Papert S. "Io penso che la scuola si fondi sul modello di una linea di produzione in cui si mettono delle conoscenze nella testa delle persone… Adesso i ragazzi non hanno più bisogno di acquisire nozioni in questo modo, e con la moderna tecnologia dell'informazione possono imparare molto di più facendo, possono imparare facendo ricerca da soli, scoprendo da soli. Il ruolo dell'insegnante non è quello di fornire tutte le parti della conoscenza ma di fare da guida, di gestire le situazioni molto difficili, di stimolare il ragazzo, forse, di dare consigli…"
Un esempio di quanto afferma Papert l’ho sperimentato nella mia esperienza personale di consulenza ad una classe quinta di scuola primaria che sta costruendo una presentazione con il programma “Power point” come documentazione del lavoro sulla propria città condotto durante l’anno. Due bambini stavano scegliendo le animazioni da far realizzare ad un testo che avevano prodotto; si sono dedicati a questo con una passione ed un entusiasmo davvero notevoli se consideriamo che ci trovavamo a scuola: si consultavano, discutevano, provavano soluzioni osservando come la macchina rispondeva, per poi valutare l’efficacia, per loro, del risultato. Hanno intrapreso un dialogo con la macchina che aveva valore di per sé: l’interessante non era arrivare ad una decisione conclusiva ed andare avanti; il lavoro ora, era diventato provare tutti i comandi possibili per scoprire tutte le possibili risposte del computer in merito alla scelta del carattere e dell’animazione di oggetti di testo. In questo gioco hanno incontrato possibilità che neanche io avevo mai provato, giocando si scontravano anche con dei “crash”: un comando di modifica ad un certo punto gli aveva nascosto tutte le scritte, allora hanno annullato la precedente procedura, ma poi, non contenti, hanno cominciato a studiare come fare per utilizzare quel comando senza nascondere le scritte. Mi sono appassionato anch’io del gioco, probabilmente perché non essendo insegnante di classe potevo osservarli senza farmi prendere dall’ansia del prodotto; tanto che, lavorando con gli altri bambini, provavo anche a seguire le loro procedure; così ho trovato una possibilità e l’ho suggerita; loro hanno catturato subito l’idea e hanno continuato nel loro gioco: la scritta cambiava di colore, di carattere, diventata ombreggiata, assumeva prospettive, entrate, tracciati animati, formati continuamente diversi. Mi ha molto colpito tutto questo perché era un gioco che poco aveva a che fare con il compito stabilito. Tutto il tempo era stato utilizzato dai ragazzi nei preliminari del lavoro che dovevano compiere. Mi è sembrato interessante di tutto questo: innanzitutto il gusto che mostravano per questo gioco, all’interno del quale, però, apprendevano dei comandi e delle procedure di cui poi mantenevano la consapevolezza. A volte, infatti, andavo da loro e, anche per valorizzare il lavoro, chiedevo come avevano raggiunto quel risultato e loro erano perfettamente in grado di ripetere la procedura; mi piaceva l’idea che, dialogando tra loro e con la macchina, conoscevano giocando il modo di funzionare di quel programma, ma anche cercavano le soluzioni che li soddisfacevano di più senza essere mai paghi. L’insegnante poteva offrire consigli o fare domande giuste per permettere di riflettere sui loro percorsi, ma era in una posizione di parità: si stava realizzando un apprendimento per scoperta con il valore aggiunto della carica emotivamente positiva che contiene una esperienza motivante. Si potrebbe obiettare che i ragazzi non hanno raggiunto i risultati che erano stati stabiliti per quel lavoro dall’insegnante. Ma se è vero che apprendere non è indipendente da come si apprende, questi bambini grazie al dialogo col computer hanno sperimentato una modalità di apprendere facendo, agendo per tentativi, imparando dalle risposte della macchina in un contesto per loro molto significativo che rappresenta un bagaglio positivo per i loro ulteriori processi formativi: la memoria di situazioni motivanti può spingerci a cercarne delle altre simili.
Le nuove tecnologie, come si evince da questa semplice esposizione, rappresentano una notevole possibilità per la scuola di realizzare ambienti di apprendimento che rispettino i presupposti della collaborazione, della comunicazione, della costruzione significativa e motivata delle conoscenze. La semplice introduzione di esse non garantisce, però, un reale processo innovativo. Le nuove tecnologie non sono separate dagli attori che le utilizzano: c’è una relazione compitoartefatto che nasce dagli scopi di coloro che agiscono sullo strumento tecnologico. Questo da solo non può dire ciò che le persone dovrebbero fare. All’interno delle pratiche che si sviluppano per realizzare determinati compiti con particolari artefatti questi indicano nuove soluzioni e modificano le pratiche secondo la famosa frase di Mc Lhuan per cui il “medium è il messaggio” 1. Proprio per questo nella interazione continua tra persone ed artefatti c’è sempre l’incubazione di nuovi principi culturali e ordini sociali: lo strumento modifica la pratica ma anche le abilità e le competenze di chi lo usa e le caratteristiche del suo pensiero. Gli insegnanti che utilizzano le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione hanno anche il compito di capire come funzionano e le implicazioni e modificazioni che determinano nel nostro modo di conoscere ed interagire, solo così le possono applicare in modo flessibile alle esigenze delle specifiche realtà. Le nuove tecnologie vanno interpretate e non si può cadere nella equazione deduttiva che introduzione della tecnologia ad alto livello nella scuola determina, secondo una struttura logica di causa effetto, una innovazione e una crescita culturale sociale e conoscitiva degli allievi. C’è bisogno di una cornice formale, progettuale che renda significativa la relazione tra attori, pratiche e nuove tecnologie, una cornice che, attraverso processi di riflessione nel corso dell’azione tra gli insegnanti che costruiscono i diversi ambienti di apprendimento, si possa continuamente riprogettare per garantire gli scopi che si vogliono raggiungere e la direzione che si vuole dare alle realtà educative che costruiamo. Insomma, se l’insegnante nella scuola ha perso quella funzione di depositario e trasmettitore di saperi o di razionale organizzatore di processi che permettano una adeguata elaborazione dell’informazione nelle menti dei suoi giovani allievi, rimane centrale la funzione del team di educatori della comunità che apprende, che ha il compito di immaginare, organizzare e realizzare cornici progettuali all’interno delle quali mettere a disposizione strumenti, tecniche, occasioni secondo orizzonti di senso precisi, interpretando in corso d’opera le direzioni assunte dalla comunità stessa nell’utilizzo di tali tecnologie, creando situazioni flessibili in cui non si sposa una tecnica ritenendola sempre valida di per sé, ma si interagisce osservando e riflettendo su quanto avviene per facilitare i percorsi di ciascun alunno in apprendimento, utilizzando precise tattiche o decisioni strategiche. Dunque si apre una sfida: i nuovi ambienti tecnologici offrono una risorsa inedita, ma per modificare davvero intimamente il setting didattico c’è bisogno di assumersi la responsabilità di prendere decisioni, di occuparsi dell’organizzazione di tutti gli aspetti dei possibili scenari d’azione immaginati, compresi quelli da mettere in campo dopo la valutazione dei processi attivati.
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M. Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967.