Andrea Bonvicini
COME LA PIOGGIA racconto
"Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non tornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero " (Isaia 55, 10-11)
Marzo 2009
Come la pioggia – Andrea Bonvicini
Il sigillo della bottiglia è strappato, la torsione che ieri sera gli ho impresso lo ha lacerato nettamente, seppure un lembo lì a sinistra ha seguito di più la rotazione del tappo e resta ora sollevato e quasi pendulo, incrociando le verdi linee ondulate da banconota. Non ho altro se non frammenti come questi e la mia coscienza ci sguazza dentro indecisa, cullata dall’aspro dell’alcol che sale su dal collo della bottiglia. Eccessi di ricordo, ormai solo francobolli scaduti. Ne è passato del tempo, ma in fondo credo sia meno di un mese. Cristo, vale altrettanto che dica “una vita”. Follia per le strade all’inizio. Poi solo sbandamento e abbandono, tutt’intorno. In me direi piuttosto un ironico scetticismo, il sopracciglio alzato del “l’avevo sempre detto, io!”. Devo mollare il caldo di questa stanza. La radio gracchia e la TV blatera. Niente di nuovo. Ma ora è tutto sospeso, e lordato dalla follia di questi giorni. E poi ci riguarda tutti, non più me solo. Le parole sono fuggite lontano e rimane questa frittura mista di suoni inarticolati: c’è ancora forse qualcuno che le pronuncia, le parole (si può ancora dire così?), ma non c’è ormai più nessuno che possa distintamente coglierle. Immagino il volto sudato e disperato di chi in questo momento nella stazione radio ancora si ostina a provarci: parla, grida, sbraita, di sicuro implora o impreca, prova così a spiegare (o chiede che glielo spieghino?) quello che ci ha travolto. Ma non c’è riscontro alcuno alle sue parole. La stessa cosa che sta accadendo nello studio televisivo: qui però le facce stravolte, disarticolate, sono costretto a vederle e mi coglie un conato di vomito. La macchia verdastra e acidula sul tappeto non mi schifa più di quel che vedo, e il muggito che mi esce dalla bocca assieme al pasto non ha più senso di quel che sento. Mi pulisco la bocca alla bell’e meglio con un fazzoletto di carta, sfregando sulla barba aspra di molti giorni e me ne vado. Mentre chiudo la porta, la TV graffia ancora l’aria. *** Lo spasimo di quell’abiezione è un’atroce attesa, ma anche educazione sentimentale dell’homo novus. Perché sono stato io la causa, l’inizio di tutto questo. Mi è stato chiaro fin dal primo momento, lì davanti alla caffetteria al numero 22. *** Ero svogliato quella mattina, un aprile incredibilmente caldo – Del caffè può fare la differenza – pensai, e così mi avviai lungo la strada uscendo dalle scale di marmo. Arrivato all’angolo non mi stupii di vedere un certo numero di persone fuori dalla porta del locale, era normale trovarci a tutte le ore piccoli gruppi di persone attirate dalla buona birra. Fui infastidito però arrivando alla porta: una ressa di giovani si accalcava davanti al bancone con modi spiacevoli e uno spiacevole odore. Tentai, fiaccamente, di arrivare al banco per chiedere una tazza di caffè nero, ma (odi profanum vulgus et arceo) fui respinto dalla mia stessa indecisione, timidezza travestita di alterigia. Esitai un attimo sulla porta di legno e vetro, combattuto da un riflesso di senso di colpa, e quando mi decisi definitivamente a uscire sbattei in un tizio vestito di nero che entrava a testa bassa. Imprecai mentalmente contro di lui e sulle teste di tutti quanti là dentro, mentre l’afa della giornata mi risucchiava a sé uscendo sulla strada. Mi incamminai, ma qualcosa in definitiva mi tratteneva lì, la sensazione di un incognito noto. Mi voltai a guardare indietro, mentre ancora camminavo, e vidi di nuovo la figura nera di quella persona, inquadrata di spalle dagli stipiti della porta. Mentre terminavo di voltarmi si allontanò di fretta, non era a più di due metri da me. Nello stesso istante la vetrina della caffetteria esplose e fui investito (lo vidi arrivare) da un urlo nero sfrangiato di bianco, un’onda solida d’aria e vetro. Vidi distintamente le schegge venirmi incontro, investirmi e sorpassarmi. Ripresi conoscenza poco dopo, credo, e mi ritrovai carponi, la testa in un mondo di gomma dura, il fiato strappato dai polmoni, bruciato l’ossigeno dalla vampa di un istante. In bocca sapore di fame e un odore nero tutto attorno. [2]
Come la pioggia – Andrea Bonvicini
Boccheggiai e mi alzai attaccandomi al muro. Guardando dove un istante prima c’erano le vetrine del caffè, vidi solo le occhiaie vuote di un teschio. Vuote. Vuoto! Non cadaveri e sangue come mi attendevo. Nulla di tutto ciò. Il locale era intatto ma vuoto, le persone soltanto annichilite, risucchiate fuori di lì, bruciate, esiliate o annientate dalla bomba (che altro poteva essere stato?). Entrai scavalcando il basso parapetto della vetrina e mi avvicinai. Sul tavolo più vicino ancora due tovagliette di spessa carta ocra, un boccale di birra, una tazza di caffè. Ma nessuno attorno. Tutto questo mi gettò nel panico, animalesco panico di fuggire da ciò che non si comprende, dal gorgo nero. Incespicando cominciai a correre per la strada deserta, desertificata. Voltai l’angolo con l’angoscia di essere solo, di esser restato solo al mondo. Sbattei, invece, di nuovo. Questa volta in un gruppo di persone, ognuno correva, e in direzioni diverse. Quell’impatto sulle prime mi confortò: riportava un ordine in quella sequenza assurda. Quando allargai però lo sguardo, rimpiansi la calma immotivata di qualche istante prima. Ero sull’angolo di una vasta piazza e ovunque volgessi lo sguardo era solo caos e follia. Persone correvano, altre cadevano, travolte e calpestate. Almeno una cinquantina di auto si erano incastrate una nell’altra e altre ancora provavano a svoltare l’angolo, solo per incontrare una ancor più insuperabile muraglia. Ma non fu tanto questo a sconvolgermi. Gli sguardi, gli sguardi allucinati delle persone, i volti contratti e distorti, le bocche spalancate, tutti travolti da un’indefinibile assalto di inspiegabile frenesia. Un odore di paura e follia aleggiava su tutto, acido e bruciato in uno, un fetido fiato di follia che esalava violento dai corsi confluenti nella piazza. Ne veniva un vento caldo, sinistro, come se dal fondo dei viali un immane pistone spingesse aria persone e follia a riversarsi nella piazza, per poi vomitarli di nuovo, disperdendoli fuori di lì. Annichilito stavo appoggiato con le spalle al muro di un palazzo. Stetti a guardare, non so per quanto. Ma non dev’essere stato a lungo perché non riuscivo nemmeno a respirare. Urlai. Ma non sentii nulla. La mia stessa voce non mi raggiungeva. Ne fui scosso e alzai lo sguardo. Una nuova certezza, peggiore della prima: non una sola voce mi raggiungeva. Certo, molti urlavano, lo vedevo dalle loro bocche spalancate e tese, ma nessuna voce mi giungeva. Ma nessuna voce, non nessun suono, un assurdo film senza sonoro. Mi accasciai per terra e misi la testa fra gambe stringendola dolente, dondolandomi per lenire il dolore. Perché quell’assenza delle voci? Non silenzio, solo le voci mancavano. Ero ormai vicino a capire e ne volli la prova. Abbrancai per le spalle un uomo che passava correndo e lo sbattei con forza contro un semaforo. Sentii distintamente il suono cavo prodotto dal cozzare violento della sua nuca sul palo e stavo per desistere. Mi guardava con occhi sconvolti e pieni di paura. Gli urlai qualcosa (non ricordo). Panico e rabbia schiumarono sul suo volto mentre mi urlava addosso: urlava, ne ero certo, le vene sul collo erano grosse come sonde gastriche, ma il suono che ne avevo era uno squittio, un frinire di grillo, l’acuto di elitre freneticamente sfregate. Mollai stancamente la presa e alzai gli occhi: ormai sapevo, il sospetto di una vita era certezza. Alzai lo sguardo. Sul tetto del palazzo che avevo di fronte, da sempre quattro lettere mastodontiche pubblicizzavano i grandi magazzini della città. Lo sapevano tutti. Sì, le lettere erano ancora quattro, ma non più quelle, anzi nemmeno più lettere erano. Mi bastava tenere lo sguardo un attimo fisso sulla cima del palazzo perché si sciogliessero danzando in un vortice di segni insensati. Quattro lettere di acciaio e vetro, almeno di un paio di centinaia di chili ciascuna e, nel mio sguardo, ballavano beffarde sul tetto. Volsi lo sguardo attorno: un alto cartello di indicazioni stradali conteneva solo segni primitivi. I piccioni, una fila sul bordo superiore del cartello, si dondolavano irridenti. Capii il panico e la follia che vedevo attorno. Ogni parola, e ogni voce a maggior ragione, erano dunque ridotte così, private di senso e segno. Capii che tutto questo era accaduto solo per me, anzi, ne ero io la causa. Fuggii. *** Corsi a casa, in cerca di un rifugio, di un luogo di certezza. Crollai a terra entrando e mi addormentai lì per terra, steso sul tappeto di fibra di cocco. [3]
Come la pioggia – Andrea Bonvicini
Dormii probabilmente per giorni, in un alternanza di un sonno simile alla sospensione del coma e brevi veglie allucinate. Non so che ora fosse quando mi svegliai davvero, sulla guancia la forma della trama tappeto mi aveva tracciato un disegno stranio e doloroso, lo sentivo con la mano. D’improvviso ricordai cos’era successo. Mi immobilizzai e ascoltai. Ascoltai il silenzio: saliva dall’impiantito e sorgeva spinto dal basso tra le fibre del tappeto, si accumulava nella stanza, sostanza man mano più spessa. Non silenzio che separa due suoni, solo silenzio che genera altro silenzio, si infittisce progressivamente, alterando la stoffa stessa della luminosità degli oggetti, attenuandoli ma al tempo stesso liberandoli, dotandoli di materia luminosa diversa. Il silenzio che da anni era stata sostanza dei miei respiri era ora il respiro del mondo, e si faceva largo, ingordo, ristrutturando la struttura fine degli atomi, generazione e costruzione di un feto che sarebbe certo nato, di lì a poco. Nemmeno lì dentro ero al sicuro. Tanto valeva tornare fuori. Mi aggirai a lungo in una città deserta. Man mano che mi addentravo nel cuore delle vie mi chiedevo la ragione di quell’assenza di segni umani. La città, quel silenzio e le vie vuote. Pareva che ognuno avesse abbandonato la posizione lasciando solo le reliquie dei propri passati costumi, i biglietti dei tram, le lattine schiacciate, le impronte dei cavalletti delle moto nell’asfalto molle. Rimaneva la vita, rigogliosa si sarebbe detto, a giudicare dal numero dei gatti che vedo, ma nulla di umanamente organizzato. Passai davanti al grattacielo del potere e mentre lo guardavo le porte sbatterono violentemente, facendomi sobbalzare di lato. Ne uscì non una scorta armata, ma un branco di cani. Se avessi visto la Morte e il Cavaliere non ne sarei rimasto meno istupidito. Strana nemesi: a lungo auspicata, su una città nemica dell’uomo e che ora l’uomo ha abbandonato. Mi muovevo circospetto, man mano sempre più dubitoso di trovare qualcuno. La città sembrava abbandonata, intatta nelle sue forme esterne, ma squassata nelle sue forme umane. Avevo incontrato, ormai, segni inequivocabili di quella devastazione: auto bruciate, vetrine spaccate, negozi sventrati e la merce sparpagliata per strada. Mi domandavo la ragione di tutto questo, ma soprattutto mi era evidente lo stato di abbandono in cui tutto giaceva: la città, quella città di vetro, ferro e denaro si era tramutata ormai in luogo di scavi archeologici e lo scienziato che la scavava, anzi l’anatomopatologo a cui l’autopsia era affidata, ero io. Passando ne toccavo qualche brandello, ne sollevavo un lembo ormai marcio e scostavo tessuti in disfacimento, ma nulla sembrava potermi spiegare la causa di quella morte. I molti giornali che vidi, svolazzanti tra le vie o incastrati nelle griglie, non mi erano di nessun aiuto. Esitante li raccolsi ma le lettere si impastavano in una danza macabra nei miei occhi. Ogni parola era morta, parola, fiato o segno che fosse. Una condanna, probabilmente definitiva *** Ora è vuoto, tutto è vuoto, senza le parole tutto è solo vuoto, e derisione beffarda del tentatore, sghignazzo altissimo di colui che si è impadronito dell’uomo, privandoci del bene più alto, le nostre parole. Deserto e vuoto. Non ne usciremo vivi, ha vinto il nemico. *** Ci è stata revocata, potrei dire così, la licenza d’uso delle parole, il che equivale evidentemente a una condanna. Torno cioè alla prima ipotesi. E questo ci pone, per dirla con Testori, “in exitu”, definitivamente. Definitivamente “in exitu”: cioè ci ritroviamo (scopriamo?) “in nihil ab nihilo”. Queste parole (erano su una lapide sepolcrale, o sbaglio?) disegnano un movimento, e c’è qualcuno che questo movimento lo mette in atto. “Ab nihilo tracti” prima, e poi “in nihil relicti”, forse anche rejecti. “Tertium datur” in questo: il rapporto delle nostre parole, ora che ci è negato, assai più chiaramente indica che un terzo poneva la possibilità stessa del rapporto, cioè delle parole. Ora è (ancora) più chiaro. Ma potremo risalire la china? C’era una sfida nelle parole, un punto di fuga. Ora che questa sfida ci è negata (anzi, noi abbiamo negato la sfida, ed essa ci è stata tolta negandoci la parola rivelatrice), ora, potremo noi per altra via risalire? Non restano che due tesi. O le parole ci erano state date, affidate in dote, ed ora irosamente tolte, oppure esse stesse, oppresse, hanno deciso di disertare, di lasciare, tradire la causa a cui le avevamo costrette, di abbandonare lo schiavo lavoro in cui le facevamo languire. Hanno tolto il giogo dal collo e ora la pesante macina è ferma. [4]
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Non fa differenza: la nostra razza è condannata. Esiste un nuovo versante della china o stiamo languendo nell’ultima ora? che cosa potrà redimerci da questa condanna? *** Vagabondo, senza meta in fin dei conti. Sono in un giardino: attorno si affolla una straripante vegetazione tropicale. Sul terreno si intravedono le vasche bianche dei muretti ben curati, quasi sommersi da una lattuga che fa da scuro tappeto al resto della vegetazione. Ha foglie tridattile, sugose come baccelli. In questo tappeto continuo si aprono faticosi globi di altre piante bizzarre. Una mi impressiona in modo particolare, una pianta grassa con molte foglie adunche orlate di denti, mandibole raccolte attorno a un centro carnoso come bocche istericamente fameliche. Steli rinsecchiti si innalzano improvvisi, sfuggendo intimiditi da tanta violenza e sostengono spighe secche, forse un giorno cariche di semi o fiori, ma ora vuote. Respiro guardando questo quieto armageddon vegetale. Un cespuglio di foglie oliastre, piegate dure su se stesse sono dita che pregano rivolte verso l’alto. Ci fosse data questa possibilità almeno. Ma al nostro silenzio fa sponda il silenzio del cielo. Guardo in alto: tra le mura di cinta del cortile si apre un quadrato di cielo, azzurro come raramente se ne vede in questa città. Ma non credo che da lì ci verrà alcun aiuto: le parole che dovevano essere pronunciate, ormai sono state dette. La parola ha parlato. Ora tocca a noi. *** Esco dalla cerchia di mura e la luce più apertamente mi colpisce. Per la prima volta in questo tempo avrei davvero bisogno di udire voce che sia umana, di nuovo parole per uscire dal cerchio della natura e della morte. Mi imbatto invece nella figura scura che avevo incontrato poco prima dello scoppio. Le modalità sono misteriosamente, oscenamente identiche. La sua figura è la stessa, nera, mi volge le spalle: immobile, incorniciato dagli stipiti stretti della porta mi appare come un cadavere cereo deposto nella sua bara. O giudice su un alto scranno. Un istante dopo la figura è sparita, senza che l’abbia vista muoversi. Corro calpestando il letto di piante grasse, incespico e cado lacerandomi i vestiti nelle spine; mi rialzo con foga e guardo ansioso attorno, ma non ne vedo traccia. Non è vero, una traccia è questo fischio continuo nella testa che mi perseguita dal primo momento. Lo sento calare, sono ormai diventato molto sensibile alle sue variazioni, ed ora ho come la certezza che sia legato a lui. Mai aveva avuto intensità pari, dal giorno dello scoppio. Sento il sibilo spostarsi dentro di me e modularsi: sono sicuro che potrei ritrovarlo seguendo questa traccia. Lo farò, gli andrò dietro e lo troverò. Lo inchioderò a un muro e lo guarderò negli occhi. Non potrò chiedergli ragione, ma capirò. Capirò che c’è tra me e lui, cos’è questa inimicizia solenne, la sordità reciproca (o è solo mia?) che ha coagulato su tutti noi questa maledizione. Lo troverò, o mi perderò definitivamente. *** Mi sono procurato una sacca. Ne ho trovata una in stazione. L’ho vuotata con ribrezzo dei vestiti che conteneva: ci devo mettere le poche cose che mi possono servire per il viaggio. Così ho trovato un altro paio di scarpe e vestiti di ricambio. Ci tengo avvolta una bottiglia di cognac, il bene più prezioso. *** Percorro un largo viale che porta fuori dalla città. Fa caldo. *** Pare non ci sia nessuno che percorra la strada. Non ho bisogno di indicazioni (non provo nemmeno a guardare i cartelli), mi basta il fischio-guida. Sono certo che sia questa la direzione, la modulazione che sento nella testa è una persecuzione ma anche una certezza.
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Come la pioggia – Andrea Bonvicini
*** Dormo dove la stanchezza (o il buio) mi prendono. Non c’è un’unica direzione precisa, seguo lui. Il mattino talvolta il fischio è più sottile. Lui forse si muove anche di notte. *** Entro in un hotel, ho bisogno di mangiare e riposarmi, forse mi ripulirò anche. Mi dirigo come prima cosa alle cucine in cerca del deposito. Sono vuote e pulite, solo un paio di carrelli portavivande d’acciaio rovesciati a terra, probabilmente troverò qualcosa. Annuso l’aria, di solito è un acre odore di marcio che mi guida verso la dispensa. Eccola. Mi affaccio a un oblò quadrato in vetro che si apre nella porta di listelli di legno di un colore bruno e arancio sotto la vernice scrostata. Vicino alla leva di chiusura il legno invece è liscio e lucido per l’uso. Dentro non si vede nulla, è buio. Sblocco la leva ed entro, facendomi avanti nella poca luce che mi viene da dietro alle spalle, ma la suola mi scivola di lato su materia vischiosa. Sto per cadere e sbatto in una massa pesante e dura che oscilla. Bestemmio e mi do del cretino perché non ho usato la torcia che ho nella sacca, me la sono procurata in questi giorni. Frugo a tentoni finchè non la trovo e la accendo. Davanti a me ho il corpo di un uomo nudo appeso per le spalle a ganci da macellaio, le viscere aperte penzolano e sbattono tra loro seguendo l’oscillazione del corpo. Qualcuno ha voluto segnare il territorio e un possesso sul misero contenuto di quella cambusa. E oggi, come sempre è stato, ne riscontro il macabro lezzo di morte. Evito di guardare in faccia il morto e torno alla mia strada. Penso che mi dovrò procurare una pistola nella prossima città. *** Come siamo arrivati a tutto questo? Come ci è arrivato addosso questo abominio? Ma in fondo l’unica domanda è come ci sia arrivato io. Ed è l’unica domanda a cui valga la pena di rispondere, di cui abbia gli elementi di indagine, gli indizi e le prove. Dove e quando è cominciato tutto questo? Ricordo un tempo, e non era un tempo di illusioni, in cui le mie parole uscivano nitide, pulite, toccavano la realtà per come essa era ed erano di nuovo in me, messaggeri pronti a un nuovo viaggio, da me al mondo, dal mondo a me. Ogni cosa era liscia e definita per quanto complessa fosse. Non ero più giovane, non c’era approssimazione in quel che sapevo. E subito dopo sono vecchio, le parole incespicano, la lingua è arida e legata, le parole escono già sporche, sabbiose: faticano a correre, non ci provano nemmeno, e quando avvicinano la superficie della realtà la trovano scabra, spugnosa, colma di vuoti e di anfratti. Le parole rimbalzano e rotolano come sassi, riverberano, si incuneano nelle nicchie e nelle forre e sbattono negli spigoli delle pareti, laggiù sono venti freddi e umidi. In quegli spazi si aprono caverne e i fiumi hanno scavato spaccature profonde e incongrue, spazi, lisci di nuovo ma ingannevoli, sdruccioli e viscidi, e non c’è luogo di appiglio. Si affannano i messaggeri e cercano la via, scivolano e cadono lungo le pareti algose, le uniformi sono sporche e lacere, strappati e fangosi gli alamari e le insegne. Eppure stringono ancora a sé, sul petto, la sacca che contiene il messaggio, l’ordine perentorio che salverà l’impero. Tutta la loro persona è solo quel messaggio, non conta fatica, sangue o vergogna, il messaggio deve giungere al cuore dell’impero, alla reggia inviolata dove stanno attendendo il segno, il nutus imperiale che porterà la volontà di acciaio del padrone di tutto: basterà obbedire, dire sì e piegare il ginocchio per rinnovare la deferenza dovuta alla verità. Ma in fondo agli orridi canali di scolo, sulle pareti lisce e senza appigli le staffette non hanno trovato via d’uscita, e tornano ora, laceri e confusi, erano certi della loro missione ma ora tornano sconfitti. Incliti cavalieri, figli di eroi e di donne belle e tenaci, devono portare il peso della sconfitta davanti al loro re. Tristi e vergognosi depongono ai piedi del loro signore le armi e le sacche per riconsegnare il plico a loro affidato. Aprono gli involucri di cuoio e metallo, teche in cui il principe di guerra aveva posto il proprio comando. Ne esce polvere, secca, cenere e pianto. L’impero cadrà. Il volto del nemico è già alle porte, è vasto quanto il cielo e si china sulla bocca del re morente per carpirne l’ultimo fiato. *** Devo essermi addormentato di nuovo senza nemmeno accorgermene. Un cane mi lappa il viso. Vedo la sua testa da sotto, è grande e massiccia e oscura il sole nascente. Devo aver dormito. Mi riscuoto e [6]
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mi alzo seduto, poggio la schiena su un muretto sghembo. Ascolto il fischio, è ancora distinto come quando mi sono addormentato. Proseguo in direzione del sole, lui è davanti ma non è vicino. Il cane mi segue. Per un po’ sembra voler far coppia con me, ma poi sia allontana. Ne vedo ancora una volta sola la figura massiccia in fondo a una via, poi più nulla. Tiro fuori da sotto la giacca la pistola che mi sono procurato ieri. L’ho presa in un’armeria, è stato facile. La guardo bene per la prima volta. Dovrò provare a sparare qualche colpo. Più tardi. Mi accerto che la sicura sia a posto: il grilletto fa resistenza. Alzo la testa e ascolto il fischio-guida. È acuto. Vengo, vengo, ora vengo. *** Sono giorni che cammino. Sono sfinito, ormai. *** Mi sono detto che non è poi scontato che debba essere io a inseguire. Lo aspetterò qui. *** Sto aspettando. A pié fermo si direbbe in termini militari, se non fosse che non trovo nulla di marziale ed eroico in tutto questo. Il dolore nella testa cresce enormemente e occupa tutto lo spazio. Che farò? La decisione è presa, ma non ne so le conseguenze. È qui, lo so. Si aggira attorno, lo sento e non so se i cerchi che si stringono sono di belva pronta all’assalto o tentativo di penetrare la barriera di suono e dolore che ci separa. Che fai? Perché non vieni? Devo essere io? Ma io non ho parole, non ho parole. Perché non vieni tu? Io non posso. *** Entrerò qui, fa troppo caldo per strada e l’umido che sale dal mare mi strozza il respiro. C’è un vasto portico che circonda d’ombra un giardino fresco e ospitale. *** Lui è qui. Lo so. Non si può più rimandare. È ora, lo vedo. La figura è di nuovo nell’unica nicchia di luce, dall’altra parte rispetto a dove sono io, lì dove il portico si apre all’esterno. Mi pare non sia più di spalle ma non posso esserne certo. Mi chiedo se quando lo vedrò in faccia riconoscerò qualcosa nel suo viso. Il sole mi ferisce gli occhi e l’urlo è salito a una nota che non conosco nemmeno, grido di falco sulla schiena del toro. Andrò io da lui. Mi muovo e già nel rettangolo di luce non c’è più. Scavalco d’un balzo il muretto di cinta davanti a me e corro di taglio nel parco. Travolgo fiori e siepi. Sono uscito, è un vicolo stretto, eccolo, laggiù in fondo. Correre, correre! Come farò quando lo raggiungo? Si è accorto di me, si è girato, mi ha visto. Forse fugge, mi pare acceleri il passo. Sì, cazzo. Correre, corro, mi scoppia la testa. Dio che dolore. L’ho quasi raggiunto, ora, ora. “Spara, spara! Sparagli!”, chi ha gridato? mi giro, ma corro ancora e annaspo con le mani, la sacca, devo liberarmi della sacca sennò mi scappa. C’è la pistola dentro, mi sbatte pesante sull’inguine, la tracolla tra i piedi casco sbatto e rotolo, le mani, di faccia per terra, le mani le mani nella sacca. Eccola, la canna, ce l’ho, in mano. Dov’è? Cristo santo è lontano. Correre, la sicura, caricare, no è già in canna. “Adesso, spara, sparagli!” Chi è, chi grida? Non c’entra, non c’entra è ora. Calma, tendo le braccia davanti. Il cane, alzare il cane. Pronto, puntare. Punto. Basso sulle gambe. Punto, ora, dai! nasce un fiore nero tra le mie mani convulse e poi dalla sua schiena. Vacilla, corro sono abbastanza vicino, di nuovo sparo, alla spalla, il braccio che gira con lui piroetta marionetta, per terra. A terra. Gli sono addosso. Si divincola. Lo fermo con un piede, do di peso sul suo fegato, lo inchiodo per terra: piego la testa di lato e non lo guardo, mi faccio scudo con una mano e gli sparo, tre colpi, verso la faccia. Non sento gli scoppi, solo il risucchio con cui gli sbattono dentro, schizzi di sangue ogni volta. Lungo il braccio tre volte mi esplode una libertà e si ficca nel suo cervello. Ora giace ai miei piedi, ci sta tutto nella cunetta del marciapiede mentre il suo sangue cola via, è una pozzanghera già vasta. Mi appoggio a un camion e vomito, bile soltanto, non ho materia in pancia e [7]
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neanche pensieri nella testa. La pozza è rossa e verde e brilla nel nero dell’asfalto. Sono privo di forze, pieno di rabbia. In bocca sapore di mallo di noce. Sputo, gli tiro un calcio, nell’addome, un altro, un altro ancora. Sembra leggero, rotola in mezzo alle ruote del camion. Respiro in affanno. Odore, odore di morte, no, fetore, fetore e basta. Viene dal camion. Sono rifiuti, puzzo di rifiuti marci. Salgo in cabina e prego ci sia ancora benzina. Ci sono le chiavi, ci provo e il motore si accende. Annaspo tra le leve, una corta, rossa, comincia a alzare il carico dietro. La spingo a fondo e scendo. Le sponde si girano pesanti e mi oscurano la luce del sole sulla faccia: si scarica, un tonfo lurido, materia molle e vischiosa, doveva bollire là dentro da chissà quanto. Ora è sepolto là sotto. Non c’è più segno di quello che ho fatto, neanche dentro di me, mi pare. Mi allontano, raccatto la sacca e l’infilo a tracolla mentre cammino, ma mi devo fermare e pisciare. Mi appoggio al muro con il braccio, piscio con le gambe che mi tremano e mi bagno tutto addosso. La pistola è ancora in mano, sul muro, è urina e sangue, qualcosa dentro si è rotto. Non sento più il fischio nella testa ma una lama mi scava qui a destra in basso nel fianco. Mi siedo su un muretto accanto e mi appoggio con i gomiti sulle cosce. Le mani penzolano inerti in mezzo alle gambe e mi sfugge la pistola là tra i piedi. Ci arriva il rivolo rosso e giallo. “Dio che schifo, che schifo. E la voce, ma chi era?” sto urlando ma non serve a niente. Riprendo il cammino. Le forze sono quelle che sono. Dove vado? Non ho né guida né scopo. *** Che ho fatto? *** È ormai notte. Un temporale lontano: vedo solo i lampi dietro le montagne che si disegnano per un istante nella luce arancio, bassa in lontananza, quasi rosa dove si confonde con il buio. *** Il temporale è di certo più vicino, ma non sento ancora nulla. Devo quasi alzare la testa per vedere la luce dei lampi: è più vasta, bianca azzurra, ha meno consistenza di prima. Dietro le nubi traccia figure vaste come scenografie wagneriane: grandi alberi terrazzati, paesaggi, visi luciferini su corpi immensi. Porte, e un luogo in cui entrare, con violenza. I bagliori si infittiscono. Poi smette. La luna è velata. Ho fatto fatica a riconoscerla. Le nubi si sono scostate ed ora è appesa lì storta, innaturalmente grande, innaturalmente vicina. Mi metterò giù. *** Ho vagabondato tutto il giorno, ma è passato in un niente. *** Ritorno di nuovo in riva al mare. Mi accuccio qui. *** Mi sveglio di continuo durante la notte. Terzo giorno. Non mangio né bevo da allora e sono arso dentro, con la mano sento sulla faccia croste di sale e sabbia. La coscienza va e viene. Forse svengo, forse dormo. Mi riprendo con il corpo rigido e dolente, vorrei muovermi ma sono risucchiato nell’incoscienza. Deve essere poco prima dell’alba, forse comincia un chiarore alle mie spalle, ma c’è ancora la luna. Sono in una specie di buca nella sabbia tra vegetazione spinosa e dura. Mi fornisce un minimo di riparo. Attorno bottiglie vuote e altri relitti portati dalla marea. Si gela là fuori. Tira un vento arido, e non porta alcun suono. Vorrei gridare. Non grido (da anni?). [8]
Come la pioggia – Andrea Bonvicini
Nessuno risponde. Il silenzio sono io. Ascolti? Chi tu? Sì tu. Il silenzio sono io. *** La bocca è secca. Mi trascino a fatica fino alle prime onde e sto in ginocchio nell’acqua. Con le dita bagnate mi forzo le labbra e scavo nella bocca arida bagnandomi l’interno delle guance. Non mi da sollievo, ma l’amaro violento del sale mi scuote un po’. Mi butto acqua sulla testa, farfuglio qualcosa e torno carponi fino alla buca nella sabbia. Crollo di nuovo. *** Il mare davanti a me va e viene con le onde della coscienza e del delirio. Non so quando, ma vedo una donna (la mia donna?), come una cavalla secca e stanca. Poi l’uomo in nero ancora (di nuovo) vivo, i miei figli, i nemici e gli amici (quali gli uni? quali gli altri?). Vaneggio? *** Penso che sia finita. Dovrebbe esserlo. Mi resta il desiderio delle parole, della parola. Per il resto ho fatto fuori tutto. Tutto. Basta il desiderio? non mi sembra, non lo so. Vorrei bastasse. Chiedo che basti. *** Il tramonto è arrivato presto. Il sole sta per tramontare nel mare, lontano, e sono qui in piedi sulla spiaggia. Un vento teso mi viene addosso con tutta la forza del mare, sferza i vestiti che schioccano sul corpo proteso in avanti, quasi che fossi in attesa. Gocce fredde mi colpiscono la pelle, in faccia e sulle mani, schegge di vetro che non rinfrescano. Sono duro come una statua di pietra sulla costa e scruto l’orizzonte con occhi vuoti. Attorno sento che ci sono ora anche altre persone. Sono arrivate alle mie spalle quasi sbucando da sotto terra. Ne ho il sentore, come di bestie feroci e guardinghe. Quale richiamo ci ha portati qui insieme? Ma ognuno è qui solo. Il vento forma una barriera sonora attorno a me e un po’ almeno me ne rallegro. Sentissi il frinire delle loro parole mi butterei subito a mare. Il sole è ormai basso sulla linea dell’acqua: mi restano solo poche parole di abbandono e vergogna, potrebbero essere forse anche una estrema preghiera. Poi sento. Sento il vento urlare, la terra gemere, gli uccelli alti nel cielo gridare, le onde … e la gente, la gente parlare. La gente parlare! Ognuno parla da solo ma le fronti si alzano, gli occhi si animano e guardano e guardano le bocche che parlano e ridono e piangono. Gridiamo, acchiappati e sollevati sull’orlo del baratro. E diciamo parole, gioiose e scherzose, parole e parole, sulle bocche e negli occhi. Sulle bocche e negli occhi ci abbracciamo, uomini e donne. Un bimbo piccolo mi picchia le mani sul petto ridendo eccitato, non parla ancora, imparerà, certo che imparerà. Lontano il sole sta scendendo rovente nell’acqua e tutti d’istinto ci volgiamo a guardarlo. Il sole scolpisce i volti con lame di luce arancio e solchi d’ombra, non c’è più vento e scostiamo i capelli dalla faccia. Comincia tutto come una nota bassa, una vibrazione profonda dell’aria delle terra e dell’acqua assieme. Il sole sprofonda davvero nell’acqua e solleva un rombo di tuono, spruzzi di fumo e vapore. Si addensa in alto una colonna lucente che vibra di luce e suono. L’acqua ribolle, si avventa su di noi un vento caldo e impetuoso, fiato di drago e voce d’aquila: “Ti ho tratto dal nulla, potevi credere ti lasciassi solo e senza la mia Parola?” Il mare davanti a noi ne è prosciugato per miglia e miglia. Ritorna da dove era venuto e tutto è ripristinato, il mondo è cambiato. Cade una pioggia sottile, bagnandoci tutti.
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