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Prefazione Angelo Failla – Fondazione IBM
Una parte consistente della popolazione mondiale, anche se con marcate differenze geografiche, vive ormai circondata da un’infrastruttura digitale costituita da una fittissima rete di tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Tali tecnologie sono sempre più pervasive, coinvolgono tutti gli ambiti della vita e l’uso di manufatti tecnologicamente densi – con tecnologie sempre più nascoste, miniaturizzate e interconnesse – rappresenta un’esperienza normale e quotidiana per milioni di persone. La diffusione di strumenti basati sulle ICT è stata velocissima e ha conquistato ambiti di utilizzo sempre nuovi. La corsa verso l’informatizzazione delle nostre attività è stata motivo di entusiasmo per alcuni e a volte fonte di disagio per altri. In ogni caso è stata oggetto di studi approfonditi, accesi dibattiti, interminabili discussioni tra ottimisti e pessimisti, detrattori e fautori della tecnologia. Naturalmente ciò è stato evidente solo per coloro che hanno vissuto la fase di passaggio: gli addetti alla produzione che hanno visto la nascita della fabbrica automatica, gli impiegati e i manager nel lavoro d’ufficio del settore privato negli anni Ottanta, poi gli addetti alla pubblica amministrazione e, più di recente, gli insegnanti. Il lavoro è stato l’ambito privilegiato di introduzione delle
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tecnologie. Dal mondo del lavoro le tecnologie hanno cominciato a diffondersi in tutti gli altri ambiti, scuola compresa, mantenendo però per un lungo periodo un’immagine ancora legata al mondo della produzione. Era l’immagine sostitutiva del computer, visto come sostituto dell’uomo nelle attività prevedibili e ripetitive della produzione. Sono stati necessari alcuni anni e molta esperienza d’uso per passare dall’idea sostitutiva a quella integrativa, che considerava il computer come un potenziamento delle capacità espressive, comunicative e di apprendimento delle persone. Tutto ciò ci aiuta a evidenziare la chiave di interpretazione che accompagnerà i lettori di questo volume: le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno contribuito a creare una discontinuità fondamentale tra generazioni, tra coloro che provengono da un mondo non tecnologico e chi, invece, è nato già in un contesto caratterizzato dalla presenza capillare della tecnologia. È la differenza fondamentale, ampiamente descritta in questo volume, tra immigranti e nativi digitali. Tale distinzione non è nuova ed esiste già una letteratura specializzata che studia i diversi comportamenti nelle relazioni con la tecnologia tra coloro che hanno vissuto il fenomeno della migrazione verso le tecnologie informatiche e i nativi digitali. Anche in questo caso, il lavoro è un ambito privilegiato di osservazione. Recenti ricerche evidenziano, per esempio, che la baby gamers generation contrapposta alla baby boomers generation – composta da coloro che, nati a partire dalla prima metà degli anni Ottanta, sono cresciuti ritenendo del tutto normale avere a disposizione i videogiochi – sta iniziando a cambiare il mondo del lavoro. E questo perché si osserva come molti comportamenti tipici dei videogiochi (chiunque può avere successo, basta solo allenarsi e provare e riprovare avendo abbastanza tempo a disposizione; si impara dal team lavorando assieme; puoi anche non avere un capo ma devi avere delle guide strategiche; e così via) cominciano a essere trasferiti nelle situazioni di lavoro. Se dal mondo del lavoro passiamo al mondo della scuola,
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ancora più importante è chiedersi come apprendono i nativi digitali in un mondo ricco di tecnologie in tutti gli ambiti. Il presente volume, che segue a circa due anni di distanza la pubblicazione di Bambini e Computer, frutto della collaborazione della Fondazione IBM Italia con l’Università di MilanoBicocca, affronta proprio questo tema cruciale. La particolarità risiede nel fatto che, per la prima volta nel nostro Paese, si comincia ad avere una consistente quantità di dati osservativi su una particolare fascia d’età, i bambini da 0 a 6 anni, sulla cui condizione di nativi digitali non vi sono dubbi. Questi nativi digitali sono accompagnati nel loro iniziale avvicinamento verso la tecnologia, che fa parte sin dall’inizio del loro mondo, da altri nativi digitali (i fratelli maggiori, già appartenenti alla baby gamers generation), da immigranti già integrati nel nuovo mondo digitale, oppure da immigranti che ancora stentano ad adattarsi ai mutamenti provocati da questa epocale discontinuità. Il libro presenta a questo riguardo una serie di dati estremamente interessanti circa le interazioni dei bambini con la tecnologia, sia in contesti istituzionali sia famigliari, e si sofferma sul ruolo degli adulti, insegnanti e genitori. Come si sviluppa l’interazione con la tecnologia nei bambini da 0 a 6 anni? In quali contesti avviene la prima familiarizzazione? Qual è il ruolo degli adulti e a che punto sono nel percorso verso la migrazione digitale genitori e insegnanti? Sono i temi che trovano nel volume una trattazione accurata, basata sulle evidenze raccolte con un ricco insieme di tecniche di ricerca qualitative. Alcune osservazioni risultano di particolare interesse e sembrano ripercorrere alcuni dei fenomeni tipici delle fasi iniziali di introduzione delle tecnologie nel mondo del lavoro. Alcuni insegnanti, per esempio, attribuiscono ancora al computer una dimensione di pericolo (i computer sarebbero incomprensibili, alienanti, duri, freddi e addirittura nocivi per i bambini) e una strumentale (è una macchina veloce, è utile, è uno strumento per facilitare il lavoro). Ma anche una dimensione legata alla sfera comunicativa (facilita la comunicazione, è
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una macchina per interagire), e a quella didattica (facilitatore dell’apprendimento, mezzo di formazione), e non manca chi associa ancora al computer una dimensione magica. I genitori hanno atteggiamenti più distaccati nei confronti del computer e delle tecnologie, frutto della familiarizzazione già avvenuta in ambito lavorativo. Da questo punto di vista, la ricerca evidenzia il netto legame esistente tra il primo contatto con le tecnologie e i diversi atteggiamenti che sviluppano gli utenti, in questo caso insegnanti e genitori, fenomeno già ampiamente analizzato dagli studi sui processi di appropriazione della tecnologia da parte delle persone in ambito lavorativo. L’elemento che differenzia profondamente tutte le precedenti ricerche sui processi di appropriazione della tecnologia e gli studi sugli atteggiamenti nei confronti del computer da quella presentata in questo volume, è il fatto che, fino a qualche anno fa, tutti questi fenomeni erano riferiti a immigranti tecnologici, mentre il fuoco specifico della presente ricerca è su come apprendono i bambini nativi digitali che vivono in un mondo in cui le tecnologie costituiscono una parte integrante e data per scontata. Ciò ci consente di riportare la riflessione su chi ricopre un ruolo educativo nei confronti dei nostri bambini: la scuola, la famiglia e in senso più ampio l’intera comunità. I bambini hanno necessità di un’attenzione educativa coordinata e armoniosa, se continuano a esserci troppe differenze nella considerazione del ruolo delle tecnologie nel processo educativo tra genitori e insegnanti, ma anche tra gli stessi genitori e tra gli stessi insegnanti, si possono creare squilibri difficili da recuperare. Ecco perché in questo volume si pone particolare attenzione all’esperienza e alle rappresentazioni della tecnologia di genitori e insegnanti, considerati come immigranti digitali, perché su tali rappresentazioni, frutto a volte dei disagi dovuti al processo di migrazione verso la tecnologia, si sviluppano molte preoccupazioni e timori che risultano infondati. È importante invece conoscere e comprendere quali aspetti devono essere tenuti in considerazione nel guidare i
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nativi digitali verso un uso critico e consapevole delle ICT. Le precedenti rivoluzioni non avevano coinvolto la scuola così come accade oggi con la rivoluzione digitale. Il possibile gap tra il mondo digitale in cui vivono i nativi digitali e la scuola, ancora popolata da immigranti digitali, può essere colmato se si approfondisce la conoscenza delle rappresentazioni delle tecnologie da parte degli adulti e se si sviluppano programmi di ricerca in grado di fornire indicazioni su come vivono e apprendono i nativi digitali. La Fondazione IBM Italia ha maturato oltre cinque anni di esperienze in queso ambito grazie al progetto KidSmart, che si è arricchito nel tempo attraverso diverse collaborazioni (col Ministero della Pubblica Istruzione, con gli Enti Locali, con specifiche realtà territoriali). La collaborazione con la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di MilanoBicocca avviata ormai tre anni fa ha consentito di mettere a punto un programma di ricerche che si pone un obiettivo ambizioso: contribuire a fornire elementi di conoscenza che possano essere utili per mettere a punto interventi sulle policy che dovrebbero guidare il futuro sviluppo della nostra scuola dell’infanzia, da sempre fiore all’occhiello del nostro sistema educativo, oggi popolata dai digital kids.
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Introduzione Bambini e computer: grandi questioni malposte Susanna Mantovani
Computer sì o computer no? Le nuove tecnologie sono dannose per i bambini? Devono essere introdotte e utilizzate già nella scuola dell’infanzia o è meglio aspettare? Come “insegnare” l’uso delle nuove tecnologie? Questo volume è la seconda tappa di un percorso di riflessione e di ricerca che ha avuto inizio con Bambini e Computer (Mantovani, Ferri, 2006) e documenta anch’esso solo l’inizio di riflessioni e approfondimenti che dovranno coinvolgere non solo noi ricercatori ma anche i molti genitori e insegnanti. Tutti questi soggetti, infatti, nel nostro Paese, hanno contribuito attraverso la partecipazione e il reciproco coinvolgimento a fare della scuola dell’infanzia italiana un punto di riferimento planetario per il pensiero sull’infanzia e a diffondere una rappresentazione di bambino ricco, curioso, collaborativo e capace. Un bambino-ricercatore che misteriosamente perde questa caratteristica nel procedere della vita scolastica, non riesce più a trasferire le sue conoscenze ai problemi reali della studio e arriva all’università spesso passivo e demotivato. Il computer, le tecnologie possono influire sullo stile di apprendimento, sull’atteggiamento di ricerca e sull’acquisizione delle conoscenze? E lo fanno in senso positivo o negativo?
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Nei capitoli che seguono si cerca non di inseguire queste domande che oggi, a nostro avviso, non hanno più molto senso, ma di analizzare il tema da un punto di vista differente. In effetti, ci chiediamo, forse, se apprendere precocemente una lingua straniera, in particolare l’inglese possa “far male”? Piuttosto i più a avvertiti sono insoddisfatti dei metodi di insegnamento della lingua nella scuola, spesso puro “rimpicciolimento” riduttivo dei metodi messi a punto per età successive quando l’apprendimento della lingua non è più naturale e spontaneo. Non come quello che sarebbe necessario per i piccoli, fondato sull’osservazione, l’esplorazione e l’acquisizione non solo del lessico e delle strutture sintattiche ma anche degli elementi paralinguistici e conversazionali essenziali a un uso da nativo della lingua. Il parallelo tra familiarizzazione tecnologica e apprendimento precoce della lingua straniera da un lato è calzante: anche per l’inglese troviamo forte resistenza nel mondo della scuola dell’infanzia che teme, e a ragione, una inefficace scolasticizzazione di un ambiente di apprendimento che è più ricco e moderno di quello della scuola primaria e secondaria, ma che è anche espressione del senso di inadeguatezza degli insegnanti che non conoscono la lingua, non si sentono di accompagnare i bambini in contesti di apprendimento dotati di senso e vedono vacillare davanti a questa sfida la propria identità professionale purtroppo già fragile. Dall’altro, però, il parallelo è riduttivo perché le nuove tecnologie, e in particolare il computer e la rete, sono molto più pervasive di una lingua, oggi dominante come l’inglese, e costituiscono la nuova struttura del mondo che percepiamo, della quotidianità che viviamo e delle modalità di relazionarsi e conoscere. Il senso di timore e di smarrimento degli insegnanti, che vedono sfumare le certezze didattiche, e dei genitori che vedono i loro figli avventurarsi in un mondo al quale essi hanno solo un accesso parziale e molto più difficile da controllare – non basta “tenere a casa” i figli, anzi è proprio “da casa” che meglio si avventurano nella rete – è fondato e comprensibile e ci costringe a cercare di fermarci a riflettere, a
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osservare e ascoltare le esperienze dei bambini per andare oltre sostenendo i bambini nel loro apprendistato esplorativo della tecnologie della comunicazione digitale, affinché si attrezzino per essere attivi in questo mondo senza essere travolti dall’ onda. Le tecnologie, il computer “ci sono”, come già scrivevamo nel volume precedente due anni fa. L’ambiente nel quale i bambini crescono e apprendono è diverso. Il mondo è diverso, diverse e nuove molte forme di apprendere e di comunicare anche e soprattutto da quando il computer e le altre tecnologie si sono diffuse e hanno impresso modi e ritmi di cambiamento straordinari. Le nuove tecnologie non sono la televisione, che aleggia come un’ombra, “cattiva maestra”, “ladra di tempo e serva infedele” sulle rappresentazioni ambivalenti dei possibili nuovi mostri evocati dall’immaginario di insegnanti e genitori. Il problema è che non solo non si sono ancora utilizzate appieno le potenzialità della televisione1 ma il computer e le altre tecnologie sono radicalmente diverse nel modello di comunicazione e di fruizione (e se proprio vogliamo più rischiose). Sono interattive e socializzanti anche se in modi che ancora non comprendiamo appieno e che quindi non sappiamo né valutare né orientare. Nel testo verranno presentate e discusse ricerche che consentono di aprire finestre su queste questioni con le quali dovremo confrontarci negli anni a venire e sulle quali la nostra scuola deve procedere immediatamente a riflettere molto a fondo per trovare le proprie vie (capitoli 1 e 3). Non si tratta allora di chiedersi se gli oggetti tecnologici e il loro uso facciano bene o facciano male oppure se sia o no opportuno permettere che siano presenti nella scuola dei piccoli: sono domande comprensibili ma del tutto inutili. Ci chiediamo forse se dobbiamo nascondere i libri per impedire che i bambini imparino a leggerli troppo presto? Purtroppo la sana resistenza all’anticipazione di didattiche formali di lettura e scrittura2 fa talora dire anche questo: “nascondiamo i computer, sono pericolosi”. Si confonde in questo modo la curiosità e la disponibilità dei bambini nello
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sperimentarsi con i linguaggi e i simboli con la didattica formale di tanta scuola, forse da ripensare per tutte le età.
NATIVI E IMMIGRATI, COSTRUIRE UN APPROCCIO TRANSCULTURALE Si tratta piuttosto di fermarsi a riflettere, a osservare, ad ascoltare, a dialogare e a prepararci – noi adulti – ad accompagnare, da adulti, i bambini in un mondo, quello digitale, nel quale essi sono i nostri “interpreti” e spesso i nostri “maestri”– così come un bimbo cinese o indiano, figlio di genitori immigrati, può essere e spesso è “interprete” dei suoi genitori – ma sono pur sempre bambini. Si tratta di accompagnarli nella scoperta del mondo di oggi e della sua struttura profonda che è fatta per una parte nuova e importante di tecnologie, aiutandoli a fermarsi, a pensare, a riflettere, a non ubriacarsi, a non andare troppo veloci, a stare con gli altri e a mettere a confronto questa loro esperienza con i saperi del passato. Le tecnologie costituiscono oggi, come si è detto, una categoria strutturale del mondo che non dispone ancora di una lingua da tutti compresa ed è, dunque, alla ricerca di metafore per essere definita e compresa (almeno analogicamente): un paragone è quello con la lingua straniera e veicolare al quale abbiamo fatto cenno, una metafora suggestiva e ormai ricorrente, che verrà esplorata nel testo, è quella dell’immigrazione che ci fa parlare dei nativi, migranti e immigrati digitali (capitoli 1 e 4). Gli adulti immigrati hanno bisogno di mediatori e di interpreti. Hanno il compito difficile di affacciarsi alla cultura dove in questo caso gli autoctoni sono i loro figli (che hanno il vantaggio di non essere necessariamente minoranza), di alfabetizzarsi anche se non perderanno mai il loro accento, ma anche di custodire e rendere attraente la cultura delle origini, rendendola disponibile e vitale anche attraverso il nuovo ambiente. Un’operazione di cross-fertilization che ci impegnerà, se vorremo,
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nei prossimi decenni, scardinando l’idea dell’adulto detentore del sapere e dell’insegnante “signore dell’aula” verso un modello a due vie di reciproco apprendistato e di contaminazione che produrrà, nella migliore e più ottimistica delle visioni, non il reciproco estraniamento bensì una contaminazione feconda e difficilmente immaginabile.
TECNOLOGIE E SUCCESSO SCOLASTICO Molte domande che si pongono genitori e insegnanti riguardano l’impatto delle nuove tecnologie sul successo scolastico. Le ricerche ormai numerose, le più rilevanti delle quali verranno qui presentate e discusse (capitolo 1), sembrano ancora una volta segnalare che è la presenza o meno di computer e altre tecnologie nell’ambiente domestico, la familiarità dei genitori e dei bambini con le tecnologie fin dai primi anni nel contesto domestico e la naturalezza nell’uso da parte delle persone significative che circondano i ragazzi (nelle cosiddette connected families di Papert), assieme alla presenza e a un uso “moderato” di esse nella scuola, a rappresentare la situazione più efficace e correlata al successo scolastico. Ciò conferma ancora una volta che la famiglia è il contesto di apprendimento più potente, che la cultura famigliare prevale nel tempo sulla cultura della scuola e che la scuola non riesce ancora, nemmeno in questo caso dove gli strumenti vengono dalla tecnologia e dalla scienza, a contrastare o compensare distorsioni o carenze che nella famiglia si manifestino, mentre ne rinforza le risorse positive. La scuola, lo sappiamo e ce lo ripetiamo con angoscia noi “gente di scuola”, non compie appieno la propria missione di promozione sociale e di riduzione delle disparità nelle opportunità. Il digital divide è in casa nostra, come evitarlo o ridurlo senza sovraccaricare i nostri bambini e lasciando loro il tempo per cercare, per giocare e per pensare? Le tecnologie per gli insegnanti una droga, un compito gravoso in più o una straordinaria potenzialità? O meglio come ren-
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derle una straordinaria potenzialità fin dai primi anni? Per utilizzare le parole della pedagogia della nostra scuola dell’infanzia: come creare contesti di senso che espandano le possibilità dei campi di esperienza. Contesti di senso abilitati dalla tecnolgia che possono essere esplorati a fondo dai bambini, evitando una spaventosa e inutile abbuffata tecnologica precoce?
GETTARE UN PONTE TRA VECCHIO E NUOVO MONDO Queste domande, quasi ovvie, perché ricorrenti nelle ricerche sul successo scolastico o sugli effetti a lungo termine delle esperienze prescolari, rischiano di essere, vorrei sostenere, in gran parte mal poste. Come si può, infatti, ritenere conclusivi dati che mettono in relazione esperienze di apprendimento così diverse? Ha senso porsi una domanda di questo genere senza mettere in discussione che cosa si intenda per successo scolastico e se questo concetto/definizione – tenuto conto delle caratteristiche degli apprendimenti che avvengono nella scuola – sia ancora così rilevante e prioritario nelle nostre preoccupazioni per i nostri figli? Questo è tanto più vero nel nuovo mondo digitalmente interconnesso segnato e modificato profondamente dalla tecnologia? Non è il caso di commettere lo stesso errore compiuto decenni addietro rispetto all’“intelligenza” per molti anni considerata quella cosa che veniva misurata dai test mentre ciò che i test misuravano erano le probabilità di successo scolastico nei paesi con sistemi scolastici sviluppati. Oggi parliamo di “intelligenze” e sappiamo che esse vanno considerate non solo in campi diversi ma anche tenendo conto della “nicchia ecologica”, nella quale si esercitano e che consente di interpretarle. Ci interesserà davvero e ancora per il futuro solo il “successo” in questa scuola e con questo “metro” dobbiamo valutare l’impatto della dimensione tecnologica oppure essa
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prelude a un modo molto diverso di organizzare istituzionalmente la formazione e l’acquisizione della cultura? E ci chiediamo dunque se il computer fa bene o fa male per questa scuola? Il successo nella scuola di oggi è davvero quello che conta di più per il futuro e rispetto a questo dovremmo misurare e valutare le esperienze? Queste domande sono una consapevole provocazione. Sappiamo che il successo scolastico è correlato al superamento dei test di accesso all’università e che una laurea permette migliori possibilità di accesso nel mondo del lavoro. Non sappiamo altrettanto bene che cosa questo significhi sul piano qualitativo, della flessibilità cognitiva, della capacità di divenire un professionista capace di passare con agilità dalla specializzazione alla visione globale e viceversa, e di sviluppare una capacità di affrontare i problemi tenendo conto della “rete” nella quale sono inseriti. L’apprendimento collaborativo di cui tanto si parla e che il computer nella scuola dell’infanzia sicuramente riesce a promuovere è solo scoprire insieme o anche affrontare un problema in team facendo convergere specialismi e intelligenze diverse? Non a caso le grandi scoperte degli ultimi decenni si collocano molto spesso ai confini tra discipline. Il nuovo spazio/tempo di apprendimento e di vita che hanno aperto le nuove tecnologie e la rete è valutabile con parametri che appartengono ormai a un’altra dimensione storica e culturale? O invece la riflessione sul fenomeno della diffusione dirompente delle nuove tecnologie che ha modificato il nostro modo di vivere, di comunicare e di stare quotidianamente insieme non dovrebbe farci porre una domanda diversa, e cioè come si stanno trasformando le vite, le menti, i modi di stare insieme e di apprendere dei nostri figli in questo spazio/tempo nuovo digitalmente esteso? Ma allora di quale scuola abbiamo bisogno per il futuro? Questo non significa considerare obsoleti i saperi sviluppatisi nei secoli e che la scuola ancora oggi, con dubbia efficacia, cerca di rendere rilevanti per la vita e la mente dei giovani, bensì chiedersi se il nuovo ambiente digitalmente
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esteso non debba costringere la scuola fin dai primi anni a trovare mezzi, spazi, tempi, interazioni nuove affinché i saperi e le esperienze di un passato che si allontana sempre più in fretta per i ragazzi non vadano definitivamente perduti. Come fare cioè a traghettare nel “nuovo mondo” i saperi del “vecchio mondo” e a far sì che riprendano vita così come avvenne per i saperi classici nell’Umanesimo? È un’impresa che vale la pena di essere tentata traducendo i saperi antichi nella modernità e rendendo le infinite possibilità aperte dalle tecnologie non solo esplorazioni acrobatiche e subculture ma a tutti gli effetti nuove forme di cultura. Questo testo non pretende certo di rispondere a domande di tale portata ma di aprire finestre e sollecitare la discussione in chi ha la responsabilità dei più piccoli che tra qualche anno saranno adolescenti, studenti universitari, ricercatori, professionisti.
ESPLORARE E DIVERTIRSI CON IL NUOVO La scuola dei più piccoli che si pensa come “luogo di vita”, che persegue il benessere dei bambini più che il rendimento e il prodotto immediato, che si preoccupa degli “immateriali” come la felicità, l’impegno e il senso di appartenenza, considerati oggi così importanti anche dall’economia è a mio parere in grado già oggi, nelle sue espressioni migliori di creare contesti di esplorazione e di apprendimento collaborativi che si espandano in progetti documentabili, comunicabili e ripercorribili. Non può non confrontarsi con il nuovo ambiente mentale ed esistenziale che si è venuto creando in seguito allo sviluppo delle tecnologie ma deve e può farlo con fiducia, con piacere, con curiosità e libertà – il piacere, la fiducia, la curiosità e la libertà che tutti i bambini che stanno bene hanno nei confronti del nuovo e del mondo – e può dunque divenire prima palestra e modello da studiare per la scuola dell’obbligo.
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Osservando i bambini che con libertà si accostano ed esplorano, che si confrontano e comunicano, che usano, scoprono, documentano, scambiano attraverso le nuove tecnologie e lo fanno fisicamente vicini, toccandosi e guardandosi e non in solitudine, la scuola dei piccoli ha il tempo di pensare, di discutere, di documentare, di rilanciare e anche di consentire ai bambini di sentirsi padroni dei mezzi e non dipendenti da essi. Può dargli modo di sfogare la curiosità e di superare, attraverso un esercizio libero in un ambiente sicuro e dotato di buoni registi, il rischio di una indigestione tecnologica solitaria e bulimica, consumata nell’isolamento e nello straniamento sociale. È questo il pericolo vero, quello che già esiste in famiglia e nella società, e che rischia di estendersi esponenzialmente se la scuola non si apre al nuovo, ai nuovi linguaggi e ai nuovi stili cognitivi dei piccoli sempre criticamente ma senza timori.
LE PAURE DEGLI ADULTI Le paure degli adulti nei confronti della familiarità precoce dei bambini con le tecnologie hanno diverse ragioni: la paura dello straniero, del diverso e dell’ignoto, di linguaggi che a noi sono stranieri. La nostra condizione di immigrati adulti, disorientati e poco alfabetizzati in un mondo che non dominiamo, nel quale usiamo un linguaggio che non parleremo mai come lingua madre, e la visione dei nostri figli, che si tuffano in questo mondo, che si allontanano e che potrebbero perdersi in esso recidendo i legami con le radici comuni, comprensibilmente sgomentano. L’abisso o l’infinito virtuale è spalancato. Il timore si manifesta negli insegnanti soprattutto come paura di non essere sufficientemente pronti nel dominare i “nuovi mostri” tecnologici e di non saper svolgere il proprio ruolo professionale con sufficiente autorevolezza. Questo timore si proietta sul computer e le tecnologie digitali vissute come fredde e “cattive”, come elementi dai quali i bambi-
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ni vanno protetti mantenendoli nel bozzolo senza tempo della “buona” scuola dei piccoli. Nei genitori i timori sembrano invece proiettarsi verso il futuro, verso gli adolescenti misteriosi e incontrollabili che questi mezzi potenti renderanno ancora più alieni: liberi di esplorare un mondo pericoloso a cui solo loro o soprattutto loro hanno accesso. Un modo incontrollabile dove fare incontri inimmaginabili, diventarne dipendenti, esserne traviati. I timori legati alla sessualità e alla dipendenza, tipici e naturali timori rispetto all’adolescenza e alla possibilità di perdere il controllo sui figli, emergono già parlando con i genitori dei piccoli come se non sempre si riuscisse a vederli per come essi sono oggi e sembrano essere molto diffusi (capitolo 4). Paradossalmente il bambino non visto ma attraverso il quale si vede l’adolescente assorto nel computer che chissà quali mondi sta esplorando, quali linguaggi parla e quali contatti sta stabilendo fa paura perché è solo in casa con la macchina. Le altre paure consuete rispetto agli adolescenti, dipendenze, macchine veloci, compagnie pericolose sono generate dal loro essere fuori di casa, mentre il loro essere in casa sarebbe rassicurante. Le tecnologie sono dentro o fuori la famiglia? Sono forse il nemico tra noi? La fuga che non possiamo controllare? Che spazio, che luogo sono mai? Non è forse come stare a casa con un libro, eppure non molti decenni fa si controllavano i libri, li si selezionava, li si proibiva, così oggi si vorrebbe poter fare con il mondo che i ragazzi aprono da sé. L’accesso libero al mondo e alla rete spaventa. In entrambi i casi è paura di altro, paura di ciò che non si conosce come chi vi è nato (i nativi digitali appunto), che può far smarrire la strada e le origini e che comunque non si è in grado di dominare come i nostri nativi/apprendisti/interpreti. Paure fondate, alle quali vanno trovate risposte responsabili, aperte e non repressive, perché impedire ai bambini una precoce familiarità con questa nuova struttura digitale del mondo vuol dire tagliarli fuori dal futuro. Una riflessione di
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questa portata con i genitori e tra genitori e insegnanti è appena cominciata e il nostro è un piccolo contributo. E gli insegnanti? Gli insegnanti, non più “signori dell’aula”, sembrano in media avere, come categoria custode del sapere tradizionale, meno familiarità con il nuovo ambiente digitale di molte famiglie oppure esitano a trasferire nella loro professionalità queste esperienze e saperi che restano nel privato, fuori dalla scuola (capitoli 2, 4). Nella scuola la nuova struttura del mondo digitale diventa la patente ECDL o un tema di maturità sulla rivoluzione tecnologica… Diviene il “laboratorio di informatica” o “come fare un programma”, raramente il mondo digitale e le nuove tecnologie della comunicazione sono messe a tema trasversalmente e analizzate criticamente come linguaggi e modo di apprendere e di studiare da confrontare metacognitivamente con quelli cui siamo più avvezzi. Linguaggi e metodi da sperimentare accanto agli altri per confrontarli, scoprirne le diverse possibilità, contaminarli. Gli insegnanti vivono con fatica la posizione di “immigranti digitali con accento” e il rischio o la paura di perdere e far perdere i saperi che custodiscono e dei quali sono veicoli privilegiati. Timori fondati comprensibili anche questi ai quali la riflessione e la formazione deve aiutare a rispondere. Le rappresentazioni degli insegnanti, più di quelle dei genitori sono, questo emerge dalla nostra ricerca, prevalentemente negative e gravide di timori per i bambini di questa età. L’abisso della rete appare più spaventoso della possibilità che i piccoli, potenzialmente nativi, non si trovino anch’essi a essere minoranza immigrata. Su questo è necessario lavorare così come è necessario un confronto tra pari, tra genitori, tra insegnanti e con i bambini. Su questo ultimo aspetto la nostra ricerca ha mosso solo i primi passi e dovrà svilupparsi in futuro anche mettendo a confronto, fuori dalla segregazione per età tipica della nostra scuola, generazioni diverse, bambini e adolescenti.
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DOMANDE APERTE Se i timori, la confusione, le esitazioni e i dubbi di genitori e insegnanti vanno analizzati, compresi e in buona parte superati alla luce delle ricerche, delle esperienze e delle riflessioni delle quali disponiamo, messe a disposizione dalla letteratura ormai molto ampia anche se ancora poco focalizzata sui piccoli e arricchita dei primi passi della nostra ricerca, alcune domande andranno approfondite ancora per molti anni, seguendo e documentando gli stili di esplorazione, di uso, di relazione che il nuovo mondo tecnologico suscita nei bambini. Come valutare la “distrattenzione”, come la si definisce nelle pagine che seguiranno (capitolo 1, p. 31), l’attenzione fluttuante sempre allertata e sempre spostata, lo stato di eccitazione e noia a un tempo che si riscontrano nei ragazzi impegnati con le nuove tecnologie per esplorare, curiosare assaggiare qua e là, girovagando in rete? E come conseguenza quale deve essere il ruolo educativo – fondamentale ma certamente diverso – degli adulti immigrati nei confronti dei loro cuccioli nativi? I piccoli con il loro modo naturale di esplorare e di condividere e di scoprire le possibilità strumentali di qualsiasi oggetto attraverso la potenza del simbolico che esplode dal terzo anno di vita – il manico di scopa diviene cavallo, il computer diviene… – diventano un soggetto privilegiato di osservazione e ricerca rispetto al modo in cui si appropriano delle nuove tecnologie. Proprio la loro relativa resistenza alla dipendenza dagli oggetti, dai singoli linguaggi e dalle abitudini in un’età nella quale, una volta garantito il benessere degli affetti, attraverso il gioco e l’esplorazione tutto è possibile, rende la costruzione insieme a loro di percorsi di educazione ai nuovi media utili anche a noi “immigranti digitali”. I bambini dei cento linguaggi possono essere un universo da osservare e conoscere meglio nella loro appropriazione nativa delle tecnologie prima che i giochi siano fatti e l’uso che i nativi preadolescenti o adolescenti fanno delle tec-
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nologie e della rete li porti a vivere una socialità sbilanciata nel mondo virtuale. Quali modi di stare insieme inducono le tecnologie? I genitori che abbiamo ascoltato si pongono questa domanda importante. Hanno scelto la scuola dell’infanzia – prima ancora scelgono il nido – innanzi tutto affinché i loro figli imparino a stare con gli altri e stando con gli altri apprendano le regole del vivere insieme. Questa motivazione è sempre e ancora la prima, come indicano molte ricerche, seguita dalla capacità di esprimersi e di essere creativi e solo in terza posizione da quella relativa ad apprendimenti più strutturati (Mantovani, Anolli, Agliata, Zaninelli, 2008). Motivazioni sagge che vedono nella scuola un luogo dove l’esperienza sociale ridotta dei loro bambini che vivono per lo più in un mondo di adulti, può venire riequilibrata e arricchita. Come si sta insieme con le nuove tecnologie? Il computer e la rete – ma anche i cellulari – permettono “insieme”, come? Gli adolescenti cercheranno nella rete “molta personalizzazione e molto sharing” una sintetica definizione di adolescenza che sembra riprendere efficacemente il tema della tensione del dibattito tra individualizzazione dell’offerta didattica e scuola uguale per tutti. Come si colloca la scuola di fronte al bisogno di ogni bambino e di ogni ragazzo di sentirsi unico e riconosciuto (con le sue tracce sempre più nitide di bambino fino al blog di adolescente) e nello stesso tempo in costante contatto con i suoi pari e la gestione democratica e condivisa, l’accesso offerto generosamente di tutte le conoscenze? Come si può osservare e orientare questo processo fin dai primi anni? Stili di apprendimento, attenzione e modi dello stare insieme si connettono in quella “attenzione senza sguardi” che sembra caratterizzare il modo di comunicare attraverso gli oggetti tecnologici: si guarda il computer insieme mentre ci si parla, si guarda la slide di PowerPoint invece di chi ci parla, si parla al telefono gesticolando e guardando nel vuoto, si comunica attraverso il computer senza vedersi e
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senza potersi guardare negli occhi. “Non fotografarmi, guardami!” dice una bambina alla mamma che fotografa lo spettacolo del quale è protagonista nella festa di fine anno alla scuola dell’infanzia. Lo sguardo è il primo veicolo della comunicazione e il linguaggio, nei suoi primordi pseudodialogici, si crea dai primi scambi di sguardi tra il neonato e chi si cura di lui, dalle strategie attraverso le quali l’adulto cattura lo sguardo, trattiene l’attenzione e la porta con il tono della voce e del gesto verso un oggetto di attenzione comune: “Guarda…!”. Le madri dei bambini non vedenti trovano allora strategie alternative, attraverso il tatto e il movimento per creare queste catene di attenzione comune senza le quali la comunicazione non è possibile e il piccolo non svilupperebbe competenze sociali e linguaggio (Fraiberg, 1999). La conversazione implica il guardarsi, il dialogo a due ancora di più. Il computer estende l’isolamento bizzarro di chi parla al telefono sempre con qualcuno che è altro e più importante di chi è lì, o invece incoraggia una socialità più ricca che dalla distanza e dall’assenza della potenza emotiva dello sguardo trae il vantaggio di poter creare un possibile spazio di riflessione e di incoraggiare la scrittura non solo fatta di faccine ed emoticon? Se sempre più spesso e per più tempo queste saranno le esperienze sociali dei ragazzi attraverso la tecnologia, come può la scuola creare contesti che non ignorino questa esperienza ma che siano complementari e che privilegino modalità di stare insieme nelle quali gli sguardi e le mani oltre che le menti lavorino insieme? E allora le classi così come sono disposte e le lezioni così come sono possono raggiungere questo scopo o invece oggi più che mai abbiamo bisogno di una scuola-laboratorio, di una scuola-officina, di una scuola-cantiere, ma anche di una scuola dove vi siano tempi per leggere e poi per discutere, faccia a faccia nella scuola; scuola dove si possa avere un angolo morbido e confortevole per leggere, dove si possa passeggiare e discutere con i maestri e gli altri discepoli?
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Anche in questo caso l’organizzazione della scuola dell’infanzia appare oggi vicina a una comunità della conoscenza non solo virtuale e proponiamo di studiarne più a fondo l’ambiente e le possibilità, conservandone quelle caratteristiche antiche che sono oggi particolarmente necessarie. Questa organizzazione dello stare insieme per pensare, discutere e apprendere è anch’essa cultura tanto e forse più del programma di conoscenze da acquisire. E il tempo? Il tema del tempo emerge nella riflessione dalle parole di molti che abbiamo ascoltato: quali tempi per apprendere oggi? Quali per pensare? Come si segmenta il tempo e l’attenzione? Quanto ne viene usato per trovare e comunicare a fronte di quello impiegato per riflettere ed esercitare? Indubbiamente la macchina polarizza l’attenzione per molto tempo, ma è un tempo che approfondisce o che semplicemente fa surfing in superficie? Il tempo dei bambini è un tempo dilatato e prezioso, intenso e molto lento: a quattro anni giocando il tempo vola, ma sempre a quattro anni una settimana sembra lunga un anno... Come modificano il tempo esistenziale le nuove tecnologie? Come possono gli adulti, la scuola, governare questa dimensione? La vita quotidiana, la vita in famiglia costringe a tempi continuamente interrotti, spezzati (Ferri, 2005, pp. 135-150). Da questo punto di vista la scuola dell’infanzia sembra essere un’oasi dove l’esplorazione fino in fondo, l’esercizio ripetuto fino in fondo attraverso il gioco e non il compito, i progetti che durano tutto l’anno – chiamiamoli filo conduttore o sfondo integratore o semplicemente progetti a seconda dei riferimenti preferiti dalla scuola dei piccoli – un potente possibile “decondizionatore” dallo zapping frenetico e dai “troppi file aperti” che può includere con attenzione e con cautela ma senza timore di includere in questa esplorazione lenta, minuziosa e creativa tutti gli oggetti e gli strumenti. Per i bambini non è un problema, ma il regista – l’adulto – deve essere presente, attento ed essere in grado di osserva-
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re, documentare, comprendere, provocare, rilanciare, equilibrare e riportare poi i bambini a ricostruire e ripensare i progetti e i percorsi seguiti per realizzarli. Oggi i bambini in età di scuola dell’infanzia in Italia non vivono ancora, tutti, la presenza delle tecnologie in famiglia. Forse il rischio è oggi che vi accedano tardi e come seconda lingua piuttosto che come i nativi di altri paesi. La scuola con questo deve confrontarsi. La tecnologia, le domande che pone, i timori che suscita sembrano rendere attuali ed essenziali le idee di fondo della pedagogia dell’infanzia italiana ed europea (Mantovani, 2006) di fronte al nuovo ambiente di vita e di apprendimento dei bambini e assegna un ruolo fondamentale agli insegnanti.
LA FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI Il nostro lavoro, che verrà presentato nei capitoli che seguono, pur essendo solo agli inizi, ha investito molto tempo ed energia nella formazione degli insegnanti (capitolo 5). Formazione che si è configurata e che proponiamo non come training bensì come sviluppo della consapevolezza professionale, come Bildung e cioè come apertura colta e critica verso il nuovo mondo nel quale i bambini cresceranno. Questa formazione è perciò per sua natura aperta e dialogica, mira a familiarizzare gli insegnanti con la cultura tecnologica e con i suoi strumenti e non fornisce risultati che possano essere tradotti in percorsi o percorsi didattici definiti. Mira piuttosto a problematizzare, a suscitare consapevolezza, a generare confronto, a ridurre l’ansia e il senso di inadeguatezza e quindi a rendere meno difficile assumersi, nel nostro tempo, la responsabilità di adulto-regista e di insegnante-ricercatore. I cambiamenti indotti dall’era tecnologica sono cambiamenti antropologici (capitolo 1), e dunque i metodi che per
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ora abbiamo utilizzato attingono anche dall’antropologia (Tobin, Wu, Davidson, 1989) ma anche dalla potenza di tecnologie come il video, la moviola che consente di rivedere, analizzare, discutere, ricostruire. Nella prima fase abbiamo osservato, documentato, poi filmato, in seguito montato dei filmati combinando naturale con artificiale per ottenere dei reattivi di rapida efficacia (Tobin, Bove, Mantovani, 2007) che hanno consentito di discutere con genitori e insegnanti e anche con i bambini, sollecitati da uno stimolo esterno quale le videoregistrazioni che noi mostriamo e nelle quali è possibile essere testimoni di brani dell’esperienza e dell’esplorazione attiva e reale dei bambini e non solo dell’esperienza immaginata o temuta. In una seconda fase, più estesa e della quale si dà conto in questo testo (capitolo 5), si è consentito agli insegnanti di approfondire e di discutere le proprie rappresentazioni e i propri timori e di riassumere la consapevolezza delle proprie competenze e responsabilità. È solo l’avvio di un percorso che dovrà dagli insegnanti stessi trovare spunti per svilupparsi. Come formarli allora? Non certamente delineando una didattica delle nuove tecnologie nella scuola dell’infanzia. Piuttosto ipotizzando che le tecnologie possano consentire prima di tutto a loro di esplorare in modi nuovi o addirittura di arricchire ed estendere i campi di esperienza; se gli insegnanti si sentiranno più sciolti e tranquilli nella loro competenza di “immigranti digitali”, competenza costitutivamente diversa da quella dei piccoli nativi ma assolutamente necessaria per orientarli nel mondo, potranno – insieme ai bambini – creare contesti di apprendimento equilibrati dove il nuovo non sia escluso ma dove tutti i linguaggi possano essere ascoltati, espansi e messi in interazione. Vi sono già numerose esperienze nelle scuole dell’infanzia italiane che documentano come questo sviluppo sia possibile.
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IL PIANO DELL’OPERA In questo testo presentiamo i progressi della nostra ricerca sviluppati attraverso l’analisi delle ricerche e della letteratura, le discussioni con insegnanti, bambini e genitori e le riflessioni emerse da un esteso progetto di formazione. Il volume è strutturato nel modo seguente: il primo capitolo illustra le teorie, le epistemologie di sfondo, le coordinate teoriche e le ricerche qualitative e quantitative, che hanno guidato il nostro lavoro, in particolare si focalizza sul tema del confronto tra “immigranti” e “nativi digitali”. A partire dai risultati di una recente ricerca dell’OCSE dedicata ai “New Millennium Learners” (Pedro, 2006), vengono cioè delineati i tratti di una “rottura” generazionale e sociale sempre più evidente tra i “figli di Gutenberg” e i digital kids (Prensky, 2001, 2006) nei comportamenti relazionali, comunicativi e di apprendimento. Il secondo capitolo si sofferma sull’approccio alla tecnologia degli “immigranti digitali” una relazione che è caratterizzata da una forte componente di strumentalità e da un forte orientamento a uno scopo produttivo immediato. Gli adulti presentano, come dimostrano i dati della nostra ricerca, un distacco molto maggiore nei confronti del computer e delle tecnologie digitali rispetto ai bambini nativi digitali e questo vale maggiormente per quegli immigranti digitali un po’ speciali che sono i maestri e gli insegnanti. Proviamo ad offrire al lettore, attraverso l’analisi dei focus group e dei risultati di ricerca, una fotografia delle difficoltà che i professionisti della scuola incontrano nell’adattarsi al “mondo nuovo” della comunicazione didattica digitale. Ai nativi digitali e al modo in cui si appropriano della tecnologia è dedicato il terzo capitolo. I bambini approcciano la tecnologia in modo molto più naturale e spontaneo di quanto ipotizzato dai loro maestri e insegnanti. I risultati di ricerca sono integrati da una rassegna delle principali ricerche, internazionali e italiane, che hanno affrontato il
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tema del rapporto tra bambini e tecnologie: “stato dell’arte” sull’approccio dei piccoli al computer e a Internet. Nella categoria degli immigranti digitali poi esiste una seconda tipologia di soggetti, oltre agli insegnanti, di grande rilevanza per i nostro lavoro di ricerca, si tratta dei genitori dei digital kids, cui è dedicato il quarto capitolo del volume. Le rappresentazioni che i genitori hanno nei confronti della tecnologia e le loro modalità di appropriazione degli strumenti informatici e telematici sono, infatti, fondamentali per comprendere le modalità e le pratiche di appropriazione digitale dei bambini. È in famiglia, infatti, che avviene il primo contatto dei bambini con i computer, Internet, i cellulari, le macchine fotografiche digitali ecc. e gli atteggiamenti dei genitori rispetto alla tecnologia sono una variabile molto rilevante per comprenderne i comportamenti di “appropriazione digitale” dei bambini. Il lavoro di ricerca che presentiamo si è intrecciato, durante gli anni, con un produttivo lavoro di formazione sul campo degli insegnanti della scuola dell’infanzia, progettato insieme e con il contributo del Ministero dell’Istruzione e della Fondazione IBM. Queste esperienze di formazione, che sono state progettate a partire dalle ipotesi ed evidenze della ricerca, ci ha permesso di creare nel tempo un circolo virtuoso tra attività di ricerca e attività di formazione che è andato a integrare e a fornire ulteriori materiali e spunti di riflessione per il percorso di ricerca intrapreso. Questo intreccio tra ricerca e formazione ci ha permesso poi di realizzare uno degli obiettivi primari del nostro lavoro di ricerca: la progettazione, la realizzazione – insieme ai bambini e agli insegnanti che hanno lavorato con noi – di percorsi significativi di formazione degli operatori della scuola dell’infanzia; percorsi di cui diamo conto nell’ultimo capitolo del nostro lavoro, e che ci auspichiamo contribuiscano a colmare la divaricazione che nella nostra società e in particolare nel mondo della scuola si è creata tra nati e immigranti digitali.
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Il dialogo avviato con i lettori può proseguire al di là di questo libro, sul Web. Abbiamo creato un blog che contiene ulteriori materiali di approfondimento, notizie sugli sviluppi della nostra ricerca, e che soprattutto vuole dare voce ai commenti e alle discussioni che ci auguriamo il libro susciterà. L’indirizzo del blog è http://digitalkidsbicocca.blogspot.com/.