1831, cit., vol. IV, p. 915, dove in un breve appunto Hegel

sembra attribuire anche allo spirito la natura di talpa, cfr. Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, 1818-1831, cit., vol. IV, p. 915: «HistorieGeist hervortreiben / instinctartig / Maulwurf» («Estrarre storia-spirito / in maniera istintiva / talpa»).

Indice dei nomi

Abel, N.H., 275 Achella, S., 27

Ackermann, J.F., 129 Adorno, F., 221 Adorno, Th.W., 12, 57, 174, 263, 266, 284, 299, 300, 345, 346 Agamben, G., 265 Ahrweiler, G., 107 Alpino, P., 107 Altenstein, K.S.F. von, 79, 92, 106, 107 Althaus, H., 20 Althusser, L., 33, 230 Ambrogio, I., 71

Anderson, J., 367 Antigone, 55 Antiseri, D., 28 Apelle, 340 Apostel, L., 300 Apuleio, L., 23 Archenholz, J.W. von, 22, 104, 364 Arendt, H., 186, 280, 364 Ariosto, L., 42, 257 Aristarco di Samo, 232 Aristofane, 42, 257 Aristotele, 13, 23, 69,

116, 132, 145, 149, 164, 180, 183, 184, 186, 198, 266, 288, 302, 324, 328, 336, 350, 357, 359 Arnaud, E., 175 Arndt, A., 96, 303, 367 Arrigoni, E., 30 Ascheri, C., 193, 194 Asendorf, A., 136 Asverus, G., 77 Aubenque, P., 145 Auffret, D., 114 Autenrieth, J.H.F. von,

129, 130 Avineri, S., 74 Baader, F. von, 170, 175 Bach, J.S., 149 Bachtin, M.M., 333 Bacone, F. (F. Bacon), 10, 155, 261 Badaloni, N., 132 Baer, R., 269 Bagge, E., 74 Balaban, O., 356 Baldini, G., 63 Balibar, É., 33, 235

Balzac, H. de, 364 Baptist, G., 70 Barrande, J.-M., 171 Bartoli, F., 365 Bataille, G., 113 Batscha, Z., 107 Baudelaire, C., 243 Baum, M., 343 Bausola, M., 53 Beaufort, J., 355 Becchi, P., 29, 34, 100 Becker, C., 34 Bedeschi, G., 209

Bedu-Addo, J.T., 222 Beer, H., 364 Beguin, A., 88 Behler, E., 203 Beierwaltes, W., 148, 153, 328 Beissner, F., 27 Bellone, E., 159 Bendiscioli, M., 94 Benfey, Th., 294 Benjamin, W., 243, 247, 345-347 Bennholdt-Thomsen, A.,

265 Benoist, J., 113 Benz, E., 83 Berend, E., 32 Berlichingen, J. von, 55 Bernoulli, J., 273 Bertalanffy, L. von, 159, 336 Bertaux, F., 54 Bertelli, L., 280 Berthelot, R., 144 Berthold-Bond, D., 53 Berthollet, C.L., 348

Berto, F., 57, 300 Berzelius, J.J., 348, 349 Beutler, E., 193 Beyer, W.R., 100, 224, 309, 349, 373, 374 Biasutti, F., 36, 154 Bichat, M.F.X., 129, 167, 169, 246, 247, 348 Birkert, A., 55 Birkhoff, G., 270 Biscuso, M., 112 Bligh, W., 134 Bloch, A.F., 364

Bloch, E., 8, 20, 23, 113, 138, 144, 148, 149, 220, 221, 344, 361 Blumenbach, J.F., 134 Blumenberg, H., 21, 125, 146, 169 Böckenförde, E.W., 96 Bodammer, T., 291 Bodei, R., 20, 28, 29, 52, 54, 55, 57, 60, 67, 72, 81, 87, 91, 117, 140, 145, 146, 152, 173, 174, 182, 204, 207, 209, 228,

249, 250, 282, 284, 303, 343, 356 Boey, K., 226 Boggeri, M.L., 231 Böhme, G., 286 Bolin, W., 169 Bolzano, B., 275, 276 Bonacina, G., 24, 36 Bonald, L.G.A. de, 74 Bonchino, A., 170 Bondeli, M., 72 Bonito Oliva, R., 43, 52 Bonnet, Ch., 83, 84, 166

Bonsiepen, W., 30, 34, 216 Bopp, F., 295, 345 Borgato, M.T., 274 Borghero, C., 201, 363 Borio, F., 140 Bork, A.M., 276 Börne, L., 77 Bornkamm, H., 136 Borruso, G., 32 Borzeszkowski, H.H. von, 156 Bourbaki, N., 270, 274

Bourdin, J.-C., 29 Bourgeois, B., 213 Bouton, R., 113 Bovero Caporali, O., 83 Boyer, C.B., 270 Brandes, E., 100 Brandom, R.B., 58, 218, 232 Brauer, O.D., 22, 213 Braun, F.A., 22 Braun, H., 353 Bravo, B., 294 Brecht, B., 121

Breidbach, O., 171 Brentano, C., 89 Brown, M., 294 Bruaire, C., 360 Brucker, J., 27 Brunacci, G., 63 BrunkhorstHasenklever, A., 178 Bruno, G., 26, 79 Brunschwig, H., 72 Bubner, R., 145, 148, 195, 356 Buchdahi, G., 153

Bucher, Th.G., 153 Buchner, H., 28 Buck, G., 146 Buffon, G.-L. Leclerc de, 168, 170, 256, 336 Bülow-Cammerow, E.G.G. von, 108 Bunzengeiger, C., 272 Burke, E., 234 Burresi, P., 122 Calabi, L., 167 Calasso, R., 345 Callot, E., 144

Calogero, G., 19 Campi, R., 181 Camporesi, C., 365 Cannon, W.F., 171 Cantillo, C., 352 Cantillo, G., 30, 124, 292 Cantimori, D., 179 Cantimori-Mezzomonti, E., 67 Capra, F., 204 Carcassonne, E., 190 Carena, C., 280 Carlo I, re d’Inghilterra,

208 Carlostadio, A., 137 Carlson, D.G., 349 Carlyle, T., 234 Carminati, B., 131 Carnot, L.N.M., 267, 271, 272, 274, 275, 284 Carové, F.W., 77 Cartan, H., 270 Cartesio, R. (R. Descartes), 79, 115, 217, 220, 265 Carus, F.A., 88

Caruso, P., 296 Casini, L., 169 Cassano, F., 173 Castellani, C., 130 Castelnuovo Frigessi, D., 176 Castelnuovo Tedesco, A., 106 Catone, Marco Porcio, detto il Censore, 26 Cattaneo, C., 176 Catuso, S., 365 Cauchy, A.L., 275

Cavallo, T., 182 Cavarero, A., 112 Cebete, 23, 221 Cervantes Saavedra, M. de, 42, 44, 257 Cesa, C., 29, 58, 74, 116, 169, 349, 371 Cesarale, G., 227, 232, 367 Cesare, Gaio Giulio, 27, 36, 215, 280 Chamisso, A. von, 39 Champollion, J.F., 101,

294 Chapelle, A., 92 Chiereghin, F., 66 Chiodi, P., 205 Chrétien, J.-L., 222 Christensen, D.E., 92 Ciampa, M., 113 Cicero, V., 30 Cimmino, L., 215 Clark, M., 311 Clausewitz, K. von, 74 Codignola, E., 25 Cohen, H., 270

Cohen, J., 141 Coleman, W., 167 Colletti, L., 281 Colli, G., 28, 64 Collinson, R., 155 Cölln, F. von, 77 Colombo, C., 304 Colonna d’Istria, F., 247 Comte, A., 71 Condillac, É.B. de, 336, 337, 344 Condorcet, N. de, 81, 256 Cooper, D., 56

Copernico, N. (M. Kopernik), 194 Cornelius, A., 374 Cornovaglia, L., 27 Cosentino, M., 121 Cotta, S., 190 Cotta von Cottendorf, J.F., 47, 78 Courtès, F., 163 Cousin, V., 29, 80, 92, 100, 364, 373, 374 Cratete di Tebe, 304 Crelle, A.L., 271, 288

Creuzer, G.F., 78, 117 Cristo, vedi Gesù Cristofolini, P., 180 Croce, B., 26, 56, 67, 68, 78, 87, 153 Cuoco, V., 103, 104 Curino, R., 52 Cuvier, G., 133, 163, 167, 171, 178, 256, 295, 345, 347 D’Abbiero, M., 226 d’Alembert, J.-B. Le Rond, 154, 155, 158,

203, 218, 222, 271, 273, 336, 350, 360 Dal Pra, M., 124 Damascio, 148 Dammerow, P., 301 Dante Alighieri, 187, 247 D’Arcy, Ph., 125 Darwin, C., 164 Dazzi, N., 353 De Bosis, L., 296 De Cieri, A., 130, 183 De Domenico, N., 64 De Giovanni, B., 29, 145,

282 Delambre, J.-B., 270 Delatour, C.C., 132 Deleuze, G., 61 Dellavalle, S., 19 Della Volpe, G., 138, 281 Del Panta, E., 243 De Negri, E., 30, 136, 137 De Pretto, D., 31, 294 Derrida, J., 87, 292 De Sanctis, N., 113 Desanti, J.-T., 269, 276 Detienne, M., 217

De Toni, G.A., 124 Devizzi, A., 158 De Vos, L., 352 De Wette, W.M.L., 77, 99 Dewey, J., 233 D’Hondt, J., 20, 22, 74, 76, 87, 99, 107, 132, 145, 364 Diderot, D., 29, 44, 73, 154, 155, 168, 200, 202 Dierse, U., 154, 155 Dieudonné, J., 270 Dilthey, W., 143

Diogene di Sinope, detto il Cinico, 192, 232 Diogene Laerzio, 192, 304 Di Pietro, P., 130 Dirksen, E.H., 275 Di Stefano, F., 113 Dobo, N., 167 Doebling, H., 349 Donath, F., 106 Doolittle, J., 73 Doull, J.A., 153 Doumit, E., 269

Doz, A., 300, 336, 348 Drewitz, I., 364 Drilo, K., 213 Droetto, A., 272 Droysen, J.G., 14 Droz, J., 106, 107 Dubarle, D., 153, 260, 269, 300 Duncker, M., 107 Duni, E.R., 202 Durante, G., 353 Düsing, K., 30, 64, 129, 145, 146, 213, 311, 313,

350 Ebert, T., 222, 343 Eckart, Meister (E. von Hochheim), 142 Eisermann, G., 107 Empedocle, 139, 140 Emunds, D., 263 Engelhardt, D. von, 171, 349 Engelhardt, W. von, 171 Engels, F., 41, 67, 251, 268 Epitteto, 73

Erasmo da Rotterdam (D.E. Roterodamus), 304 Erdman, J.E., 52 Erdmann, J.P., 171 Eschilo, 44 Esopo, 366 Esposito, R., 147 Euchner, W., 124 Euclide, 269, 302, 332 Eulero (L. Euler), 272, 274 Eutropio, Flavio, 344 Fackenheim, E., 357

Farber, K.G., 77 Farina, M., 21 Fatta, C., 19 Fazio, D.M., 27 Febvre, L., 167 Federico Guglielmo, principe ereditario di Prussia, 74, 106 Federico Guglielmo III, re di Prussia, 120 Felice, D., 181 Ferguson, A., 122, 200, 201, 225

Ferrari, F., 316 Ferrarin, A., 145 Ferrero, G., 56 Ferrini, C., 153, 171 Fetscher, I., 74, 176, 242, 291 Feuerbach, L.A., 56, 168, 169, 174, 186, 193, 281 Fichte, I.H., 337 Fichte, J.G., 10, 28, 71, 72, 77, 85, 115, 116, 174, 207, 211, 212, 217, 218, 220, 282, 337

Fiesel, E., 295 Filippini, E., 346 Filippo II d’Asburgo, re di Spagna, 102 Filolao, 221 Filoni, M., 114 Findlay, J.N., 132, 154, 167, 197 Finelli, R., 112 Fink, E., 198 Finzi, S., 186 Fischer, K.Ph., 355 Flechsig, R., 37

Flockenstein, J.O., 269 Flores d’Arcais, P., 235 Fludd, R., 28 Fontaine-De Visscher, L., 295 Fontana, A., 301 Forbes, D., 122 Ford, H., 114 Formigari, L., 144 Förster, F., 80 Forster, M.N., 112 Fortini, F., 317 Foscolo, U., 42

Foucault, M., 15, 60-62, 301 Fourier, J.B., 276 Frazer, J.G., 296 Freud, S., 347 Friedrich, G., 244 Fries, J.F., 99, 223, 279, 308, 319 Frigo, F., 87 Frilli, F., 212 Fritscher, B., 171 Fukuyama, F., 114, 115 Fulda, H.F., 100, 196,

210, 336, 337, 355, 359, 360 Füzesi, N., 356 Gabler, G.A., 52 Gabriel, G., 336 Gadamer, H.-G., 8, 195 Galba, Servio Sulpicio, 280 Galilei, G., 79 Gall, F.J., 166 Gallagher, B., 61 Gans, E., 33, 109 Garaventa, R., 27

Garber, J., 107 Garelli, G., 30 Gauss, C.F., 275 Gauvin, J., 210, 355 Gebhardt, C., 180 Gellert, C.F., 326 Gembruch, W., 106 Genette, G., 333 Gengis Khan, 118 Gentile, G., 64 Gentz, F. von, 77 Geraets, Th., 355 Gérard, R., 294

Gerbi, A., 24, 172 Gerhardt, B., 78 Gesù, 27, 91, 94, 137-142, 199, 203, 239, 290, 325 Gethmann-Siefert, A., 21, 34, 42 Geymonat, L., 270 Giacché, V., 183 Giametta, S., 63 Gianni, C., 205 Gibbon, E., 200 Gies, M., 154 Giolitti, A., 374

Giona, 142 Giotto di Bondone, 258 Giovio, P., 131 Girolamo Bonaparte, re di Vestfalia, 102 Giussani, C., 280 Glockner, H., 286 Gneisenau, A.W.A. von, 79 Goethe, J.W. von, 29, 42, 47, 108, 149, 159, 164, 170, 171, 192, 193, 205, 317, 318, 345, 356, 359

Gogel, J.N., 72 Goldmann, K.H., 309 Goldschmidt, V., 190 Gorgia, 194 Göritz, F.L., 55 Görres, J. von, 89 Gramsci, A., 73, 110, 225, 250 Granville-Barker, H., 63 Grassé, P., 182 Grattan-Guiness, I., 270, 276 Grießer, G., 212

Griewank, K., 280 Grilli, A., 186 Grillo, E., 231, 353 Grimm, J.L.K., 295, 346 Grimm, W.K., 346 Grimmlinger, F., 220 Grlic, D., 31 Grosrichard, A., 190, 329 Gründer, K., 336 Grüson, J.P., 272 Guattari, F., 61 Guerra, A., 196 Günther, G., 300

Guz, T., 136 Habermas, J., 15, 100, 291 Haering, Th., 208 Haller, A. von, 130 Haller, C.L. von, 74, 95 Hamann, J.G., 298 Hansen-Love, O., 295 Harich, W., 300 Harlander, K., 319 Hartleben, H., 294 Haüy, R.J., 171 Haym, R., 55, 208

Hedwig, K., 125 Heede, R., 30 Heer, F., 309 Hegel, Christiane Louise, 54, 55 Hegel, K., 83, 100, 121, 374 Heidegger, M., 8, 15, 205, 218 Heimann, B., 336 Heine, H., 20, 62, 76, 79, 88, 176 Heintel, E., 70

Henning, L.D. von, 77 Henningen, J., 155 Henrich, D., 35, 55, 92, 117, 196, 198, 313 Henrik, U., 54 Herder, A. von, 170 Herder, J.G., 63, 83, 235 Herzen, A., 36 Hespe, F., 53, 62 Hildebrand, R., 244 Hippel, T.G., 108 Hočevar, R., 107 Hoffmann von

Fallersleben, A.H., 74 Hoffmeister, J., 27, 30, 31, 37, 66, 72, 77, 80, 83, 90, 99, 124, 209, 244, 249 Hogemann, F., 34, 371, 373 Holbach, P.-H.D. d’, 168, 201 Hölderlin, F., 27, 54, 55, 72, 81, 83, 129, 139, 140, 169, 204, 206, 265, 342

Homeyer, C.G., 34 Honneth, A., 227, 228 Hooykaas, R., 171 Horstmann, R.P., 30, 31, 78, 117, 275 Hösle, V., 353 Hotho, H.G., 21, 237, 299 Houzel, Ch., 269 Hübscher, A., 63 Hüllen, L., 311 Humboldt, A. von, 170 Humboldt, W. von, 79, 294-296

Hunlin, M., 190 Hussel, K., 309 Hutton, J., 171, 256 Hyppolite, J., 124 Iannaco, F.A., 52 Iber, Chr., 60, 356 Iljin, I., 353 Illetterati, L., 66, 132 Illuminati, A., 100 Ilting, K.-H., 34, 35, 7678, 154, 373 Iofrida, M., 87 Jacob, W., 95

Jacobi, F.H., 76, 86, 204, 223 Jaeschke, W., 27, 34, 45, 184, 356 Jähnig, D., 210 James, W., 233 Jameson, P., 190 Jamme, Ch., 34, 371 Janicaud, D., 145 Jarczyk, G., 357 Jaspers, K.T., 304 Jean Paul (J.P.F. Richter), 32, 42, 88

Jendreieck, H., 295 Jodl, F., 169 Jommelli, N., 202 Joyce, J., 347 Jung, C.G., 83 Jussieu, A.L. de, 165 Kaher, R., 300 Kamptz, K.C.A.H. von, 100, 106 Kant, I., 46, 63, 64, 71, 72, 85, 103, 106, 107, 132, 180-183, 187, 196, 198, 219, 260, 265, 286,

287, 302, 303, 319, 335338 Kästner, A.L., 291 Kaulbach, F., 153 Kerényi, K., 22 Kern, W., 145 Kesselring, T., 301 Keynes, J.M., 18 Kierkegaard, S., 49, 358 Kimmerle, H., 30, 213, 268, 316, 336 Kitscher, P., 276 Kittsteiner, H.D., 184

Klaus, G., 300 Klein, H.-D., 220 Klein, J., 222 Kniebiehler, Y., 80 Koch, A.F., 265 Kojève, A., 31, 87, 113115, 152, 224, 227, 228, 350 Kondylis, P., 336 Korsch, K., 262, 263 Kortländer, B., 55 Koselleck, R., 106-109 Kosok, M., 159, 300

Kotzebue, A.F.F., 77 Koyré, A., 21 Krahl, H.J., 72 Kramer, K., 148 Kraus, E., 338 Kraus, K., 345 Kriegel, P., 55 Krieger, L., 106 Krijnen, C., 336, 337 Kristeva, J., 333 Kroner, R., 143 Kugelmann, L., 71 Kümell, F., 349

Küng, H., 143 Künkler Giavotto, A.L., 52 Künne, W., 112 Labarrière, P.-J., 209, 210, 359 Lacroix, S.F., 272 Lafargue, P., 176 Laffitte, J., 364 Lagrange, J.-L., 267, 271, 272, 274-276, 288-290 Lakebrink, B., 284, 349 Lamarck, J.-B., 163, 165,

167-169, 171, 256, 348 Lambert, J.H., 196 Landgrebe, L., 288 Landucci, S., 64, 124, 190, 235, 241 Lange, F.A., 268 Lange, O., 336 Lanig, K., 309 Laplace, P.S., 170, 195, 218, 219 La Rochefoucauld, F. de, 182 Lasson, G., 19, 28, 32, 58,

82, 92, 93, 116, 128, 142, 149, 182, 238, 239, 246, 313, 355 Laudan, R., 171 Launay, M., 73 Laurenti, R., 288 Lauro, P., 346 Lawler, J., 301 Lebrun, G., 145 Lefman, S., 295 Leibniz, G.W., 154, 266, 293, 336 Le Moli, A., 145

Lenin (V.I. Ul’janov), 71, 313 Lenk, H., 299 Lenz, J.G., 170 Lenz, M., 77 Léonard, A., 333, 355 Le Roy, G., 336 Leucippo, 314 Lévi-Strauss, C., 8, 296 Ley, H., 133 L’Hospital, G.-F.-A. de, 272, 273 L’Huilier, S.A.J., 274

Linneo (C. von Linné), 165 List, F., 364 Litt, Th., 312, 314, 361 Livio, Tito, 344 Locke, J., 164, 263, 265, 266 Lombardo-Radice, G., 64 Longuenesse, B., 333 Lorenz, J.F., 268, 269 Losurdo, D., 35 Lovejoy, A.O., 144 Löwe, S.H., 310

Löwith, K., 28, 175, 291 Lozano, V.R., 36 Lucas, H.-Ch., 34, 53, 55, 78, 107, 350 Luciano di Samosata, 42, 44, 257 Lucrezio Caro, Tito, 169 Lugarini, L., 174, 183, 220 Lukács, G., 91, 142, 143, 150, 174, 175, 179, 208, 209, 345, 346 Luporini, C., 179, 230,

286, 343 Luqueer, F.L., 309 Lusternik, L.A., 272 Lutero, M. (M. Luther), 37, 137, 258 Macartney, G., primo conte Macartney, 293 Macchia, G., 261 McClain, E.G., 222 McDowell, J., 152 Machiavelli, N., 70 MacIntyre, A., 300 Macpherson, C.B., 124

Mac Rae, R., 336 McTaggart, J.M.E., 214216 Madonia, F., 230 Maffi, B., 231 Majetschak, S., 213 Malus, É.-L., 125, 318 Mancina, C., 124 Manganaro, P., 37, 52 Mankowski, B.S., 74 Marconi, D., 57, 300 Marheineke, P., 27, 92, 185, 239

Marino, L., 282 Markow, W., 106 Marramao, G., 145 Marriott, J.A.R., 77, 79, 106 Martin, G., 349 Marx, K., 10, 15, 41, 44, 56, 64, 65, 67, 71, 76, 109, 117, 124, 144, 176, 179, 192, 230, 231, 245, 249, 250, 268, 281, 365 Marx, W., 205, 207, 336 Masciarelli, P., 301

Masini, F., 100 Massolo, A., 87, 211, 226, 228, 281, 316 Mathieu, V., 64 Matteo (evangelista), 168 Maupertuis, P.-L.M. de, 336 Maurer, R.K., 113 Mauron, Ch., 21 Mayer, J., 73 Mazzocchi, C., 88 Meatini, V., 222

Meazza, C., 278 Meinecke, F., 74 Meist, K.R., 34, 79, 107, 343 Melandri, E., 21 Melica, C., 93, 94 Mendel, G., 164 Mendeleev, D.I., 349 Mercier-Josa, S., 124 Merkel, R.F., 294 Merker, N., 21, 112, 281, 353 Merlini, F., 113

Messineo, F., 27 Metternich, C.W.L. von, 77, 106 Michaelis, C.F., 130 Michel, K.M., 26, 156, 158 Michelet, K.L., 22, 25, 154, 192, 326, 374 Michelsen, J.A.C., 272 Mignet, F.-A.M., 80 Mignini, F., 192 Mihaud, G., 286 Miller, A.W., 154

Minati, G., 159 Mirri, E., 119, 140, 207 Moldenhauer, E., 26, 156, 158 Momigliano, A., 36 Moneti, M., 195 Moni, A., 58 Montaigne, M.E. de, 11 Montesquieu, Ch.-L. de Secondat, 190, 200, 244 Montinari, M., 64 Moravia, S., 243

Moretti, G., 205 Moretto, A., 269 Mori, G., 364 Mornet, D., 29 Mortier, R., 29 Mozart, W.A., 42 Müller, K.A. von, 77 Murray, M., 213 Müsebeck, E., 79 Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi, 24, 71, 76, 91, 101, 102, 104-106, 114,

321, 331 Nasti De Vincentis, M., 153 Nauen, F.G., 203 Negri, A., 124, 182, 246, 251, 252 Negt, O., 72, 294 Neuhouser, F., 227, 228 Neuser, W., 153 Newton, I., 259, 273, 276 Nicolin, F., 154, 170, 264 Nicolin, G., 129 Nicolini, F., 104

Niel, H., 143 Niethammer, F.I., 75, 154, 224, 310, 321 Nietzsche, F.W., 8, 15, 63, 64, 304 Nohl, H., 140, 143 Novalis (F. von Hardenberg), 60, 88, 134, 170 Nuzzo, A., 117, 210, 232, 335 Oberti, E., 32 Oelsner, K.E., 364

Oeser, E., 220, 260 Oldroyd, D.R., 171 Omero, 340 Omodeo, A., 80 Omodeo, P., 167 Orazio Flacco, Quinto, 211 Ortega y Gasset, J., 352 Oskian, V., 33 Osmo, P., 52 Otone, Marco Salvio, 280 Otto, S., 299 Outram, D., 167

Paisse, J.M., 222 Palmer, R.R., 106 Palumbo, P., 145 Pancaldi, G., 118 Pannuti, U., 88 Panzieri, G., 334 Panzieri, R., 281 Papa, F., 282 Pareyson, L., 337 Parisi, D., 263 Parmenide di Elea, 115, 189, 191 Pasquinelli, A., 263

Pasquinelli, G., 81 Pasteur, L., 168 Paterson, A.L.T., 269 Paulus, H.E.G., 272 Pavanini, G., 107 Pavetto, R., 28, 329 Peirce, C.S., 233 Pelczynski, A.A., 74 Pelczynsky, Z.A., 35 Pellizzi, C., 164 Pepe, L., 274 Peperzak, A., 68, 143, 227, 349, 352, 356

Perelda, F., 217 Pergolesi (G.B. Draghi), 202 Périer, C., 364, 373 Perrault, C., 39 Perretta, W., 100 Pesenti Cambusano, O., 195 Petrova, S.S., 272 Petry, M.J., 154, 275, 276, 288, 291, 359 Pezzella, M., 140 Pfaff, J.W.A., 125, 127,

149 Piaget, J., 300-302 Picchi, M., 21 Pierini, T., 183 Pinel, Ph., 53 Pinkard, T., 20, 42, 232, 237, 269 Pinochet Ugarte, A.J.R., 8 Pippin, R.B., 227, 232, 233 Pirrone, 111 Piveteau, J., 170 Planty-Bonjour, G., 244

Platone, 23, 25, 69, 89, 111, 112, 120, 139, 149, 198, 221, 223, 281, 336, 339, 351 Plechanov, G.V., 235 Plotino, 316 Plutarco, 280 Pöggeler, O., 28, 34, 70, 107, 154, 203, 208 Poggi, S., 58 Polin, R., 90 Politi, F., 27 Politzer, G., 32

Pons, A., 158 Popper, K.R., 28, 117, 118, 120, 153, 175, 268 Portmann, A., 164 Pozzi D’Amico, L., 73 Prauss, G., 198 Preti, G., 189, 337 Prignitz, C., 55 Proclo, 148 Proust, M., 347 Pucelle, J., 336 Puntel, L.B., 148, 210, 311, 355, 361

Queneau, R., 113 Raack, R.C., 106 Racinaro, R., 29, 266 Raciti, G., 52 Rademaker, H., 273 Radetti, G., 286 Raffaello Sanzio, 340 Rametta, G., 213 Rauch, G. von, 121 Ravotz, J.R., 276 Reale, G., 112 Réaumur, R.A. Ferchault de, 131

Rehm, M., 269 Reichenbach, H., 263 Reid, J., 60 Reil, J.C., 53 Reill, P.H., 134 Reinhard, E., 74 Reinhold, K.L., 10, 28, 72, 172, 211 Rémusat, A., 293 Renault, E., 159 Renzoni, M., 170 Rhöse, F., 48 Ricardo, D., 345

Ricci Garotti, L., 281 Richerand, A., 129, 130, 159, 169, 348 Riedel, M., 109, 174 Riegel, K.F., 301 Rinaldi, G., 58 Rinaldi, R., 33 Ritschl, O., 336 Ritter, G., 106 Ritter, J., 29, 336 Robespierre, M., 30, 329, 330 Robin, L., 222

Robinet, J.-B.-R., 166 Rockmore, T., 350 Rodeschini, S., 19, 24 Rogowski, S., 300 Role, A., 167 Romano, S., 56 Romé de l’Isle, J.-B., 171, 348 Romeyer-Dherbey, G., 145 Rorty, R., 58 Rosdolsky, R., 231 Rosen, S., 232, 233

Rosenberg, H., 106, 107 Rosenkranz, K., 20, 52, 56, 67, 70, 102, 117, 122, 125, 129, 153, 160, 170, 182, 200, 224, 272, 274, 297, 299, 364 Rosenzweig, F., 52, 345, 346, 374 Rossi, M., 159, 281, 292 Rossi, Paolo, 261 Rossi, Pietro, 25, 172 Rossini, G., 42 Rostand, J., 130, 131

Rothschild, J. de, 364 Rousseau, J.-J., 72, 90, 206, 336, 368 Royer-Collard, M., 373 Ruaro, E., 23 Ruda, F., 370 Rudwick, M.J.S., 166, 167 Ruge, A., 10 Ruggiu, L., 212, 213, 232 Rühle, V., 60 Rusch, U., 349 Rusconi, G.E., 263 Ryffel, H., 280

Sabra, A.I., 125 Sainte-Beuve, A. de, 167, 168, 171 Saint-Simon, H. de, 365 Salomon, L., 77 Salomon, R.C., 244 Salvucci, P., 122, 316 Sambursky, S., 125 Sancipriano, M., 74 Sand, K.L., 77 Sanna, G., 25 Santi, R., 112 Sartre, J.-P., 347

Sass, H.-M., 169 Sborgi, C., 276 Scaravelli, L., 286, 287 Schaefer, R., 300 Schelling, F.W.J., 28, 53, 56, 127, 156, 169, 175, 189, 193, 194, 206, 212, 246, 278, 336-339, 353 Schelling, K.F.A., 272 Schenk, M.A., 77 Schiera, P., 283 Schiller, F., 27, 129, 193, 318

Schinckel, J., 294 Schlegel, F., 60, 295, 343 Schleiermacher, F.E.D., 77, 95, 96 Schmidt, A., 145, 186 Schmidt, G., 92, 309 Schmidt, S., 182 Schmitt, C., 8, 283 Schmitz, H., 134, 355 Schnabel, F., 94 Schnädelbach, H., 356 Schneider, G., 334 Schneider, H., 34, 72, 78,

108, 261 Scholem, G., 346 Schopenhauer, A., 16, 63, 167, 246, 247, 304 Schrader, W., 153 Schröter, M., 53, 189 Schubert, G.H. von, 88, 89 Schul, P.M., 366 Schulin, E., 190 Schulte, M., 246 Schultheiss, W.K., 309 Schulze, G.E., 112

Schwab, Th., 83 Schwann, Th., 132 Schwarz, H., 269 Schweizer, E., 244 Schweppenhäuser, H., 346 Schwerte, H., 169 Scott, W., 74 Sébastiani, H.-F.B., 373 Sellars, W., 58 Semerari, G., 353 Senebier, J., 130 Senofonte, 31

Serini, P., 87 Serra, F., 57 Serra Hansberg, M.V., 21 Sesto Empirico, 23, 111, 192 Severino, G., 52 Shakespeare, W., 51, 63, 64, 93, 340 Shapiro, D., 22 Siani, A.L., 21 Sichirollo, L., 96, 248, 309 Siep, L., 227

Simmia di Tebe, 221 Simon, J., 205, 291, 297, 299, 301 Simon-Schaefer, R., 300 Simson, W.F., 106 Sinaceur, H., 275 Sinclair, I. von, 54, 204, 207 Sioli, A.M., 159 Smith, A., 365 Smith, C.I., 74 Smith, W.R., 269 Socrate, 23, 26, 37, 79,

99, 102 Sofocle, 340 Solger, K.W.F., 343, 344 Solmi, R., 142, 243, 346 Song, D.-U., 190 Souche-Dagues, D., 355 Southey, R., 366 Spallanzani, L., 130-132 Spenlé, J.E., 364 Spieker, M., 356 Spini, G., 27 Spinoza, B., 180, 192, 265, 267, 272, 336, 339

Spirito, U., 281 Srbik, H. von, 106 Städler, G.L., 297 Stahl, C.D.M., 268 Starobinski, J., 72, 73, 155 Staunton, G.L., 293 Steckeler-Weithofer, P., 145 Steffens, H., 170 Stein, H.F.K. von, 79, 106 Stein, M. von, 288 Steinkraus, W.E., 132

Steinthal, H., 296 Stendhal (M.-H. Beyle), 76 Stenius, E., 198 Stephani, H., 306 Sterne, L., 42, 44 Stierle, K., 22 Stöcklein, P., 193 Strabone, 280 Strauss, L., 31, 224 Strub, Ch., 336 Struensee, K.A., 106 Stuke, H., 22

Suphan, B., 63 Suszko, R., 300 Suter, J.F., 234 Svetonio Tranquillo, Gaio, 344 Tacito, Publio Cornelio, 280 Tagliavia, G., 206 Tamerlano (Temür Lenk), 118 Tatasciore, C., 337 Taylor, Ch., 227, 232, 274 Tega, W., 155, 350

Tennemann, W.G., 29 Tertulliano, Quinto Settimio Fiorente, 326 Tessitore, F., 87 Testa, I., 232 Theunissen, M., 311, 355 Thiers, A., 80 Thies, E., 193 Tiedemann, D., 194 Tiedemann, R., 346 Tillette, X., 353 Timpanaro, S., 281, 295 Toeplitz, O., 270

Togliatti, P., 251 Tomkieff, S.I., 171 Torlais, J., 131 Trede, J.H., 30, 31 Treitschke, H. von, 77, 92 Trendelenburg, F.A., 353 Treviranus, G.R., 129, 130 Trombadori, D., 61 Trotsky, L. (L.D. Bronštejn), 253 Tuschling, B., 53, 350

Uffredduzzi, F., 73 Ugolino della Gherardesca, 247 Unger, R., 83 Vaccaro, N., 21, 119, 207 Vadée, M., 269 Valagussa, F., 21 Valéry, P., 62 Vallisneri, A., 166 Van der Meulen, J., 355 Vanini, G.C., 26, 27 Varnhagen von Ense, K.A., 80, 95, 374

Varnhagen von Ense, R., 364 Varnier, G., 112, 356 Veca, S., 72, 117 Vegetti, M., 113, 316 Veillard-Baron, J.L., 89 Ventura, L., 329 Venturi, F., 63 Verene, D.P., 74 Verra, V., 26, 87, 204, 269, 273, 282, 291, 350 Vesentini Ottolenghi, M.L., 270

Viano, C.A., 23 Vidari, G., 196 Vieillard-Baron, J.-L., 64 Vieweg, K., 107, 112, 129, 152 Vigolo, G., 27, 342 Vinci, P., 142 Vinciguerra, M., 56 Virey, J.J., 274 Virgilio Marone, Publio, 195, 340 Vitellio Germanico, Aulo, 280

Vitiello, V., 214 Vittone, C., 67 Vogel, B., 350 Volney, C.-F., 243 Voltaire (F.-M. Arouet), 180, 181, 336 Von Steiger, famiglia, 72 Wagner, M.A., 80 Wahl, J., 113 Wahsner, R., 156 Wallace, W., 359 Walsh, W.H., 94 Walter, F., 52

Wandschneider, D., 353 Warda, A., 374 Warnke, C., 132 Waszek, N., 72, 365, 367 Weber, M., 122, 173, 184, 374 Weierstrass, K., 274 Weil, E., 29, 107, 113, 198, 248 Weiller, C., 310 Weinreich, H., 146 Welsch, W., 152 Wendte, M., 239

Wentzcke, P., 77 Wenzel, O., 20 Werner, A.G., 170, 256 Wetzel, M., 311 Weyl, A., 270 Whittaker, E., 162 Wiehl, R., 148 Wieland, C.M., 28 Wieland, W., 224 Williams, R.R., 367 Wilson, A., 61 Windschmann, K.J.H., 51

Winter, G., 106, 107 Wittfogel, K.A., 329 Wittgenstein, L., 197, 302 Wittgenstein, W.L.G. von, 106 Wohlfahrt, G., 213 Wolff, Ch., 273, 280 Wolff, M., 275 Wright, G.H. von, 182 Yates, F., 27 Yxküll (Uexküll), B. von, 121

Zanotti, G., 57, 299 Zellini, P., 272 Zenone di Cizio, 304 Zenone di Elea, 191 Ziche, P., 129, 269 Zinke, J., 76 Žižek, S., 370 Zoeppritz, R., 223 Zuefle, M., 291 Zwingli, U., 137

More Documents from "Anahi Rippa"