Il Caso Supor

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STAFFETTA QUOTIDIANA – 27 GIUGNO 2009 – N. 122

Dopo quello della Rose Mary fare Miriella Mary,, la vera storia dell’af dell’affare

Le peripezie della Supor per superar e il blocco del petr olio persiano superare petrolio Dopo il resoconto inedito dell’affare Rose Mary di cui fu protagonista nel 1952 Ettore della Zonca (v. Staffetta 6/6), una serie di carte ritrovate da Stefano Casertano riportano alla luce un altro caso, quello della petroliera Miriella e della Supor, che all’inizio del 1953 ebbe maggior successo del primo nel forzare il blocco del petrolio persiano. Di questo caso, fino ad oggi era passata solo la versione data nel 1966 da Paul Frankel nel libro su Mattei, perché nessuno dei successivi biografi del fondatore dell’Eni ha mai cercato di verificare come si fossero svolti effettivamente i fatti. Casertano (www.stefanocasertano.it) è autore di “Sfida all’ultimo barile - Russia e Stati Uniti per il dominio dell’energia” edito da Francesco Brioschi (v. Staffetta 13/6), che verrà presentato a Roma il 7 luglio presso la Fondazione Ugo La Malfa (ore 18, Via S. Anna 13 nei pressi di Largo Arenula), dove si parla di queste vicende nel primo e nel secondo capitolo (o scenari come lui li chiama). A chi poteva venire in mente di mettere in piedi dal nulla un sistema per importare il petrolio dall’Iran sotto embargo? Viene da lontano la storia della Supor Supor, la piccola azienda italiana che sfidò la Marina Britannica nel Golfo Persico, da sola, a bordo di una piccola motonave. E’ una storia così particolare che nessun libro sul petrolio è mai riuscita a ricostruirne esattamente le vicende. Ci sono incertezze perfino sul nome della coraggiosa motonave: c’è chi scrive che si chiamava Mirella, altri riportano Mariella, ma solo pochi citano quello esatto, Miriella Miriella. Che poi, in realtà, Miriella non era neanche sola. La sua rotta venne seguita da altre motonavi targate “Supor”: “Alba”, “Brezza” e “Salso” e altre ancora. E tutte sfuggirono agli incrociatori di Sua Maestà. Follia o genio, si vedrà; certo è che tutto nasce da lontano, e che forse del tutto “italiano” non è, come si è creduto finora. La famiglia Soubotian aveva dovuto lasciare la Russia nel 1917, poco prima che il Paese cambiasse ufficialmente nome in Unione Sovietica. Non era facile scappare per una famiglia ben in vista come quella, e fu solo grazie all’intercessione dell’ambasciatore persiano a Mosca, che tutti i Soubotian ricevettero un passaporto con lo stemma di Teheran, e si trasferirono in Germania. Non che stessero poi così male: traslocarono in uno dei loro possedimenti estivi. Tra tutto il gruppo Soubotian, il più irrequieto era tale Nikolai Nikolai, che fu inviato a completare i suoi studi in Francia, come usava l’alta borghesia russa di un tempo. Fu qui che Nikolai francesizzò il suo nome in “Soubotian”, poiché fino allora la desinenza virava in uno slavissimo “kov”. Terminati gli studi, Nikolai si ritrovò con una laurea da medico in una tasca; nell’altra, un po’ invecchiato, aspettava ancora il passaporto persiano, ormai diventato “iraniano” da quando anche quest’altro Paese aveva cambiato nome. Tra tutte le prospettive che si aprirono col tempo, una delle più interessanti sembrò essere quella di fare il medico per l’ambasciata iraniana a Roma, e Nikolai accettò. Ma è chiaro che la vita da dottore non poteva essere una realizzazione per Nikolai Soubotian. Egli poteva contare su una fitta rete di contatti, nonché

sulle stesse amicizie che prima gli avevano procurato un passaporto verso la libertà, e adesso gli avevano procurato un lavoro all’ambasciata: giova sottolineare che lui, in Iran, non c’era mai stato. Però ne aveva sentito parlare, e sapeva che nel Paese mancavano tante cose, tra cui negli ospedali le medicine. Lui adesso era in Italia, dove di medicine ce n’erano tante. Nikolai si diede da fare. La prima incarnazione di “Supor” fondata da Nikolai aveva ben poco a che fare con il petrolio e le motonavi. Il suo scopo era “l’importazione ed esportazione di materie prime, prodotti e specialità chimiche e farmaceutiche”, in particolare i prodotti della Carlo Erba Erba. Almeno questo era nelle prime intenzioni; ma il mondo negli anni Cinquanta era un continuo di opportunità e grandi occasioni, che nel caso di Nikolai presero le sembianze della nazionalizzazione petrolifera iraniana. Il premier Mossadeq Mossadeq, in aperta opposizione con il giovane Scià, e dopo l’uccisione a bruciapelo di un altro primo ministro, aveva attirato abbastanza consenso per calamitare a suo piacimento i favori del Majlis. Si trovò nella posizione di poter espropriare le attività petrolifere britanAnglo Iranian Oil niche nel Paese. L’Anglo Company era malvista da tutti i cittadini: si sospettava che facesse sparire utili, e si era certi che trattasse molto male i dipendenti iraniani. La legge di nazionalizzazione petrolifera fu firmata il 1° maggio 1951 1951. Era chiaro che Nikolai doveva avere più di un qualche vago contatto con Teheran, se già una settimana dopo i fatti iraniani era seduto a un tavolo con un notaio di Roma a far ampliare l’oggetto sociale di Supor per includere “il commercio, l’importazione e la esportazione ed il trasporto di petrolio e di prodotti petroliferi, sottoprodotti, derivati ed affini sia in proprio che per conto terzi”. In cassa vennero messe 300.000 lire. L’impegno venne preso quando la nazionalizzazione era poco più di un pezzo di carta: è solo in giugno che Mossadeq avrebbe inviato quattro deputati nella regione del Kuzhestan, al confine con il Kuwait (quando ancora faceva parte dell’Iraq), per fare in modo che la legge sulla nazionalizzazione venisse applicata. E’ però solo l’anno dopo che Supor riuscì a concludere un accordo petrolife-

ro con l’Iran. Nel corso dei dodici mesi, gli inglesi avevano avuto tutto il tempo di levare le tende e indire un embargo contro l’Iran, piazzando una serie di incrociatori al largo delle coste persiane per impedire che anche una sola goccia di greggio lasciasse il Paese. Il contratto era permeato da un ottimismo che non veniva minimamente scalfito dalle contromisure inglesi. 11 maggio 1952 l’accordo chiuso L’11 da Nikolai con gli iraniani prevedeva che la National Iranian Oil Company (dacché “Anglo” era stato fatto fuori) avrebbe venduto a Supor 6.500.000 tonnellate di greggio in cinque anni. Il 1° giugno 1952 un’altra azienda Ente Petrolifero Italia Medioitaliana, l’Ente Oriente (Epim) era riuscita nell’impresa di caricare greggio iraniano presso la raffineria di Abadan, ma fu presto pizzicata dai marinai di Londra: la motonave Rose Mary venne dirottata verso il porto coloniale di Aden, in Yemen. Un rapido processo sancì l’illegalità del prelievo e la costrinse a ripartire con la linea di galleggiamento ben più alta di quella mostrata all’attracco: le stive erano vuote. Ma evidentemente gli uomini di Supor si sentivano superiori a quelli di Epim. Il 2 giugno del 1952 il Consorzio Carbonifero Italiano acquistò Supor “con annessi diritti di ogni genere sul predetto contratto con la Snip [traduzione italiana di Nioc, nda]”, per la somma di L. 30.000.000 (trentamilioni). Inoltre si impegna a corrispondere al Dr. Soubotian una provvigione del 3 (tre) per cento per ogni tonnellata (precisamente sul costo FOB di ogni tonnellata) di prodotto greggio o raffinato importato dalla Supor in base al predetto contratto con la Snip”. Sugli utili, Soubotian avrebbe avuto il 15% sul primo milione, e il 10% sugli utili successivi. Alla data della cessione i libri di Supor erano ancora bianchi, al di fuori di quello dei soci: non era stata svolta nessuna attività. Il nome “Supor” viene finalmente spiegato come Società Unione Petrolifera con l’Oriente l’Oriente, quando all’inizio era solo un gioco di iniziali con il nome di Nikolai e altro ancora. Il Consorzio Carbonifero Italiano aveva dietro sé due personaggi leggendari dell’Italia del boom: il comm. Ar Ar-naldo Bennati e il comm. gr. uff. Clau-

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dio Jean Culiolo Culiolo. Gestivano tante attività, ma forse le più popolari erano il patronato rispettivamente del Venezia e del Genoa Calcio. I due cumenda imposero subito un nuovo amministratore delegato al posto del medico, tale Francesco Mortillaro Mortillaro; Nikolai venne incaricato di attivarsi direttamente a Teheran e di mettere su un ufficio di collegamento per gestire i milioni che di lì a poco sarebbero iniziati a fluire. Anche Mortillaro decise di intervenire in prima persona in Iran. Il 5 giugno 1952 richiese il visto per l’Iran. La sua nomina avvenne il 7 giugno, lo stesso giorno in cui partì per Teheran con le “Linee Aeree Svedesi”, per andare a chiedere alcune modifiche al contratto stipulato da Soubotian. Tra i desiderata, da una lettera di Mortillaro ricaviamo un utopico “ottenere l’obbligo dell’Iran di restituirci l’importo in caso di sequestri e interventi di altre potenze”, che chiaramente gli iraniani si guardarono bene dal contrarre. Seguì un periodo di trattative, fino al miracoloso viaggio di “Miriella”, motonave affittata dalla Compagnia Italiana Trasporti Marittimi (Citmar) e comandata dal capitano Mazzeo Mazzeo. Citmar era stato di fatto l’unico armatore disposto a mandare una nave allo sbaraglio contro i cannoni inglesi, per latitudini pericolose e militarizzate. Fu una vicenda tanto avventurosa che una società cinematografica voleva farci un film, ed è proprio da un soggetto scritto per l’occasione che possiamo ricostruire cosa avvenne. Passato il porto di Aden, Mazzeo ordinò che la radio fosse usata solo “in caso di pericolo”, per ascoltare le comunicazioni inglesi e per capire la posizione delle loro unità navali. Poco prima di virare a Nord per il Golfo Persico, si avvicinò alla nave un incrociatore britannico, chiedendo nome e destinazione del battello. Mazzeo diede ordine di rispondere alla prima domanda, e di mentire sulla seconda. L’incrociatore sembrò soddisfatto e lasciò passare Miriella. Ma all’imboccatura del Golfo, la motonave era attesa da un’altro incrociatore britannico. Mazzeo sapeva che non poteva più mentire sulla destinazione e giocò d’astuzia: non appena scorse la nave da guerra comparire all’orizzonte, virò di 180 gradi. Si fece raggiungere dagli inglesi, che poterono rilevare solo la presenza di una nave italiana diretta fuori dal Golfo senza alcun carico. Quando gli inglesi riguadagnano l’orizzonte, Mazzeo virò di nuovo e potè raggiungere Abadan. E lì ci fu una festa memorabile, a cui parteciparono Mossadeq e lo stesso Nikolai Soubotian, giunto in aereo. Mazzeo prese a raccontare alla folla il racconto della sua traversata, in italiano; Nikolai lo tradusse in francese a un’incantevole ragazza presente, Soraya raya, che sarebbe diventata sua moglie. Il 28 gennaio 1953 Miriella fece rotta per Venezia e lì trovò ad aspettarla gli ufficiali giudiziari che posero il carico sotto sequestro. Supor era stata infatti denunciata dagli inglesi per appro-

priazione indebita. La vertenza venne risolta a favore di Supor con sentenza 11 aprile del tribunale di Venezia già l’11 1953 1953; nel frattempo, Miriella aveva fatto un altro carico, seguita poi dalla motonave “Alba”. Miriella aveva caricato nel suo primo viaggio 4.562 tonnellate di fuel oil, e 4.848 nel secondo; Alba aveva caricato oltre 10.000 tonnellate di greggio. Dopo la sentenza, prendono il largo e tornano a casa la nave “Brezza” (10.150 tonnellate di greggio), di nuovo Alba, e poi la “Salso” (8.973 tonnellate di greggio). Sarebbe stato logico aspettarsi che con la caduta di Mossadeq, il 19 agosto 1953 1953, il commercio si arrestasse. Eppure non fu così. Se un Soubotian preoccupato mandava da Teheran report su report parlando dell’incertezza della situazione, le esportazioni continuarono tranquillamente fino al 1955, per un totale di 47 viaggi e oltre 420.000 tonnellate di greggio. Il problema di Supor risiedeva nell’altra parte del business: la vendita. Si è detto che le “sette sorelle fecero cartello contro Supor”, e si rifiutarono di acquistare il suo petrolio. A guardare i documenti, non fu proprio così. L’inglese Aioc Aioc, che sarebbe diventata BP, non si rassegnò alla sentenza di Venezia, e continuò la sua battaglia legale. Avviò poi un’intensa attività di minacce a tutti gli operatori petroliferi del continente, asserendo che se avessero acquistato il petrolio di Supor sarebbero stati denunciati. Non ci fu quindi un cartello: si trattava di aperte minacce, per le quali Aioc fu anche querelata da Supor. Ai fatti, l’azienduola italiana ebbe difficoltà a trovare depositi costieri disposti a prendere sempre nuovi carichi delle sue navi, viste le migliaia di tonnellate già in giacenza. Aioc arrivò perfino a pubblicare un annuncio su una rivista specializzata svizzera per comunicare a tutti la propria posizione in merito al petrolio di Supor. Il fatto che non ci fu un cartello da parte delle “sette sorelle” è confermato dall’esistenza di un documento da cui risulta che Supor chiuse dei contratti commerciali con Esso, Socony, Shell e la belga Purfina. Il documento testimonia un “accordo di ripartizione” datato 18 febbraio 1955 1955, secondo il quale il totale complessivo dei trasporti da parte delle aziende citate era di 217.499 tonnellate di greggio. Sono presenti negli archivi della società anche diverse lettere indirizzate a Vincenzo Cazzaniga Cazzaniga, presidente della Esso Standard Italiana, per la definizione di vari contratti. Inoltre, Supor fu in grado di vendere petrolio ad aziende greche, giapponesi, americane indipendenti. Peraltro, con Esso un contrasto c’era, ma era interno all’Iran: al ritorno dello Scià, la Standard Oil of New Jersey fece di tutto per far fuori Supor, e di fatto ci riuscì. Il problema di Supor fu che, alla riapertura del mercato dopo la sentenza, la sua situazione finanziaria era già compromessa. Da un lato, gli iraniani,

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passati sotto la protezione anglo-americana (e di Standard Oil), tentavano continuamente di invalidare il contratto di fornitura. Dall’altra, Supor aveva subito perdite enormi per le giacenze, a parte il deterioramento fisico del petrolio. Ma Supor non poteva fallire: il contratto petrolifero era basato su un sistema “merci contro petrolio”, che aveva legato ai suoi destini quelli dei pagamenti ad aziende quali Fiat Fiat, Carlo Erba, Boldrini, Ansaldo Ansaldo, Ilva Ilva. Per intercessione di Giulio Andreotti Andreotti, allora Ministro delle Finanze, che avrebbe sondato anche Mattei Mattei, Supor fu acquistata dal demanio pubblico pubblico, per tentare di realizzare il realizzabile. Da una lettera di contestazione a un accertamento fiscale, si rileva che nel 1957 era posseduta dalla S.A. Fertilizzanti Naturali Italia Italia, un’azienda statale. Vivacchiò fino ai primi anni Settanta, quando venne sciolta. Per un periodo passò anche sotto Ente T abacchi l’Ente Tabacchi abacchi. Supor non ebbe successo a causa di un errore di calcolo politico. Mattei non aveva petrolio, ma aveva protezione politica: l’Eni sopravvisse all’impatto con le grandi. Supor aveva petrolio, ma politicamente era scoperta. Eppure Supor rappresentò qualcosa di importante: nella sua romantica impresa, che per molti aspetti richiama quella dell’Epim, aveva aperto il commercio tra l’Italia e l’Iran. Se il contratto petrolifero fu disciolto, camioncini e medicine continuarono a esser spediti. Si può dire che grazie a Supor l’Italia è oggi primo partner commerciale dell’Iran, per quanto la Germania potrebbe presto prendere il suo posto. In tutta la storia di Supor, Mattei ebbe molta meno importanza di quanto non si sia considerato finora. All’epoca esistevano interlocutori molto più imEni, fondato solo nel 1953: portanti di Eni basare una strategia commerciale solamente sul contatto con l’azienda italiana sarebbe stato insensato. E’ vero: il primo viaggio di Miriella terminò a Venezia, dove c’era la raffineria Irom controllata da Eni; ma il partner di Eni in questa raffineria era proprio Aioc, che per l’appunto denunciò Supor non appena la motonave attraccò a Porto Marghera. Mattei nei mesi precedenti non aveva mai dimostrato un particolare interesse per il petrolio di Mossadeq: era stato solo dopo grandi pressioni diplomatiche che aveva accettato di incontrare dei rappresentanti del Primo Ministro iraniano. Dalle carte di Supor non emergono particolari questioni concernenti Mattei: ancora al 1955, quando Supor era stata nazionalizzata, le raffinerie a cui si punta sono “API, Sarom, Aquila e Permolio” e quella di Napoli della Socony Vacuum. Porto Marghera era off-limits perché partecipata da Aioc, con vertenze ancora in corso. Le raffinerie di Bari e di Livorno facevano capo a Stanic partecipata da Anic ed Esso. Come si è visto, la Esso accettò di prendere carichi di Supor. E’ suggestivo ritenere che Mattei si

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fosse rifiutato di accettare il petrolio di Supor per non inimicarsi le sette sorelle, ma a quanto pare all’epoca il fondatore di Eni poteva fare ben poco. Il vero ostracismo nei confronti di Supor fu portato avanti dagli inglesi adottando tutte le strategie possibili, dalle diffide alle denunce. Su giornali italiani ed esteri, l’Aioc denunciò a mezzo pubblicità che Supor stava “trafugando petrolio di proprietà inglese”, e minacciò di ricorrere legalmente contro chiunque avesse acquistato petrolio dalla piccola azienda italiana. In particolare, Mattei immerse le mani nel petrolio iraniano dove potè: nel 1954 Supor lasciò in deposito oltre 10.000 tonnellate di petrolio al bunker Agip di Vado Ligure, pagando un corrispettivo di 8.240.000 lire per un mese. Molte raffinerie rispondevano normalmente a Supor che non avevano spazio per prendere altro greggio da raffinare. Non è una scusa del tutto inattendibile: gli impianti dovevano ancora essere rimessi in opera completamente

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dopo la guerra, e mancavano ancora le grandi infrastrutture che sarebbero state costruite negli anni successivi. Rimane da chiedersi come mai, tra tutti i depositi costieri, Miriella avesse deciso di andare proprio a Venezia, dove Aioc partecipava al 49% nella raffineria. I motivi potevano essere tanti: a Venezia c’erano i depositi costieri che, per esempio, servivano la raffineria Aquila di Trieste, e fornivano l’accesso più rapido ai mercati europei: non a caso, Aioc si era preoccupata di bloccare gli sbocchi commerciali di Supor in Svizzera. Inoltre, i dirigenti di Supor potevano aver pensato di voler “affrontare direttamente” la questione legale con Aioc, andando subito nella tana del lupo. Con una nota a margine che vale la pena riportare: Supor riuscì a vendere petrolio anche a Israele Israele, dove c’era una sola, grande raffineria, ad Haifa. Era di proprietà inglese. Il contratto di fornitura fu concluso con l’israeliana Delek nel novembre del 1954. Il problema è

che nel frattempo l’embargo sull’Iran era stato tolto e Delek decise di rivolgersi direttamente alla Nioc. Supor aveva perso il suo unico vantaggio competitivo, che consisteva nella possibilità di forzare il blocco. Non aveva quindi più motivo di esistere. Che successe a Soubotian? Tornò in Italia. Soraya lo raggiunse nel 1957 1957, e un giorno fu portata da Nikolai a un ricevimento. “Vieni”, le disse, “ti voglio presentare qualcuno”. Era Enrico Mattei tei, che allora davvero iniziava a diventare “qualcuno”, nell’Italia del boom. I Soubotian lasciarono Roma pochi anni dopo, alla volta dell’Australia, a inseguire i sogni di Nikolai. (S.C.)

Il materiale citato in questo articolo è tratto dalle buste Supor presenti all’Archivio di Stato di Roma, oltre ad articoli della Staffetta Quotidiana e dell’archivio del Corriere della Sera. Ringrazio per le testimonianze dirette Giorgio Carlevaro, Marcello Colitti, Francesco Guidi e Soraya Soubotian.

Segue da pag. 7

La rrete ete gas Enel al Fondo2i zione e il motivo per il quale si è preferito rinunciare alla procedura di gara, già avviata, scegliendo di realizzare la vendita “fuori mercato”con una trattativa in esclusiva che ne ha probabilmente condizionato la soluzione. Dal punto di vista strettamente finanziario e della strategia industriale infatti ad Enel sarebbe forse convenuto vendere sul mercato aperto ricavandone probabilmente un maggiore vantaggio di prezzo: la valutazione della società a cui si è giunti è stata invece molto al di sotto del prezzo stimato l’anno scorso tra 2 e 2,5 miliardi di euro e più recentemente in 1,8 miliardi; è vero che il prezzo è stato determinato con una metodologia (Regulated Assets Base) riconosciuta dagli analisti del settore e basata su dati definiti dall’Autorità dell’energia, una modalità neutra che però non mette al riparo dalla critica di chi ritiene opaco uno scambio fuori mercato. In questo caso infatti si può ragionevolmente ritenere che le eventuali offerte di società concorrenti avrebbero probabilmente riconosciuto una plusvalenza commisurata ai potenziali vantaggi ottenibili dall’integrazione operativa e commerciale, aspetti questi prettamente operativi che una società finanziaria non può considerare. Se questa ipotesi ha un fondamento è allora plausibile chiedersi: chi ha deciso di negoziare la vendita con un solo acquirente? Non ci sono le prove, naturalmente, ma se si esclude Enel, che da una vendita a mercato aperto avrebbe forse potuto realizzare di più, si può ragionevolmente “sospettare” del doppio ruolo che hanno in Enel e in F2i sia la Cassa Depositi e Prestiti come azionista di ambedue (in Enel con il 17,36% e in F2i con l’8%) sia le principali banche col doppio cappello di creditori di Enel (prime tra queste: IntesaSanPaolo, Unicredit e Merrill Lynch) e contemporaneamente di azioniste di F2i nonché membri del Comitato Investimenti. Si converrà che in questa doppia posizione può essere forte la tentazione di combinare gli interessi del Governo (in Enel alla quota Cdp si aggiunge il 13,88% del Tesoro) e delle banche e in questo senso una procedura d’asta per la vendita della società sul mercato aperto non avrebbe permesso di controllarne l’esito. E’ anche evidente il conflitto di interessi di quelle Banche che da un lato hanno “guidato” Enel nella vendita di Enel Rete Gas e dall’altro sono state determinanti nelle scelte di investimenti di F2i (banche e fondazioni bancarie detengono quasi il 60% del capitale) traendo vantaggio non solo dai diversi servizi di arbitraggio ma anche dal trasferimento sulle spalle di F2i di parte della loro esposizione finanziaria e del supporto agli investimenti di sviluppo della rete gas. Sorprende che questi intrecci societari e uno schema così

complicato non abbiano suscitato alcuna curiosità in Consob e Banca d’Italia, i soli che abbiano i poteri di vigilanza per verificare la congruità dell’operazione a tutela della trasparenza del mercato e dei piccoli azionisti – attorno a un milione e mezzo – detentori a fine 2008 del 35% del capitale di Enel. E per ultimo tentiamo di capire qual è il vero senso dell’operazione per F2i: nelle transazioni finanziarie che abbiamo riassunto F2i sembra svolgere un servizio di pronto soccorso finanziario per Enel al posto delle banche creditrici interessate a ridurre il loro livello di rischio; altrimenti che senso ha finanziare l’operazione con un prestito dello stesso Enel all’8,25%(il venditore che finanzia il compratore?) in un mercato di tassi calanti dove le condizioni accessibili per F2i ed Axa povrebbero essere assai più favorevoli? Anche qui si è scelto di operare “fuori mercato”: perché? E, soprattutto, ha senso investire e indebitarsi in un business maturo con una redditività media nel settore attorno al 6-7% così lontana dalla redditività del 12-15% che è l’obiettivo dichiarato di F2i? Il recupero di efficienza con cui F2i si propone di colmare il gap di redditività è realistico? Dove Enel Rete Gas ha margini così ampi di miglioramento da superare largamente le migliori performances del settore? E in quanto tempo si pensa di realizzare un tale efficientamento? Insomma alla luce dei dati e degli argomenti qui considerati sembra legittimo mettere alla prova dei fatti anche la strategia di F2i nei termini ambiziosi in cui l’ad Gamberale, dominus e inventore del Fondo, l’ha disegnata in una recente intervista (v. Staffetta 6/6): Gamberale si dice infatti convinto che la progressiva separazione proprietaria delle reti aprirà la “strada per la valorizzazione delle reti“ e questo business può essere per F2i “il germe di una National Grid italiana” con una politica di investimento (www.f2isgr.it) estesa a tutte le categorie di infrastrutture di rilevanza nazionale e locale, non solo quelle energetiche, e compresa la sanità e tutti i servizi pubblici locali. Vasto programma, viene da dire, pensando alla forte diversità tecnica e gestionale dei settori e all’imponenza dei mezzi finanziari richiesti: F2i dispone di un capitale di soli 2 miliardi, già impegnato per un quarto con questa sesta operazione, ancorché sostenuto da un parterre di soci nazionali e internazionali di primo livello. E viene anche da pensare: ma non sarebbe meglio investire nelle start up di infrastrutture innovative e di operatori emergenti e tecnologicamente avanzati piuttosto che in aziende dedicate alla gestione tradizionale dei servizi? La via del rischio, della innovazione, della concorrenza è certo la più difficile e controcorrente ma è la sola utile a sviluppare l’economia in questa difficilissima congiuntura. Roberto Macrì

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