Riflessioni su alcuni aspetti del mio percorso professionale* di Salomon Resnik**
Non è un caso che mi sia stato chiesto di inserire una sezione dedicata ai gruppi in un Congresso sulla Storia della psicoanalisi; è la dimostrazione che l’approccio psicoanalitico al gruppo con le sue implicazioni istituzionali e sociali appartiene alla storia della psicoanalisi, ovvero al patrimonio freudiano. Quando Freud arrivò a Parigi, il 13 ottobre 1885, Charcot era all’apice della propria fama. In quel periodo la presentazione pubblica delle pazienti istero-epilettiche alla Salpêtrière era il principale spettacolo teatrale in città. Le fotografie e i quadri del tempo mostrano al centro della scena una bellissima donna (sicuramente M.lle Blanche) che, come una “vamp”, affascina, ipnotizza e addirittura seduce il Prof. Charcot e i suoi collaboratori. Questa era come una prima forma di psicodramma moreniano, con i suoi “io ausiliari” e il suo pubblico. Evidentemente Freud era rimasto affascinato da tali rappresentazioni, che di certo risvegliavano in lui ciò che era avvenuto tra Breuer e Anna O, senza che egli potesse assistervi. Immagino Freud uno spettatore “avido”, entusiasta degli stupefacenti psicodrammi orchestrati da Charcot. Le riunioni del martedì con le pazienti isteriche venivano organizzate come una rappresentazione teatrale di tipo catartico. La catharsis greca in Aristotele implica un gioco triangolare tra gli attori, il coro e il pubblico. Ho sempre pensato che il coro sia la personificazione superegoica del pubblico sulla scena. A sua volta il coro si proietta al centro dell’auditorium in uno scambio dialettico tra essere, apparire (le maschere degli attori) e opinione pubblica. Il termine catharsis era già familiare a Freud grazie allo zio di sua moglie, il filosofo Jacob Bernays, che nel 1880 aveva pubblicato a Berlino una tesi dal titolo Über die Aristoteliche Teorie des Drama. Secondo Aristote*
Si tratta di un contributo inedito, mai pubblicato prima, scritto per A. de Mijolla per un Congresso di Storia della psicoanalisi tenutosi a Parigi nel luglio del 2000. ** Psichiatra, Psicoanalista, membro didatta della International Psychoanalytic Association, già professore di Semiologia Psichiatrica all’Università di Lione e all’Università Cattolica di Roma alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria. Gruppi, 3/2004
11
le la catarsi è legata alla poesia epica e al dramma. Spesso il dramma, con l’accompagnamento del flauto e dell’arpa, veniva recitato su un ritmo simile a quello di una danza, e ciò dava alla rappresentazione una dimensione trascendente la scena. Tra tragedia, commedia e vita, il fondamento dell’espressione artistica, sono la metafora e la metonimia. Il teatro rappresenta la vita, e la vita è una specie di teatro veritiero tra persone che si fanno personaggi. I fenomeni di transfert tra il teatro e il pubblico erano già presenti nello spettacolo di Charcot. Charcot conosceva la parola “transfert”. Aveva infatti autorizzato V. Burq (1876) a usare il termine “transfert” nel corso delle sue esperienze di metalloterapia con pazienti isteriche che consistevano nello stabilire un contatto con i corpi isterici, e le loro varie parti, grazie alla mediazione dei metalli. Secondo Burq ogni metallo, in base alla propria natura, doveva esercitare un particolare effetto. Compito del terapeuta era quindi di individuare il metallo adatto a ogni paziente. Il transfert, nella descrizione di Burq e Charcot aveva un’implicazione non solo inter-personale (paziente-terapeuta) ma soprattutto intracorporea e intra-psichica. I ricordi del teatro di Charcot alla Salpêtrière ricompariranno poi nella casa dello stesso Freud nel corso delle famose riunioni del mercoledì. Tra i suoi invitati c’erano i futuri fondatori della Società Psicoanalitica di Vienna (1906-1908). Leggendo le Minute della Società Psicoanalitica di Vienna, si capisce che l’intensità affettiva raggiungeva livelli talmente elevati che Freud, conduttore del gruppo, era spesso imbarazzato di fronte alla catarsi spontanea, quasi incontrollabile del gruppo. Le “confessioni” catartiche dei suoi membri e il clima di regressione psicoanalitica preannunciavano la comparsa di alcuni problemi legati al transfert e al controtransfert, ancor prima della nascita di questi concetti psicoanalitici. La necessità di istituzionalizzare la formazione psicoanalitica potrebbe essere legata al bisogno di introdurre una scena formale, un setting, in grado di contenere le pulsioni e le inevitabili contraddizioni di un gruppo tanto appassionato. Il gruppo del mercoledì era un’esperienza difficile da gestire in sé. Arrivati a quel punto si trattava non soltanto di creare una cornice adeguata, ma anche di dare un ordine paterno, cioè un Super-io operativo in grado di favorire la strutturazione e l’organizzazione di uno spazio materno di fondo. E fu così che la giusta combinazione spontanea di funzioni materne e paterne divenne essenziale nella fondazione della materia psicoanalitica in statu nascendi e implicitamente nella formazione dei futuri psicoanalisti. La conflittualità inevitabile, ma anche creativa di queste riunioni, fu alla base di quelle che più avanti diverranno la formazione psicoanalitica e l’analisi didattica. 12
Immagino Adler, Stekel e Federn darsi appuntamento in un caffè e discutere tra loro – in una specie di esperienza preliminare e informale – prima di presentarsi insieme da Freud. Secondo me l’esperienza gruppale a casa di Freud è collegata con l’idea latente della psicoterapia di gruppo. Nel 1906 negli Stati Uniti, G.H. Pratt scoprì la psicoterapia di gruppo osservando gli scambi che avvenivano tra i suoi pazienti affetti da tubercolosi nella sala d’aspetto. Notò l’utilità di questo scambio tra pazienti e concepì una presa in carico istituzionale che gli consentisse di elaborarne la tecnica. Egli tentava di suscitare nel gruppo uno spirito di fratellanza e di condivisione dei sentimenti attorno alla figura di un padre-guida. Questo “padre” aveva il compito di dare ai pazienti un insight delle loro malattie organiche e delle implicazioni psico-nevrotiche che queste avevano nella vita quotidiana. La mia introduzione storica ha lo scopo di presentare l’avvio di quello che diventerà un approccio veramente psicoterapeutico, e in seguito psicoanalitico, alla dinamica gruppale e psicodrammatica. Nel 1935 nacque negli Stati Uniti una forma di terapia di gruppo con gli Alcolisti Anonimi. Fu una delle prime associazioni spontanee (senza un leader riconosciuto) a tentare di stimolare sentimenti di responsabilità e di controllo sulle tendenze tossicomaniche individuali. A differenza di Pratt che esercitava una funzione paterna, gli Alcolisti Anonimi dovevano inventarsi un padre, un Super-io efficace nel gruppo dei pari. Enrique Pichon-Rivière, in Argentina, riteneva che l’insieme dei membri, fratelli e sorelle, il gruppo come comunità di fratelli, rappresentassero i “pezzi” di un corpo materno. Il compito consisteva allora nel costruire un “corpo-asilo” in grado di contenere, di creare uno spazio-laboratorio dove elaborare le preoccupazioni consce e inconsce del gruppo. A partire dal 1911 Moreno ha formalizzato con la propria équipe (gli io ausiliari) la possibilità di una catarsi e di una rappresentazione ludica dell’inconscio individuale nel gruppo attraverso la drammatizzazione teatrale. Negli anni ’30, le figure più rappresentative dell’approccio psicoanalitico al gruppo sono state Slavson, Schilder e Klapman. Ma lo sviluppo successivo della storia della psicoterapia di gruppo avrà luogo soprattutto in Inghilterra attorno a Foulkes e Bion. Essi svolsero i loro primi lavori nei centri di riabilitazione militari durante e dopo la Seconda guerra mondiale (Rehabilitation Center). Tali esperienze hanno poi ispirato ricerche sui gruppi e sulle comunità alla Tavistok Clinic (Bion, Ezriel, Sutherland…). La nozione di “comunità terapeutica” (definizione di T. Main) verrà sviluppata in diversi centri, tra cui il Cassel Hospital a Richmond vicino a Londra (diretto da T. Main), dove ho lavorato con Malcom Pines alla fine degli 13
anni ’50. Anche Maxwell Jones ha sviluppato le proprie idee sull’argomento nel suo Rehabilitation Center per pazienti psicopatici (Henderson Hospital), le ha portate avanti negli Stati Uniti e poi, di ritorno in Inghilterra, in un ospedale scozzese. A partire da questa proto-storia (di cui sono stato testimone e attore allo stesso tempo) e dalle sue implicazioni possiamo concepire un quadro generale della terapia di gruppo e del suo sviluppo nei diversi paesi. Dalla fine degli anni ’50 a Buenos Aires abbiamo subito l’influenza delle idee di Bion e di Foulkes, e più tardi di quelle di Moreno. Già alla fine degli anni ’40 ebbi la fortuna di collaborare con PichonRivière nell’ospedale psichiatrico di Buenos Aires e nella sua clinica privata, dove aveva introdotto le idee di P. Schilder sul gruppo. Riprendo qui la storia della nascita della psicoterapia di gruppo. Il libro Psicoterapia del grupo di Leon Grinberg, Marie Langer e Emilio Rodrigue (1957) mette in risalto gli eventi storici di cui siamo stati protagonisti. Nel mio ultimo libro Temps des glaciations (1999), dedicato al dottor Raul Usandivaras, ho scritto un capitolo su questa prima esperienza di terapia gruppale e sulle sue implicazioni istituzionali. A partire dagli anni ’50 con Usandivaras e Morgan (che aveva fatto pratica alla Tavistok Clinic ai tempi di Bion) decidemmo di applicare la psicoanalisi alla terapia di gruppo. Facemmo la nostra prima esperienza con pazienti psicotici cronici istituzionalizzati. A quei tempi Usandivaras, Morgan e io eravamo giovani psichiatri in formazione psicoanalitica, e lavoravamo nel servizio di Edoardo Krapf1. Raul Usandivaras, il vero pioniere, mi aveva trasmesso il suo entusiasmo per un articolo scritto da Paul Schilder nel 1939: “Results and Problems of Group Psychotherapy in Severe Neuroses” (Schilder, 1939: 87-99). Egli voleva intraprendere una ricerca sull’argomento con la mia collaborazione e come punto di partenza prese un gruppo di una decina di pazienti psicotici cronici istituzionalizzati, ospedalizzati da diversi anni. L’arrivo del medico argentino Juan Morgan2, che a quei tempi stava facendo pratica presso la clinica Tavistock di Londra, rappresentò per noi un punto di svolta fondamentale. Il nostro ospedale era un vecchio manicomio, dove i pazienti soggiornavano per diversi anni, e il gruppo curante aveva la possibilità di fare un lavoro spontaneo sul campo (field work): proprio quello che facevo io. Mi ha sempre affascinato la vita quotidiana di una “comunità di matti” (v. 1
Psicoanalista e professore di Psichiatria prima in Germania, poi a Buenos Aires; l’ho infine ritrovato a Ginevra nel 1955 in qualità di direttore delle Ricerche psichiatriche all’OMS. 2 Juan Morgan alla fine degli anni ’40 aveva assistito per sei mesi alle esperienze in gruppo di Bion. Raul Usandivaras e io abbiamo così avuto l’opportunità di usufruire della trasmissione delle conoscenze di Bion, e della sua collaborazione.
14
la Nave dei folli ancorata nel centro di Parigi, dipinto di Jérôme Bosch che si trova al Louvre), che mi ha consentito di seguire, sia durante il turno di lavoro che nelle pause in giardino, lo sviluppo delle loro relazioni col mondo, cioè con le possibilità e le difficoltà della vita sociale. Lì ho imparato che gli psicotici, soprattutto gli schizofrenici, condividono un linguaggio e un sistema di valori, se non addirittura “una logica nel delirio”, e contemporaneamente conservano un aspetto sano e intatto della propria personalità. Il gruppo della nostra ricerca divenne così un vero field work, che permise un confronto implicito tra discipline diverse. A quei tempi ero abbonato alla rivista Psychiatry (Journal for the study of interpersonal processes, pubblicata a Washington e ispirata all’opera di Stack Sullivan e dei suoi collaboratori), che mi è stata di grande aiuto nella concezione di un approccio interdisciplinare tra la psichiatria, la psicoanalisi e le scienze sociali. Harry Stack Sullivan e la scuola di Washington-Baltimora fornivano la possibilità di uno scambio continuo tra i rappresentanti della psicologia sociale come Talcott Parson e antropologi culturali come Ruth Benedict, Margaret Mead e altri. Queste idee rientrano così nella mia formazione umanistica. Il gruppo di psicotici cronici di Buenos Aires, il nostro field work, è durato diversi anni. Questo ci ha permesso di cominciare a elaborare una teoria e una tecnica gruppali nelle istituzioni. Riunire in gruppo i pazienti cronici ci ha dato l’occasione di osservare direttamente il loro comportamento, e di respirare la loro “atmosfera”. Da qui sono partito per sviluppare negli anni successivi l’idea di una “ecologia del transfert”. Il tentativo di comunicare e di decifrare cosa potesse significare un gesto, un movimento o un’atmosfera particolare emergente dal gruppo era un’esperienza difficile, ma ricca. I pazienti cronici del gruppo erano letteralmente “congelati” ed emotivamente “bloccati”. È proprio sulla nozione di scongelamento del sé e di depressione narcisistica (successiva allo “svuotamento” del delirio) (Daumézon, 1980) che ho concentrato le mie ricerche più recenti. Di quell’esperienza fondamentale a Buenos Aires ciò che mi ha maggiormente colpito nel contro-transfert è stata la presenza piena di significato, pesante e invasiva del silenzio. Quel silenzio psicotico era abitato da un “pieno di vuoto” estremamente angosciante e difficile da contenere. Il gruppo stesso ha manifestato il proprio bisogno di contenere la pesantezza di un tale silenzio pieno di vuoto, attraverso un atto simbolico ricco di pathos: un giorno un paziente ha alzato in aria una gavetta metallica vuota, che portava con sé in ogni seduta, quasi fosse parte integrante dello schema corporeo del gruppo. Questa gavetta era un significante primordiale che simbolizzava il bisogno di un contenitore solido (metallico in questo caso) in grado di tollerare tutte le ansie psicotiche del gruppo: un gruppo con l’armatura. 15
Solo in seguito capimmo che questo messaggio era rivolto anche a noi: anche noi dovevamo contenere la nostra ansia da controtransfert psicotico. Le questioni del vuoto e dell’avidità sono fondamentali nel paziente cronico. Col tempo ho imparato quale importanza abbia il vuoto. Mi aveva colpito uno scritto in cui Einstein affermava che il vuoto assoluto non esiste, dando quindi ragione a Cartesio. Effettivamente studi ulteriori, soprattutto quelli di Maxwell e Faraday, hanno dimostrato l’esistenza del campo elettromagnetico, ossia di una proprietà sostanziale sempre presente nel vuoto e nello spazio. Nella psicosi e in certi pazienti autistici ho ritrovato spesso la fantasia di abitare in una casa vuota di vita, ma piena di angoscia e di persecutorietà. Una delle mie pazienti, che chiamerò Giulia, da anni si sente prigioniera nel proprio corpo fortezza. È curioso che si tratti di una fortezza fatta di cotone, impermeabile al rumore e agli attacchi esterni, che la protegge ma le rende la vita insopportabile. Però una voce è entrata all’interno: vi è penetrato un grido che da tempo abita la sua coscienza. La paziente la riconosce come la voce persecutoria di sua madre. Ultimamente ha scoperto anche un occhio critico e minaccioso che la guarda dal fondo del suo vuoto interiore. È lo sguardo di suo padre. Nel transfert Giulia a volte confonde il mio sguardo analitico, amichevole, con lo sguardo spaventoso del padre. L’idea di un vuoto abitato da suoni e da sguardi intimidatori mi riporta alla mente le parole pronunciate da Melanie Klein, nel 1959, all’Istituto Psicoanalitico di Londra, durante una riunione del mercoledì sera. In quell’occasione le avevamo chiesto cosa pensasse del vuoto in analisi. Ci pensò un momento e rispose: “Ricordo un bambino che all’inizio di una seduta, guardava impaurito la sala dei giochi e diceva: ‘È vuota!’”. Melanie gli chiese: “Perché questo vuoto ti fa tanta paura?”. Il piccolo rispose: “La stanza non è accogliente, è piena di nemici che mi spaventano”. Così ho capito che nel “pieno di vuoto” della mia paziente mancava una presenza amichevole… Cosa che mi ha confermato con queste parole: “Effettivamente non ho amici, neppure dentro me stessa”. Per quanto riguarda il transfert positivo e negativo, nel caso di Giulia, la mia paziente, coesistevano spesso aspetti negativi e positivi, nelle situazioni più diverse. La psicoanalisi, come tutte le psicoterapie, è un atto trasgressivo, perché consiste nel “penetrare” e nel “guardare” dentro l’intimità dell’essere. Nel caso di Giulia il mio sguardo psicoanalitico era sicuramente una ferita narcisistica, ma anche una presenza comprensiva e amichevole. Mi permetto di mescolare la mia esperienza psicoanalitica, gruppale e istituzionale per spiegare come in qualunque situazione professionale io conservi lo sguardo di colui che pensa in modo psicoanalitico. Il mio modo di pensare è sempre personale, è così come sento, in tutti gli ambiti di ricerca. 16
Sono convinto che quello che conta a livello etico e pratico, sia raggiungere la spontaneità e acquisire il proprio stile. È traumatizzante per il paziente, in qualunque contesto, l’artificiosità di un interlocutore che parla a nome del maestro o di una scuola. Nella mia versione personale della storia della psicoterapia di gruppo, in Argentina e in Europa – dove ho lavorato a partire dal 1957 – le ricerche condotte a Buenos Aires con Usandivaras e Morgan sono rimaste fondamentali per lo sviluppo successivo della mia pratica. Era la prima esperienza di gruppo in Argentina ed è durata diversi anni. Avevo già lavorato prima degli anni ’50 con bambini autistici e con adulti psicotici in analisi individuale, con la supervisione di Pichon-Rivière. Ricordo che il mio maestro E. Pichon-Rivière ci diceva: “Sapete, è sempre possibile fare qualcosa con gli psicotici cronici. Anche quelli istituzionalizzati da molto tempo sono spesso vergini di qualunque esperienza psicoterapeutica. Il fatto che siano isolati nel loro delirio non significa che siano incapaci di comunicare”. Ritengo che l’esperienza gruppale e istituzionale, che ho sviluppato in paesi diversi, completi la dotazione psicoanalitica individuale. Secondo me la caratteristica di ogni gruppo è la sua natura schizoide. Qualunque gruppo, nevrotico o psicotico, è una molteplicità vivente corrispondente al concetto di inconscio nell’opera di Ignacio Matte Blanco (1975). È questa “materia” gruppale che a un certo punto assume la forma di un gruppo. Molteplicità e gruppalità non sono sinonimi. È possibile che lo psicotico sia una “personalità-gruppo”, come segnala Bion, ma non è sempre così. Spesso si tratta dell’Uno che ha perso la propria integrità e diventa una molteplicità discordante. La nozione di follia discordante di Chaslin è più rappresentativa della nozione di schizofrenia descritta da Bleuler l’anno successivo, nel 1911. Ciò che caratterizza tutti i gruppi, bene o male integrati che siano a seconda dei momenti, a differenza di quanto avviene nell’analisi individuale, è la presenza di un terzo, dell’opinione pubblica. Questa nozione ci riporta alla struttura della tragedia greca dove il coro, il Super-io parlante, gioca un ruolo importantissimo. La dialettica tra individuo, molteplicità, gruppalità e società si dispiega nell’analisi del transfert analitico in tutte le sue dimensioni. Ho sempre pensato che lo psicotico cronico viva in una realtà-sogno. Lo psicotico vive spesso avvolto in un sogno-delirio che lo protegge dalla realtà percepita nella veglia. Dal momento che non può negoziare con il principio di realtà quotidiano, egli tenta di convalidare il proprio punto di vista, o meglio di creare un “mondo nuovo”, una nuova realtà. Bion ha ripetuto molte volte che lo psicotico non sa se dorme o è sveglio. Generalmente penso che gli psicotici cronici sognino continuamente il reale, senza potersi svegliare completamente nella realtà. 17
Recentemente uno dei miei pazienti schizofrenici, Samuel, che sta andando meglio, ha detto: “Sto perdendo la mia fama, non c’è più nessuno che mi riconosce per la strada e non sento più voci”. In un sogno aveva avvertito il bisogno di dimostrare quella che lui chiama realtà per migliorare. “Quale realtà?” gli ho chiesto. “Quella vera. Penso a un sottomarino”. “Sei stato sommerso per anni nella vera realtà che hai costruito durante la tua malattia. È questa la tua realtà?” “Fumo sempre molto, quindi è una realtà circondata dalle nuvole”.
Se uno psicotico si risveglia deve confrontarsi nuovamente con i problemi che ha lasciato da parte o che ha trasformato in deliri, o forse come dice Samuel “smontare il reale di questa realtà” per ricostruire la propria vita nel sociale. Abbandonare il delirio implica un lavoro di lutto molto faticoso e l’assunzione della stessa disillusione traumatica che un tempo aveva determinato la creazione di un mondo psicotico illusorio. Nel momento dello svuotamento narcisistico a cui mi riferisco occorre affrontare una scelta tra le luci della “rivelazione psicotica” e la deludente rivelazione di una realtà velata. Scegliere di uscire da un mondo fatto di ombre o iper-reale (come nel caso del sogno) per riprendere il movimento e il ritmo fluido della vita che scorre comporta un ritorno penoso alla relazione con l’altro. La dinamica di gruppo dà la possibilità di studiare il linguaggio del corpo attraverso gli aspetti polimorfici e polisemici delle diverse forme di espressività. Nello psicotico le difficoltà a comunicare, e i suoi bisogni, trovano espressione attraverso la gestualità e lo “stile” della posizione corporea, nel “modo” di indossare la o le maschere. Per esempio, un paziente psicotico può perdere la propria condizione di persona e diventare una cosa, un essere inanimato. Si può identificare in un mobile con dei cassetti. Ogni cassetto in questo caso è diverso e non comunica con gli altri. A un simile fenomeno dò il nome di “divisione a compartimenti dell’io”. Si può anche immaginare che nella discordanza e nella dispersione dell’io paziente i frammenti si raggruppino in modo adeguato o inadeguato, seguendo un’anatomia del pensiero coerente o incoerente (Bion). Si dice spesso che in questi casi ci sia la perdita della capacità di pensare e di comunicare. In realtà succede che con i frammenti di un mondo disfatto e a pezzi venga elaborato un nuovo linguaggio. Questo è quanto ho constatato nella mia lunga pratica con i malati psicotici cronici. Sono spesso ancora sorpreso nel vedere come riescano a capirsi tra loro, in una sorta di logica delirante. Questo non 18
toglie che ci sia sempre una parte sana della personalità, come hanno segnalato Bion e Pichon-Rivière, che in certi momenti riesce a comunicare con il mondo normale. La nascita della dinamica della psicoterapia di gruppo in Argentina, e le sue derivazioni in America Latina (Buenos Aires a quei tempi era il centro della formazione analitica e gruppale) si è arricchita con il ritorno di Morgan da Londra. Nello stesso periodo anche E. Rodrigué, che era stato analizzato da Paula Heimann, e faceva delle supervisioni con Melanie Klein, era rientrato da Londra dopo molti anni di formazione psicoanalitica alla British Psychoanalityc Association e alla Tavistock Clinic. Anch’egli quindi era in contatto, tra gli altri, con Bion. Grazie a lui ho deciso di partire a mia volta per Londra, dove ho avuto la fortuna di incontrare Bion nel 1955 (Congresso Internazionale di Psicoanalisi a Ginevra), che non si occupava più di gruppi, ma con il quale ho fatto delle supervisioni individuali su pazienti psicotici. Nello stesso periodo ho incontrato, sempre alla Tavistock, J.D. Sutherland, Henry Ezriel, e in seguito Foulkes, Malcom Pines, De Maré, e coloro che fonderanno la Group Analytic Society. Ho anche avuto l’occasione di conoscere personalmente Maxwell Jones e ho collaborato con lui all’Henderson Hospital e al Cassel Hospital. Da quel momento in poi a Buenos Aires c’è stato un progresso significativo nel campo della psicoterapia di gruppo, familiare, di coppia (J. Puget e Isodoro Berenstein), così come, qualche anno dopo, nell’ambito dello psicodramma. In questo hanno avuto un ruolo importante il dottor Bermudez, Pavlovsky e Bouquet, che si erano formati a New York con Moreno. Enrique PichonRivière elaborò con H. Kesselmann, A. Bauleo e Pavlovsky la nozione di gruppi operativi (grupos operativos) con le sue molteplici applicazioni. Alcuni di loro hanno sviluppato lo psicodramma argentino e il gruppo operativo in Europa. In Europa mi sono sempre tenuto in contatto con la Group Analytic Society di Londra, l’Associazione di psicoterapia psicoanalitica di gruppo francese e con la COIRAG italiana e l’ASVEGRA a Padova. Ultimamente sto collaborando con Ferlini a Padova e con la sua scuola di specializzazione in psicoterapia ad orientamento psicoanalitico e fenomenologico dove, come ho sempre fatto, nell’insegnamento utilizzo la mia esperienza di dinamica di gruppo. Le mie ricerche terapeutiche sulla psicosi cronica all’Ospedale SainteAnne di Parigi, e alla Clinica Santa Giuliana di Verona, hanno approfondito ciò che avevo avviato a Buenos Aires e a Londra come si può leggere nel mio libro Temps de glaciations (1999). Negli ultimi tempi ho seguito per tre anni un gruppo di giovani psicotici cronici a Venezia, in parte provenienti dalla Clinica Santa Giuliana. 19
Vorrei riportare in quest’occasione un frammento di seduta risalente agli inizi del gruppo. Il signor V.3 aveva sognato il gruppo come un’orchestra composta da un pianoforte rotto, un violino con le corde discordanti e scordate, e una fisarmonica. È chiaro che il clima del gruppo sognato dal signor V. era il significante simbolico di una molteplicità di individui sofferenti per la “mancanza di accordo” con i propri sentimenti, i propri pensieri e con gli altri. Il gruppo scordato aveva bisogno di un accordatore. Ho sempre pensato che l’apparato psichico sia una sorta di strumento musicale, non sempre ben accordato. In questo senso il già citato concetto di Ph. Chaslin di “follia discordante” (1911-1912) quasi contemporaneo al concetto di schizofrenia di Bleuler, si rivela fenomenologicamente molto vivido.
Conclusioni In occasione della pubblicazione in questa rivista ho voluto dare il mio contributo fornendo una descrizione storica del mio percorso psicoanalitico ed esistenziale nel campo della psicosi in un contesto relazionale, nell’esperienza individuale, gruppale e istituzionale. Traduzione di Silvia Anfilocchi
Riferimenti bibliografici Bernays J. (1880) Über die Aristoteliche Teorie des Drama, Verlag von Wilhelm Hertz, Berlino. Daumézon G. (Mélange en l’honneur de) (1980), À propos de la dépression narcissique, in Regard, Accueil et Présence, Ed. Privat Toulouse. Grinberg L., Langer M. (1957), Psicoterapia del grupo, Paidos, Buenos Aires. Matte Blanco I. (1975), The Unconscious as Infinit Sets, Duckworth, Londra. Renisk S. (1999), Temps des glaciations, Éres, Parigi. Schilder P. (1939), Results and Problems of Group Psychotherapy in Severe Neuroses, Review of Mental Hygiene, 23, 1939.
3
L’uomo congelato del mio ultimo libro, Temps de glaciations.
20