Elements Cap 01

  • June 2020
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  • Pages: 9
PROLOGO

1

Dobbiamo incontrarci fra tre giorni alla torre d’ombra, dopo il calar del sole. E’ urgente, fate in modo di esserci. Haza rilesse il biglietto tre volte. << Eppure doveva già essere qua. Voglio dire.. ci ha detto lui che voleva vederci no? >> a parlare era stata Meifay, che ora guardava gli altri due in attesa della risposta. Asamir se ne stava seduto vicino al tavolo con le braccia incrociate e senza dire una parola da quando era arrivato. << Sephiro non è mai stato molto affidabile, però arriverà. Ne sono sicuro >> rispose Haza. Rimasero in silenzio per il resto del tempo, Asamir sempre seduto, Haza con il biglietto in mano e Meifay si guardava in giro. Si trovavano nella torre d’ombra, un luogo circondato dalle acque e dove il sole non splendeva mai. Era una torre completamente bianca, alta quindici metri, e con grandi finestre per ogni piano. << Siete qui >> tutti e tre si girarono e guardare Sephiro. << Sei arrivato finalmente >> lo riprese Haza << Al calar del sole. Non c’è male se si pensa che la luna si è alzata da un pezzo >> Si sedettero tutti quanti intorno al tavolo, tranne Asamir che lo era già. << Vi ho chiesto di venire qua oggi per parlare di una questione di massima importanza >> cominciò Sephiro, poi vedendo che nessuno rispose continuò << Bisogna usare i libri, è giunto il momento >> a questo punto parlò Meifay << No Sephiro, non possiamo ancora. È troppo presto e i libri sono ancora troppo potenti. Dobbiamo aspettare. >> Sephiro scrutò Meifay con sguardo feroce, poi si voltò verso Haza che fece un cenno di assenso in direzione di Meifay, e per ultimo guardò Asamir, che non fece niente. << Voi non capite. Si stanno prendendo gioco di noi, ci stanno rovinando. Credono di esserci superiori, vi rendete conto? Non ci temono più, non credono più a noi, non ci rispettano! Io dico che bisogna ricominciare da capo.>> << Non essere così drastico Sephiro >> disse Haza in un sussurrò << Gli esseri umani non sono poi così male. Io li osservo sai? Li studio in ogni particolare. Mi incuriosiscono. Tu che ne pensi Meifay? >> << Io ho già detto cosa penso. Non è ancora tempo. E anche se potessimo prendere i libri non lo farei lo stesso. Dobbiamo dargli un’altra possibilità >> concluse lei. Seguì un attimo di silenzio in cui nessuno parlò, né si guardarono in faccia. << Che assurdità >> un ghigno si formò sule labbra di Sephiro << Non ho mai sentito una tale assurdità. Sono millenni che li sopportiamo, troppo tempo che ci maltrattano. Qualche centinaio di anni fa non erano così. Dì un po’ Haza, chi pregavano gli umani quando le tempeste squarciavano i cieli? Pregavano te, ti imploravano di farla cessare. Ora ti pregano solo nei periodi di siccità. Non ti temono. E tu Meifay? Chiedevano a te di far cessare i terremoti e di vegliare sul loro

raccolto. E adesso le foreste sono dimezzate, usano più legna di quanta gliene serva realmente. Ma non è finita, pregavano Asamir perché i maremoti finissero, e affinché la pesca fosse più ricca e generosa. Ora usano le loro navi per attraversare il mare e i laghi, si credono degli dei. E in quanto a me? Di me non hanno più paura. Una volta non avevano paura di me, avevano terrore. Glielo leggevo negli occhi, mi imploravano di non bruciare le loro case, di aver pietà del loro bestiame. Ora mi usano per cucinare il loro maledetto cibo. Insomma siamo o non siamo gli Elementi? Noi mandiamo avanti questo marciume di mondo, e a noi spetta il dovere di decidere quando e come ricominciare da zero >> urlò sbattendo il pugno sul tavolo. Traboccava di rabbia. << No Sephiro è inutile che ti arrabbi. Questo non cambierà la nostra decisione. >> Sephiro non trattenne più la sua rabbia e con zampilli di fuoco che si sprigionavano dalle sue braccia, si gettò verso Meifay .Ma qualcosa glielo impedì. Asamir che fino a quel momento non si era mosso e non aveva detto niente, si era alzato di scatto e aveva afferrato le braccia di Sephiro, che iniziarono a emettere fumo. << Stai zitto >> disse semplicemente e Sephiro dovette obbedire, ritornando al suo posto e cercando di darsi un contegno. << Bene, allora è deciso. Per adesso non si farà proprio niente. Possiamo andare >> sentenziò Haza. E dopo queste parole si dissolsero tutti nell’aria.

NELLA FORESTA

La città di Fena sorgeva nella regione ovest del mondo conosciuto. Era completamente circondata da una fitta foresta, che i cittadini chiamavano semplicemente La Foresta. C’è da dire che gli abitanti di questa piccola cittadina non erano dotati di grande fantasia per i nomi, basti pensare a come chiamarono gli unici due fiumi che attraversavano la zona, uno Fine e l’altro Fano poi, quando verso la fine della selva questi due fiumi si univano per dar vita ad un solo corso d’acqua, la gente lo definiva unicamente Il Grande Fiume. Ma se per i nomi la fantasia era scarsa, non si poteva dire altrettanto per le storie sulla vecchia foresta. Ne giravano di tutti i tipi, e naturalmente la più classica era quella che narrava di una vecchia strega che si aggirava furtiva per la foresta mangiando i bambini, ma questa storia è conosciuta in media da qualsiasi città del mondo conosciuto. Altre narravano di spiriti imprigionati agli alberi con catene magiche, che con il loro luccichio attiravano i passanti e quando questi erano abbastanza vicini succhiavano loro via l’anima. Oppure di una creatura gigantesca vagamente somigliante ad un orso, che intrappolava le prede nella sua tana e le faceva morire di fame, per poi sbranarli pezzo per pezzo con i suoi enormi e affilatissimi denti. Ma la più stravagante delle storie era sicuramente quella delle felci assassine. Una volta la vecchia massaia Rea aveva giurato davanti all’intera città, di averne vista una strangolare il suo cane. In seguito si scoprì che era stata lei stessa a strangolarlo, ma c’era ancora gente disposta a crederle riguardo alla storia della felce. Tuttavia queste non erano storie create per spaventare i bambini, anzi erano proprio gli adulti i primi a crederci, e per questo motivo nessuno sapeva cosa c’era al di là della foresta, quindi Fena rimase sempre una città completamente isolata dal resto del mondo. Naturalmente non mancavano giovani avventurieri che partivano per esplorare la selva in tutta la sua grandezza, ma quando tornavano dal loro viaggio non facevano in tempo ad aprire bocca, che venivano subito condotti a farsi benedire dal sacerdote di Fena. Questa pratica veniva usata per essere sicuri che i giovani non fossero sotto qualche incantesimo o diavoleria simile, e quando questi ultimi cercavano di spiegare che nella foresta non c’era niente che non andasse, le loro parole avevano la straordinaria capacità di sbriciolarsi nel vento. Solo una persona sembrava ascoltare con interesse le storie di chi tornava dal viaggio, ed era una bambina di tredici anni che si chiamava Elemirè. Quel giorno la ragazzina era andata ai margini del bosco, non molto distante da casa sua. Al pensiero di quello che stava per fare, un brivido di eccitazione misto a paura le percorse la schiena facendola tremare. Provava sempre quella sensazione quando era sull’argine di quella foresta che a lei tanto piaceva, ma che suo padre detestava più di qualunque altra cosa. Immediatamente pensò che forse stesse facendo un errore, forse non doveva addentrarsi nel suo regno come lo chiamava lei, suo padre l’avrebbe picchiata come l’ultima volta che l’aveva

scoperta a girovagare tra gli alberi, e i segni delle percosse subite erano ancora evidenti sulle braccia. Ma le ferite che più le bruciavano non si potevano vedere ad occhio nudo, perché risiedevano nel suo animo. Non aveva mai capito perché suo padre fosse così ostile nei confronti della foresta, e del perché la picchiava se lei ci entrava. Questi pensieri la frenarono ancora per qualche istante, ma poi entrò, come fosse una cosa naturale, come se fosse un richiamo troppo suadente per resistervi, e si chiese se quella foresta non nascondesse veramente qualcosa di magico. Camminò per mezz’ora, i lunghi capelli biondi risplendevano alla sottile luce che penetrava dal folto degli alberi, e i suoi occhi verdi si mimetizzavano perfettamente nella vegetazione, quasi ne facessero parte. Il percorso che seguì non fu difficile, anche perché erano quasi tre anni che ci andava di nascosto e ormai sapeva tutti i tragitti più facili e meno insidiati dai rovi, e finalmente si fermò in una piccola radura circondata da enormi sequoie che alla vista sembravano giganteschi e inquietanti guardiani del luogo. Tutt’intorno ad Elemirè c’erano pianticelle di ogni tipo e tantissimi fiori coloratissimi. Veniva da chiedersi come fosse possibile che crescessero tanto belli con così poca luce. Elemirè si sedette vicino a dei tulipani dal colore rosso fuoco, avendo cura di non schiacciarne neanche uno, e rimase lì a contemplare la bellezza di quel posto e la serenità che le veniva infusa nell’animo. Un sottile venticello le scompigliò i capelli, e lei si immaginò nelle sembianze di un’aquila mentre cavalcava quella brezza leggera, e si faceva trasportare con eleganza in luoghi a lei sconosciuti. Come avrebbe voluto avere un bel paio di ali per poter volar via da quel posto, finalmente avrebbe potuto esplorare il mondo, vedere le città al di la della foresta, conoscere persone nuove e culture diverse dalla sua, ma ciò che le sarebbe piaciuto di più era vedere il mare. Non l’aveva mai visto di persona ma lo sognava spesso, un’immensa distesa d’acqua di un azzurro limpido e cristallino, e nei suoi sogni lei era sempre a pochi passi dalla riva, con l’acqua che la bagnava dolcemente fino alle ginocchia. Si scopriva a guardare l’orizzonte con una tristezza a lei sconosciuta, il vento le faceva volar via qualcosa dalla mano e la ricopriva in un abbraccio che sapeva di conforto, poi un turbinio di foglie di ciliegio le scorreva davanti agli occhi e una lacrima le scendeva dal viso. Allora lei si girava e poi più niente. Il sogno finiva sempre così, lei che si girava a guardare qualcosa e poi si svegliava, e l’unica cosa che le rimaneva era la tristezza e un senso di vuoto. Dopo un po’ che stava lì seduta a occhi chiusi, immersa nei suoi pensieri e nella tranquillità, un rumore la fece ritornare in sé. Si girò cauta per vedere chi fosse e quando individuò un cespuglio che si muoveva in maniera innaturale, si alzò mormorando. << Finalmente!! >> Si incamminò lenta e attenta a non far rumore, doveva aggirare quel cespuglio. Spostò un ramo basso che altrimenti le avrebbe impedito il cammino e proseguì per un piccolo sentiero di sassi, che aveva costruito proprio lei. Quando arrivò al cespuglio, vide una coda rossiccia spuntare dalle foglie, e dovette premere le mani sulla bocca per non scoppiare a ridere. << Si vede che qualcuno qua ha voglia di giocare a nascondino >> mormorò rivolta al cespuglio, che subito si mosse goffamente, e dopo qualche secondo ne

uscì fuori una volpe. << Ciao Var!! Sai, se la gente ti conoscesse, sono sicura che smetterebbe di andare in giro a dire che le volpi sono furbe >> disse la bambina rivolgendo alla volpe il suo sorriso più furbo. Lui la fissava con delusione perché era stato scovato subito. << E dimmi Var.. gli altri dove sono nascosti? >> domandò lei con uno sguardo da angioletto. Ma la volpe le si rivolse con uno sguardo indignato che sembrava significare “Non te lo dirò mai”. << Come? E perché non vuoi dirmelo? Dai Var.. tu sei sempre stato il mio preferito lo sai.. >> provò a piagnucolare lei, ma dalla volpe venne solo un ostinato silenzio. << E va bene.. vorrà dire che li cercherò da sola, contento ora? >> Elemirè si alzò e andò di nuovo verso la radura. Una volta arrivata si guardò intorno per cercare gli altri suoi amici. Lo sguardo le si posò su un gruppo di rami caduti che lei stessa aveva raggruppato per terra, però c’era qualcosa di strano.. guardò meglio e ancora una volta dovette fare uno sforzo enorme per non scoppiare a ridere. Dietro ai rami si intravedevano due occhi scuri come la notte e, con un po’ più di attenzione si potevano vedere anche delle corna che però, dovette ammettere anche lei, erano perfettamente mimetizzate. Andò dritta verso la piccola catasta di legno e fece finta di appoggiarsi per riposare, poi guardò gli occhi che spuntavano da una fessura tra i rami e disse << Hey Cor, se non te ne fossi accorto ti ho trovato.. esci fuori.. avanti >> Elemirè era divertita, e quando vide il cervo uscire a testa bassa per l’umiliazione, si divertì ancora di più. << Io ve l’avevo detto che in questo gioco sono troppo forte, ma voi continuate ad insistere.. >> disse rivolgendosi alla volpe ed al cervo che ora si erano messi in centro alla radura, entrambi sconvolti dal fatto che si fossero fatti prendere subito. Elemirè si stava già preparando per andare a vedere se c’era qualcun’altro, ma le grida di un’aquila la distrassero. Guardò in alto cercando di capire da che direzione venisse l’animale, ma il folto degli alberi era troppo fitto e non si poteva vedere neanche un angolo di cielo. << Lian!!! Lian siamo quaggiù! >> si mise ad urlare Elemirè, che evidentemente conosceva l’aquila. Dopo qualche istante il rumore di ali che sfregano contro i rami annunciò l’arrivo dell’animale. Elemirè vide l’aquila farsi strada attraverso le foglie di un abete e poi volare verso di lei, ma era strana, doveva essersi fatta male, così fu la bambina a compiere i pochi metri che li separavano, permettendo all’animale di potersi riposare a terra. Quando vide che l’aquila aveva un profondo taglio sull’ala, le si strinse il cuore. << Lian.. chi ti ha fatto questo? >> chiese Elemirè con gli occhi lucidi, e quando tentò di prender tra le mani l’ala ferita, l’aquila cominciò a fare dei versi disumani ed a sbattere le ali freneticamente nel tentativo di alzarsi. Ma era sfinita e non ce l’avrebbe mai fatta ad allontanarsi, questo Elemirè lo sapeva. Sentiva la sofferenza della sua amica, gliela leggeva negli occhi. Il viso della ragazzina si fece improvvisamente serio, attese che l’aquila si calmasse e poi prese l’ala tra le sue mani. Lian ricominciò subito ad agitarsi sbattendo le ali, ma Elemirè tenne la presa molto salda e non la lasciò fuggire. Il dolore rese

Lian estranea ad ogni sentimento di amicizia, tanto che cominciò a beccare il braccio della bambina, e in pochi minuti per terra si disegnò una piccola pozza di sangue. Var e Cor erano come pietrificati davanti a quella scena raccapricciante, non capivano cosa stava tentando di fare Elemirè, ed erano incapaci di muovere anche il più piccolo muscolo, Lian era completamente impazzita. Il sangue iniziò a scendere copiosamente dal braccio di Elemirè, ma lei non disse niente. Non un lamento, non un gemito, neppure una smorfia di dolore ad incresparle i fini lineamenti del viso. Teneva gli occhi chiusi e sembrava non curarsi delle cose che stavano accadendo tutt’intorno a lei. Poi improvvisamente aprì gli occhi, e mentre innumerevoli goccioline di sudore le imperlavano la fronte, guardò Lian e le sorrise. L’aquila si era calmata, sulla sua ala non c’era più ombra del taglio. Provò ad alzarsi in volo, ma era ancora troppo debole e riuscì a fare solo due piccoli cerchi a tre metri da terra, poi ridiscese e si mise davanti a Elemirè. Grazie Elemirè, ma come hai fatto? Pensò Lia, e la bambina, che aveva il dono di riuscire a capire gli animali, sorrise stanca e rispose. << Ho solo pensato che.. bè.. non volevo che tu soffrissi. Tutto qua.. >> L’aquila la guardò con gratitudine, e la bambina rimase seduta per un po’ a riposarsi, poi si guardò il braccio. Era martoriato dalle beccate ricevute, e pulsava. Il sangue non scendeva quasi più e cominciavano a formarsi le prime croste intorno alle ferite. Elemirè cominciava solo ora a sentire dolore, ma la cosa non le importava. Piuttosto era preoccupata perché suo padre sicuramente avrebbe capito che era andata nella foresta. Quelle ferite non avrebbe potuto procurarsele da nessun’altra parte. E se non le avesse più permesso di uscire? Cercando di scacciare quei pensieri negativi, Elemirè si alzò, ma subito le venne un capogiro e dovette appoggiarsi ad un albero per non cadere. Var le si avvicinò e cominciò a leccarle una mano. Elemirè lo guardò con affetto. Var era veramente il suo preferito, era stato il primo animale con cui lei avesse mai parlato, e poi aveva quello strano ciuffetto bianco sopra l’occhio destro che le piaceva troppo. << Var ascolta, devo andare al Fano a lavarmi, altrimenti poi mio padre mi sgrida, come possiamo fare? Io non ho le forze sufficienti per camminare.. >> Disse Elemirè sedendosi per terra. La volpe la guardò pensierosa per qualche istante, poi si girò verso Cor. Il cervo seppe subito cosa fare e così, dopo non più di cinque minuti, erano già partiti alla volta del fiume, Elemirè in groppa a Cor. Per quasi tutto il tragitto la ragazza era in una specie di semi incoscienza, percepiva solo il morbido pelo della sua amata volpe scorrerle di tanto in tanto tra le dita, e pensò che non ci fosse niente di più bello. Lei non avrebbe mai abbandonato Var, per niente al mondo. E dopo questo dolce pensiero, cadde in un sonno profondo. Si risvegliò un’ora più tardi con una sensazione strana agli occhi. Erano umidi ma non si ricordava di aver pianto. Ne aprì uno e capì subito cosa era successo: Var le aveva leccato gli occhi per farla svegliare. Aprì anche l’altro e sbadigliando si mise seduta, e vide che Var era davanti a lei con la lingua di fuori, pronto per ricominciare a leccarle gli occhi. << Potevi trovare un modo migliore per svegliarmi, anziché leccarmi gli occhi.. no? >> sussurrò Elemirè alla volpe, la quale ricaccio la lingua in bocca e abbassò le orecchie in segno di scusa. Per tutta risposta Elemirè gli accarezzò la

testa. Quando la bambina si riprese un po’ dalla stanchezza, si pulì gli occhi con la manica, poi si alzò e si guardò intorno. << Siamo arrivati >> mormorò tra sé e sé, e si diresse verso il fiume, dove Cor stava bevendo. <> disse Elemirè al cervo, poi si inginocchiò sulla riva del Fano e immerse il braccio ferito. L’acqua era gelata e tagliente, e il braccio pulsava più che mai. Poco alla volta il fiume portava via il sangue incrostato di Elemirè, che appariva come sottili fili rossi che andavano a mescolarsi nell’acqua fino a scomparire dalla vista. Elemirè chiuse gli occhi e pensò che in fondo non faceva così male, anche se forse era per il fatto che l’acqua era fredda. Restò inginocchiata alla riva per una decina di minuti, a godersi quella sensazione di benessere, poi però decise a malincuore che era ora di tornare indietro. Doveva anche escogitare un piano per fare in modo che suo padre non vedesse il braccio, altrimenti sarebbero sicuramente stati guai seri. Aprì gli occhi e con un po’ di esitazione estrasse il braccio dall’acqua. Si ritrovò a pensare che forse il Dio del fiume l’avrebbe guarita. Si, adesso avrebbe abbassato lo sguardo sul braccio e le ferite non ci sarebbero più state. Con questa speranza nel cuore guardò il braccio. No, il Dio del fiume non aveva avuto pietà per lei, il braccio era ancora pieno di buchi e lividi, solo che ora non c’era più tutto quel sangue di prima. Si rimisero in marcia solo in tre: Elemirè, Cor e Var. Lia li aveva salutati al fiume, dicendo che voleva farsi un volo fino al Fine. Elemirè era un po’ preoccupata, gli occhi puntati sulla coda rossa di Var, pensava ad un piano per coprire con cura il braccio. Quel pensiero la accompagnò fino alla radura, dove dovette salutare i suoi amici. << Ciao Cor, grazie ancora per quel che hai fatto! >> e gli diede una grattata dietro le orecchie, poi si girò verso Var. << Var io vado. Non so se domani verrò, però farò di tutto per esserci, va bene? >> lui le leccò una guancia, ed Elemirè lo abbracciò con affetto, facendo affondare le dita nel pelo, poi gli diede una carezza sulla testa e se ne andò. Quando arrivò in città, Elemirè si accorse che doveva essere molto tardi, il sole iniziava a scomparire dietro le fronde degli alberi ad ovest, forse era già ora di cena. Sarebbe dovuta già essere a casa, ma prima doveva fare una cosa, quindi corse più veloce che poteva per il viale di terra battuta della città. Svoltò a destra dove c’era la bottega del signor Teco, il fornaio di Fena, e sentendo il profumo del pane le vennero i crampi allo stomaco. Ma non era il momento di pensare al cibo, avrebbe mangiato più tardi, e si fiondò verso la casa dei Gali. La vedeva già in lontananza, la loro casa era la più bella di Fena. Era fatta completamente di legno lavorato e rifinito con cura maniacale, e ai lati della porta d’ingresso c’erano due leoni, anch’essi di legno. Dietro la casa c’era una stalla di loro proprietà, vi allevavano maiali, pecore e galline perché il Signor Gali era un macellaio, anzi era il miglior macellaio di Fena. Alcuni andavano dicendo che le lame dei coltelli del Signor Gali, erano state forgiate direttamente dagli Dei, donandogli così l’abilità di cui era dotato. In realtà il Signor Gali discendeva da una lunga stirpe di macellai, quindi si può dire che quel lavoro l’aveva nel sangue da quando era nato. Quando Elemirè arrivò dai Gali, era ormai senza fiato e le faceva male un fianco. Attese qualche istante per riprendere fiato, e aggirò la casa per andare

sul retro. Si diresse verso la finestra che stava sulla destra e si aggrappò sul bordo per guardare dentro, poi prese a bussare. Si sentì un rumore di passi, dopodiché qualcuno aprì la finestra per vedere chi aveva bussato. Si chiamava Livor ed era un ragazzo di quattordici anni, magro come un chiodo, con una folta chioma di capelli neri e due occhi azzurri talmente grandi, che sembrava perennemente spaventato. Era un tipo un po’ strano, con uno sguardo indecifrabile. Non si riusciva mai a capire cosa gli passasse per la testa, se era triste o felice o arrabbiato. Non è che lo facesse apposta o non provasse emozioni, anzi ne provava tantissime, ma comunque il massimo della sua espressività era un sorriso appena accennato, anche se solo in casi eccezionali, quando era particolarmente di buon umore. Ma Elemirè si fidava cecamente di lui, loro erano amici. Lei aveva il privilegio di essere l’unica persona, o quasi, ad accendere il sorriso spontaneo sulla faccia di Livor. Ogni tanto anche Livor era andato nella foresta con lei, ma ora che aveva iniziato ad aiutare il padre con la macelleria non aveva più molto tempo. In ogni caso, Elemirè sapeva che poteva contare sul suo appoggio in caso di bisogno, e ora aveva bisogno. Livor si sporse ancora un po’ dalla finestra, e con quello sguardo un po’ inquietante guardò la ragazzina. << Elemirè, ma che ci fai qui? No.. non dirmelo.. >> cominciò il ragazzo, ma Elemirè lo interruppe. << Livor.. io.. >> ma la ragazza non finì la frase, perché questa volta fu Livor ad interromperla. << Va bene Elemirè.. >> disse il ragazzo portandosi una mano alla fronte per scacciare una mosca, che poi schiacciò contro il muro con un pezzo di carta, tutto questo senza che la minima espressione gli passasse sul volto. << Diciamo che sei stata da me tutto il pomeriggio a giocare, che non ci siamo accorti dell’orario e che la prossima volta staremo più attenti. E se tuo padre non ti crede, diciamo pure che verrò io a parlarci per convincerlo.. >> la ragazza gli sorrise con gratitudine, sapeva che Livor avrebbe capito al volo quello che gli stava per chiedere, e non diede nemmeno il tempo al ragazzo di finire il discorso che già si stava allontanando, quindi Livor dovette sporgersi dalla finestra per urlarle << Elemirè, ricorda che non potrò coprirti per sempre! >> la ragazza che ormai era già lontana, si girò e gli urlò << Sei un amico Livor! >> poi fece un cenno di saluto con la mano e corse via. Livor stette per un po’ a vederla correre via, sempre con quegli occhi troppo grandi, poi chiuse la finestra e andò in camera sua. Cinque minuti più tardi Elemirè arrivò davanti alla porta di casa sua, ancora una volta col fiato corto e il fianco indolenzito. Aveva programmato tutto. Sarebbe entrata in casa silenziosamente e avrebbe sgattaiolato nella sua camera, poi avrebbe cercato una vestaglia a maniche lunghe che coprisse bene il braccio, e tutto sarebbe andato per il meglio. Il giorno dopo poi, si sarebbe curata le ferite con le erbe medicinali che coltivava sua madre. E se suo padre si fosse arrabbiato perché aveva fatto tardi, avrebbe cercato di patteggiare. Poteva sempre proporsi per andare ad aiutare sua madre al mercato. Si, ce l’avrebbe fatta. Aprì piano la porta, attenta a non fare il minimo rumore, ma ci fu una brutta sorpresa ad attenderla. Suo padre la aspettava in piedi, braccia conserte dietro la porta, e l’ultima cosa che Elemirè ricordò di aver visto quella sera, fu la faccia livida di rabbia di suo padre.

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