Capire Daniele

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Titolo: Capire Daniele Autore: Antonio Caracciolo Redazione: Vittorio Fantoni Grafica e impaginazione: Valeria Cesarale Editore: Edizioni ADV snc - Falciani - Impruneta - FI Tel. 055/2326291 - Fax 055/2326241 Stampatore: Legoprint srl - Trento © 1998 Edizioni ADV Tutti i diritti sono riservati all’editore. Ogni riproduzione anche parziale con qualsiasi mezzo è vietata senza preventiva autorizzazione scritta dell’editore. Prima edizione: 1998 - Tiratura: 1.500 copie Finito di stampare nel mese di ottobre 1998

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Presentazione ____________________________

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li studenti di teologia dell’Istituto Avventista hanno sempre lamentato la mancanza di un testo in lingua italiana per lo studio del libro di Daniele. Adesso il testo c’è. C’è perché qualcuno lo ha redatto e perché altri si sono premurati di preparare il manoscritto per la stampa. Lo scrivente insegnava esegesi di Daniele da oltre vent’anni nell’Istituto Avventista «Villa Aurora» quando il suo direttore, il dottor Vittorio Fantoni, gli rivolse la richiesta di produrre un manuale per il proprio corso così come altri docenti avevano fatto per i loro. Non senza esitazione egli accolse l’invito. Determinante è stato il concorso del dottor Fantoni, sia per l’incoraggiamento ed il sostegno che ha dato allo scrivente, sia per quanto attiene al trasferimento del testo nel computer. Assai valida è stata poi l’opera di Valeria Cesarale, grafico della Casa Editrice ADV, che ha realizzato l’impaginazione del volume. All’amico Salvatore Vilardo l’autore esprime gratitudine per aver egli aggiunto, nelle citazioni bibliche originali, il testo ebraico alla sua traslitterazione in caratteri latini. Un vivo ringraziamento agli apprezzati collaboratori. Particolare riconoscenza lo scrivente deve a Manuela Casti per avere riveduto e corretto ove necessario le citazioni testuali e le parole in caratteri ebraici. L’autore non può tralasciare di menzionare la propria moglie Milena, la cui pazienza e tolleranza per sei lunghi anni gli hanno permesso di condurre a buon fine il lavoro intrapreso. A prescindere dalla sua destinazione primaria, il libro potrà essere letto da chiunque, con un piccolo sforzo di attenzione. Esso infatti è stato scritto col pensiero rivolto anche ai «non iniziati». Costoro potranno trovare ostici alcuni approfondimenti, specie nei punti in cui si fa riferimento al testo ebraico. Saltino tranquillamente quei paragrafi, che più che altro interessano gli studenti di teologia. Il resto non sarà difficile da capire. Una parola sulle metodologie che si sono applicate nella stesura del commento. La forma espositiva è quella analitica: un modo di commentare che risulta più minuzioso e penetrante dell’esposizione tematica. Il testo biblico è spiegato versetto per versetto, dal primo all’ultimo capitolo. Questa particolarità formale fa del libro un vero e proprio commentario. Il metodo interpretativo applicato alle visioni è quello storico-continuo; oltre a essere il più antico e a essere stato il più seguito nella lunga storia dell’esegesi di Daniele, questo modo di comprenderne le profezie trova legittimazione nel libro che è oggetto di studio. Benché nel presente volume l’ispirazione divina del testo danielico e le conseguenze che ne derivano siano tenute per presupposti irrinunciabili, l’attendibilità storica dei racconti e l’autenticità delle profezie non si danno sempre per scontati; quand’è possibile, anzi, gli uni si cerca di illuminare attraverso l’apporto della 5

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PRESENTAZIONE

documentazione storica e archeologica esistente, e le altre di leggere alla luce dei grandi eventi della Storia Universale. Potrà essere utile un accenno alla strutturazione del volume. Un’introduzione precede il testo esegetico. Vi si evidenziano prima di tutto i caratteri formali della letteratura apocalittica, di quella canonica come di quella apocrifa. Quindi vi si espone, in un quadro succinto, la storia dell’interpretazione del libro in esame, dall’antichità fino ai nostri giorni, Infine vi si elencano gli aspetti problematici che il testo presenta – quegli aspetti che hanno fatto nascere dubbi sulla sua autenticità – e se ne propongono le soluzioni. Segue l’esposizione preceduta, capitolo per capitolo, da una breve introduzione. Il testo biblico è riprodotto integralmente a monte del commento, secondo la versione del prof. Giovanni Luzzi. Note supplementari sono aggiunte al commento stesso quando i versetti sotto esame lo richiedono, poste a piè di pagina le più brevi, raggruppate in fondo ai capitoli le più lunghe. Chiude il volume un’ampia appendice nella quale sono raccolte estese note storiche a cui si rimanda nel commento laddove laconici riferimenti richiedono approfondimenti ulteriori. Prima e durante la stesura del commento si sono consultati testi specializzati di varia tendenza; tuttavia, data la particolare scelta esegetica, si sono privilegiati i lavori di biblisti ed esegeti di scuola conservatrice e storicista, e fra questi in primo luogo quelli di autori avventisti dai quali, anzi, si è molto attinto. Un’opzione, questa, suggerita da due considerazioni ugualmente valide e importanti. La prima è che l’autore del presente volume, per convinzione personale, salvo qualche rara riserva, è allineato sulle posizioni esegetiche degli espositori avventisti; la seconda attiene al fatto che il libro sarà utilizzato come testo di studio in una scuola teologica avventista. Forse un chiarimento sul titolo che si è voluto dare a questo manuale non sarà fuori luogo, tanto più che esso potrebbe dare adito a un fraintendimento. Capire le Scritture fu per l’estensore di queste righe un vivo desiderio fin dall’adolescenza. Nella maturità divenne poi una necessità, incombendogli il compito di far capire. Capire e far capire – una formula che idealmente lega insieme l’aspirazione giovanile e la missione dell’età adulta dello scrivente – è stato qualcosa che ha segnato con forza un aspetto importante del suo ministero e della sua vita. È stato questo che gli ha suggerito il titolo del libro. Un titolo, oltretutto, che ne mette a fuoco la destinazione. L’autore, per quanto abbia cercato di lavorare con scrupolo, non è certo di non essere incorso in qualche inesattezza. Pertanto fin d’ora si dichiara grato verso quei lettori che, rilevandone qualcuna, gliela vorranno segnalare. E nient’altro egli desidera di più se non che divenga realtà per essi tutti quanto il titolo esprime, e che da ciò sia accresciuta e consolidata la loro fiducia nella profezia biblica. Firenze, 25 febbraio 1998

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Introduzione ____________________________

I. COMPRENSIONE DELLA PROFEZIA BIBLICA APOCALITTICA Ermeneutica ed esegesi profetiche 1.

Quanto maggiore è l’arco di tempo che separa uno scrittore dai suoi lettori, tanto più è difficile comprendere la sua opera e tanto più è necessario applicare norme di interpretazione adeguate.

2.

La scienza che studia i criteri da applicare per comprendere un’opera letteraria antica si chiama ermeneutica (dal greco e(rmeneu/w, “interpreto” ). Questo vocabolo nella Bibbia si trova in Luca 24:27 (diermh/neusen “spiegò”).

3.

L’applicazione del metodo ermeneutico per spiegare un testo antico prende il nome di esegesi (dal greco e)chge/omai, “guido”). Non vanno dunque confuse tra loro ermeneutica e esegesi: la prima è un metodo, la seconda è l’applicazione di tale metodo e i suoi risultati.

4.

La ermeneutica biblica è l’insieme delle norme applicate per interpretare la Bibbia. La esegesi biblica è l’applicazione delle norme della ermeneutica biblica ed il risultato di tale applicazione.

5.

La ermeneutica biblica si avvale di un insieme di dati oggettivi come: le lingue originali (l’ebraico e l’aramaico per l’Antico Testamento, il greco per il Nuovo), i generi letterari (ovvero le forme espressive caratteristiche in uso nel tempo in cui vide la luce lo scritto da interpretare), i contesti storico e socio-culturale in cui visse e operò lo scrittore. I dati linguistici, letterari, storici e socio-culturali sono elementi comuni all’ermeneutica biblica e a quella letteraria comune.

6.

Poiché la Bibbia in quanto documento della Rivelazione divina occupa un posto unico nella letteratura di ogni tempo e luogo, l’ermeneutica biblica richiede fondamentalmente delle norme speciali che scaturiscono appunto dalla sua divina ispirazione (2Tm 3:16; 2Pie. 1:21). 7

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INTRODUZIONE

7.

La divina ispirazione della Bibbia non è verificabile scientificamente: è una verità di fede.

8.

Per l’influenza dell’Illuminismo, nel XVIII secolo è sorta una nuova ermeneutica biblica che non tiene conto dell’ispirazione: la ermeneutica razionalistica o liberale.

9.

Alla ermeneutica biblica liberale e alla esegesi biblica che ne risulta s’oppone la ermeneutica biblica conservatrice con la sua esegesi.

10. La Bibbia come prima interprete di sé stessa è il principio basilare dell’ermeneutica biblica conservatrice.

Profezia classica e apocalittica 1.

Fra i 66 libri che la compongono, la Bibbia annovera due scritti apocalittici: Daniele 7-12 nell’Antico Testamento e l’Apocalisse di Giovanni nel Nuovo.

2.

Sotto il profilo formale, profezia classica e profezia apocalittica si distinguono per il diverso genere letterario.

a)

Nei libri profetici ordinari (Isaia, Geremia, Ezechiele e i Dodici profeti minori) predomina la forma discorsiva (predizioni, promesse, rimproveri, invettive, esortazioni, appelli). Il senso è per lo più letterale.

b)

I libri apocalittici (Daniele e l’Apocalisse) si distinguono per l’uso costante di un linguaggio figurato che conferisce loro un carattere di oscurità. La visione simbolica costituisce l’elemento fondamentale del genere apocalittico.

3.

Profezia classica e profezia apocalittica si diversificano anche sotto il profilo dei contenuti.

a)

Nella profezia classica la parenesi (cioè l’esortazione) s’intreccia con la predizione (ossia l’annuncio di eventi futuri), e la predizione per lo più ha carattere contingente (limitata portata spazio-temporale). Ad eccezione delle profezie messianiche, le predizioni si spingono generalmente nel futuro immediato (i prossimi anni o decenni) e si rivolgono a una nazione (in genere Giuda o Israele, ma anche nazioni pagane), ad una classe sociale (il sacerdozio, la borghesia, la dirigenza politica) o ad una singola persona (il re, un funzionario dello stato, il sommo sacerdote, un falso profeta). Sono comunque presenti anche spunti apocalittici.

b)

Nelle apocalissi, mentre è scarsa la parenesi, predomina l’elemento predit-

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tivo. La notevole ampiezza spazio-temporale conferisce alle predizioni una dimensione universale: le profezie apocalittiche si proiettano nel futuro lontano, hanno per oggetto il popolo di Dio e le potenze secolari ad esso ostili (l’Anticristo) e come punto finale d’arrivo gli eventi escatologici (il giudizio, la risurrezione dei morti, il regno di Dio). 4.

Profeti classici e profeti apocalittici si distinguono anche per specificità di funzioni. Il profeta classico possiede il carisma profetico e ne esercita le funzioni: vive fra il suo popolo, si dedica a esso, ne condivide le vicissitudini e si rivolge quasi sempre alla sua generazione. Il profeta apocalittico pure possiede il dono profetico, ma non ne esercita le funzioni: vive isolato dal suo popolo (in esilio come Daniele in Babilonia e Giovanni a Patmos) e si rivolge per lo più alle generazioni future. Libera traduzione e adattamento dell’articolo “History of the Interpretation of Daniel” in Seventh-day Adventist Bible Commentary, vol. IV, pp. 39-44.

5.

Da quel che si è detto sopra risulta evidente che la ermeneutica apocalittica richiede norme proprie di interpretazione che si differenziano dalle nor dell’ermeneutica profetica in generale.

II. PROFILO DI STORIA DELLA INTERPRETAZIONE PROFETICA Comprensione progressiva della profezia La comprensione della profezia di Daniele si è sviluppata progressivamente nel corso del tempo. Daniele stesso ne fu il primo interprete seppure limitatamente ad alcune parti essenziali delle rivelazioni a lui consegnate. Via via che si svolsero nella storia i grandi eventi anticipati dalla profezia, uomini pii e versati negli studi profetici furono in grado di discernere nelle grandi linee gli sviluppi futuri della storia stessa. Alterazioni sostanziali, ripudio di retti principi e di risultati acquisiti, periodi di negligenza, disinteresse e sfiducia nei riguardi delle profezie non bastarono a determinare la perdita definitiva delle conquiste autentiche. Un patrimonio che sembrava perduto per sempre è stato gradualmente ricuperato, rivalorizzato, approfondito per una comprensione sempre più piena della parola profetica. La storia dell’interpretazione di Daniele è la storia della tensione umana verso la comprensione del grandioso disegno profetico tracciato in questo libro ispirato (2Pie 1:19-21). 9

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INTRODUZIONE

Daniele può essere compreso. La dichiarazione di Gesù in Mt 24:15 riguardo a Daniele: “chiunque legge pongavi mente”, giustifica lo sforzo profuso per capire le sue profezie e la certezza che esse sono comprensibili. Un libro parzialmente sigillato. E.G. White scrive: “il libro che fu sigillato non è l’Apocalisse, ma è quella porzione della profezia di Daniele che si riferisce agli ultimi tempi”1. La comprensione progressiva di Daniele convalida questa affermazione. Solo agli inizi del XIX secolo, quando cominciarono effettivamente i “tempi della fine”, si moltiplicarono simultaneamente gli studi sul più esteso periodo profetico del libro di Daniele, quello delle 2300 sere-mattine. Questo momento fu comunque preceduto da un lungo periodo preparatorio. Il punto d’inizio del disegno profetico danielico. Il vasto disegno profetico rivelato a Daniele doveva esordire nella storia con l’affermazione dell’impero neo-babilonese. Daniele stesso fissa questo momento cruciale, accolto come verità assiomatica da tutta una schiera di interpreti, quando dice al re di Babilonia: “Tu (l’impero neo-babilonese con Nabucodonosor come suo sovrano) sei la testa d’oro” (Dn 2:38). Poi: “dopo di te (dell’impero neo-babilonese) sorgerà un altro regno inferiore al tuo” (v. 39). In Dn 5:28; 6:12-15, 28 e 8:20,21 sono indicati il secondo ed il terzo regno universale che dovevano succedere a Babilonia: gl’imperi medo-persiano e greco-macedone. È dunque l’ispirazione stessa che fissa in modo inequivocabile l’inizio del compimento della profezia danielica nella storia e ne traccia le fasi successive. Daniele fu dunque il primo interprete delle profezie che gli furono rivelate. Dopo di lui, degli uomini animati da un vivo interesse per questo aspetto del messaggio biblico confrontarono con i vaticini danielici gli eventi del loro tempo per modo che venne formandosi un disegno progressivo di realizzazione della profezia nella storia. Studiosi eminenti fra gli interpreti di Daniele. Sugl’inizi e gli sviluppi dell’interpretazione profetica non ci sono incertezze essendo essi ben documentati. Figurano fra gli espositori di Daniele uomini di grande cultura e genialità, oltre che di fervente pietà religiosa. Visione pluralista sul compimento della profezia nella storia. Le convergenze più significative della profezia e della storia sono state viste e riconosciute non da una singola persona, ma da tutta una schiera di uomini vissuti in tempi e luoghi differenti i quali hanno consegnato ai posteri, ciascuno nella propria lingua, il frutto delle loro indagini. Rettifica di inesattezze e approssimazioni col progredire degli studi. Il tempo e gli eventi che nel corso di esso sono nati e si sono sviluppati, hanno imposto via via di verificare le interpretazioni profetiche precedenti con le loro inevitabili limitazioni e di rettificarne le comprensibili inesattezze e approssi1 - Acts of the Apostles, p. 585.

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mazioni. I pionieri dell’interpretazione profetica meritano comunque il massimo plauso per il ruolo che svolsero nella formazione di quel patrimonio esegetico che oggi costituisce la nostra eredità. La conoscenza di questo background è indispensabile nell’ambito dello studio moderno della profezia in generale e di Daniele in particolare. Comprensione delle profezie cronologiche. La profezia delle 70 settimane fu compresa e spiegata in base al principio giorno-anno fin dagli albori della storia dell’interpretazione di Daniele, ma il tempo di capire le 2300 seremattine e il loro rapporto con le 70 settimane era ancora lontano. Né si sarebbero potuti comprendere i 1260 giorni-anni (e i corrispettivi 3 anni e mezzo e 42 mesi) prima che si fosse manifestata l’apostasia in seno alla cristianità e fosse sufficientemente avanzato da essere chiaramente discernibile il processo di corruzione della verità rivelata. Perciò l’entità storica rappresentata dal “piccolo corno” non fu riconosciuta che secoli dopo il suo sorgere. Tramonto dell’interpretazione della Chiesa antica. Con l’avanzare dell’apostasia venne via via distorta e applicata in modo errato l’interpretazione profetica lineare della Chiesa antica. Sotto l’influenza perniciosa di ORIGENE (circa 185-254) si cominciò ad allegorizzare e spiritualizzare non solo le profezie ma tutta la Scrittura. Dopo la presunta conversione di Costantino ed i favori eccezionali da lui elargiti alla Chiesa (riconoscimento ufficiale, protezione e arricchimento materiale), EUSEBIO (circa 260-340), vescovo di Cesarea e primo storico della Chiesa, storicizzò il concetto di Regno di Dio. Alle innovazioni fuorvianti introdotte da Origene ed Eusebio seguì una visione escatologica rivoluzionaria promossa da AGOSTINO (354-430), l’influente vescovo di Ippona. Agostino, spiritualizzandola, spiegò la prima risurrezione come la conversione delle anime “morte” nel peccato e identificò il Regno di Dio con la Chiesa cattolica in forte espansione: essa, secondo lui, era la “pietra” di Dn 2:34,45 che stava diventando la montagna destinata a riempire la terra. Infine Agostino affermò che il diavolo era ormai incatenato e che l’umanità già viveva nel millennio apocalittico. Le idee di Agostino si affermarono e dominarono la teologia della Chiesa medievale. Queste dottrine deviate nate da una lettura allegorizzata e misticizzata della Scrittura finirono per intorbidire la limpida interpretazione profetica della Chiesa antica, interpretazione che per secoli restò praticamente dimenticata. Ricupero dell’antica interpretazione profetica. Non furono né i valdesi né altri gruppi dissidenti medievali a riscoprire e ricuperare l’antica interpretazione storica delle profezie, ma bensì dei vigili figli della Chiesa che si erano visti costretti a protestare contro gli abusi ed i sovvertimenti della Chiesa stessa; nel farlo essi applicarono a lei certi simboli profetici della Scrittura. Dalle profezie di Daniele e dell’Apocalisse, dal Rinascimento in poi, trassero ispirazione i dissidenti, sempre più numerosi, per formulare le loro critiche all’in11

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INTRODUZIONE

dirizzo della Chiesa. Cosicché le profezie vennero gradualmente riacquistando credito presso gli spiriti più illuminati. Il ruolo della profezia nello sviluppo della Riforma. La Riforma protestante nacque dalla riscoperta delle verità del Vangelo che erano state patrimonio della Chiesa antica. Nei secoli prima di Lutero uomini di grande sensibilità spirituale avevano enfatizzato con sempre maggior chiarezza il tema della salvezza per grazia in Gesù Cristo e contestato le grossolane distorsioni operate da Roma nell’ambito della dottrina, pur restando nel seno della Chiesa. Dall’enfasi che era stata posta sulle profezie relative all’Anticristo, la Riforma trasse forti motivi per una presa di posizione coerente. Quando Lutero scoprì l’identità della figura profetica dell’Anticristo trovò la forza di rompere con Roma, e molti altri compirono il medesimo passo per lo stesso motivo. Tutti costoro, di fronte alle limpide indicazioni e agli ammonimenti reiterati della Parola profetica, sentirono l’obbligo morale di uscire dalla Babilonia papale. Essi avrebbero affrontato il carcere e il martirio piuttosto che scendere a compromessi sulle verità divine ormai chiaramente comprese. Una controinterpretazione delle profezie, arma insidiosa della Controriforma. Di fronte al rifiuto virtualmente unanime e all’identificazione del papato con l’Anticristo della profezia da parte di tutti i gruppi protestanti, il cattolicesimo romano corse ai ripari: esso cercò infatti di distrarre l’attenzione dei protestanti dall’ermeneutica profetica del cattolicesimo antico, e vi riuscì. I gesuiti spagnoli FRANCISCO RIBERA nel 1590 e LUIS DE ALCAZAR nel 1614 escogitarono insidiose controinterpretazioni delle profezie apocalittiche. Ribera insinuò che l’Anticristo era una figura individuale, un capo di stato infedele, che da Gerusalemme, nel tempo della fine, avrebbe agito empiamente contro i cristiani durante tre anni e mezzo letterali. Il cardinale Roberto Bellarmino, famoso controversista, sostenne con grande energia le vedute di Ribera che divennero, e sono tuttora, la posizione ufficiale del cattolicesimo sulla figura profetica dell’Anticristo. L’espediente esegetico del Ribera prese il nome di ermeneutica futurista. Luis de Alcazar dal canto suo propose un’interpretazione agli antipodi rispetto a quella di Ribera. Secondo questa chiave di lettura tutte le predizioni dei due libri apocalittici finirono di adempiersi tra il tempo del tramonto della nazione giudaica e l’epoca della caduta dell’impero romano, e l’Anticristo non è altri che uno degli imperatori che perseguitarono i cristiani: Nerone, Domiziano o Diocleziano. Questo modo di spiegare Daniele e l’Apocalisse è noto col nome di ermeneutica preterista o semplicemente preterismo. L’interpretazione futurista e quella preterista, questi due criteri ermeneutici contrapposti e contraddittori, espressi dalla Chiesa cattolica - spettacolo davvero sconcertante! - sorprendentemente raggiunsero lo scopo di confondere l’esegesi profetica protestante. Le conquiste della Riforma frustrate. Alcuni esegeti protestanti, come l’olandese HUGO GROTIUS (1583 - 1645) e l’inglese HENRY HAMMOND (1605 - 1660), 12

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cominciarono ad adottare le controinterpretazioni del gesuita Alcazar gettando confusione e provocando divisioni tra i protestanti che iniziarono a perdere fiducia e interesse per le profezie. I protestanti abbandonarono gradualmente l’interpretazione ortodossa (storicista). Non tutti però: ci furono alcuni espositori, come JOSEPH MEDE, che non si lasciarono influenzare dall’ermeneutica fuorviante di Alcazar e ristudiarono l’intero ambito della profezia, reintrodussero, contro le vedute di Agostino, il millennio nel futuro e rivalutarono l’ermeneutica storica. Il preterismo si insinuò nella scuola razionalistica dei teologi liberali tedeschi nel XVIII secolo, di cui furono rappresentanti eminenti JOHAN SALOMON SEMLER (m. nel 1791) e JOHAN DAVID MICHAELIS (m. pure nel 1791). H.CORRODI iniziò la critica sistematica di Daniele nel 1783. Nel XIX secolo JOHAN GOTTFRIED EICHHORN (m. nel 1827) condusse a fondo l’offensiva contro Daniele. Il futurismo conquistò gradualmente le frange conservatrici del protestantesimo e nel secolo XX si è diffuso ampiamente anche tra i fondamentalisti. L’attacco di Porfirio all’autenticità di Daniele. La collocazione del quarto regno di Dn 2 e 7 nel periodo ellenistico e la conseguente identificazione del “piccolo corno” con Antioco Epifane, ampiamente sostenute dalla moderna esegesi liberale, risalgono a PORFIRIO (233 - circa 304). Il filosofo neoplatonico, allarmato per la straordinaria diffusione del cristianesimo, e informato sull’importanza che aveva per i cristiani la profezia, cercò di screditarla insinuando che il libro di Daniele non era stato affatto scritto nel VI secolo a.C., ma era semplicemente un mendace profilo storico tracciato da uno scrittore vissuto nel tempo dei Maccabei. Porfirio, in ultima analisi, sostenne che il libro fu “fabbricato” posteriormente agli eventi descritti e fu scritto coi tempi verbali al futuro per farlo passare per una profezia. I cristiani dell’Occidente latino respinsero all’unanimità la teoria di Porfirio; solo pochi cristiani d’Oriente l’accolsero. Comunque la critica di Porfirio cadde nell’oblio entro breve tempo e rimase ignorata fino a dopo la Riforma. Sul finire del secolo XVI la rimise in auge l’inglese HUG BROUGHTON (1549-1612) e da allora, senza dubbio ignorandosi da chi e perché era stata escogitata, essa fu adottata in circoli sempre più ampi sia nel Vecchio mondo che nel Nuovo, allo scopo di contrastare la scuola d’interpretazione storica della profezia, la quale vedeva nel “piccolo corno” di Dn 7 una figura del papato storico sorto fra le 10 frazioni del quarto regno. Oggi la teoria su Antioco Epifane è ampiamente diffusa tra gli espositori di Daniele e la si ritrova in numerosi commentari di orientamento liberale. L’esegesi profetica del Nuovo Mondo. I protestanti europei che approdarono nel Nuovo Mondo nel XVII secolo portarono con sé, fra gli altri valori spirituali della vecchia Europa, il sistema d’interpretazione profetica ancora seguito dalla maggior parte dei protestanti inglesi e di altre parti d’Europa. Fin dagli inizi dell’emigrazione oltre Atlantico il messaggio profetico della Scrittura occupò una posizione preminente nel pensiero dei coloni. EPHRAIM HUIT nel 1644 13

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INTRODUZIONE

pubblicò il primo commentario americano su Daniele: The Hole Prophecy of Daniel Explained. Nel Nuovo Continente si mantenne autonoma per lungo tempo la linea interpretativa delle profezie del primo protestantesimo europeo, non avendo curato i coloni i contatti culturali col Vecchio Continente. Spesso l’esegesi profetica americana in quest’epoca, non ancora influenzata dal Preterismo e dal Razionalismo europei, fu più limpida e più coerente dell’esegesi europea. Il risveglio religioso del XIX secolo. Mentre il preterismo veniva conquistando la scienza critica quando il futurismo non era ancora diffuso tra i protestanti, ed il post-millennarismo predominava nelle chiese riformate, in certi settori del protestantesimo fiorì il pre-millennarismo storicista. L’ermeneutica profetica storica conobbe tre momenti di lustro: i primi secoli del cristianesimo, il tempo della Riforma e della post-Riforma ed il primo Ottocento. Su questo background globale si proiettano il risveglio dell’avvento nella vecchia Europa ed il movimento dell’avvento nel Nuovo Mondo durante il XIX secolo. Numerosi espositori indipendenti della parola profetica, specie in Europa, precorsero con le loro interpretazioni parallele il risveglio europeo ed il movimento americano. Radici lontane della posizione avventista sull’interpretazione profetica. Il ruolo della Chiesa Avventista del Settimo Giorno, erede di venticinque secoli di interpretazione profetica, è quello di ricuperare e continuare l’esposizione ortodossa del passato, oggi restaurata, rivalorizzata e perfezionata alla luce delle conquiste odierne nel campo dell’esegesi profetica. Nel tempo presente gli studi profetici in ambito avventista privilegiano a ragione quei segmenti escatologici della profezia che non erano stati compresi e valorizzati nel passato perché non era ancora giunto il tempo del loro adempimento e di conseguenza erano prematuri il loro riconoscimento, la loro valorizzazione e la loro applicazione storica. Un nucleo essenziale ereditato dal passato. Le conclusioni a cui è approdata l’esegesi avventista riguardo alle profezie cronologiche - l’inizio sincronico delle 70 settimane di Dn 9:25 e delle 2300 sere-mattine di Dn 8:14, e lo scadere di quest’ultimo periodo nel 1844 - sono riconducibili a eminenti espositori del passato. L’esegesi profetica avventista si mantiene dunque sulla linea degli accorti interpreti di ieri e con gratitudine si riconosce debitrice nei loro confronti. Erede di un nucleo di verità messe in luce dagli espositori dei secoli trascorsi, l’esegesi profetica avventista nel medesimo tempo si riconosce annunciatrice degli eventi escatologici preconizzati dalla parola profetica. Con questo ampio panorama davanti agli occhi, siamo pronti ad intraprendere lo studio delle grandi profezie danieliche: la visione della statua metallica del cap. 2; la visione delle 4 bestie, le 10 corna, il “piccolo corno” e i 3 tempi e mezzo del cap. 7; la visione del montone e del capro, delle loro corna e del lungo periodo profetico del cap. 8; la rivelazione delle 70 settimane che conducono al Messia-Principe del cap. 9, e infine le rivelazioni letterali parallele dei capitoli 11-12. (Da S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, Introduzione). 14

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III. L’INTERPRETAZIONE E LO STUDIO DI DANIELE DALL’ANTICHITÀ FINO AI NOSTRI GIORNI 1. La lettura di Daniele nell’età precristiana A.

L’attestazione più antica riguardo all’interpretazione di Daniele risale al III-II secolo a.C., ovvero all’epoca dell’origine della versione alessandrina dell’Antico Testamento. La traduzione greca di Daniele nei LXX è libera e divergente dal Testo Masoretico. In 9:24-27 sono evidenti le alterazioni introdotte per adattare il testo alla figura di Antioco Epifane. In 11:30 l’espressione “le navi di Kittim” del T.M. è tradotta “i Romani”. È significativo che già nel II secolo a.C. i Giudei alessandrini riconoscessero la presenza di Roma nelle profezie di Daniele.

B.

Nel I Libro dei Maccabei, che vide la luce sul finire del II secolo a.C., l’altare pagano nel tempio è definito “l’abominazione della desolazione” (I Maccabei 1:54) con evidente riferimento a Dn 8:13 e 11:31. Nel cap. 2:55-60 Daniele e i compagni sono menzionati accanto ad altri personaggi dell’Antico Testamento, segno che in quell’epoca Daniele era già riconosciuto ispirato nell’ambiente giudaico.

C.

Un riferimento a Daniele si trova in un’altra composizione della letteratura tardo-giudaica, I Testamenti dei Dodici Patriarchi, risalente pure al II secolo a.C. Il Testamento di Levi cita ed estende fino all’età romana le 70 settimane di Dn 9:24-27. Ancora un segno che il tardo giudaismo interpretava Daniele in chiave storica riconoscendovi ovviamente il valore profetico.

D. Riferimenti alle profezie di Daniele si sono trovati nei testi di Qumran. Nel Rotolo della Guerra, del I secolo a.C., Dn 11:40 a 12:3 sono applicati alla guerra escatologica tra i “figli della luce” e i “figli delle tenebre”. Il Documento di Melchisedec (11Q Ps.Ez.), di data incerta, applica a eventi futuri lo schema cronologico di Dn 9:24-27. I riferimenti a Daniele nella letteratura tardo-giudaica attestano che i Giudei, negli ultimi due secoli dell’era precristiana, tennero in debita considerazione questo libro profetico.

2. La lettura di Daniele nell’età cristiana antica L’interesse del mondo giudaico per il libro di Daniele non si estinse nell’era cristiana. A.

Nel primo secolo lo storico GIUSEPPE FLAVIO si riferì ripetutamente a Daniele nei suoi scritti, massimamente in Antichità Giudaiche. Nel libro X (275) 15

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identifica il re di Siria, Antioco IV Epifane, nel “piccolo corno” di Daniele 8; sempre nel libro X (208-210) vede Roma nel 4° regno di Dn 2. Ancora nel X libro di Antichità Giudaiche (276), come pure in Guerre Giudaiche (VI, 212-213), riferisce alla sua epoca gli eventi finali della profezia danielica delle settanta settimane (Dn 9:24-27). B.

L’apocrifo IV Libro di Esdra, quasi contemporaneo degli scritti di Flavio, identifica i 4 regni danielici alla stessa maniera di Giuseppe: Babilonia, Persia, Macedonia, Roma. L’aquila come simbolo di Roma è l’equivalente della 4 bestia di Dn 7.

C.

Nel secondo secolo l’apologista giudeo Trifone, che dialoga col cristiano Giustino, allo stesso modo che quest’ultimo vede il “piccolo corno” di Dn 7:25 come un potere persecutorio futuro che dovrà dominare per tre tempi e mezzo, da Trifone interpretati come tre secoli e mezzo.

D.

Sempre nel II secolo il Seder ‘Olam, attribuito generalmente a RABBI JOSE BEN HALAFTA, nei capitoli 29 e 30 si richiama a Dn 9:24-27 (in pratica è una specie di midrash di questo passo). La cronologia della distruzione del primo e del secondo tempio è fatta coincidere coi numeri sabbatici di Dn 9: si sostiene che da Nabucodonosor fino a Tito trascorsero 10 giubilei, equivalenti a 70 cicli sabbatici, a loro volta equivalenti a 490 anni.

E.

Nel IV secolo RABBI JOSEF in uno dei suoi scritti identifica i Persiani nell’orso di Dn 7:5. I rabbini di quest’epoca vedono concordemente la Persia e Roma rispettivamente nel secondo e nel quarto regno di Dn 2 e 7. È evidente l’interesse del giudaismo per il libro di Daniele nei primi secoli dell’era cristiana. Più documentato ancora è l’interesse dei cristiani.

A.

Il Nuovo Testamento ha due riferimenti diretti al libro di Daniele come profezia in Mt 24:15 e in Mr 13:14, e un riferimento indiretto come fonte storica in Eb 11:33-34. Evidenti contatti col libro di Daniele si scorgono in altri punti del Nuovo Testamento. L’Anticristo preannunciato in 2Te 2:3-8 è una figura parallela del “piccolo corno” di Dn 7 e 8. Le 4 bestie di Dn 7 ricompaiono riunite in un’unica figura in Ap 13:2. In Ap 12:14 ritornano i 3 tempi e mezzo di Dn 7:25, e ricompaiono ancora enunciati in termini diversi in Ap 11:3; 12:6 e 13:5.

B.

I riferimenti alle profezie di Daniele sono frequenti nella letteratura patristica dei primi 4 secoli dell’era cristiana. Il riferimento più antico fuori del libro di Daniele lo si coglie nell’ Epistola di Barnaba. In questo documento cristiano risalente al 130 circa la quarta bestia di Dn 7 e le sue 10 corna sono viste come figure di eventi presenti e futuri GIUSTINO, morto martire intorno al 165, nel Dialogo col giudeo Trifone vede

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nel futuro l’apparizione del piccolo corno di Dn 7:25 e pensa che il suo dominio durerà 3 anni e mezzo letterali. Ancora nel II secolo IRENEO vescovo di Lione (circa 130-200) in uno scritto apologetico (Adversus Haereses) identifica Roma nel quarto regno di Dn 2 e 7 e pensa che essa sarà divisa in 10 parti. Per Ireneo il “piccolo corno”, identificato con l’Anticristo, deve ancora manifestarsi, e quando si sarà manifestato regnerà per 3 anni e mezzo letterali. Fra il II e il III secolo, TERTULLIANO (160-240) usa Dn 9:24-27 per convincere i Giudei che essi debbono riconoscere Gesù di Nazareth come il Messia predetto da Daniele. CLEMENTE, il dotto filosofo cristiano di Alessandria (circa 150-220), usa Dn 9:24-27 nel contesto di un’ampia cronologia fra l’epoca israelitica e l’età romana. Clemente fa decorrere dall’anno II di Dario I re di Persia le 70 settimane di Dn 9 ed estende le 62 settimane fino al tempo del battesimo di Gesù. La 70° settimana la colloca fra Nerone, secondo Clemente il responsabile della “abominazione della desolazione”, e Vespasiano, il distruttore di Gerusalemme. Delle 70 settimane s’interessa pure il cronografo cristiano GIULIO AFRICANO (160-240). Egli pone nel 444 a.C., sotto Artaserse I di Persia e Nehemia, l’inizio di questo periodo profetico e lo fa terminare nell’anno 31 con la crocifissione di Cristo. Daniele attrasse anche l’attenzione di ORIGENE (185-254), lo scrittore alessandrino responsabile di avere introdotto nel pensiero cristiano concetti fuorvianti con la sua esegesi allegorica della Scrittura. Commentando Dn 8, Origene applica i vv. 23-25 ad un ipotetico anticristo futuro. Le 70 settimane di Dn 9:24-27 le equipara fantasiosamente a 4900 anni che estende da Adamo fino alla distruzione di Gerusalemme nell’anno 70 d.C.. Per quanto riguarda l’esposizione cristiana antica di Daniele, IPPOLITO ROMANO (m. nel 235) merita una menzione speciale come autore del più esteso commentario del libro pervenutoci dall’antichità cristiana. Composto tra il 202 e il 204 in greco, il commentario di Ippolito comprende 4 libri. “Storicista” (ante litteram) su Dan 2 e 7, Ippolito si rivela “futurista” (ante litteram) sul cap. 9 e sui periodi profetici dei capitoli 7 e 8 che estende fino al tempo della fine. Nei 4 regni danielici Ippolito vede Babilonia, Medio-Persia, Grecia e Roma; nella “pietra” che distrugge la statua (cap.2) ravvisa il Cristo, e nel “piccolo corno” del cap.8, primo fra i cristiani, identifica Antioco Epifane. Questo antico commentatore cristiano applica storicamente anche l’ultima fase della quarta bestia di Dn 7: le 10 corna sono 10 regni che debbono ancora sorgere; il “piccolo corno” è l’Anticristo che dovrà nascere tra i 10 regni e sarà vinto e giudicato da Gesù Cristo alla sua venuta. Ippolito identifica con Cristo anche la “pietra” del cap.2 che distrugge la statua dai 4 metalli. Le 62 settimane di Dn 9:26 le colloca tra il tempo dell’esilio e la nascita di Cristo. La settantesima settimana la stacca dal contesto e la proietta nel tempo della fine precorrendo i moderni dispensazionalisti. 17

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Nella seconda metà del III secolo un duro attacco contro Daniele venne dal mondo pagano suscitando la viva reazione degli ambienti cristiani. PORFIRIO DI TIRO (233-304), un filosofo neoplatonico che contestava aspramente il cristianesimo, compose un’opera accusatoria in 15 libri contro i cristiani. Il 12° libro era dedicato alla refutazione del libro di Daniele, uno scritto inviso al pagano perché sulle sue profezie i cristiani fondavano alcune importanti posizioni teologiche. Per screditarlo, Porfirio insinuò che esso era una falsa profezia (vaticinium ex eventu) scritta da un ignoto giudeo all’epoca dei Maccabei. Nel “piccolo corno” dei capitoli 7 e 8 il filosofo pagano identificò il re di Siria Antioco IV Epifane. Seguirono Porfirio, limitatamente all’identificazione del “piccolo corno” del cap.7 di Daniele, alcuni interpreti della Chiesa sira. AFRAHAT DI MOSSUL (290350) vide Antioco Epifane nell’undicesimo corno di Dn 7. Per il resto si attenne all’interpretazione tradizionale della Chiesa. EFREM SIRO (306-373) pure identificò il “piccolo corno” di Dn 7 con Antioco Epifane. Questo esegeta orientale credette che l’Impero romano sarebbe scomparso con la venuta dell’Anticristo. Nelle 10 corna della quarta bestia del cap.7 vide 10 regnanti seleucidi. POLICRONIO DI APAMEA (374-430) su Dn 2 e 7 seguì Porfirio (vide nei 4 regni Babilonia, la Persia, la Grecia I e la Grecia II ovvero i regni ellenistici, e scorse nelle 10 corna dieci re seleucidi tra Alessandro e Antioco IV e nel “piccolo corno” quest’ultimo sovrano). Policronio, primo fra gli interpreti cristiani, applicò ad Antioco i 3 tempi e mezzo di Dn 7 e le 2300 sere-mattine di Dn 8. Sul cap. 9 si mantenne cristocentrico. Gli interpreti cristiani latini e greci di Daniele tra il III e il IV secolo seguirono la tradizione esegetica della Chiesa. LATTANZIO (250-330) nei suoi scritti si riferì sporadicamente alle profezie di Daniele. Allude alla caduta futura di Roma e al sorgere di 10 regni dopo di essa e colloca nel futuro l’Anticristo che sarà distrutto da Dio alla risurrezione dei santi. Non ha nessun riferimento ad Antioco. EUSEBIO DI CESAREA (260-340), storico della Chiesa, identifica i 4 regni danielici con l’Assiria (Babilonia), la Persia, la Macedonia e Roma. Dopo Roma intravede l’instaurarsi del Regno di Dio. Pone in rapporto reciproco Dn 2 e 7, applica Dn 7:9-14 alla seconda venuta di Cristo e Dn 9:24-27 alla prima. Non fa menzione di Antioco. CIRILLO, vescovo di Gerusalemme (315-386), su Dn 7 segue lo schema tradizionale che definisce “la tradizione degli interpreti della Chiesa”. Anch’egli pensa che Roma sarà divisa in 10 regni minori tra i quali sorgerà l’Anticristo (il “piccolo corno”) che alla fine dei tempi sarà distrutto dal Cristo che ritornerà. In Dn 9:24-27 Cirillo scorge una profezia messianica che si è adempiuta nel I secolo. CRISOSTOMO di Antiochia e Costantinopoli (347-407), in parte contemporaneo di Girolamo, segue l’interpretazione tradizionale della Chiesa su Dn 2 e 7. Pensa che quando si dissolverà l’Impero romano sorgerà l’Anticristo e

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sarà il segno che la Parusia è vicina. TEODORETO DI CIRO (386-457) appartiene al gruppo di ecclesiastici che reagirono contro l’attacco di Porfirio a Daniele. Gli scritti di Teodoreto sono in gran parte posteriori a Girolamo cosicché le sue vedute su Daniele possono essere state influenzate dal pensiero del grande dottore latino. Teodoreto vede nei 4 metalli della statua di Dn 2 i regni di Babilonia, Persia, Macedonia e Roma e nell’amalgama ferro-argilla il declino dell’Impero romano. Nella pietra che distrugge la statua ravvisa una figura del regno eterno di Cristo che si instaurerà alla sua seconda venuta. Anche sul cap. 7 Teodoreto segue lo schema tradizionale. Al tramonto dell’Impero romano sorgeranno 10 regni, poi verrà l’Anticristo che regnerà per 3 anni e mezzo. Le 70 settimane sono interpretate da questo esegeta in chiave messianico-cristologica. Confutarono il neoplatonico di Tiro vari Padri del IV e V secolo, fra i quali ricordiamo EUSEBIO DI CESAREA, APOLLINARE e METODIO. Il maggior rap-presentante della reazione cristiana contro Porfirio resta comunque GIROLAMO. Il commentario su Daniele di GIROLAMO (340-420) è una pietra miliare nella storia dell’interpretazione cristiana di questo libro profetico. Il commentario di Girolamo è più completo di quello di Ippolito (rappresenta pure la principale fonte d’informazione sulle idee di Porfirio riguardo a Daniele). Su Dn 2 Girolamo segue lo schema standard: Babilonia, Medo-Persia, Macedonia, Roma. Nel miscuglio ferro-argilla scorge una realtà contemporanea: i Romani che cercano l’aiuto dei Barbari per sostenere le guerre civili e quelle contro altre nazioni. Girolamo applica a Cristo e al suo regno la “pietra” che devasta la statua. Su Dn 7 l’illustre dottore della Chiesa latina ricalca lo schema applicato al cap. 2. Le 4 teste della terza bestia rappresentano Tolomeo, Seleuco, Filippo e Antigono tra i quali fu diviso l’impero di Alessandro. La quarta bestia è figura dell’Impero romano “che ora domina il mondo”. Le sue 10 corna simbolizzano 10 re che si spartiranno l’impero alla fine del mondo e tra cui dovrà sorgere l’Anticristo finale. In Dn 8 Girolamo scorge i re di Media e di Persia nella figura del montone, Alessandro e i Macedoni nel simbolo del capro, Alessandro nel gran corno del capro e i suoi successori nelle 4 corna. Nel piccolo corno vede Antioco IV come tipo dell’Anticristo finale ma incontra notevole difficoltà nell’applicare al re di Siria le 2300 sere-mattine. Su Dn 9 Girolamo non esprime vedute personali, ma si fa portavoce degli interpreti che l’hanno preceduto: Giulio Africano, Eusebio, Ippolito, Apollinare, Clemente, Origene, Tertulliano e “gli Ebrei”. Nessuno di questi interpreti ha scorto nel cap.9 Antioco Epifane. Sul cap. 11 Girolamo concorda con Porfirio fino al v. 21. Diverge dal v. 22, ma solo perché vede insieme Antioco e l’Anticristo finale. GIROLAMO in Occidente e TEODORETO in Oriente furono praticamente gli ultimi rappresentanti della tradizione della Chiesa antica sull’interpretazione di Daniele. Dopo il V secolo andò affievolendosi fra i cattolici l’interesse per Daniele e per gli studi profetici in generale, e questo come conseguenza dell’affermarsi dell’escatologia storicizzata di Agostino nel pensiero teolo19

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gico cattolico. Col propagarsi del cattolicesimo nel mondo il Regno di Dio si stava già realizzando, che bisogno c’era di studiare ancora le profezie? F.

Nell’età cristiana antica - a parte la contestazione di Porfirio fuori dell’area cristiana - non furono mai messi in discussione la data antica (VI secolo a.C.), l’autenticità e il valore profetico del libro di Daniele. Anche sull’interpretazione delle profezie ci fu una sostanziale convergenza. Salvo sporadiche eccezioni i regni dei capitoli 2 e 7 furono identificati con Babilonia, Medo-Persia, Macedonia e Roma, e nella pietra del cap. 2 si vide il regno eterno del Cristo. Una presenza di Antioco Epifane fu generalmente ammessa nei capitoli 8 e 11 da alcuni esegeti, soprattutto da Girolamo come tipo dell’Anticristo finale. Il cap. 9 fu interpretato quasi unanimemente in chiave messianico-escatologica.

3. Studio di Daniele nel Medioevo La fine del V secolo segnò il trapasso dall’Età Antica al Medioevo. In questa epoca storica Daniele fu oggetto di studio e di commenti sia nella sinagoga che in seno alla Chiesa. a)

L’esegesi giudaica di Daniele nel Medioevo fu meno entusiastica che nell’evo antico e ciò, secondo J.A.Montgomery, per due ragioni: la prima era che nel canone ebraico delle Scritture Daniele era posto fuori dai Profeti; la seconda che i cristiani enfatizzavano la portata messianica del libro. Nondimeno si occuparono di Daniele fra il X e il XIII secolo i maggiori maestri dell’ebraismo. b) Nel Medioevo in seno all’ebraismo commentarono Daniele: SAADIA BEN-JOSEF (m. nel 941), JAFET BEN-ALI (attorno all’anno 1000), SALOMON BEN-ISAAC (m. nel 1105), ABRAHAM BEN-MAIMON, detto Maimonide (m. nel 1204), DAVID KIMCHI (m. nel 1240). c) In seguito ci fu nell’ebraismo una reazione contro l’interpretazione messianica di Daniele. L’esponente principale di questa posizione fu ISAAC ABARBANEL, o Abrabanel, (m. nel 1508): egli, contro il rabbinismo ufficiale, annoverò Daniele tra i Profeti ma ne avversò l’interpretazione messianica. d) Anche in ambito cattolico ci fu un certo interesse per Daniele durante il Medioevo. Fra i teologi più ragguardevoli della Chiesa che si occuparono di questo libro in tale periodo sono da annoverare: ALBERTO MAGNO (m. nel 1280), ARNOLDO DA VILLANOVA (m. nel 1313), NICOLA DA LIRA O LYRANUS (m. nel 1340), PIETRO ARCIDIACONO (m. nel 1362). L’antica esegesi storica fu comunque generalmente trascurata.

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4. Lo studio di Daniele nell’età rinascimentale A.

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Nel XVI secolo nuovi stimoli allo studio di Daniele scaturirono dalla Riforma luterana. I Riformatori ebbero un rapporto particolare con Daniele. Il dato più significativo nell’ambito di questo rinnovato interesse per le profezie danieliche fu il ripristino dell’antica esegesi storica. MARTIN LUTERO (1483-1546) non produsse un commentario di Daniele, ma stimò questo libro una fonte di consolazione per la fede dei cristiani. Fautore dell’esegesi storica, Lutero vide nell’Anticristo una figura storica e non escatologica come i Padri antichi. La novità dirompente dell’esegesi profetica del padre della Riforma fu l’aver identificato nell’Anticristo il papato storico (anche se prima di lui EBERARDO, arcivescovo di Salisburgo nel 1240 e JOHN WYCLIFF poco più di cento anni dopo avevano visto un simbolo del papato nel “piccolo corno” di Dn 7). Fra i primi esponenti della Riforma luterana si occuparono volentieri di Daniele FILIPPO MELANTONE (m. nel 1560), GIOVANNI ECOLAMPADIO (m. nel 1531), SEBASTIANO MUNSTER (m. nel 1552), UGO DE GROOT o Grotius (m. nel 1545). GIOVANNI CALVINO (1509-1564) produsse una serie originale di letture su Daniele. La Chiesa cattolica reagì all’interpretazione delle profezie in funzione antipapale promossa vigorosamente dai riformatori cercando di screditare l’ermeneutica storica. La Controriforma cattolica introdusse una innovazione rivoluzionaria nell’ambito dell’esegesi profetica, un’innovazione che malauguratamente in seguito avrebbe influito sull’esegesi profetica protestante. Promotori di questa svolta furono i gesuiti spagnoli FRANCISCO RIBERA e LUIS DE ALCAZAR. Ribera intorno al 1585 divulgò un suo sistema interpretativo dell’Apocalisse che relegava nel futuro escatologico il compimento delle profezie di Giovanni (ermeneutica futurista). Alcazar nel 1614 introdusse un metodo esegetico che all’opposto del futurismo di Ribera limitava ai primi quattro secoli dell’era cristiana la portata delle suddette profezie (ermeneutica preterista). In verità l’Alcazar aveva avuto un lontano precursore in Porfirio, ma il preterismo del neoplatonico applicato a Daniele non aveva avuto seguito. Invece le ermeneutiche dell’Alcazar e del Ribera - queste due chiavi di lettura contraddittorie ed entrambe riduttive di Daniele e dell’Apocalisse - ebbero largo seguito fra cattolici e protestanti. Fra i cattolici che scrissero su Daniele nel periodo della Controriforma ricorderemo: GIOVANNI MALDONADO (m. nel 1583), EMMANUELE SA (m. nel 1596), BENEDETTO PEREYRA (m. nel 1610), GIOVANNI MARIANA (m. nel 1624). Dall’antichità pre-cristiana fino al tempo della Riforma e della Controriforma - attraverso la Sinagoga, la Chiesa antica e quella medievale - una catena ininterrotta di studiosi e esegeti di Daniele, pur divergendo sull’interpretazione 21

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delle sue profezie, hanno riconosciuto l’autenticità, la data antica ed il valore profetico del libro. Una svolta si sarebbe però prodotta con l’avvento dei tempi moderni.

5. Lo studio e l’interpretazione di Daniele nell’età moderna A.

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Nella storia dell’interpretazione di Daniele i primi accenni razionalistici dopo Porfirio si scorgono nel XVII secolo, e sorprendentemente presso autori ebrei e protestanti. URIEL ACOSTA (m. nel 1640) di origine ebraica (conosciuto anche come Gabriel da Costa), negò che Daniele fosse stato composto nel VI secolo a.C. e attribuì la composizione del libro ai circoli farisaici. BENEDETTO SPINOZA, filosofo di estrazione ebraica (m. nel 1677), respinse anch’egli l’origine antica di Daniele definendolo opera tardiva con aggiunte redazionali finali ad opera dei sadducei. Sulla stessa posizione negativa ma con più radicalità si tenne il deista inglese ANTHONY COLLINS (m. nel 1717). Quest’autore, riesumati gli antichi argomenti di Porfirio, sostenne che le visioni del libro di Daniele risalivano al tempo di Antioco Epifane e non erano altro che vaticinia ex eventu. Il razionalismo nato in Inghilterra dal deismo, nella seconda metà del XVIII secolo si trapiantò e mise salde radici in Germania. GIOVANNI SALOMONE SEMLER (m. nel 1791) elevò a sistema il razionalismo come criterio di valutazione della Scrittura. GIOVANNI DAVIDE MICHAELIS (m. nel 1791) rappresentò la scienza biblica a cavallo fra l’ortodossia e l’Illuminismo. Michaelis propose una teoria su Daniele che sarebbe stata sviluppata dal suo discepolo H.CORRODI. H.CORRODI, rifiutata l’interpretazione ortodossa di Daniele, nel 1783 iniziò la critica sistematica del libro. L. BERTHOLDT fra il 1806 e il 1808 sviluppò la critica sistematica di Daniele. GIOVANNI GOFFREDO EICHHORN (m. nel 1827) nel 1824 allargò le vedute di Bertholdt e condusse a fondo l’offensiva contro Daniele, seguito a metà del XIX secolo da FERDINANDO HITZIG. La reazione degli ambienti conservatori protestanti e cattolici alle intemperanze razionaliste non si fece attendere. In tali ambienti pubblicarono studi specializzati sul libro di Daniele: E.W.HENGSTENBERG (1831), H.A.C. HAVERNICK (1832-1838), D. ZUNDEL (1861), O. ZOCKLER (1876), il cattolico R. CORNELY (1887), F. DUSTERWALD (1890). Più numerosi furono i commentari composti da autori conservatori e moderati, protestanti e cattolici, per difendere i valori del libro di Daniele e controbattere le tesi razionaliste. Fra gli autori più ragguardevoli ricordiamo: L. GAUSSEN (1850), C.A. AUBERLEN (1854), E.B. PUSEY (1864), T. KLIEFOTH (1868),

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R. KRANICHFELD (1868), C.F. KEIL (1869), FULLER (1876) e i cattolici H. ROHLING (1876), J. FABRE D’ENVIEU (1888), J. KNABENBAUER (1891) D. a)

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La linea conservatrice fu portata avanti ancora nel corso del secolo XX. Nel primo quarantennio del secolo furono pubblicati numerosi studi di autori conservatori. Fra i più notevoli: A.C. GAEBELEIN (1911), R.D. WILSON (1917-1918), C. BOUTFLOWER (1927), W. MOLLER, (1934), G.C. AELDERS (1935), M.A. BECK (1935), K. HARTENSTEIN (1936), il cattolico J. LINDER (1939). Dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto grazie alle nuove scoperte archeologiche, si ravvivò negli ambienti conservatori l’interesse per la data tradizionale di Daniele e per l’esegesi storica. Sono da segnalare fra gli ottimi commentari apparsi in tale periodo negli ambienti ortodossi quelli di: E.J. YOUNG (1949), H.C. LEUPOLD (1949), R.D. CULVER (1954, 1962), J. WALVOORD (1971), L. WOOD (1973), J.G. BALDWIN (1978), C. MAYER (1982), J.L. ARCHER jr. (1985). Studi specializzati su Daniele che hanno fornito validi apporti all’ermeneutica storica sono stati pubblicati fra gli anni ‘60 e ‘80. Ricordiamo fra gli altri i lavori di: D.J. WISEMAN (1965), B. WALTKE (1976), A.R. MILLARD (1977), G.L. ARCHER (1979), J. MC DOWELL (1979), S.J. SCHWANTES (1980), D.W. GOODING (1981), F. HASEL (1981), A.J. FERCH (1983), W.H. SHEA (1986). La critica e l’esegesi liberali di Daniele ebbero tuttavia più successo e s’imposero nell’ambito della scienza biblica ufficiale. “Le obiezioni contro la storicità di Daniele sono passate da un libro all’altro. Nel secondo decennio del ventesimo secolo nessuno studioso di formazione liberale a cui premesse la propria reputazione accademica avrebbe osato sfidare il ‘trend’ della critica corrente”2. Mantennero la data tardiva di Daniele e in generale gli altri argomenti contro la sua autenticità: G. HOLSCHER (1919-1920), M. HALLER (1925), M. NOTH (1926), R.H. CHARLES (1929), il cattolico H. JUNKER (1932), N.W. PORTEUS (1936), W. BAUMGARTNER (1939), A. JEPSEN (1961), K. KOCH (1961), F. DEXINGER (1969), A. ROBERT - A. FEUILLET (1970), R.J. CLIFFORD (1975), J.J. COLLINS (1981), P.A. VIVIANO (1983). Riprendendo un’ipotesi enunciata DA S.R. DRIVER agl’inizi del secolo, hanno optato per la tesi di uno scrittore-redattore che avrebbe rielaborato antiche tradizioni scritte e/o orali: S.B. FROST (1962), O. EISSFELDT (1965), H.H. ROWLEY (1965). M. NOTH (1926), H.L. GINSBERG (1948, 1954), J.G. GAMMIE (1981) hanno immaginato vari stadi di sviluppo del libro dal tempo di Alessandro fino al 165 a.C. J.J. COLLINS, HARTMANN - DI LELLA (1977), P.A. PORTER (1983), J.A. SOGGIN (1980) fanno risalire le narrazioni del libro (capitoli 1-6) ad un’età pre-mac-

2 - R.K. HARRISON, Introduction to the Old Testament, 1969, p. 1111.

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cabea, e le visioni (capitoli 7-12) al tempo di Antioco Epifane con materiale più antico d’origine mitologica. F.

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d)

24

L’unità di Daniele era stata messa in discussione da BENEDETTO SPINOZA nel 1674 e alcuni decenni più tardi da Sir ISAAC NEWTON. Poi questa contestazione era caduta nell’oblio per rifiorire cento anni dopo. La dissezione del libro in diverse unità letterarie di varia provenienza ebbe il suo momento di gloria nel primo ottocento con L. BERTHOLDT che postulò ben 9 autori diversi! Nel 1822 con F. BLEEK, che difese l’unità sostanziale del libro, la teoria entrò in crisi e per quasi un secolo prevalse la tesi dell’unità di Daniele. La battaglia contro l’unità del libro fu ripresa nel 1926 da M. NOTH e ancora nel 1948 con H.L. GINSBERG, ma ebbe scarsa fortuna. Difesa da H.H. ROWLEY (che nondimeno mantenne la data bassa del libro), l’unità di Daniele è stata mantenuta dalla maggioranza degli autori della scuola liberale. Oggi sembra prevalere tra i criteri d’orientamento liberale la tendenza a far risalire la serie dei racconti (capitoli 1-6) ad un’epoca anteriore al II secolo (III secolo e qualche autore anche prima) e a collocare nel II secolo la stesura delle visioni. Un ignoto giudeo vissuto al tempo dei Maccabei avrebbe rielaborato del materiale antico e vi avrebbe poi aggiunto di proprio le visioni. Secondo altri critici che si ostinano a negare l’unità di Daniele, la sezione narrativa del libro sarebbe opera di più autori mentre un solo autore avrebbe composto le visioni al tempo di Antioco Epifane. Un redattore, che potrebbe anche essere l’estensore delle visioni, avrebbe riunito le due porzioni nel II secolo a.C. È giusto segnalare il contributo positivo a sostegno del valore storico di alcune parti del libro apportato da alcuni critici moderati, come J.A. MONTGOMERY (1927), R.P. DAUGHERTY (1929), H.H. ROWLEY (1932). La battaglia in difesa di Daniele è sostenuta dagli Avventisti del Settimo Giorno su due fronti paralleli ed è condotta con le armi ad essi fornite da aree specifiche del sapere contemporaneo. Sul fronte propriamente apologetico la lotta è portata avanti con l’ausilio dei risultati positivi acquisiti da scienze come la Storia e l’Archeologia. Sul fronte dell’esegesi, il confronto è sostenuto mediante un’analisi molto attenta del testo su base filologica e secondo il metodo ermeneutico storico che 25 secoli d’interpretazione profetica hanno affinato e collaudato. Nella sezione che segue, un esame critico delle obiezioni mosse contro l’antichità e l’autenticità di Daniele chiuderà questa introduzione allo studio di Daniele. L’esposizione dei capitoli profetici secondo il metodo storico occuperà la parte più voluminosa del presente manuale.

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IV. ARGOMENTI DELLA CRITICA CONTRO L’AUTENTICITÀ DI DANIELE E LORO VALORE 1. Argomenti contro Daniele La critica moderna scorge in Daniele anacronismi, inesattezze storiche, notizie leggendarie e altre incongruenze. A. Anacronismi In Daniele 1:1 si sincronizza il primo anno di regno di Nabucodonosor col terzo di Gioiachim re di Giuda, mentre è noto da Geremia 25:1 che il primo anno di Nabucodonosor corrispose al quarto di Gioiachim. B. Inesattezze storiche a)

b)

c)

d)

In Dn 5:2,11,13,18 Nabucodonosor è detto “padre” di Belsazar e nel v. 22 questi è detto “suo figlio”, mentre sappiamo dai testi babilonesi (“Cronaca di Babilonia”, ecc...) che Belsazar fu figlio di Nabonide. In Dn 5:31 e nel cap. 6 figura come primo re di Babilonia dopo la caduta della dinastia caldea un certo Dario il Medo, una figura ignorata da tutte le fonti storiche antiche. In Daniele 2:2,5,10 ricorre il termine “caldei” (kasdim) come designazione di una classe di sapienti babilonesi, un uso del termine che divenne comune soltanto in epoca tarda. Anticamente “caldei” si adoperava soltanto in senso etnico, per designare una popolazione. Nel cap. 5 Daniele menziona Belzasar come ultimo re caldeo di Babilonia, mentre le liste reali, i documenti amministrativi e la “Cronaca di Babilonia” conoscono soltanto Nabonide come ultimo re caldeo di Babilonia.

C. Notizie leggendarie In Dn 4 si allude a una follia di Nabucodonosor di cui non si trova traccia nei documenti contemporanei. D. Altre incongruenze a)

In Dn 3 compaiono 3 parole greche, segno che il libro fu scritto nell’età ellenistica.

b)

L’autore di Daniele enuncia concetti dottrinali, come il giudizio, la risurrezione e il ministero degli angeli, che appartengono al tardo giudaismo.

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c)

Le visioni di Daniele appartengono al genere “apocalittico”, una forma letteraria che fiorì nel giudaismo in età tarda (II, I secoli a.C.).

d)

L’autore del libro rivela una conoscenza esatta degli avvenimenti del II secolo a.C.

e) L’autore dell’Ecclesiastico (il Siracide), che redasse il suo libro verso il 180 a.C., non menziona Daniele tra le figure eminenti della storia d’Israele. f)

Il libro di Daniele nel canone ebraico non si trova nella raccolta dei Profeti ma in quella degli Agiografi, segno che al tempo della sua redazione il canone dei Profeti era già chiuso.

I fatti reali o presunti sopra elencati, secondo la ricerca storico-critica, sono sufficienti per postulare una data tardiva per il libro di Daniele. Le sue profezie, sempre secondo la critica, sono vaticinia ex eventu e le sue visioni un artificio letterario. Il libro è un prodotto delle aspirazioni irredentistiche dei giudei durante la persecuzione del re di Siria Antioco IV Epifane tra gli anni 167 e 164 a.C.

2. Valore degli argomenti contro l’autenticità di Daniele Un esame critico degli argomenti su esposti rivela in alcuni casi la loro fragilità, in altri la loro insufficiente forza probativa. A. Presunti anacronismi a)

La “Cronaca di Babilonia”, pubblicata da D.J. Wiseman nel 1956, ha rivelato che i babilonesi contavano gli anni di regno a decorrere dall’inizio dell’anno civile successivo a quello in cui il re era salito al trono.3 I mesi o i giorni tra l’ascesa al trono del nuovo re e la fine dell’anno civile in corso erano denominati “anno di intronizzazione” e non venivano calcolati nel conteggio degli anni di regno La menzione dell’anno d’intronizzazione si trova anche nei documenti amministrativi di Babilonia (le tavolette commerciali di Nippur). Nel regno di Giuda invece era in uso il sistema egiziano, il quale calcolava come primo anno di regno del nuovo sovrano il periodo di tempo tra la sua ascesa al trono e la fine dell’anno civile, cosicché gli anni di regno di un certo sovrano computati in base ai due sistemi (babilonese ed egiziano) risultavano sfalsati di 1 anno come si vede dal grafico seguente:

3- D.J. WISEMAN, Chronicle of Chaldaean Kings 626-556 B.C., in the British Museum, London, 1956.

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Sistema babilonese (postdatazione) Daniele 1:1 anno di intronizzazione

1° anno

2° anno

3° anno

Sistema egiziano-giudaita (predatazione) Geremia 25:1 1° anno

2° anno

3° anno

4° anno

I due sistemi di datazione si rispecchiano nel cap. 52 del libro di Geremia dove lo stesso evento (la caduta di Gerusalemme e la deportazione dei superstiti) è datata all’anno 19° di Nabucodonosor nel v. 12 e all’anno 18° nel v. 29. Probabilmente Gr 52:28-34 è un’appendice storica redatta in Babilonia, in parte (i vv. 31-33) aggiunta in appendice anche al II Libro dei Re (2Re 25:27-30). Il fatto che questa “appendice”, in riferimento all’inizio del regno di Evil-merodac, successore di Nabucodonosor, parli dell’anno stesso che cominciò a regnare (2Re 25:27; Gr. 52:31) e non del primo anno di regno come si sarebbe detto in Palestina, avvalora l’ipotesi che l’appendice sia stata scritta in Babilonia. L’espressione “l’anno stesso che cominciò a regnare” è l’equivalente della formula babilonese “l’anno di intronizzazione”(o di “accessione”). Sembra ovvio che Daniele, inserito nella cultura babilonese (Dan. 1:4), calcolasse gli anni di regno di Gioiachim secondo il sistema babilonese ed è altrettanto ovvio che Geremia che visse e scrisse in Palestina li contasse in base al sistema ivi in uso. Dunque nessun anacronismo tra Dn 1:1 e Gr 25:1. B. Presunte inesattezze storiche a)

Nell’uso semitico gli appellativi di “padre” e “figlio” erano comunemente estesi agli ascendenti e ai discendenti (nel nostro linguaggio diremmo “avo” e “nipote”). Gli esempi relativi a questo modo di applicare i termini “padre” (ebr ‘ab) e “figlio” (ben) abbondano nella Bibbia. Il termine “Padre” col significato di “avo” ricorre in De 26:15; Gs 24:3; 1Re 15:11; 2Re 14:3; 22:2; 2Cr 17:3; 21:12; 29:2; 34:2. “Figlio” nel senso di “nipote”, “discendente”, è usato in 2Cro 22:9. In 1Re 15:10 la regina Maaca è detta “madre” di Asa, in realtà era una sua nonna. “Padre” e “figlio” col significato di “avo” e “discendente” erano ancora in uso nei tempi del Nuovo Testamento: Lc 1:32; Gv. 4:12; Mt. 20:30-31; 22:41. Conformemente a quest’uso dei termini “padre” e “figlio”, diffuso in tutto l’Oriente semitico, in Dn. 5:11,13 “tuo padre”, “mio padre” significano “tuo avo”, “mio avo”, e nel v. 22 “suo figliolo” equivale a “suo discendente”. È dunque ingiusto accusare Daniele di disinformazione. Da vari indizi significativi risulta che Nabonide, il padre effettivo di Belzasar, avesse sposato una figlia di Nabucodonosor per legittimare l’usurpazione del trono; Erodoto le dà il nome di Notocris. 27

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b) Dario il Medo, che secondo Daniele assunse la reggenza di Babilonia alla caduta della dinastia caldea (Dn 5:30,31; 9:1), per la storia è tuttora una figura enigmatica in quanto il suo nome non figura in nessuna delle fonti storiche antiche conosciute. Il silenzio delle fonti non è però un argomento decisivo per negare l’esistenza storica di un personaggio. È noto che nell’Oriente i re, oltre al nome comune, assumevano a volte un secondo nome, “il nome del trono”, all’atto dell’incoronazione. I re d’Egitto spesso solevano fregiarsi di tutta una sfilza di nomi. I documenti assiri ci informano che Tiglath-Pileser assunse il secondo nome di Pulu quando cinse la corona di Babilonia. Il doppio nome di questo sovrano assiro è documentato anche nell’Antico Testamento (cfr. 2Re 15:19, 29; 1Cr 5:6,26; l’ultimo verso sembra sdoppiare il personaggio, ma il verbo al singolare indica che si sta parlando di un’unica persona). Esistono analogie significative tra il Dario di Dn 5 e un personaggio di nome Gubaru di cui parla la “Cronaca di Nabonide”, un documento babilonese. Gubaru, governatore del Gutium e valoroso generale di Ciro, fu il conquistatore di Babilonia. Sebbene la “Cronaca” non lo dica esplicitamente, è assai verosimile che Gubaru fosse nominato da Ciro re vassallo di Babilonia. Sta di fatto che Ciro nei documenti amministrativi babilonesi è designato col titolo di “re di Babilonia” soltanto a partire dal 14° mese dopo la conquista persiana della città. Qualcun altro deve aver esercitato questa funzione in Babilonia in quei 13 mesi. Gubaru deve comunque essere morto poco più di un anno dopo la conquista di Babilonia. Daniele dice che Dario il Medo “ricevette il regno all’età di 62 anni” (5:31). Il profeta menziona soltanto l’anno primo di Dario il Medo (9:1 e 11:1), e in 10:1 data all’anno terzo di Ciro la rivelazione ricevuta dopo quella dell’anno primo di Dario il Medo (9:1). Evidentemente il regno di Dario il Medo deve essere stato di breve durata. In 9:1 Daniele precisa che Dario il Medo “fu fatto re del regno dei caldei”; ciò non può significare altro che un’autorità superiore gli aveva conferito questo titolo. Non si può escludere che Dario fosse il secondo nome di Gubaru, probabilmente il “nome del trono”. c) Sebbene Daniele usi il termine “caldei” in senso sociale, vale a dire per designare una classe di sapienti babilonesi, egli conosce anche l’uso etnico del termine, cioè per indicare un popolo, una razza (1:4 e 9:1). Oltretutto non è dimostrato che “caldei” in senso sociale fosse adoperato soltanto in epoca tarda. Erodoto (Le Storie, I. 181,183), verso il 440 a.C., menziona i Caldei come una casta sacerdotale e ne parla in modo da lasciar supporre che quest’uso risalisse ad un’epoca anteriore. d) In effetti i testi babilonesi così come la storiografia antica (Berosso, ecc...) non conoscono che Nabonide come ultimo re caldeo di Babilonia. Sappiamo però dal “racconto in versi di Nabonide” che quest’ultimo conferì al figlio Belzasar (Bel-shar-usur) la regalità (sharrutim) prima di partire per Teima, nel nord Arabia, dove, secondo la stele di Harran, rimase 10 anni. Perciò tra il 549 e il 539 a.C. Belzasar esercitò di fatto i poteri reali in Babi28

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lonia come reggente del trono sebbene suo padre continuasse ad essere il re di diritto4. C. Presunte notizie leggendarie Che gli scribi di corte babilonesi stendessero un velo di silenzio su un avvenimento inglorioso per il regno come la follia del sovrano, non dovrebbe destare meraviglia. Ancora in tempi recentissimi in paesi a regime totalitario una grave malattia o altro serio impedimento di un dittatore sono stati taciuti. Lo storico Abideno (circa 200 a.C.), citato da Eusebio di Cesarea, ha raccolto una notizia più antica secondo la quale Nabucodonosor, invasato da una divinità, sarebbe salito sul tetto della reggia e avrebbe profetizzato la fine del suo regno5. Un testo cuneiforme pubblicato nel 1975 da A.K. GRAYSON menziona i nomi di Nabucodonosor e di suo figlio Awel-Marduk e allude a comportamenti anomali di un personaggio illustre che non può essere identificato con sicurezza a causa della frammentarietà del testo, ma che non può essere che uno dei due personaggi menzionati per nome. D. Altre presunte incongruenze a)

b)

4 5 6 7 8

In Dn 3:5,7,9,15 compaiono i nomi greci di tre strumenti musicali (sOr:tyiq, kitros, }yirT" nº sa P: , pesanterin, hæynº oPm : Us, sumfoneya). L’archeologia ha documentato un’influenza culturale greca nell’antico Vicino Oriente ben prima dell’epoca neobabilonese6. È stata anche documentata la presenza greca in Babilonia al tempo di Nabucodonosor: nella sala del trono della reggia gli archeologi hanno rinvenuto una colonna ionica e una decorazione di stile greco7. Inoltre testi cuneiformi dell’epoca di Nabucodonosor informano che fra gli stranieri che lavoravano alla realizzazione delle opere edilizie in Babilonia figuravano artigiani ionii e lidii8. Non è affatto inverosimile che in Babilonia in quest’epoca circolassero strumenti musicali importati dalla Grecia e conservassero i nomi di origine. È vero che l’escatologia e l’angeologia ebbero uno sviluppo notevole nella letteratura del tardo giudaismo, ma le dottrine sulla risurrezione, il giudizio e il ministero degli angeli non furono sconosciute agli scrittori biblici più antichi. Sulla risurrezione cfr. Gb 19:25-27; Is 26:19; Ez 37:13; sul giudizio: Sl 9:8; Ec 3:17; Is 24:19-22; 25:8,9; Gl 3:12-15; sul ministero degli angeli: Ge 19:1; Nu 22:32-35; Gc 6:11,12; 13:3 e segg.; Is 6:1-7; Ez cap.1; Za 3:1-7; 4:16; 5:1-11; 6:1-8; Ml 3:1. L’argomento della presenza di queste dottrine in Da-

- Vedi G. RINALDI, Daniele, pp. 87-88; ANDRÉ PARROT, Babilonia e l’Antico Testamento, pp. 98-99 - Vedi G. RINALDI, ibidem, p. 86. - Vedi W. ALBRIGHT, From the Stone Age to Christianity, p. 337. - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 13; A. PARROT, op. cit., p. 27. - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 781.

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c)

d)

e)

f)

niele come prova della sua origine tardiva è un argomento pretestuoso. È incontestabile che il genere apocalittico conobbe una fioritura straordinaria in seno al tardo giudaismo (II secolo a.C. - II secolo d.C.). Ciò non significa tuttavia che questa forma letteraria fosse sconosciuta nelle epoche precedenti. Lo stile apocalittico, caratterizzato dalla visione simbolica, è presente negli scritti profetici dei periodi assiro (VIII secolo a.C.), come in Amos 7:1,2,4,7-9; babilonese (VI secolo a.C.), come in Gr. 1:11-14; Ez 1:428; 2:9 - 3:3; 9:1-6, e persiano (VI-V secolo a.C.), come in Za. 3:1-7; 4:1-6; 5:1-11; 6:1-8. Il valore profetico del libro di Daniele è attestato nei Vangeli: Mt 24:15; Mr 13:14. Se Daniele è autenticamente profetico, non fa meraviglia che vi siano predetti dettagliatamente gli eventi del periodo più tragico della storia futura d’Israele, cioè gli eventi del III e II secolo a.C. (Dn 11:5 e segg). È molto probabile che Daniele sia stato inserito nella raccolta degli Agiografi all’epoca del concilio giudaico di Jamnia, agl’inizi del II secolo d.C. Di certo “dal secolo I a.C. importanti testimonianze pongono Daniele tra i profeti, a cominciare dagli Alessandrini”9. Nella versione greca dei LXX infatti Daniele figura tra i Profeti. Il prof. EDWARD YOUNG ha proposto una spiegazione assai plausibile del motivo per cui Daniele fu inserito nel canone degli agiografi. Egli dice: “Gli autori dei libri profetici avevano lo status di profeti, cioè di uomini suscitati in modo speciale da Dio per agire da mediatori fra lui e la nazione riferendo al popolo le esatte parole ricevute da Dio. Daniele però non fu profeta in questo senso ristretto del termine. Uomo di stato in una corte pagana, ebbe il dono profetico, ma non esercitò l’ufficio profetico, ed è evidentemente in questo senso che il Nuovo Testamento parla di lui come profeta (Mt 24:15)”10. Quanto al silenzio del Siracide su Daniele nell’“elogio dei padri” (Ecclesiastico, cc. 44-50), si deve dire che non solo il nome di Daniele vi è omesso, ma anche il nome di altre figure eminenti della storia d’Israele, come i re riformatori Asa e Giosafat, l’eroe nazionale Mardocheo e la figura preminente del dopo-esilio, il sacerdote e scriba Esdra. È evidente che Giosuè ben Sirac non ebbe l’intenzione di inserire nel suo libro un elenco completo delle glorie d’Israele. Il meno che si possa dire a conclusione di questa breve disamina di argomenti contro l’autenticità di Daniele è che essi non sono decisivi11.

9 - G. RINALDI, op.cit., p.9. 10- Citato in The New Bible Commentary, Londra, p. 688. 11 - Cfr. G. RINALDI, op.cit, p. 10.

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3. Argomenti a sostegno dell’autenticità di Daniele Si possono citare un buon numero di argomenti che depongono a favore della data antica e quindi dell’autenticità di Daniele. A.

Se Daniele fosse stato redatto effettivamente al tempo di Antioco Epifane, sarebbe logico aspettarsi di cogliervi accenni espliciti o impliciti alle epiche lotte dei Maccabei, come si può riscontrare nella IV sezione del libro di Enoc che risale realmente al II secolo. In Daniele invece non c’è il minimo accenno agli avvenimenti tragici che vissero i Giudei nel II secolo a.C.

B.

La concezione universalista, che permea tutto il libro di Daniele, contrasta fortemente con lo spirito nazionalistico radicale del tardo giudaismo che si riflette nella letteratura contemporanea.

C.

Daniele mostra una conoscenza dell’ambiente babilonese e della storia primitiva dell’impero persiano più accurata di qualunque storico posteriore al VI secolo a.C. Infatti: egli sa che Nabucodonosor fu l’artefice della nuova Babilonia (4:30). Questa circostanza ha messo in imbarazzo i critici di Daniele. R. PFEIFFER ha dovuto ammettere: “Forse non sapremo mai come il nostro autore abbia potuto essere a conoscenza del fatto che la nuova Babilonia fu una creazione di Nabucodonosor”12. Daniele sa che Nabucodonosor promulga e modifica le leggi a suo talento (Dn 2:12,13,48) e che le leggi dei Medi e dei Persiani sono irrevocabili (Dn 6:8,15). Nell’antico Oriente il dispotismo regio non aveva limiti. Sulla inflessibilità delle leggi dei medo-persiani, lo storico Diodoro Siculo riferisce che Dario III dopo avere pronunciato una sentenza di morte a carico di un suddito di nome Charidemos, si accorse che il verdetto era ingiusto, se ne rammaricò ma non poté revocarlo. Daniele è al corrente che i Babilonesi punivano col fuoco i nemici dello Stato (vedi cap.3) e che i Persiani li davano in pasto alle belve (cap.6). Il supplizio babilonese è conosciuto anche da Gr (29:23). Nella pianura caldea abbondavano le fornaci da mattoni. I Persiani aborrivano questo tipo di supplizio perché il fuoco era un elemento sacro a Zoroastro13. Daniele sa che nel regno di Babilonia la dignità più alta dopo quella di Belzasar viene al terzo e non al secondo posto (Dn 5:16). Egli è dunque al corrente del fatto che Belzasar esercita le funzioni regie come correggente e che al di sopra di lui c’è un’autorità più alta.

a)

b)

c)

12 - R. PFEIFFER, Introduction to the Old Testament, p. 578. 13 - A.T. OLMSTEAD, The History of the Persian Empire, p. 473.

31

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d)

Daniele conosce il linguaggio aulico in uso nelle corti orientali. La frase: “O re, possa tu vivere in perpetuo” (Dn 2:4; 3:9; 5:10) è una formula cortigianesca tipica dell’Oriente antico. Una formula simile è attestata in 1Re 1:39 e Nehemia 2:3 e in testi cuneiformi del periodo neo-babilonese.

D.

In Dn 4:10-12 Babilonia, personificata nel suo re, è paragonata ad un albero grande e rigoglioso che estende i suoi rami in tutte le direzioni e sotto la cui chioma trovano riparo e nutrimento tutte le creature. In un testo di Nabucodonosor trovato a Wadi Brissa, nella Mesopotamia centro-meridionale, Babilonia è paragonata a un grande albero che estende la sua ombra a tutti i popoli14.

E.

Nella visione riportata in Dn 7, Babilonia è raffigurata da un leone. Il leone era effigiato 120 volte in mattonelle smaltate policrome lungo la via processionale di Babilonia. Un grande leone di basalto fu rinvenuto dagli archeologi fra le rovine di Babilonia. Il leone era l’emblema della superba città caldea.

F.

Nel capitolo cinque del suo libro Daniele descrive la fine repentina della sovranità caldea su Babilonia con la caduta subitanea della città. Questo rapido trapasso di poteri si rispecchia nella “Cronaca di Babilonia”, pubblicata da D.J. WISEMAN nel 1956, e nei testi amministrativi di Nippur. Il racconto di Daniele inoltre ha stretta affinità con notizie parallele nella Ciropedia di Senofonte e nelle Storie di Erodoto. Il prof. R.P. DAUGHERTY scrive: “Di tutte le fonti non babilonesi che c’informano sugli avvenimenti collegati con la fine del regno neo-babilonese, il cap.5 di Daniele è la più vicina ai testi cuneiformi”15. E conclude: “Resta screditata l’opinione che il capitolo cinque di Daniele risalga all’epoca dei Maccabei”16. Non è credibile che uno scrittore del II secolo a.C. fosse così bene informato sugli usi, i costumi e la storia dei babilonesi, addirittura meglio informato degli storiografi greci del V e IV secolo a.C.!

G.

Per motivi che ignoriamo il libo di Daniele comincia in ebraico (1:1 fino a 2:4a), prosegue in aramaico (2:4b fino a 7:28) e finisce in ebraico (8:1 fino a 12:13). Per lungo tempo il bilinguismo del libro, e soprattutto il lessico e la morfologia delle due lingue, furono invocati come indizi di una data tardiva del libro stesso. Oggi la situazione si è capovolta soprattutto grazie agli ultimi studi nell’ambito della lingua aramaica17. In realtà l’aramaico di Daniele si allontana dall’aramaico recente quanto si avvicina a quello antico;

14 15 16 17

32

- Vedi G. RINALDI, op. cit., pp. 78-79. - R.P. DAUGHERTY, Nabonidus and Belshazar, p. 199. - Ibidem. - Cfr. G. RINALDI, op.cit., p. 8.

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l’ebraico è molto vicino a quello di Ezechiele, delle Cronache e di Esdra18. H.

a)

b)

c)

Almeno due degli 8 titoli ufficiali elencati in Dn 3:2 sono d’origine persiana, e nella forma in cui si leggono nel libro di Daniele non li si riscontra più dopo il III secolo a.C. È più facile ammettere che una terminologia tecnica in lingua persiana fosse conosciuta ed usata in Babilonia all’inizio dell’età persiana piuttosto che in Giudea in piena età ellenistica. Militano ancora a favore dell’origine antica di Daniele varie circostanze esterne al libro. Nell’elogio dei padri che il vecchio sacerdote Mattatia, padre dei Maccabei, fa nel suo testamento (1Maccabei 2:51-60), accanto ad altre figure illustri, come Abramo, Giuseppe, Fineas, Giosuè, Caleb, Davide ed altri, figurano Daniele e i suoi tre compagni. Il sacerdote era un rappresentante ufficiale della cultura ebraica. Pertanto se il sacerdote Mattatia pone Daniele e i suoi compagni tra i protagonisti della storia patria, vuol dire che questi personaggi nel II secolo a.C. erano accreditati in Israele come figure storiche. GIUSEPPE FLAVIO in Antichità Giudaiche (libro II, 8,5) dice che Alessandro Magno dopo la conquista di Gaza fece visita a Gerusalemme dove il sommo sacerdote gli mostrò le profezie di Daniele che lo concernevano. Molti studiosi influenzati dal pregiudizio sull’età recente di Daniele, ritengono leggendaria questa notizia, altri, fra i quali il LINDER, la giudicano autentica. Gesù Cristo, nel citare Daniele, lo riconosce esplicitamente come “profeta” (Mt 24:15). Per ogni cristiano che crede all’autenticità dei Vangeli e all’autorità di Cristo, questo è l’argomento principe a favore dell’autenticità del libro di Daniele, l’argomento decisivo. Il peso della documentazione storica, archeologica e biblica, è nettamente a favore dell’antichità e perciò dell’autenticità del libro di Daniele. Su questa posizione si sono schierati studiosi seri e preparati come PUSEY, KEIL, ROHLING, FULLER, AUBERLEN, FABRE D’ENVIEU, KNABENBAUER nel secolo XIX, e PHILIPPE, DAUGHERTY, MOELLER, HARTENSTEIN, LINDER, YOUNG, WALVOORD, ARCHER, HASEL, SHEA ed altri nel secolo XX. L’insigne assiriologo francese LENORMANT ha scritto: “Quanto più leggo e rileggo il libro di Daniele e lo confronto coi dati dei documenti cuneiformi, tanto più mi colpisce la veridicità del quadro della corte babilonese descritto nei sei capitoli... e tanto più vedo l’impossibilità di far risalire la redazione originale del libro all’epoca di Antioco Epifane”19.

18 - Vedi G. HASEL, “Quelques éléments d’ordre historique dans le livre de Daniel” in Daniel, questions débattues, pp. 36-39. 19 - Citato da H. HEINZ in Daniel, questions débattues, p. 21.

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Capitolo 1 ____________________________

I

l libro di Daniele si apre con la notizia di un assedio di Gerusalemme ad opera del re di Babilonia (vv. 1 e 2) e prosegue col descrivere l’impatto di quattro giovani deportati giudei con la dura realtà di un ambiente ostile ai loro principi religiosi (vv. 8-10). Sono messi in risalto la fedeltà dei giovani alla fede dei padri (vv. 7-13) e la ricompensa che ne segue (vv. 17-20). Quanto veniamo a sapere sulla intransigenza del signore di Babilonia (v.10) e sulla tempra morale di Daniele, Hanania, Mishael e Azaria (vv. 8, 11-12), offre una base logica alle vicende narrate nei cinque capitoli seguenti e nello stesso tempo prelude alle tensioni che verranno via via svelandosi in questi capitoli. L’eroica resistenza dei compagni di Daniele (cap. 3) e di Daniele stesso (cap. 6) alla invadente intrusione del paganesimo nella loro vita religiosa, l’accortezza e prudenza di Daniele in situazioni di pericolo (2: 14-16; 4: 19), la sua capacità di interpretare sogni (cc. 2 e 4) e svelare segreti (cap. 5), il suo carisma profetico e le straordinarie rivelazioni di cui egli è fatto mediatore per le generazioni future (cc. 7-12), tutto questo si spiega e si comprende alla luce di quanto è narrato in questo capitolo. Si può ben dire, dunque, che il capitolo primo di Daniele costituisce un’adeguata introduzione a tutto il libro.

1 Il terzo anno del regno di Joiakim, re di Giuda, Nebucadnetsar, re

di Babilonia, venne contro Gerusalemme, e l’assediò. La notizia con la quale esordisce il libro ci pone subito di fronte a tre problemi. Il primo nasce dall’accenno a un assedio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor20 nell’anno terzo del re di Giuda Gioiachim. Questo personaggio fu posto sul trono di Giuda come vassallo dell’Egitto dal faraone Neco II (2Re 23: 34-35) il quale nel 609 a.C. aveva vinto e ucciso a Meghiddo re Giosia, padre di Gioiachim (2Re 23: 29). Neco spadroneggiò sul

20 - Il nome del re di Babilonia nell’Antico Testamento compare in due forme lievemente varianti: Nebukadne’zzar [raC)ånd : ka Ubºn] (in Daniele, nei libri storici e poche volte in Geremia) e Nebukadre’zzar [raC)erd : ka Ubºn] (29 volte in Geremia e 4 volte in Ezechiele). La forma con la r è più corretta rispecchiando meglio la dizione babilonese Nabu-kudurri-uzur (“Nabu protegge il figlio” o “Nabu protegga l’erede”). Le fonti greche attestano sia la forma con la n: Nabouchodonosor [Nabouxodonosor] (i LXX e Giuseppe Flavio), sia la forma con la r: Nabokodrosoros [Nabokodrosoroj] (Strabone e, come variante, in un manoscritto di Giuseppe Flavio). Giovanni Luzzi, nella Versione Riveduta della Bibbia, usa una forma italiana derivata dall’ebraico, Nebucadnetsar. In questo commentario si preferisce la forma derivata dal greco, Nabucodònosor.

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territorio di Giuda per circa quattro anni (2Re 23:33-35), finché Nabucodonosor, erede del trono di Babilonia, non lo ebbe sconfitto a Carchemish, nella Siria superiore, e non lo ebbe respinto entro i confini dell’Egitto, divenendo di fatto egli stesso il nuovo padrone del territorio (2Re 24: 7). Geremia (46:2) pone questo avvenimento nell’anno quarto di Gioiachim (605 a.C.) che in 25: 1 sincronizza con l’anno primo di Nabucodonosor. È stato osservato che è storicamente impossibile una presenza armata di Nabucodonosor in Palestina nel 606 a.C., come sembra suggerire Dn 1: 1, giacché in quell’anno il paese era ancora sotto il controllo dell’Egitto. Se ne è dedotto che l’autore del libro è disinformato sulla storia e perciò le notizie che fornisce sono inattendibili. Dal versante opposto, si è ribattuto che è possibile mettere d’accordo Daniele e Geremia sulla data della campagna militare di Nabucodonosor nella regione siro-palestinese alla quale entrambi fanno riferimento. Varie ipotesi sono state proposte21 per appianare la divergenza cronologica su accennata. La più attendibile è quella che suppone l’uso nei due libri di sistemi di datazione differenziati22. Nell’antichità gli avvenimenti si datavano generalmente in base agli anni di regno dei sovrani in carica, ma il modo di calcolare detti anni non era uniforme. In Babilonia li si contava dal principio dell’anno civile successivo a quello in cui il sovrano aveva cinto la corona. La frazione dell’anno precedente, dal momento dell’assunzione del potere regale sino alla fine dell’anno, era detta “anno di accessione” e non veniva calcolata nel computo degli anni di regno. In Egitto invece si calcolava come primo anno di regno l’intervallo di tempo fra l’ascesa al trono del nuovo sovrano e l’ultimo giorno dell’anno civile in corso. È evidente che quello che in Babilonia era “l’anno di accessione” del nuovo re, in Egitto era considerato il primo anno di regno23. Abbiamo indizi significativi nella Scrittura - lo si documenterà più avanti per poter dire che gli scrittori giudaiti dell’ultimo periodo dei re adottarono il sistema egiziano di conteggio degli anni di regno. È ovvio che la data di un avvenimento qualunque fissata in ambiente egiziano o giudaita in base agli anni di regno di un certo sovrano risultasse spostata in avanti di un anno rispetto alla data del medesimo avvenimento calcolata in Babilonia con riferimento agli stessi anni di regno. È del tutto verosimile che Daniele, educato in Babilonia fin dalla giovinezza (Dn 1: 4), calcolasse gli anni di regno di Gioiachim (Dn 1:1) secondo il sistema babilonese di postdatazione e che Geremia, che visse e scrisse in terra di Giuda, computasse gli stessi anni di regno in base al sistema giudaita di predatazione. Questa ipotesi è confortata da almeno due casi di datazione parallela sfalsata di un anno che si riscontrano nell’Antico Testamento, uno nel libro di Geremia e uno nel raffronto tra Geremia e il Secondo Libro dei Re. In Gr 52 uno stesso av-

21 - Cfr. H.C.LEUPOLD, Exposition of Daniel, pp. 51-55. 22 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. II, pp. 138-139 e vol. IV, pp. 745-746. 23 - Vedi J.FINEGAN, Handbook of Biblical Chronology, pp. 208-209.

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venimento è datato all’anno diciannovesimo di Nabucodonosor nel v. 12 e all’anno diciottesimo nel v. 29. Un altro avvenimento che 2Re 24:12 pone nell’anno ottavo di Nabucodonosor, in Gr 52:28 è datato all’anno settimo. Si può pensare che una delle due datazioni in entrambi i casi non sia di Geremia, e in effetti è così. Per la sua forma redazionale, e per il fatto che in buona parte la pericope si ripete quasi identica in 2Re 25:27-30, Gr 52:28-34 si presenta come un’appendice storica aggiunta al libro del profeta. Il “pezzo” o fu scritto in Babilonia o rispecchia un documento redatto in Babilonia. Questo si evince dal fatto che due delle date ivi citate (Gr 52:28, 29) presentano una differenza in meno di un anno rispetto alle stesse date riportate in Gr 52:12 e 2Re 24:12, e soprattutto dalla menzione dell’anno di accessione di Evil-merodac “l’anno stesso che cominciò a regnare” (Gr 52:31; cfr. 2Re 25:27). Uno scrittore giudaita avrebbe detto “l’anno primo” (Gr 25:1). Tutto sommato, è ragionevole concludere che gli anni terzo e quarto di Gioiachim citati in Dn 1:1 e Gr 25:1 si riferiscono alla stessa data, il 605 a.C. È parso problematico l’attributo “re di Babilonia” aggiunto al nome di Nabucodonosor in Dn 1:1. In effetti se l’assedio di Gerusalemme a cui accenna questo versetto avvenne dopo la battaglia di Carchemish, in quest’epoca Nabucodonosor non era ancora re di Babilonia, essendo tuttora in vita suo padre Nabopolassar. È un indice di ignoranza della storia? A quel che sembra Daniele raccolse le sue memorie oltre una sessantina di anni dopo la sua deportazione (Dn 1: 21). Egli sta dunque riferendo un fatto oramai lontano nel tempo. È comprensibile che riconsiderando l’episodio a distanza di tempo, egli chiami Nabucodonosor “re di Babilonia” per ovvia anticipazione. È come se uno storico della fine degli anni ’50, scrivendo la storia della seconda guerra mondiale, annoverasse “il Presidente Eisenhower” fra gli artefici della vittoria alleata. Per un procedimento mentale analogo, pur se opposto, si continuò a chiamare Sandro Pertini “il Presidente” finché fu in vita. Del resto Geremia stesso, il cui libro non è sospettato di inautenticità, esattamente come fa Daniele chiama Nabucodonosor “re di Babilonia” riferendo un episodio avvenuto prima che egli avesse assunto il trono (vedi Gr 46:2). Più complesso è il problema che pone la notizia dell’occupazione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor nel 605 a.C. Geremia ed Ezechiele sono a conoscenza di due occupazioni di Gerusalemme per mano di Nabucodonosor: l’una all’inizio del regno di Gioiachim (597 a.C.): Ge 22:24-26 ed Ez 17:12, l’altra alla fine del regno di Sedechia (587 a.C.): Gr 39:1-2; 52:4-5, 12-13 ed Ez 24:1-2; 33:21. Per la verità Gr 52:30 ricorda una terza incursione di Nabucodonosor nel territorio di Giuda verso il 581 a.C. ignorata da Ezechiele e dai libri storici e comunque ininfluente ai fini della nostra discussione. I libri storici registrano, datandoli, entrambi gli avvenimenti riferiti da Geremia ed Ezechiele (2Re 24:8-12 e 2Cro 36:9-10; 2Re 25:1-2 e 2Cro 36:17-20), ma sembrano ignorare una precedente presenza armata babilonese in Gerusalemme, 36

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per cui l’informazione di Dn 1:1 parrebbe rimanere isolata. In realtà non è così. Infatti un intervento militare babilonese contro Gerusalemme durante il regno di Gioiachim è documentato nei libri storici. Il Secondo Libro dei Re (24: 1) ci ragguaglia su una irruzione di Nabucodonosor a Gerusalemme per reprimere una ribellione di Gioiachim, e 2Cro 36:6, riferendo probabilmente lo stesso episodio, aggiunge che il sovrano caldeo incatenò Gioiachim “per portarlo a Babilonia”. Purtroppo nessuna delle due fonti data l’episodio, ma è già notevole che esse ci informino su una campagna militare del re di Babilonia contro Giuda durante il regno di Gioiachim (i tentativi di riferire l’episodio accennato a un’epoca diversa congetturando che i libri di Secondo Re e Secondo Cronache confondono Sedechia con Gioiachim appaiono pretestuosi e inconcludenti). Resta comunque documentato nella Scrittura al di fuori del libro di Daniele, che le irruzioni bellicose di Nabucodonosor nel territorio di Giuda fra i regni di Gioiachim e di Sedechia furono tre e non due. Questo fatto risulta pure dai riferimenti ai saccheggi del Tempio riportati in 2Cro 36:7-18. Il v. 7 dà notizia di una prima asportazione di oggetti sacri da Gerusalemme effettuata da Nabucodonosor in un momento imprecisato del regno di Gioiachim: “Nebucadnetsar portò pure a Babilonia parte degli utensili della casa dell’Eterno”. Si trattò evidentemente di un’asportazione parziale dei sacri vasi del Tempio. Una seconda asportazione avvenne all’inizio del regno effimero di Gioiachin (597 a.C.) quando, come c’informano i vv. 9 e 10, il re di Babilonia fece prigioniero il neoincoronato re di Giuda “e lo fece menare a Babilonia con gli utensili preziosi della casa dell’Eterno”. In questa occasione ci fu con ogni evidenza un saccheggio selettivo del Tempio. Una terza e ultima spogliazione del sacro edificio prima della sua distruzione fu portata a termine l’anno undicesimo di Sedechia (587 a.C.) allorché, come ci ragguaglia il v. 18, il sovrano caldeo “portò a Babilonia tutti gli utensili della casa di Dio”. Stavolta ci fu chiaramente un saccheggio totale del Tempio: tutto quello che vi era rimasto fu portato via24. Significativamente la notizia di Dan 1:2 circa l’entità del bottino prelevato dal Tempio, coincide con l’informazione di 2Cro 36:7: in entrambi i testi si dice infatti che Nabucodonosor portò via una parte degli utensili della casa di Jahvé. È una coincidenza dalla quale ci sentiamo autorizzati a concludere che Dn 1:1-2 e 2Cro 36:6-7 si riferiscono a uno stesso avvenimento accaduto sotto il regno di Gioiachim. La notizia parallela dei Re e delle Cronache su una invasione caldea di Giuda sotto Gioiachim e le informazioni dell’ultimo capitolo di II Cronache sulle spogliazioni del Tempio, convergono per dirci che l’accenno di Dn 1:1 a un intervento babilonese in Gerusalemme nei primi anni di regno di Gioiachim non è affatto una notizia isolata.

24 - Cfr. C.O. JONSSON, I Tempi dei Gentili..., pp. 199-200.

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A questo proposito c’è da aggiungere che le informazioni reperibili nelle fonti extrabibliche coincidono con quelle desunte dalle fonti bibliche e consentono di formulare un’ipotesi parallela a quella basata su queste ultime. Dalla Cronaca di Babilonia siamo informati che nell’anno ventunesimo di Nabopolassar, re di Babilonia (605 a.C.), suo figlio Nabucodonosor marciò su Carchemish nell’Alta Siria, allora in mano agli Egiziani, e inflisse a questi ultimi una dura sconfitta. Successivamente Nabucodonosor raggiunse presso Hamat sull’Oronte i resti del disfatto esercito egiziano e li sbaragliò. D.J.Wiseman considera come verosimile che dopo questa vittoria Nabucodonosor occupasse Ribla, a sud di Hamat, e vi stabilisse un posto di comando25. Giuseppe Flavio dice che a seguito della vittoria sugli Egiziani Nabucodonosor “occupò tutta la Siria fino a Pelusio”26. Poiché Pelusio si trovava sul confine orientale dell’Egitto, è intuitivo che l’espressione “tutta la Siria” nell’intendimento dello storiografo giudeo dovesse abbracciare l’intero territorio fra il corso superiore dell’Eufrate e le frontiere orientali dell’Egitto, compresa la Palestina. Giuseppe concorda con la Cronaca di Babilonia la quale informa che “in quel tempo Nabucodonosor conquistò tutta la regione di Hatti”, un’area geografica che comprendeva appunto la Siria e la Palestina27. Giuseppe Flavio dice ancora che Nabucodonosor, essendosi impadronito di tutta la Siria, non penetrò nel territorio di Giuda28. Non è però escluso che il generale caldeo abbia potuto spedire contro Gerusalemme un reparto armato per garantirsi la sottomissione di Gioiachim. La cosa appare tanto più verosimile se si consideri che il re di Giuda era vassallo di Neco il quale, di certo non a caso, lo aveva posto sul trono in luogo del deposto Gioachaz (2Re 23:31-34). Si è obiettato che comunque a Nabucodonosor sarebbe mancato il tempo materiale per una puntata offensiva su Gerusalemme dopo la vittoria sugli Egiziani, dovendo egli rientrare precipitosamente a Babilonia a causa della morte del padre. Una considerazione attenta delle diverse fasi di questa campagna militare babilonese nella Siria e dei tempi connessi, consente di trarre una deduzione diversa. Assai verosimilmente le operazioni militari a Carchemish si svolsero a maggio-giugno del 605 a.C.29. La morte di Nabopolassar avvenne a metà agosto, come ci informa la Cronaca di Babilonia, ma la notizia non poté pervenire a Nabucodonosor in Siria che verso la fine del mese. Dunque il conquistatore caldeo dopo avere battuto Neco si trattenne nella regione un paio di mesi prima di mettersi in marcia per Babilonia. Gerusalemme era raggiungibile in pochi giorni di marcia da Ribla o da Hamat, sicché ci fu tutto il tempo per una rapida incursione contro la capitale del regno giudaita; a Gioiachim, che non poteva più

25 - D.J.WISEMAN, Chronicles of Chaldean Kings, p. 26. 26 - GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudaiche, X. 86. 27 - Vedi D.J.WISEMAN, op. cit., p. 25. 28 - GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudaiche, X, 86. 29 - Vedi D.J.WISEMAN, op. cit., p. 25.

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contare sull’aiuto dell’Egitto, non restava che aprire le porte della città ai nuovi padroni. Una resa spontanea di Gerusalemme a Nabucodonosor otto anni più tardi, è documentata in 2Re 24:11-12. Lo storico babilonese Berosso, citato da Giuseppe Flavio, riferisce che Nabucodonosor, dovendo rientrare in fretta in Babilonia per la via più breve, quella attraverso il deserto, affidò ad alcuni dei suoi generali perché li conducessero a Babilonia, “i prigionieri che aveva catturato fra i Giudei, i Fenici e i Siri”30. Questa informazione di fonte extrabiblica concorda significativamente con quanto scrive Dn 1:1-3. I prigionieri giudei ai quali accenna Berosso possono benissimo essere stati Daniele e i suoi compagni catturati dai soldati di Nabucodonosor. Daniele, è vero, attribuisce direttamente al condottiero caldeo la conquista di Gerusalemme, ma non si deve dimenticare che è comune nella storiografia antica, e moderna, ascrivere un’impresa a colui che l’ha voluta e preparata, anche se a realizzarla sono stati altri. Concludendo questa parte della nostra discussione, diciamo che non è affatto impossibile risolvere i problemi cronologici e storici che si presentano al lettore attento nei primi versetti del libro di Daniele. 2 Il Signore gli diede nelle mani Joiakim, re di Giuda, e una parte de-

gli utensili della casa di Dio; e Nebucadnetsar portò gli utensili nel paese di Scinear, nella casa del suo dio, e li mise nella casa del tesoro del suo dio. Non fu per caso che Gioiachim cadde in potere del re di Babilonia; come tutti gli scrittori ispirati, Daniele interpreta in chiave teologica gli avvenimenti secolari. Gli utensili sacri di cui si fa menzione erano vasi metallici di varie dimensioni, palette, attizzatoi ecc... (cfr. 2Cro 4:16) che i sacerdoti adoperavano per i vari servizi del Tempio. Se Nabucodonosor ne portò via solo una parte, fu probabilmente perché volle soltanto mostrare ad un vassallo poco affidabile che egli aveva il potere di imporgli la sua sovranità. Se avesse voluto spogliare il Tempio, nessuna autorità terrena avrebbe potuto impedirglielo. Il paese di Scinear (cfr. Ge 11:2; Is 11:11; Za 5:11) è la Babilonide, o Caldea ossia la pianura alluvionale delimitata a est dal Tigri e a ovest dall’Eufrate nella Bassa Mesopotamia. La città di Babilonia, che Nabucodonosor ricostruì e rese splendida, sorgeva sull’Eufrate nella parte alta della regione. Nel cuore della città, entro i recinti dell’area sacra, l’Esagila, si trovavano la grande torre templare o ziggurat (l’Etemenanki) e, più a sud, il superbo tempio dedicato a Marduk, la divinità suprema di Babilonia nota popolarmente anche col nome di Bel (da un termine accadico che significa “signore”). All’inizio dei festeggiamenti per l’anno nuovo (Akitu) il primo di Nisan, il nuovo sovrano entrava nel tempio di Bel e stringeva le mani di Bel-Marduk; si credeva che a seguito di questo rito

30 - GIUSEPPE FLAVIO, Contra Apionem, I. 19, 137

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egli era dal dio investito dell’autorità sovrana. Da quel giorno si cominciava a contare i suoi anni di regno. I testi cuneiformi babilonesi menzionano frequentemente i tesori dell’Esagila. Uno degli ambienti del grande complesso templare riportato alla luce dagli archeologi deve avere custodito i tesori suddetti. Quivi Nabucodonosor deve avere posto i sacri utensili asportati dal tempio di Yahweh in Gerusalemme. 3 E il re disse a Ashpenaz, capo de’ suoi eunuchi, di menargli alcuni de’ figliuoli d’Israele di stirpe reale e di famiglie nobili, 4 giovani

senza difetti fisici, belli d’aspetto, dotati d’ogni sorta di talenti, istruiti e intelligenti, tali che avessero attitudine a stare nel palazzo del re; e d’insegnare loro la letteratura e la lingua de’ Caldei. Insieme con gli utensili sacri del Tempio, Nabucodonosor portò via da Gerusalemme, forse come ostaggi, un imprecisato numero di giovani ({yidl f yº yeladîm) appartenenti a famiglie altolocate. Il capo degli eunuchi (wyfsyirsf bar rav sarîsayu), al quale il re conferì l’incarico di condurgli nel palazzo alcuni dei giovani giudei deportati, era un alto funzionario del palazzo il cui ufficio corrispondeva pressappoco a quello del maggiordomo. Il titolo equivale probabilmente al babilonese rav sha reshi (letteralmente “il capo di colui che sta alla testa”) documentato nei testi cuneiformi. Il nome del funzionario, Ashpenaz, tradisce un’origine persiana. In una forma leggermente variante, Ashpazanda, esso è stato letto nei testi di Nippur del V secolo a.C., e nella forma Aspenaz nei testi magici aramaici pure di Nippur31. La presenza in Babilonia di stranieri al servizio dei Caldei durante il regno di Nabucodonosor è documentata32. Inoltre è noto che Babilonesi e Medi - questi ultimi parenti prossimi dei Persiani - furono alleati nella guerra contro l’Assiria sul finire del secolo VII a.C. Si sa infine che degli stranieri al servizio di Babilonia furono promossi a incarichi di prestigio. Non era poco quello che si richiedeva ai candidati per essere ammessi nelle scuole reali. Il curriculum di studi non era lieve e il servizio nel palazzo richiedeva resistenza alla fatica. Perciò occorrevano prestanza fisica e non comuni doti intellettuali e morali. Nel gruppo dei “figli d’Israele” deportati in Babilonia si scelsero i giovani che possedevano questi requisiti. L’appellativo “figli d’Israele” in quest’epoca designava i sudditi del regno di Giuda. Il termine ebraico yeladîm non significa necessariamente “fanciulli”, come traduce qualche versione, tale termine applicandosi a una fascia di età variabile tra i dieci e i venti anni. “Giovinetti” è la traduzione che conviene meglio qui (vedi Ec 4:13). Daniele e i suoi tre compagni dovevano essere formati in vista di un inca31 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 757. 32 - ibidem, p. 781.

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rico da svolgere nel palazzo. “Tal uso è largamente documentato nell’Oriente (vedi la minaccia d’Is 39:7) e più tardi a Roma, ove esso rivela più chiaramente il fine politico di prepararsi futuri fidati vassalli nei paesi d’origine”33. Le lettere, o meglio la scrittura (reps" sefer) e la lingua (}O$fl lashon) dei Caldei di cui si doveva impartire la conoscenza ai giovani deportati, erano in sostanza la scrittura cuneiforme in uso nella Mesopotamia e la lingua accadica nella quale sono redatti tutti i documenti del periodo neo-babilonese. I Caldei ({yiD& : Ka kasdîm) erano un’etnia di stirpe e di lingua aramaiche da lungo tempo stanziata nella Bassa Mesopotamia. Con Nabopolassar, fondatore della dinastia neo-babilonese, i Caldei assunsero il dominio in Babilonia e lo mantennero per ottantasette anni (626-539 a.C.). Il termine “Caldei” si applicava anche a una classe di sapienti che coltivavano accanto a discipline come l’astronomia, la matematica, le scienze naturali, anche l’astrologia e la magia. Secondo alcuni, Daniele e i suoi compagni sarebbero stati avviati allo studio di queste discipline nonché della lingua aramaica. In questo commentario si propende per l’altra ipotesi confortati dal presupposto che i giovani giudei dovevano soprattutto conoscere ed essere in grado di usare la scrittura e la lingua ufficiale dello stato che avrebbero dovuto poi servire. 5 Il re assegnò loro una porzione giornaliera delle vivande della mensa reale, e del vino ch’egli beveva; e disse di mantenerli per tre anni, dopo i quali sarebbero passati al servizio del re.

Come candidati della scuola reale i giovani debbono essere mantenuti a spese della corte. Il re in persona dispone che ad essi sia corrisposta una porzione giornaliera (path-bag) delle vivande della mensa reale e sia servito il vino della sua cantina. L’usanza è documentata per il tardo periodo persiano del quale esistono attestazioni più abbondanti che per il periodo neo-babilonese34. L’ebraico path significa “pezzo”, “porzione”, ma la forma composta pathbag dalla maggioranza dei commentatori è fatta derivare dal persiano antico patibaga, “cibo reale”, ovvero “cibo prelibato”35. La durata del curriculum di studi deve essere di tre anni, un costume questo diffuso nell’Oriente antico e attestato ancora in età cristiana36. Daniele e i suoi compagni figurano nel novero dei savi di Babilonia (Dn. 2:12, 13) già nell’anno secondo di Nabucodonosor (Dn. 2:1). Non esiste comunque contraddizione con 1:5 giacché in questo luogo la durata della permanenza dei giovani nella scuola reale è calcolata secondo il metodo inclusivo in base al quale sono conteggiati come anni interi le frazioni dell’anno iniziale e dell’anno finale di un determinato periodo di tempo. L’educazione babilonese dei giovani ebrei cominciò nell’anno

33 34 35 36

- GIOVANNI RINALDI, Daniele, p. 40. - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 758. - Vedi W. GESENIUS, Hebrew-Chaldee Lexicon to the Old Testament, p. 696. - Vedi G.RINALDI, op. cit., p. 41.

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di accessione del re e fu il primo anno, proseguì per tutto il primo anno di regno e fu il secondo anno, e terminò in un momento imprecisato del secondo anno di regno di Nabucodonosor e fu il terzo anno. 6 Or fra questi c’erano, di tra i figliuoli di Giuda, Daniele, Hanania, Mishael e Azaria;

Fra i giovani deportati prescelti per essere educati nella scuola reale di Babilonia c’era un numero imprecisato di sudditi del regno di Giuda (“figli di Giuda”). Il testo ne nomina quattro: Daniele, che sarà la figura centrale del libro, e Hanania, Mishael e Azaria che saranno con Daniele protagonisti della parte iniziale dell’episodio riportato nel capitolo due, e da soli della vicenda narrata nel capitolo tre. Daniele [l)¢Yné D f ] “Dio è il mio giudice”, per altri “Dio è il mio giudice”, è un nome abbastanza comune fra i Semiti. Esso si ritrova presso i Babilonesi, i Sabei del sud-Arabia, i Palmiregni del nord-Arabia e i Nebatei. In Israele tale nome fu portato da un figlio di Davide (1Cro 3:1) e da un sacerdote del periodo post-esilico (Ed 8:2; Ne 10:6)37. Il nome del protagonista principale del nostro libro è ricordato tre volte dal profeta Ezechiele (Ez 14:14, 20 e 28:3). È puramente congetturale, e discutibile, l’identificazione del personaggio ricordato da Ezechiele col leggendario re Dan’el nominato nei testi nord-cananei di Ugarit del II millennio a.C. Hanania [hæynº ná x A ] (“misericordioso è Yahweh”). È un nome che ricorre una quindicina di volte nell’Antico Testamento, più frequentemente nei libri post-esilici. Nella forma accadica Hananiyama è il nome di un giudeo vissuto a Nippur nel V secolo a.C. Nella forma aramaica il nome è stato letto in uno dei papiri di Elefantina (V secolo a.C.). Mishael [l")$ f yim] (“chi è ciò che Dio è?”), è un nome piuttosto raro nell’Antico Testamento trovandosi solo tre volte fuori del libro di Daniele: nell’Esodo, nel Levitico e in Nehemia. Azaria [hæyr : zá (A ] (“Yahweh ha aiutato”), è un nome portato da ventitré personaggi dell’Antico Testamento (oltre che da uno dei compagni di Daniele) fra cui tre re di Giuda, due sommi sacerdoti e un profeta. Fuori della Bibbia il nome è stato trovato in alcune anse di giare, e nella forma Azriau nei testi cuneiformi assiri, riferito a un re di Giuda. 7 e il capo degli eunuchi diede loro altri nomi: a Daniele pose nome

Beltsatsar; ad Hanania, Shadrac; a Mishael, Meshac, e ad Azaria, Abed-nego. Secondo una mentalità diffusa nell’Oriente antico e riscontrabile anche nel Antico Testamento, il nome esprime la realtà e l’essenza della persona o della cosa

37 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 759.

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che lo porta. Nel caso di una persona ne indica anche il destino, per cui il cambiamento del nome comporta un mutamento della sua sorte (vedi Ge 17:4-5, 1516; 32:27-28). Imporre un nome a qualcuno equivale a imporgli il proprio dominio. Questo probabilmente è il senso che si deve cogliere nell’imposizione di un nome nuovo ai quattro ostaggi giudei da parte del funzionario babilonese. La cosa può anche essere vista come un’intenzione di snazionalizzare questi stranieri che dovranno servire alla corte di Babilonia. Casi analoghi nella Bibbia si riscontrano in Ge 41:45 (Giuseppe-Tsafnath-Paneach) e in Et 2:7 (Hadassa-Ester). Fuori della Bibbia ci sono noti dai testi assiri il caso del re Tiglath Pileser III, il quale assunse il nome di Pulu quando cinse la corona di Babilonia, e qualche altro caso. Belteshazzar [raC)a$+ : l : B " ] il nome babilonese imposto a Daniele da molti è considerato traslitterazione di un nome comune in Babilonia, Balatsu-usur, “la sua vita proteggi”, o Balat-sharri-usur, “la vita del re proteggi”. Da altri questa tesi è respinta, giacché Nabucodonosor fa derivare il nome babilonese di Daniele dal nome del suo dio Bel (Dn 4: 8). Da questi autori più disposti a riconoscere il valore storico di Daniele (H.Leopold, D.J.Wiseman, S.H.Horn) si condivide la tesi che il nuovo nome di Daniele sia fatto derivare, per contrazione, dall’accadico Bel-balatsu-usur, “Bel la sua vita (del re) proteggi”, col nome della divinità pagana omesso per evitare di offendere un pio giudeo col nome di una divinità a lui estranea. È la tesi che soddisfa di più. Shadrac [\ard : $ a ] il nuovo nome imposto ad Hanania, è di oscura etimologia. È improbabile che sia corruzione di Marduk, il nome della suprema divinità di Babilonia, o di Shutruk, il nome di una divinità elamitica, come da alcuni è stato proposto. Né è certo che derivi dall’accadico Shudur-aku, “comando di Aku”, divinità lunare sumerica (H.Leupold, G.Sarrò). Per alcuni Shadrac sembra riflettere un nome babilonese attestato nelle fonti cuneiformi, Mishaaku, probabilmente “Chi è come (il dio) Aku?” (Intenational Standard Bible Encycl.). Meshac [\a$y"m] è il secondo nome di Mishael; non è documentato nei testi babilonesi. L’etimologia è assai incerta. D.J.Wiseman pensa a un probabile aramaismo ibrido, mi-sha, “chi è costui?” costruito a somiglianza del nome ebraico (“che è ciò che Dio è?”). Altri (H.Leupold, J.Carreras, G.Rinaldi) ipotizzano una derivazione ibrida da Mi-sha-aku, “chi è ciò che è (il dio) Aku? ”. Abed-nego [Ogºn d"b(A ] è il nome imposto ad Azaria; è sconosciuto alle fonti cuneiformi note. Generalmente lo si accosta all’accadico Arad-nebo, “servo di Nebo” (il dio babilonese della sapienza), con intenzionale alterazione di Nebo in Nego per evitare di associare una divinità babilonese al nome di un pio figlio d’Israele. 8 E Daniele prese in cuor suo la risoluzione di non contaminarsi con le vivande del re e col vino che il re beveva; e chiese al capo degli eunuchi di non obbligarlo a contaminarsi;

I giovani ebrei debbono fare i conti con una terza e più pericolosa intromissione del potere dispotico della corte nella loro vita privata, dopo l’educazione babilo43

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nese e il cambiamento del nome. L’acquisizione coatta della cultura babilonese e l’imposizione di un nome pagano, per quanto siano circostanze indesiderate, non interferiscono tuttavia con le convinzioni e i costumi religiosi dei giovani deportati, ma l’obbligo di nutrirsi delle vivande e delle bevande della dispensa reale sì, e questo per almeno quattro ragioni. La prima è che fra le pietanze che sono servite al sovrano figurano carni che la legge ebraica proscrive perché impure (Le 11); la seconda consiste nell’uso invalso fuori d’Israele di non dissanguare le carni macellate, una pratica che contrasta con un principio fondamentale della legge d’Israele (Le 17:11-14); la terza risiede nel costume pagano di offrire in sacrificio agli dèi parte delle carni destinate all’alimentazione: consumare quelle carni equivarrebbe per la coscienza di un pio ebreo a rendere omaggio alle divinità pagane, cosa che anche a costo della vita egli rifiuterebbe di fare. L’ultimo motivo di contrasto con la disposizione del re nasce dalle frugali abitudini alimentari di Daniele e dei suoi compagni le quali mal s’accordano con il menu ed i vini della mensa reale. Con ferma determinazione Daniele - i suoi amici non sono nominati prende posizione di fronte a questa situazione minacciosa per la sua fede (“prese in cuor suo la risoluzione di non contaminarsi”). Tuttavia agisce con prudenza e accortezza. Non oppone un rifiuto categorico (non ci tiene a sollevare contro di sé e i suoi compagni una persecuzione non necessaria). Con fine tatto cerca di farsi dispensare dall’obbligo di nutrirsi coi cibi della mensa reale. 9 e Dio fece trovare a Daniele grazia e compassione presso il capo degli eunuchi. 10 E il capo degli eunuchi disse a Daniele: “Io temo il

re, mio signore, il quale ha fissato il vostro cibo e le vostre bevande; e perché vedrebb’egli il vostro volto più triste di quello dei giovani della vostra medesima età? Voi mettereste in pericolo la mia testa presso il re”. La divina Provvidenza interviene in modi imprevedibili per trarre da una situazione difficile un essere umano che ha deciso di restare fedele alla propria coscienza e agisce con ponderazione e avvedutezza. Così avviene per Daniele. L’uomo potente del palazzo alle cui cure il re ha affidato i giovani deportati, potrebbe ravvisare nella richiesta di Daniele una sottile volontà di insubordinazione e di conseguenza potrebbe reagire con tutto il peso della sua autorità. Non solo potrebbe opporre un diniego categorico alla domanda di Daniele, ma potrebbe d’ora in poi mostrarsi mal disposto verso di lui e i suoi compagni. Non avviene nulla di tutto questo, al contrario il capo degli eunuchi si mostra benevolo e comprensivo verso il prigioniero. La ragione è che Dio ha agito nell’animo dell’influente cortigiano. Nondimeno, Ashpenaz non se la sente di assumersi la responsabilità di cambiare la dieta di Daniele e dei suoi compagni. Non oppone però un rifiuto reciso e rude, come potrebbe fare, ma a sua volta si appella alla comprensione del richiedente. La cosa dalla quale costui domanda di essere dispensato è stata disposta dal re in persona. Come potrebbe lui, un suo fido funzionario, non tenerne conto? Il pallore del volto e il dimagrimento 44

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tradirebbero immancabilmente gli effetti di un’alimentazione frugale (ingiustificato pregiudizio di tutti i tempi!) e questo comprometterebbe la sua reputazione presso il sovrano (“voi mettereste in pericolo la mia testa”: non già “mi esporreste a un pericolo mortale”, ma piuttosto “mettereste a repentaglio la mia posizione presso il re”). 11 Allora Daniele disse al maggiordomo, al quale il capo degli eunu-

chi aveva affidato la cura di Daniele, di Hanania, di Mishael e d’Azaria: 12 “Ti prego, fa’ coi tuoi servi una prova di dieci giorni, e ci siano dati de’ legumi per mangiare, e dell’acqua per bere; 13 poi ti si faccia vedere l’aspetto nostro e l’aspetto de’ giovani che mangiano le vivande del re; e secondo quel che vedrai, ti regolerai coi tuoi servi”. Daniele non disarma di fronte al timore e alla titubanza dell’alto funzionario alle cui cure lui e i suoi compagni sono affidati. Rivolgerà la stessa richiesta a un funzionario subalterno. L’ebraico melzar, che Luzzi traduce “maggiordomo” e Rinaldi “sorvegliante”, è fatto derivare dall’accadico mazzaru, “economo”, “dispensiere”. Meno che formulare una richiesta, Daniele propone una sorta di esperimento per un periodo limitato di tempo, solo dieci giorni, e stavolta vi coinvolge i compagni: “Ci siamo dati de’ legumi ({yi(or¢Zah hazzero‘îm) per mangiare e dell’acqua per bere. Letteralmente l’ebraico zero‘îm significa: “cose seminate”, comprende i cereali e i legumi ma anche i vegetali freschi (vedi Is 61:11). “Secondo la tradizione giudaica il termine comprende anche le bacche e i datteri. E poiché i datteri costituiscono il principale prodotto alimentare della Mesopotamia, è verosimile che questo frutto debba qui essere incluso”38. Al termine dell’esperimento - propone ancora Daniele - si faccia un confronto coi giovani che consumano i pasti della mensa reale: l’economo deciderà sulla base del risultato se dovrà sospendere la loro dieta frugale o se potrà prolungarla indefinitamente (“secondo quello che vedrai, ti regolerai coi tuoi servi”). Evidentemente Daniele ripone una fiducia quasi illimitata nell’esito felice della prova, in parte per la sua fede in Dio, in parte come risultato di un’esperienza vissuta in prima persona. 14 Quegli accordò loro quanto domandavano, e li mise alla prova per dieci giorni.

La proposta non comporta rischi: in un lasso di tempo così breve gli effetti negativi sullo stato di salute dei giovani di un regime alimentare strettamente vegetariano saranno appena percettibili, comunque sufficientemente avvertibili perché

38 - S.D.A. Bible Commentary, IV, 761.

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l’economo se ne accorga, e allora potrà sospenderlo senza indugi. In tutti i casi egli è tenuto a rendere conto del suo operato al capo degli eunuchi e non al re, e questo comporta meno rischi. La proposta è accolta con favore dall’economo, il quale deve comunque avere pensato che l’esito finale della prova avrebbe dato torto ai giovani. 15 E alla fine de’ dieci giorni, essi avevano migliore aspetto ed erano più grassi di tutti i giovani che aveano mangiato le vivande del re. 16

Così il maggiordomo portò via il cibo e il vino ch’eran loro destinati, e dette loro de’ legumi. Certo non senza meraviglia l’economo deve constatare, allo scadere dei dieci giorni, che il risultato della prova è stato tale da dare pienamente ragione ai giovani stranieri. Il loro ricupero fisico dopo le fatiche e i disagi del lungo viaggio dalla Giudea fino a Babilonia è stato sorprendentemente rapido, come si vede chiaramente dall’aspetto florido delle loro persone. È stato più rapido che per i giovani nutriti coi cibi prelibati della mensa reale. “Dio onorò questi giovani per il loro fermo proposito di fare ciò che è giusto. L’approvazione divina era a loro più cara dei favori dei più potenti signori di questo mondo, più cara, persino, della loro vita. Né la loro ferma risoluzione nacque sotto la pressione di circostanze repentine. Fin dalla fanciullezza questi giovani erano stati educati secondo rigorosi principi di temperanza. Essi non ignoravano gli effetti nocivi di una dieta malsana e da lungo tempo avevano deciso di non indebolire le loro energie fisiche e mentali con l’indulgere all’appetito”39. Dal testo non è chiaro se l’economo prendesse per sé le vivande e il vino destinati ai giovani oppure li riponesse nella dispensa del palazzo. La forma grammaticale dell’ebraico si adatta ad esprimere una sistemazione permanente40. Daniele e i suoi compagni potranno d’ora in poi tranquillamente attenersi alle regole alimentari prescritte dalla legge di Dio. 17 E a tutti questi quattro giovani Iddio dette conoscenza e intelli-

genza in tutta la letteratura, e sapienza; e Daniele s’intendeva d’ogni sorta di visioni e di sogni. L’avere scelto di attenersi senza esitazioni e cedimenti alla legge di Dio, ha reso approvati davanti a Lui i quattro giovani ebrei, e i favori speciali del cielo non si sono fatti attendere. Non solo la floridezza della loro salute e del loro aspetto fisico, ma anche l’eccellenza del loro vigore intellettuale è apparsa evidente a tutti. Commenta H.Leupold: “I doni singoli compresi in questo dono maggiore elargito da Dio

39 - Ibidem. 40 - H.LEUPOLD, Exposition of Daniel, p. 72.

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erano, prima di tutto, la ‘conoscenza’, ((fDm a madda‘, cioè la facoltà di penetrare le nebbie dell’incertezza pagana e scoprirvi quanto vi era di realmente vero; in secondo luogo la ‘intelligenza di tutta la letteratura o scrittura’, cioè una padronanza di tutti gli scritti esistenti basata su un’acuta intuizione (l"K& : h a haskel, “avere intuito”); e finalmente ‘sapienza’, hfmk: x f chokhmah, cioè capacità di applicare rettamente la conoscenza acquisita e applicarla nel timore di Dio. Si deve riconoscere che non si trattava di doni banali, erano, anzi, doni che qualificavano questi giovani per posizioni di responsabilità”41. Oltre ai doni avuti in comune con i tre compagni, Daniele riceve in più da Dio lo speciale carisma profetico che farà di lui il portavoce del suo Signore alla corte del signore di Babilonia: “e Daniele s’intendeva d’ogni sorta di visioni e di sogni” o, come traduce la Versione della C.E.I.: “e (Dio) rese Daniele interprete di visioni e di sogni”. La visione (}Ozfx chazôn) è una delle vie per le quali Dio si rivela ai suoi profeti. Per questa via Egli farà conoscere a Daniele, e per mezzo di Daniele al suo popolo, le grandi svolte della storia futura fino all’apparire del messia (cc. 7-9) e ancora oltre, fino al levarsi del Principe Michael per la salvezza del suo popolo nel giorno della finale retribuzione (cap. 12). Il sogno (tOmolx A chalomôth) è un’altra delle vie per le quali può pervenire la rivelazione di Dio ai suoi profeti e in via eccezionale a uomini non dotati del carisma profetico (Ge 41:1-7,25; Dn 2:1, 27,28). Non si tratta di certo dell’ordinario fenomeno onirico che in Babilonia era creduto un mezzo di comunicazione degli dèi con gli uomini, ma di un fenomeno del tutto eccezionale, un fenomeno d’origine sovrannaturale. Per mezzo di esso, e con l’intermediazione di Daniele come interprete ispirato, l’Iddio del cielo farà sapere al re Nabucodonosor che è Lui il re dei re della terra, Colui che li stabilisce sul trono e li depone (cc. 2 e 4). 18 E alla fine del tempo fissato dal re perché quei giovani gli fossero menati, il capo degli eunuchi li presentò a Nebucadnetsar. 19 Il re

parlò con loro; e fra tutti quei giovani non se ne trovò alcuno che fosse come Daniele, Hanania, Mishael e Azaria; e questi furono ammessi al servizio del re. I giorni fissati dal re nell’arco dei quali doveva essere impartita ai selezionati prigionieri giudei un’educazione babilonese sono trascorsi, e così come il sovrano aveva disposto (v. 5) essi debbono ora essere assunti al suo servizio. Prima però dovrà essere saggiato il loro curriculum culturale, ed è per questo che il capo degli eunuchi li conduce in presenza del sovrano. Dal colloquio che Nabucodonosor ha con Daniele, Hanania, Mishael e Azaria risulta evidente la superiorità culturale dei giovani ebrei sui loro coetanei di altre stirpi.

41 - Ibidem, p. 73.

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20 E su tutti i punti che richiedevano sapienza e intelletto, e sui quali il re li interrogasse, il re li trovava dieci volte superiori a tutti i magi ed astrologi ch’erano in tutto il suo regno.

Il sovrano stesso fa da esaminatore. Le domande alle quali i candidati debbono rispondere investono questioni che richiedono “sapienza e intelligenza”. La congiunzione “e” fra i due sostantivi in molte traduzioni moderne è mutuata dalle antiche versioni. L’ebraico ha: “sapienza di intelligenza” (hænyiB tam:kfx chokmath-bînah). Il S.D.A. Bible Commentary condivide il parere dei commentatori che hanno percepito nella costruzione ebraica l’intenzione dell’autore di riferirsi a una forma di sapienza delle più alte, una sapienza determinata o regolata dall’intelligenza. “Ciò farebbe pensare che Daniele e i suoi compagni eccelsero sugli uomini esercitanti la loro stessa professione sia nel campo delle scienze esatte, come l’astronomia e la matematica, sia in materia linguistica: essi dominavano la scrittura cuneiforme e le lingue babilonese e aramaica nonché la scrittura quadrata aramaica”42. Dalle risposte dei candidati su qualsiasi argomento il re li interroghi, questi scopre che essi superano di dieci volte (tOdæy re&(e ‘eser yadôth, letteralmente “dieci mani”) “tutti i magi e gli astrologi” del regno (l’espressione “dieci volte” non va presa alla lettera, “dieci” essendo qui un numero tondo con valore convenzionale e cioè significante una quantità indefinita superiore a “pochi”). I “maghi” sono dei sapienti ai quali si riconoscono poteri divinatori e taumaturgici. Il vocabolo applicato da Daniele ai maghi di Babilonia, {yiM+ u r : x a h a chartummîm, è sconosciuto in questa regione. Esso deriva da un termine egiziano che designa una classe di sacerdoti versati nella sacra scrittura geroglifica43 e nelle arti magiche44. Daniele verosimilmente prende il termine del Pentateuco ove esso ricorre ripetutamente (Ge 41:8, 24; Es 7:22; 9: 11; De 18:10). Gli “astrologi” sono dei sacerdoti dediti in modo particolare alla pratica dell’esorcismo. Il termine adoperato da Daniele, {yip< f ) a h f ha’ashshafîm, dipende sicuramente dall’accadico ashipu. In Babilonia, e in generale nella Mesopotamia, gli ashipu costituiscono una classe di sacerdoti il cui compito principale è quello di allontanare, mediante la recitazione di formule di scongiuro e di incantesimo, gli spiriti malvagi che, secondo le credenze dell’epoca, tormentano gli uomini con malattie e altri malanni; gli ashipu offrono anche i sacrifici agli dèi e celebrano i riti di purificazione45. “È erroneo pensare che i sapienti di Babilonia fossero soltanto indovini e maghi. Quantunque fossero versati in queste arti, essi erano anche uomini di

42 43 44 45 -

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S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, 762-763. Vedi W. GESENIUS, op. cit., p. 304. S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, 763. Cfr. G.CONTENAU, La Civiltà degli Assiri e dei Babilonesi, 181-182.

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scienza nel vero senso della parola. Così come nel Medioevo uomini realmente eruditi praticavano l’alchimia e astronomi che per altri versi lavoravano scientificamente e traevano oroscopi, gli esorcisti e gli indovini dell’antichità erano anche dediti allo studio di discipline strettamente scientifiche. Le loro conoscenze astronomiche avevano raggiunto un grado di sviluppo sorprendentemente elevato, per quanto l’astronomia babilonese pervenisse al livello più alto dopo la conquista persiana. Gli astronomi di Babilonia erano in grado di predire mediante il calcolo le eclissi di luna e di sole ed era notevole la loro abilità nel campo della matematica. Essi adoperavano formule la cui scoperta è generalmente, ed erroneamente, attribuita ai matematici greci. Erano inoltre buoni architetti e costruttori, nonché medici accettabili che con metodi empirici curavano non poche malattie. Deve essere stato in questi campi dello scibile che Daniele e i suoi tre compagni eccelsero in conoscenza e capacità sui maghi, gli astrologi e i sapienti di Babilonia”46. I Greci “non costruirono dal nulla il loro concetto di scienza da noi ereditato, ma furono tributari sia su questo punto capitale sia su molti altri, degli antichi Mesopotamici”47. 21 Così continuò Daniele fino al primo anno del re Ciro.

L’anno primo di Ciro è l’anno della caduta di Babilonia, il 539 a.C. Probabilmente Daniele vuol far sapere ai suoi lettori che egli visse durante tutto il tempo dell’esilio, cominciato appunto con la sua deportazione nel 605 a.C. L’anno primo di Ciro comunque non segna il limite estremo della durata della vita di Daniele giacché egli vive ancora nell’anno terzo di Ciro, il 537 a.C. (Dn 10:1). Altrove (Dn 6:28) si dice che “Daniele prosperò sotto il regno di Dario, e sotto il regno di Ciro, il Persiano”. Dal capitolo 6 veniamo a sapere che Daniele non solo non è stato deposto dal suo incarico ufficiale dopo la caduta della dinastia caldea, ma che il nuovo signore di Babilonia pensa addirittura di promuoverlo ad un più alto incarico (v. 3). Il regno, o meglio il governatorato di Dario il Medo (la cui identità storica sarà discussa più avanti), deve essere stato assai breve, se Daniele in 10:1 pone l’ultima visione sotto il regno di Ciro e non più sotto il regno di Dario come aveva fatto (per la visione di 9:1). Il servizio di Daniele alla corte persiana di Babilonia all’inizio del regno di Ciro, a cui sembra alludere Dn 6:28, deve essere stato di breve durata. Comunque il profeta visse abbastanza sotto l’amministrazione persiana (come minimo due anni) perché sia spiegabile l’uso di vocaboli persiani nel suo libro48.

46 - S.D.A. Bible Commentary, IV, 763. 47 - J. BOTTERO. Mesopotamia, p. 133. 48 - Cfr. S.D.A. Bible Commentary, IV, 764.

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U

n sogno ha interrotto il riposo notturno del re Nabucodonosor e ne ha turbato lo spirito. Per il Mesopotamico il sogno è un messaggio premonitore, e Nabucodonosor è un mesopotamico. È perciò conforme allo spirito della cultura cui egli appartiene che il re di Babilonia convochi nel palazzo i professionisti dell’arte divinatoria perché gli svelino il significato del sogno. L’interpretazione dei sogni rientra infatti nelle competenze ordinarie di questi funzionari dello stato, ma il re esige più di questo dai suoi indovini, vuole che essi gli svelino il sogno prima di fornirgliene l’interpretazione. L’incapacità degli indovini di rispondere all’assurda richiesta manda in collera il re il quale decreta seduta stante la loro esecuzione capitale. In questo punto di massima tensione del racconto si inserisce l’intervento provvidenziale di Daniele che con l’aiuto del suo Dio risolve la difficile situazione. Il sogno che Nabucodonosor sembra avere dimenticato è rivelato a Daniele in una visione notturna, sì che il profeta può a sua volta descriverlo al re prima di dargliene l’interpretazione. Nabucodonosor riconosce la superiorità di Daniele su tutti i sapienti di Babilonia, esalta l’Iddio di Daniele e promuove a più alti incarichi il rivelatore e interprete del sogno e i suoi amici. Il racconto - che come si è visto s’inquadra bene nella cornice dell’ambiente culturale mesopotamico - mira nello stesso tempo ad esaltare la fede di Daniele e la superiorità di una sapienza che discende dalla fede monoteistica sulla sapienza dei cultori del politeismo pagano. Il capitolo secondo di Daniele presenta una peculiarità linguistica difficile da spiegare: l’ebraico s’interrompe a un terzo del v. 4 e il racconto prosegue in lingua aramaica per tutto il capitolo, anzi fino a tutto il capitolo settimo.

1 Il secondo anno del regno di Nebucadnetsar, Nebucadnetsar ebbe dei sogni; il suo spirito ne fu turbato, e il suo sonno fu rotto.

L’anno secondo di Nabucodonosor corrisponde al 604/603 a.C. se Daniele, come pare logico, computa gli anni di regno secondo il sistema babilonese (vedi commento a 1:1). I tre anni di studio nella scuola reale di Babilonia sono trascorsi (vedi commento a 1:5) e Daniele e i suoi compagni sono già al servizio del re. In Babilonia, come in tutta la Mesopotamia antica, si ravvisava nei sogni delle premonizioni divine49 e si crede che solo agli specialisti della divinazione

49 - GEORGES CONTENAU, La Civiltà degli Assiri e dei Babilonesi, Ginevra 1976, p. 141.

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potevano capire e svelare il significato dei sogni. Di qui il favore particolare di cui gode l’oniromanzia (cioè la divinazione per mezzo dei sogni) fra tutte le pratiche divinatorie50. L’attenzione che i re di questa parte del mondo antico rivolsero ai sogni è abbondantemente documentata dall’età sumerica fino ai periodi assiro e babilonese. L’assiriologo Georges Contenau, al quale ci siamo testé riferiti, scrive che “sino alla fine della storia mesopotamica il numero dei sovrani che furono gratificati dagli dèi di sogni premonitori non si conta”51. L’episodio narrato da Daniele non è dunque un caso isolato nella storia religiosa del Vicino Oriente antico e meno ancora è un racconto fantasioso. Il turbamento di Nabucodonosor potrebbe spiegarsi con la vaga intuizione di una premonizione nefasta. 2 Il re fece chiamare i magi, gli astrologi, gl’incantatori e i Caldei,

perché gli spiegassero i suoi sogni. Ed essi vennero e si presentarono al re. 3 E il re disse loro: “Ho fatto un sogno; e il mio spirito è turbato, perché vorrei comprendere il sogno”. Nabucodonosor convoca nel suo palazzo gli indovini perché gli spieghino i sogni (tOmolx A chalomôth) che lo hanno turbato; nel v. 3 si dice però che il re vuole comprendere il sogno, al singolare (chalom). Nabucodonosor deve avere avuto vari sogni, ma uno in modo particolare deve avere colpito la sua immaginazione. Nel racconto si rispecchia con realismo lo spirito religioso dell’antica Mesopotamia, una terra dove la divinazione in tutte le sue forme, e specialmente nella forma oniromantica (vedi sopra) è stata sempre in grande voga. Il Mesopotamico è convinto che gli dèi possono mandare agli uomini, attraverso canali diversi, avvertimenti e premonizioni e che la divinazione è il mezzo per venirne a conoscenza52. L’esercizio delle pratiche divinatorie in quest’area dell’Oriente antico è attestato ininterrottamente dagli inizi del secondo millennio a.C. fino all’epoca seleucidica. Sono numerosi i testi cuneiformi che ne fanno fede. Si conoscono più di un centinaio di “trattati” divinatori con oltre trentamila oracoli53. La divinazione ha poi un ruolo di primo piano negli affari di stato. “Nessuna decisione importante - citiamo ancora il prof. Contenau - era presa senza che il re interrogasse gli indovini”54. Questi prestigiosi personaggi costituiscono una sorta di corporazione al servizio del re. “Gli indovini regali sono addetti a ogni specie di interpreta-

50 51 52 53 54

- Idem, p. 153. - Idem, p. 139. - Vedi G.CONTENAU, ibidem, p. 138. - Vedi JEAN BATTÉRO, Mesopotamia, p. 134. - La Mesopotamia prima di Alessandro, p. 320

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zioni; sono veri e propri funzionari”55. La convocazione degli indovini di cui parla Daniele non è dunque un fatto inusitato nell’antica Mesopotamia. Il testo danielico nomina quattro categorie di professionisti della divinazione fatti venire alla corte reale per ordine di Nabucodonosor: chartummîm, ’ashshafîm, mekhashshfîm e kasdîm. Di questi termini ebraici è nota con certezza o con approssimazione la provenienza. Chartummîm [{yiM+ u r : x a ]a (in aramaico }yiM+ u r : x a chartummîn; )æYm a + u r : x a chartummaya’ in 4:4), tradotto solitamente “maghi”, non è accostabile a nessun vocabolo accadico conosciuto. Lo si fa derivare dall’egiziano antico cheridem, “capo dei maghi”56, o dal demotico egiziano chr-tp, “sacerdote che proferisce l’oracolo”, “sacerdote-mago”57. In Ge 41:2 e 24 sono chiamati chartummîm gli interpreti egiziani dei sogni, e in Es 7:11, 22 e 9:11 lo stesso termine è applicato ai maghi che contrastano Mosè e Aaronne. Daniele che ha con sé una collezione di libri sacri (9:2) e che comunque da pio giudeo deve conoscere il Pentateuco, verosimilmente da questa fonte trae il vocabolo col quale designa la prima categoria di indovini babilonesi in 2:2. ’Ashshafîm [{yip< f ) a ] (in aramaico }yip$ : ) f ’ashfîn; e)Yæ pa $ : ) af ’ashfaya’ in 2:27, 4:4 e 5:7,11) nelle versioni moderne della Bibbia è tradotto ora “astrologi”, ora “indovini”, ora “incantatori”. L’incertezza della traduzione dipende dal fatto che l’esatto significato del nome sfugge. Di certo si sa che esso viene dall’accadico ashshipu, termine che in Babilonia indicava una classe di sacerdoti dediti principalmente all’esorcismo e agli scongiuri58. Nei passi del testo aramaico sopra citati compare una quinta categoria di indovini nominati hartummîn gazrîn. Il termine viene dal verbo gâzar, “dividere”, e poiché in Babilonia gli astrologi solevano dividere il cielo in settori per trarre i loro auspici dalle stelle, sembra corretto tradurre gazrîn con “astrologi”. Mekhashshfîm [{yip< : ka m : ] (il singolare mekhashshef si trova in De 18:10) viene dalla radice ebraica ph
55 - G. CONTENAU, ibidem, p. 314. 56 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 763. 57 - International. Standandard. Bible Encyclopaedia, vol. III, p. 214. 58 - Vedi G.CONTENAU, La Civiltà degli Assiri e dei Babilonesi, pp. 225-226; J.BOTTÉRO, La reli-

gione babilonese, p. 141.

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Bassa Mesopotamia, i Caldei, sul finire del VII secolo a.C., con Nabopolassar occuparono Babilonia e fondarono la dinastia neo-babilonese di cui Nabucodonosor II, figlio e successore di Nabopolassar, fu il rappresentante più illustre. I Caldei e i Medi, alleatisi insieme, attaccarono il decadente impero assiro nel 614 a.C. e due anni dopo presero e distrussero la capitale Ninive. Nall’Antico Testamento “caldei” come designazione etnica si trova sia nei libri storici (2Re 25:6, 10; 2Cro 36:19; Ed 5:12) sia nei profeti dei periodi assiro (Is 23:13, ecc...) e babilonese (Gr 52:12, ecc.; Ez 12:13, ecc...). Daniele conosce questa accezione corrente del termine (Dn 1:4; 9:1), tuttavia, unico fra gli scrittori biblici, usa il vocabolo anche come denominazione di una categoria sociale (Dn 2:2; 4:7,10; 5:7,11). “Caldei” con questo significato, fuori del libro di Daniele, è documentato per la prima volta negli scritti di Erodoto (circa 450 a.C.)59. Lo scrittore greco parla dei “caldei” come di una casta sacerdotale babilonese. Circa quattro secoli più tardi usano il sostantivo “caldei” come designazione sociale due altri storiografi greci, Strabone e Diodoro Siculo. Per spiegare l’origine di questa seconda accezione del termine il S.D.A. Bible Commentary avanza l’ipotesi assai verosimile che i Caldei quando conquistarono Babilonia occupassero gli incarichi ufficiali di maggior prestigio, compreso il sacerdozio, così che la denominazione etnica finisse per designare l’ufficio sacerdotale con le attività divinatorie accessorie60. “Con l’introduzione crescente dell’aramaico ‘Caldei’ divenne un termine per designare i ‘maghi, gli incantatori e gli indovini’, dato che questi aspetti dei testi religiosi babilonesi sopravvissero più a lungo nell’immaginazione popolare”61. R.W. Wilson, citato da H.C.Leupold62, accosta l’aramaico kasday’ all’accadico galdu, un termine che ricorre spesso nei testi di Babilonia come designazione di una categoria di funzionari addetti al controllo dei progetti pubblici e nelle cui mansioni dovevano rientrare anche l’astrologia e altre pratiche divinatorie, dato che simili progetti non venivano intrapresi o inaugurati in Babilonia senza il responso favorevole dei pronosticatori. Secondo le credenze dei Mesopotamici, numerosi erano i canali attraverso i quali le divinità potevano comunicare con gli uomini, perciò erano altrettanto numerose le pratiche divinatorie destinate a cogliere e interpretare le presunte rivelazioni divine. I presagi potevano essere tratti dai sogni (oniromanzia), dalle stelle (astrologia), dal fegato delle vittime sacrificate (epatoscopia), dal volo degli uccelli (ornitomanzia), dalla direzione di caduta di una freccia dalla feretra scossa (belomanzia), dalle gocce d’olio lasciate cadere in un bacino d’acqua (lecanomanzia), dai movimenti istintivi di individui sani e malati (palmomantica

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- ERODOTO, Le Storie I, 181, 183. - S.D.A. Bible Dictionary, p. 185. - D.J.WISEMAN, in International. Standandard. Bible Encyclopaedia, vol. I, p. 632. - H.C.LEUPOLD, Exposition of Daniel, pp. 85-86

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e iatromantica); e ancora: dalle nascite multiple o mostruose, dal luogo di crescita spontanea di un albero, dal suo stato di rigoglio o di avvizzimento. Ez 21:26 allude alle pratiche della belomanzia e della epastocopia. 4 Allora i Caldei risposero al re, in aramaico: “O re, possa tu vivere

in perpetuo! Racconta il sogno ai tuoi servi, e noi ne daremo la interpretazione”. Fino alla drammatica conclusione del concitato scontro verbale, gli interlocutori del re sono i Caldei. Essi parlano a nome di tutti perché evidentemente sono il gruppo più rappresentativo. I Caldei dicono al re in aramaico di descrivere il sogno e si dichiarano pronti a darne l’interpretazione. Molti commentatori moderni considerano le parole “in aramaico” una glossa, cioè una nota posta in margine al testo da un ignoto copista e che un copista posteriore avrebbe inavvertitamente introdotto nel testo. L’avvertenza che da quel punto i Caldei avrebbero parlato in aramaico ci sembra talmente futile che non ce la sentiamo di condividere l’ipotesi della glossa. Qualunque lettore si sarebbe reso conto da sé del cambiamento di lingua. Per di più non solo il discorso dei Caldei, ma l’intero testo del libro prosegue in aramaico sino alla fine del capitolo settimo. Ci pare più logico pensare che i Caldei parlano al re in aramaico invece che in babilonese - la lingua della popolazione autoctona - perché l’aramaico è la lingua originaria della famiglia reale e della classe dirigente, l’una e l’altra di stirpe caldea come sappiamo. La frase: “O re, possa tu vivere in perpetuo!” è un saluto augurale in uso nelle antiche corti orientali. La formula è attestata altrove nella Bibbia e in Daniele stesso (cfr. 1Re 1:39; Ne 2:3; Dn 3:10; 6:6,21) e anche fuori della Bibbia: un saluto formulato in termini molto simili si è trovato nei testi babilonesi contemporanei: “Possano Nabu e Marduk concedere al re mio signore lunghi giorni e anni interminabili”. 5 Il re replicò, e disse ai Caldei: “La mia decisione è presa: se voi non

mi fate conoscere il sogno e la sua interpretazione, sarete fatti a pezzi; e le vostre case saran ridotte in tanti immondezzai; 6 ma se mi dite il sogno e la sua interpretazione, riceverete da me doni, ricompensa e grandi onori; ditemi dunque il sogno e la sua interpretazione”. Le traduzioni antiche, leggendo l’aramaico )fDzº ) a ’azda’ come voce verbale (da ’azal, “andar via”, “partire”), rendono le parole di Nabucodonosor ai Caldei: “La cosa mi è fuggita (di mente)” (Diodati), “La chose m’est échappèe” (Ostervald), “The thing is gone from me” (King’s James Version). Questa comprensione della frase aramaica ha l’appoggio dei LXX e di Rabbi Rashi che traducono ’azda’ “è sfuggito”63. Letto così, il testo sembra suggerire 63 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, p. 768.

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che i particolari del sogno sono svaniti dalla mente di Nabucodonosor, una circostanza che pare essere in armonia col tenore generale del racconto. I moderni, leggendo con la maggior parte delle versioni contemporanee ’azda’ come aggettivo (“certo”, “sicuro”), pensano che Nabucodonosor celasse di proposito il sogno ai Caldei per saggiarne le capacità divinatorie. Il re è irremovibile nell’esigere che gli indovini gli descrivano i particolari del sogno che si sono dileguati nella sua memoria. Per noi moderni è una pretesa assurda, non lo è per un despota orientale del sesto secolo a.C., tanto più che i suoi indovini vantano poteri che consentono loro di penetrare misteri profondi. Se costoro falliranno, la loro punizione sarà delle più crudeli: i loro corpi saranno smembrati (in aramaico }yimD f h a haddamîn, “pezzi”, “frammenti”) e le loro abitazioni saranno demolite e ridotte in letamai. I tiranni orientali erano capaci di simili atrocità (cfr. 2Maccabei 1:16). Il re assiro Assurbanipal si vanta nelle sue iscrizioni di avere fatto tagliare a pezzi i principi vassalli che gli si sono ribellati. Il despota babilonese alterna minacce agghiaccianti e promesse allettanti: i Caldei e i loro colleghi saranno ricompensati con regale munificenza se si decideranno a descrivergli il sogno prima di dargliene l’interpretazione. 7 Quelli risposero una seconda volta, e dissero: “Dica il re il sogno ai suoi servi, e noi ne daremo l’interpretazione”.

I sapienti si rendono conto che non hanno scampo e cercano di prendere tempo. Con grande cautela (la forma verbale è diversa rispetto al v. 4) essi rinnovano al sovrano l’invito ad esporre il sogno dicendosi pronti ad interpretarlo. 8 Il re replicò, e disse: “Io m’accorgo che di certo voi volete guadagnar tempo, perché vedete che la mia decisione è presa; 9 se dunque

non mi fate conoscere il sogno, non c’è che un’unica sentenza per voi; e voi vi siete messi d’accordo per dire davanti a me delle parole bugiarde e perverse, aspettando che mutino i tempi. Perciò ditemi il sogno, e io saprò che siete in grado di darmene l’interpretazione”. Non sfugge a Nabucodonosor che gli indovini stanno cercando di guadagnare tempo (in aramaico }yénb : zæ ...)ænD f (i ‘iddâna’... zavnîn, “comprare tempo”). Il S.D.A. Bible Commentary ipotizza che la rinnovata richiesta dei Caldei suscitasse nel re il sospetto che temporeggiando essi pensassero di cavarsela in qualche modo, chissà, forse sperando che il sovrano concedesse una dilazione e nel frattempo dimenticasse tutto. Nabucodonosor, che come ogni mesopotamico è convinto che gli dèi comunicano con gli uomini tramite i professionisti della divinazione, forse crede ancora che costoro siano in grado di rispondere alla sua richiesta, ma che esitino a farlo a causa di qualche oscuro complotto tramato a suo danno (“vi siete messi d’accordo per dire davanti a me delle parole bugiarde e perverse”). Perciò insiste nella sua richiesta: se gli indovini gli dichiareranno il sogno, 55

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egli saprà che essi sono sinceri e che l’interpretazione che ne daranno sarà conforme a verità. 10 I Caldei risposero in presenza del re, e dissero: “Non c’è uomo

sulla terra che possa far conoscere quello che il re domanda; così non c’è mai stato re, per grande e potente che fosse, il quale abbia domandato una cosa siffatta a un mago, a un astrologo, o a un Caldeo. 11 La cosa che il re domanda è ardua; e non v’è alcuno che la possa far conoscere al re, tranne gli dèi, la cui dimora non è fra i mortali”. I Caldei e i loro colleghi hanno vantato il possesso di poteri straordinari: ora si vedono costretti a riconoscere le loro umanissime limitazioni: “La cosa che il re domanda è ardua”. Con comprensibile cautela cercano di far comprendere al tiranno signore di Babilonia che la cosa che egli pretende da loro è al di là delle possibilità umane, è un segreto nascosto a tutti i mortali e non a loro soltanto: “non c’è uomo sulla terra che possa far conoscere quello che il re domanda”. Né vi fu mai sulla terra sovrano, per quanto grande e potente, che avesse preteso una cosa simile dai suoi indovini. In fondo è una forma sottile di adulazione: lui, Nabucodonosor, è implicitamente incluso nella categoria dei re grandi e potenti. Forse sperando che il re diventi ragionevole e rinunci alla sua pretesa nei loro riguardi, i Caldei aggiungono che quello che il re esige (in aramaico hfLm i millah, “cosa”, “parola”) è di dominio degli dèi “la cui dimora non è fra i mortali” (in aramaico )fr& : B i bisra’, “carne”), cioè delle divinità superiori che non hanno rapporti con l’umanità, mentre loro, gli indovini, possono soltanto ricevere le comunicazioni delle divinità inferiori. 12 A questo, il re s’adirò, montò in furia, e ordinò che tutti i savi di Babilonia fossero fatti perire. 13 E il decreto fu promulgato, e i savi dovevano essere uccisi...

A nulla è valsa l’abilità dialettica dei caldei: il re è inflessibile, per loro e per i loro colleghi non c’è scampo. La collera montante del sovrano è descritta con efficacia mediante due proposizioni di cui la seconda rafforza la prima: “e il re s’adirò, montò in furia”. Nella sua ira implacabile Nabucodonosor ordina che siano messi a morte tutti i sapienti di Babilonia (per la prima volta sono chiamati “sapienti” - aramaico y"myiKx a chakîmê - i professionisti della divinazione). Il re promulga seduta stante il decreto che sentenzia la morte di tutti i sapienti di Babilonia: da monarca assoluto, egli esercita un potere illimitato che niente e nessuno è in grado di contrastare. Difficile dire se la sentenza riguardi solo gli indovini residenti nella città o se coinvolge anche quelli dispersi nella provincia, Babel essendo designazione tanto dell’una che dell’altra. La proposizione subordinata: “e i savi dovevano essere uccisi” (Luzzi), è resa da altri: “e i savi erano uccisi” (Diodati), “e già i saggi venivano uccisi” (Versione CEI). L’aramaico consente quest’ultima traduzione, tuttavia dal confronto 56

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con altri casi di proposizioni coordinate nel testo aramaico di Daniele nelle quali è presente un rapporto di subordinazione, si può evincere che la prima traduzione è migliore della seconda64. ...e si cercavano Daniele e i suoi compagni per uccidere anche loro Daniele e i suoi amici alla fine dei tre anni di studio nella scuola reale sono stati ammessi al servizio del re (Dn 1:19). Se ora li si cerca per metterli a morte insieme coi sapienti di Babilonia vuol dire che essi fanno parte della categoria. Questo in ogni caso non implica che essi pratichino l’esorcismo e la divinazione (dei fedeli israeliti affronterebbero la morte piuttosto che scendere a patti col paganesimo, vedi Dn 3:16-18). Nella scuola reale Daniele e i suoi compagni hanno acquisito la conoscenza della lingua e della letteratura dei Caldei (Dn 1:4), Caldei essendo qui designazione di nazionalità, non di ufficio. A proposito della cultura di questo popolo, il Prof. D.J.Wiseman spiega: “I Caldei mantennero le scuole tradizionali babilonesi in Babilonia, Borsippa, Sippar, Uruk e Ur. In queste scuole la ‘letteratura dei Caldei’ (Dn 1:4; 2:2; 4:7; 5:7,11) comprendeva lo studio delle lingue sumerica, accadica e aramaica (già ‘caldaica’) e di altre lingue ancora, nonché delle vaste letterature in queste lingue. Facevano parte del curriculum specializzato la storiografia, l’astronomia, la matematica e le medicina”65. Se i quattro giovani ebrei non sono stati convocati nel palazzo insieme con i sapienti, è stato perché, pur facendo parte della categoria, essi sono ancora dei novizi. Il re ha voluto sollecitare il responso dei rappresentanti più autorevoli della cultura magica e divinatoria. 14 Allora Daniele si rivolse in modo prudente e sensato ad Arioc,

capo delle guardie del re, il quale era uscito per uccidere i savi di Babilonia.15 Prese la parola e disse ad Arioc, ufficiale del re: “Perché questo decreto così perentorio da parte del re?” Allora Arioc fece sapere la cosa a Daniele. In Babilonia l’esecuzione delle pene capitali spetta al capo della guardia reale (in aramaico) )æYx a B f + a tabbachayya’, un ufficio paragonabile grosso modo a quello dell’odierno capo della polizia. Evidentemente il capo della guardia reale ricopre anche l’incarico di capo dei carnefici. Arioc si dà subito da fare per eseguire la sentenza del re di cui Daniele viene a conoscenza per esserne coinvolto insieme coi suoi compagni. Daniele interviene senza indugio, forse prima che cominci la strage. Deve usare un tatto non comune per farsi ascoltare dal potente personaggio. Egli ha saputo che una sentenza di morte è stata pronunciata a carico di tutti i savi di Babilonia e deve essere eseguita con rapidità, ma ne 64 - Cfr. H.C.LEUPOLD, op. cit., pp. 93-94. 65 - D.J.WISEMAN, International Standard Bible Encyclopedia, vol. I, p. 632.

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ignora il motivo. Perciò domanda una spiegazione ad Arioc “ufficiale del re” (in aramaico) )fKl : m a -yid )f+yiL$ a shallîta’ dî-malka’, un attributo che sottolinea il potere eccezionale di cui l’alto funzionario è rivestito). L’aramaico hfpc : x : h a m : mehachzfah giustamente è tradotto “perentorio”, che è più che “urgente”. In sostanza Daniele vuole sapere perché il decreto del re non ammette dilazione. Arioc, col quale probabilmente il profeta intrattiene un buon rapporto di amicizia, fornisce al suo interlocutore la spiegazione richiesta e verosimilmente, fidando nella capacità di Daniele di sciogliere l’enigma del re, sospende l’esecuzione dei savi di Babilonia. 16 E Daniele entrò dal re, e gli chiese di dargli tempo; che avrebbe

fatto conoscere al re l’interpretazione del sogno. Nessuno può presentarsi davanti al sovrano senza esserne stato convocato o quanto meno senza farsi annunciare (Et 4:11). Questa procedura, omessa forse per motivo di concisione stilistica, deve darsi per scontata (cfr. v. 24). Daniele non sa ancora niente sul sogno e sul suo significato quando afferma con sicurezza davanti a Nabucodonosor che gli svelerà il segreto. Non è il gesto avventato di un uomo in pericolo di vita che cerca disperatamente di guadagnare tempo; Daniele crede a quello che dice perché crede all’onnipotenza e alla bontà del suo Dio. La fede di Daniele è davvero “certezza di cose che si sperano e dimostrazione di cose che non si vedono! (Eb 11:1). Nabucodonosor verosimilmente accorda la proroga richiesta dal giovane sapiente giudeo, perché a differenza dei Caldei (v.7) costui non ha posto come precondizione la conoscenza del sogno per darne l’interpretazione, ma ha dichiarato con risolutezza che fornirà al re quella interpretazione. 17 Allora Daniele andò a casa sua, e informò della cosa Hanania, Mishael e Azaria, suoi compagni, 18 perché implorassero la misericordia

dell’Iddio del cielo, a proposito di questo segreto, onde Daniele e i suoi compagni non fossero messi a morte col resto dei savi di Babilonia. I quattro giovani giudei fanno parte della categoria sociale sulla quale grava come una spada di Damocle la spietata sentenza di Nabucodonosor. Il pensiero del giovane profeta si volge all’“Iddio del cielo” da cui soltanto può venire la salvezza. Daniele è certo che l’Iddio del cielo risponderà alle preghiere sue e dei suoi compagni, come avrebbe potuto altrimenti farsi introdurre alla presenza del re e dichiarargli in termini perentori che gli avrebbe svelato il sogno? Non per questo però reputa superfluo cercare nella preghiera l’aiuto di Dio. Per quanto Daniele e i suoi compagni nella corte pagana abbiano sempre onorato la loro fede con una condotta limpida e senza mai scendere a compromessi col paganesimo (cfr. 1:8, 11-12), essi non pensano affatto di avere per questo dei meriti personali da far valere davanti a Dio. Come è nel suo stile (cfr. 9:18), Daniele si affida soltanto alla misericordia dell’Iddio del cielo (l’espressione “Iddio del cielo” suona polemica nei confronti della religione astrale babilonese). Daniele dice candidamente e onestamente 58

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che è per avere salva la vita che lui e i suoi amici domandano a Dio di rivelare loro il segreto che Nabucodonosor vuole conoscere. Non è viltà per un uomo retto cercare di scampare alla morte quando non sia messa in gioco la fedeltà a Dio e alla sua legge. La vita dei figli di Dio è servizio e missione: accettarne supinamente il sacrificio quando non sia necessario farebbe soltanto il gioco del nemico dell’Iddio del cielo perché la sua opera sulla terra sarebbe privata di energie e talenti di cui essa ha tanto bisogno. 19 Allora il segreto fu rivelato a Daniele in una visione notturna. E

Daniele benedisse l’Iddio del cielo. La rivelazione che Daniele riceve in una visione notturna è la risposta alla preghiera sua e dei suoi compagni. La visione (in aramaico )æw: zehB : bechezwah, forma enfatica di chezû, corrispondente all’ebraico chazôn) è la via per la quale il Signore si rivela ai profeti del suo popolo. Il sogno (in aramaico chalôm) è una via di rivelazione divina secondaria attraverso la quale Dio talvolta fa pervenire avvertimenti e premonizioni a uomini alieni dal suo popolo. Daniele non dimentica di ringraziare Dio dopo avere ricevuto quanto aveva domandato a Lui in preghiera. 20 Daniele prese a dire: “Sia benedetto il nome di Dio, d’eternità in eternità! Poiché a lui appartengono la sapienza e la forza. 21 Egli muta i tempi e le stagioni; depone i re e li stabilisce, dà la sapienza ai savi, e la scienza a quelli che hanno intelletto. 22 Egli rivela le cose profonde e occulte; conosce ciò ch’è nelle tenebre, e la luce dimora con lui. 23 O Dio de’ miei padri, io ti rendo gloria e lode, perché m’hai dato sapienza e forza, e m’hai fatto conoscere quello che t’abbiam domandato, rivelandoci la cosa che il re vuole”.

Questa pericope in versi è stata definita “il salmo di Daniele”66. In effetti sia la forma letteraria che il tenore del contenuto fanno pensare a un salmo laudativo. Dalle analogie con espressioni poetiche parallele nel salterio, in Giobbe e in Isaia, l’autore citato sopra deduce una vasta conoscenza delle Scritture da parte di Daniele. In questa bella preghiera il profeta anzitutto benedice il nome di Dio ()fhl f ) E -yiD H"m$ : shemeh dî-’elaha’). Il nome tra i Semiti sta per la persona che lo porta. Jahvé è il sacro Nome col quale Dio si è rivelato ai padri per mezzo di Mosè (Es 3:15), il Nome ineffabile che esprime la totale alterità e atemporalità del Dio d’Israele. A Lui Daniele ascrive gli attributi della sapienza e della forza e riconosce il potere di mutare tempi e stagioni (“tempi”, )æYná D f (i ‘iddanayya’ equivale probabilmente ad anni, “stagioni”, )æYná m : zé zimnayya’, a periodi di più breve durata). “In questa espressione - nota Montgomery citato da Leupold - c’è una

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sfida al fatalismo della religione astrale babilonese”. Dio, in effetti, ha il controllo del tempo: è Lui che determina la durata dei regni e delle dinastie, è Lui che stabilisce i re sul trono e li depone. È la filosofia della storia che soggiace a tutto il libro di Daniele (cfr. 4:17,25,32; 5:21). Da Dio - riconosce ancora Daniele - discende la vera sapienza ()ft:m:kfx chokhmetha’) che rende gli uomini savi (}yimyiKx a chakhîmîn), e da Lui procede la vera scienza (hænyiB bhinah). Ma soprattutto Daniele esalta il potere di Dio di rivelare agli uomini cose che altrimenti resterebbero a loro per sempre occulte e impenetrabili, e questo potere precisamente Egli ha esercitato in favore dei suoi servi fedeli. Daniele chiude la sua bella preghiera col rendere lode e gloria all’Iddio dei padri che lo ha dotato di sapienza e di forza (l’aramaico gevurtha’ secondo Leupold si tradurrebbe meglio “abilità”: si tratterebbe della capacità di risolvere il problema del momento) e gli ha fatto conoscere il segreto per il quale egli e i suoi compagni lo hanno invocato, svelando a lui, Daniele, “la cosa” (aramaico millâh) che il re vuole. 24 Daniele entrò quindi da Arioc, a cui il re aveva dato l’incarico di

far perire i savi di Babilonia; entrò, e gli disse così: “Non far perire i savi di Babilonia! Conducimi davanti al re, e io darò al re l’interpretazione”. Daniele non può presentarsi davanti al re se non accompagnato e introdotto da qualcuno che sia preposto a tale ufficio. Questo dettaglio, sottaciuto nel v. 16, qui è dichiarato in modo esplicito. Daniele contatta Arioc per farsi introdurre alla presenza del sovrano. Ancora una volta è sottolineato l’incarico crudele di cui è stato investito il capo della guardia reale. È da notare la nobile premura di Daniele verso i condannati a morte. La prima richiesta che rivolge al potente funzionario che ha nelle mani la loro vita è di non farli perire. Se Daniele e i suoi compagni si fossero trovati essi soltanto in una situazione siffatta ci sarebbe stato qualcuno disposto a intercedere per la loro vita? “Gli empi non sanno quanto siano debitori ai giusti. Eppure quante volte i malvagi non hanno messo in ridicolo e perseguitato coloro ai quali dovettero la vita”67. Daniele dunque domanda ad Arioc di risparmiare la vita dei savi di Babilonia e di condurlo dal re al quale svelerà il significato del sogno (è perché ha la certezza di possedere questo segreto che egli sa di potere osare tanto). 25 Allora Arioc menò in tutta fretta Daniele davanti al re, e gli parlò

così: “Io ha trovato, fra i Giudei che sono in cattività, un uomo che darà al re l’interpretazione”. 67- S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 770

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La fretta (hflh f B : t : h i B : behithbehalah) con cui Arioc conduce Daniele dal re è motivata dalla contentezza che sia stato scoperto il segreto che preme al sovrano, come suppone il S.D.A. Bible Commentary, oppure dal fatto che incombe una scadenza improrogabile, forse la dilazione che il re ha concesso a Daniele (v. 16)? A noi sembra più probabile questa seconda ipotesi. Se essa è corretta, si può immaginare con quanto sollievo Arioc possa avere accolto la richiesta dell’esule giudeo. Una carneficina, che oltretutto coinvolge gli uomini più illustri del paese e forse anche degli amici personali del capo della guardia non deve essere un compito facile neppure per un uomo duro e abituato a ubbidire ciecamente come quest’ultimo. Arioc vuole avere un ruolo di protagonista nella drammatica vicenda: si attribuisce il merito di avere scoperto lui fra i Giudei deportati in Babilonia, un uomo che potrà svelare il segreto del re. Il dettaglio sembra incongruente. Infatti Nabucodonosor sa che questo giudeo gli fornirà l’interpretazione del sogno (v. 16). L’incongruenza comunque cade se si ammette che Arioc possa avere ignorato tale circostanza. Il v. 16, come si è visto, sottintende che qualcuno abbia introdotto Daniele in presenza del sovrano la prima volta, ma questi può non essere stato il capo della guardia del re. 26 Il re prese a dire a Daniele, che si chiamava Beltsatsar: “Sei tu capace di farmi conoscere il sogno che ho fatto e la sua interpretazione?”

Il nome originario del profeta evoca le sue radici giudaiche, il nome babilonese ricorda realisticamente che egli è sottoposto alla sovranità ed è al servizio del re di Babilonia. Sorvolando i preliminari, Nabucodonosor menziona subito il problema che lo assilla: “Sei tu capace di farmi conoscere il sogno...?” La domanda sembra suggerire in primo luogo che la rivelazione del sogno prema al re quanto la sua interpretazione se non più, secondariamente che Nabucodonosor sia tuttora convinto che un uomo dotato di vere virtù divinatorie debba essere capace di indovinare il sogno di un altro uomo (“Sei tu capace...?”), e infine che un’ombra di scetticismo attenui le aspettative del re, cosa peraltro comprensibile dopo il fallimento dei celebrati sapienti di Babilonia. 27 Daniele rispose in presenza del re, e disse: “Il segreto che il re do-

manda, né savi, né incantatori, né magi, né astrologi possono svelarlo al re; 28 ma v’è nel cielo un Dio che rivela i segreti, ed egli ha fatto conoscere al re Nebucadnetsar quello che avverrà negli ultimi giorni... “Daniele rispose in presenza del re...”. Colui alla cui presenza è stato condotto questo deportato giudeo, e alla cui domanda deve adesso rispondere, non è un mortale qualunque, è il re di Babilonia, il potente signore che domina su una va61

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sta area del mondo abitato (cfr. v. 38), il despota crudele che dispone a suo talento della vita e della morte dei suoi sudditi (cfr. v. 12). Al contrario dell’interpellante, che viene subito al sodo, l’interpellato esordisce con un breve preambolo. Le parole introduttive del profeta tradiscono la sua preoccupazione dominante che è di rendere onore e gloria all’Iddio Unico davanti a questo dominatore pagano la cui visione religiosa è popolata di una moltitudine di divinità. Prima di tutto Daniele dichiara la totale impotenza umana di fronte alla richiesta del re, preparando in tal modo il terreno per la glorificazione di Dio: “Il segreto che il re domanda, né savi, né incantatori, né magi, né astrologi possono svelarlo al re”. Alle categorie di indovini già menzionate (v. 2) se ne aggiunge una nuova, quella dei gazrîn, termine che viene correttamente tradotto “astrologi” (vedi il commento ai vv. 2 e 3). La premessa ha aperto la via ad un’affermazione ardita che occupa il centro dei pensieri di Daniele: “v’è nel cielo un Dio che rivela i segreti…” Quello che Daniele ha detto fin qui in sostanza non differisce da quello che avevano detto i Caldei. Costoro infatti avevano dichiarato: “Non c’è uomo sulla terra che possa far conoscere quello che il re domanda tranne gli dèi la cui dimora non è fra i mortali” (vv. 10,11). La sola differenza - e non certo di poco conto - sta nella contrapposizione radicale tra la visione monoteistica di Daniele (“un Dio”) e la concezione politeistica degli indovini pagani (“gli dèi”). Daniele, dunque, ha sostanzialmente ribadito un concetto già noto a Nabucodonosor, un concetto che aveva eccitato l’ira violenta del re (v. 12). Ma adesso giunge la rivelazione che appagherà la sua aspettativa. L’Iddio del cielo che rivela i segreti “ha fatto conoscere al re Nebucadnetsar quello che avverrà negli ultimi giorni”. L’espressione aramaica )æYm a Oy tyirx A ) a B : be‘acharîth yomayya‘ indica lo scadere di un periodo futuro di tempo la cui estensione sarà determinata dalla successione degli eventi rivelati nel sogno. Non Bel-Marduk, il signore supremo del pantheon babilonese, non suo figlio Nebo, il dio della scienza il cui nome è incorporato nel nome del re, ma l’Iddio del cielo, il vero e unico conoscitore dei segreti, è Quegli che ha voluto far conoscere al re Nabucodonosor il corso futuro degli eventi fino alla consumazione dei secoli (è già delineato il significato fondamentale della rivelazione). 28b ... Ecco quali erano il tuo sogno e le visioni della tua mente quand’eri a letto. 29 I tuoi pensieri, o re, quand’eri a letto, si riferi-

vano a quello che deve avvenire da ora innanzi; e colui che rivela i segreti t’ha fatto conoscere quello che avverrà. “Sogno” (in aramaico chelem) si riferisce probabilmente all’oggetto globale dell’esperienza onirica, “visioni” (in aramaico chezwê) ai particolari. Il sogno che ha suscitato inquietudine nell’animo del re non è stato un fatto accidentale. Per illuminazione divina Daniele conosce, e svelerà al re, non solo il sogno e la sua interpretazione, ma finanche la circostanza che lo ha preceduto e in qualche modo determinato. Disteso nel suo letto regale, Nabucodonosor stentava a pren62

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dere sonno e i suoi pensieri vagavano nell’oscurità impenetrabile che cela agli uomini il futuro. Con un seguito di rapide e fortunate campagne militari, il sovrano della nuova Babilonia ha creato un impero che si estende dalle rive del Golfo Persico alle sponde del Mediterraneo e raccoglie entro i suoi confini etnie differenziate per linguaggi e tradizioni culturali e religiose. Quanto a Babilonia, egli ha in mente progetti ambiziosi per farne la metropoli più splendida del mondo. Ma quali sorprese riserba il futuro immediato? E quale sorte sarà riservata al vasto impero e alla sua superba capitale dopo di lui? L’Iddio del cielo, sconosciuto a Nabucodonosor ma che Daniele serve e adora, si è degnato di far conoscere al re tutto questo e ancora più di questo. Lo ha fatto per una via che tocca particolarmente la sensibilità del re come di ogni mesopotamico: il sogno. Una forma oscura di rivelazione, sicuramente, ma appunto per questo tale da richiedere l’intervento dei professionisti della divinazione, col risultato, imprevedibile per Nabucodonosor, che si paleseranno da una parte l’impotenza degli indovini pagani e quindi delle divinità che essi evocano, e dall’altra l’illuminazione di Daniele e conseguentemente il potere del Dio che egli serve. 30 E quanto a me, questo segreto m’è stato rivelato, non per una sa-

pienza ch’io possegga superiore a quella di tutti gli altri viventi, ma perché l’interpretazione ne sia data al re, e tu possa conoscere quel che preoccupava il tuo cuore. Con umiltà e onestà Daniele mette da parte la sua persona e di nuovo glorifica pur senza nominarlo l’Iddio del cielo che ha risposto all’invocazione sua e dei suoi compagni. Se egli conosce il segreto del re - dice Daniele in perfetta coerenza con quanto aveva premesso al v. 27 - è perché gli è stato rivelato, e non perché egli sia in possesso di una sapienza che sopravanzi ogni umana conoscenza. Il segreto gli è stato rivelato al solo scopo di far conoscere al re Nabucodonosor la giusta interpretazione del sogno e con esso la risposta del cielo agli interrogativi che lo avevano turbato prima di addormentarsi. 31 Tu, o re, guardavi, ed ecco una grande statua; questa statua,

ch’era immensa e d’uno splendore straordinario, si ergeva dinanzi a te, e il suo aspetto era terribile. Nel sogno era parso a Nabucodonosor che una statua di smisurata grandezza si ergesse davanti a lui. L’imponenza della figura plastica è enfatizzata dall’interprete con un duplice riferimento alla sua dimensione: “una grande statua” ()yiGa& dax {"l:c tzelem chad sagghî’), e: “questa statua che era immensa” (bar }"KD i )fml : c a tzalma’ diken rav). Abbaglianti riflessi metallici conferivano alla gigantesca figura un aspetto se possibile ancor più terrificante. Si può immaginare lo stupore ammirato del sovrano mentre Daniele gli descrive con precisione il sogno che era svanito dalla sua mente. 63

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32 La testa di questa statua era d’oro fino; il suo petto e le sue braccia eran d’argento; il suo ventre e le sue cosce, di rame; 33 le sue

gambe, di ferro; i suoi piedi, in parte di ferro e in parte d’argilla. Dopo una sommaria presentazione d’insieme dell’immagine onirica, il profeta passa a descriverla nei dettagli. Quattro metalli di valore e lucentezza decrescenti si susseguivano dall’alto verso il basso. D’oro fino parevano essere fatti il capo e il collo, e di argento lucido il torace con le spalle e le braccia. Il ventre e le cosce sembravano essere di rame (l’aramaico $fxnº nechâsh può anche tradursi “bronzo”, e forse questa è la traduzione che si addice meglio, giacché nell’antichità questa lega metallica era più comune del rame puro come è attestato dall’abbondanza di oggetti di bronzo rinvenuti dagli archeologi). Infine le gambe della grande statua sembravano essere di ferro, un metallo che nel Vicino Oriente si diffuse a partire dal XIII secolo a.C. fin quasi a soppiantare il bronzo. L’impressione poteva essere quella di una formidabile solidità, stante la durezza e la compattezza dei metalli; in realtà l’incoerente amalgama di ferro e argilla su cui il colosso poggiava rendeva quest’ultimo estremamente fragile. G.Rinaldi (op. cit., pp. 52, 54) suppone che i piedi fossero di creta con un rivestimento esterno di ferro (“in parte di ferro e in parte d’argilla”), ma l’espressione del v. 41: “il ferro mescolato con la molle argilla (rfxpe -yiD vasx A “argilla da vasaio”), (Rinaldi: “creta fangosa”), fa pensare piuttosto a un miscuglio di argilla e pezzetti di ferro. Il termine aramaico tradotto “argilla”, vasx A chasaf, denota piuttosto il manufatto che non la materia con cui lo si modella. “Terracotta” sarebbe una traduzione più appropriata. 34 Tu stavi guardando, quand’ecco una pietra si staccò, senz’opera

di mano, e colpì i piedi di ferro e d’argilla della statua, e li frantumò. 35 Allora il ferro, l’argilla, il rame, l’argento e l’oro furon frantumati

insieme, e diventarono come la pula sulle aie d’estate; il vento li portò via, e non se ne trovò più traccia; ma la pietra che aveva colpito la statua diventò un gran monte, che riempì tutta la terra. La scena, finora statica, d’un colpo si fa movimentata. Una pietra non mossa da mano umana si stacca da un monte che fiancheggia la statua e va a colpirla nella parte più fragile. Immediatamente il colosso, che pareva indistruttibile, si affloscia su se stesso riducendosi in minuti frammenti d’oro, d’argento, di bronzo, di ferro e di terracotta subito dispersi dal vento. La totale sparizione dei frammenti è sottolineata con l’espressione: “non se ne trovò più traccia” (letteralmente “non si trovò più posto per essi”). Il sasso che provocò tanto sfacelo crebbe a dismisura fino a diventare una montagna grande quanto la terra (la “terra”, )f(r : ) a ’ar‘a’ in aramaico, è l’area circostante la statua che il soggetto sognante poteva abbracciare con lo sguardo). I metalli (v. 35) sono nominati in ordine inverso rispetto ai vv. 32 e 33 perché la statua comincia a disintegrarsi dal basso, dove la pietra l’ha colpita. 64

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36 Questo è il sogno; ora ne daremo l’interpretazione davanti al re.

Proprio come il re aveva voluto, Daniele distingue nettamente il sogno dalla sua interpretazione: prima descrive la scena, poi la interpreta. Nabucodonosor sembra convinto che la capacità di svelare il sogno garantisca la giustezza della sua interpretazione (vedi v. 9 u.p.). La forma plurale del verbo: “ne daremo l’interpretazione”, esprime l’umiltà di Daniele che ha voluto dividere coi compagni quello che il re avrebbe considerato come un merito eccezionale. In fondo la rivelazione del segreto che Daniele aveva ricevuto in visione (vv. 17, 18) era stata la risposta del Cielo alla preghiera sua e dei suoi compagni. 37 Tu, o re, sei il re dei re, al quale l’Iddio del cielo ha dato l’impero, la potenza, la forza e la gloria; 38 e dovunque dimorano i figlioli degli

uomini, le bestie della compagna e gli uccelli del cielo, egli te li ha dati nelle mani, e t’ha fatto dominare sopra essi tutti. La testa d’oro sei tu. “Tu, o re, sei il re dei re”. Con questo superlativo aramaico Daniele ha voluto esprimere la deferenza dovuta a un grande monarca, non certo un complimento adulatorio. Del resto questo titolo, che anche Ezechiele riconosce al re di Babilonia (Ez 26:7), si addice bene a Nabucodonosor. Nel contesto politico dell’epoca, nessun sovrano ha potuto rivaleggiare col signore di Babilonia, nessun regno ha potuto eguagliare il suo per potenza e splendore. Tutto questo però non era soltanto né primariamente il risultato di fattori puramente umani. È stato l’Iddio del cielo - l’Iddio che ha voluto rivelare a Nabucodonosor il gran “segreto”- che gli ha conferito l’impero (cioè la sovranità, l’autorità regale), la potenza (vale a dire la capacità di governare), la forza (ovvero l’energia con cui far fronte ai problemi esterni) e la gloria (ossia il prestigio che viene da un esercizio illuminato della sovranità), e ha ridotto sotto la sua signoria le masse umane e la moltitudine di creature selvatiche che popolano le regioni del suo vastissimo dominio. “Tu sei la testa d’oro”. La testa è la parte più nobile del corpo umano e l’oro è il più nobile dei metalli. Questa parte di maggior pregio della statua che Nabucodonosor vide in sogno, dunque una raffigurazione dell’impero neo-babilonese che Daniele identifica per metonimia col suo sovrano. Nell’antichità il re era visto come l’incarnazione del regno e questa concezione si rispecchia anche nel nostro libro dove in più di un luogo (cfr. v. 39a e 7:17, 23) i termini “re” e “regno” sono equivalenti e intercambiabili. Nel caso di Nabucodonosor tale identificazione tanto più gli si addice essendo stato lui l’artefice dell’impero sul quale regna. Per molti aspetti l’epoca di Nabucodonosor fu davvero un’epoca aurea. A parte l’esercizio dispotico dell’autorità regale - caratteristica peraltro comune a tutti i regnanti dell’epoca, e non soltanto di quell’epoca - Nabucodonosor fu per 65

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altri versi un sovrano illuminato68. Della nuova Babilonia, così come lui la volle e la realizzò, si può dire che nessuna città del mondo contemporaneo fu in grado di competere con lei quanto a splendore materiale e culturale. Sul piano dell’arte, basta ricordare alcune delle sue splendide opere architettoniche, come i favolosi giardini pensili, come la stupenda porta di Ishtar e la grande via processionale che si apriva dietro di essa, come gli imponenti edifici sacri dell’Esagila... Tutte opere che testimoniano l’abilità eccezionale degli architetti che le eseguirono. Sul piano della cultura letteraria e scientifica, è sufficiente menzionare i testi mitologici e le opere di matematica, di astronomia e di medicina che si custodivano nelle biblioteche dei templi e del palazzo reale e che l’archeologia ha ricuperato in buona parte. Sono opere che rivelano l’alto livello culturale a cui erano pervenuti i letterati e gli scienziati di Babilonia. L’oro è davvero un simbolo appropriato per raffigurare la civiltà neo-babilonese! 39 e dopo di te sorgerà un altro regno, inferiore al tuo; poi un terzo regno, di rame, che dominerà sulla terra; 40 poi vi sarà un quarto regno, forte come il ferro; poiché, come il ferro spezza ed abbatte ogni cosa, così, pari al ferro che tutto frantuma, esso spezzerà ogni cosa.

L’aggettivo indefinito “altro”, quando è usato come lo usa qui Daniele, stabilisce un rapporto di uguaglianza tra la cosa a cui è riferito e la cosa nominata prima. “Un altro” (in aramaico yirx F ) f ’acharî) in questo passo è riferito a “regno” (in aramaico Uk:lm a malkû), e la cosa nominata prima è la persona del re (“e dopo di te”, in aramaico uvathrak). Pertanto “dopo di te” non significa “dopo la tua persona”, ma “dopo il tuo regno”. Difatti il regno di Persia non sorse dopo Nabucodonosor, ma dopo Babilonia. Trascorsero 23 anni e si succedettero sul trono di Babilonia quattro re fra la scomparsa di Nabucodonosor e l’avvento di Ciro, fondatore dell’impero persiano. In definitiva in questo passo danielico la persona del re appare come il simbolo e l’incarnazione vivente del regno, il che è perfettamente conforme allo spirito dell’Antico Oriente. Daniele dunque predice il trapasso del dominio universale da Babilonia a un regno successivo (in aramaico: yirFxf) Uk:lam {Uq:T \fr:tfbU uvathrak theqûm malkû ’acharî, alla lettera: “e dopo di te sorgerà un regno un altro”). L’aggettivo indeterminato ’acharî (“un altro”) che accompagna il sostantivo malkû (“regno”), significa in sostanza “un secondo uguale”; dunque “re” e “regno” in questa frase sono concetti equivalenti. In altre parole, quel “dopo di te” equivale a dopo il tuo regno. L’avvento del regno di Persia alla caduta di Babilonia ventitrè anni dopo la morte di Nabucodonosor convalida, se ve ne fosse bisogno, questa tesi lapalissiana. Cfr. il commento di 7:3. L’avverbio temporale bathar, una volta espresso e

68 - Cfr. G. PETTINATO, Babilonia, centro dell’universo, cap. IX.

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due volte sottinteso, denota una successione di eventi consecutivi. In sostanza il sogno di Nabucodonosor anticipa, in una mirabile sintesi allegorico-profetica, il mutevole panorama politico del mondo futuro. La sequenza oro/argento/bronzo/ferro-argilla rappresenta il succedersi delle potenze terrene dal tempo di Daniele fino all’avvento del regno di Dio. La serie dei regni si apre con Babilonia, all’apice della sua grandezza al tempo di questa rivelazione (l’Assiria non conta più nel panorama profetico appartenendo oramai alla storia). Questa parte del commento si limita a una sommaria disamina delle ipotesi principali riguardo all’identità dei regni. Sulla loro storia si dilungherà di più il commento del capitolo settimo. L’identità del primo regno è rivelata senza possibilità di fraintendimenti (vv. 37 e 38). Sugli altri regni gli espositori sono divisi. Merita appena un cenno l’ipotesi isolata di qualche studioso che ha visto nei metalli raffigurazioni di personaggi piuttosto che di nazioni (ROWLEY: 1. Nabucodonosor, 2. Belsazar, 3. Dario, 4. Alessandro; VAN HOONACKER: 1. Nabucodonosor, 2, Evil-merodac, 3. Neriglissar, 4. Nabonide). Dall’antichità fino ai nostri giorni, gli interpreti ebrei e cristiani di Daniele hanno scorto quasi unanimemente le grandi monarchie universali da Babilonia in avanti nelle quattro parti della statua. Sull’identità dei regni nell’antichità ci fu una sostanziale convergenza. Oggi sussiste una notevole divergenza. Con EMANUELE TESTA69 distinguiamo tre principali indirizzi interpretativi nell’esegesi moderna di Daniele capitoli due e sette: (1) la teoria greca, che identifica Babilonia con l’oro, la Media con l’argento, la Persia col bronzo e la Grecia col ferro; (2) la teoria siriana che propone la sequenza Babilonia/Medo-Persia/Alessandro e i Diadochi/la Siria dei Seleucidi; (3) la teoria romana che scorge nei quattro metalli Babilonia, Medo-Persia, Grecia e Roma. La teoria “romana” è la più antica ed è quella che ha raccolto i maggiori consensi nel passato. Oggi è mantenuta dai conservatori, per lo più protestanti. Le teorie “greca” e “siriana” sono adottate dai commentatori di tendenza criticoliberale, che sono i più numerosi (i cattolici di lingua italiana si attengono di preferenza alla spiegazione siriana)70. La teoria greca appare fragile principalmente per due ragioni: (1) essa separa arbitrariamente la Media e la Persia, due nazioni affini etnicamente e culturalmente le quali nel periodo storico a cui si riferisce la profezia formavano uno stato unitario, come le considera correttamente Daniele (5:28;

69 - EMANUELE TESTA, Messaggio della salvezza, vol. III, nota 7, pp. 142-143. 70 - Vedi E.TESTA, op. cit., G.RINALDI, Daniele.

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6:8,12,15; 8:20)71. (2) Questa teoria lascia un vuoto abissale fra il quarto regno e il regno di Dio. La teoria siriana non è molto più coerente dell’ipotesi “greca”. Intanto non meglio di quella essa riesce a colmare il “gap” tra il quarto regno e il regno di Dio. Inoltre i fatti la contraddicono. Daniele attribuisce al quarto regno straordinaria compattezza (“forte come il ferro”) e schiacciante pressione militare (“esso spezzerà ogni cosa”). Il regno dei Seleucidi non ebbe né l’una né l’altra. Dal tempo di Antioco III in poi il suo territorio venne riducendosi a causa di perdite dovute a sconfitte militari o defezioni. Misurandosi con l’Egitto dei Tolomei la Siria collezionò più sconfitte che successi, e se infine Antioco III riuscì ad avere ragione di Tolomeo IV, sottraendogli Cipro, la Celesiria e la Palestina, soccombette poi a Magnesia, nel 190 a.C., di fronte alle forti legioni di Roma e dovette accettare le dure condizioni di pace imposte da Lucio Cornelio Scipione: abbandono delle isole egee, cessione dei possedimenti in Asia Minore, consegna di gran parte della flotta e di venti ostaggi fra cui uno dei suoi figli - il futuro Antioco IV - e pagamento di un’indennità di 15.000 talenti entro dodici anni72. Non migliore fortuna ebbe il figlio e successore di Antioco III, Antioco IV Epifane che i Romani costrinsero nel 168 a.C. a sgombrare l’Egitto e a rinunciare alla sua annessione73. I successori dell’Epifane dovettero persino abbandonare la Palestina a seguito delle epiche lotte dei Maccabei74. Può mai essere stata la Siria seleucida il regno del ferro che tutto frantuma? La spiegazione romana è la più coerente. Non ci sono dubbi che all’epoca del declino dei regni ellenistici, ultimi eredi dell’impero di Alessandro (I secolo a.C.), ci fosse una sola potenza nel bacino del Mediterraneo che potesse rispondere alle caratteristiche del quarto regno di Dn 2, e questa potenza era Roma. Roma che, sbaragliata la forte rivale Cartagine, si affaccia con prepotenza sulle terre bagnate dal Mediterraneo orientale. Si è detto più sopra che la spiegazione “romana” di Dn 2 e 7 è la più antica. In effetti essa fu adottata dall’esegesi ebraica di Daniele prima dell’era cristiana. L’identificazione di Roma nel quarto regno danielico doveva già essere

71 - Talvolta Daniele usa isolatamente i termini “medo/medi” e “persiano” (5:31; 6:28; 9:1; 11:1), ma li usa come designazioni di nazionalità e non di stati. Varie volte il nome della Persia compare isolato verso la fine del libro (10:1,13,20 e 11:2), ma poiché senza eccezioni esso è associato al nome di Ciro - l’unificatore di stirpe persiana dei due regni - o ad anonimi successori di Ciro, l’inclusione della Media è implicita. Daniele non nomina mai la Media come stato autonomo e in effetti essa non lo fu più da quando Ciro II l’ebbe ridotta sotto la sovranità degli Achemenidi nove anni prima della conquista di Babilonia. 72 - Vedi G.RICCIOTTI, Storia d’Israele, IV ediz., vol. II, pp. 59, 60. 73 - G.RICCIOTTI, ibidem, p. 62. 74 - Vedi G.RICCIOTTI, ibidem, p. 321.

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nota ai Giudei della diaspora alessandrina se i traduttori in greco di Daniele resero “i Romani” l’espressione ebraica “le navi di Kittim” in Dn 11:30. Questa interpretazione divenne la norma dell’ebraismo posteriore. Nel primo secolo della nostra era essa fu applicata dagli ignoti autori del IV Esdra (11:1 e 12:10 e segg.) e dell’Apocalisse di Baruc. GIUSEPPE FLAVIO non si pronuncia sull’identità del quarto regno, e si può capirlo avendo egli intrattenuto rapporti di amicizia coi Romani, ma in Antichità Giudaiche (lib. IX, I, 329) lo storico giudeo interpreta come compimento della profezia di Daniele la tragica fine di Gerusalemme nell’anno 70 riconoscendo di fatto Roma nel quarto regno di Dn 2 e 7. Questa linea interpretativa fu mantenuta in seno all’ebraismo posteriore, come fanno fede il Talmud, i Midrashim e il Targum, e nei secoli seguenti (dal IX al XVII) i rabbini che hanno commentato Daniele75. L’esegesi cristiana antica condivise l’interpretazione tradizionale ebraica sui quattro regni danielici. Nella seconda metà del secondo secolo IRENEO interpretò Dn 2 secondo il modello ebraico. Il vescovo di Lione, sebbene non nomini mai Roma per comprensibili ragioni di prudenza, era conscio di vivere sotto il quarto impero76. Invece TERTULLIANO al principio del secolo seguente menziona Roma senza reticenze in rapporto alle profezie danieliche. Nello stesso periodo IPPOLITO ROMANO conferma l’identificazione tradizionale dei quattro regni. Nel secolo seguente EUSEBIO DI CESAREA vede anch’egli l’Impero Romano nell’ultimo dei regni terreni di cui parla Daniele, e al principio del V secolo GIROLAMO, il principe degli antichi espositori cristiani di Daniele, scrive testualmente riguardo al quarto regno che esso “chiaramente concerne quello dei Romani”77. Sempre nel V secolo, TEODORETO DI CIRO scorge nel regno del ferro un’immagine di Roma. I primi riformatori nel secolo XVI interpretarono secondo il modello ebraico-cristiano antico Dn 2 e 7. LUTERO e MELANTONE identificarono con Babilonia, Medo-Persia, Grecia e Roma le quattro parti della statua. Nel secolo XVIII però l’ermeneutica biblica protestante si allontanò dalla linea ortodossa dei primi riformatori. Sotto l’influenza del razionalismo illuministico, i biblisti protestanti trattarono la Scrittura alla stregua di un libro comune. Negato il valore della profezia, essi sostituirono all’interpretazione storicistica di Daniele quella preteristica escogitata sul finire del XVI secolo dal gesuita L.DE ALCAZAR e di conseguenza, ripudiata la tesi romana su Dn 2 e 7, adottarono l’ipotesi “greca” o quella “siriana”. Oggi questa linea interpretativa, come si è detto, è seguita dall’esegesi liberale protestante e da gran parte dell’esegesi cattolica.

75 - Vedi J.ZURCHER, “Le quatre empires universels” in Daniel, questions débattues, p. 153. 76 - Adv. Haer., V, 26. 77 - Girolamo su Daniele, pp. 48, 49

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In polemica con gli interpreti liberali, i conservatori hanno difeso e mantenuto fino ai nostri giorni il valore profetico del libro di Daniele. Sono stati numerosi gli autori protestanti, e meno quelli cattolici, che hanno adottato la spiegazione “romana” di Dn 2 e 7. Fra i primi ricorderemo C. A. AUBERLEN (1854), L. GAUSSEN (1850), C. BOUTFLOWER (1923), R. D. WILSON (1938), E. J. YOUNG (1949), H. C. LEUPOLD (1949), G. L. ARCHER Jr. (1985); e fra i secondi J. FABRE D’ENVIEU (1888), E. PHILIPPE (1927) E J. LINDER (1939). Gli autori avventisti che hanno commentato Daniele (U. SMITH, R. A. ANDERSON, J. VUILLEUMIER, A. F. VAUCHER, A. J. FERCH e altri) si sono attenuti unanimemente alla tesi “romana”. Nel testo danielico una o più note individuali caratterizzano ciascuno dei quattro regni. Del primo si sottolinea la dimensione spaziale: “dovunque dimorano i figlioli degli uomini... egli (l’Iddio del cielo) te li ha dati nelle mani” (v. 38). In effetti Nabucodonosor riunì sotto il suo scettro tutti i popoli della Mesopotamia (tranne gli Assiri), della Siria e della Palestina, dalle rive del Golfo Persico alle frontiere dell’Egitto. Del secondo regno si evidenzia l’inferiorità rispetto al primo: “e dopo di te sorgerà un altro regno inferiore al tuo” (v. 39a). Si è pensato a torto a un’inferiorità spaziale; l’impero degli Achemenidi superò per vastità territoriale quello creato da Nabucodonosor. L’inferiorità dei Persiani rispetto ai Babilonesi fu manifesta principalmente sul piano culturale. Del terzo regno si enfatizza l’egemonia universale: esso “dominerà sulla terra” (v. 36b). Invero l’impero creato da Alessandro non ebbe eguali per vastità territoriale. Agli sterminati domini della Media e della Persia il Macedone aggiunse le province ad est dell’Iran fino alle sponde dell’Indo e oltre, senza contare le terre ad ovest e a sud dell’Eufrate. Del quarto regno, infine, il profeta mette il risalto la forza e la compattezza: “poi vi sarà un quarto regno forte come il ferro” (v. 40). Il paragone calza alla perfezione: lo storico EDWARD GIBBON definì lo stato romano “la monarchia di ferro” per la sua coesione interna, la sua disciplina e la forza delle sue armi. Il ferro, nota il LEUPOLD, è anche un simbolo appropriato della durezza crudele con cui i Romani trattarono i nemici. C. BOUTFLOWER ha colto relazioni significative fra i metalli e i regni che essi rappresentano. L’oro, profuso nelle immagini delle divinità, negli altari e nelle decorazioni dei templi, distinse effettivamente la città di Babilonia. L’argento, sinonimo di denaro in ebraico e in altre lingue antiche, esprime adeguatamente lo spirito mercantilistico dei Medi e dei Persiani (a questi ultimi si deve fra l’altro il conio delle prime monete, le famose dariche d’argento). Il bronzo fu usato largamente dai Greci per produrre armi e scudi. Il ferro, infine, fu il metallo con cui i romani forgiarono le loro spade, i loro elmi e i loro scudi. Merita attenzione la circostanza che Daniele, mentre è laconico sul primo, secondo e terzo regno, sul quarto si dilunga molto di più, e questo sia nel capitolo due che nel settimo. Si consideri che dal quarto regno prendono l’avvio degli sviluppi che condurranno fino all’avvento del Regno di Dio. 70

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41 E come hai visto i piedi e le dita, in parte d’argilla di vasaio e in

parte di ferro, così quel regno sarà diviso; ma vi sarà in lui qualcosa della consistenza del ferro, giacché tu hai visto il ferro mescolato con la molle argilla. Come nel corpo umano i piedi sono il prolungamento naturale delle gambe, così in questo simulacro d’uomo le parti inferiori rappresentano la continuazione del regno del ferro, ma nella fase discendente della sua parabola storica. Infatti al duro e compatto metallo delle gambe si è sostituito quell’assurdo miscuglio di ferro e terracotta dei piedi. La durezza del ferro e la fragilità della terracotta sono una plastica immagine del coesistere di elementi di forza e di debolezza nel tessuto vivo di questo regno che avrà perso la sua monolitica compattezza: “quel regno sarà in parte forte e in parte fragile” (v. 42). E come i piedi si suddividono nelle dita (anch’esse di ferro e terracotta) così, in questa fase decadente della sua storia, il quarto regno si frazionerà in una moltitudine di regni minori (“quel regno sarà diviso”, v. 41) caratterizzati anch’essi da elementi di forza e debolezza. I fautori della teoria “greca” scorgono i successori di Alessandro nei piedi di ferro e terracotta e invocano come argomento a sostegno la divisione in quattro dell’impero macedone alla morte del suo fondatore (Dn 7:6; 8:8,22). Anche questa interpretazione è resa fragile dalle difficoltà segnalate nel commento del versetto precedente, ovvero dall’impossibilità di colmare il vuoto fra il quarto regno e il regno di Dio. Con più coerenza, i difensori dell’interpretazione “romana” scorgono nei piedi di ferro e terracotta un’immagine dell’Impero latino decadente all’epoca delle invasioni barbariche. I due materiali così diversi rappresentano con molta verosimiglianza le due razze tanto differenti per cultura e civiltà che convissero gomito a gomito in questo momento critico della storia dell’Impero: la forte stirpe romana e le più “plastiche” etnie germaniche suscettibili di essere plasmate in qualche misura dalla superiore cultura latina (Leupold). 42 E come le dita dei piedi erano in parte di ferro e in parte d’argilla, così quel regno sarà in parte forte e in parte fragile.

Numerosi commentatori hanno ravvisato nelle dieci corna della quarta bestia (Dn 7:7) una replica delle dieci dita della statua (2:41)78. Poiché le dieci corna rappresentano “dieci re” (Dn 7:24) e in Daniele i termini “re” e “regno” sono equivalenti (cfr. 7:17 e 23), gli interpreti conservatori hanno scorto generalmente nelle dita della statua un’allusione ai regni romano-barbarici nati dalla disintegrazione dell’Impero latino79.

78 - Vedi C.A.AUBERLEN, Le prophète Daniel..., Losanna 1880, p. 56. 79 - Vedi per es. H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 122.

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Se Daniele riferendosi alle dita parla di “regno” al singolare (“così quel regno sarà in parte forte e in parte fragile”), è perché sta ancora descrivendo gli sviluppi del quarto regno in una fase successiva alla sua esistenza unitaria. Nel v. 41, alludendo ancora alle dita, il profeta usa la forma plurale: “e al tempo di questi re”. In definitiva Daniele sta parlando del quarto regno in una fase di trasformazione in seguito alla quale esso sarà diviso e sarà in parte forte e in parte fragile. Il S.D.A. Bible Commentary accosta questa forza e fragilità delle dita alla notevole disparità dei regni romano-barbarici sul piano militare: “Questi regni barbarici furono molto diversi fra loro quanto allo spirito guerriero, come nota Gibbon quando parla delle potenti monarchie dei Franchi e dei Visigoti e dei regni vassalli degli Svevi e dei Burgundi”80. Quantificare i regni barbarici, come ha tentato di fare qualche commentatore (p.e. L.Gaussen), è un’impresa disperata. In questo contesto simbolico, anche il numero deve essere valutato come elemento simbolico; dieci qui denota pluralità in contrasto con l’unità di partenza. Del resto ciò che il testo enfatizza non è il numero, che non viene neanche menzionato, ma il fatto che gli stessi materiali che compongono i piedi si ritrovano nelle dita. 43 Tu hai visto il ferro mescolato con la molle argilla, perché quelli si

mescoleranno mediante connubi umani; ma non saranno uniti l’uno all’altro, nello stesso modo che il ferro non s’amalgama con l’argilla. Chi sono “quelli” che “si mescoleranno mediante connubi umani”? L’antecedente a cui può collegarsi questo pronome è il sostantivo “dita” al principio del v. 42. I fautori della teoria “siriana”, ammettendo un parallelismo col cap. 11, vedono nel v. 43 un’allusione alle fragili alleanze fra Lagidi e Seleucidi raggiunte mediante matrimoni dinastici81. Con più verosimiglianza C.H.Leupold (p. 120) e altri conservatori hanno pensato alla mescolanza della razza latina con quella germanica attraverso matrimoni incrociati. Il S.D.A. Bible Commentary propende per la tesi dei matrimoni dinastici tra le monarchie europee eredi del dissolto Impero romano (vol. IV, p. 775). Il miscuglio ferro-terracotta è interpretato in vari modi da Daniele. Nel v. 41 questa eterogenea composizione appare come simbolo della frammentazione del regno del ferro in una pluralità di unità minori (“così quel regno sarà diviso”); nel v. 42 l’immagine viene ripresa ed è riferita alla coesistenza nel quarto regno di elementi di forza e di debolezza (“così quel regno sarà in parte forte e in parte fragile”); nel v. 43 essa ritorna per la terza volta ed è interpretata come fallimentari tentativi di ricongiungimento mediante connubi umani delle parti diverse, (“quelli si mescoleranno mediante connubi umani”). Non siamo davanti a un quadro confuso e contraddittorio, bensì ci confrontiamo con una visione unitaria in cui uno stesso simbolo esprime tre aspetti di una stessa situazione. La si-

80 - Vol. IV, p. 775. 81 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 54; G. BERNINI, Daniele, pp. 116, 117.

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tuazione è il deterioramento del quarto regno, gli aspetti differenziati sono la frammentazione del regno già compatto, il coesistere in esso e nei suoi frammenti di elementi di forza e di fragilità e i vani tentativi di ricompattazione. Su quest’ultimo punto il S.D.A. Bible Commentary osserva: “La profezia non dice in modo specifico che non potrà esserci una riunificazione delle parti separate raggiunta magari col ricorso alle armi o attraverso il predominio politico. Essa afferma che qualora una siffatta riunificazione fosse tentata o attuata, le nazioni coinvolte non sarebbero organicamente fuse tra loro ma continuerebbero ad essere diffidenti e ostili le une verso le altre. Una federazione di stati fondata su simili presupposti sarebbe votata allo sfacelo. Il successo temporaneo di un dittatore o di una nazione non smentirebbe la profezia di Daniele” (ibidem, p. 776). Si consideri che queste parole furono scritte più di quarant’anni prima del collasso dell’impero Sovietico! Ai giorni nostri, l’Unione Economica Europea non costituisce una sfida alla profezia. Istituzioni europee sovrannazionali come il Mercato Comune Europeo e il Consiglio d’Europa sono il risultato di compromessi concordati fra i capi di stato, non certo espressione di un reale desiderio di unificazione da parte dei popoli europei. Al di là degli accordi tra i governi, restano vivi all’interno della comunità gli egoismi nazionali. Peraltro i conflitti di interesse e i dissensi all’interno degli stessi organi comunitari tradiscono continuamente il persistere di forti tendenze conservatrici e separatiste in seno agli stati membri. Un futuro stato federativo europeo che riunisca sotto un governo e una legge comuni italiani, francesi, tedeschi, inglesi, danesi, spagnoli... è davvero una visione utopistica ! D’altro canto il dissolvimento recente di stati federativi europei, come l’Unione Sovietica e la Federazione Jugoslava, coi sanguinosi conflitti etnici che ne sono seguiti, dimostra a sufficienza quanta poca disponibilità a convivere insieme vi sia tra le differenti etnie che popolano il nostro continente! 44 E al tempo di questi re, l’Iddio del cielo farà sorgere un regno, che non sarà mai distrutto, e che non passerà sotto la dominazione d’un altro popolo; quello spezzerà e annienterà tutti quei regni; ma esso sussisterà in perpetuo, 45 nel modo che hai visto la pietra staccarsi dal monte, senz’opera di mano, e spezzare il ferro, il rame, l’argilla, l’argento e l’oro.

L’epoca, che si apre con lo smembramento dell’Impero latino, deve prolungarsi fino al tempo in cui “l’Iddio del cielo farà sorgere un regno che non sarà mai distrutto”. Sulla natura di questo regno non possono esserci dubbi, è un regno spirituale. Sulla sua identità invece le opinioni appaiono divergenti fin dall’antichità cristiana. I Padri che hanno interpretato Daniele sono stati quasi unanimi fino al V secolo nel riconoscere un evento escatologico nella pietra distruttrice. Per IRENEO (m. c.ca nel 200 ) la “pietra” rappresenta Cristo che alla sua venuta distruggerà i regni della terra. IPPOLITO ROMANO (m. c.ca nel 235) sottolinea il parallelismo fra Daniele 2 e 7 e identifica la “pietra” con Cristo che viene dal cielo per giudicare 73

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il mondo. AFRAHAT SIRO (m. c.ca nel 350) vede nella “pietra” un’immagine dell’instaurazione del futuro regno di Dio. Lo storico ecclesiastico SULPICIO SEVERO (m. nel 420) pensa che la “pietra” che frantuma la statua prefiguri il Cristo e il suo regno futuro; lo stesso pensiero esprime il suo illustre contemporaneo GIROLAMO (m. nel 420) nel commentario su Daniele. Da questa linea concorde diverge EUSEBIO DI CESAREA (m. nel 340) che ravvisa nella “pietra” il primo avvento di Cristo. TEODORETO DI CIRO (m. nel 457) contesta Eusebio e identifica la “pietra” col Cristo che colpirà le nazioni al suo secondo avvento. La mutata condizione della Chiesa con l’avvento al potere di Costantino influì in maniera rilevante sul pensiero escatologico cristiano. Le persecuzioni erano cessate e la Chiesa, favorita dallo Stato e non più ostacolata dal paganesimo, venne acquistando prestigio e affermandosi nelle province dell’Impero. Parve ad alcuni pensatori cristiani che si stesse realizzando l’evento preconizzato da Daniele con l’immagine della “pietra”, insomma che si stesse instaurando sulla terra il regno di Cristo. Nel V secolo TICONIO si fece paladino di questa ipotesi già avanzata da Eusebio e la sviluppò ulteriormente. L’ermeneutica di Ticonio influenzò notevolmente il pensiero di AGOSTINO (m. nel 430). In De Civitate Dei il vescovo di Ippona sostenne che il regno di Dio inaugurato da Cristo - e che egli identificò con la Chiesa - durerà in eterno, mentre i regni del mondo saranno distrutti. Per Agostino la “pietra” era già diventata un monte che ricopriva la terra. Sotto il peso di tanta autorità, questa concezione storicizzata del regno di Dio s’impose nella Chiesa e dominò incontrastata la teologia cattolica nei secoli seguenti82. Si iniziò a mettere in discussione il pensiero di Agostino sul regno di Dio soltanto nel XII secolo. Intorno al 1158, ANSELMO DI HAVELBERG, restaurando l’antica ermeneutica storica, preparò il terreno per una vera rivoluzione nel campo dell’esegesi apocalittica. Sulla scorta dell’ermeneutica anselmiana, GIOACCHINO DA FIORE (c.ca 1130-1202), spiegò le profezie apocalittiche come sviluppo continuo della storia della Chiesa e, contro la tesi agostiniana, proiettò nel futuro il regno di Dio, come avevano fatto i Padri antichi. Per Gioacchino la “pietra” devastatrice rappresenta il regno che Cristo instaurerà sulla terra alla fine dei tempi83. LUTERO (1483-1546) concorda con la visione gioachimita: Cristo al suo avvento distruggerà i regni nati dall’antico Impero e fonderà il suo regno sulla terra. Sono sulla linea di Lutero MELANTONE (1497-1560), ANDREAS OSIANDER (14981552), DAVID CYTRAEUS (1530-1600), TOBIAS STIMMER (1539-1584) e JEORGE JOYE (m. nel 1553). CALVINO invece si attesta sulle posizioni di Agostino84.

82 - Per maggiori approfondimenti sulla teologia del regno nei Padri antichi, vedi L.E. FROOM, The

Prophetic Faith of Our Fathers, 1950, vol. I, pp. 401-464 83 - Vedi L.E. FROOM, op. cit., p. 565. 84 - Vedi D. BENNET, “The Stone Kingdom of Daniel 2” in Symposium on Daniel, p. 339.

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Identificando il papa con l’Anticristo, Lutero aveva scardinato la concezione agostiniana del regno di Dio. Per demolire la tesi luterana la Controriforma attaccò l’ermeneutica storica ed escogitò nuove chiavi di lettura delle profezie apocalittiche. Il gesuita FRANCISCO RIBERA (1537-1591) sviluppò il metodo futurista per proiettare nel lontano futuro escatologico quanto Lutero applicava ai suoi tempi. Poco tempo dopo un altro gesuita, LUIS DE ALCAZAR (1554-1613), ideò l’ermeneutica preterista in base alla quale egli credette di poter circoscrivere entro i primi secoli dell’era cristiana gran parte delle profezie apocalittiche. I due metodi, pur muovendo da presupposti contrari, arrivavano allo stesso risultato: escludevano dalla visuale profetica i secoli di mezzo tra la prima e la seconda venuta di Cristo. Nel XVIII e nel XIX secolo il futurismo fu adottato da una parte dell’esegesi protestante conservatrice. Il preterismo divenne ed è tuttora il metodo ermeneutico preferito dai Protestanti liberali e da gran parte dell’esegesi cattolica85. Per cogliere correttamente il significato della “pietra” in Dn 2 non si può prescindere dall’analogia con la profezia parallela del cap. 7, né si può ignorare il testo circa l’origine della “pietra” stessa e gli effetti della sua caduta. Si considerino i fatti seguenti: ● Fin dall’antichità gli interpreti di Daniele hanno riconosciuto che la profezia del cap. 7 è una replica della rivelazione del cap. 2. Ora, poiché nel cap. 7 la serie dei regni terreni culmina col giudizio (vv. 9, 10, 26) e l’avvento del regno eterno dell’Altissimo (vv. 14 e 27), anche nel cap. 2 la successione dei regni deve avere uno sbocco escatologico. ● La “pietra” si stacca dal monte “senz’opera di mano” (Dn 2: 34). Questo significa che l’evento che essa prefigura non dipenderà da interventi umani ma sarà determinato interamente da Dio. ● Il regno raffigurato dalla “pietra” non potrà coesistere coi regni terreni che lo avranno preceduto, poiché questi saranno totalmente scomparsi (“non se ne trovò traccia”, v. 35) quando il regno di Dio si sarà instaurato. La “pietra” non può dunque essere un’immagine della Chiesa storica la quale è sempre coesistita coi regni terreni. Il regno della “pietra” che “l’Iddio del cielo farà sorgere” non è un’entità storica e terrena, sarà un evento escatologico e cosmico.

Diversi studiosi moderni, liberali e conservatori, hanno tenuto conto delle circostanze che affiorano nel testo. GERHARD VON RAD scrive: “Nei suoi elementi essenziali... il testo è perfettamente chiaro: con l’avvento dell’ultimo terribile rampollo del quarto impero la storia universale sarà giunta al suo epilogo. La pietra che si distaccherà ‘non per mano d’uomo’ per infrangere l’impero ed ergersi essa stessa a grande montagna è immagine del regno di Dio che tutto riempie”86.

85 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 39-45. 86 - GERHARD VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, Brescia 1974, vol. II, p. 377.

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ARNO C.GAEBELEIN (1911) commenta: “Chiunque può vedere che la pietra che colpisce non può significare l’estensione pacifica di un regno spirituale, né la predicazione dell’Evangelo, ma una grande catastrofe. E non si dimentichi che solo dopo aver fatto la sua opera distruttiva, dopo che la statua sarà stata frantumata, la pietra si trasformerà in un gran monte che ricopre tutta la terra. La pietra che cade dall’alto è la seconda venuta del nostro Signore Gesù Cristo, la sua venuta con ‘gran potenza e gloria’ 87. SILVERIO ZEDDA puntualizza: “Il regno viene dopo e al posto dei regni del mondo (cfr. Dan 12:1-4). Esso è presentato come celeste, dalle dimensioni cosmiche, come appartenente al tempo della fine. Il regno che Dio innalzerà, il regno messianico, non sarà mai distrutto (cfr. Dn 2:44), a differenza degli altri quattro regni della terra che l’uno dopo l’altro saranno annientati...”88. Oltre agli autori citati sopra riconoscono nella “pietra” il regno finale di Dio: J. A. MONTGOMERY89, J.WALVOORD90, L.WOOD91, A.LACOCQUE92, J.BALDWIN93 e altri. 45b Il grande Iddio ha fatto conoscere al re ciò che deve avvenire d’ora innanzi; il sogno è verace, e la interpretazione n’è sicura”.

Concludendo la spiegazione del sogno, prima di tutto Daniele ribadisce due circostanze sulle quali già aveva richiamato l’attenzione del re: la prima è che la rivelazione viene dall’Iddio che svela i segreti (v. 28a), la seconda che essa concerne il futuro (v. 28b); poi il profeta garantisce l’autenticità del sogno come rivelazione divina (“il sogno è verace”) e la correttezza dell’interpretazione che ne ha data (“l’interpretazione è sicura”). 46 Allora il re Nebucadnetsar cadde sulla sua faccia, si prostrò da-

vanti a Daniele, e ordinò che gli fossero presentati offerte e profumi. Nel mondo semitico la prostrazione era un gesto riverenziale. In Israele ci si prostrava davanti alla Divinità (1Sam. 1:28) ma anche davanti al re (1Sam. 24:9; 2Sam. 14:22) e talvolta davanti al profeta (1Re 18:7). Tale è stata l’impressione suscitata in Nabucodonosor dalla rivelazione e interpretazione del sogno, che egli vede in Daniele quasi un essere sovrumano. Eppure Daniele aveva detto tutto quello che si poteva dire (v. 30) per distogliere l’attenzione del re dalla sua persona e volgerla verso l’Iddio del cielo.

87 88 89 90 91 92 93

76

- ARNO C.GAEBELEIN, Il profeta Daniele, Rivoli 1989, pp. 42-43. - SILVERIO ZEDDA, L’escatologia biblica, Brescia 1972, vol. I, p. 84. - J. A. MONTGOMERY, “The Book of Daniel” in International Critical Commentary, 1927. - J.WALVOORD, Daniel, 1971. - L.WOOD, Daniel, 1973. - A.LACOCQUE, Daniel, 1976. - J.BALDWIN, Daniel, 1978.

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La prostrazione di Nabucodonosor davanti a Daniele è più che un gesto riverenziale. L’espressione aramaica ûledaniêl segid si può tradurre, come fa G. Bernini (Nuovissima Versione Della Bibbia): “e adorò Daniele”94. Il seguito del v. 46 rafforza questa comprensione del vocabolo aramaico: il re ordina che siano offerti a Daniele oblazioni (aramaico minchah) e profumi, come a una divinità. Il testo si limita a riferire l’ordine del re senza specificare se esso fosse stato eseguito. Ripugna l’idea che Daniele, che ha rifiutato le pietanze e le bevande della mensa reale (1:8) in obbedienza alla legge del suo Dio, possa avere accettato che la sua persona, sia pure contro la sua volontà, fosse fatta oggetto di culto in violazione del primo comandamento del Decalogo. Girolamo, seguito da molti commentatori moderni, ha opinato che Nabucodonosor “in Daniele adora il Dio che ha svelato i misteri” e cita un episodio analogo che ebbe a protagonista Alessandro il Macedone95. L’episodio è riferito da Giuseppe Flavio. Lo storico giudeo riporta che Alessandro in visita a Gerusalemme si genuflette davanti al sommo sacerdote Jaddua, e al suo generale Parmenio che lo interroga sul significato di quel gesto risponde: “Io non adoro lui, ma il Dio che lo ha onorato col sommo sacerdozio”96. Il S.D.A Bible Commentary commenta: “Finora Nabucodonosor ha avuto soltanto una scarsa conoscenza del vero Dio e una conoscenza ancora più ridotta del modo di adorarlo. Fino a questo momento la sua nozione di Dio si è limitata al riflesso del suo carattere che si poteva cogliere nella vita di Daniele, e a ciò che questi aveva detto di Lui. È del tutto possibile che Nabucodonosor, scorgendo in Daniele il rappresentante vivente degli dèi la cui dimora non è coi mortali’ (v. 11), intendesse rivolgere al Dio di Daniele gli atti di culto offerti a Daniele. Certamente Nabucodonosor con la sua limitata conoscenza del Dio vero fece del suo meglio per esprimere la sua riconoscenza e onorare Colui la cui sapienza e potenza si erano manifestate in modo così straordinario” (vol. IV, p. 777). 47 Il re parlò a Daniele, e disse: “In verità il vostro Dio è l’Iddio degli dèi, il Signore dei re, e il rivelatore dei segreti, giacché tu hai potuto rivelare questo segreto”.

Nabucodonosor riconosce la superiorità del Dio dei giovani ebrei (“il vostro Dio”). L’espressione “l’Iddio degli dèi” è una forma superlativa che equivale a “l’Iddio supremo”. Inoltre il sovrano di Babilonia pone il Dio di Daniele e dei suoi compagni al di sopra di tutti i potentati terreni col riconoscerlo “Signore dei re”. LEUPOLD osserva con ragione che nulla poteva dimostrare meglio quale fosse l’intenzione di Nabucodonosor nell’offrire oblazioni e profumi davanti a Daniele:

94 - Vedi W.GENESIUS, Hebrew-Chaldee Lexicon..., alla voce segid; vedi anche S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 776-777. 95 - Girolamo su Daniele, p. 50. 96 - GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudiache, XI. 8, 5.

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la sconfinata ammirazione del re è rivolta non a Daniele, ma al Dio di Daniele. Nel mito babilonese della creazione, “Signore dei re” è il titolo dato a Marduk, la suprema divinità del pantheon babilonese, e Nabucodonosor certamente non lo ignora, giacché al principio di ogni anno, durante i solenni festeggiamenti dell’akitu egli entra nel tempio di Marduk per essere reinvestito dal dio dell’autorità regale. Il re sa anche che il figlio di Marduk, Nebo, di cui egli porta il nome, è la divinità che redige le Tavole del Destino. Ora è costretto a riconoscere che il Dio di Daniele e dei suoi compagni è più grande o quanto meno altrettanto grande che Marduk e Nebo, poiché conosce e svela i segreti come gli è stato dimostrato attraverso il suo servo Daniele. 48 Allora il re elevò Daniele in dignità, lo colmò di numerosi e ricchi

doni, gli diede il comando di tutta la provincia di Babilonia, e lo stabilì capo supremo di tutti i savi di Babilonia. Non una bramosia di ricompensa e onorificenze ha spinto Daniele a presentarsi davanti al re per svelargli e interpretargli il sogno, ma soltanto il desiderio di esaltare il suo Dio davanti al re di Babilonia e al suo popolo (vv. 28, 29, 37, 45), pur se l’occasione era stata, come sappiamo, il decreto di sterminio dei sapienti del regno. Eppure il servo di Dio riceve cose che non ha desiderato e ricercato. Nabucodonosor aveva promesso “doni, ricompense e grandi onori” a chiunque gli avesse svelato e interpretato il sogno (v. 6). Adesso, fedele alla sua promessa, tratta Daniele con regale munificenza. “Il re elevò Daniele in dignità”, vale a dire lo promosse a un rango sociale superiore; “lo colmò di numerosi e ricchi doni”, consistenti verosimilmente in abiti pregiati e oggetti preziosi; “gli diede il comando di tutta la provincia di Babilonia”, cioè, probabilmente, gli conferì il governatorato della regione caldea; e finalmente “lo stabilì capo supremo (piuttosto capo dei prefetti) di tutti i savi di Babilonia” rispetto ai quali Daniele aveva, in effetti, mostrato una sapienza superiore, anche se egli, con molta umiltà, non si riconoscesse più saggio degli altri viventi (v. 30). Come capo dei prefetti dei sapienti, Daniele deve esercitare la supervisione sulle attività di questi uomini influenti, ma questo non implica affatto che egli debba condividerne le credenze e le pratiche religiose. 49 E Daniele ottenne dal re che Shadrac, Meshac e Abed-nego fossero

preposti agli affari della provincia di Babilonia; ma Daniele stava alla corte del re. Daniele non dimentica i compagni. Essi hanno diviso con lui i momenti di ansia e di preghiera, è giusto che ne condividano gli onori. Domanda per ciascuno di loro, e ottiene dal re, un incarico amministrativo nella “provincia di Babilonia”, verosimilmente la regione caldea, che il re aveva posto sotto l’amministrazione di Daniele. Quanto a lui, Daniele, egli svolgerà il suo alto incarico dal palazzo reale (letteralmente della “porta del re”) per essere pronto a qualsiasi richiesta del sovrano. 78

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Capitolo 3 ____________________________

U

na statua è il tema comune dei capitoli 2 e 3 di Daniele. Elemento figurativo nel sogno-rivelazione del capitolo secondo, essa compare come concreto oggetto materiale nel capitolo terzo. Nel sogno l’immagine pareva avere la testa d’oro e le altre parti del corpo, dal busto in giù, di metalli di valore decrescente. Nella realtà essa è d’oro dalla testa ai piedi. Nell’interpretare il sogno del re, Daniele aveva identificato con Nabucodonosor la testa d’oro della statua, ovvero con l’impero di Babilonia di cui il sovrano era come l’incarnazione vivente. E aveva aggiunto che dopo Babilonia sarebbe sorto un altro regno. La realizzazione da parte di Nabucodonosor di una grande statua d’oro probabile raffigurazione dell’impero e della divinità suprema di Babilonia sotto la cui tutela esso era posto - e la sua solenne dedicazione alla presenza dei grandi dell’impero, hanno tutta l’apparenza di una sfida ai decreti dell’Iddio del cielo: una statua tutta d’oro è contrapposta ad una sola testa d’oro, come a significare che non ci sarà un dopo Babilonia. I tre compagni di Daniele, oramai inseriti nell’apparato amministrativo dello stato babilonese, figurano tra i dignitari convocati per la dedicazione della statua (Daniele è assente per motivi che il testo non spiega). Il racconto giunge presto a una tensione drammatica. Poiché è una cerimonia pagana quella che sta per avere luogo, la presenza dei giovani giudei prelude a un conflitto sicuro. È certo che Shadrac, Meshac e Abed-Nego non compiranno un atto che ripugna alla loro coscienza, e d’altra parte l’ordine del re non ammette disattenzioni e la pena minacciata ai trasgressori è delle più atroci. I compagni di Daniele sono pronti a subire il supplizio del fuoco piuttosto che tradire la fede dei padri. Inaspettatamente per il re e i suoi funzionari, il dramma si risolve con la liberazione miracolosa dei tre giovani che hanno reso una splendida testimonianza di fede nel potere illimitato del Dio che essi servono. L’episodio è stato giudicato leggendario dalla critica liberale, mentre la ricerca biblica conservatrice ne ha sempre difeso l’autenticità. In effetti, come si vedrà nel commento, riscontri biblici, letterari e archeologici conferiscono credibilità al racconto.

1 Il re Nebucadnetsar fece una statua d’oro, alta sessanta cubiti e larga sei cubiti, e la eresse nella pianura di Dura, nella provincia di Babilonia.

Sull’esistenza di statue gigantesche nel mondo antico ci ragguagliano le fonti storiche. ERODOTO (Storia, I, 183), ci dà notizia di una grande statua di Zeus assiso 79

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sul trono posta in uno dei santuari di Babilonia. Non ne dà le misure, ma riferisce un’informazione avuta dai sacerdoti secondo la quale erano occorsi 800 talenti d’oro (circa 24 tonnellate!) per realizzare la statua col trono e il basamento. Se ne deduce che le dimensioni dovevano essere ragguardevoli. DIODORO SICULO (2, 9) c’informa su tre immagini d’oro poste sulla sommità del tempio di Bel in Babilonia, la più alta delle quali misurava 40 piedi (poco più di 13 metri) e pesava 1000 talenti babilonesi. Il primato per quanto concerne le antiche statue gigantesche spetta comunque al Colosso di Rodi. Era questo una figura di guerriero alta 70 cubiti (circa 32 metri) eretta verso il 304 a.C. all’entrata del porto dell’isola. Le lamine di bronzo che ne ricoprivano il supporto ligneo erano state ricavate dalle armi e dagli scudi lasciati sul terreno da Demetrio Poliorcete dopo un vano tentativo di impadronirsi dell’isola nel 305 a.C. Annoverata fra le sette meraviglie del mondo antico, la grande statua eretta in onore del dio Elios fu distrutta da un terremoto nel 224 a.C. In Egitto si possono ancora ammirare, nella necropoli di Tebe, due statue di pietra alte circa 20 metri, i cosiddetti Colossi di Memnon, raffiguranti Amenofi III, e più a sud, ad Abu-Simbel, dominano la pianura antistante quattro figure di Ramses II alte quanto le precedenti, scolpite sulla parete rocciosa del tempio funerario di questo faraone. Le dimensioni della grande statua che, secondo Daniele, Nabucodonosor fece erigere nella Piana di Dura, non debbono comunque destare meraviglia. Le misure che ce ne dà il nostro libro (60 x 6 cubiti) rispecchiano il sistema metrico sessagesimale che come è noto nacque in Mesopotamia e fu d’uso corrente in Babilonia97. Il rapporto fra l’altezza e la larghezza della statua su cui ci ragguaglia Daniele (10 a 1) è chiaramente sproporzionato se le misure si riferiscono alla sola figura umana. Infatti le proporzioni normali della figura umana sono di circa 5 a 1. È intuitivo però che la misura dell’altezza indicata da Daniele deve comprendere anche quella della base. In un’iscrizione aramaica del VII secolo a.C. rinvenuta a Nerab, presso Aleppo, il vocabolo {"lc : tzelem tradotto “statua” in Dn 3:1 indica una stele recante nella parte alta un busto umano in rilievo98. In Daniele zelem può benissimo designare la figura umana col suo piedistallo, il che giustificherebbe il rapporto 10 a 1 fra l’altezza e la larghezza. Si è obiettato che sono inverosimili sia l’altezza della statua (circa 27 metri) che la sua composizione aurea. Per quanto riguarda l’altezza, si è visto che quella del Colosso di Rodi, posteriore di circa due secoli, la superava di circa 5 metri. Il genitivo di materia (“statua d’oro”) non implica necessariamente che l’immagine fosse fatta d’oro massiccio. Le grandi statue metalliche nell’antichità, come si è visto a proposito del Colosso di Rodi, consistettero di un supporto ligneo o di altro materiale rivestito di lamine metalliche. Ricorre altrove nell’Antico Testamento questa forma genitivale per indicare che un oggetto era fatto par-

97 - Vedi G.CONTENAU, La Mesopotamia prima di Alessandro, p. 249. 98 - J. A. MONTGOMERY, “The Book of Daniel” in International Critical Commentari, 1927.

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zialmente di un certo materiale. “L’altare d’oro” (Es 39:38) e “l’altare di rame” (Es 39:39) del santuario mosaico in realtà erano fatti di legno d’acacia rivestito d’oro nel primo caso (Es 37:25, 26) e di rame nel secondo (Es 38:1, 2). Le “case d’avorio” a cui allude Am 3:14 (vedi anche 1Re 22:39) erano edifici in muratura con le pareti delle sale ornate di pannelli d’avorio, come hanno rivelato gli scavi di Samaria e di Nimrud99. Sebbene oggi non sia possibile individuare con sicurezza il luogo della fastosa cerimonia di cui parla Daniele, è certo che il toponimo menzionato, Dura, è d’origine babilonese (l’accadico duru significa circonferenza, muro o luogo cinto da mura). Nella regione di Babilonia “Dura” si applicava a qualsiasi luogo circondato da mura100. Il toponimo antico sopravvive tuttora nel nome di un emissario dell’Eufrate (Nahr Dûra) che scorre a una decina di chilometri a sud di Babilonia, come pure nel nome delle colline adiacenti. Inoltre Tolûl Dûra è il nome di una pianura a circa 8 chilometri a sud-est di Babilonia, ove un rialzo di pietre di 14 metri di lato per 6 di altezza potrebbe essere stato la base dello zelem di cui parla Daniele101. Sulla data dell’episodio il testo aramaico non offre alcuna indicazione; i testi greci dei LXX e di Teodozione invece - e non si sa su quale base - datano l’avvenimento nell’anno 18° di Nabucodonosor, un anno prima della conquista e distruzione di Gerusalemme. Qualche commentatore ha opinato, sulla base di Gr 51:59 che allude a un viaggio di Sedechia a Babilonia nell’anno IV del suo regno (594/93 a.C.), che il re giudaita possa essere stato convocato da Nabucodonosor come principe vassallo per partecipare alla cerimonia descritta nel capitolo terzo di Daniele102. È soltanto una possibilità. 2 E il re Nebucadnetsar mandò a radunare i satrapi, i prefetti, i go-

vernatori, i giudici, i tesorieri, i giureconsulti, i presidenti e tutte le autorità delle province, perchè venissero all’inaugurazione della statua che il re Nebucadnetsar aveva eretta. 3 Allora i satrapi, i prefetti e i governatori, i giudici, i tesorieri, i giureconsulti, i presidenti e tutte le autorità delle province s’adunarono per la inaugurazione della statua, che il re Nebucadnetsar aveva eretta; e stavano in pié davanti alla statua che Nebucadnetsar aveva eretta. Il re convoca per la cerimonia di dedicazione della statua i rappresentanti delle province e dei poteri dell’impero. “Lo spettacolo della folla dei funzionari grandi e piccoli, civili, militari e della giurisprudenza che si prostrano all’unisono da-

99 - Vedi S. H. HORN, Pietre che parlano, Firenze 1963, pp. 81, 82. 100 - Vedi LEUPOLD, op. cit., p. 137. 101 - Idem, p. 138. 102 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, pp. 779, 780.

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vanti all’immagine, deve aver prodotto un effetto irresistibile quale imponente esibizione della potenza dell’impero. Ma soprattutto la cerimonia fu per i convocati un’occasione per rinnovare un corale giuramento di fedeltà all’impero e al suo sovrano invitto”103. Daniele menziona sette categorie di funzionari statali: ’achashdarpenayya’, sàtrapi; sighnayya,’ prefetti, governatori; pachawatha’, governatori, luogotenenti, prefetti; ’adargazrayya’, giudici, generali, consiglieri; ghedovrayya’, tesorieri; detovrayya’, giureconsulti, giudici; tiftaye’, presidenti, questori, magistrati. Il significato e la derivazione di parte di questi termini aramaici sono ancora incerti. Si possono però ricavare le seguenti spiegazioni sul significato dei vocaboli aramaici sopra elencati: ’Achashdarpenayya’ [)æYná P: r : D a $ : x a ) A ] Nel periodo persiano era il titolo con cui si designavano i funzionari posti a capo delle satrapie che erano le divisioni maggiori dell’impero104. “Per quanto riguarda ’achashdarpenayya’, oggi non si insiste più su una sua origine persiana, dato che il termine, nella forma satarpanu, è stato trovato in testi cuneiformi dell’epoca di Sargon II (VIII secolo a.C.). Si propende per una sua origine hurrita”105. Sighnayya’ [)æYná g: si ] è fatto derivare dall’accadico shaknu. Erano così chiamati i funzionari che amministravano le province, cioè i distretti amministrativi inferiori nei quali erano suddivise le satrapie, quindi le traduzioni “governatori” e “prefetti” sono entrambe corrette). La LXX traduce con strathgo¿j. Nell’antica Atene era così chiamato la suprema magistratura militare, il comandante delle armate, lo statega. Presso i Persiani era il governatore militare di una provincia. Nel Nuovo Testamento era il capitano delle guardie del tempio. Pachawatha’ [)ftwæ x A pa ] è sinonimo di sighnayya’, quindi si traduce “governatori” o “prefetti” come fanno tutte le versioni. ’Adargazrayya’ [)æYr a zº Gf r : d a ) A ] è traducibile con “giudici”, ma il vocabolo persiano-medio da cui deriva, andarzaghar, significa “consigliere”. La LXX traduce con tu¿rannoi, da túrannos che significa: “che avanza gagliardamente”, quindi imperioso, dominante. 103 - LEUPOLD, op. cit., p. 138. 104 - Ciascuna provincia era retta da un satrapo il cui titolo lettermente significa “protettore del

regno”. Succeduto a un precedente re e preposto a un territorio davvero immenso, in effetti era egli stesso un monarca ed era circondato da una piccola corte. Non solo era responsabile della amministrazione civile, ma comandava anche i militari reclutati nella satrapia. Quando questa carica diventò ereditaria, costituì per l’autorità centrale una minaccia che non poteva essere ignorata. Per far fronte a questa minaccia furono istituiti certi controlli: il segretario, il principale funzionario amministrativo e il generale che comandava la guarnigione di stanza nella cittadella della capitale di ciascuna satrapia erano direttamente agli ordini del gran re in persona, e dovevano far rapporto a lui. A. T. OLMSTEAD, History of the Persian Empire, 1948, p. 59. 105 - S.D.A. Bible Commentary, p. 781.

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Ghedovrayya’ [)æYr a b : d f g: ] ha un significato abbastanza sicuro: “tesoriere”. La sua origine però non è stata ancora determinata. Una forma accadica di detovrayya’, databari, è attestata nelle fonti cuneiformi. È possibile che i babilonesi avessero tesorerie in diverse parti dell’impero106. I persiani le avevano, e in queste tesorerie provinciali si custodiva parte del denaro raccolto sotto forma di tasse dai satrapi. Detovrayya’ [)æYr a b : t f D : ] significa propriamente “giudice”; tiftaye’ “capo della polizia”. Tiftaye’ si trova nei papiri aramaici di Elefantina con identica forma e significato (“funzionario di polizia”). Shiltoney, tradotto “autorità” nella Riveduta, designa i funzionari subalterni di qualunque categoria (da questo vocabolo deriva il titolo tuttora in uso di “sultano”)107. La possibile origine persiana dei titoli ufficiali che ricorrono in Daniele cap. 3 non costituirebbe un problema, dal momento che l’autore del libro visse gli ultimi anni della sua vita nel periodo persiano.108 È conforme alla retorica semitica ripetere le cose nominate, come fa Daniele nel v. 3. 4 E l’araldo gridò forte: “A voi, popoli, nazioni e lingue è imposto che, 5 nel momento in cui udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèro, della zampogna e d’ogni sorta di strumenti, vi prostriate per adorare la statua d’oro che il re Nebucadnetsar ha eretta; 6 e chiunque non si prostrerà per adorare, sarà immantinente gettato in mezzo ad una fornace di fuoco ardente”.

L’apparato predisposto da Nabucodonosor mira evidentemente a creare un’atmosfera di intimidazione per modo che la partecipazione al rito sia corale. La sanzione penale minacciata ha lo scopo di ottenere una dimostrazione unanime di sottomissione al sovrano attraverso l’omaggio reso alla divinità da cui il sovrano ha ricevuto l’investitura. “Popoli, nazioni e lingue” è un’espressione convenzionale con cui si indica la totalità delle genti sottoposte all’autorità del sovrano. “Popoli”, aramaico )æYm a m : (a ‘ammayya’, designa le unità nazionali maggiori, “nazioni”, aramaico )æYM a ) u ’ummayya’, i gruppi tribali, e “lingue”, aramaico )æYná < f l i lishshanayya’, i gruppi etnici parlanti una lingua comune. L’aramaico )æzOrfk karôza’, “araldo”, “banditore”, nel passato è stato accostato al greco keryx di eguale significato. Oggi non si riconosce più una relazione fra i due termini109, essendo stata dimostrata l’origine iranica del vocabolo aramaico110. 106 - Un’iscrizione fa dire a Nabucodonosor a proposito del tempio di Merodac: “vi accumulai argento e oro e pietre preziose ... e vi posi la casa del tesoro del mio regno” (cfr. Ed 1:8). Perspicacia nello studio delle Scritture, p. 1102. 107 - S.D.A. Bible Commentary, p. 780. 108 - LEUPOLD, op. cit., p. 140. 109 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 61. 110 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 781.

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Sono invece quasi certamente d’origine greca i nomi di tre dei sei strumenti musicali ricordati nel v. 5 e ripetuti nei vv. 7, 10 e 15. Essi sono: sort : yaq qaythros (“cetra”), molto simile al greco kiqa/raj. kitharas; }yirT" nº sa P: pesanterin (“salterio”), somigliante al greco yalthri¿on psalterion, e hæynº oPm : Us sumponeya’ (“zampogna”), affine al greco sumfwni¿aj symfonias. La presenza di queste tre parole greche nel testo di Daniele non è necessariamente indizio di un’origine tardiva del libro. Se questo fosse stato composto in età ellenistica, dovremmo aspettarci di trovarvi un numero ben maggiore di vocaboli greci. Dai ritrovamenti archeologici è risultato sempre più evidente che la cultura greca penetrò nel Vicino Oriente semitico assai prima dell’epoca di Nabucodonosor111. Contatti commerciali e culturali fra il mondo greco e quello semitico avvennero fin dal II millennio a.C. (è noto che i Greci mutuarono dai Fenici il loro alfabeto). Trattando della distribuzione linguistica nel Vicino Oriente, il prof. Pelio Fronzaroli osserva che i Greci micenei parteciparono alle vicende culturali di quest’area geografica già nella seconda metà del II millennio a.C.112. Dalla documentazione archeologica risulta che insediamenti commerciali ionii erano presenti a Sinope, sul Mar Nero, quando questa località era già un avamposto commerciale e militare assiro prima del periodo imperiale113. La presenza greca lungo le coste dell’Anatolia e della Siria settentrionale è segnalata in documenti dell’VIII secolo a.C. Dai testi di Sargon II (722-705 a.C.) veniamo a sapere che una generazione prima di questo sovrano, navigatori greci frequentavano le coste della Cilicia, e i ritrovamenti archeologici a Tarso hanno confermato questa notizia114. Sappiamo pure da fonti contemporanee che mercenari greci militavano nell’esercito di Assarhaddon (681-669 a.C.). La presenza greca in Babilonia è documentata per l’epoca di Nabucodonosor. Negli scavi di Carchemish, per esempio, il ritrovamento di uno scudo greco ha convalidato una notizia di Strabone secondo cui mercenari greci combattevano al fianco dei Babilonesi contro gli Egiziani115. La presenza dell’arte greca in Babilonia è stata attestata grazie agli scavi eseguiti in questa località a partire dalla fine del secolo scorso. Colonne sormontate da capitelli di stile ionico sono state rinvenute fra le rovine della fortezza meridionale di Babilonia116. Infine, testi cuneiformi del tempo di Nabucodonosor c’informano che fra gli stranieri che concorsero alla realizzazione dei progetti edilizi di questo sovrano in Babilonia figuravano carpentieri e altri artigiani ionii e lidii117.

111 - Vedi W. ALBRIGHT, From the Stone Age to Christianity, p. 337. 112 - P. FRONZAROLI, L’alba della Civiltà, a cura di S. MOSCATI, Torino 1976, vol. III, p. 42. 113 - Vedi H. C.LEUPOLD, op. cit., p. 143 114 - Vedi E. CASSIN, Storia Universale Feltrinelli, Milano 1969, vol. 4, p. 123. 115 - Vedi G. PETTINATO, Babilonia centro dell’Universo, Milano 1988, p. 75. 116 - Vedi A. PARROT, Babilonia e l’Antico Testamento, Roma 1973, p. 27. 117 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 781.

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I Babilonesi a quel che sembra furono amanti della musica. Ammontano infatti a 53 gli strumenti musicali a corde, a fiato e a percussione menzionati nei testi cuneiformi, raffigurati nell’iconografia o di cui si sono rinvenuti degli esemplari. Tutti gli strumenti dell’orchestra di Nabucodonosor sono attestati in documenti scritti o in ritrovamenti archeologici del VI secolo a.C.118. Esistono dunque attestazioni più che sufficiente per sostenere che è del tutto verosimile che strumenti musicali importati dalla Grecia fossero usati in Babilonia al tempo di Nabucodonosor e fossero conosciuti coi nomi di origine. L’identificazione degli strumenti musicali nominati da Daniele è abbastanza sicura. Il corno ()ænr : qa qarna’) era uno strumento a fiato tipicamente semitico ricavato dal corno di qualche animale. Il flauto ()ftyiqOr:$m a mashroqitha’) era uno strumento a fiato con diverse canne molto in uso fra i semiti. La cetra (sort : yaq qaythros) era uno strumento a corde d’origine greca col quale di solito si accompagnava la danza. La lira ()fkB : sa sabbeka’), strumento di forma triangolare con 4 corde, era nota rispettivamente coi nomi di sambuke e sambuca presso i Greci e i Latini i quali la adottarono dai Fenici, come attesta STRABONE spiegando che il vocabolo è di origine “barbarica”119. Il saltèro (}yirT" nº sa P: pesanterin) era uno strumento a corde di forma triangolare molto usato dai Greci. La zampogna (hæynº oPm : Us sumponeya’) era uno strumento a fiato, pure di origine greca, consistente di un certo numero di canne inserite in un involucro gonfiabile di pelle animale120. 7 Non appena quindi tutti i popoli ebbero udito il suono del corno,

del flauto, della cetra, della lira, del saltèro e d’ogni sorta di strumenti, tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue si prostrarono e adorarono la statua d’oro, che il re Nebucadnetsar aveva eretta. Le misure intimidatorie messe in atto con prontezza hanno avuto un effetto immediato. Al suono dell’orchestra “tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue” (cioè a dire i rappresentanti di tutte le unità nazionali e i gruppi linguistici dell’impero) si sono prostrati e hanno reso omaggio alla statua. Questa prostrazione servile è tanto segno di sottomissione al sovrano quanto riconoscimento della supremazia degli dèi di Babilonia sulle divinità di tutti i raggruppamenti nazionali rappresentati nella colorita assemblea. 8 Allora, in quello stesso momento, alcuni uomini Caldei si fecero avanti, e accusarono i Giudei; 9 e, rivolgendosi al re Nebucadnetsar, gli dissero: “O re, possa tu vivere in perpetuo! 10 Tu, o re, hai emanato un decreto, per il quale chiunque ha udito il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèro, della zampogna e d’ogni

118 - Vedi D.J. WISEMAN in The International Standard Bible Encyclopedia, vol. I, p. 401. 119 - STRABONE, Geografia, X, 3.17. 120 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 781.

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sorta di strumenti deve prostrarsi per adorare la statua d’oro; 11 e chiunque non si prostra e non adora, dev’esser gettato in mezzo a una fornace di fuoco ardente. 12 Or vi sono degli uomini giudei, che tu hai preposti agli affari della provincia di Babilonia: Shadrac, Meshac, e Abed-nego; codesti uomini, o re, non ti tengono in alcun conto; non servono i tuoi dèi, e non adorano la statua d’oro che tu hai eretta”. L’intervento di alcuni caldei a danno dei giovani giudei motivato da invidia e gelosia professionale piuttosto che da antagonismo razziale e nazionalistico (ciò sembra evidente dall’appunto velato che muovono al re: “degli uomini giudei che tu hai preposti agli affari di Babilonia...”)121. Per alcuni quindi questi uomini apparterrebbero alla casta dei maghi e astronomi-astrologi piuttosto che all’etnia caldea122 mentre altri sono di parere contrario123. L’espressione figurata aramaica )¢yd f Uhºy yiD }Ohy"cr : qa Ulak) A ’akalu qarzehôn dî yehûdâye’, letteralmente “divorarono i brandelli dei giudei”, significa “calunniarono”, “accusarono i Giudei”. La formula augurale “O re, possa tu vivere in perpetuo!” era di prammatica nelle antiche corti orientali (vedi commento a 2: 4). Prima di formulare i capi d’accusa, i delatori si appellano al decreto che il re ha appena fatto proclamare e alla sanzione penale che esso prevede per i trasgressori. Shadrac, Meshac e Abed-nego sono accusati di tre gravi delitti contro il sovrano, e cioè: di lesa maestà (“non ti tengono in alcun conto”), di insubordinazione (“non servono i tuoi dèi”, quindi rifiutano la tua autorità) e di rifiuto del giuramento di fedeltà attraverso l’omaggio reso alla statua (“non adorano la statua d’oro che tu hai eretta”). Le accuse sono calunniose: i giovani giudei non hanno certamente voluto venire meno alla loro lealtà verso il sovrano, ma poiché questa lealtà doveva venire espressa attraverso un atto di omaggio alle divinità pagane, essi hanno preferito lasciarlo credere a costo di sfidare l’ira del re piuttosto che venire meno alla loro fedeltà al Dio che servono. 13 Allora Nebucadnetsar, irritato e furioso, ordinò che gli fossero menati Shadrac, Meshac e Abed-nego; e quegli uomini furon menati in presenza del re. 14 Nebucadnetsar, rivolgendosi a loro, disse: “Shadrac, Meshac, Abed-nego, lo fate deliberatamente di non servire i miei dèi e di non adorare la statua d’oro che io ho eretto? 15 Ora, se non appena udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèro, della zampogna e d’ogni sorta di strumenti, siete pronti a prostrarvi per adorare la statua che io ho fatto, bene; ma se non l’adorate, sarete immantinente gettati in mezzo a una fornace

121 - S.D.A. Bible Commentary, p. 783. 122 - Vedi LEUPOLD, op. cit., vol. IV, p. 147. 123 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 62.

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di fuoco ardente; e qual è quel dio che vi libererà dalle mie mani?” È immaginabile quanto possa avere inasprito l’animo di un monarca dispotico il rifiuto di obbedienza da parte di alcuni suoi funzionari che oltretutto erano stati da lui favoriti col conferimento di alti incarichi. Quel gesto deve essere stato visto come incomprensibile segno di ingratitudine oltre che come intollerabile ribellione. Nabucodonosor ha raccolto la denuncia dei Caldei: l’interrogatorio cui sottopone Shadrac, Meshac e Abed-nego verte precisamente sui loro capi d’accusa. Sembra, tuttavia, che il re stenti a credere che ci siano uomini talmente temerari da sfidare deliberatamente la sua autorità, e che piuttosto propenda ad ammettere che gli accusati possano non avere compreso il suo proclama (non lo sfiora il pensiero che il loro atteggiamento possa essere stato dettato da solide motivazioni religiose). Di conseguenza si mostra conciliante verso di loro. Ai giovani sarà accordata una seconda “chance”, ma guai a loro se persisteranno nel loro atteggiamento provocatorio! Non sorprendono più di tanto le parole di sfida irriverente che Nabucodonosor proferisce all’indirizzo del Dio di Shadrac, Meshac e Abed-nego del quale aveva riconosciuto la superiorità rispetto a tutti gli dèi. 16 Shadrac, Meshac e Abed-nego risposero al re, dicendo: “O Nebucadnetsar, noi non abbiam bisogno di darti risposta su questo. 17 Ecco, il nostro Dio che noi serviamo, è potente da liberarci, e ci libererà dalla fornace del fuoco ardente, e dalla tua mano, o re. 18 Se no, sappi o re, che noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto”.

Noi non conosciamo tutte le formule di rito in uso nella corte imperiale di Babilonia, non siamo dunque in grado di sapere se il vocativo con l’omissione del titolo regale (semplicemente “O Nebucadnetsar”) sia o non sia conforme all’etichetta di palazzo. L’atteggiamento dei giovani accusati (“noi non abbiamo bisogno di darti risposta su questo”) non è segno di arroganza come potrebbe sembrare. È stato dimostrato attraverso analogie con altre lingue semitiche che il verbo aramaico tradotto “darti risposta” ha il senso giuridico di “difenderci”, “giustificarci”124. I giovani dunque dicono semplicemente che rinunciano all’autodifesa. Il non avere ottemperato all’ordine del re è stato in effetti un atto consapevole e deliberato, ma del quale Nabucodonosor non potrebbe in alcun modo capire la ragione. Il v. 17 nell’aramaico comincia con un “se” che la versione Riveduta omette. G. BERNINI traduce, conformemente all’aramaico: “Se il Dio che noi serviamo è capace di liberarci, ci salverà dalla fornace...”125. Così com’è la frase esprime in-

124 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 783. 125 - G. BERNINI, Daniele, p.129.

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certezza sulla capacità di Dio di salvare dalla fornace, ma certamente non era questo il sentimento dei giovani giudei. G. RINALDI traduce più coerentemente: “Se ciò avverrà, il nostro Dio, che noi serviamo, è capace di liberarci...” È una replica ferma e convinta alla sfida di Nabucodonosor: “...e qual è quel dio che vi libererà dalle mie mani?” (v. 15). Shadrac, Meshac e Abed-nego non dubitano che il loro Dio è potente da salvarli dal fuoco della fornace, ma non sanno se vorrà farlo. Se Dio nella sua sovrana libertà avesse deliberato di non salvarli, essi non desisteranno comunque dal rimanergli fedeli: “Se no (ovvero: Se Dio non vorrà salvarci), sappi, o re, che noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto (è evidente che l’omaggio reso alla statua equivaleva a un atto di venerazione e di sottomissione agli dèi di Babilonia). In ogni tempo l’eroica determinazione dei compagni di Daniele ha suscitato commozione e ammirazione. 19 Allora Nebucadnetsar fu ripieno di furore, e l’aspetto del suo viso

fu mutato verso Shadrac, Meshac e Abed-nego. Egli riprese la parola, e si ordinò che si accendesse la fornace sette volte più di quello che s’era pensato di fare; 20 Poi comandò ad alcuni uomini de’ più vigorosi del suo esercito di legare Shadrac, Meshac e Abed-nego, e di gettarli nella fornace del fuoco ardente. Nabucodonosor aveva mantenuto un atteggiamento conciliante verso Shadrac, Meshac e Abed-nego. Ma ora il rifiuto esplicito dei giovani di conformarsi alle sue disposizioni fa esplodere la sua collera ()fmx E chema’, “ira infuocata”). Il mutamento repentino di atteggiamento del re verso i tre giovani è descritto con efficacia: “l’aspetto del suo volto fu mutato” (i lineamenti del suo viso si contraggono e il colore si fa paonazzo). Nella pianura mesopotamica non esistono cave di pietra, ma lungo il corso dell’Eufrate abbonda l’argilla. I Babilonesi ne fecero largo uso per produrre mattoni. Le fornaci da mattoni in quest’epoca non dovevano essere rare nella pianura di Babilonia e dovettero lavorare a pieno ritmo, stante i vasti progetti edilizi di Nabucodonosor nella città di Babilonia. Fatte di mattoni cotti, queste fornaci avevano probabilmente forma tronco-conica con un’apertura in alto per lo sfogo dei fumi ed una laterale per l’introduzione del combustibile e dei laterizi da cuocere. Per riscaldare le fornaci si adoperava della paglia o del legno sminuzzato mescolato con bitume (fin da epoca immemorabile il bitume affiora spontaneamente nella pianura mesopotamica, notoriamente una delle regioni del mondo più ricca di giacimenti petroliferi). Questo tipo di combustibile, come è facile capire, sviluppava un calore molto intenso. Sulla pratica barbara del supplizio del fuoco in Babilonia ci ragguagliano alcuni documenti antichi. Intanto la pena del fuoco per certi delitti era prevista nel Codice di Hammurabi (25. 110). Questa pena è minacciata a certi servi infedeli in un testo cuneiforme del II millennio a.C. (il vocabolo per “fornace”, utûnum, è affine al termine aramaico usato da Daniele, }UTa) ‘attûn). Il genero di Nabucodonosor, Nergal-shar-usur, si vanta in una sua iscrizione di avere “bruciato fino 88

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alla morte gli avversari e i ribelli”126. Anche Geremia ci dà notizia di un fatto simile in 29:22, dove fa riferimento a due pseudo-profeti giudei “che il re di Babilonia ha fatti arrostire al fuoco”. Nabucodonosor prende tutte le precauzioni per sventare qualunque tentativo di fuga dei condannati o, addirittura, per prevenire un intervento soprannaturale: fa riscaldare la fornace sette volte più di quanto si era pensato e consegna i malcapitati ai soldati più robusti della sua milizia. E come se non bastasse, li fa legare per modo che non possano muoversi. “Sette volte di più...”, cioè al massimo grado possibile, probabilmente, secondo qualche commentatore, bruciando un quantitativo di combustibile sette volte maggiore del consueto. Ancora di più queste misure precauzionali faranno risaltare il prodigio che sta per avere luogo. 21 Allora questi tre uomini furono legati con le loro tuniche, le loro sopravvesti, i loro mantelli e tutti i loro vestiti, e furon gettati in mezzo alla fornace del fuoco ardente. 22 E siccome l’ordine del re era perentorio e la fornace era straordinariamente riscaldata, la fiamma del fuoco uccise gli uomini che vi avevan gettato dentro Shadrac, Meshac e Abed-nego. 23 E quei tre uomini, Shadrac, Meshac e Abed-nego, caddero legati in mezzo alla fornace del fuoco ardente.

I condannati sono gettati nella fornace incandescente e con tutti i loro vestiti addosso perché l’ordine del re deve essere eseguito con la massima rapidità, e forse anche affinché l’effetto del fuoco sia se possibile ancora più drastico con la combustione dei panni. Non è facile oggi tradurre i termini aramaici con i quali sono indicati i capi di vestiario dei condannati. Il significato più probabile del primo (}Ohy"lfB:ras:B besarbalêhôn) sembra essere “calzari”; il secondo (}Ohy"$y:=Pa pateyshêhôn) può tradursi “calzoni”; il terzo (}OtflB : r : ka karbelathôn), d’origine accadica (karballatu) significa con molta probabilità “copricapo”, e il quarto (}Ohy"$b u l : levushehôn) designa gli indumenti in generale. Un incidente repentino e imprevisto segna drammaticamente l’esecuzione dell’ordine di Nabucodonosor: una vampa di calore erompe dalla bocca della fornace e investe i soldati che vi hanno gettato i condannati, e in un attimo essi bruciano come torce. È un primo smacco per il re. Tra i vv. 23 e 24, i manoscritti greci dei LXX e di Teodozione inseriscono un’aggiunta apocrifa di 67 versetti (24-90) contenente una preghiera in versi messa sulla bocca di Azaria (Abed-nego) (vv. 24-25), un breve interludio narrativo in prosa (vv. 46-50) e un cantico in versi attribuito ai tre giovani (vv. 51-90). È la prima di tre aggiunte apocrife al nostro libro le quali, insieme con altri scritti apocrifi, furono dichiarate deuterocanoniche dal Concilio di Trento nel 1546 e sono tuttora accolte nel canone anticotestamentario delle versioni cattoliche della Bibbia. Girolamo tradusse in latino questo lungo brano ma avvertì di non averlo

126 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 782.

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trovato nei testi ebraici. Effettivamente esso non figura nel Testo Masoretico di Daniele e, significativamente, non si trova nei frammenti aramaici del nostro libro rinvenuti nelle grotte di Qumrân (anteriori di quasi 1.000 anni al Testo Masoretico) uno dei quali contiene i vv. 22-30 del capitolo terzo. È incerto se il brano aggiuntivo, che da vari studiosi è fatto risalire all’inizio del I secolo a.C., sia stato composto originariamente in aramaico. 24 Allora il re Nebucadnetsar fu spaventato, si levò in gran fretta, e

prese a dire ai suoi consiglieri: “Non abbiam noi gettato in mezzo al fuoco tre uomini legati?” quelli risposero e dissero al re: “Certo, o re!” 25 Ed egli riprese a dire: “Ecco, io vedo quattro uomini, sciolti, che camminano in mezzo al fuoco, senz’aver sofferto danno alcuno; e l’aspetto del quarto è come quello d’un figlio degli dèi”. Il re si era avvicinato al luogo del supplizio e si era posto a sedere a distanza di sicurezza per controllare di persona che i suoi ordini fossero eseguiti rigorosamente. Dal suo punto d’osservazione egli può vedere agevolmente, attraverso l’apertura della fornace, quello che avviene all’interno di essa, e quello che vede lo fa trasalire. Non solo i tre giovani si muovono a loro agio tra i riverberi accecanti, come se il calore terrificante non procurasse loro né danni né fastidio, ma insieme a loro c’è un quarto personaggio che ha un aspetto sovrumano. Alcune versioni antiche (la King’s James, per esempio), hanno reso “il Figlio di Dio” l’aramaico }yihl f ) E -rab bar-’elahîn, ma generalmente l’espressione è tradotta, come fa la Riveduta, “un figlio degli dèi”. Il S.D.A. Bible Commentary preferisce la prima traduzione, la seconda però è più consona alla mentalità del pagano Nabucodonosor. Era comune fuori d’Israele la credenza che esistessero figli di dèi generati con divinità femminili o con umanissime donne. Quasi non credendo ai suoi occhi, il re si alza di scatto dal suo scanno e corre a interpellare i suoi consiglieri per accertarsi che siano stati gettati nella fornace soltanto tre uomini. 26 Poi Nebucadnetsar s’avvicinò alla bocca della fornace del fuoco

ardente, e prese a dire: “Shadrac, Meshac, Abed-nego, servi dell’Iddio altissimo, uscite, venite!” E Shadrac, Meshac e Abed-nego uscirono di mezzo al fuoco. “Shadrac, Meshac e Abed-nego... uscite...!” È una revoca implicita della condanna e un implicito riconoscimento della sconfitta subita. L’Iddio Altissimo che Shadrac, Meshac e Abed-nego servono ha raccolto la sfida temeraria di Nabucodonosor (“e qual è quel dio che vi libererà dalle mie mani?”) e ha risposto come Egli sa rispondere. Il quarto personaggio è scomparso dopo che i giovani sono usciti dalla fornace, una prova ulteriore della sua appartenenza all’ordine sovrannaturale. Liberi dai legami e assolutamente indenni, i tre giovani sarebbero potuti uscire dalla fornace prima che il re lo ordinasse loro. Con ciò hanno dato prova 90

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che se non hanno reso omaggio alla statua secondo l’ordine del sovrano, non è stato per avere voluto sfidare la sua autorità, come li si era accusati, ma per motivi di ben altra natura che adesso Nabucodonosor sembra avere capito e di volere riconoscere chiamandoli “servi dell’Iddio Altissimo”. “L’avere Nabucodonosor riconosciuto che il dio dei tre giudei è ‘l’Iddio Altissimo’, non implica necessariamente che il re rinunciasse alla sua mentalità politeista. Il Dio di Shadrac, Meshac e Abed-nego era per lui non l’unico vero Dio, ma semplicemente il Dio più alto, il Dio supremo sopra tutti gli dèi (i Greci chiamavano il loro supremo Zeus, ho hupsistos theos, ‘il dio più alto’). Con questo senso il termine è attestato anche in Fenicia e più tardi nelle iscrizioni di Palmira”127. 27 E i satrapi, i prefetti, i governatori e i consiglieri del re, essendosi adunati, guardarono quegli uomini, e videro che il fuoco non aveva avuto alcun potere sul loro corpo, che i capelli del loro capo non erano stati arsi, che le loro tuniche non erano alterate, e ch’essi non avevano odor di fuoco.

È talmente inaudito che degli uomini escano vivi da una fornace infuocata, che tutti vogliono osservare da vicino i tre giovani oggetto di un simile prodigio. I dignitari fanno ressa intorno a loro e possono constatare de visu che il fuoco non li ha neanche sfiorati: la capigliatura, la prima parte del corpo a soffrire gli effetti del calore, è intatta, le tuniche (o meglio, i calzari, come traducono altri) non recano tracce di combustione, i loro corpi non odorano di bruciato. L’Iddio che essi servono li ha prodigiosamente salvati, manifestando il suo gran potere davanti gli occhi dei rappresentanti di tutte le province imperiali. Certo, non tutti hanno potuto osservare da vicino i loro corpi indenni, infatti il narratore menziona solo tre delle sette categorie di funzionari menzionati nel v. 2: ’achashdarpenayya’ (sàtrapi), sighnayya’ (prefetti) e pachawatha’ (governatori), più una quarta categoria, quella )fKl : m a y" rb : D f h a haddavrê malka’ (consiglieri del re) nominata per la seconda volta dopo il v. 24. Tutti, comunque, hanno visto i giovani uscire vivi dalla fornace. 28 E Nebucadnetsar prese a dire: “Benedetto sia l’Iddio di Shadrac,

di Meshac e di Abed-nego, il quale ha mandato il suo angelo, e ha liberato i suoi servi che hanno confidato in lui, hanno trasgredito l’ordine del re, e hanno esposto i loro corpi, per non servire e non adorare altro dio che il loro! 29 Perciò, io faccio questo decreto: che chiunque, a qualsiasi popolo, nazione o lingua appartenga, dirà male dell’Iddio di Shadrac, Meshac e Abed-nego, sia fatto a pezzi, e la sua casa sia ridotta in un immondezzaio; perché non v’è alcun altro dio che possa salvare a questo modo”. 127 - Idem, p. 785.

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I pagani in genere rispettavano le divinità straniere, tanto più se ad esse si poteva accreditare, a torto o a ragione, un qualche prodigio (in questo caso, evidentemente, il fatto portentoso è accreditato a ragione!). Ammettere nel pantheon nazionale una divinità straniera, o quanto meno riconoscerne il potere, non era poi un problema. L’atteggiamento di Nabucodonosor verso il Dio dei Giudei è conforme a questa mentalità. Il prodigio di cui è stato spettatore ha suscitato nel re timore e riverenza verso questo Dio talmente potente. Egli non può non ammettere che sia stato lui a liberare dal fuoco, con la mediazione di un suo inviato, i giovani che hanno avuto fiducia in lui. Questo non significa però - sia detto ancora una volta - che egli rinunci alla sua mentalità politeistica. Adesso Nabucodonosor ha capito e riconosce che non è stato per temeraria rivolta contro la sua autorità che i giovani giudei hanno trasgredito il suo ordine, ma soltanto “per non servire e non adorare altro dio che il loro”. Il re emana seduta stante un decreto col quale si fa obbligo a tutti i gruppi etnici e linguistici del suo impero di rispettare e riverire il Dio di Shadrac, Meshac e Abed-nego. La sanzione che dovranno subire i trasgressori di questo decreto è identica a quella che doveva abbattersi sui sapienti di Babilonia rei di non avergli saputo rivelare il sogno (vedi commento a 2: 5). 30 Allora il re fece prosperare Shadrac, Meshac e Abed-nego nella

provincia di Babilonia. Il rifiuto di ubbidire all’ordine del re nella piana di Dura aveva fatto decadere automaticamente dai loro incarichi ufficiali Shadrac, Meshac e Abed-nego. Ora essi sono reintegrati in quegli incarichi, dopo che per l’intervento del Dio che servono sono scampati ad una morte atroce. Il verbo xalc : h a hatzlach, “fece prosperare”, “promosse”, fa pensare che i giovani siano stati posti dal re nelle condizioni più favorevoli per svolgere le loro mansioni amministrative con pieno successo. L’esito felice della vicenda è enfatizzato per mostrare che Dio rimunera i suoi figli che lo servono con fedeltà.

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Capitolo 4 ____________________________

I

l racconto di questo capitolo ha qualche somiglianza con la storia narrata nel capitolo 2. Anche in questo episodio Nabucodonosor ha un sogno che i maghi di Babilonia non sanno interpretare. E anche qui l’intervento di Daniele è risolutivo. Ma se vi sono analogie fra le due storie, vi sono anche differenze. Nel cap. 4 il sogno non è stato dimenticato e non c’è minaccia di morte a carico dei maghi reticenti. E ancora, a differenza del primo episodio, nel secondo il sogno preannuncia un evento infausto per il re di Babilonia. Evento che si compie puntualmente perché Nabucodonosor ha esaltato se stesso anziché l’Iddio Altissimo. Ridotto in uno stato di abbrutimento a causa di una rara malattia mentale, il sovrano vaga per i campi come una bestia selvatica. Trascorso il tempo predetto da Daniele, Nabucodonosor, forse in un momento di lucidità, prende coscienza della sua condizione miserevole, benedice l’Iddio Altissimo, ne esalta la signoria eterna e riacquista le facoltà mentali così come Daniele aveva detto. Singolare è la forma letteraria del racconto. Prima di tutto perché si apre e prosegue nella forma di un proclama rivolto a tutti i popoli dell’impero, poi perché i verbi e i pronomi sono alla prima persona fino al v. 18, passano alla terza persona nel v. 19 e ritornano alla prima persona nel v. 34. Nella versione italiana della Bibbia utilizzata in questo commentario, conformemente ad alcuni codici di versioni antiche, il cap. 4 si apre col preambolo del proclama di Nabucodonosor. Nel Testo Masoretico invece, seguito da numerosi codici di versioni antiche e da molte versioni moderne, questo capitolo esordisce col racconto di Nabucodonosor in prima persona; in altre parole i primi 3 versetti del cap. 4 nella versione Riveduta di Giovanni Luzzi, figurano nel testo Masoretico come gli ultimi 3 (31-33) del capitolo terzo. Non v’è dubbio che questi tre versetti stanno al loro posto al principio del cap. 4. Infatti la vicenda del cap. 3 è già conclusa nel v. 30 con l’osservazione che i compagni di Daniele scampati al giudizio del fuoco sono stati reintegrati nei loro incarichi pubblici, mentre il proclama che il re rivolge a tutti i popoli del suo impero per far conoscere i segni e i prodigi che l’Iddio del cielo ha fatto nella sua persona, introduce in modo del tutto naturale il racconto del cap. 4.

1 “Il re Nebucadnetsar a tutti i popoli, a tutte le nazioni e le lingue, che abitano su tutta la terra. La vostra pace abbondi.

La narrazione comincia e prosegue fino a un certo punto nella forma di un proclama che il re Nabucodonosor ha rivolto alle genti dei suoi vasti domini (“po93

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poli... nazioni e lingue”, vedi commento a 3:4) le cui dimensioni geografiche sono iperbolicamente enfatizzate (“su tutta la terra”). Il proclama si apre con un preambolo redatto nell’antica forma epistolare, con l’indicazione del mittente (“il re Nabucodonosor”) e dei destinatari (“a tutti i popoli, a tutte le nazioni e lingue”) seguita dal saluto augurale (“la vostra pace abbondi”). “L’indirizzo a tutto il mondo civile era abituale (cfr. 6:26) nei documenti usciti dalle cancellerie dell’antico Oriente”128. Forme varianti di saluti augurali si trovano anche in decreti imperiali e in un documento epistolare di età persiana riportati nel libro di Esdra (4:17; 7:12, [BG, 5:7]). Una formula augurale si legge nei Papiri aramaici di Elefantina del V secolo a.C.: “Possa l’Iddio del cielo procacciare la salute di...”129. Un editto reale rinvenuto da Rawlinson in Mesopotamia si chiude con la formula: “Possa il mio saluto rallegrare il vostro cuore”130. 2 M’è parso bene di far conoscere i segni e i prodigi che l’Iddio altissimo ha fatto nella mia persona. 3 Come son grandi i suoi segni!

Come son potenti i suoi prodigi! Il suo regno è un regno eterno, e il suo dominio dura di generazione in generazione. Nabucodonosor ha voluto rendere di pubblico dominio nei territori del suo impero una drammatica vicenda personale che riconosce come un giudizio dell’Iddio Altissimo. Dichiarato lo scopo del proclama, il re pronuncia una dossologia per esaltare in vibranti versi lirici la potenza di questo Dio, che si è resa manifesta nella sua persona, e la sua signoria imperitura. Poiché non si conoscono casi paralleli nei documenti antichi, vari autori moderni hanno definito storicamente assurdo questo proclama che Daniele attribuisce al re Nabucodonosor. Il S.D.A. Bible Commentary131 ribatte giustamente che gli argomenti basati sul silenzio delle fonti non sono decisivi. La Scrittura descrive avvenimenti che non hanno riscontri nei documenti coevi che sono a nostra conoscenza (si pensi per esempio alla distruzione di Gerusalemme per mano di Nabucodonosor), eppure nessuno ne contesta l’attendibilità. “Questo tipo di approccio - osserva Leupold - fa della storia extra-biblica il criterio per decidere che cosa sia o non sia credibile e ragionevole nell’ambito della rivelazione”132. Su radicali riforme religiose promosse da qualche sovrano del mondo antico siamo comunque informati dalle fonti storiche. Si sa, per esempio, che il faraone Amenofi IV nel secolo XIV a.C. ripudiò la religione politeistica degli avi e istituì nell’Egitto una sorta di culto monoteistico rivolto all’antica divinità solare

128 - G. RINALDI, op. cit., p. 77. 129 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 788. 130 - H. C. LEUPOLD, op. cit., p. 168. 131 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV , p. 788. 132 - H. C. LEUPOLD, op. cit., p. 168.

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Aton in onore della quale eresse un tempio nella nuova capitale Aketaton e mutò il proprio nome in Ikhnaton. Un’analoga rivoluzione religiosa pare essere avvenuta in Mesopotamia cinque secoli più tardi: indizi concreti fanno pensare che durante il regno di Adadnirari III (810-782 a.C.) Nabu, dio di Borsippa, fosse proclamato unica o principale divinità di Ninive133. 4 Io, Nebucadnetsar, stavo tranquillo in casa mia, e fiorente nel mio palazzo. 5 Ebbi un sogno, che mi spaventò; e i pensieri che m’assali-

vano sul mio letto, e le visioni del mio spirito m’empiron di terrore. Il proclama prosegue col racconto di Nabucodonosor in prima persona. “Stavo tranquillo in casa mia...”. L’episodio sembra potersi situare nell’ultimo scorcio del lungo regno di Nabucodonosor quando, terminate le guerre di conquista, il grande sovrano assicurò lunghi anni di pace e prosperità al paese. “... Fiorente nel mio palazzo...”: l’aramaico }án(: r a ra‘anan, lett. “essere verdeggiante”, era usato metaforicamente per indicare la condizione di qualcuno che prosperava in circostanze particolarmente fortunate (W. GESENIUS). L’espressione, nello stesso tempo che enfatizza l’opulenza di Babilonia, anticipa l’argomento della prima parte del sogno descritto nei versetti seguenti. Ancora un sogno dunque, un sogno che turba la tranquillità del re, anzi che lo terrorizza (si tenga presente l’importanza che si annetteva ai sogni in Babilonia - vedi commento a 2:1). Nabucodonosor sembra che colga nel sogno una vaga premonizione infausta. “La repentinità con cui è introdotto questo versetto commenta Leupold - è un artificio letterario per indicare che il sogno sopravvenne in modo del tutto inaspettato”134. L’emozione che il re ha provato durante il sogno si rinnova e intensifica al risveglio mentre egli riflette sulle cose viste e le parole udite nel sogno stesso (“le visioni del mio spirito”). 6 Ordine fu dato da parte mia di condurre davanti a me tutti i savi

di Babilonia, perché mi facessero conoscere l’interpretazione del sogno. 7 Allora vennero i magi, gl’incantatori, i Caldei e gli astrologi; io dissi loro il sogno, ma essi non poterono farmene conoscere l’interpretazione. Il fallimento di cui si dà notizia nel cap. 2 non sembra avere scosso la fiducia di Nabucodonosor nei poteri dell’arte divinatoria babilonese. Sono convocati nel palazzo i professionisti della mantica, una prima volta designati con un termine collettivo (lebb f y"myiKx a chakkîmê bavel, “i sapienti di Babilonia”) e una seconda : ) f ’ashfayyâ’, ) " yfD: &Ka kavolta distinti in 4 categorie: )Yam+ u r : x a chartummayyâ’, ) Yæ pa $ shdday’e e )æYr a º zgf gazraya’ (per i significati vedi commento a 2:2, 3). Ma il re non

133 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, ivi p. 996. 134 - H. C. LEUPOLD, op. cit., pp. 172, 173.

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esige da loro che indovinino il sogno come nell’episodio precedente perché stavolta il sogno non lo ha dimenticato (“io dissi loro il sogno”). Tuttavia i professionisti della divinazione ancora una volta rimangono muti davanti alla richiesta del re. Essi avranno certamente intuito il significato infausto del sogno, ma non avrebbero saputo dire più di questo. Oltretutto non era piacevole, e poteva anche essere pericoloso per loro, annunciare al sovrano un presagio nefasto, sia pure senza poterne precisare la natura. 8 Alla fine si presentò davanti a me Daniele, che si chiama Beltsat-

sar, dal nome del mio dio, e nel quale è lo spirito degli dèi santi; e io gli raccontai il sogno. Daniele riappare per la prima volta sulla scena dopo l’episodio del cap. 2. Non è chiaro se sia stato convocato dal re o se si sia presentato di sua iniziativa. Se è valida la prima ipotesi, che effettivamente sembra la più verosimile, Nabucodonosor può aver voluto prima ascoltare il responso degli specialisti nazionali della divinazione, poi, visto il silenzio di questi, avrebbe consultato l’esperto straniero. Ma si può anche supporre che Daniele fosse stato convocato insieme con gli altri sapienti, ma che qualche motivo a noi sconosciuto gli abbia impedito di ottemperare subito all’ordine del re. L’ipotesi di una presentazione spontanea di Daniele sembra la meno probabile. Bisognerebbe ammettere che il re Nabucodonosor lo avesse messo da parte dopo averlo investito di un alto incarico che tuttora riconosceva (cfr. 2:48 con 4:9). Nabucodonosor prima nomina Daniele col suo nome giudaico, poi col nome babilonese che egli stesso gli ha imposto (vedi commento a 1:7). Osserva giustamente Leupold135 che dopo la lezione che gli era stata impartita attraverso l’esperienza narrata in questo capitolo, è comprensibile che Nabucodonosor si preoccupasse di non dire e fare nulla che potesse apparire come un’offesa verso il Dio di Daniele, ciò che appunto avrebbe significato il non tenere conto del nome originale di quest’uomo (Dani’el = “Dio è il mio giudice”) dopo averlo sostituito con un nome che onorava la sua divinità personale. La forma plurale dell’espressione aramaica }yi $yiDqa }yi hl f ) E ’elahîn qaddîshîn, “gli dèi santi”, può anche tradursi al singolare, “l’iddio santo” come rileva il S.D.A. Bible Commentary136, il quale propende per questa traduzione tanto più che la versione greca di Teodozione rende la frase: “il quale ha in sé lo spirito santo di Dio”. Leupold, Rinaldi e altri, come il Luzzi, preferiscono la forma plurale, la quale in effetti, oltre ad attenersi alla letteralità dell’aramaico, tiene conto del fatto che chi parla è un politeista, anche se rispetta il Dio di Daniele.

135 - Ibidem, pp. 175, 176. 136 - Vol. IV, p. 789.

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9 Beltsatsar, capo dei magi, siccome io so che lo spirito degli dèi santi è in te, e che nessun segreto t’è difficile, dimmi le visioni che ho avuto nel mio sogno, e la loro interpretazione.

“Capo dei magi” ()æYM a + u r : x a bar rav chartummayyâ’), traducibile anche “capo degli indovini” (vedi commento a 2:2-3), deve essere l’equivalente di “capo supremo di tutti i savi di Babilonia” (cfr. 2:48). Nabucodonosor si rivolge a Daniele quale suo eminente ministro. Per la seconda volta riconosce la presenza in lui dello “spirito degli dèi santi”, ed esprime la convinzione che non ci sono per lui segreti impenetrabili. “Dimmi la visione che ho avuto...” Poiché nei versetti seguenti Nabucodonosor descrive il sogno, non si capisce il motivo di questa richiesta rivolta a Daniele. Teodozione traduce: “Ascolta la visione del sogno che ho avuto...” Questa lezione è senz’altro più coerente. Varie versioni ed espositori moderni seguono Teodozione. La Bible de Jérusalem corregge l’aramaico y¢wzº x e hezwê, “visioni”, in hazî, “ecco”, e traduce: “Ecco il sogno che ho avuto...” Il testo italiano della C.E.I., Rinaldi, Bernini e altri si attengono a questo modo di leggere il passo. 10 Ed ecco le visioni della mia mente quand’ero sul mio letto. Io guar-

davo, ed ecco un albero in mezzo alla terra, la cui altezza era grande. “Io guardavo...” La forma aramaica del verbo esprime azione progressiva (“io stavo guardando”) e attenta considerazione di ciò che si sta guardando137. Anche Ezechiele e Isaia usano l’immagine dell’albero per raffigurare una nazione (Ez 17:22, 23; 19: 10-14; 31: 3-14; Is 10: 33, 34). In una delle iscrizioni rinvenute a Wadi Brissa, nel Libano, e pubblicata da F. H. WEISSBACH nel 1906, Babilonia è paragonata a un grande albero che fa ombra a tutti i popoli138. Erodoto, in Storie I, 108, riporta un fatto che ha qualche somiglianza con la storia narrata da Daniele. Egli dice che Astiage re dei Medi sognò che sua figlia Mandane, andata in sposa a Cambise, principe persiano, partorì una vite che crebbe fino a coprire tutta l’Asia. Sollecitato il responso degli interpreti dei sogni, costoro gli predissero che il figlio di sua figlia avrebbe regnato in vece sua. L’albero visto in sogno da Nabucodonosor, l’albero che si erge forte e maestoso nel bel mezzo della terra e estende i suoi rami in tutte le direzioni potrebbe essere una figura idonea della nuova Babilonia creata da Nabucodonosor.

137 - Cfr. LEUPOLD, op. cit., p. 178. 138 - Cfr. G. RINALDI, op. cit., pp. 78, 79 e G. PETTINATO, op. cit., p. 17.

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11 l’albero era cresciuto e diventato forte, e la sua vetta giungeva al cielo, e lo si vedeva dalle estremità di tutta la terra. 12 Il suo fogliame

era bello, il suo frutto abbondante, c’era in lui nutrimento per tutti; le bestie dei campi si riparavano sotto la sua ombra, gli uccelli del cielo dimoravano fra i suoi rami, e ogni creatura si nutriva d’esso. L’immagine è imponente. Le dimensioni dell’albero, il suo vigore, la sua floridezza, tutto è superlativo e tutto sembra potersi riferire alla gran città che dominò il mondo tra il 605 e il 539 a.C. “... ecco un albero in mezzo alla terra”. Spesso nelle iscrizioni reali di questo periodo Babilonia è descritta come il centro del mondo. “... L’albero era cresciuto e diventato forte”. Sotto la guida energica e illuminata di Nabucodonosor i confini dell’impero di Babilonia si erano dilatati fino a incorporare tutta la Mesopotamia, la Siria e la Palestina. “Il suo fogliame era bello, il suo frutto abbondante...” Immagine eloquente della prosperità e dell’opulenza della nuova Babilonia creazione di Nabucodonosor. “... c’era in lui nutrimento per tutti...” Nulla potrebbe commentare questa frase meglio delle parole dello stesso Nabucodonosor che si leggono in una delle sue numerose iscrizioni: “Nabucodonosor, il re di giustizia, sono Io. La moltitudine della gente che Marduk, mio signore, ha dato nelle mie mani, governo io con bontà... [...] ... sotto la sua eterna protezione radunai tutti i popoli per il loro bene. Un governo pieno di abbondanza, anni pieni di benedizioni garantii al mio paese”139. Gli storici riconoscono senza riserve a Nabucodonosor i meriti che questo sovrano ascrive a se stesso. Scrive il prof. Pettinato: “anche se può sembrare noioso, non mi stancherò di ripetere che la vera grandezza del sovrano Nabucodonosor non consiste nel fatto che egli abbia creato un impero e abbia costruito una degna capitale, quanto piuttosto all’aver regnato con giustizia ed equità, nell’essere stato, in poche parole, un ‘pastore fedele’ per il suo popolo”140. Bisogna dire che nell’intento della Rivelazione l’albero grande e maestoso visto in sogno da Nabucodonosor, vuole raffigurare piuttosto lui stesso che non la città e l’impero di Babilonia, quantunque nell’antichità il re venisse considerato l’incarnazione vivente del regno e fosse quindi con esso identificato. 13 Nelle visioni della mia mente, quand’ero sul mio letto, io guardavo, ed ecco uno dei santi Veglianti scese dal cielo, 14 gridò con forza, e disse così: - Abbattete l’albero, e tagliatene i rami; scotetene il fogliame, e dispergetene il frutto; fuggano gli animali di sotto a lui, e gli uccelli di tra i suoi rami!

139 - G. PETTINATO, op. cit., pp. 182/183. 140 - Ibidem, p. 185.

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Un essere sovrumano compare sulla scena mentre il re contempla nel sogno l’albero maestoso. Questo essere è designato con un termine che non ha riscontri nell’Antico Testamento (non si deve dimenticare che chi lo usa non appartiene alla cultura ebraica). L’aramaico ryi( - dal verbo ‘ur, “vigilare” - significa “vigilante”, “uno che sta sempre all’erta”. I LXX lo traducono angelos “angelo”, mentre Teodozione si limita a traslitterarlo in caratteri greci [ir]. Nell’apocalittica giudaica (Enoch, Giubilei) aggeloi designa gli esseri celesti che eseguono i decreti divini, vale a dire gli angeli. È improbabile che i Caldei conoscessero la nozione giudaica espressa da questo termine, come suggerirebbe la versione dei LXX. Nondimeno l’attributo “santo” aggiunto a “vigilante” (aramaico $yiDqa wº ryi( ‘ir weqaddêsh, letteralmente “un vigilante e santo”) e la natura sovrumana (“scese dal cielo”) di questo essere cui nulla sfugge, fanno pensare che Nabucodonosor debba avere riconosciuto il lui un messaggero della divinità. Una sentenza a carico dell’albero è stata emanata in cielo; il “vigilante e santo” che ne è disceso ha il compito non di eseguirla ma di comandare che venga eseguita. Egli “gridò con forza”, questa frase sottolinea l’autorità di cui è stato investito l’essere sovrumano. Non uno ma più giustizieri eseguiranno la sentenza (gli imperativi sono tutti al plurale: “abbattete... tagliate... scuotete... disperdete...”). L’identità dei giustizieri non è rivelata, ma si può presumere che appartengano alla stessa natura e al medesimo rango del “vigilante e santo” (il v. 17 menziona i “vigilanti”, al plurale, ‘irîn). L’azione punitiva a carico dell’albero deve essere severa: non questo ha da essere abbattuto, ma i suoi rami dovranno essere tagliati, il suo fogliame scosso e il suo frutto disperso sì che le creature che si riparavano in esso e di esso si nutrivano se ne fuggano lontano. Il significato nefasto del sogno è evidente. 15 Però, lasciate in terra il ceppo delle sue radici, ma in catene di

ferro e di rame, fra l’erba de’ campi, e sia bagnato dalla rugiada del cielo, e abbia con gli animali la sua parte d’erba della terra. Il castigo decretato a carico dell’albero sarà severo ma non radicale. L’ordine di lasciare in terra il ceppo con le sue radici contiene l’annuncio implicito di una rifioritura (cfr. Gb 14: 7; Is 11: 1). La metafora è riferita a Nabucodonosor, non alla sua dinastia. La pratica di stringere con catene o legami metallici i ceppi delle piante tagliate è sconosciuta alle fonti antiche né si comprende quale scopo potrebbe avere avuto (è da rifiutare, perché non ha alcun fondamento nel testo, qualunque relazione fra il ferro e il rame mentovati in questo passo e gli stessi metalli di cui si parla nel cap. 2). Secondo Girolamo, le catene che cingono il ceppo nel sogno sarebbero un riferimento alla persona di Nabucodonosor immobilizzata con catene vere negli accessi di follia (è un’ipotesi poco probabile). Più verosimile appare il riferimento alle restrizioni che le alterate condizioni mentali avrebbero imposto al sovrano. Il Commentario biblico avventista ritiene più motivato rapportare le catene soltanto all’elemento figurativo, ossia al ceppo dell’albero abbattuto, e ravvisare in esse un segno della cura che si sarebbe avuta per preservarlo. 99

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I commentatori, che applicano le “catene” alla persona di Nabucodonosor, pensano che a lui si debba anche applicare l’essere bagnato dalla rugiada e questo significherebbe che nel suo vagare per i campi il re colpito da alienazione mentale non avrebbe alcun riparo per la notte. Quanti invece applicano ancora al ceppo l’essere bagnato dalla rugiada ravvisano in questo un segno della cura che si avrà per garantirne la sopravvivenza. Se ci si attiene alla prima ipotesi, la realtà si sovrappone all’immagine già nella prima frase del v. 15 dopo il punto e virgola (“e sia bagnato dalla rugiada del cielo”). Se invece è giusta la seconda ipotesi, allora il trapasso dalla figura alla realtà interviene nella seconda frase (“e abbia con gli animali la sua parte d’erba della terra”). Che in questo caso il riferimento sia a una persona umana e non al ceppo di una pianta e alla sua radice è fin troppo ovvio. 16 Gli sia mutato il cuore; e invece d’un cuor d’uomo, gli sia dato un

cuore di bestia; e passino si di lui sette tempi. Il sovrapporsi dell’oggetto reale alla figura si fa più chiaro e deciso. È evidente che il riferimento è direttamente alla persona di Nabucodonosor. Secondo la mentalità semitica il cuore è la sede dell’intelligenza nell’uomo e dell’istinto nella bestia. Togliere il cuore a un uomo e introdurre in lui un cuore di bestia è una metafora che significa privarlo dell’intelligenza e abbandonarlo in balia di istinti animaleschi. È questo che succederà a Nabucodonosor se non si umilierà davanti all’Altissimo e non ne riconoscerà l’eterna signoria. “Tempi” (aramaico }yénD f (i ‘iddanîn) è reso generalmente “anni” dagli antichi (i LXX, Giuseppe Flavio, Girolamo, Rashi, Ibn Ezra, Jefet...). Tra i moderni prevale la traduzione letterale “tempi”. Così Luzzi, Rinaldi, Bernini, la Bibbia di Gerusalemme, Osterwald ecc...). Anche Leupold preferisce l’espressione “sette tempi”, pur riconoscendo che l’aramaico è traducibile anche “sette anni”. Questo autore propende per un valore simbolico del numero sette (perfezione, compiutezza), quindi opina che dovrà trascorrere tutto il tempo necessario perché Dio compia la sua opera nell’animo del re141. Lo stesso Rinaldi: “...‘sette’ è indeterminato per ‘molti’, o è numero perfetto, per dire ‘tanti quanti saranno necessari’”142. 17 La cosa è decretata dai Veglianti, e la sentenza emana dai santi,

affinché i viventi conoscano che l’Altissimo domina sul regno degli uomini, ch’egli lo dà a chi vuole, e vi innalza l’infimo degli uomini. Nabucodonosor deve sapere che l’ordine di abbattere l’albero non è una frase banale. È un “decreto”, una “sentenza” e nello stesso tempo una “richiesta” che procedono dai “vigilanti e santi” (a ragione identificati con gli angeli da molti commentatori).

141 - Vedi H. C. LEUPOLD, op. cit., p. 185. 142 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 80.

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Il fato che si abbatterà sul re di Babilonia è stato dunque decretato in un’assemblea celeste (ad un’assemblea nel cielo si riferiscono Gb 1:1; 2:6 e 1Re 22:1922). La sorte degli uomini è dunque fissata dagli angeli e non da Dio? Non è questo che vuole dire il passo danielico. Nel v. 24 il profeta spiega al re di Babilonia che quanto è rivelato nel sogno “è un decreto dell’Altissimo”. Gli angeli tuttavia non sono esecutori passivi dei decreti divini: Dio li coinvolge attivamente nelle decisioni solenni che riguardano i figli degli uomini. Così farà Dio con gli eletti risorti nel giudizio finale (vedi Ap 20: 4). Nabucodonosor non ha voluto riconoscere che la sovranità che egli esercita su un vasto impero gli è stata conferita dall’Iddio Altissimo. L’annunciato castigo gli servirà da lezione, e non a lui soltanto (“affinché i viventi conoscano...”). Quello che accadrà all’illustre sovrano di Babilonia se non si ravvederà farà conoscere a tutti gli uomini che v’è nel cielo un Sovrano più grande del più grande dei dominatori di questo mondo, e che da Lui ricevono il potere i regnanti di quaggiù (“il regno... egli lo dà a chi vuole...”). Non è dunque solo per le loro intrinseche virtù e capacità che i re della terra acquisiscono ed esercitano il potere: l’Altissimo “vi innalza (anche) l’infimo degli uomini”. L’elezione del pastorello Davide a futuro re d’Israele (1Sm 16) è uno dei fatti storici che illustrano questa dichiarazione paradossale. 18 Questo è il sogno che io, il re Nebucadnetsar, ho fatto; e tu, Belt-

satsar, danne l’interpretazione, giacché tutti i savi del mio regno non me lo possono interpretare; ma tu puoi, perché lo spirito degli dèi santi è in te” Esposto il sogno in ogni dettaglio, il re si aspetta che Daniele, designato col suo nome babilonese, ne dia l’interpretazione. Il riconoscimento esplicito dell’incapacità degli interpreti ufficiali del regno (“giacché i savi del mio regno non me lo possono interpretare”) equivale a un’implicita ammissione del fallimento della scienza ufficiale di Babilonia. Nabucodonosor dichiara ancora una volta (cfr. v. 8) la sua convinzione che non ci sono segreti impenetrabili per Daniele, “perché lo spirito degli dèi santi” è in lui (sul senso di quest’ultima frase vedi il commento del v. 8). 19 Allora Daniele il cui nome è Beltsatsar, rimase per un momento stupefatto, e i suoi pensieri lo spaventarono. Il re prese a dire: “Beltsatsar, il sogno e la interpretazione non ti spaventino!” Beltsatsar rispose, e disse: “Signor mio, il sogno s’avveri per i tuoi nemici, e la sua interpretazione per i tuoi avversari!

“Daniele il cui nome è Beltsatsar...” Il nome ebraico del nostro personaggio ne evoca l’appartenenza al popolo di Dio, il nome babilonese, lo stato di esule al servizio di un monarca straniero nemico del suo popolo, verso il quale tuttavia l’uomo di Dio non nutre risentimenti. 101

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In questo frangente l’esule giudeo prova un forte turbamento nel cogliere le implicazioni sinistre per la persona del re del sogno che questi gli ha esposto: “(Daniele) rimase per un momento stupefatto...”, aramaico ’eshtomam kesha‘ah chadah [hfdx A hf($ f K: {amOT:$) e ]. Il verbo shamam nella forma in cui compare in questo passo significa “essere sgomento”, “essere perplesso”, “essere imbarazzato”143. Non è la paura per una possibile reazione violenta del re di fronte a un annuncio per lui nefasto che rende perplesso Daniele, ma piuttosto l’imbarazzo e il dispiacere per dovergli porgere un messaggio infausto. L’aramaico kesha‘ah chadah, letteralmente “circa un’ora”, qui denota uno spazio di tempo indeterminato ma non brevissimo; una traduzione più accettabile potrebbe essere: “per un certo tempo”. “Il re prese a dire...”: il passaggio alla terza persona non è da intendersi necessariamente, alla stregua di certi critici, come un indizio che da questo punto un’altra persona stia parlando di Nabucodonosor e di conseguenza il brano che segue debba ritenersi un’interpolazione. Il passaggio dalla prima alla terza persona e viceversa in un medesimo contesto letterario è una particolarità ricorrente con una certa frequenza in vari libri dell’A.T. (vedi per es. Ed 7: 13-15; Ne 7: 1, 2; 8: 9, 10; Gr 18: 1,5; Ez 1: 3,4; Za 1: 7,8 ecc...). Dallo sgomento che traspare sul volto di Daniele, Nabucodonosor intuisce che il sogno non preconizza niente di buono; comunque si mostra disposto ad accettarne l’interpretazione quale che essa sia, e rassicura il suo fido ministro: “Beltsatsar, il sogno e la sua interpretazione non ti spaventino”. Il breve preambolo che Daniele premette all’interpretazione (“Signor mio, il sogno si avveri per i tuoi nemici e la sua interpretazione per i tuoi avversari”) non tradisce affatto un’intenzione adulatoria nei confronti del sovrano, ma esprime semplicemente i sentimenti di deferenza verso una persona rivestita d’autorità. L’augurare la malasorte ai nemici del re è parso non in armonia con la rettitudine di un santo uomo di Dio, per cui si è tentata una diversa lettura della frase aramaica, come ha fatto il Kliefoth: “Il sogno è per i tuoi nemici”, cioè: questo è il sogno che i tuoi nemici vorrebbero si avverasse nei tuoi confronti”144. 20 L’albero che il re ha visto, che era divenuto grande e forte, la cui vetta giungeva al cielo e che si vedeva da tutti i punti della terra, 21 l’albero dal fogliame bello, dal frutto abbondante e in cui era nutrimento per tutti, sotto il quale si riparavano le bestie dei campi e fra i cui rami dimoravano gli uccelli del cielo, 22 sei tu, o re; tu, che sei divenuto grande e forte, la cui grandezza s’è accresciuta e giunge fino al cielo, e il cui dominio s’estende fino all’estremità della terra.

Daniele esordisce con l’evocare la figura centrale del sogno quasi con gli stessi termini con cui l’ha descritta Nabucodonosor, senza trascurare alcun dettaglio

143 - Vedi S.D.A. Bible Commentary. 144 - Cfr. H. C. LEUPOLD, op. cit., p. 190.

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(cfr. vv. 11, 12), segno che il profeta ha seguito con estrema attenzione l’esposizione del sovrano. Quindi, senza prolungare oltre l’attesa ansiosa del suo regale interlocutore, identifica nel modo più esplicito e diretto il sovrano di Babilonia nell’albero forte e maestoso: “L’albero... sei tu, o re !” La prima parte del sogno - e conseguentemente della sua spiegazione - riveste carattere decisamente positivo, riferendosi alla grandezza e potenza di Nabucodonosor evidenti a tutti fino al momento presente, nonché alla vastità dei suoi domini territoriali che Daniele vede in una dimensione iperbolica conformemente all’uso orientale (“... il cui dominio si estende fino alle estremità della terra”). In effetti il prestigio politico (la grandezza) e la potenza militare (la forza) del grande sovrano di Babilonia si accrebbero considerevolmente, e di pari passo si dilatarono i confini del suo impero, a mano a mano che egli in un seguito di campagne militari fortunate, vinse e sottomise gli staterelli della regione siro-palestinese e le popolazioni dell’Alta Mesopotamia dopo la sua vittoria sugli Egiziani nel 605 a.C. Il fasto e lo splendore di Babilonia sono spesso celebrati con grande enfasi nelle iscrizioni di Nabucodonosor. Questo quadro di potenza e grandezza senza eguali esaspera il contrasto con la seconda parte del sogno. 23 E quanto al santo Vegliante che hai visto scendere dal cielo e che

ha detto: - Abbattete l’albero e distruggetelo, ma lasciate in terra il ceppo delle radici, in catene di ferro e di rame, fra l’erba de’ campi, e sia bagnato dalla rugiada del cielo, e abbia la sua parte con gli animali della campagna finché sian passati sopra di lui sette tempi 24 eccone l’interpretazione, o re; è un decreto dell’Altissimo, che sarà eseguito sul re mio signore: Daniele introduce l’interpretazione della seconda parte del sogno - come ha fatto delucidandone la prima parte - ripetendo la descrizione fattane dal re, ma stavolta in forma sintetica: riunisce in uno solo i primi dettagli (“distruggetelo” in luogo di “tagliatene i rami, scuotetene il fogliame, disperdetene il frutto”) e altri ne omette (“fuggano gli animali di sotto a lui, e gli uccelli di tra i suoi rami” e “gli sia mutato il cuore; e invece di un cuor d’uomo gli sia dato un cuore di bestia”, cfr. vv. 14-16 e relativo commento). Il santo e vigilante che sentenzia l’abbattimento dell’albero (v. 23) esercita in sostanza un potere delegato, giacché di fatto il decreto procede dall’Altissimo (v. 24 u.p.). 25 tu sarai cacciato di fra gli uomini e la tua dimora sarà con le bestie dei campi; ti sarà data a mangiare dell’erba come ai buoi; sarai bagnato dalla rugiada del cielo, e passeranno su di te sette tempi, finché tu non riconosca che l’Altissimo domina sul regno degli uomini, e lo dà a chi vuole. 26 E quanto all’ordine di lasciare il ceppo delle radici dell’albero, ciò significa che il tuo regno ti sarà ristabilito, dopo che avrai riconosciuto che il cielo domina.

Dalla descrizione fatta dal re Nabucodonosor, i sapienti di Babilonia non pos103

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sono non avere intuito che una grande sventura incombe sul sovrano, ma non saprebbero precisare di più. Daniele invece può delucidare con precisione la natura di questo malanno. Annunciare eventi calamitosi deve essere sempre stato per i profeti uno dei compiti più ingrati, e lo fu certamente anche per Daniele. Nondimeno questo incarico sgradito egli lo assolve con assoluta fedeltà, senza nulla omettere di quanto gli è stato rivelato e senza attenuarne la portata funesta. Il fato che incombe sulla persona del re è descritto con una schiettezza che può perfino sembrare rudezza. Nabucodonosor sarà bandito dal consorzio umano, vivrà come un selvaggio nella natura selvaggia nutrendosi alla maniera degli animali selvatici e come gli animali selvatici sarà esposto alle intemperie. Il quadro fosco è tuttavia illuminato da un raggio di speranza: questo stato di cose non durerà indefinitamente. L’albero del sogno è stato tagliato, non sradicato. Dopo che saranno passati “sette tempi” (vedi commento al v. 16), cioè, probabilmente, dopo che sia trascorso tutto il tempo necessario finché il re abbia imparato la lezione che deve essergli impartita (ovvero “che l’Altissimo domina sul regno degli uomini, e lo dà a chi vuole”), la sua sorte muterà. Quando avrà riconosciuto che “il cielo domina”, allora Nabucodonosor tornerà alla vita normale e gli sarà restituito il potere sovrano. Il “cielo” per metonimia sta ad indicare Colui che dal cielo domina sul regno degli uomini, cioè l’Iddio Altissimo. 27 Perciò, o re, ti sia gradito il mio consiglio! Poni fine ai tuoi peccati con la giustizia, e alle tue iniquità con la compassione verso gli afflitti; e, forse, la tua prosperità potrà esser prolungata”.

L’interprete si muta in consigliere senza che gli sia stato richiesto. Sulla linea dei profeti che lo hanno preceduto, Daniele unisce la parenesi alla predizione. Dopo avergli annunciato il giudizio di Dio, esorta il suo interlocutore alla penitenza affinché il giudizio sia scongiurato (è notevole questo accento etico in un discorso predittivo!). Daniele sa infatti che così come le promesse, le minacce divine sono condizionate (Gr 18:7-10), onde se Nabucodonosor, la cui sorte non lo lascia indifferente, emenderà le sue vie, la presente condizione di prosperità potrà prolungarsi. Perché ciò avvenga, dunque, non sarà sufficiente che il re receda dal suo orgoglio e riconosca l’autorità suprema dell’Altissimo, sarà anche necessario che egli sia equanime verso tutti nell’amministrare la giustizia ed usi compassione nei riguardi dei diseredati del suo regno (l’aramaico }éynæ (A ‘anayîn, tradotto “afflitti”, secondo il Leupold designa persone senza alcuna influenza sociale e vittime di ogni sorta di abusi per non avere nessuno che prenda a cuore la loro causa). Se per certi versi, come ricordato prima, Nabucodonosor fu un sovrano illuminato, sollecito del benessere dei suoi sudditi, per altri versi fu un dominatore dispotico e crudele che non esitò ad usare il pugno di ferro per affermare la propria autorità, come attestano gli episodi narrati nei capp. 2 e 3 del nostro libro (vedi pure Gr 29:22). Tuttavia in questo frangente sono messi a nudo piuttosto la 104

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non imparzialità nell’amministrazione della giustizia e la noncuranza verso gli indifesi. Daniele non ha paura di mentovare i peccati e le iniquità del gran re di Babilonia, del resto lo fa con l’intento di sottrarlo ad una sorte durissima. Porre fine ai peccati con la giustizia e alle iniquità con la compassione non equivale ad autogiustificarsi davanti a Dio, acquisire il merito della propria salvezza (ciò sarebbe in contrasto con l’insegnamento unanime della Scrittura!). Il discorso di Daniele ha una portata etica, non teologica. Non ci è detto nulla circa la reazione di Nabucodonosor alle parole di esortazione del suo interprete. Qualche commentatore ha opinato che la non menzione nel racconto di una ricompensa accordata o di particolari onorificenze tributate a Daniele, possa essere un segno che il re non abbia gradito il suo consiglio. 28 Tutto questo avvenne al re Nebucadnetsar. 29 In capo a dodici mesi egli passeggiava sul palazzo reale di Babilonia. 30 Il re prese a

dire: “Non è questa la gran Babilonia che io ho edificata come residenza reale con la forza della mia potenza e per la gloria della mia maestà?” “Il Signore, l’Eterno, non fa nulla senza rivelare il suo segreto ai suoi servi, i profeti”, dichiara Amos (3:7). È la norma, il principio al quale si attiene l’Iddio del cielo nei suoi rapporti con le creature terrene. Tramite i suoi portavoce, i profeti, Egli rimprovera agli uomini i loro peccati, minaccia il castigo, esorta alla conversione, offre perdono e salvezza (Is 1:10-20; 58:1-7; Gioe 2:11-13; Am 5:11-15, ecc...). Al tempo di Giona i Niniviti erano stati avvertiti che essi avevano quaranta giorni di tempo per emendare la loro malvagia condotta, pena la totale distruzione (Giona 3: 4). I Niniviti si ravvidero e il castigo fu scongiurato (Giona 3:5-10). A Nabucodonosor è stato concesso un anno intero per riformare i suoi comportamenti quale garante della giustizia nel suo regno, ma a nulla sono valsi l’avvertimento di Dio e il consiglio del suo profeta: apparentemente tutto è continuato come prima nella sua vita. “In capo a dodici mesi egli passeggiava sul palazzo reale di Babilonia”, probabilmente il grandioso palazzo meridionale o i suoi favolosi giardini pensili le cui rovine sono state riportate alla luce da Koldevey tra la fine dell’800 e i primi del ‘900. Dall’alto del tetto del palazzo o dei terrazzi dei giardini pensili Nabucodonosor può dominare con lo sguardo tutta la città che si allarga verso est, sud e ovest. Pervaso da smisurato orgoglio, si esalta nell’autoglorificazione: “Non è questa la gran Babilonia che io ho edificata come residenza reale...?” Cento o più anni prima, antivedendo con profetica illuminazione i tempi di Nabucodonosor, Isaia aveva definito Babilonia “lo splendore dei regni, la superba bellezza dei Caldei” (Is 13:19). Gli storici moderni volentieri fanno riferimento a Isaia e a Daniele quando parlano di Babilonia. Dice il Prof. Pettinato: “Adesso, dopo che gli scavi archeologici ci hanno restituito parte dei monumenti fatti edificare da Nabucodonosor e le iscrizioni reali che sottolineano continuamente l’intensa attività di architetto del sovrano di Babilonia, siamo in grado di valutare tutta la portata dell’espres105

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sione del profeta Isaia e possiamo ben immaginare quanto giustificato fosse l’orgoglio del re, che traspare dalle parole messegli in bocca da Daniele”145. La storiografia antica, da Erodoto a Ctesia a Berosso, si è compiaciuta di tramandare ai posteri l’immagine di grandezza e di splendore di questa metropoli orientale con i suoi palazzi superbi, i suoi templi maestosi, le sue vie spaziose, le sue mura possenti. Il vanto che ne trae Nabucodonosor: “... la gran Babilonia che io ho edificata... con la forza della mia potenza...” non è ingiustificato sul piano della realtà storica. Poche cose si potevano vedere in Babilonia che non fossero opera del grande sovrano e si dice che quasi non c’è mattone che affiora dalla sabbia nell’area dell’antica metropoli che non rechi l’impronta di Nabucodonosor. Nondimeno le sue parole trasudano arroganza e vanagloria!146. Nabucodonosor, proseguendo i lavori di restaurazione iniziati da suo padre Nabopolassar, ingrandì Babilonia raddoppiandone le dimensioni, circondò la città di un secondo muro di cinta, l’arricchì di pregevoli opere architettoniche; tuttavia non ne fu il fondatore. L’origine di Babilonia quasi si perde nella notte dei tempi. Per Berosso essa fu il primo dei centri urbani sorti prima del diluvio147, per la Bibbia fu la prima città fondata dopo il diluvio (Ge 11:1-9). “... per la gloria della mia maestà”, fu questo il movente di fondo che spinse Nabucodonosor a realizzare i suoi faraonici progetti edilizi: esaltare, dare lustro alla sua maestà regale. Vari testi di questo sovrano quasi riecheggiano le parole che Daniele mette sulla sua bocca. Uno di essi dice: “Poi edificai il palazzo, sede della mia regalità, legame della razza degli uomini, dimora dell’esultanza e della gioia”148. Un altro testo recita: “In Babilonia, la mia città prediletta, la città che io amo, ha sede il palazzo, la meraviglia dei popoli, il legame del paese, il palazzo splendente, la sede della maestà sul suolo di Babilonia”149. Gli storici greci parlano della grandezza e magnificenza di Babilonia ma non sanno che Nabucodonosor ne fu l’artefice. Questa circostanza è venuta in luce nei tempi moderni a seguito degli scavi archeologici. Di fronte a tale evidenza un critico contemporaneo che pone la composizione di Daniele nel II secolo a.C., il prof. Pfeiffer, ammette onestamente: “Forse non sapremo mai come il nostro autore sia venuto a conoscenza del fatto che la nuova Babilonia fu una creazione di Nabucodonosor come hanno attestato gli scavi”150.

145 - G. PETTINATO, op. cit., p. 99. 146 - Vedi S.D.A. Bible Commentary. vol. IV, p. 793. 147 - G. PETTINATO, op. cit., p. 149. 148 - Cilindro di Grotefend in E. SCHRADE, Keilinschriftliche Bibliotheke, vol. III, parte II, p. 39. 149 - Ibidem, p. 25, da S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 793. 150 - R. H. PFEIFFER, Introduction to the Old Testament, New York, 1941, pp. 758, 759; citato

da S.D.A. Bible Commentary, ibidem, p. 807.

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31 Il re aveva ancora la parola in bocca, quando una voce discese dal cielo: “Sappi, o re Nebucadnetsar, che il tuo regno t’è tolto; 32 e tu

sarai cacciato di fra gli uomini, la tua dimora sarà con le bestie de’ campi; ti sarà data a mangiare dell’erba come ai buoi, e passeranno su di te sette tempi, finché tu non riconosca che l’Altissimo domina sul regno degli uomini e lo dà a chi vuole”. In Dio giustizia e misericordia sono indissolubilmente congiunte (cfr. Es 34:6, 7), onde in ogni circostanza Egli sceglie il momento giusto per intervenire coi suoi giudizi: al peccatore è lasciato tutto il tempo per ravvedersi (cfr. 2Pie 3:9 u.p.). Dio attese centoventi anni prima di mandare il diluvio sulla terra ai giorni di Noè (Ge 6:3) e nel tempo dei Patriarchi sopportò per 430 anni l’iniquità degli Amorrei prima di punirli (Ge 15:13,16). Non si può però sfidare indefinitamente la pazienza di Dio! Viene per tutti il momento della resa dei conti in cui ognuno raccoglie quel che ha seminato (Ga 6:7). Allora non ci saranno più indugi e dilazioni da parte del Giudice celeste. Così avvenne per il re di Babilonia sordo all’appello di Dio: “Il re aveva ancora la parola in bocca” quando in quel medesimo istante quella parola (la sentenza divina) “si adempì su Nebucadnetsar”. “Una voce discese dal cielo...”. In altre circostanze ancora fu dato a dei mortali di udire la voce discendente dal cielo. Al battesimo di Cristo, per esempio (Mt 3:17), o quando per la prima volta dei pagani vollero vedere Gesù (Gv 12:28-30), o ancora nel tempo della prima persecuzione dei cristiani (At 9: 4). La voce che discende dal cielo avverte Nabucodonosor che è giunta per lui l’ora della resa dei conti. La lezione che l’orgoglioso re di Babilonia non ha voluto trarre dal sogno mandatogli dall’Iddio del cielo, dovrà impararla attraverso un’esperienza dura e umiliante. La voce celeste ripete parola per parola quanto Nabucodonosor aveva udito un anno prima dalla bocca di Daniele, non più però come un avvertimento e un appello, bensì come una sentenza irrevocabile che già si attua: “Sappi, o re Nebucadnetsar, che il tuo regno t’è tolto”. Non appartiene più al vanaglorioso monarca quanto egli aveva appena vantato di possedere in virtù della propria forza e potenza! 33 In quel medesimo istante quella parola si adempì su Nebucadnet-

sar. Egli fu cacciato di fra gli uomini, mangiò l’erba come i buoi, e il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, finché il pelo gli crebbe come le penne alle aquile, e le unghie come agli uccelli. La parola, annunciata un anno prima da Daniele, si compie. In un istante la sorte del superbo signore di Babilonia si capovolge: dal sommo della potenza e della gloria terreni egli precipita nell’abisso di un’esistenza miserevole che non ha più niente di umano. La descrizione del tragico evento segue passo passo il quadro profetico che ne aveva tracciato Daniele dodici mesi prima (v. 25), tranne che per un dettaglio omesso (la dimora con le bestie dei campi) ed uno aggiunto (la 107

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crescita del pelo e delle unghie). Bandito dal consorzio umano (non è detto se dai suoi stessi ministri o dall’Iddio del cielo che lo ha punito) Nabucodonosor è segregato fra le bestie selvatiche di cui divide le condizioni di vita: si nutre dell’erba dei campi come loro e a somiglianza di esse rimane esposto alle intemperie. Non avendo più alcuna cura per la sua persona, i capelli, la barba, il pelame del corpo gli crescono incolti “come alle aquile” (la parola “penne” manca nel testo aramaico) e sotto l’azione combinata del sole e dell’umidità si fanno ispidi; le unghie divengono simili agli artigli dei rapaci. L’abbrutimento è completo. L’aspetto è quello di un selvaggio. È certo che Nabucodonosor fu colto da un improvviso attacco di follia (per due volte, nei vv. 34 e 36, si allude a un ricupero della ragione), ma data l’esiguità dei dettagli rilevabili nel testo, è impossibile dire che genere di malattia mentale lo avesse ridotto in uno stato così miserevole. Molti commentatori hanno pensato a una forma di zoomania, una condizione di inanità mentale in cui il malato si crede un animale e come tale si comporta (la fantasia popolare ha dato il nome di “lupi mannari” agli alienati afflitti da una forma particolare di zoomania, la licantropia, che spinge il malato a imitare il comportamento dei lupi151. Un caso di zoomania sembra essere attestato nella letteratura antica. Un testo non pubblicato del British Museum fa menzione di un uomo che mangiava l’erba come un bue152. Uno psichiatra contemporaneo, il dottor Bless, cita la malattia di Nabucodonosor come caso tipico di psicosi maniaco-depressiva153. Sull’autenticità dell’episodio sono stati espressi forti dubbi, dato che manca qualsiasi riferimento esplicito a un incidente del genere nei testi babilonesi che ci sono noti. Per quanto l’annalistica babilonese fosse meno adulatoria e più obiettiva di quella assira, sembra ovvio che gli scribi di corte si guardassero bene dal tramandare ai posteri un fatto che avrebbe gettato un’ombra sulla figura di un grande monarca come Nabucodonosor. Comunque, sia nella storiografia greca che nell’annalistica babilonese, si colgono allusioni a qualche avvenimento insolito e anomalo che ebbe per protagonista Nabucodonosor o che si produsse alla corte di Babilonia durante il suo regno. Il prof. Rinaldi riporta una notizia riguardante Nabucodonosor riferita dallo storico greco MEGASTENE (IV secolo a.C.) e raccolta da ABIDENO, altro storico greco (III secolo a.C.), a sua volta citato da EUSEBIO in Praeparatio Evangelica, 9, 41, 6. Secondo questa informazione Nabucodonosor “salì sulla reggia e, preso all’improvviso da ispirazione divina, pronunziò questo vaticinio (...). Dette queste parole - conclude lo storico antico - all’improvviso (Nabucodonosor) scomparve dalla vista degli uomini”154

151 - Per un ulteriore approfondimento di questa problematica vedi J. DOUKHAN, Le soupir de la terre, Dammarie-les-Lys, Francia, 1993, pp. 94-96. 152 - F.M. Th. de Liagre Böhl, Opera Minora (1953), p. 527, citato dal S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 792. 153 - H. BLESS, Manuale di Psichiatria Pastorale, Torino, 1952, p. 128. 154 - G. RINALDI, Daniele, nota XI, p. 165.

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Nel 1975 l’assiriologo A. K.GRAYSON pubblicò un testo cuneiforme frammentario che si trova nel British Museum (BM 34113) nel quale sono nominati Nabucodonosor e suo figlio Amel-Marduk. Ecco la traduzione italiana effettuata dal prof. Pettinato155: Nabucodonosor ponderava... la sua vita non era di alcun valore per lui... e Babilonia [...] Ad Amel-Marduk egli dice ciò che non...; egli allora dà ordine differente, ma... questi non presta attenzione alle sue disposizioni; un cortigiano... Egli cambiò ma non oppose resistenza davanti... Sulle sorti dell’Esagila e di Babilonia e di... centri di culto dei grandi dèi essi riflettono. Egli non aveva nessun piano per il figlio o figlia, per lui non esisteva né famiglia né clan... nel suo cuore per ogni cosa che fosse abbondan[te...]. La sua attenzione non era rivolta alla promozione dell’Esagila [e Babilonia]. Con le orecchie arricciate egli entrò attraverso la Porta Santa... egli rivolse la sua preghiera al signore degli dèi, alzando la mano [supplice]. Egli piange amaramente davanti al suo dio, ai grandi dèi. Le sue preghiere si innalzano... Fin qui il testo babilonese. L’interpretazione non è facile dato lo stato frammentario dello stesso. Da esso comunque appare abbastanza chiaro questo: che la persona della quale si parla (Nabucodonosor o Amel-Marduk) (1) reputa priva di valore la propria vita, (2) dà ordini contraddittori, (3) non ha progetti per i figli e trascura la famiglia, (4) non si cura dell’Esagila, l’area sacra che circonda la torre templare Etemenanki e il grande tempio di Marduk, (5) piange amaramente davanti al suo dio. Sono comportamenti del tutto anomali riconducibili o a uno stato di insanità mentale o a incapacità di governo. Alcuni156 riferiscono a Nabucodonosor questi strani comportamenti e li collegano con l’episodio narrato in Dn 4, Pettinato li rapporta ad Amel-Marduk, il biblico Evil-Merodac (2Re 25: 27; Gr 52: 31). Diversi autori moderni hanno supposto che l’estensore del racconto danielico abbia confuso Nabucodonosor con Nabonide, l’ultimo re di Babilonia, di cui un testo dice che trascorse sette anni nell’Arabia per curarsi di una malattia cutanea; ma le differenze sostanziali tra i due fatti tolgono credibilità a questa ipotesi157. Inquadrare cronologicamente l’episodio narrato da Daniele non è agevole, mancando nel testo riferimenti precisi a questo riguardo. Tuttavia dalle parole di autocompiacimento di Nabucodonosor: “Non è questa la gran Babilonia che io ho edificata...?” si può dedurre che all’epoca i grandiosi lavori di ampliamento e abbellimento della città fossero compiuti o quasi, onde l’episodio può essere

155 - G. PETTINATO, op. cit., p. 179. 156 - Vedi G. HASEL, in Daniel, questions débattues, p. 30. 157 - Per più ampi ragguagli in merito vedi G.HASEL, “Quelques éléments d’ordre historique

dans le livre de Daniel” in Daniel, questions débattues, pp. 28-29.

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ascritto agli ultimi anni di regno del grande monarca. Ci si è domandati come mai Nabucodonosor, che certo deve avere avuto i suoi nemici, non fosse stato soppresso durante la follia. Nell’antichità non furono rare le congiure di corte. Nella stessa Babilonia, e nel periodo storico a cui stiamo facendo riferimento, due regnanti perirono di morte violenta per mano dei congiurati: Evil-Merodac, figlio e successore di Nabucodonosor, e LabashiMarduk, figlio e successore del capo della congiura che soppresse Evil-Merodac. Il fatto è che nell’antichità gli alienati mentali erano creduti posseduti da spiriti cattivi, per cui ci si guardava bene dal mettere loro le mani addosso, credendosi che gli spiriti cattivi prendessero possesso dei loro assassini. Con uno stratagemma fondato su queste credenze Davide salvò la vita quando tra i Filistei fu riconosciuto come il loro grande nemico (1Sm 21:10-15)158. 34 “Alla fine di que’ giorni, io, Nebucadnetsar, alzai gli occhi al cielo,

la ragione mi tornò, e benedissi l’Altissimo, e lodai e glorificai colui che vive in eterno, il cui dominio è un dominio perpetuo, e il cui regno dura di generazione in generazione. 35 Tutti gli abitanti della terra sono da lui reputati un nulla; egli agisce come vuole con l’esercito del cielo e con gli abitanti della terra; e non v’è alcuno che possa fermare la sua mano o dirgli: - Che fai? Lo stile cambia ancora una volta, verbi e pronomi tornano alla prima persona: “ io, Nabucodonosor, alzai gli occhi al cielo...” Su questa particolarità stilistica si è già discusso. “Alla fine di quei giorni”, cioè allo scadere dei “sette tempi” mentovati nei vv. 16, 25 e 32. Come si è visto i pareri sul valore dell’espressione “sette tempi” non sono unanimi: sette anni, sette stagioni oppure, attribuendosi senso metaforico al numero sette (perfezione, compiutezza), tutto il tempo necessario perché Nabucodonosor riconoscesse che “l’Altissimo domina sul regno degli uomini e lo dà a chi vuole”. Il S.D.A. Bible Commentary propende per la prima ipotesi, questo commentario per la terza. Ad ogni modo non è la durata del castigo inflitto al re di Babilonia il dato che conta, ma la motivazione di quel castigo. Può essere interessante citare il lavoro recente di un autore svedese, CARL JONSSON, il quale ha raccolto tutti i riferimenti alle attività militari e civili di Nabucodonosor durante il suo lungo regno e i relativi dati cronologici che sono documentati nei testi babilonesi, nella Bibbia e in qualche storiografo posteriore. Il quadro che ne è risultato mostra due sole lacune, fra il 33° e il 37° e fra il 37° e il 43° anno di regno159. Uno di quei vuoti potrebbe essere messo in relazione con la demenza di Nabucodonosor a cui allude Daniele. Nabucodonosor ricupera il senno quando alza lo guardo al cielo. Qualche autore ha creduto di dovere ribaltare l’ordine dei due eventi: prima il re deve es-

158 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 792.. 159 - Vedi C. JONSSON, I tempi dei Gentili, Roma 1989, p. 207.

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sere tornato in sé, poi deve avere rivolto il pensiero all’Altissimo che ha umiliato la sua alterigia. Ma non era necessario ricorrere a questa inversione delle frasi per avere una successione logica dei fatti. Un barlume di lucidità sufficiente a far prendere coscienza a Nabucodonosor del suo stato miserevole e a far nascere in lui il bisogno di supplicare quel Dio del cielo che lo ha umiliato, può avere preceduto il ritorno pieno della ragione. Risulta comunque abbastanza chiaro che il riconoscimento della sovranità eterna dell’Altissimo da parte del re viene dopo il ricupero delle facoltà psichiche. A tale riconoscimento fa seguito l’esaltazione e la glorificazione, con accenti lirici, di “Colui che vive in eterno, il cui dominio è un dominio perpetuo”. A sue spese e attraverso un’esperienza durissima, giova ribadirlo, Nabucodonosor ha dovuto imparare una lezione che avrebbe potuto e non ha voluto acquisire pacificamente nello stato della prosperità. “Tutti gli abitanti della terra sono da lui reputati come un nulla...”: non significa che Dio non abbia alcuna considerazione per gli esseri umani, vuol dire semplicemente che di fronte alla sua infinita grandezza gli uomini appaiono insignificanti. “Egli agisce come vuole con l’esercito del cielo e con gli abitanti della terra...”, ciò che equivale a dire che non v’è alcuna creatura né in cielo né in terra che possa frustrare i suoi disegni. Il riconoscimento della supremazia dell’Altissimo è totale e incondizionato. 36 In quel tempo la ragione mi tornò; la gloria del mio regno, la mia maestà, il mio splendore mi furono restituiti; i miei consiglieri e i miei grandi mi cercarono, e io fui ristabilito nel mio regno, e la mia grandezza fu accresciuta più che mai.

Col ricupero delle facoltà psichiche, Nabucodonosor rientra in possesso del suo fasto (“la gloria del mio regno”), della dignità regale (“la mia maestà”) e del suo lustro (“il mio splendore”), ma non per sua virtù personale (“mi furono restituiti”: il re ha imparato la lezione). “In quel tempo la ragione mi tornò”. Con la ripetizione di questa osservazione viene a stabilirsi un nesso con ciò che è detto nel v. 34 dopo la stessa frase. Dunque la dignità regale e la grandezza sono stati restituiti a Nabucodonosor perché egli si è umiliato davanti all’Iddio del cielo e ne ha riconosciuto il potere illimitato e imperituro. Durante la vacanza del trono il governo di Babilonia è stato retto verosimilmente da un consiglio di reggenza. In questo periodo tuttavia il re non deve essere stato abbandonato a se stesso; i suoi ministri debbono averlo seguito sia pure a distanza, nell’attesa che egli tornasse alla vita normale (Daniele aveva predetto che quella triste condizione sarebbe durata per un tempo determinato). Adesso che il sovrano è tornato in sé, gli ufficiali che compongono il suo consiglio privato (“i miei consiglieri”) e gli alti funzionari dello stato (“i miei grandi”) lo avvicinano, lo riconducono nel palazzo e lo reintegrano nei suoi pieni poteri sovrani (“fui ristabilito nel mio regno”). 111

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Come a Giobbe (42: 10) accade a Nabucodonosor, per essersi umiliato e avere esaltato l’Iddio del cielo, di ricevere in misura maggiore quanto gli era stato tolto (“la mia grandezza fu accresciuta più che mai”). 37 Ora, io, Nebucadnetsar, lodo, esalto e glorifico il Re del cielo, per-

ché tutte le sue opere sono, verità, e le sue vie, giustizia, ed egli ha il potere di umiliare quelli che camminano superbamente. Il lungo proclama di Nabucodonosor si chiude con un inno di lode al “Re del cielo” del quale lui, il re di Babilonia, riconosce la giustizia nell’avere umiliato il suo orgoglio: “tutte le sue opere sono verità, e le sue vie, giustizia” (è più forte che dire: “sono veraci, e sono giuste”). Chiamando l’Iddio Altissimo “Re del cielo”, Nabucodonosor ammette che c’è nel cielo un Re che lo sovrasta e al quale deve rendere conto delle sue azioni di governo. “Egli ha il potere di umiliare quelli che camminano superbamente”: Nabucodonosor lo ha sperimentato sulla propria pelle!

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Capitolo 5 ____________________________

I

l re Belsazar ha offerto nel palazzo di Babilonia un fastoso ricevimento ai grandi dignitari del regno. Quando lui e i suoi ospiti, eccitati dal vino, inneggiano rumorosamente agli dèi e accostano alle labbra i sacri vasi del tempio giudaita che sono stati portati per ordine di Belsazar, una mano senza braccio e senza corpo compare sulla parete di fondo della grande sala e muovendosi da destra a sinistra traccia alcuni segni incomprensibili con uno stilo che stringe fra le dita. Poi svanisce, ma i segni rimangono. I sapienti di corte, convocati immediatamente, non sanno decifrare la scritta che spicca sull’intonaco bianco, e la costernazione fra i partecipanti al banchetto aumenta. Su istanza della regina madre viene convocato Daniele. Il vecchio profeta rifiuta il ricco compenso promesso dal re e, non senza stigmatizzare l’atto sacrilego che è stato appena consumato, decifra la scritta e ne interpreta il significato. È una sentenza dell’Iddio Altissimo contro Belsazar che ha osato sfidarlo col profanare i simboli della sua santità. Il potere regale sarà tolto a Belsazar e passerà nelle mani di dominatori stranieri. Quella stessa notte Belsazar muore di morte violenta e Babilonia cade sotto la sovranità dei Medi e dei Persiani.

1 Il re Belsatsar fece un gran convito a mille dei suoi grandi; e bevve del vino in presenza dei mille.

Il grande Nabucodonosor è scomparso da 23 anni e quattro successori hanno occupato l’uno dopo l’altro il trono di Babilonia. Sono: Amel-Marduk (il biblico Evil-Merodac), figlio di Nabucodonosor; Nergal-sar-usur (Neriglissar per i Greci), usurpatore; Labashi-Marduk (il Labosordach dei Greci), figlio di Neriglissar, e Nabu-naid (Nabonide), usurpatore anche lui. Nabonide porta il titolo di re di Babilonia da 17 anni, quando accadono i fatti narrati in questo capitolo del libro di Daniele (Belsazar è ignorato dalle liste reali e dai testi amministrativi come re di Babilonia). Fino al 1861, anzi, il nome di questo personaggio fu sconosciuto sia alle fonti greche che a quelle babilonesi note. Questo silenzio delle fonti antiche su Belsazar offriva un forte argomento per screditare il libro di Daniele. Nel 1861 H. F.TALBOT pubblicò i testi di alcuni cilindri di terracotta rinvenuti sette anni prima da J. E.TAYLOR presso la torre templare di Ur. Uno di quei testi era una preghiera che il re Nabonide aveva rivolto al dio Sin in occasione del re113

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stauro della ziqqurat. In quella preghiera per la prima volta compariva il nome di Belsazar. Le righe 24-28 del testo recitano: ... e quanto a Bel-sar-usur (Belsazar), il figlio primogenito, il rampollo del mio cuore, il timore della tua grande divinità nel suo cuore fa esistere!160. Il nome di Belsazar era dunque documentato per la prima volta in una fonte babilonese contemporanea, non solo, ma in essa questo personaggio compariva come figlio primogenito di Nabonide! Altri documenti venuti in luce nei decenni seguenti attestarono ancora il nome di Belsazar. Con ciò perdeva consistenza uno degli argomenti della critica contro l’attendibilità storica dei racconti di Daniele. Rimaneva tuttavia un problema, ed era che nella storiografia babilonese e greca (Berosso, Erodoto, Abideno), così come nelle liste reali, nelle cronache e nei testi amministrativi babilonesi, compariva sempre e soltanto Nabonide come ultimo re di Babilonia. In nessun caso il titolo di “re” era riferito a Belsazar nei testi cuneiformi che lo menzionavano. Nel 1944 fu pubblicata a Londra una versione più corretta di un testo babilonese già reso noto vari decenni prima da S. TAYLOR. Il testo suddetto, conservato nel British Museum (BM 38, 299), è conosciuto come il “Racconto in versi di Nabonide”. A un certo punto questo documento storico riferisce che il re Nabonide, partendo per l’Arabia, affidò il governo di Babilonia al figlio primogenito. Ma lasciamo parlare il documento: Egli [Nabonide] affidò il “Campo” al [figlio] più anziano, il primogenito, le truppe in [tutto] il paese pose sotto il suo [comando] Si [disinteressò] di tutto, conferì la regalità (sharrûtim) a lui ed egli stesso partì per un lungo viaggio ........ si diresse verso Tema [lontano] nell’occidente161. In uno dei testi delle stele di Harran pubblicato nel 1958, Nabonide stesso conferma questa notizia: Io mi recai molto lontano dalla mia città di Babilonia in direzione di tema... Per dieci anni io mi trattenni in mezzo a loro e non feci ritorno nella mia città di Babilonia162. Un altro documento contemporaneo, la cosiddetta “Cronaca di Nabonide” pub-

160 - Riportato da G. RINALDI, in op. cit., nota XI, f, p. 165. 161 - ANET, p. 313 162 - G. PETTINATO, op. cit., p. 231.

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blicata la prima volta da F. G. PINCHES nel 1882 e in seguito da SIDNEY TAYLOR nel 1924, riferisce che la festa dell’Anno nuovo non fu celebrata a partire dall’anno settimo di Nabonide perché questi non tornò più a Babilonia da Tema163. Dai documenti citati si evince: che nell’anno settimo del suo regno Nabonide partì per Tema, lontano da Babilonia, ● che prima di partire conferì la regalità al figlio primogenito, il quale da uno dei testi dei cilindri di Ur pubblicati da H. F.TALBOT nel 1861 sappiamo essere Bel-sar-usur (Belsazar), ● che a Tema rimase ininterrottamente per 10 anni. ●

Chi può avere gestito il potere in Babilonia durante questo decennio di vacanza del trono se non Belsazar a cui Nabonide aveva conferito la regalità? Altre circostanze attestate dai documenti confermano che in quel tempo Belsazar, sebbene non gli fosse mai stato attribuito ufficialmente il titolo di “re”, esercitò di fatto l’autorità regia. È significativo che i nomi di Nabonide e Belsazar compaiano affiancati nelle formule di giuramento e nei testi di fondazione164 “Il potere regale di Belsazar - sottolinea il prof. E. J. YOUNG - è ancora attestato dalla facoltà che egli aveva di concedere affitti, di emanare ordini, di eseguire un atto amministrativo riguardante il tempio di Erech”165. Dunque, pur se nei documenti ufficiali Nabonide figura come re di Babilonia sino alla caduta della città nel 539 a.C., sta di fatto che chi tenne le redini del governo negli ultimi 10 anni fu suo figlio Belsazar. Niente di strano che Daniele, il quale segue gli sviluppi politici dall’interno della città, gli attribuisca il titolo di “re”. Poiché Daniele in 5:30 chiama Belsazar “re dei Caldei”, è possibile che costui governasse la Caldea, che era il centro e il cuore dell’impero, e che suo padre Nabonide regnasse su tutto l’impero da Tema divenuta quasi una seconda capitale. Gli storiografi antichi, da Erodoto a Berosso a Senofonte a Ctesia... hanno totalmente ignorato che un reggente di nome Belsazar esercitasse le prerogative della regalità in Babilonia fino alla caduta della città. Ciò ha fatto dire a uno studioso liberale, il prof. R. H. PFEIFFER: “Probabilmente non sapremo mai come il nostro autore (l’autore di Daniele)... fosse venuto a conoscenza del fatto che Belsazar, ricordato soltanto nelle fonti babilonesi, in Daniele e in Baruc 1:1, peraltro dipendente da Daniele, esercitasse funzioni regali quando Ciro conquistò Babilonia”166.

163 - ANET, p. 306. 164 - Vedi A. J. FERCH, Daniel on Solid Ground, Washington D.C., 1988, p. 39. 165 - E. J. YOUNG, The Prophecy of Daniel: A Commentary, cit. da G. H. HASEL in Symposium on

Daniel, p. 100. 166 - R. H. PFEIFFER, Introduction to the Old Testament, pp. 758, 759, cit. da S.D.A. Bible Commentary, ivi. p. 807.

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Il numero degli ospiti di Belsazar non è affatto iperbolico come può sembrare, se si pensa che i monarchi di allora avevano il gusto delle riunioni conviviali oceaniche. Una stele trovata a Nimrud, nell’antica Assiria, riferisce che il re Assurnasirpal II offrì cibo, vino e alloggio per 10 giorni a una folla di 69.574 persone in occasione dell’inaugurazione di un nuovo palazzo, e lo storico greco Ctesia dice che i re di Persia nutrivano ogni giorno 15.000 persone e che al banchetto di nozze di Alessandro il Grande presero parte 10.000 ospiti. Di fronte a queste cifre i 1.000 ospiti di Belsazar appaiono davvero un numero modesto! Di uno sfarzoso banchetto regale alla corte persiana abbiamo notizie in Et 1:3-7. 2 Belsatsar, mentre stava assaporando il vino, ordinò che si recas-

sero i vasi d’oro e d’argento che Nebucadnetsar suo padre aveva portati via dal tempio di Gerusalemme, perché il re, i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine se ne servissero per bere. IBabilonesi, come gli Assiri (cfr. Nahum 1:10), erano noti per essere forti bevitori. Peraltro nei banchetti delle corti orientali il vino era servito con regale munificenza (cfr. Et 1:7). Non fa dunque meraviglia che il re Belsazar e i suoi ospiti bevano abbondantemente durante il banchetto. Questo è precisamente il senso della frase aramaica tradotta da LUZZI “mentre stava assaporando il vino”. LEUPOLD la rende: “quando cominciava a gustare il vino”, ovvero quando Belsazar ne aveva bevuto abbastanza per cominciare ad apprezzarne il gusto. Più esplicitamente la Versione della C.E.I. traduce: “Quando Beltassar ebbe molto bevuto”, e RINALDI: “Un po’ brillo per il vino, Baldassarre ecc...” Con la mente annebbiata dal vino, dunque, Belsazar decide di compiere un gesto d’inaudita provocazione verso l’Iddio d’Israele: comandò che siano portati nella sala i sacri vasi del tempio di Yahweh, trasferiti molti anni prima da Gerusalemme a Babilonia, per profanarli. Accadeva spesso nell’antichità che nelle città espugnate durante le guerre rimanessero distrutti anche i templi, ma i simulacri delle divinità erano generalmente rispettati. Così si era comportato Nabucodonosor, “padre” di Belsazar, quando aveva parzialmente spogliato il tempio di Gerusalemme una prima volta nel 605 a.C. (Dn 1:2), una seconda volta nel 598 (2Cr 36:7) e una terza nel 587 (2Cr 36:18) prima di distruggere il sacro edificio. Il gran re aveva trattato con riguardo i sacri utensili riponendoli in un santuario di Babilonia (Dn 1:2). Secondo l’inventario riportato in Ed 1:10, 11 erano custoditi in Babilonia 5.400 utensili vari d’oro e d’argento già appartenuti al tempio gerosolimitano, fra i quali figuravano 440 calici. Quei calici mai sfiorati da labbra impure Belsazar ha deciso di profanare. “Il bere nei vasi consacrati a una divinità straniera - osserva G.RINALDI - ... ha un significato particolare sullo sfondo cortigianesco come affermazione di dominio”167.

167 - Op. cit., p. 87.

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Al banchetto prendono parte anche le donne dell’harem reale, non si precisa dall’inizio o dal momento della libagione (sembra più probabile questa seconda evenienza: cfr. Et 1:3, 9). Il riferimento a Nabucodonosor come “padre” di Belsazar è stato uno degli argomenti utilizzati contro Daniele. È notorio, infatti, che Nabonide e non Nabucodonosor fu il padre di Belsazar. Si consideri però che nell’ambiente semitico “padre” aveva altri significati secondari oltre a quello principale di “genitore”. Nell’Antico Testamento “padre” significa in certi casi capostipite (vedi Ge 36:43; De 26:5), in altri antenato (I Re 2:10; Lamentazioni 5:7); qualche volta è un appellativo riverenziale (cfr. Gc 17:20, II Re 2:12). Nulla obbliga a prendere nel senso primitivo di “genitore” l’aramaico ’av in Dn 5:2. Fra le varie traduzioni possibili del termine in questo passo segnaliamo le seguenti: Avo. Nabonide può essere stato genero di Nabucodonosor per averne sposato una figlia. In questo caso il grande sovrano sarebbe stato nonno di Belsazar dalla parte della madre. Oppure: Nabucodonosor può essere stato considerato padre di Nabonide (quindi nonno di Belsazar) in quanto la madre dell’uno e nonna dell’altro avrebbe fatto parte dell’harem del re di Babilonia. ● Successore. Nabucodonosor può essere stato chiamato padre di Belsazar per il fatto che quest’ultimo si è seduto sul suo trono. L’uso del termine “figlio” col significato di successore è documentato in un testo assiro come si vedrà più avanti. ●

Dalle fonti cuneiformi si sa che Nabonide era figlio di un principe di Haran di nome Nabû-balazû-iqbi e di una sacerdotessa del tempio di Sin nella stessa città. Vari indizi fanno pensare che quando Haran fu presa dai Medi e dai Babilonesi nel 610 a.C. la madre di Nabonide, Adda-guppi, fu portata in Babilonia come prigioniera di riguardo e introdotta nell’harem reale. Nabonide, allora fanciullo, sarebbe cresciuto alla corte di Nabucodonosor. Questo personaggio viene generalmente identificato con quel Labynetus che secondo ERODOTO (1, 74) svolse il ruolo di intermediario nella guerra fra Lidi e Persiani nel 585 a.C. L’essere stato prescelto per un incarico diplomatico cosi rilevante denota che il giovane Nabonide alla corte di Babilonia dovette godere del favore particolare del re. È probabile che la moglie di lui - quella Notocris che ERODOTO (I, 185, 188) descrive come donna scaltra e avveduta - fosse figlia di Nabucodonosor, come ha proposto R. P.DAUGHERTY168. In questo caso, come già rilevato, Belsazar sarebbe stato nipote di Nabucodonosor attraverso la linea materna.

168 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 807.

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3 Allora furono recati i vasi d’oro ch’erano stati portati via dal tempio, dalla casa di Dio, ch’era in Gerusalemme; e il re, i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine se ne servirono per bere. 4 Bevvero del vino e lodarono gli dèi d’oro, d’argento, di rame, di ferro, di legno e di pietra.

L’ordine del re è eseguito con prontezza. Nella sala del palazzo, dove si sta svolgendo un’orgia pagana, vengono portati i calici d’oro e d’argento (v. 2) che erano stati portati via dal tempio di Gerusalemme, “dalla casa di Dio”, ()fhl f ) E ty"b-yiD di-veth ’elaha’) aggiunge Daniele come volendo sottolineare la gravità del sacrilegio perpetrato da Belsazar. Quei vasi consacrati al culto di Jahvé che nessuno aveva più rimossi dal luogo dove rispettosamente li aveva custoditi Nabucodonosor, quei vasi mai prima d’ora profanati, adesso vengono usati come volgari vasi da tavola per una chiassosa libagione. E come se fosse poco, mentre si beve si esaltano in dispregio dell’Iddio immateriale che domina dall’alto del cielo gli dèi terreni e materiali che non vedono, non odono e non parlano. È difficile immaginare una sfida più audace ! “È curioso - osserva J.DOUKHAN - che siano menzionati gli stessi metalli che formavano la statua vista in sogno da Nabucodonosor, e siano menzionati nello stesso ordine, come se il banchetto offerto da Belsazar avesse indirettamente di mira il sogno del suo avo con l’intenzione di contraddirlo”169. 5 In quel momento apparvero delle dita d’una mano d’uomo, che si

misero a scrivere di faccia al candelabro, sull’intonaco della parete del palazzo reale. E il re vide quel mozzicone di mano che scriveva. “In quel momento...” La risposta dell’Iddio offeso alla sfida dell’incauto Belsazar non si fa attendere. È una risposta enigmatica, indecifrabile e perciò tanto più inquietante. Quelle dita senza mano, senza braccio, senza corpo che compaiono tutt’a un tratto alla luce incerta del grande candelabro, quei segni incomprensibili che esse tracciano sulla parete prima di scomparire, debbono essere parsi subito a Belsazar, che per primo se ne avvede (“il re vide quel mozzicone di mano...”) come un presagio nefasto, chissà, forse come la risposta severa del Dio che egli ha appena oltraggiato. È menzionato il “palazzo reale”. All’inizio del secolo, Robert KOLDEWEY riportò alla luce nella parte settentrionale dell’area dell’antica Babilonia le rovine di un vasto complesso edilizio che l’archeologo interpretò correttamente come il palazzo reale. Una sala lunga 52 metri e larga 17, che KOLDEWEY chiamò “la sala del trono”, si affacciava su un ampio cortile al centro della grande struttura. Sulla parete di fronte alla porta d’ingresso c’era una nicchia dove molto verosimil169 - J. DOUKHAN, op. cit., p. 106.

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mente si trovava il trono sul quale prendeva posto il re nelle feste e le cerimonie ufficiali. Gli scavatori tedeschi notarono anche tracce di stucco bianco su un tratto di muro170. Con tutta probabilità, fu quella la sala del palazzo reale di Babilonia dove si svolse il sontuoso ricevimento descritto in questo capitolo del libro di Daniele. 6 Allora il re mutò di colore, e i suoi pensieri lo spaventarono; le

giunture de’ suoi fianchi si rilassarono, e i suoi ginocchi cominciarono ad urtarsi l’uno contro l’altro. 7 Il re gridò forte che si facessero entrare gl’incantatori, i Caldei e gli astrologi; e il re prese a dire ai savi di Babilonia: “Chiunque leggerà questo scritto e me ne darà l’interpretazione sarà rivestito di porpora, avrà al collo una collana d’oro, e sarà terzo nel governo del regno”. Sono descritti con grande realismo i segni esteriori di un violento shock emotivo che ha colto il re Belsazar alla vista di quelle dita-fantasma e di quello scritto pieno di mistero che esse hanno lasciato sulla parete: il volto si scolora, le membra si accasciano, gli arti inferiori sono scossi da un tremito convulso. Quello che Belsazar ha visto ha fatto nascere nella sua mente pensieri angoscianti (“i suoi pensieri lo spaventarono...”). “Che spettacolo pietoso - commenta LEUPOLD - questo re che pochi istanti prima aveva avuto l’ardire di sfidare l’Onnipotente!”171. La gran paura ha fatto perdere a Belsazar il controllo dei nervi. In condizioni normali egli avrebbe semplicemente dato ordine di convocare i sapienti (cfr. 2:2 e 4:6). Invece grida con forza, come in preda a un forte turbamento emotivo. Il re nomina tre categorie di esperti della divinazione: gli incantatori, i caldei e gli astrologi (vedi commento a 2:2) nel seguito indicati sempre collettivamente come “i savi di Babilonia”. Belsazar promette a chi scioglierà l’enigma: (1) la porpora ()ænwæ G: r : ) a ’argewana’), il colore che contraddistingue la regalità o una posizione prossima alla dignità regale (cfr. Ether 8:15); (2) la collana d’oro ()fkyénm : h a hamnîka’), ancora un’insegna della regalità o di un incarico di alta responsabilità (cfr. Ge 41:42); (3) la posizione di terzo ((yiTl : t a taltî‘ ) nel governo del regno. Si è obiettato che “terzo” si dice in aramaico telîthî e che taltî‘ doveva piuttosto designare un titolo onorifico. Sta di fatto che quasi tutti i traduttori di Daniele hanno reso “terzo” l’aramaico talti (qualcuno ha preferito traslitterare pari pari la parola aramaica: “sarà talti”). W.GESENIUS nel suo Lessico ebraico e aramaico dell’Antico Testamento dà come significato di taltî‘ “terzo” e spiega che talîthî è una forma più comune. Prima che fossero noti dalle fonti cuneiformi il ruolo vero di Belsazar nel governo del regno e il suo grado di parentela con Nabonide, ritenendosi che

170 - Vedi A. PARROT, Babilonia e l’Antico Testamento, pp. 6, 27; G.RINALDI, op. cit., p. 88. 171 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 88.

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Belsazar stesso fosse la prima autorità di Babilonia, si poteva solo ipotizzare l’identità della seconda presupposta dalla nomina a terza promessa a chi avesse letto e interpretato lo scritto. Le congetture andavano dalla madre alla moglie al figlio di Belsazar. Oggi, conoscendosi con precisione il ruolo politico di Belsazar quale correggente col padre Nabonide, non ci sono dubbi che era lui, Belsazar, la seconda autorità nel governo del regno, per cui egli non poteva conferire altro grado di autorità che il terzo172. Vari espositori hanno supposto che Nabonide pensasse a un governo a tre, o triumvirato, ma la tesi precedente ci sembra preferibile; essa è condivisa fra altri da DOUGHERTY, uno specialista nell’ambito degli studi danielici. 8 Allora entrarono tutti i savi del re; ma non poteron leggere lo scritto, né darne al re l’interpretazione. 9 Allora il re Belsatsar fu preso da grande spavento, mutò di colore, e i suoi grandi furono costernati.

La presenza dei professionisti della divinazione nella sala del convito sembra essere presupposta già nel verso precedente ove si dice che il re, dopo avere gridato forte che si facessero entrare “gli incantatori, i caldei e gli astrologi” “prese a dire ai savi ecc...” Ma secondo il v. 8 costoro entrano nella sala dopo che il re ha fatto “ai savi di Babilonia” (v. 7) la promessa di ambite onorificenze se qualcuno di loro avesse risolto l’enigma. Una incongruenza? Solo in apparenza se si ammette che nel v. 7 Belsazar si rivolgesse ad alcuni sapienti già presenti fra gli ospiti173. L’entrata successiva di “tutti i savi del re” sembra corroborare questa tesi. Dunque per la terza volta entrano in scena gli specialisti babilonesi dell’arte divinatoria (cfr. 2:2 e 4:6, 7) e per la terza volta si deve prendere atto di un loro completo fallimento: non ce n’è uno che riesca a decifrare lo scritto consegnato all’intonaco della parete dalla mano-fantasma. Il silenzio degli indovini delude le aspettative di Belsazar e ne accresce lo sgomento che traspare nel pallore del volto; una grande costernazione si diffonde tra i suoi mille ospiti. Sul perché gli indovini non riuscissero a decifrare lo scritto si può solo fare congetture dato il silenzio del testo. Le tre parole erano sicuramente aramaiche (vedi commento al v. 25) e poiché il caldaico era molto affine all’aramaico, non doveva essere difficile per i sapienti leggere quelle parole. Si è pensato che esse fossero scritte con gli antichi caratteri ebraici sconosciuti in Babilonia, un’ipotesi che sembra verosimile, ma che il S.D.A. Bible Commentary scarta ritenendo poco probabile che gli uomini colti di Babilonia non conoscessero l’antica scrittura ebraica usata dai Fenici e da altri popoli dell’Asia occidentale oltre che dagli Ebrei. Il commentario avventista pensa piuttosto che le tre parole formassero una sorta di criptogramma per cui anche leggendole sarebbe stato impossibile

172 - S.D.A. Bible Commentary, ivi, p. 803. 173 - Ibidem.

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coglierne il messaggio celato in una loro sconosciuta combinazione. La comprensione di questo messaggio sarebbe stata possibile solo per illuminazione divina. Sembra l‘ipotesi più plausibile. 10 La regina, com’ebbe udito le parole del re e dei suoi grandi, entrò nella sala del convito. La regina prese a dire: “O re, possa tu vivere in perpetuo! I tuoi pensieri non ti spaventino, e non mutar di colore! 11 C’è un uomo nel tuo regno, in cui è lo spirito degli dèi santi; e al tempo di tuo padre si trovò in lui una luce, un intelletto e una sapienza, pari alla sapienza degli dèi; e il re Nebucadnetsar tuo padre, il padre tuo, o re, lo stabilì capo dei magi, degli incantatori, de’ Caldei e degli astrologi, 12 perché in lui, in questo Daniele, a cui il re avea posto nome Beltsatsar, fu trovato uno spirito straordinario, conoscenza, intelletto, facoltà d’interpretare i sogni, di spiegare enigmi, e di risolvere questioni difficili. Si chiami dunque Daniele ed egli darà l’interpretazione”.

La “regina” ()ftK: l : m a malketha’) non ha preso parte al banchetto giacché entra nella sala dopo avere udito “le parole del re e dei suoi grandi”. Quelle parole o le sono state riferite da qualcuno - possibilmente da qualche inserviente uscito dalla sala - o le ha udite da una sala attigua (ipotesi meno probabile). Sull’identità di questa figura femminile si possono fare solo congetture perché il testo non precisa niente di più oltre al suo rango. La congettura meno probabile è che fosse la moglie di Belsazar (la moglie di primo rango evidentemente), giacché vigeva nelle antiche corti il divieto rigoroso imposto alla moglie del re, come a chiunque altro tranne che alla madre, di presentarsi davanti al sovrano senza esserne stata convocata (cfr. Ether 4:11,16). Non si può neanche identificare questa “regina” con la nonna di Belsazar, Addaguppi, perché questa era deceduta 8 anni prima. Resta la possibilità che si trattasse della madre di Belsazar. In effetti la regina-madre era oggetto di grande deferenza in tutte le corti dell’Oriente antico (nelle Scritture ebraiche ciò è reso evidente dalla citazione della regina-madre nei passi in cui si ricorda l’inizio del regno dei re giudaiti: vedi per es. 1Re 14:21; 15:2; 22:42 ecc...). Le fonti cuneiformi attestano l’elevato prestigio della regina-madre nell’ambiente mesopotamico. Si conoscono lettere di regnanti alla madre dal tono altamente deferente174. Una stele della già ricordata Adda-guppi informa che alla morte di questo notevole personaggio femminile l’anno nono del regno di suo figlio Nabonide (547 a.C.), costui fece venire gente da Babilonia e Borsippa e persino da paesi lontani (“dall’Egitto fino al Mare Superiore - il Mediterraneo e... al Mare Inferiore - il Golfo Persico -”) per le solenni esequie ufficiali durate sette giorni. L’ipotesi più verosimile sembra dunque essere che la “regina” men-

174 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 803.

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zionata in questo v. 10 fosse la madre di Belsazar e moglie di Nabonide. La saggia Notocris figlia di Nabucodonosor ricordata da Erodoto? È possibile175. LEUPOLD176 propende per la moglie di Nabucodonosor; così pure DOUKHAN177. A noi sembra preferibile l’altra identificazione. Fra l’agitazione generale, la “regina” sembra essere la sola persona che abbia mantenuto i nervi saldi. Ella si rivolge al re con la formula di rito (vedi commento a 2:4). Il suo intervento mira a placare il grande turbamento di Belsazar. La “regina” è convinta che soltanto dal vecchio ministro giudeo di Nabucodonosor potrà venire la soluzione del mistero che ha provocato nel palazzo scompiglio e costernazione, e propone che Daniele sia convocato subito. Ella sa tutto su Daniele: sa che in lui “è lo spirito degli dèi santi” (usa l’identica espressione di Nabucodonosor in 4:8 e 18); sa che al tempo di Nabucodonosor, “padre” di lui (di Belsazar), si trovarono in Daniele “luce” (in aramaico nahîrû, Uryihná ossia capacità di penetrare le cose occulte), “intelletto” (in aramaico sokletânû, Unftl : k: & f , ovvero facoltà di comprendere le cose difficili) e “sapienza” (in aramaico chokmah, hfmk: x f vale a dire capacità di applicare al meglio la conoscenza acquisita); sa che Nabucodonosor gli conferì l’alto incarico di capo supremo dei sapienti di Babilonia (cfr. 2:48; 4:9); sa che gli ha mutato il nome in Beltsha’zzar (cfr. 4:8); sa che Daniele ha “facoltà di interpretare i sogni” (cfr. 1:17; 2:36 e 4: 24), di “spiegare enigmi” (cfr. 4:9), di “risolvere questioni difficili” (cfr. cc. 2 e 4), in aramaico qitrîn, }yir+ : qi letteralmente “nodi”, un termine che comparirà più tardi in testi siriaci e arabici come vocabolo della magia. Appoggiandosi al Beek, uno studioso di Daniele, 178 pensa a nodi letterali adoperati in determinati riti magici. La perfetta conoscenza di Daniele da parte della “regina” fa presupporre che questa fosse vissuta alla corte di Babilonia durante il regno di Nabucodonosor quando appunto Daniele esercitò ivi funzioni pubbliche (2:49); e questo a sua volta rafforza l’ipotesi di uno stretto rapporto di parentela di lei col grande monarca. 13 Allora Daniele fu introdotto alla presenza del re; e il re parlò a

Daniele, e gli disse: “Sei tu Daniele, uno dei Giudei che il re mio padre menò in cattività da Giuda? Daniele, introdotto seduta stante nella sala del banchetto, è sottoposto a interrogatorio da parte di Belsazar che sembra volere accertarsi della sua identità: “Sei tu Daniele...?” Pur trattandosi di una procedura formale, è tuttavia probabile che Belsazar non avesse avuto rapporti ufficiali con Daniele. Sosterrebbe questa tesi la possibilità concreta di tradurre la frase interrogativa aramaica: “Sei tu quel

175 - Vedi G.RINALDI, op. cit., p. 89. 176 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 225. 177 - J. DOUKHAN, op. cit., p. 109. 178 - G.RINALDI, op. cit., p. 90; vedi anche S.D.A. Bible Commentary, ivi, p. 804.

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Daniele?”179. Comunque Belsazar sa che Daniele fu deportato in Babilonia dal paese di Giuda da suo “padre” Nabucodonosor. È molto probabile che dopo la morte di Nabucodonosor Daniele non esercitasse più l’alto incarico cui era stato chiamato dal grande sovrano. Il S.D.A. Bible Commentary dice al riguardo: “Pare che dopo la scomparsa di Nabucodonosor, la politica a cui Daniele aveva dato il suo sostegno non godesse più il favore della corte di Babilonia, onde Daniele stesso si sarebbe ritirato dal suo incarico pubblico. Belsazar e i suoi predecessori evidentemente erano del tutto al corrente del modo di procedere di Dio verso Nabucodonosor (5:22), ma avevano deliberatamente ripudiato la sua politica di riconoscimento del vero Dio e di cooperazione con la sua volontà (4:28-37; 5:23). Il fatto che Daniele più tardi fosse al servizio della Persia (6:1-3) implica che il suo ritiro dalla vita pubblica negli ultimi anni dell’impero babilonese non fosse dovuto a cattiva salute o all’età avanzata. La censura severa di Daniele nei confronti di Belsazar (5:22, 23) mette in evidenza l’ostilità del re verso i princìpi e la politica statale che Daniele rappresentava. La disapprovazione della politica ufficiale di Babilonia da parte di Daniele potrebbe essere stato uno dei motivi che indussero i primi governanti dell’impero persiano a mostrarsi a lui più favorevoli”180. 14 Io ha sentito dire di te che lo spirito degli dèi è in te, e che in te si

trova luce, intelletto, e una sapienza straordinaria. Belsazar dice a Daniele di aver “sentito dire” (e da chi se non dalla regina di cui quasi ripete le parole?) che in lui è “lo spirito degli dèi” (omette l’aggettivo “santi” usato dalla regina, forse perché pensa al Dio d’Israele?), e che lui possiede facoltà eccezionali (luce, intelligenza e sapienza straordinaria - in aramaico chokmâh yattîrah, hfryiTyá hfmk: x f ). Non sembra però ancora convinto che ciò sia vero. 15 Ora, i savi e gl’incantatori sono stati introdotti alla mia presenza, per leggere questo scritto e farmene conoscere l’interpretazione; ma non hanno potuto darmi l’interpretazione della cosa.

Per la terza volta un monarca babilonese (cfr. 2:11 e 4:18) deve constatare l’impotenza dei rappresentanti ufficiali della scienza di Babilonia (“i savi e gli incantatori”) di fronte a un enigma che era importante e urgente sciogliere (“non hanno potuto darmi l’interpretazione della cosa...”).

179 - Vedi H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 28; S.D.A. Bible Commentary, ivi, p. 804. 180 - S.D.A. Bible Commentary, ivi.

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16 Però, ho sentito dire di te che tu puoi dare interpretazioni e risolvere questioni difficili; ora, se puoi leggere questo scritto e farmene conoscere l’interpretazione, tu sarai rivestito di porpora, avrai al collo una collana d’oro, e sarai terzo nel governo del regno”.

“... ho sentito dire di te...”. Non è una ripetizione superflua di quanto Belsazar ha detto nel v. 14. Lì il re si riferiva a un insieme di facoltà straordinarie possedute dal suo interlocutore secondo quanto gli era stato riferito, qui allude alle cose che egli sarebbe stato in grado di fare attraverso l’esercizio di quelle facoltà: “dare interpretazioni e risolvere questioni difficili”. Belsazar però non ha la stessa convinzione della regina circa la capacità reale di Daniele di “risolvere questioni difficili”. La regina aveva detto del profeta: “... egli darà l’interpretazione...” (v. 12 u.p.); lui, Belsazar, dice a Daniele: “se puoi leggere questo scritto...”. Il re ripete a Daniele la promessa fatta prima ai sapienti (v. 7): egli riceverà la porpora, la collana d’oro e la posizione di terza autorità nel governo del regno se decifrerà e interpreterà lo scritto (vedi commento al v. 7). 17 Allora Daniele prese a dire in presenza del re: “Tieniti i tuoi doni

e da’ a un altro le tue ricompense; nondimeno io leggerò lo scritto al re e gliene farò conoscere l’interpretazione. I doni di Dio sono gratuiti, così deve essere il loro esercizio. Del resto Daniele non ambisce i beni e gli onori terreni: “Tieni per te i tuoi doni e dai a un altro le tue ricompense !” Può sembrare una risposta brusca e scortese. Si è detto, a ragione, che non era il caso per il profeta di introdurre la sua risposta alla richiesta del re con una formula di cortesia dal momento che questi non ha avuto alcun riguardo verso il suo Dio. Daniele dunque rifiuta l’altissima onorificenza che gli viene offerta (quanto è diverso lo spirito di questo autentico uomo di Dio da quello del mago-profeta Balaam! Vedi Nu 22:7,8; De 23:4); nondimeno risponderà alla richiesta del re. 18 O re, l’Iddio altissimo aveva dato a Nebucadnetsar tuo padre, re-

gno, grandezza, gloria e maestà; Daniele fa precedere la lettura e l’interpretazione dello scritto da una considerazione di ordine religioso e morale. Il discorso preliminare ne ricalca nello schema e nei contenuti un altro fatto molti anni prima davanti all’avo di Belsazar, il re Nabucodonosor (vedi 4:21-25). Con tutta evidenza è la drammatica vicenda della follia di Nabucodonosor che il profeta rievoca in questa premessa. Esattamente come aveva fatto al tempo di quella vicenda prima di interpretare il sogno dell’albero (cfr. 4:21-25), Daniele pone in contrasto la grandezza superlativa dell’allora sovrano di Babilonia e l’estrema miseria fisica e morale nella quale egli precipitò per avere esal124

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tato se stesso anziché l’Iddio altissimo dal quale proveniva la sua fortuna: Egli “aveva dato a Nabucodonosor... regno, grandezza, gloria e maestà” (vedi 2:37 e relativo commento). 19 e a motivo della grandezza ch’Egli gli aveva dato, tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue temevano e tremavano alla sua presenza; egli faceva morire chi voleva, lasciava in vita chi voleva; innalzava chi voleva, abbassava chi voleva.

Colpisce la preoccupazione costante di Daniele di porre in cima ad ogni successiva considerazione l’Iddio altissimo (cfr. 2:28, 29; 4:25). Fu per la grandezza che aveva ricevuto da Lui - puntualizza Daniele - che furono ridotti sotto il dominio di Nabucodonosor, l’avo di Belsazar, gli svariati gruppi etnici, nazionali e linguistici che formarono il suo impero (cfr. Gr 28:14), e fu per la stessa ragione che i suoi sudditi lo temettero e tremarono in sua presenza (cfr. l’oracolo sul re di Babilonia in Is 14:16, 17), e che egli poté esercitare sugli uomini un potere illimitato (“faceva morire chi voleva...” cfr. 2Re 25:6, 7; Gr 29:21, 22). 20 Ma quando il suo cuore divenne altero e il suo spirito s’indurò fino a diventare arrogante, fu deposto dal suo trono reale e gli fu tolta la sua gloria; 21 fu cacciato di tra i figliuoli degli uomini, il suo cuore fu reso simile a quello delle bestie, e la sua dimora fu con gli asini selvatici; gli fu data a mangiare dell’erba come ai buoi, e il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, finché non riconobbe che l’Iddio altissimo, domina sul regno degli uomini, e ch’egli vi stabilisce sopra chi vuole.

Dopo avere rievocato la grandezza di Nabucodonosor quale segno del favore dell’Iddio altissimo, Daniele ne ricorda la perdita repentina del potere (il “trono reale”) e del prestigio (la “gloria”) a seguito della follia che lo ha ridotto in uno stato di abbrutimento, e questo per essersi egli fatto altero e arrogante in dispregio dell’avvertimento ricevuto attraverso il sogno dell’albero (cfr. 4:25, 27). La rievocazione della cupa vicenda è fatta dal profeta quasi con le stesse parole del suo preannuncio e della sua descrizione in 4: 16, 25, 33, con qualche omissione e qualche variante (per es. in 5: 21 “asini selvatici” anziché “bestie dei campi” come in 4:25). I verbi alla forma passiva denotano la provenienza sovrannaturale della sciagura che si abbatté su Nabucodonosor. 22 E tu, o Belsatsar, suo figliuolo, non hai umiliato il tuo cuore, quantunque tu sapessi tutto questo; 23 ma ti sei innalzato contro il Signore del cielo; ti sono stati portati davanti i vasi della sua casa, e tu, i tuoi grandi, le tue mogli e le tue concubine ve ne siete serviti per bere; e tu hai lodato gli dèi d’argento, d’oro, di rame, di ferro, di legno e di pietra, i quali non vedono, non odono, non hanno cono-

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scenza di sorta, e non hai glorificato l’Iddio che ha nella sua mano il tuo soffio vitale, e da cui dipendono tutte le tue vie. 24 Perciò è stato mandato, da parte sua, quel mozzicone di mano, che ha tracciato quello scritto. Belsazar non è all’oscuro dello sconvolgente avvenimento che Daniele ha rievocato, e sebbene esso sia lontano nel tempo, l’impatto su quanti vissero nel palazzo in quei giorni fu tale che esso non poteva essere dimenticato nemmeno dopo tanti anni. Ma Belsazar, il “figlio” del protagonista di quella storia allucinante, pur rammentandola, non ne ha tenuto conto (“quantunque tu sapessi tutto questo... ti sei innalzato contro il Signore del cielo...”). È proprio vero che “la storia insegna che gli uomini non imparano niente dalla storia”! Nel v. 18 Daniele aveva alluso a un rapporto di paternità di Nabucodonosor con Belsazar (“Nabucadnetsar tuo padre”), qui accenna a una relazione di filgliolanza di Belsazar con Nabucodonosor (“E tu, Belsatsar, suo figliolo...”). Sui significati possibili del termine “padre” (’av, in aramaico ed ebraico) si è detto nel commento al v. 2. Qui si può aggiungere che nell’Antico Testamento “figlio” (bar in aramaico, ben in ebraico), allo stesso modo che “padre”, può rivestire una varietà di sensi. Può significare discendente (Es 32:26; Ml 3:6), e in qualche caso uno che domanda aiuto e protezione a un’autorità spirituale (1Sm 25:8). In 1Sm 26:17 Saul si rivolge a Davide con l’appellativo di “figlio”, mentre sappiamo che in realtà ne era genero. Sensi traslati del vocabolo “figlio” sono documentati anche fuori d’Israele. Per esempio un testo assiro del IX secolo a.C. chiama Jehu, il generale ribelle di Joram di Samaria, “figlio di Omri”, benché non ci fosse tra i due alcun rapporto di parentela, anzi Jehu fu lo sterminatore della discendenza di Omri (2Re 10:17). Nel documento assiro “figlio di Omri” ha il significato evidente di successore dell’ultimo discendente di Omri. Nell’ambiente semitico, dunque, successore è un altro significato del vocabolo “figlio”. In Dn 5:22 “suo figlio” può leggersi “suo discendente” o anche “suo successore”. Torniamo a Belsazar. L’offesa che costui ha recato all’Iddio del cielo è più grave ancora di quella di cui si rese colpevole il suo avo. Nabucodonosor non aveva voluto riconoscere la sovranità universale dell’Iddio altissimo (4:25); il suo discendente gli si è levato contro, lo ha oltraggiato profanando le sue cose sacre e lodando in dispregio di Lui gli idoli ciechi, sordi e privi di conoscenza. Eppure l’Iddio che Belsazar ha offeso è Colui dal quale egli ha ricevuto la vita e da cui dipende ad ogni istante la conservazione di essa. L’Iddio del cielo ha raccolto la sfida insensata e vi ha risposto prontamente. Ecco il significato di quel mozzicone di mano e di quello scritto che hanno atterrito Belsazar. “Questa spiegazione preliminare - commenta LEUPOLD - in un cero senso era più necessaria per Belsazar che la stessa interpretazione dello scritto”181.

181 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 233.

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Daniele prima denuncia con chiarezza e grande coraggio il gesto sacrilego di Belsazar, poi svela il messaggio nascosto nello scritto misterioso. 25 Questo e lo scritto ch’è stato tracciato: MENE, MENE, TEKEL,

UFARSIN. Il profeta procede alla lettura dello scritto. Sono tre parole aramaiche: la prima è ripetuta due volte e la terza è alla forma plurale. Difficile dire con che tipo di scrittura fossero state tracciate. Con quella cuneiforme certamente no, altrimenti il re e i suoi dignitari le avrebbero lette. Probabilmente le parole erano scritte con i caratteri aramaici (non sconosciuti ai sapienti di Babilonia) o con i più antichi caratteri ebraici. Di certo erano formate di sole consonanti: MN’ MN’ TKL FRSN (la vocalizzazione del testo attuale di Daniele come di tutta la Bibbia ebraica risale a non oltre il IX secolo della nostra era). Si deve comunque notare che alla luce dell’interpretazione di Daniele, la vocalizzazione masoretica delle tre parole aramaiche appare più che plausibile, come si vedrà più avanti. È stata rilevata un’affinità delle parole lette da Daniele con dei termini del vocabolario commerciale: )¢nm : MENE’ = mina, l"qT: TEKEL = siclo (shekel in ebraico), }yisr : pa U UFARSIN, plurale di PERES = mezzo siclo (la terza parola è preceduta dalla congiunzione aramaica “u” (= “e”) la quale, per una legge fonetica, muta in “f” la “p” della parola a cui di unisce). Se i tre vocaboli si leggono come sostantivi, si hanno questi tre valori ponderali e monetari decrescenti: MINA (2 volte), SICLO, MEZZI SICLI (il gruppo consonantico PRS compare col significato di “mezzo siclo” nell’Iscrizione di Senchirli). Se il primo dei due MENE’ si interpreta come imperativo del verbo menã’, lo scritto si può leggere: “Conta una mina, un siclo, mezzo siclo.” I sapienti del re, non sappiamo per quale ragione, non possono leggere lo scritto. Ad ogni buon conto, anche se ne fossero stati capaci, non avrebbero potuto interpretarlo, giacché non disponevano di un contesto logico in cui inserirlo perché avesse senso. In tempi recenti, degli studiosi che hanno letto i tre vocaboli aramaici come sostantivi hanno tentato di rapportare i valori monetari così desunti a dei re babilonesi che regnarono consecutivamente. Sono riportate di seguito, attinte da The New Bible Dictionary, le proposte più interessanti: ● C.S.CLERMONT GANNEAU: NABUCODONOSOR (mina’), BELSAZAR (siclo), MEDI e PERSIANI (mezzi sicli). ● E.G. KRAELING: EVIL-MERODAC e NERIGLISSAR (mina’, mina’), LABASHI MARDUK (siclo), NABONIDE e BELSAZAR (mezzi sicli). ● N.L. GINSBERG: NABUCODONOSOR (mina’), EVIL-MERODAC (siclo), BELSAZAR (messi sicli). ● D.N. FREEDMAN: NABUCODONOSOR (mina’), NABONIDE (siclo), BELSAZAR (mezzi sicli). Sono proposte allettanti ma tutto sommato inconcludenti. I tre gruppi consonantici possono leggersi come radici verbali e così in effetti le 127

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lesse Daniele stando all’interpretazione che ne fornì. Per la maggioranza degli espositori moderni le tre parole hanno la forma di participi passivi (dissente il S.D.A.Bible Commentary che riconosce questa forma soltanto alla prima). 26 E questa è l’interpretazione delle parole: MENE: Dio ha fatto il conto del tuo regno, e vi ha posto fine. 27 TEKEL: tu sei stato pesato con la bilancia, e sei stato trovato mancante. 28 PERES: il tuo regno è

diviso, e dato ai Medi e ai Persiani”. Decifrato lo scritto, la frase criptica che ne risulta ha bisogno di essere interpretata, e questo solo Daniele può farlo perché solo lui è illuminato dallo spirito dell’Iddio altissimo da cui il messaggio proviene. Da ciascuna delle tre parole l’interprete ispirato trae una doppia proposizione, la seconda consecutiva rispetto alla prima. Esaminiamole una dopo l’altra. MENE’, dal verbo aramaico menã’, “contare”, “numerare”, come participio passivo “contato”, “numerto”. Dio ha contato i giorni assegnati alla durata del regno di Belsazar e ha decretato che essi sono giunti alla fine. Secondo LEUPOLD la ripetizione di mene’ nella lettura potrebbe essere indice di un doppio senso del vocabolo: “contato” la prima volta, “fissato il limite” la seconda. TEKEL, dal verbo tekãl, forma aramaica del verbo ebraico shakal (lo “sh” ebraico si muta in “t” nell’aramaico). Altrove nell’Antico Testamento “pesare” in senso metaforico significa “giudicare”: cfr. 1Sm 2:3; Gb 31:6; Pr 24:12. Dio ha fissato per ogni individuo uno “standard” di crescita e di maturità a seconda dei talenti, della posizione e del grado di responsabilità nella vita. Il re Belsazar è stato pesato sulla bilancia di Dio ed è risultato al di sotto dello “standard” che corrisponde alla sua posizione. Egli è colpevole per questo, allo stesso modo che nel commercio è reato di frode un peso inferiore a quello pattuito fra venditore e compratore. PERES, dal verbo aramaico paras, “dividere”, “spezzare”. È la forma singolare di parsîn che preceduta dalla congiunzione “u” diventa farsin. Il regno di Belsazar è diviso e assegnato ai Medi e ai Persiani. Non metà agli uni e metà agli altri, giacché Daniele considera sempre la Media e la Persia come un regno unitario (con un unico simbolo le rappresenta nel capitoli. 2, 7 e 8: il petto d’argento, l’orso e il montone). È ben vero tuttavia che una provincia dell’impero babilonese (la Caldea) sarebbe governata d’ora innanzi da un medo (9:1) investito di tale potere (“ricevette il regno”) da un’autorità superiore (verosimilmente il re “di Media e di Persia” - 8:20 - che governa il resto dell’impero). Forse si allude a questo dicendosi che il regno di Belsazar sarebbe diviso e dato ai Medi e ai Persiani. Il regno di Dario in tutti i casi è una porzione ben modesta dell’immenso impero medo-persiano. Vocalizzata in modo che suoni paras la radice prs significa “Persia” (e “persiani” nella forma plurale prsn, perasin): Daniele vi coglie i due sensi: “il tuo regno è DIVISO e dato ai Medi e ai PERSIANI”. Il senso globale del messaggio è quello di un giudizio e di una sentenza 128

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con effetto immediato. Il riferimento alla Media e alla Persia come entità politica unitaria (cfr. 6:8, 12, 15; 8:20) mostra che il nostro autore ha una conoscenza esatta della storia. Fino al 550 a.C. le tribù persiane erano rimaste sotto la sovranità dei Medi , ma in quell’anno esse ebbero il sopravvento sui loro dominatori avendo Ciro, principe persiano, vinto e deposto Astiage loro re. Ciro però non impose ai vinti la sua sovranità, al contrario li associò nel governo del nuovo stato unendo di fatto le due etnie in un’unica nazione. È difficile credere che un giudeo palestinese del II secolo a.C. fosse così bene informato sulla composizione etnica e la struttura politica di un impero che non esisteva più da oltre 160 anni! 29 Allora, per ordine di Belsatsar, Daniele fu rivestito di porpora, gli

fu messa al collo una collana d’oro, e fu proclamato che egli sarebbe terzo nel governo del regno. L’uomo che si è rivelato superiore a tutti i sapienti di Babilonia col decifrare e interpretare lo scritto misterioso, riceve le onorificenze che il re ha promesso. Daniele le aveva rifiutate, ma gli ordini del re non si discutono ed egli deve suo malgrado vestire l’abito di porpora, indossare la collana d’oro (cfr. Ge 44:42) e farsi proclamare la terza autorità del regno, un regno che ha peraltro le ore contate. 30 In quella stessa notte, Belsatsar, re de’ Caldei, fu ucciso;

Si compie inesorabilmente e in brevissimo tempo il pesante verdetto su Belsazar che Daniele ha tratto dall’ultima delle tre parole scritte sulla parete. Il testo dedica poche parole all’evento tragico e repentino, ma alla sua laconicità suppliscono le notizie più dettagliate che ne forniscono gli storiografi greci. ERODOTO (ca. 480-420 a.C.) descrive così la conquista persiana di Babilonia: ... per mezzo di un canale, avendo immesso le acque dell’Eufrate nel bacino scavato che era allo stato di palude, (Ciro) fece sì che, abbassandosi il livello del fiume, il vecchio letto diventasse guadabile. Ottenuto un tale risultato, i Persiani che avevano ricevuto l’ordine proprio in vista di questo, quando l’Eufrate si fu abbassato tanto da non giungere nemmeno a metà coscia d’un uomo, ne seguirono il corso ed entrarono in Babilonia. (...) ... i persiani si trovarono loro davanti all’improvviso. Data la grande estensione della città... erano già in mano dei nemici i quartieri estremi della città, quando i Babilonesi che abitavano il centro non sapevano ancora di essere presi; ma in quel momento si davano alla danza (capitava infatti, che per loro fosse giorno di festa) e alla pazza gioia... In questo modo allora fu presa Babilonia per la prima volta. Anche SENOFONTE (ca. 430-354 a.C.) è informato che Belsazar cadde in po129

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tere dei Persiani durante una notte di bagordi. Lo storico ateniese riferisce che i soldati di Ciro penetrarono di notte nella città e, avuta facilmente ragione delle guardie ubriache, entrarono nel palazzo dove si svolgeva un festino e vi uccisero il re che tentò di opporre resistenza182. Secondo la Cronaca di Babilonia era il 14 di tishratu dell’anno 17° di Nabonide, il 10 ottobre del 539 a.C. secondo il calendario giuliano183. 31 e Dario il Medo, ricevette il regno, all’età di sessantadue anni.

“... dopo di te sorgerà un altro regno, inferiore al tuo”, aveva sentenziato Daniele molti anni prima al re Nabucodonosor (2:39). La profezia si avvera, tramonta il dominio babilonese, sorge il dominio dei Medi e dei Persiani: “Dario il Medo ricevette il regno”. È il trapasso dall’oro all’argento nel sogno di Nabucodonosor (2:30, 36-39); dal leone all’orso nella visione di Daniele (7:4, 5). Sull’identità di Dario il medo si discuterà nel commento al v. 1 del capitolo seguente. Per concludere il commento del cap. 5 ci sembra pertinente la seguente osservazione del prof. R.P.DAUGHERTY: “Fra tutte le fonti non babilonesi che parlano della situazione vigente alla fine dell’impero neo-babilonese, il capitolo quinto di Daniele è la più vicina ai documenti letterari cuneiformi per quanto attiene agli eventi più importanti. Il resoconto biblico può considerarsi una fonte di grande valore, perché cita il nome di Belsazar, perché attribuisce potere regale a Belsazar e perché riconosce l’esistenza di una doppia autorità nel governo del regno. I documenti cuneiformi babilonesi del sesto secolo a.C. forniscono prove ineccepibili sulla correttezza di questi tre nuclei storici basilari, contenuti nella narrazione biblica sulla caduta di Babilonia”184.

182 - SENOFONTE, Ciropedia, VII, 5, 15-31. 183 - R.A.PARKER e W.H.DUBBERSTEIN, Babylon Chronology... p. 13 184 - R.P.DAUGHERTY, Nabonidus and Belshazzar, p. 216, citato da S.D.A.Bible Commentary,

ivi, p. 808.

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D

aniele non è stato travolto dagli avvenimenti che hanno cambiato la fisionomia politica della pianura mesopotamica. Nonostante che avesse svolto mansioni di governo sotto la passata amministrazione, il nuovo re di Babilonia, Dario il medo, lo vuole accanto a sé mentre procede alla riforma amministrativa dello Stato. Pensa addirittura di affidargli la supervisione di tutta l’amministrazione statale. Ciò suscita la gelosia dei funzionari subalterni che non esitano a tramare un complotto contro di lui, ma la competenza e la correttezza di Daniele vanificano il loro malvagio disegno. I nemici di Daniele però non demordono: escogitano un piano diabolico per volgere in violazione della legge dello Stato la fedeltà di Daniele alla legge del suo Dio. Stavolta l’ignobile progetto va a buon fine con la complicità inconsapevole del sovrano. Quando Dario si accorge di essere caduto in un tranello, è troppo tardi per tornare indietro: non può fare nulla per sottrarre il suo fedele ministro alla pena capitale. A questo punto interviene l’evento miracoloso. Come tanti anni prima un angelo del Signore aveva protetto dall’ardore del fuoco Shadrac, Meshac e Abed-nego, così adesso un angelo del Signore rende inoffensive le belve alle quali Daniele è stato dato in pasto. Per ordine del re Dario, Daniele è tratto fuori dalla fossa dei leoni e i suoi accusatori vi finiscono dentro con le mogli e i figli; e stavolta le belve non rimangono inoperose. Il racconto si chiude con un proclama reale rivolto a tutti i sudditi del regno, un proclama nel quale si impone il rispetto del Dio di Daniele e si esaltano la sua sovranità eterna e il suo potere di salvare.

1 Parve bene a Dario di stabilire sul regno centoventi satrapi, i quali fossero per tutto il regno;

Il nuovo signore di Babilonia come primo atto di governo attua una riforma amministrativa dello Stato, che si identifica non con l’impero di Persia sul quale Ciro esercita la sovranità, ma con la provincia di Caldea (cfr. 9:1) nella Mesopotamia inferiore. R.H.CHARLES osserva che “una sorta di divisione di Babilonia è documentata nelle tavolette annalistiche di Ciro ove si dice che Gubaru, governatore di Babilonia sotto Ciro, ‘nominò dei governatori in Babilonia’”185. Si è osservato che du-

185 - Citato da H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 248.

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rante la dominazione persiana i “satrapi” governavano le vaste unità territoriali in cui era suddiviso l’impero, le “satrapie”, mentre i 120 “satrapi” nominati da Dario il Medo amministravano aree geografiche di ben modesta entità. Se ne è dedotto che Daniele deve essere incorso in una inesattezza, ma poiché la stessa “inesattezza”, come ha notato R.D. WILSON, si riscontra nella storiografia greca, LEUPOLD giustamente conclude che il termine “satrapi” doveva essere usato sia in riferimento a funzionari di alto grado, sia per designare funzionari di grado inferiore186. Sappiamo da ERODOTO (III. 89) che Dario I divise l’impero in 20 satrapie e suddivise queste ultime in unità amministrative minori. Nei testi di Dario le satrapie figurano essere più numerose (da 21 a 29), probabilmente perché più volte questo sovrano modificò il numero e le dimensioni di codeste vaste regioni amministrative durante il suo regno. Secondo Ether 1:1 il re Assuero (il Serse della storia) regnò su 127 province (ebr. medînâh), verosimilmente il numero totale dei distretti in cui erano suddivise le satrapie. Ma le “satrapie” di cui parla Erodoto e le “province” ricordate in Ether 1:1 non hanno niente a che vedere con i distretti amministrativi istituiti da Dario il Medo: quelle riguardavano tutto l’impero, queste il solo territorio del “regno dei Caldei” (9:1) sul quale si esercitava la sovranità subordinata del Dario di Daniele. Chi è Dario il Medo? Per Daniele è una persona concreta. È figlio di Assuero (9:1), succede a Belsazar (5:31), precede Ciro (6:28), riforma l’amministrazione dello stato (6:1). Ma per la storia rimane tuttora una figura avvolta nel mistero. Nessuna delle fonti greche e babilonesi che documentano la fine dell’impero caldeo conosce il suo nome. Certi studiosi di scuola liberale hanno liquidato la questione affermando che Dario il Medo è una figura leggendaria partorita dalla fantasia dell’autore del libro; altri hanno insinuato che lo scrittore giudeo confonda Dario il medo con Dario I, terzo successore di Ciro. Non solo, ma fa di Serse (Assuero) il padre di Dario mentre in realtà ne era figlio. Sono giudizi affrettati e in buona parte ingiustificati. Infatti: è accaduto e potrebbe ancora accadere che il nome di un personaggio biblico sconosciuto alla storia (il caso di Belsazar è emblematico) riaffiori dalla sabbia dopo millenario oblio grazie a uno scavo archeologico; ● Daniele distingue il successore di Belsazar da Dario I figlio di Istaspe col precisare che quegli appartiene alla stirpe dei Medi (9:1), mentre questi è di estrazione persiana, e che occupa il trono di Babilonia all’età di 62 anni, mentre Dario I cominciò a regnare sulla Persia in età più giovanile; ● Daniele mostra di conoscere bene la successione dei primi regnanti di Persia dopo la caduta di Babilonia. Infatti in 11:2 allude a tre re che debbono sorgere in Persia (dopo Ciro) e a un quarto che sarà più ricco e “solleverà tutti contro il regno di Grecia”. Poiché è trasparente in questo quarto ●

186 - Vedi H.C. LEUPOLD, op. cit., pp. 247-248.

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re la figura di Serse, è ovvio che i tre che dovevano precederlo sono Dario I, il falso Smerdis e Cambise il figlio di Ciro. ● Daniele sa infine che Ciro regna sulla Persia (10:1) e che Dario il Medo governa soltanto la Caldea e con potere subordinato (9:1): “fu fatto re dei Caldei”. Comunque, sull’identità di Dario il medo, mancando riferimenti diretti nelle fonti storiche note, possiamo solo fare congetture. Intanto possiamo ipotizzare con verosimiglianza che questo personaggio fosse conosciuto anche sotto un nome diverso. A dire il vero, è più che un’ipotesi se dobbiamo credere a GIUSEPPE FLAVIO il quale asserisce che il Dario di Daniele era “chiamato dai Greci con un altro nome”187. Abbiamo effettivamente notizie su regnanti dell’Antico Oriente che adottarono un secondo nome. Il re assiro Tiglat-Pileser III (745-727 a.C.), per esempio, assunse il nuovo nome di Pûlû quando cinse la corona di Babilonia188. Anche la Bibbia conosce il doppio nome di questo sovrano (vedi 2Re 15:19, 29; 1Cr 5:26). Suo figlio Salmanassar V (727-722 a. C.) pure adottò un secondo nome, ululãya, come re di Babilonia189. I testi amministrativi di Borsippa del periodo persiano menzionano un re di nome Akshimakshu sconosciuto alle altre fonti antiche. Si è accertato che Akshimakshu era una variante del nome di un noto regnante persiano, Serse I190. Dario potrebbe dunque essere una variante del nome del re medo che fu posto sul trono di Babilonia dopo la morte di Belsazar. Gli espositori che danno come attendibili i racconti danielici hanno cercato di far coincidere la figura di Dario il Medo con quella di un personaggio noto della storia. Vediamo quali sono stati i personaggi coi quali si è tentato di identificarlo. 1. Astiage, ultimo re dei Medi. Proposto da B. ALFRINK e altri studiosi come il possibile equivalente storico del Dario danielico. Secondo ERODOTO (I,107,108) Ciro nacque da una sua figlia e dal principe persiano Cambise I. A parte l’origine etnica non si riscontrano altre attribuzioni comuni ad Astiage e Dario il Medo. a) Il padre di Astiage fu Ciassare I, non Assuero (Serse). b) Dario il medo aveva 62 anni quando fu fatto re dei caldei (5:31), Astiage, se era ancora in vita, era molto più anziano nel 539 a.C., avendo cominciato a regnare quasi 50 anni prima.

187 - GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudaiche, X. 11. 4. 188 - Vedi E. CASSIN - J. BOTTERO - J. VERCOUTTER, Gli imperi dell’Antico Oriente, St. Univers. Feltri-

nelli, vol.4, p. 54. 189 - Ibidem, p. 47. 190 - Vedi C.O. JONSSON, I tempi dei Gentili..., p. 246.

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c) Astiage cercò di sopprimere Ciro fin dalla nascita191; da adulto Ciro lo vinse e, secondo alcune fonti, lo relegò in Ircania, secondo altre lo uccise. È difficile ammettere che Ciro possa averlo fatto re di Babilonia. 2. Ciassàre II, figlio di Astiage. Come ultimo re dei Medi è noto soltanto a SENOFONTE192. Nell’antichità è stato identificato col Dario di Daniele da GIUSEPPE FLAVIO193. GIROLAMO194 cita questa opinione dello storico giudaico e sembra condividerla. Ai nostri giorni hanno mantenuto tale identificazione un buon numero di autori. H.H. ROWLEY195 ricorda LOWTH, HENGSTENBERG, ROSENMULLER, HÄVERNICK, KRANICHFELD, KLIEFOTH, ZÖKLER, KNABENBAUER. In ambito avventista questa tesi ha raccolto il consenso del S.D.A. Bible Commentary196 e più recentemente di G.H. HASEL197. Fra i cattolici di lingua italiana è condivisa da E.TESTA198. Effettivamente si riscontrano vari punti di contatto fra Ciassàre II e il Dario di Daniele. Ciassàre appartenne alla stirpe dei Medi, fu zio, e secondo SENOFONTE anche suocero di Ciro, ebbe rapporti amichevoli con lui; la sua età all’epoca della caduta di Babilonia coincideva su per giù con quella di Dario il Medo, indicata da Daniele. Infine Senofonte non dà più notizie di lui in rapporto agli anni che seguirono di poco la caduta di Babilonia. Tuttavia altre circostanze rendono problematica questa identificazione. a) Le notizie di Senofonte su Ciassàre non sempre sono attendibili, specie laddove le contraddicono le fonti cuneiformi; b) il nome del padre di Ciassàre era Astiage, non Assuero; c) una presenza di Ciassàre II in Babilonia come successore di Belsazar-Nabonide non è attestata nelle fonti storiche. 3. Ciro II, re di Persia. D.J. WISEMAN ha proposto di identificarlo col Dario danielico supponendo che Dario fosse un altro nome di Ciro e che la congiunzione aramaica “u” in Dn 6:28 abbia funzione esplicativa (“cioè”) e non congiuntiva (“e”), cosa possibile secondo i grammatici. WISEMAN ha letto così il passo in questione: “E questo Daniele prosperò sotto il regno di Dario, cioè sotto il regno di Ciro il persiano.” J.N. BULMAN e J.D. DOUGLAS hanno appoggiato questa proposta dell’assiriologo inglese e altri studiosi, come J.G. BALDWIN, A.R. MILLARD e G. WENHAM l’hanno condivisa199. Questa tesi nondimeno ha contro di sé non minori difficoltà che le precedenti.

191 192 193 194 195 196 197 198 199

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- Cfr. ERODOTO I, 108. - Vedi, Ciropedia, 1.5, 2, ecc... - Antichità Giudaiche, X. 11, 4 - Cfr. Girolamo su Daniele, p. 89 - Citato da G.H. HASEL in Symp. On Daniel, p. 113, nota 173. - Vedi Vol IV, pp. 816, 817. - Vedi Daniel, questions débattues, p. 33. - Vedi Il messaggio della Salvezza, vol. III, p. 140. - Vedi HASEL, op. cit., pp. 113, 114.

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a) Ciro aveva meno i 62 anni all’epoca della conquista di Babilonia; b) Daniele distingue i due personaggi notando che l’uno è persiano (6:28) e l’altro medo (5:30; 9:1; 11:1); c) Ciro regna sulla Persia (10:1), Dario sui Caldei (9:1); d) il padre di Ciro fu Cambise, Dario fu figlio di Assuero (9:1). 4. Cambise II figlio di Ciro. Da una trentina di testi cuneiformi si evince che Ciro nominò suo figlio Cambise re-vassallo di Babilonia per il periodo di un anno, mentre lui continuò a regnare sulla Persia. Sulla base di questo dato documentato vari autori moderni hanno proposto di identificare il Dario danielico col figlio di Ciro200. Si deve dire che questo tentativo pure urta contro non lievi difficoltà. 1) Non si sa in quale dei 10 anni del regno di Ciro dopo la conquista di Babilonia Cambise abbia regnato come re-vassallo; 2) Cambise era persiano, non medo; 3) era figlio di Ciro, non di Assuero; 4) aveva meno di 62 anni nel 539 a.C. 5. Gubaru. Per vari decenni si è tentato di identificare il Dario di Daniele con Gubaru governatore di Babilonia secondo la Cronaca di Nabonide. È stato E.BABELON il primo a proporre, nel 1881, questa identificazione poi condivisa da studiosi come F.DELITZSCH, F.W.ALBRIGTH, G.PINCHES, R.D.WILSON, MÖLLER e altri201. Ma poiché le notizie di fonte babilonese e greca su questo personaggio sembravano contraddittorie, H.H.ROWLEY, seguito da altri, rifiutò questa identificazione. Fu merito di J.C.WHITCOMB l’avere dimostrato nel 1959, sulla base di uno studio comparato di tutti i documenti antichi che facevano riferimento a Gubaru, che dalla caduta di Babilonia fino all’anno V di Cambise ci furono due personaggi che portarono questo nome: il governatore di Babilonia di cui si è detto sopra e il generale di Ciro, che conquistò Babilonia, ricordato nella stessa Cronaca di Babilonia, anche col nome di Ugbaru, e da Senofonte col nome di Gobryas. Whitcomb ha mantenuto l’identificazione di Dario il Medo col primo Gubaru - il governatore di Babilonia - in quanto il secondo sembrava essere vissuto troppo poco dopo la presa di Babilonia per poter avere svolto il ruolo attribuitogli da Daniele. Due fatti però rendono problematica l’identificazione proposta da Whitcomb. Il primo è che Gubaru fu governatore di Babilonia mentre Dario il Medo occupò secondo Daniele una posizione più elevata (“fu fatto re”, 9:1). Il secondo è che Gubaru cominciò a governare nell’anno IV di Ciro e rimase in carica fino all’anno V di Cambise, mentre Dario il Medo fu posto sul trono di Babilonia subito dopo la morte di Belsazar e il suo regno finì prima dell’anno III di Ciro (cfr. Dn 9:1 con 10:1). W.H.SHEA, dopo uno studio accurato dei testi babilonesi, è giunto alla conclusione che Ugbaru governatore del Gutium e generale di Ciro

200 - HASEL, op. cit., p. 113 nota 176, ricorda H.WINKLER, P.RIESSLER e C.BOUTFLOWER. 201 - Vedi HASEL, op. cit., p. 114.

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risponde meglio di Gubaru governatore di Babilonia alle attribuzioni del Dario danielico. Ecco in sintesi l’argomentazione del nostro autore: In tutti i documenti datati dei re neobabilonesi, da Nabopolassar a Nabonide, il titolo reale è “Re di Babilonia”. ● Nel periodo persiano, da Ciro a Dario I, a questo titolo si aggiunge “Re dei Paesi”. ● Dopo la rivolta antipersiana di Babilonia, repressa da Serse I nel 482 a.C., questo sovrano abolì il titolo di “Re di Babilonia” e mantenne soltanto quello di “Re dei Paesi”. Tale uso continuò fino ad Alessandro il Macedone. ● I testi economici e amministrativi di Babilonia rivelano che Ciro, contrariamente ai suoi predecessori neo-babilonesi, non assunse il titolo di “Re di Babilonia” durante i 4 mesi dell’anno di accessione e i primi 10 mesi dell’anno seguente. Il titolo che gli danno questi documenti è “Re dei Paesi”. ● Ciò può significare soltanto una cosa, e cioè che Ciro, nei primi 14 mesi dopo la caduta di Babilonia, non fu re di questa città. ● La spiegazione più verosimile è che durante questo periodo un re vassallo di Ciro svolgesse in Babilonia le funzioni di re, o meglio di viceré. ● Questo spazio di tempo coincide abbastanza bene con la durata del regno di Dario il Medo deducibile dalle informazioni di Daniele. Infatti il nostro autore menziona soltanto il primo anno di regno di Dario (9:1 e 11:1) e ci fa capire che nell’anno III di Ciro egli era scomparso dalla scena (10:1). ●

Sembra tuttavia opporsi a questa tesi il fatto già segnalato che Ugbaru non sarebbe vissuto abbastanza da poter gestire gli affari di governo, come vuole Daniele. La Cronaca di Nabonide informa che Babilonia fu conquistata dai Persiani il 16 di Tishratu e che Ciro vi entrò da trionfatore 17 giorni appresso, il 3 di Arashamnu. Poi riferisce che fra i mesi di Kislimu e Addaru le immagini degli dèi furono riportate nelle loro sedi, e subito dopo segnala che Gubaru (Ugbaru) morì l’11 di Arashamnu. Si è creduto che la notizia del trasferimento delle divinità nelle loro sedi inserita fra il 3 e l’11 di Arashamnu fosse cronologicamente fuori posto, ed è stato in base a questa supposizione che si è pensato che Ugbaru fosse morto circa tre settimane dopo la presa di Babilonia. William H.Shea non condivide questa opinione. Egli è convinto che tutti gli avvenimenti riportati nella Cronaca si susseguono nell’ordine cronologico naturale, e crede di poterlo dimostrare. Avendo verificato accuratamente gli avvenimenti datati dal tempo di Nabonassar (VIII secolo a.C.) fino al tempo della Cronaca di Nabonide (VI secolo a.C.), egli ha potuto notare che su 318 osservazioni cronologiche contenute nei testi presi in esame, 313 si susseguivano secondo l’ordine naturale e solo 5 secondo un ordine anomalo. Shea conclude che i 313 casi in cui l’ordine degli avvenimenti è quello consecutivo debbono riflettere la regola corrente, e che i 5 casi nei quali l’ordine è diverso debbono ritenersi una deroga da questa. È parso legittimo a questo autore applicare la regola corrente ai fatti riportati nella terza colonna 136

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della Cronaca di Nabonide. Se l’ordine degli avvenimenti in questo documento è quello consecutivo, come sembra ragionevole, allora Gubaru-Ugbaru morì un anno e tre settimane dopo l’occupazione persiana di Babilonia202. La deduzione più significativa che trae Shea dal confronto dei testi amministrativi con la Cronaca è che il cambiamento del titolo reale di Ciro nei testi suddetti dal 14° mese dopo la caduta di Babilonia, debba rapportarsi a un avvenimento importante della Cronaca stessa, e a quale se non alla morte di Ugbaru? Se ci si attiene all’interpretazione consecutiva degli avvenimenti della Cronaca di Babilonia, il titolo di “Re di Babilonia” fu aggiunto al titolo corrente di Ciro, “Re dei Paesi”, circa 6 settimane dopo la morte del conquistatore di Babilonia. Poiché Ciro assunse il titolo suddetto a così breve distanza di tempo dalla morte di Ugbaru, sembra logico dedurne che quest’ultimo debba avere svolto tale funzione fino alla sua scomparsa. Sei settimane - osserva Shea - era più o meno il tempo occorrente perché la notizia della morte di Ugbaru arrivasse fino a Ciro e le disposizioni di questi sulla successione giungessero a Babilonia. Il prof. Shea segnala sei linee di convergenza fra il personaggio danielico e l’ex-governatore del Gutium: Ugbaru comandò le truppe medo-persiane che si impadronirono di Babilonia. Dn 5:31 sembra presupporre lo stesso ruolo per Dario il Medo; ● Secondo la Cronaca di Nabonide Ugbaru costituì dei governatori su Babilonia. Dario il Medo fece la stessa cosa secondo Dn 6:1,2. ● Ugbaru morì a un anno circa dalla conquista persiana di Babilonia, ciò fa supporre che egli non fosse giovane, per quanto la Cronaca non ne indichi l’età. Dario il Medo secondo Dn 5:31 aveva 62 anni quando divenne re di Babilonia. ● Combinando la cronologia della Cronaca con quella dei titoli reali nei testi amministrativi, si deduce che Ugbaru morì 14 mesi circa dopo la caduta di Babilonia. Daniele - come già notato - ricorda solo il primo anno di Dario il Medo (9:1; 11:1) e in 10:1 menziona l’anno III di Ciro. La spiegazione più logica è che Dario fosse scomparso prima del terzo anno di Ciro. ● La distinzione che fa Daniele fra i regni di Ciro e di Dario corrisponde bene alla situazione che descrivono i testi cuneiformi. Il titolo di “Re di Persia” che Dan 10:1 dà a Ciro concorda col titolo che gli attribuiscono i testi amministrativi, “Re dei Paesi”, e la notizia di Dn 9:1 secondo la quale Dario il Medo regnò sul “regno dei Caldei” coincide col titolo di “Re di Babilonia” che Ciro cominciò a portare dopo la morte di Ugbaru. ● La condizione di vassallo di Ugbaru concorda bene con l’informazione di Dan 9:1 secondo cui Dario “fu fatto re”. ●

202 - Per ragguagli più esaurienti vedi gli articoli di W.H.SHEA su Andrews University Seminary Studies, n. 20, 1982, e Daniel, questions débattues, specialmente da p. 94. Vedi anche la nota 1 a pg. 244 e segg. nel presente volume.

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Le fonti cuneiformi e classiche tacciono sulla famiglia di Ugbaru, cosicché non abbiamo modo di sapere se il padre di costui si chiamasse Assuero o altro. Senofonte definisce “assiro” il generale Gobryas che conquistò Babilonia per conto di Ciro (“assiro” fra i Greci equivaleva a “babilonese”). Ma nei racconti di questo storico ci sono tante inesattezze e approssimazioni che non si può prendere alla lettera ogni sua informazione. La Cronaca riferisce che Gubaru-Ugbaru prima della conquista di Babilonia fu governatore del Gutium, una provincia dell’impero di Ciro che confinava con la Media. Secondo il prof. R.D.WILSON203, il Gutium “era una contrada di estensione indefinita che probabilmente abbracciava tutto il territorio tra la Babilonia da una parte e le montagne dell’Armenia a nord e i Monti Zagros a nord-est dall’altra, e forse anche il paese al di là dei Monti Zagros che aveva Ecbatana per capitale”, cioè la Media. Riassumendo la sua analisi il prof. Shea conclude che sei attribuzioni riferite da Daniele a Dario il Medo coincidono con le notizie su Gubaru-Ugbaru fornite dalle fonti cuneiformi mentre due - la paternità e l’origine etnica - non possono essere verificate per la mancanza di informazioni nelle fonti storiche esistenti. È questo che non consente di identificare con sicurezza Dario il Medo con Ugbaru il conquistatore di Babilonia; comunque il peso dell’evidenza favorisce decisamente questa identificazione. 2 E sopra questi, tre capi, uno dei quali era Daniele, perché questi

satrapi rendessero loro conto, e il re non avesse a soffrire alcun danno. Dario ha creato una burocrazia statale più sofisticata di quella babilonese. Non solo ha istituito 120 distretti amministrativi e ha posto a capo di ciascuno un funzionario governativo, ma ha nominato tre alti commissari col compito di soprintendere all’operato di questi amministratori locali. Si direbbe che Dario avesse alle spalle una consumata esperienza di governo (se è corretta l’identificazione con Ugbaru, come è assai probabile che lo sia, è appena necessario ricordare che costui fu governatore di una provincia del regno di Persia prima di occupare Babilonia per conto di Ciro). Dal testo parrebbe che il “re” i cui interessi economici debbono essere salvaguardati sia lo stesso Dario; in realtà, come dice giustamente Leupold204, “Dario sta salvaguardando gli interessi di Ciro”. I regnanti achemenidi dedicarono un’attenzione particolare all’economia di Stato. Dario il Medo, che governa la Caldea come vassallo del re di Persia, si premura di tutelare gli interessi del gran sovrano. Questo fu il compito più rilevante e la preoccupazione costante dei funzionari che amministrarono le province dell’impero persiano (cfr. Ed 4:13-16).

203 - Citato da H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 44. 204 - Op. cit, p. 249.

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I tre commissari nominati da Dario, uno dei quali è Daniele, debbono in primo luogo vigilare affinché il servizio di raccolta delle imposte nei distretti del regno sia svolto correttamente, ma essi formano anche una sorta di consiglio della corona per cui hanno notevole autorità e prestigio. Osserva il S.D.A. Bible Commentary a proposito di Daniele: “È bastata a Dario una conoscenza sommaria di questo venerabile uomo di Stato, di questo superstite dell’aurea età imperiale babilonese per convincersi che la sua scelta come amministratore-capo dell’impero e consigliere della corona sarebbe stata una scelta saggia”205. Il verbo aramaico qéznæ nazîq, “subire danno”, da qualche autore contemporaneo (G.Rinaldi, G.Bernini) è stato tradotto “essere molestato”. Secondo questa comprensione del termine Dario avrebbe nominato i tre commissari per essere tenuto al corrente della gestione generale del servizio delle imposte senza dovere esaminare i rendiconti particolari. L’interpretazione può accordarsi abbastanza bene col contesto immediato del racconto, tuttavia ci sembra sia preferibile mantenere il senso proprio del verbo, come fanno la versione di G.Luzzi e quella della C.E.I. 3 Or questo Daniele si distingueva più dei capi e dei satrapi, perché

c’era in lui uno spirito straordinario; e il re pensava di stabilirlo sopra tutto il regno. “...questo Daniele...”, vale a dire il Daniele già noto al lettore dai racconti precedenti. L’autore del libro parla di sé con distacco, come se stesse parlando di un’altra persona. È ancora un indice di umiltà e modestia. “Questo Daniele” supera i funzionari pari grado e i subalterni per competenza e abilità nell’amministrare la cosa pubblica. Fin dalla giovinezza Daniele si era distinto per le non comuni doti naturali che possedeva (1:4), doti che una sapienza ricevuta in dono da Dio aveva esaltato (1:17). Il re Nabucodonosor, e dopo di lui la innominata regina del tempo di Belsazar, avevano riconosciuto quei talenti straordinari come manifestazione di un principio sovrumano (cfr. 4:18 e 5:11, 12). Questo giudizio trova conferma nelle parole stesse di Daniele il quale usa un’espressione quasi identica (“c’era in lui uno spirito straordinario”, aramaico )fryiTyá x a Ur ruach yattîra’) per spiegare che il suo eccellere come uomo di Stato non dipende da innate virtù personali ma è il risultato di un dono sovrannaturale. Egli vi accenna dunque non per dare lustro alla sua persona, ma al contrario per glorificare il suo Dio. Il re Dario si è accorto della perizia ineguagliabile del suo venerabile ministro e si è convinto che egli potrà servire meglio lo Stato da una posizione di governo più elevata, perciò ha deciso di porlo al vertice della burocrazia amministrativa del regno.

205 - S.D.A. Bible Commentary,vol. IV, p. 818.

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4 Allora i capi e i satrapi cercarono di trovare un’occasione d’accusar Daniele circa l’amministrazione del regno; ma non potevano trovare alcuna occasione, né alcun motivo di riprensione, perch’egli era fedele, e non c’era da trovare in lui alcunché di male o da riprendere.

I “capi” sono i due colleghi di Daniele, i “satrapi” sono i funzionari in subordine. Non è presupposta una partecipazione generale dei “satrapi” al complotto. È difficile ammettere una presenza simultanea in Babilonia di tutti gli amministratori pubblici locali, dal momento che non v’è accenno ad una convocazione ufficiale da parte del re. Alla congiura contro Daniele deve dunque avere preso parte un numero limitato di ufficiali statali. Del resto un loro intervento massiccio avrebbe potuto far nascere dei sospetti nella mente di Dario. Quando si sparge la voce che il re intende promuovere a un più alto incarico di governo l’anziano ministro giudeo, la gelosia latente di questi amministratori pubblici meno capaci di lui si tramuta in aspro malanimo e decisa volontà di nuocergli. Costoro - uomini di nobile stirpe meda e persiana - non permetteranno che uno straniero, un ex deportato giudeo, li superi per autorità e prestigio; e nell’ombra tramano la sua rovina, poi passano alle vie di fatto. Senza farsi notare sottopongono a minuzioso controllo gli atti amministrativi del rivale, certi di potervi cogliere una qualche irregolarità - è facile per un uomo di età avanzata incorrere in una dimenticanza! - onde poterlo accusare di incompetenza o infedeltà. Gli inquisitori però restano delusi, “perché egli (Daniele) era fedele, e non c’era da trovare in lui alcunché di male o da riprendere”. Splendido esempio di integrità morale e raro caso di perfetta efficienza professionale alla bella età di ottant’anni e passa! 5 Quegli uomini dissero dunque: “Noi non troveremo occasione alcuna d’accusar questo Daniele, se non la troviamo in quel che concerne la legge del suo Dio”.

La perfidia umana non conosce limiti quando il cuore è dominato da sentimenti di invidia e gelosia. Gli avversari di Daniele, che non hanno potuto cogliere negli atti amministrativi del rivale un pretesto plausibile per accusarlo di inefficienza o infedeltà, escogitano un piano diabolico per ritorcere contro di lui quella sua indefettibile linearità di condotta che ha frustrato il loro malvagio disegno. Conoscendo tutte le pieghe del potere ed essendo loro noto che la fedeltà dell’anziano ministro di Dario verso il suo Dio è pari alla sua lealtà verso gli uomini, non sarà difficile per loro far nascere un aspro conflitto fra la fede di Daniele e la ragion di Stato. La frase “questo Daniele” sulla bocca dei suoi avversari tradisce il disprezzo che nutrono verso di lui. Osserva Girolamo nel suo commentario su Daniele: “È una bella condotta di vita quella in cui i nemici non trovano alcun capo d’accusa che non sia la fedeltà alle prescrizioni di Dio”206. 206 - Op. cit., p. 91.

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6 Allora quei capi e quei satrapi vennero tumultuosamente presso ai re, e gli dissero: “O re Dario, possa tu vivere in perpetuo! 7 Tutti i

capi del regno, i prefetti e i satrapi, i consiglieri e i governatori si sono concertati perché il re promulghi un decreto e pubblichi un severo divieto, per i quali chiunque, entro lo spazio di trenta giorni, rivolgerà qualche richiesta a qualsivoglia dio o uomo tranne che a te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni. “...quei capi e quei satrapi...”, cioè i funzionari di grado superiore e inferiore che hanno congiurato contro Daniele. Come si è notato prima, non è presupposta una partecipazione totale degli ufficiali pubblici del regno. L’aramaico U$iGr : h a hargishû (dal verbo ragash, “tumultuare”) è tradotto alla lettera dal Luzzi: “vennero tumultuosamente presso il re”. Poiché è parso inverosimile che dei funzionari statali ardissero irrompere “tumultuosamente” alla presenza di un potente sovrano, vari traduttori hanno attenuato il senso del vocabolo originale. Ecco come rendono la frase aramaica alcune versioni moderne: “... si radunarono presso il re...” (versione della C.E.I) “... si recarono insieme dal re...” (G.Rinaldi) “... si recarono subito dal re...” (TILC) “... si precipitarono dal re...” (G.Bernini) “... vennero dal re accalcandosi...” (H.C.Leupold) L’ultima ci sembra la traduzione più accettabile. Il saluto originale al re è espresso con la formula cortigianesca di rito. “O re, possa tu vivere in perpetuo!” (vedi 3:9 e relativo commento, e 5:10). L’aramaico }yiml : (f l : le‘almîn, “in perpetuo”, si può tradurre anche, come l’equivalente ebraico, “per un lungo tempo”. In sostanza con questa formula si augura al re lunga vita, non vita eterna. Può sembrare una procedura insolita che degli amministratori pubblici sottopongono alla più alta autorità dello stato un decreto perché lo approvi. “Il nascere del decreto com’è qui rappresentato - nota il prof. Rinaldi - non è semplicismo da narratore popolare, ma corrisponde al procedimento vigente nell’antica Persia, ove le cricche di corte erano solitamente molto influenti e furono in qualche caso arbitre dello stato”207. In apparenza il decreto mira a consolidare l’autorità del sovrano in un momento delicato qual è l’inizio del regno, ma nella realtà, come sappiamo, esso è motivato da ben altra intenzione. Non deve meravigliare, quasi appaia cosa improbabile, che in questo episodio del libro di Daniele si imponga per legge ai sudditi di una nazione di rivolgere atti di culto alla persona del re. Nell’antichità non era una pratica insolita. In Egitto da lungo tempo si tributavano onori divini alla persona del sovrano, e si continuò a farlo anche quando a regnare sul paese furono dei monarchi stra207 - Op. cit., pp. 96, 97.

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nieri. In tempi di poco posteriori ai giorni di Daniele, per esempio, i sacerdoti egiziani attribuirono titoli divini a due monarchi persiani, Cambise e Dario I, come attestano alcune iscrizioni geroglifiche. È comunque risaputo che i re di Persia - circostanza piuttosto insolita nell’antichità - furono generalmente tolleranti e rispettosi verso i culti e le divinità stranieri. Per il S.D.A. Bible Commentary208, è impensabile che un uomo come Ciro potesse approvare un decreto sul tipo di quello che fu sottoposto a Dario il Medo. Sui Medi però siamo assai poco informati. Si conosce tuttavia un episodio di violenta intolleranza religiosa. Le fonti greche informano che il mago Gaumata, di stirpe meda al dire di Erodoto (III, 73), quando usurpò il trono degli Achemenidi mentre Cambise combatteva in Egitto, nei pochi mesi di regno si dette a distruggere con furore i templi dedicati a divinità straniere. Erodoto (I, 99) narra di un altro personaggio della stessa etnia, Deioce re dei Medi, il quale decretò che nessuno dovesse vederlo onde gli uomini non meno valenti di lui “lo potessero ritenere di un’altra natura”. Non deve dunque sorprendere che il medo Dario acconsentisse che lo si onorasse come una divinità, fosse pure per un tempo limitato. Infatti, il decreto che gli avversari di Daniele gli estorcono implica praticamente una sua divinizzazione o quanto meno una sua elevazione a unico rappresentante della divinità (Montgomery): per lo spazio di trenta giorni in tutto il paese non si rivolgeranno richieste a qualsivoglia divinità o autorità umana tranne che a lui. Il divieto non sembra riferirsi alle richieste in rapporto con le necessità della vita quotidiana - chi avrebbe potuto garantirne l’osservanza? - ma piuttosto alle suppliche e alle preghiere che si rivolgono alle divinità nei templi. Una severa disposizione di legge che interferisse con la vita religiosa era ciò che ci voleva per mettere Daniele con le spalle al muro. Gli intriganti, per agire con maggiore incisività sull’animo del re, dichiarano, mentendo, di essere i portavoce di tutte le autorità dello Stato, quelle della città e del palazzo (i capi del regno e i consiglieri) e quelle delle province (i prefetti, i satrapi e i governatori). Si sottopone all’approvazione del sovrano anche la sanzione penale da applicarsi a carico degli eventuali trasgressori del decreto: costoro dovranno essere dati in pasto alle belve rinchiuse nella fossa. È documentato che i Babilonesi punivano col fuoco i delitti contro la persona del re, come la ribellione o la congiura (vedi commento a 3:19, 20). I Persiani non praticavano questa forma di supplizio, perché il fuoco era l’elemento sacro per eccellenza nel culto mazdeico209. Sebbene non sia attestato nei documenti noti che i Medo-persiani punissero i delitti di lesa maestà facendo sbranare i colpevoli dalle belve affamate, è ben documentato in dipinti murali e bassorilievi che in Egitto e in Assiria i sovrani praticavano la caccia di animali selvaggi: leoni, leopardi, ippopotami, elefanti. Gli esemplari catturati vivi venivano

208 - Vol. IV, p. 811. 209 - Vedi E.MEYNIER, Storia delle Religioni, p. 109; F.A. ARBORIO MELLA, L’impero persiano, p. 15.

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rinchiusi in sicuri serragli affinché i sudditi, osservandoli, potessero ammirare la forza e il coraggio del re. Da questa pratica Ezechiele trae un’immagine significativa che applica ai principi d’Israele (Ez 19:1-9). La “fossa dei leoni”, nella quale si sarebbero gettati gli eventuali trasgressori del decreto reale, era un serraglio sotterraneo la cui apertura era probabilmente ricoperta con una grata metallica. 8 Ora, o re, promulga il divieto e firmane l’atto perché sia immutabile, conformemente alla legge dei Medi e de’ Persiani, che è irrevocabile”.

La frase aramaica )fbt f K: {u$r : t i wº )frsf ) E {yiqT: )fKl : m a }a(K: ke‘an malka’ teqîm ’esara’ wetirshum ketava’..., che Luzzi traduce: “Ora, o re, promulga il divieto e firmane l’atto...”, ci sembra sia resa meglio da Rinaldi: “Ora, o re, emana il divieto e fanne mettere in iscritto il documento...” I congiurati, insomma, domandano al re di tramutare in decreto seduta stante il divieto che essi hanno proposto e di farlo mettere per iscritto per modo che esso diventi subito legge vincolante per tutti i sudditi del regno. E si premurano di sottolineare che il decreto ha da essere inalterabile “conformemente alla legge dei Medi e dei Persiani che è irrevocabile”. Preme ai malvagi funzionari mettere l’accento sulla non revocabilità delle leggi dei Medi e dei Persiani, cosicché il sovrano, quando si accorga del tranello, non possa fare nulla per sottrarre Daniele alla pena capitale. Sulla irrevocabilità delle leggi emanate dai re di Persia ci ragguagliano anche il libro di Ether (1:19 e 8:8) e un episodio tramandatoci da Diodoro Siculo. Narra lo storico greco (XVII, 30) che Dario III, accortosi di avere emanato un’ingiusta sentenza capitale a carico di un certo Charidemos risultato poi innocente, se ne rammaricasse molto ma non potesse revocare il verdetto. Il riferimento alla legge “dei Medi e dei Persiani” nel v. 8 ha fatto storcere il naso ai critici moderni i quali contestano che in quest’epoca l’antico regno dei Medi fosse sotto il controllo dei Persiani oramai dominatori della scena politica. Il S.D.A. Bible Commentary respinge quest’accusa di disinformazione rivolta a Daniele appellandosi a documenti contemporanei venuti in luce in epoca più recente. “Tali documenti - spiega il Commentario - parlano dei Persiani chiamandoli ‘medi’, e dei Medi chiamandoli ‘persiani’, alla stessa maniera della Bibbia. Anche i documenti cuneiformi menzionano diversi re persiani col titolo di ‘re dei Medi’ oltre che con quello abituale di ‘re di Persia’. Poiché Dario era un medo, è del tutto naturale che dei cortigiani riferentisi alla legge del paese in sua presenza ne parlassero come della ‘legge dei Medi e dei Persiani’”210.

210 - Vol IV, p. 812.

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9 Il re Dario quindi firmò il decreto e il divieto. 10 E quando Daniele

seppe che il decreto era firmato, entrò in casa sua; e, tenendo le finestre della sua camera superiore aperte verso Gerusalemme, tre volte al giorno si metteva in ginocchi, pregava e rendeva grazie al suo Dio, come soleva fare per l’addietro. Questo versetto è più comprensibile nella traduzione del Prof. G.Rinaldi: “In seguito a ciò il re Dario fece scrivere il documento col divieto”. La vile congiura a danno di Daniele ha funzionato. Senza sospettare quello che sta dietro la proposta dei suoi ministri, il re Dario ha fatto redigere il divieto che diventa subito legge irrevocabile. Presto scatterà per Daniele una trappola mortale. Come sia venuto a conoscenza del decreto la vittima designata, il racconto non lo dice. Certo è che il divieto ha messo Daniele in una situazione estremamente difficile. Quale sarebbe stata la sua scelta non c’era da dubitarne, si trattava comunque di una scelta sofferta. Fin dai tempi della sua attività di governo alla corte di Nabucodonosor, quest’uomo di Dio aveva tenuto un contegno di assoluto rispetto verso il re e la legge del paese che serviva. Tanto più gli sarà premuto rispettare la volontà di un sovrano come Dario che gli è amico. Comunque Dio occupa e occuperà sempre il primo posto nella considerazione di Daniele. La severità e inflessibilità delle leggi di Media e di Persia gli sono note per cui egli è ben consapevole della sorte a cui va incontro, ma non modifica le sue abitudini religiose: “Come soleva fare per l’addietro”, tre volte al giorno si genuflette davanti alle finestre della sua camera superiore spalancate in direzione di Gerusalemme e prega il suo Dio, verosimilmente a voce alta. Il principio: “Bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini” (At 5:29) è stato applicato cinque secoli prima che fosse enunciato. Le case nell’Oriente antico avevano generalmente il tetto piatto e non di rado in un angolo del tetto avevano una piccola stanza dove ci si poteva isolare per il riposo o la preghiera. Le finestre probabilmente erano munite di una grata. Daniele dunque prega davanti alle finestre della sua stanza superiore che guardano a ponente. Per gli israeliti lontani dalla loro terra volgersi in direzione di essa nel momento della preghiera doveva essere una consuetudine molto antica se ne allude Salomone nella cerimonia di dedicazione del Tempio (1Re 8:44, 48). Sull’attitudine corporale durante la preghiera, il S.D.A. Bible Commentary nota: “La Bibbia allude a svariate posizioni nella preghiera. Incontriamo dei servi di Dio che pregano seduti, come Davide (1Sam 7:18), inchinati, come Eliezer (Ge 24:26) ed Elia (1Re 18:42) e spesso in piedi, come Anna (1Sam 1:26). L’attitudine più comune nella preghiera sembra essere stata la genuflessione, come attestano gli esempi seguenti: Esdra (9:25), Gesù (Lc 22:41), Stefano (At 7:60)”211. La consuetudine degli israeliti di pregare tre volte al giorno è attestata altrove nella Bibbia (vedi Sl 55:17). Nel tardo giudaismo tale consuetudine di-

211 - Ibidem.

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venne una norma quotidiana per i pii giudei. I tre momenti della preghiera erano l’ora terza, l’ora sesta e l’ora nona a partire dal sorgere del sole (grosso modo le 9 a.m., mezzodì e le 3 p.m.). La prima e la terza preghiera erano fatte in coincidenza con l’offerta del sacrificio del mattino e della sera212. Ci si potrebbe chiedere se non sarebbe stata una ragionevole misura di prudenza da parte di Daniele pregare in segreto finché non fossero trascorsi i trenta giorni, e se il non averlo fatto non sia stata un’inutile sfida al potere e un’altrettanta inutile esposizione della propria vita. Niente di tutto questo. Se Daniele in quel frangente avesse agito diversamente di come agì, avrebbe dato modo ai pagani di credere che i servi dell’Iddio Altissimo in fondo non credono nel suo potere salvifico e di conseguenza lo servono finché non corrono grossi rischi.213 Con la sua scelta coraggiosa e coerente Daniele ha dimostrato tutto il contrario! 11 Allora quegli uomini accorsero tumultuosamente, e trovarono Da-

niele che faceva richieste e supplicazioni al suo Dio. “... accorsero tumultuosamente” o “vennero accalcandosi” (Leupold). Daniele non si è lasciato intimidire dall’iniquo decreto. Per i suoi avversari non è stato difficile coglierlo in flagrante violazione di esso. 12 Poi s’accostarono al re, e gli parlarono del divieto reale: “Non hai

tu firmato un divieto, per il quale chiunque entro lo spazio di trenta giorni farà qualche richiesta a qualsivoglia dio o uomo tranne che a te, o re, deve essere gettato nella fossa de’ leoni?” Il re rispose e disse: “La cosa è stabilita, conformemente alla legge dei Medi e de’ Persiani, che è irrevocabile”. Gli avversari di Daniele procedono con sottile scaltrezza per prevenire un tentativo in extremis del re di sottrarre alla pena capitale il loro odiato ‘concorrente’. Non denunciano subito l’accaduto di cui sono stati spettatori, ma interpellano il sovrano sul decreto che ha promulgato, in modo da ottenere da lui una piena conferma del divieto che esso impone e della sanzione che prevede per i trasgressori. L’intrigo è stato tramato con cura per modo che Daniele non abbia scampo. Questi ignobili individui recitano davanti al re la parte di zelanti tutori della legge e dell’autorità del sovrano. E ancora una volta il re Dario li asseconda in perfetta buona fede, stavolta col confermare solennemente il decreto e la sua irrevocabilità. Senza rendersene conto, Dario convalida una sentenza di morte a carico del più fidato e stimato dei suoi ministri.

212 - Cfr. S.D.A. Bible Commentary, ivi. 213 - Osserva J.DOUKHAN: “... quando la preghiera è di moda, è tempo di pregare in segreto, ma

quando è proscritta, pregare di nascosto significherebbe temere il re più di Dio” (op. cit., p. 128).

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13 Allora quelli ripresero a dire in presenza del re: “Daniele, che è fra quelli che sono stati menati in cattività da Giuda, non tiene in alcun conto né te, o re, né il divieto che tu hai firmato, ma prega il suo Dio tre volte al giorno”.

Dopo che hanno fatto dichiarare al re la conferma incondizionata del decreto e della sanzione penale che esso prescrive, i malvagi funzionari denunciano la “violazione” commessa da Daniele. Le parole che usano trasudano disprezzo verso il loro rivale. In primo luogo usano il suo nome ebraico, come a volere sottolineare la sua origine straniera. Poi, ignorandone volutamente la dignità di alto funzionario dello Stato, lo caratterizzano come uno dei deportati dalla Giudea, questo paese che già in quel tempo era visto in una luce negativa (vedi Ed 4:12-15). Infine insinuano malignamente che questo straniero non ha avuto riguardo per la persona del re e ha sfidato sfrontatamente la sua autorità: “non tiene in alcun conto né te, o re, né il decreto che tu hai firmato...” È l’interpretazione calcolatamente distorta di un atto che ha tutt’altro significato nell’intenzione di chi lo ha compiuto. L’atto da cui muove l’imputazione gravissima (e calunniosa) di lesa maestà e ribellione è questo: “...prega il suo Dio tre volte al giorno”. Senza volerlo e senza saperlo questi loschi personaggi di fatto hanno onorato Daniele. I delatori non hanno bisogno di esibire delle prove: sono funzionari dello Stato e perciò testimoni attendibili; in ogni caso il delitto di cui accusano l’avversario potrà essere verificato in qualunque momento poiché è nota la fedeltà di Daniele alla legge del suo Dio (v. 5). 14 Quand’ebbe udito questo, il re ne fu dolentissimo, e si mise in

cuore di liberar Daniele; e fino al tramonto del sole fece di tutto per salvarlo.15 Ma quegli uomini vennero tumultuosamente al re, e gli dissero: “Sappi, o re, che è legge dei Medi e de’ Persiani che nessun divieto o decreto promulgato dal re possa essere mutato”. Troppo tardi Dario si è accorto di essere caduto in un tranello. A nessuno fa piacere di essere gabbato, tanto meno a un uomo potente. Grande deve dunque essere stato lo sdegno del re quando ha scoperto l’inganno. Avrebbe potuto reagire con tutto il peso della sua autorità; non lo ha fatto. Forse perché avrebbe dovuto ammettere, non senza pregiudizio per la sua regale dignità, di avere agito con leggerezza nel promulgare il decreto, o, più semplicemente, perché non sarebbe servito a salvare Daniele. Ha quindi dovuto fare buon viso a cattivo giuoco. Il dolore per la sorte crudele riservata al suo fedele ministro è più forte dell’indignazione verso i perfidi funzionari che quel decreto gli hanno estorto: “il re ne fu dolentissimo”. Non può comunque ignorare la loro denuncia, visto che lo si pone di fronte al fatto inoppugnabile che è stato violato un decreto da lui stesso promulgato e solennemente ratificato in presenza degli stessi delatori; né può ignorare che formalmente si tratta di un atto di ribellione che non può non essere punito 146

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con la massima pena, come il decreto stesso prescrive. Dario però ha deciso in cuor suo di salvare Daniele, pur se non sa ancora come. Intanto prende tempo. Rinvia l’esecuzione della sentenza e per tutto il giorno cerca un modo di sottrarre Daniele dalle fauci dei leoni; chissà, forse fruga anche nelle pieghe della legge con la speranza di trovare un cavillo per poter salvare Daniele senza abolire il decreto. Ma è tutto inutile. Dario è fatalmente prigioniero di una sua leggerezza. Trascorsa la giornata e constatato che Daniele non è stato ancora giustiziato, i suoi nemici accorrono eccitati dal re per manifestare il loro dissenso. Temono forse che col favore delle tenebre, e magari con la complicità del sovrano, il loro avversario si renda irreperibile e scampi alla morte ? È possibile. Insistono che presso i Medi e i Persiani i decreti emanati dall’autorità sovrana non si possono in alcun modo revocare. È evidente la pretesa che la sentenza venga eseguita senza ulteriore indugio. 16 Allora il re diede l’ordine, e Daniele fu menato e gettato nella fossa

dei leoni. E il re parlò a Daniele, e gli disse: “L’Iddio tuo, che tu servi del continuo, sarà quegli che ti libererà”. Con la loro vivace rimostranza gli accusatori di Daniele hanno vinto la riluttanza del re. Dario non ha potuto sottrarsi alla sua responsabilità di supremo garante della legge. Per quanto se ne dolga, non ha altra scelta che fare arrestare Daniele e consegnarlo alle guardie preposte all’esecuzione delle sentenze capitali. Egli stesso si porta sul luogo del supplizio insieme con i suoi dignitari per verificare, come vuole la prassi, l’applicazione della pena. Il serraglio delle belve è una cavità naturale o artificiale a cielo chiuso, che in origine può essere stata utilizzata per raccogliere l’acqua piovana. Dire di più non è possibile giacché a tutt’oggi non è stata rinvenuta nessuna caverna come quella a cui si accenna in questo racconto. Di certo la fossa aveva un’apertura sul cielo dalla quale si introducevano le carni per sfamare le belve. Prima che Daniele sia dato in pasto alle fiere, il re Dario, sinceramente addolorato per non avere potuto sottrarlo a quel supplizio crudele, e quasi scusandosene, lo rincuora dicendogli che il suo Dio, l’Iddio al quale egli è rimasto fedele in ogni circostanza, sarà quegli che proteggerà la sua vita. Sarebbe eccessivo pensare che Dario si stia convertendo alla fede monoteistica di Daniele. Da buon pagano, egli crede nel potere sovrannaturale degli dèi ed è persuaso che l’Iddio dei Giudei non è da meno delle divinità che egli venera. 17 E fu portata una pietra, che fu messa sulla bocca della fossa; e il re la sigillò col suo anello e con l’anello dei suoi grandi, perché nulla fosse mutato riguardo a Daniele. 18 Allora il re se ne andò al suo palazzo, e passò la notte in digiuno; non si fece venire alcuna concubina e il sonno fuggì da lui.

Dopo avere calato Daniele nella fossa, gli addetti ne ricoprono l’apertura con 147

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una pesante lastra di pietra e contornano la lastra con dell’argilla fresca sulla quale il re e i suoi dignitari imprimono i loro sigilli allo scopo di impedire qualsiasi manomissione. Nell’antichità le persone importanti avevano sempre con sé il proprio sigillo. Il nome e il simbolo del proprietario erano incisi su una pietra dura incastonata in un anello, o più comunemente su un cilindretto d’osso o di pietra forato longitudinalmente e attraversato da un cordoncino annodato alle estremità in modo da potersi portare al collo. Difficile dire se il re Dario e i suoi dignitari in questa circostanza facessero uso dell’anello o del cilindretto, giacché il termine aramaico )fqzº (i ‘izqa’ significa genericamente “sigillo”, come traducono correttamente varie versioni. Sta di fatto che il sigillo cilindrico si affermò e si diffuse in tutta l’area dell’Oriente antico214. Ufficialmente i sigilli apposti su quella che doveva divenire la tomba di Daniele servivano a impedire che essa venisse manomessa per sottrarre alla morte il condannato. Ma se Dario, come pare certo, ha creduto davvero che Daniele non sarebbe morto, allora nella sua intenzione il sigillamento del luogo del supplizio doveva mirare al duplice scopo di: a) rendere evidente il carattere miracoloso dell’evento, e b) impedire che i nemici facessero morire Daniele in altro modo. Mentre l’uomo di dio rimane tranquillo nell’antro freddo e buio in compagnia dei leoni che sembrano avere perso il fiuto, il potente re di Babilonia trascorre la notte insonne ed agitato nel suo splendido palazzo. Lo tormenta il dubbio se Daniele scamperà davvero alle zanne dei leoni, e lo coglie insieme l’angoscia per la perdita possibile di un amico e uomo di valore e il senso di colpa per esserne in qualche modo responsabile. Nella pianura mesopotamica il pasto principale si consumava la sera, giacché a mezzodì la gran calura del giorno affievoliva l’appetito. Ma quella sera il re Dario non tocca cibo perché il tormento dell’animo gli ha tolto l’appetito. La seconda parte del v. 18 è resa variamente dai traduttori: “non gli fu introdotta alcuna donna...” (C.E.I., molto simile alla Luzzi); “senza farsi portar cibi...” (G.Rinaldi); “non gli fu recato alcuno svago...” (H.C.Leupold); “né furono portati davanti a lui strumenti musicali...” (King’s James Vers.). Questa varietà di traduzioni dipende dall’incertezza riguardo al significato specifico del vocabolo aramaico }æwx A d a dachawan, reso di volta in volta “concubine”, “donne”, “danzatrici”, “cibi”, “svaghi”, “strumenti musicali”. È significativo che la versione greca dei LXX ometta del tutto il vocabolo. Il senso generico di dachawan sembra essere: “cose deliziose”. Il passo pare voler dire che i fatti del giorno hanno gettato il re in uno stato di tale costernazione che in lui è svanito ogni desiderio di godimento. 214 - Vedi S.MOSCATI, L’alba della Civiltà, vol. III, pp. 265, 266.

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19 Poi il re si levò la mattina di buon’ora, appena fu giorno, e si recò in fretta alla fossa dei leoni. 20 E come fu vicino alla fossa, chiamò

Daniele con voce dolorosa, e il re prese a dire a Daniele: “Daniele, servo dell’Iddio vivente! Il tuo Dio, che tu servi del continuo, t’ha egli potuto liberare dai leoni?” Alla fine di una giornata carica di emozioni il re Dario si è disteso sul letto ma non ha chiuso occhio per tutta la notte. Ansioso di sapere quale sia la sorte del suo fido ministro, non attende che sia giorno chiaro per accertarsene: alle prime luci dell’alba si alza e si affretta verso il luogo del supplizio combattuto fra la speranza che Daniele sia ancora in vita e la paura che le belve lo abbiano fatto a pezzi. “E come fu vicino alla fossa, chiamò Daniele...” Nell’ansia di sciogliere il dubbio tormentoso Dario chiama Daniele prima ancora che sia giunto sopra la fossa nella quale è stato rinchiuso. Lo chiama “con voce dolorosa” (“con voce angosciata” secondo un’altra traduzione; nell’aramaico: byic(A lfqB : beqol ‘atzîv, “con voce afflitta, dolorosa”). La voce tradisce l’affanno e il rimorso che agitano l’animo del re. “Daniele, servo dell’Iddio vivente!” Sorprende l’attributo “vivente” riferito da un pagano al Dio dei Giudei. Così avevano talvolta designato l’Altissimo i profeti d’Israele (vedere Gr 10:10; Os 1:10), così lo avrebbero ancora designato i discepoli di Cristo (vedi Mt.16:16; At 14:15; Rm 9:26; Ap 7:2). “... l’Iddio vivente” sulla bocca di Dario tradisce forse un concetto più alto rispetto alla nozione che egli aveva delle divinità pagane? Può darsi. In ogni caso è segno che il rapporto con Daniele non è stato ininfluente. Purnondimeno Dario tentenna fra la speranza e il dubbio: “Il tuo Dio... t’ha egli potuto liberare dai leoni?” Sembra dubitare del miracolo nel quale il giorno avanti aveva professato di credere. 21 Allora Daniele disse al re: “O re, possa tu vivere in perpetuo! 22 Il

mio Dio ha mandato il suo angelo e ha chiuso la bocca dei leoni che non m’hanno fatto alcun male, perché io sono stato trovato innocente nel suo cospetto; e anche davanti a te, o re, non ho fatto alcun male”. Probabilmente qualche feritoia per l’areazione consente una sia pur precaria comunicazione fra l’esterno e l’interno della caverna e viceversa. Sta di fatto che Daniele può udire la voce del re e il re la sua. Con tono calmo e rispettoso l’uomo di Dio rivolge al sovrano il saluto augurale (“... possa tu vivere in perpetuo !”), come se si trovasse nella sala di udienze del palazzo e non in un antro buio e tra voraci felini. Si vede chiaramente che egli non nutre alcun rancore verso l’uomo potente che, seppure a malincuore, lo ha fatto relegare in quel luogo orribile. Al saluto deferente, il prigioniero fa seguire la spiegazione del perché egli sia rimasto in vita in una situazione in cui nessun uomo sarebbe potuto scampare alla morte. E la spiegazione è un prodigio sovrannaturale: il suo Dio ha mandato il suo angelo per tenere chiuse le fauci dei leoni. È stato lo stesso an149

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gelo che in un’altra circostanza (vedi 3:24, 25) ha neutralizzato l’ardore di una fornace ?... Certo è che ancora una volta l’Iddio del cielo ha spiegato la sua forza irresistibile per impedire che fosse stroncata la vita di un innocente il cui “torto” era stato di avere anteposto il Creatore alla creatura. Il primo pensiero di Daniele è stato dunque di testimoniare la potenza e la benevolenza di Dio a suo riguardo. Soltanto dopo egli manifesta la sua serenità interiore per sentirsi assolto da Lui: “Perché io sono stato trovato innocente nel suo cospetto”. Come dire che non sarebbe certamente sopravvissuto se il Giudice supremo degli uomini avesse riconosciuto giusta la pena severa che gli è stata inflitta. Per conseguenza egli è netto di qualsiasi colpa pure nei confronti del re: “Anche davanti a te, o re, non ho fatto alcun male”. È insieme una pacata protesta d’innocenza e un garbato rimprovero al sovrano che non ha saputo scagionarlo dall’imputazione infamante di non aver voluto tenere conto della sua persona e della sua autorità. Può sembrare privo di senso che Daniele si discolpi dopo che è stato condannato e non lo abbia fatto prima. Invece c’è una logica in questa postuma rivendicazione d’innocenza. I nemici lo avevano accusato di ribellione contro il sovrano e la sua legge (v. 13), e tutto faceva credere che avessero ragione giacché in effetti Daniele aveva contravvenuto al decreto reale. L’accusa però era calunniosa perché si fondava su una interpretazione distorta dei fatti, ma Daniele non aveva alcun modo di dimostrarlo. La sua protesta d’innocenza sarebbe dunque stata vana; egli non aveva altra scelta che accettare di subire l’iniqua condanna e rimettere la sua sorte nelle mani di Dio (e non era poco!). Adesso la prova della sua innocenza c’è ed è irrefutabile: è la sua sopravvivenza. In Babilonia come nel resto dell’Oriente antico nei casi di dubbia colpevolezza si faceva ricorso all’ordalia giudiziaria o giudizio degli dèi215. L’accusato veniva gettato nelle acque di un fiume e la sua colpevolezza o innocenza veniva stabilita secondo che il suo corpo sprofondasse o galleggiasse. Nel caso di Daniele c’è stato un normale giudizio del sovrano, non un’ordalia giudiziaria, comunque ha funzionato quello che si credeva essere il principio su cui si fondava questa pratica. L’essere Daniele scampato miracolosamente alla morte cui era stato legalmente condannato, non poteva non essere interpretato come il giudizio favorevole della divinità e dunque come una prova della sua innocenza. 23 Allora il re fu ricolmo di gioia, e ordinò che Daniele fosse tratto

fuori dalla fossa; e Daniele fu tratto fuori dalla fossa, e non si trovò su di lui lesione di sorta, perché s’era confidato nel suo Dio. La benevolenza di Dario verso Daniele e la sincerità del suo dolore per non avere potuto evitare la sua condanna, si palesano nella sua intensa reazione

215 - Vedi F.PINTORE, L’alba della Civiltà, vol. I, pp. 490, 491; R.DE VAUX, Le Istituzioni dell’Antico

Testamento, pp. 164, 165.

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emotiva all’udire la voce del prigioniero: “Fu ricolmo di gioia” (aramaico b")+ : )yiGa & saggî’ t’ev, letteralmente “fu sommamente felice”). Secondo il giudizio del re l’esigenza della legge dei Medi e dei Persiani è stata soddisfatta con l’aver gettato Daniele nella fossa dei leoni. Il non essere egli stato assalito dalle belve è un segno inequivocabile del giudizio di Dio favorevole al condannato, un giudizio cui nessuna autorità umana può opporsi. Se prima Dario ha dovuto esercitare con gran pena i suoi poteri regali per sentenziare la condanna capitale di Daniele, adesso se ne avvale con somma gioia per ordinarne l’immediata liberazione. I sigilli che dovevano rimanere intatti a testimoniare l’avvenuta esecuzione del condannato, ora vengono infranti per ordine di colui stesso che li aveva apposti affinché il condannato sia liberato. Ora veramente è stata fatta giustizia. Come al tempo del re Nabucodonosor non era stata riscontrata alcuna ustione sui corpi di Shadrac, Meshac e Abed-nego usciti vivi dalla fornace, così ora non si scorge la più piccola lesione sul corpo di Daniele tratto vivo dal serraglio delle belve. Il miracolo appare in tutta la sua irrefutabile realtà e concretezza. Daniele è stato protetto dall’aggressione dei felini perché è innocente e perché si è “confidato nel suo Dio”. Molto tempo dopo, il miracolo che ha fatto rifulgere la potenza di Dio e la fede del suo servo devoto sarebbe stato riproposto alla riflessione dei cristiani (Eb 11:33), e più in là ancora avrebbe ispirato capolavori di arte figurativa. 24 E per ordine del re furon menati quegli uomini che avevano accusato Daniele, e furon gettati nella fossa dei leoni, essi, i loro figliuoli e le loro mogli; e non erano ancora giunti in fondo alla fossa, che i leoni furono loro addosso, e fiaccaron loro tutte le ossa.

L’oscuro disegno dei capi e dei satrapi quando costoro hanno denunciato Daniele si è svelato in tutta la sua nefandezza. Il re si è accorto che col falso pretesto di salvaguardare la sua autorità essi gli hanno estorto un decreto iniquo, giacché mirava soltanto a colpire senza motivo il più fidato e capace dei suoi ministri. Il complotto contro un uomo incolpevole ha dunque un risvolto non meno grave: esso ha offeso la dignità del sovrano poiché lo ha coinvolto a sua insaputa in un atto di suprema ingiustizia. Allora però Dario non ha potuto reagire in conformità della legge, giacché nessuno sarebbe stato in grado di scagionare Daniele dall’imputazione di ribellione. Ma ora che il giudizio divino ha messo in piena luce l’innocenza dell’accusato (vedi commento al v. 22), nulla potrà impedire al re di agire col massimo rigore nei confronti dei cospiratori. Saranno loro a sperimentare l’inflessibile durezza della legge dei Medi e dei Persiani che avevano invocata contro Daniele (vedi v. 15). Saranno loro, e i loro familiari purtroppo, a subire la pena atroce che avevano preparato per il loro avversario. Più o meno come sarebbe accaduto ad Haman, l’implacabile nemico di Mardocheo e dei Giudei (vedi Et 6:9, 10). È proprio vero che “chi scava una 151

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fossa vi cadrà, e la pietra torna addosso a chi la rotola” (Pr 26:27). È raccapricciante che siano coinvolti mogli e figli nelle colpe dei mariti e padri e nelle sanzioni loro riservate. Ma tant’è: nell’antichità era molto vivo il sentimento di solidarietà e corresponsabilità familiare (vedi Gs 7:24, 25). Su questa pratica crudele presso i Persiani ci dà notizia anche Erodoto. Narra lo storico greco che essendosi un tale Intafrene reso reo di grave colpa verso il re Dario (da non confondersi col Dario del nostro racconto), il sovrano facesse arrestare lui, i suoi figli e altri parenti, e li mandasse a morte tutti tranne due, risparmiati grazie all’intercessione appassionata di una donna che era madre dell’uno e sorella dell’altro (III, 118, 119). 25 Allora il re Dario scrisse a tutti i popoli, a tutte le nazioni e lingue che abitavano su tutta la terra: “La vostra pace abbondi!

Per la seconda volta Dario promulga un decreto indirizzato a tutti i sudditi del regno che sono espressamente distinti nei gruppi etnici, nazionali e linguistici che lo compongono (vedi comm. a 4:1). La frase “su tutta la terra” aggiunge il concetto di universalità spaziale a quello di universalità sociale già enunciato con le espressioni “tutti i popoli” e “tutte le nazioni e lingue”. L’aggettivo kol (“tutta”, “tutti”, “tutte”) ha una portata limitata all’ambito territoriale del regno, e il sostantivo “terra” è usato nell’accezione ristretta di “paese” (anche noi diciamo, per es., “la terra dei padri” volendo significare il paese dove siamo nati, la patria). Il senso dell’espressione aramaica )f(r : ) a -lfkB : bekol-’ar‘a’ è dunque “in tutto il paese”, e non “in tutto il mondo”. L’editto di Dario si apre col saluto augurale di prammatica nei proclami reali dell’epoca (vedi 4:1 e relativo commento). 26 Io decreto che in tutto il dominio del mio regno si tema e si tremi

nel cospetto dell’Iddio di Daniele; perch’egli è l’Iddio vivente, che sussiste in eterno; il suo regno non sarà mai distrutto, e il suo dominio durerà sino alla fine. 27 Egli libera e salva, e opera segni e prodigi in cielo e in terra; egli è quei che ha liberato Daniele dalle branche dei leoni”. La frase: “in tutto il dominio del mio regno”, chiarisce e ridimensiona l’espressione: “su tutta la terra” nel v. 25, a conferma di quanto si è detto in proposito nel commento si quel versetto. Il nuovo editto di Dario si differenzia in modo sostanziale dal precedente, anzi si colloca agli antipodi: quello poneva in primo piano la persona del re, ne faceva oggetto esclusivo di religiosa riverenza; questo esalta l’Iddio del cielo e prescrive che Lui si tema e si riverisca. Non sarebbe stato di certo emanato questo secondo decreto reale se Daniele si fosse lasciato intimorire dal primo: ancora una volta si è visto come l’avere anteposto a rischio della vita l’imperativo della coscienza alle dispotiche esigenze del potere, in definitiva abbia sortito 152

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l’esito di far proclamare a un’intera nazione pagana la supremazia dell’Iddio Altissimo (cfr. con 3:28, 29). Infatti il nuovo decreto del re Dario, a somiglianza dell’editto di Nabucodonosor nell’episodio della fornace ardente (cfr. 3:29), ordina che si tema e si riverisca in tutto il regno l’Iddio di Daniele, sebbene a differenza di quello sia formulato in termini affermativi e soprattutto non abbia un tono brutale. Per l’intonazione lirica della seconda parte, l’editto Dario ricorda un altro proclama di Nabucodonosor, quello relativo al racconto del sogno dell’albero (cfr. 4:3). In questa parte del documento Dario riconosce nel Dio d’Israele “l’Iddio vivente” (vedi il commento del v. 20) e ne proclama l’eternità (“... sussiste in eterno”), l’intramontabile dominio (“il suo regno non sarà mai distrutto”) e il gran potere taumaturgico (“Egli libera e salva, opera segni e prodigi”) che si è manifestato nella liberazione di Daniele (“ha liberato Daniele dalle bocche dei leoni”). Questo non significa tuttavia, come si è notato a proposito del v. 16, che il re Dario si sia convertito all’Iddio d’Israele. In un ambiente pagano il fatto che si riconoscano gli attributi straordinari di una divinità straniera non implica affatto il rinnegamento degli dèi nazionali. 28 E questo Daniele prosperò sotto il regno di Dario, e sotto il regno

di Ciro, il Persiano. “Questo Daniele...” Nota C.F.KEIL216 che il pronome “questo” accentua l’identità del personaggio: colui che prospera è lo stesso Daniele che i nemici volevano mandare in rovina. Poiché un evento soprannaturale ne ha dimostrato l’innocenza, Daniele è subito reintegrato nelle funzioni pubbliche dalle quali era stato destituito a seguito della condanna. Così riassume in pieno l’incarico a cui il re lo aveva promosso e ne svolge con grande competenza e successo le mansioni (“prosperò”) sino alla fine del regno di Dario, che peraltro non deve essere stato lungo, e ancora sotto il regno di Ciro. Se Dario il Medo si identifica con Ugbaru il conquistatore di Babilonia, com’è assai verosimile (vedi il commento del v. 1), il suo regno durò poco più di un anno. Poiché 1:21 c’informa che l’attività pubblica di Daniele durò “fino al primo anno del re Ciro” (il primo anno come re di Babilonia, vedi il commento del v. 1), bisogna supporre che egli svolgesse tale attività per almeno due anni ancora dopo l’episodio qui narrato. Il suo successo durante questo periodo è visto implicitamente come premio per la fedeltà al suo Dio. Da 6:28 sappiamo che il profeta ricevette l’ultima rivelazione nell’anno terzo di Ciro, ma non si dice in quel passo che egli fosse tuttora in carica come ufficiale pubblico del regno di Babilonia. Col racconto della liberazione miracolosa di Daniele e della sua reintegrazione nelle mansioni di governo si chiude la sezione narrativa del libro ma non si interrompe l’uso della lingua aramaica. 216 - Citato da H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 274.

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Capitolo 7 ____________________________________________________

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ol capitolo sette comincia la sezione profetica del libro di Daniele, la quale si estende fino al capitolo dodici. La sezione precedente (capitoli 1-6) comprendeva una serie di sei racconti uno dei quali (il secondo, nel capitolo due) conteneva una rivelazione profetica. Nella serie dei racconti tre volte Daniele è stato interprete di messaggi del cielo inviati a uomini potenti (capitoli 2, 4 e 5). Nella seconda parte del libro egli stesso sarà il destinatario delle rivelazioni divine, mentre il ruolo di interprete sarà svolto da un angelo217 (cfr. 7:1,16; 8:2.16,17; 9:21,22; 10:1,14). Nella visione del capitolo due abbiamo visto uno schizzo profetico della storia del mondo da un punto di vista politico (il sogno profetico era stato dato a Nabucodonosor) e per un periodo che va dall’inizio del regno di Babilonia, fino alla fine del mondo. Nel capitolo sette abbiamo una visione data direttamente a Daniele che è assolutamente parallela a quella del capitolo due, nel senso che ripercorre, tramite l’ausilio di simboli diversi (adattati alla persona che la riceve), la stessa storia, le stesse tappe, ma con l’aggiunta di altri dettagli di carattere religiosi. Infatti il quadro della visione del capitolo 7 è ricco di maggiori dettagli che ci permettono di meglio capire l’interferenza di poteri umani politici e religiosi nella lotta contro il popolo di Dio. Nabucodonosor vede una statua fatta di metalli splendenti; ciò perché come re pagano egli è suscettibile all’influenza di cose facili atte a influenzare i sensi. Il re babilonese è abbagliato dal fasto delle ricchezze e vede le cose solo nella loro apparenza, il regno degli uomini è un metallo brillante e il regno di Dio una pietra insignificante. Daniele invece ha una visione più complessa in cui entrano in gioco le passioni che muovono i popoli. Egli come figlio di Dio può penetrare la realtà intima delle potenze del mondo senza Dio che non hanno nulla della dignità umana e che vengono per questo descritte per mezzo di simboliche bestie feroci. Daniele riceve questa visione quando il glorioso impero babilonese sta ormai avviandosi verso la fine.

217 - Appare spesso nella letteratura apocalittica una figura angelica (l’angelus interpres) che spiega e interpreta la profezia. L’angelus interpres richiamandosi esplicitamente al discernimento sapienziale proveniente da Dio, ricorda alla comunità cristiana il compito di propagatrice delle verità divine che le spetta. Infatti la figura angelica nell’apocalittica, quando è implicata a vari livelli e con diversi ruoli nel dinamismo della storia della salvezza, è un segno positivo. In questo caso l’angelo diventa un simbolo che esprime il rapporto fra la realtà umana e quella divina. L’angelo diventa l’entità celeste che mette in un rapporto particolare e diretto col trascendente.

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1 Nel primo anno di Belsatsar, re di Babilonia, Daniele fece un so-

gno, mentre era a letto, ed ebbe delle visioni nella sua mente. Poi scrisse il sogno, e narrò la sostanza delle cose. La visione è datata all’anno primo di Belsatsar218 “re di Babilonia”219 (re di fatto220; di diritto lo era suo padre Nabonide)221. Il primo anno della co-reggenza di Belzasar corrisponde al 549 a.C. Daniele introduce la sua relazione parlando di sé in terza persona (vv. .1 e 2a), poi passa alla prima persona (“io guardavo”) e prosegue così fino alla fine del capitolo. Il cambiamento di persona è un fenomeno letterario non infrequente negli scritti dei profeti (cfr. Is 2:1; 6:1; 8:1,2; Gr 11:1; 13:1; 17:19; 18:17; Ez 1:3,4; Os 1:1; 3:1; Am 1:1; 7:1; Za 1:7; 2:1 ecc...).

218 - raC$ a ):lb " Belshatsar era probabilmente il figlio di Nitocri, figlia di Nabucodonosor (Vedi R.P. DOUGHERTY, Nabonidus and Belshazzar, 1926). 219 - Una tavoletta con un’iscrizione cuneiforme che risale all’anno di accessione di Neriglissar sul trono babilonese, menziona un certo “Belshazzar, il principale funzionario del re”, in relazione a un’operazione finanziaria. Nel 1924 è stata pubblicata la decifrazione del testo cuneiforme detto Storia in versi di Nabonide, grazie al quale sono state portate alla luce preziose informazioni che avvalorarono senz’altro la posizione regale che Baldassar aveva a Babilonia e spiegano in che modo divenne corregente di Nabonide. A proposito della conquista di Tema da parte di Nabonide nel terzo anno del suo regno, parte del testo dice: “Egli affidò l’accampamento al [figlio] maggiore, il primogenito [Baldassar] le truppe ovunque nel paese sottopose al suo [comando]. Lasciò andare [ogni cosa], a lui affidò il regno e, lui stesso [Nabonide] partì per un lungo viaggio, e le forze [militari] di Akkad marciarono con lui; egli si volse verso Tema, [molto più ad ovest]” (J. B. PRITCHARD, Ancient Near Eastern Texts, 1974, p. 313). Nella Cronaca di Babilonia, a proposito del settimo, nono, dicimo e undicesimo anno del regno di Nabonide, viene ripetuta questa dichiarazione: “Il re [era] a Tema [mentre] il principe, gli ufficiali e il suo esercito [erano] in Akkad [Babilonia]” (A.K. GRAYSON, Assyrian and Babylonian Chronicles, 1975, p. 108). Un altro documento, una delle stele di Harran (NABON H1, B) il cui testo è stato pubblicato da J.C. GADD in Anatolian Studies, “The Harran Inscriptions of Nabonidus”, vol VIII, 1958, ci informa che Nabonide trascorse nell’Arabia, a Tema, 10 anni dei suoi 17 anni di regno. Quindi Baldassar esercitò senz’altro l’autorità regale dal terzo anno di Nabonide (549 a.C.) in poi, e questo avvenimento corrisponde al riferimento “primo anno di Baldassar” (Dan 7:1). 220 - Nel 1979 venne riportata alla luce una statua a grandezza naturale di un governatore dell’antica Gozan. Sul lembo della veste c’erano due iscrizioni, una in lingua assira, l’altra in aramaico: la lingua in cui Daniele scrisse di Baldassar. Le due iscrizioni quasi identiche differivano in un punto significativo. Il testo nella lingua imperiale assira dice che si tratta della statua del “governatore di Gozar”. Il testo in aramaico, la lingua della popolazione locale, lo definisce “re”. “Alla luce delle fonti babilonesi e delle nuove iscrizioni su questa statua, poteva essere del tutto appropriato per un documento non ufficiale come il Libro di Daniele chiamare Baldassar re. Agiva in qualità di re, in rappresentanza del padre, per quanto non fosse legalmente re. Infatti le iscrizioni ufficiali Baldassar ha il titolo di “principe ereditario”, mentre in Daniele ha il titolo di re. (ALAN MILLARD, Biblical Archaeology Review, maggio-giugno 1985, p. 77). 221 - Vedi Introduzione, IV.

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CAPITOLO 7

“Daniele... fece un sogno ed ebbe delle visioni”: le immagini viste durante il sonno notturno erano una rivelazione divina (y¢wzº x e chezwê, “visione”), pur avendo l’apparenza di un sogno comune ({elx" chelem). “...narrò la sostanza delle cose”. L’aramaico $)"r re’sh, letteralmente “capo”, “principio”, qui è usato nell’accezione secondaria di “somma”, “insieme di cose” (Gesenius)222. Daniele vuole dire che ha esposto la visione nelle sue linee essenziali tralasciando i particolari non indispensabili per la sua comprensione. 2 Daniele disse: Io guardavo, nella mia visione notturna, ed ecco sca-

tenarsi sul mar grande i quattro venti del cielo. “Io guardavo nella visione [yéwzº x e B : ty¢wh A h¢zx f ]”: la forma imperfetta del verbo aramaico h¢zx f “vedere” esprime un’azione continuata. L’attenzione del veggente è concentrata senza interruzione sulle immagini che scorrono nella sua mente. Daniele vede il mare agitarsi sotto l’impeto dei venti che soffiano simultaneamente dai quattro punti cardinali. Nella realtà non succede mai che il vento soffi nel medesimo tempo da direzioni diverse, ma non dobbiamo dimenticare che qui si tratta di una rivelazione profetica dove tutto ha valore simbolico. Il “mar grande” (aramaico )fBr a )fMyá yâmma’ rabba’) nel linguaggio ordinario degli ebrei antichi era il Mediterraneo, mare che per molto tempo e quasi fino al nostro periodo storico fu il centro geografico attorno al quale hanno gravitato i grandi imperi e sulle rive del quale le monarchie universali descritte da Daniele si sono sedute223. Ma nella visione apocalittica il “mar grande” riveste sostanzialmente valore simbolico e non geografico. Al “mare” della figurazione del v. 3 corrisponde nella spiegazione del v. 17 la “terra”. La terra non come entità geografica ma come mondo abitato, consorzio umano (cfr. Ap 17:15). Nella tradizione profetica ebraica e cristiana le “molte acque” sono simbolo di moltitudini (cfr. Ap 17:1,15). Geremia paragona al muggito del mare il clamore dell’esercito babilonese che marcia contro Gerusalemme (Gr 6:23); Ezechiele descrive con la figura del mare agitato il dilagare degli eserciti stranieri che devasteranno Tiro (Ez 26:3,19; vedi anche Is 8:7,8; Gr 46: 7,8; 47:2). Quindi il mare o le acque agitate nel linguaggio apocalittico sono il simbolo naturale della massa umana, specialmente dell’umanità pagana, nel seno della quale si formano i diversi imperi224. L’agitazione incessante del mare corrisponde allo stato di perenne irrequie-

222 - Gesenius’ Hebrew-Chaldee Lexicon to the Old Testament. p. 751. 223 - A. PELLEGRINI, Il popolo di Dio e l’anticristo attraverso i secoli, Minigraf, 1980, p. 167 224 - A. CRAMPON, Daniel, t. V, p. 685.

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tezza delle nazioni. Il fatto che le ‘quattro bestie’ sembrano sorgere dal mare indica chiaramente che dallo stato agitato del mondo hanno origine le potenze mondiali che compaiono l’una dopo l’altra sullo scenario del storia umana”225. L’espressione aramaica ()æYm a $ : y"xUr (aBr : ) a ) “i quattro venti del cielo” nel linguaggio biblico denota in generale le quattro direzioni dello spazio (anche universalità spaziale: cfr. Ez 37:9; Dn 8:8; 11:4; Za 6:5; Ap 7:1). Qui però si vuole alludere al vento come fenomeno fisico. Nei profeti il vento con senso metaforico indica la guerra: Geremia descrive come un vento impetuoso l’immi-nente invasione caldea (Gr 4:13; vedi anche Ez 13:12,13; 24:32,33). Nella visione danielica i “quattro venti del cielo” che si scatenano sul mar grande evocano non un singolo evento bellico, ma il flagello della guerra in generale che coinvolge popoli e nazioni e sconvolge l’assetto politico del mondo cancellando nazioni potenti e facendone sorgere di nuove226. 3 Quattro grandi bestie salirono dal mare, una diversa dall’altra.

Fin dall’antichità si è riconosciuto che il “sogno” del cap. 2 e la “visione” del cap. 7 sono rivelazioni parallele. Le quattro grandi bestie del cap. 7 sono il corrispettivo dei quattro metalli della statua. Colpisce il contrasto fra le due figurazioni parallele: un simulacro umano di grande splendore nell’una, una serie di bestie selvagge nell’altra. Si consideri che la prima rivelazione fu data a un monarca pagano, la seconda a un profeta dell’Altissimo. La statua di metalli pregiati rispecchia la concezione umana del potere (la concezione di Nabucodonosor); le bestie selvagge evocano il punto di vista di Dio: il potere raggiunto e mantenuto con l’uso della forza bruta, con l’inganno, con la sopraffazione è paragonabile al dominio delle belve nella foresta. Una belva come figura è quanto di più attinente per mettere a nudo l’anima vera del potere terreno.

225 - H.C. LEUPOLD, Exposition of Daniel, pp. 284, 285. 226 - I quattro venti del cielo che si precipitano sul gran mare, raffigurano le rivoluzioni politiche

che sollevano i popoli come le onde del mare (A. PELLEGRINI, op. cit., 167).

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Le bestie della visione danielica227 differiscono l’una dall’altra228 come differivano tra loro i metalli della grande statua: riflesso fedele della diversificazione geografica, etnica, politica, culturale dei regni che quelle belve e quei metalli raffiguravano. 4 La prima era simile a un leone, ed avea delle ali d’aquila. Io guar-

dai, finché non le furono strappate le ali; e fu sollevata da terra, fu fatta stare in piedi come un uomo, e le fu dato un cuor d’uomo. In natura queste bestie non esistono. Di loro viene detto che sono simili, ma non uguali. Sono degli animali particolari perché rispetto agli animali del nostro mondo che uccidono per mangiare, essi uccidono per uccidere, non mangiano per vivere, ma vivono per mangiare. Essi raffigurano il potere umano separato da Dio. “La prima era come un leone” (aramaico h¢y :ra)k: ke’aryeh), cioè somigliante a un leone. Il parallelismo tra i capitoli 2 e 7 consente, anzi obbliga a identificare Babilonia nel grande leone alato. A un leone che balza sulla preda Geremia pa-

227 - Le bestie rappresentano dei re e una successione di re o, in altri termini delle dominazioni, dei regimi, dei regni o degli imperi idolatri, opposti o indifferenti al regno di Dio. Questi imperi sono rappresentati sotto l’immagine di bestie, per far notare che le passioni ne sono il principale movente. È da rivelare che queste bestie indicano le sovranità o monarchie universali. Daniele le considera tanto nel loro capo quanto nell’insieme dei loro successori. In tal modo, le quattro bestie rappresentano quattro re e la serie dei re, che continuano la loro dominazione o il loro regno. Chiaramente nel testo di Dn 7:17, le bestie indicano dei re. L’interprete della visione dice a Daniele: “Queste quattro grandi bestie sono quattro re [malkin]”. Ma le traduzioni antiche o moderne hanno tradotto per “quattro regni”. Esse hanno compreso, in effetti, che si tratta qui, non solamente di un individuo, ma della serie dei re che si riallacciano a lui. È così che l’angelo ci fa comprendere che, con la parola “re”, intende il seguito dei successori di questi regni: “La quarta bestia è un quarto regno” (Dn 7:23). Le bestie rappresentano dunque, non solamente il primo re indicato dalla visione, ma anche successivamente dagli altri re. Ogni regno è così rappresentato come una unica bestia, sebbene comprenda più persone diverse, poiché tutte queste persone sono considerate come membri di uno stesso corpo, che concorrono a una specie di unità, mossi da uno stesso spirito, per uno stesso regime nazionale (J. FABRE D’ENVIEU, Le livre du prophète Daniel, Paris 1880, t. II, p. 565). “In queste profezie, il re rappresenta il regno, e il regno è concentrato nel re” (PUSEY, Lectures on Daniel, p. 78). 228 - La differenza di queste bestie non consiste nel grado di potere che è loro accordato, - poiché tutte simboleggiono delle monarchie universali, - bensì nel carattere della loro potenza. Come ogni bestia ha la sua organizzazione e le sue caratteristiche proprie, così ognuno di questi imperi ha uno spirito e un modo di agire particolare (Bible Annotée, Ancien Testament, Les prophètes, t. II, Daniel, p. 285). Ognuna di questi imperi universali ha i suoi tratti distintivi: c’è la regale Babilonia e la Persia voluttuosa. la Grecia colta e Roma imperiale e vittoriosa (H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 286).

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ragona i Caldei che stanno per aggredire il regno di Giuda (Gr 4:7). La figura del leone apparteneva all’iconografia ufficiale babilonese. Il leone, insieme col toro e il drago, era riprodotto a sbalzo 575 volte sui mattoni smaltati che ricoprivano le strutture murarie della splendida porta di Ishtar in Babilonia229. Il leone della visione danielica aveva due ali d’aquila sul dorso. Il re della foresta e la regina delle vette inviolate riuniti in un unico simbolo rappresentano la regalità di Babilonia con la stessa efficacia dell’oro230, il re dei metalli, nella visione parallela del cap. 2. Le ali evocano anche la rapidità con cui Nabucodonosor avrebbe esteso l’egemonia di Babilonia verso ovest e verso sud231. La perdita delle ali e l’umanizzazione del leone232 (la belva si rizza sulle zampe posteriori o meglio fu sollevata da terra e fu fatta stare in piede come un uomo, e riceve un cuore umano) possono simbolizzano la decadenza dell’impero babilonese dopo la morte di Nabucodonosor233. Anche se al tempo in cui Daniele scrive, la monarchia babilonese era già apparsa ed era giunta alla sua fine; lo scrittore sacro si esprime ugualmente al futuro a causa delle altre tre, che appariranno in avvenire (vedi Dn 7:3)234.

229 - Cfr. C.J. DU RY, L’arte nell’Antico Oriente, Firenze 1965, p. 113 230 - Il leone è il più nobile degli animali selvatici e l’aquila il più nobile degli uccelli: queste ca-

ratteristiche ricordano l’immagine della testa d’oro, il più nobile dei metalli, immagine applicata espressamente a Nanucodonosor (A. CRAMPON, op. cit., p. 686). 231 - Simile all’aquila che trasporta lontano la sua preda, Babilonia planava sulle popolazioni. S’abbatteva come dall’alto delle nuvole sulle loro città più forti, e quando le aveva prese era contemporaneamente un’aquila e un leone sulla sua preda. L’esercito babilonese portava via dalle città conquistate tutto ciò che era possibile trasportare quello che non poteva essere trasferito nelle città babilonesi veniva distrutto. 232 - Queste ali d’aquila che vengono strappate, indicano un atto violento, col quale si suole designare il periodo in cui Nabucodonosor cessò le sue conquiste per darsi alle arti e alla pace, dando al suo regno un carattere più umano. Il cuore d’uomo raffigura il cambiamento religioso che si operò in lui negli ultimi anni del suo regno nel riconoscere la sovranità del Dio d’Israele (Dn 4:16, 34; 3:28-29). 233 - Le ali che vengono strappate e l’offerta del cuore simile a quello di un uomo possono riferirsi anche agli ultimi anni dell’impero babilonese, indebolito e cadente sotto i colpi dei MedoPersiani; non è più un leone vigoroso, né un aquila rapida che tocca appena terra, ma l’uomo debole e mortale, incapace di difendersi contro la seconda bestia (A. CRAMPON, op. cit., p. 686). Già da quando Nabucodonosor fu tolto dalla scena, prima con la sua malattia mentale e poi con la morte che lo seguì da vicino, i suoi eserciti cessarono di volare come aquile; essi subbirono sconfitte una dopo l’altra e le sue conquiste gli vennero rapite una dopo l’altra (LOUIS GAUSSEN, Daniel le Prophète, t. II, Paris 1848, p. 30-31). 234 - Vedi A. CRAMPON, op. cit., p. 689.

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5 Poi vidi una seconda bestia, simile ad un orso; essa stava eretta

sopra un fianco, teneva tre costole in bocca fra i denti e le fu detto: “Alzati, mangia molta carne!” La locuzione aramaica wa’arû chêwah ‘acharî tinyanah [hænyæ nº t i yirx F ) f hæwy"x UrA)wá ] è resa correttamente da un buon numero di versioni: “Ed ecco un’altra bestia, una seconda”. L’espressione sottolinea la differenza della seconda bestia rispetto alla prima. Il secondo regno dovrà differire tanto dal primo quanto l’orso differisce dal leone. Le formule di transizione usate tra una bestia e l’altra chiariscono che queste sono consecutive e non contemporanee. Alcuni espositori moderni vedono nell’orso con le tre costole in bocca, un simbolo del regno di Media. L’esegesi conservatrice vi ha ravvisato unanimemente l’Impero medo-persiano235. Questa identificazione è corretta storicamente ed esegeticamente perché: (1) furono i Medo-Persiani ad abbattere l’impero neo-babilonese e a prenderne il posto236; (2) il contrasto fra le due figure animalesche esprime bene la differenza tra i Medo-Persiani e i Babilonesi. La figura massiccia, l’aspetto rude e selvaggio, la voracità insaziabile dell’orso sono caratteristiche che si adattano bene a raffigurare la rude cultura iranica237, la mole elefantiaca dell’Impero medo-persiano, le guerre continue di Ciro II, Cambise II, Dario I e Serse I per accrescere la grandezza dell’impero e dei loro successori per mantenerla.

235 - L’orso animale tozzo, lento nei movimenti e di grande ferocia rappresenta bene l’Impero

Medo-Persiano che corrisponde, nella statua, al petto e alle braccia d’argento (A PELLEGRRINI, op. cit., p. 169). 236 - Gli imperi universali vengono presi in considerazione solo a partire dal momento in cui conquistano il precedente. Per questo datiamo la Medo-Persia dal 539/38 (presa di Babilonia) al 331 a.C. (anno in cui fu annessa all’impero di Alessadro Magno): 207 anni in tutto. 237 - Gli storici dicono che i Persiani furono i più barbari di tutti i popoli conquistatori. Nulla caratterizza meglio la nazione persiana delle sue leggi criminali. Esse si distinguevano per la crudeltà delle pene: i colpevoli erano scorticati e seppelliti vivi. C’era più crudeltà ancora nelle mutilazioni che i Persiani si compiacevano d’infliggere. Il persiano Ciro che, secondo la testimonianza di Senofonte, aveva tutte le virtù di un grande re, esercitava la giustizia con tale zelo che - narra sempre lo storico greco - le grandi strade erano affollate d’uomini mutilati nei piedi, nelle mani, agli occhi. Dopo la presa di Babilonia, Dario fece mettere in croce tremila abitanti tra i più distinti della città. Serse sorpassò Dario in crudeltà. Seneca riporta che un re persiano fece tagliare il naso a tutto un popolo (E. LAURENT, Histoire du Droit des gens, t. I, p. 176).

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Per contro il portamento nobile e maestoso del leone, la sua snellezza e agilità, la sua dieta regolare evocano realisticamente la maestosità di Babilonia, lo splendore della sua cultura, la snella configurazione territoriale dell’Impero caldeo, la relativamente breve stagione guerresca di Nabucodonosor II nel corso della quale praticamente si formò e si consolidò l’Impero neo-babilonese. L’orso si “rizzava sopra un lato” o “aveva un lato più alto”. Questa immagine indica sicuramente la componente etnica persiana che aveva un ruolo preponderante rispetto a quella meda. Infatti, come vedremo al capitolo otto di Daniele, lo stesso impero viene raffigurato da un montone avente un corno più alto dell’altro: l’analogia è evidente238. L’esegesi storica di Daniele ha generalmente ravvisato, nelle tre costole che l’orso stringe fra i denti, le tre maggiori conquiste dei primi regnanti achemenidi: il regno di Lidia annesso da Ciro II nel 457 a.C., l’Impero di Babilonia conquistato ancora da Ciro II nel 539 a.C. e il regno d’Egitto occupato da suo figlio Cambise II nel 525 a.C.239 L’ordine “alzati”, non deve far concludere che l’animale fosse accovacciato, poiché usciva proprio in quel momento dal mare. Questa apostrofe ha il senso di “Andiamo! Avanti!” (vedi Gd 8:20). Mangia molta carne! è l’emblema dell’avidità, tipica dell’orso, con la quale questo secondo impero si impossesserà delle ricchezze dei popoli conquistati. L’ordine significa: “Compi il tuo ruolo nella storia! Nessun ostacolo ti arresta!”240. Mentre i Caldei trasportavano lontano i popoli vinti, i Medo-Persiani senza toglierli dalle loro terre, li calpestavano sotto i piedi, dimostrando grande crudeltà nella loro guerra. Per un certo numero di esegeti moderni l’Orso rappresenta la potenza meda e la terza bestia (il leopardo alato) quella persiana. Questa spiegazione urta contro la realtà storica e del testo biblico241.

238 - Uno, il lato medo, resta a riposo; l’altro, il lato persiano, si alza e diventa più alto del primo (A. CRAMPON, op. cit., p. 686). 239 - Le tre costole in bocca rappresentano le conquiste della parte occidentale, della parte settentrionale e della parte meridionale (Bible Annotée, op. cit., t. II, p. 286). 240 - Idem. 241 - Inoltre, non si capisce in quali particolari l’orso corrisponderebbe alle caratteristiche del popolo medo: perchè esso dovrebbe avere un lato più alto dell’altro, perchè le tre costole in bocca, dal momento che le conquiste sopra elencate furono compiute insieme ai Persiani. Di conseguenza, in che modo il leopardo a quattro teste e quattro ali rappresenterebbe i Persiani, mentre sembra così bene adattarsi all’impero Greco-Macedone (anche in analogia con il capitolo 8 di Daniele). E dove andrebbero a finire i Romani, dal momento che il mostro seguente dovrebbe rappresentare i Greci?!...

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La storia biblica non conosce che un impero medo-persiano unico. I Medi più civilizzati giocarono un ruolo di primo piano finché, più tardi, i Persiani non ebbero un ruolo di preminenza e furono descritti come predominanti. Il Libro di Daniele insiste a varie riprese nel presentare questo impero come unico. Al re Baldassar Daniele annuncia che il regno di Babilonia viene dato ai “Medi e ai Persiani” (Dn 5:28), l’angelo dice al profeta: “il montone che hai veduto, rappresenta il re di Madia e di Persia” (Dn 8:20). Dario il medo promulga un decreto conformemente alla “legge dei Medi e dei Persiani” (Dn 6:8, 12, 15). Ai tempi della regina Ester, sebbene la dinastia fosse ormai persiana, si parla ancora delle “cronache dei re di Media e di Persia” (Et. 10:2) mantenendo l’antico titolo che poneva i Medi al primo posto secondo l’ordine storico. Nelle varie iscrizioni di Dario Istarpe i Persiani e i Medi vi sono menzionati come due popoli uniti in un solo popolo: “L’armata dei Persiani e dei Medi che erano con me”, “io inviai una armata di Persiani e di Medi”, “nessun uomo, né Persiano né Medo, l’avrebbe spodestato242. 6 Dopo questo, io guardavo, ed eccone un’altra simile ad un leo-

pardo, che aveva addosso quattro ali d’uccello; questa bestia aveva quattro teste, e le fu dato il dominio. Il contrasto tra il leopardo e l’orso è ancora più forte che tra l’orso e il leone. La velocità e l’agilità del leopardo suggeriscono che il terzo impero universale243 doveva crescere più rapidamente del secondo244. Le quattro ali sul dorso dell’animale (il doppio rispetto al leone) accentuano questa impressione. Ci vollero 35 anni di guerre e l’impegno militare di tre regnanti (Ciro II, Cambise II e Dario I) perché l’Impero Medo-Persiano giungesse alla sua massima estensione territoriale. Ai Macedoni, che si celano sotto il simbolo del leopardo, bastarono 11 anni

242 - Cit. da J. FABRE D’ENVIEU, op. cit:, t. II, p. 645. 243 - La durata dell’impero greco-macedone è di meno di due secoli (163 anni per la preci-

sione): dal 331 al 168 a.C., anno in cui il suo territorio viene conquistato dai Romani. 244 - Il terzo animale rappresenta il regno greco-macedone che conquistò il mondo antico con una rapidità eccezionale. La velocità del felino è rafforzata da quella delle ali d’uccello che sono ben quattro. Già Teodoreto faceva notare che la visione designa il regno macedone che, soprattutto al tempo di Alessandro il Grande, suo massimo esponente, si poteva paragonare ad un leopardo a causa della sua prontezza, della sua rapidità, della mobilità del suo carattere e delle sue passioni.

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e la leadership di un solo capo, Alessandro245, per costruire l’impero più vasto che fosse mai esistito nella storia. L’identificazione del leopardo con l’Impero macedone è quella che ha raccolto il più gran numero di consensi, dai tempi dei primi espositori cristiani di Daniele fino ai nostri giorni. L’espressione: “le fu dato il dominio” sottolinea la sconfinata estensione dell’Impero di Alessandro. Le quattro teste246 sul corpo del leopardo anticipano la durata effimera dell’Impero greco-macedone. Ventidue anni dopo la morte del suo fondatore, l’impero si frazionò in quattro monarchie indipendenti, due di effimera durata (i regni di Macedonia e di Tracia) e due assai più longevi (i regni di Siria e d’Egitto rispettivamente sotto i Seleucidi e i Tolomei). 7 Dopo questo, io guardavo, nelle visione notturne, ed ecco una

quarta bestia spaventevole, terribile e straordinariamente forte; aveva dei denti grandi, di ferro; divorava e sbranava, e calpestava il resto coi piedi; era diversa da tutte le bestie che l’avevano preceduta, e aveva dieci corna. Gran parte dell’esegesi moderna di Daniele scorge in questo mostro senza nome

245 - Alessandro, come il felino che lo designa, era senza posa, inquieto, agitato, intrattabile, insoddisfatto; e questo carattere si è trovato in quasi tutti i suoi successori. Non aveva ancora 21 anni quando tutti gli Stati della Grecia lo nominarono generale dei Greci, per attaccare il potente impero dei Medo-Persiani. Nell’anno successivo passa in Asia e rovescia tutto sul suo cammino, marcia, o piuttosto vola come una tempesta; la potente Tiro è bruciata; Gaza è annientata; l’Egitto è conquistato in qualche settimana; Babilonia cade in mano sua: in cinque anni di guerra rapida e vittoriosa come non si vide mai, questo giovane principe, appena all’età di 26 anni, sale sul trono di Nabucodonosor e di Ciro, si vede monarca del mondo e si fa chiamare “il padrone della terra e del mare”. 246 - Alessandro muore giovane, a trent’anni circa, prima di riuscire ad organizzare il suo vasto impero. Sul letto di morte, aveva detto ai suoi generali che gli avrebbero preparato dei funerali sanguinosi. Infatti, vent’anni dopo, le sue conquiste furono divise fra i suoi quattro generali: Seleuco, Cassandro, Tolomeo e Lisimaco, che avevano trucidato tutti i suoi legittimi discendenti. Questi quattro regni che si formarono furono quelli di Macedonia, Tracia, Egitto e Siria. Ecco che cosa stavano a significare le quattro teste del leopardo: una divisione del territorio geografico del regno greco-macedone. Questa interpretazione è certa, anche perché assolutamente analoga alla rappresentazione che, al cap. 8 di Daniele, si fa dello stesso impero. Qui esso è simboleggiato da un caprone avente un grande corno fra gli occhi che poi si spezzerà e verrà rimpiazzato da altre quattro corna. É l’angelo stesso a spiegare al profeta Daniele che si tratta di una divisione dell’ impero in quattro regni distinti, aventi però minore potenza di prima (Dn 8:5-8,21,22).

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un simbolo del regno ellenistico della Siria247. Discordanze macroscopiche col testo danielico, in parte già segnalate e che qui completiamo, rendono problematica questa identificazione. (1) La Siria dei Seleucidi è stata già prefigurata con una delle quattro teste del leopardo. (2) Il carattere universale della quarta monarchia è espressamente sottolineato nel testo: “...divorerà tutta la terra” (v. 23). Il regno dei Seleucidi fu soltanto una frazione dell’Impero macedone. Alessandro, e prima di lui i re di Persia e di Babilonia, esercitarono un dominio universale, i Seleucidi mai. (3) Il testo danielico differenzia espressamente le bestie-simbolo l’una dall’altra: “...una diversa dall’altra” (v. 3). Marcate differenze etniche, linguistiche, politiche e culturali distinsero fra loro i Babilonesi, i Persiani e i Macedoni. Il regno dei Seleucidi fu un prolungamento ridotto dell’Impero macedone del quale condivise la lingua, la cultura e l’appartenenza etnica dei suoi dinasti. La diversità della quarta bestia è enfatizzata con insistenza nel testo: “era diversa da tutte le bestie che l’avevano preceduta” (v. 7); “...era diversa da tutte le altre...” (v. 19); “...un quarto regno ... che differirà da tutti i regni” (v. 23). (4) Le formule di transizione tra una bestia e l’altra nei vv. 4-7 presuppongono un distacco netto tra i regni che quelle bestie rappresentano: “ed ecco un’altra bestia...” (v. 5); “dopo questo...eccone un’altra” (v. 6); “dopo questo... ecco una quarta bestia...” (v. 7). Questo modo di rapportare i regni fra loro suggerisce che ognuno di essi debba sorgere dopo che il precedente sia caduto. I regni ellenistici, di cui uno fu la Siria dei Seleucidi, non succedettero all’Impero macedone, ne furono la naturale continuazione. (5) Gli aggettivi e i verbi che descrivono l’aspetto e l’attività della quarta bestia (“spaventevole”, “terribile”, “straordinariamente forte”, “divorava”, “sbranava”, “calpestava”), evocano una potenza politica e militare formidabile e invincibile quale non fu storicamente la Siria dei Seleucidi (cfr. il commento a 2:39-40). (6) L’identificazione del regno di Siria nella quarta bestia è una forzatura a cui obbliga l’aprioristica identificazione di Antioco Epifane nell’undicesimo corno di quella bestia.

247 - Cfr. E. TESTA, “Daniele” in Il messaggio della salvezza a cura di G. CANFORA - P. ROSSANO - S. ZEDDA, Torino-Leumann, 1965-69, vol. III, nota 7 alle pp. 142-143; C. SCHEDL, Storia del Vecchio Testamento, Roma, 1959-66, vol. IV, p. 75; G. RINALDI, Daniele, Torino 1962, p. 111; G. BERNINI, Daniele, Roma 1976, p. 215

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L’esegesi antica di Daniele, sia ebraica che cristiana, ha riconosciuto unanimemente l’Impero romano nel mostro indefinibile di Dn 7:7-8248. “Nel quarto regno la massima parte dell’esegesi ha riconosciuto l’impero romano, a cominciare dall’autore dell’apocrifo 4 Ed 12,10 ss (sec. I d.C.)249. In effetti si può affermare che Dn 7:7,23 fotografa l’Impero romano. (1) La quarta bestia è una delle quattro grandi bestie (vv. 3 e 17). L’imponenza del mostro risponde alla dimensione mondiale dello stato romano nell’età imperiale. (2) La diversificazione della quarta bestia sottolineata con insistenza ha riscontro nei caratteri peculiari della stirpe e della civiltà romana. Diversa fu l’indole dei latini rispetto ai Greci e agli asiatici, diverse furono le strutture di governo dei Romani, diverse le loro strategie militari, diversa la loro struttura politica, diversa l’organizzazione amministrativa dell’Impero (si noti che Alessandro aveva improntato a quelle dei Persiani le strutture di governo e l’organizzazione amministrativa del suo impero mentre i Romani mantennero le loro proprie strutture di governo e amministrative). (3) All’entrata in scena della quarta bestia dopo l’uscita del leopardo, risponde bene, storicamente, l’affermarsi di Roma nel Vicino Oriente dopo che essa ebbe “fagocitato” ad uno ad uno i regni ellenistici eredi dell’Impero di Alessandro. (4) L’aspetto aggressivo della quarta belva, la sua forza, la sua voracità e ferocia, la sua tracotanza evocano adeguatamente l’indole guerriera dei Romani, la loro indomabile volontà di dominio, la potenza delle loro legioni, la durezza verso i nemici sconfitti (“guai ai vinti !”): mai nel mondo si erano visti tanti schiavi come nell’età imperiale romana. Le 10 corna sulla testa della mostruosa creatura sono l’equivalente delle 10 dita in cui si suddividono i piedi della statua nel cap. 2. Le corna sono interpretate come “dieci re che sorgeranno da questo regno” (v. 24). I moderni identificano nelle 10 corna 10 sovrani seleucidi e nell’undicesimo Antioco Epifane. Su questa interpretazione torneremo più avanti. Nei capitoli 7 e 8 di Daniele sia le bestie che le corna appaiono ora come simboli di “re” (vedi 7:17,24), ora come simboli di “regni” (vedi 7:23; 8:32). In Dn 7:19 e 23, 2:39 e 8:21 il termine “re”, o un pronome personale che sta per esso, sono adoperati al posto del termine “regno”. “Dieci re” in 7:24, come mostra la struttura grammaticale della frase, va in-

248 - Cfr. A. WIKENHAUSER, L’Apocalisse di Giovanni, Brescia 1968, nota 6 alle pp. 150-151; vedi

pure Introduzione, III, 1, 2. 249- G. RINALDI, op.cit., nota VI, p. 113.

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teso in senso collettivo (“regni”) e non in senso individuale. Il testo dice: “Le dieci corna sono dieci re che sorgeranno da questo regno” (v. 24). La preposizione aramaica min, come la corrispondente preposizione italiana “da”, denota derivazione. Da uno stato unitario che si fraziona derivano stati minori, non regnanti. Quando Daniele vuole riferirsi al sorgere di regnanti individuali in una nazione, usa una preposizione aramaica diversa da min, come in Dn 11:2: “Ecco, sorgeranno ancora in Persia tre re” (“in”, aramaico le). Con una schiera numerosa di espositori antichi e moderni250, l’esegesi avventista sostiene che le 10 corna, alla stregua delle 10 dita nel cap. 2, rappresentano i regni romano-barbarici che s’instaurarono nei territori dell’Impero latino quando venne meno la sua unità nel V secolo (vedi commento a 2:41-43). 8 Io esaminavo quelle corna, ed ecco un altro piccolo corno spuntò

tra quelle, e tre delle prime corna furono divelte dinanzi ad esso; ed ecco che quel corno avea degli occhi simili a occhi d’uomo, e una bocca che proferiva grandi cose. Un fatto nuovo cattura l’attenzione di Daniele mentre osserva le 10 corna: fra di esse ne spunta un undicesimo. Il nuovo corno cresce rapidamente e si fa spazio fra le altre abbattendone tre. Presto il veggente si accorge che questo corno è diverso dalle altre, ha qualcosa di umano: ha occhi e bocca. E dalla bocca gli escono “parole grandi”. 9 Io continuai a guardare fino al momento in cui furon collocati de’

troni, e un vegliardo s’assise. La sua veste era bianca come la neve, e i capelli del suo capo eran come lana pura; fiamme di fuoco erano il suo trono e le ruote d’esso erano fuoco ardente. 10 Un fiume di fuoco sgorgava e scendeva dalla sua presenza; mille migliaia lo servivano, e diecimila miriadi gli stavan davanti. Il giudizio si tenne, e i libri furono aperti. Lo scenario cambia repentinamente. Un quadro di dimensione cosmica sovrasta e fa impallidire la figura del mostro dalle 10 corna col “piccolo corno” cresciuto che proferisce cose inaudite. Daniele adesso vede “l’aula giudiziaria” del tribunale di Dio nella quale vengono collocati innumerevoli “troni” (aramaico korse’). Il vocabolo aramaico indica un seggio speciale che era riservato a personaggi di riguardo e per circostanze eccezionali (H.C. Leupold).

250 - Vedi Introduzione, III

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Sullo scanno centrale prende posto il Giudice dell’universo che Daniele descrive come un “vegliardo” (aramaico }yimOy qyiT(a ’attîq yomîn, letteralmente “un antico di giorni”). Il candore dei capelli (“come lana pura”) è indice di età veneranda. Non è una descrizione letterale della Maestà del cielo, ma una sua figurazione antropomorfica. Nessun occhio umano ha mai visto Dio nella realtà (1Tm 6:16; Gn 6:46; Es 33:20). Il biancore niveo delle vesti è simbolo di purezza, quindi di equità assoluta. Il “trono” sul quale siede l’”antico di giorni” è composto di sostanza eterea: “fiamme di fuoco” (Leupold). Le “ruote” (cfr. Ez 1:16,26) evocano l’idea di movimento rapido e cotinuo, quindi di onnipresenza e onniveggenza (in Ez 1:18 le “ruote” del trono di Dio sono “piene di occhi”). Lo splendore insostenibile che irradia dalla maestosa Figura centrale è descritto dal profeta come un accecante torrente di fuoco. Daniele non identifica la moltitudine di esseri che stanno davanti all’ìantico di giorni”, ma è chiaro che questi esseri sono angeli. Delle due cifre “mille migliaia” (}yipl : ) a vel) e ’elef ‘alfîn) e “diecimila miriadi” (}fw: br i OBir ribbô rivwan), la seconda sembra voler rettificare la prima stimata al di sotto della realtà, oppure si tratta semplicemente di parallelismo poetico. Gli angeli stanno in presenza dell’Onnipotente pronti ad eseguire i suoi ordini. “Il giudizio si tenne e i libri furono aperti” (così la versione Riveduta). L’aramaico UxyitP: }yirp: si wº bityº )æ nyiD dinâ’ yetîv wesifrîn petîchîn è resa dalla versione TOB: “ La corte sedette e i libri furono aperti” (lo stesso G. Rinaldi). Questa traduzione è migliore: ddinâ’ è un pronome dimostrativo (“questi”, “costoro”), e yetîv è un verbo che significa “sedettero”. Il testo descrive precisamente una grande assise giudiziaria nella quale gli angeli fungono insieme da testimoni e da giurati251. Quello che descrive Daniele in questo punto è il giudizio che precede il secondo avvento di Cristo, ovvero la prima fase del giudizio finale, la quale per gli eletti di Dio costituirà un’azione liberatoria. La seconda fase sarà rappresentata dal giudizio esecutivo il quale avrà per oggetto la punizione dei reprobi252. Quando siede la corte i libri si aprono (una scena analoga è descritta in Apocalisse 20:12 dove pure si dice: “ed i libri furono aperti”). Le Scritture alludono a tre libri celesti nei quali sono accuratamente registrati i nomi e le azioni degli uomini: 1) Il libro della vita, dove sono scritti i nomi degli eletti di Dio (Es 32:32; Sl 69:28). Nel libro della vita resteranno scritti i nomi degli eletti che avranno perseverato fino alla fine (Ap 3:5). I nomi degli eletti che avranno apostatato saranno cancellati e la sorte di costoro sarà “lo stagno di fuoco” (Ap 20:15).

251 - Cfr. S.D.A.B.C., IV, p. 828. 252 - Cfr. S.D.A.B.C., ibidem.

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2) Il libro delle memorie, nel quale sono registrate con cura le azioni giuste dei santi (Ml 3:16), ovvero le opere della fede (Ga 5:6). 3) Il libro della morte, sul quale sono riportate le opere malvage degli uomini che si chiusero all’appello di Dio. Questo “libro” è presupposto in Ap 20:12 dove il giudizio e la sorte finale degli uomini sono fatti dipendere “dalle cose scritte nei libri” in base alle loro azioni. Poiché il destino finale degli uomini sarà la vita eterna o la morte eterna (cfr. Dn 12:2; Mt 25:46; Gn 5:28,29; Rm 2:6-8), i “libri” debbono contenere le memorie delle opere giuste dei santi (il libro delle memorie) e il ricordo delle azioni perverse dei ribelli (il libro della morte) I libri celesti non debbono essere immaginati come oggetti materiali253.. 11 Allora io guardai a motivo delle parole orgogliose che il corno

proferiva; guardai, finché la bestia non fu uccisa, e il suo corpo distrutto, gettato nel fuoco per esser arso. 12 Quanto alle altre bestie, il dominio fu loro tolto; ma fu loro concesso un prolungamento di vita per un tempo determinato. A metà dell’interludio celeste si apre una parentesi. Lo sguardo del veggente ritorna sullo scenario terreno, dove si svolge l’atto finale del dramma cominciato con l’uscita delle bestie dal mare agitato. Echeggiano ancora, nelle orecchie di Daniele, le parole arroganti proferite dal “piccolo corno” e sono esse che lo spingono a rivolgere di nuovo lo sguardo verso quella figura nefanda. “Guardai finché...” (aramaico da( ty¢wh A hawêth ‘ad): questa frase presuppone una continuazione dell’azione riferita precedentemente, ossia del parlare tracotante del corno. Probabilmente, Daniele ha visto anche l’attività devastante del corno descritta nel v. 25 e può avere omesso di menzionarla volendo subito mostrare l’intervento risolutivo della giustizia divina. Il corno agisce e la bestia viene punita. Evidentemente c’è una solidarietà organica fra i due per cui la distruzione dell’una comporta quella dell’altro. La bestia incarna più specificamente il potere secolare ostile a Dio ed al suo popolo, il corno rappresenta un’entità politico-ecclesiastica. L’incenerimento della bestia con le sue corna, compreso l’undicesimo, richiama l’attenzione sull’annientamento radicale e definitivo del sistema di potere che questi simboli rappresentano (Ap 19:20). E’ lo stesso sistema che Paolo in 2Te 2:3-4 designa con le espressioni “l’uomo del peccato”, “il figlio della perdizione”, “ l’avversario”; è l’Anticristo che il Signore Gesù annienterà alla sua ve253 - Sui libri celesti vedi S.D.A.B.C., ibidem, p. 329; E.G.WHITE, The Great Controversy, pp. 480-481.

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nuta (2Te 2:8). Anche Giovanni predice la distruzione di questo sistema mediante il fuoco (Ap 19:20), e d’accordo con Paolo la associa alla seconda venuta di Cristo (vv. 11-16). La quarta bestia dunque è annientata nel giudizio finale. E delle altre che ne sarà? Con una rapida proiezione retrospettiva Daniele le rintraccia e nota che ad esse è stato dato di sopravvivere per un certo tempo dopo che hanno perso il dominio. Difatti se gli imperi di Babilonia, di Medo-Persia e di Macedonia scomparvero l’uno dopo l’altro, non scomparvero i popoli che ad essi avevano dato vita: i Babilonesi, i Persiani ed i Greci continuarono ad esistere ciascuno con la propria lingua, le proprie tradizioni, la propria cultura, dopo il tramonto dell’entità politica dentro la quale erano vissuti. Per Roma fu diverso. Ad essa non succedette un quinto impero universale. Roma, sia pure sotto una forma diversa, ha continuato e continua a imperare. 13 Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del

cielo uno simile a un figliuol d’uomo; egli giunse fino al vegliardo, e fu fatto accostare a lui. 14 E gli furon dati dominio, gloria e regno, perché tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue lo servissero; il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno, un regno che non sarà distrutto. “Io guardavo nelle visioni notturne...” Questa formula nelle visioni apocalittiche introduce un cambiamento di scena. La “parentesi” terrena si è chiusa, si apre di nuovo lo scenario celeste e appare un quadro diverso dal precedente: “...ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figliol d’uomo” (aramaico $æn) E rabK: kevar ‘enash, letteralmente “come un figlio d’uomo”). Gli espositori della scuola storica sono unanimi nell’identificare in questa figura celeste dall’aspetto umano il Figlio di Dio. L’espressione “un figlio d’uomo” è indeterminata. Il S.D.A.B.C. (vol. IV, p. 829) osserva che l’aramaico, alla stregua di altre lingue antiche, omette l’articolo davanti al nome quando l’enfasi è posta sulla qualità, e lo adopera quando si vuole sottolineare l’identità. Su questa enfatizzazione differenziata il Commentario avventista offre vari esempi: “ quattro bestie” in Dn 7:3, “tutte le bestie” nel v. 7; “un antico di giorni” (7:9), “ l’antico di giorni” nei verss. 13 e 22. Se la figura che viene sulle nuvole fosse stata nominata una seconda volta, probabilmente sarebbe comparsa preceduta dall’articolo. “... ecco venire sulle nuvole del cielo...”. Nell’Antico Testamento le nuvole sono spesso collegate alla presenza divina (Es 13:21; 14:24; 16:10; Le 16:2; Sl 97:2; 104:3). Nel Nuovo Testamento la nuvola è associata al Cristo glorificato in terra (Mt 17:5; At 1:8) e più sovente al Cristo che viene dal cielo (Mt 21:27; 26:64; Mr 169

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13:26; 1Te 4:17; Ap 1:7; 14:4). In Dn 7:13 il simile a un figlio d’uomo non discende sulla terra, si ferma presso l’Antico di giorni. Non si descrive qui, dunque, il secondo avvento di Cristo, ma la sua investitura regale al termine del ministero sacerdotale nel santuario del cielo (Eb 9: 11,12). Questo evento celeste si compirà tra la fine del giudizio pre-avvento descritto in Dn 7:9-10 e il giudizio esecutivo quando Cristo tornerà “per rendere a ciascuno secondo l’opera sua” (Mt 16:27; Rm 16:6). Il dominio di cui sarà investito il Figlio di Dio tra le due fasi del giudizio sarà un dominio universale (“tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue” lo serviranno) e la sua signoria sarà eterna (il suo regno sarà “un regno che non sarà distrutto”; non ci sarà più un “dopo” come nel caso dei regni terreni). Con questo colpo d’occhio sull’eternità si chiude la stupenda visione del cap.7 di Daniele. 15 Quanto a me, Daniele, il mio spirito fu turbato dentro di me, e le visioni della mia mente mi spaventarono. 16 M’accostai a uno degli

astanti, e gli domandai la verità intorno a tutto questo; ed egli mi parlò, e mi dette l’interpretazione di quelle cose: Un fugace cenno autobiografico s’interpone fra la descrizione della visione e la sua interpretazione. Daniele declina il suo nome, quasi a volere attestare l’autenticità di quanto ha esposto finora. Il profeta confessa il profondo turbamento che ha suscitato in lui la visione ed esterna il forte desiderio che ha provato di “conoscere la verità” sulle cose che ha visto. Presso il profeta stanno alcuni personaggi non identificati. L’aramaico )æYm a ) A qf qa’amayya’ è tradotto “gli astanti” dalla Riveduta, “quelli che stanno là” da G.Rinaldi, “i vicini” dalla versione della C.E.I. È opinione generale fra gli espositori che si tratti di angeli. Non è detto se essi siano stati presenti fin dal principio della visione o se siano comparsi alla fine di essa. Daniele si avvicina ad uno degli angeli e gli domanda “la verità” sulle cose viste nella visione; la sua richiesta è accolta prontamente: “ed egli mi parlò e mi dette l’interpretazione di quelle cose”. 17 “Queste quattro grandi bestie, sono quattro re che sorgeranno dalla terra; 18 poi i santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo pos-

sederanno per sempre, d’eternità in eternità”. L’interpretazione fornita dall’angelo è estremamente laconica. Le 4 grandi bestie sono identificate come 4 re (nel vv. 23 sono dette “regni”) che debbono ancora venire sulla terra (sulla loro identità vedi il commento ai vv. 4-7). 170

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Nel v. 17 è anticipata con estrema stringatezza e per grandi linee la storia dei prossimi mille anni a partire da quel momento, e nel v. 18 è accennato il lontano futuro escatologico, rimanendo in mezzo un vuoto di millenni. 19 Allora desiderai sapere la verità intorno alla quarta bestia, ch’era

diversa da tutte le altre, straordinariamente terribile, che aveva i denti di ferro e le unghie di rame, che divorava, sbranava, e calpestava il resto con i piedi, 20 e intorno alle dieci corna che aveva in capo, e intorno all’altro corno che spuntava, e davanti al quale tre erano cadute: a quel corno che avea degli occhi, e una bocca proferenti cose grandi, e che appariva maggiore delle altre corna. La spiegazione estremamente generica e laconica dell’angelo ha lasciato Daniele insoddisfatto. Egli vorrebbe saperne di più sulla quarta bestia, sulle sue dieci corna e soprattutto sull’undicesimo tanto diverso dalle altre. Evidentemente sono stati questi i particolari della visione che lo hanno impressionato di più. 21 Io guardai, e quello stesso corno faceva guerra ai santi e aveva il

sopravvento, 22 finché non giunse il vegliardo e il giudicio fu dato ai santi dell’Altissimo, e venne il tempo che i santi possederono il regno. Daniele torna col pensiero sulla visione e ne evoca due dettagli che aveva omesso nella descrizione di essa. Il primo riguarda l’oggetto contro il quale si rivolse l’ira dell’undicesimo corno, il secondo concerne l’esito finale del conflitto. Il “corno” perverso non solo parlava con arroganza, ma combatteva “i santi” e li vinceva. Questo particolare deve avere suscitato nel profeta perplessità e angoscia. Per la seconda volta compaiono nelle rivelazioni danieliche “i santi”, e qui compaiono come vittime e non come protagonisti. Il riferimento precedente è stato fatto dall’angelo-interprete nel vers. 18 dove se ne anticipa la vittoria finale. Qaddîshîn (“santi”) nell’aramaico è privo dell’articolo, il che implica che l’accento è posto sulla qualità di questi esseri umani, non sulla loro identità. Chi sono i “santi”? Sono i “separati”, secondo il senso fondamentale del termine nell’aramaico come nell’ebraico. Sono il popolo di Dio (“i santi dell’Altissimo”). La loro aspirazione è di servire il loro Signore: è questo che li mette in conflitto con le potestà secolari. I “santi” non saranno lasciati indefinitamente alla mercè del corno: essi saranno vendicati quando siederà in giudizio il Giudice delle nazioni: “e fu resa giustizia ai santi” (versione T.O.B.). Allora saranno resi pertecipi della signoria eterna (“e venne il tempo che i santi possedettero il regno”). 171

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23 Ed egli mi parlò così: “La quarta bestia è un quarto regno sulla

terra, che differirà da tutti i regni, divorerà tutta la terra, la calpesterà e la frantumerà. Il desiderio di Daniele di conoscere “la verità” sui dettagli finali della visione è appagato. La quarta bestia raffigura un regno che sarà diverso da tutti i regni che lo avranno preceduto, e tutti li supererà per la vastità dei territori conquistati (“divorerà tutta la terra”), per l’attitudine sprezzante (“la calpesterà”), per la potenza e la durezza (“la frantumerà”). Sulla identità storica di questo regno vedi il commento del v. 7. 24 Le dieci corna sono dieci re che sorgeranno da questo regno; e,

dopo quelli, ne sorgerà un altro, che sarà diverso dai precedenti, e abbatterà tre re. 25 Egli proferirà parole contro l’Altissimo, ridurrà allo stremo i santi dell’Altissimo, e penserà di mutare i tempi e la legge; i santi saran dati nelle sue mani per un tempo, dei tempi, e la metà d’un tempo. Le dieci corna sono interpretate come altrettanti “re” che sorgeranno dal quarto regno (è presupposta la dissoluzione di quest’ultimo). Come si è già detto (vedi commento al v. 7) “re” in questo punto deve comprendersi nel senso collettivo di “regni” (anche le bestie interpretate come “re” nel vers. 17 sono identificate come “regni” nel v. 24, ‘da questo regno’, e nel precedente ‘la quarta bestia è un quarto regno’. Sull’identità dei 10 regni vedi il commento al v.7. Il corno sorto per ultimo è identificato anch’esso come un “re” (“dopo quelli ne sorgerà un altro”). Per questo corno vale quanto detto sopra riguardo alle altre. Il carattere di questo re-regno e gli obiettivi che esso perseguirà sono definiti attraverso una serie di caratteristiche e attribuzioni che gli vengono riferite e che si possono così elencare: 1. Sarà diverso dagli altri regni. 2. Di quei re-regni ne abbatterà tre. 3. Parlerà contro l’Altissimo. 4. Penserà di sterminare i santi dell’Altissimo. 5. Avrà in animo di mutare i tempi e la legge (stabiliti da Dio). 6. Avrà in suo potere i santi dell’Altissimo per tre tempi e mezzo. 172

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Gli interpreti moderni vedono nel “piccolo corno” un simbolo del re di Siria Antioco IV Epifane (175-164 a.C.) oppressore dei Giudei. Per quanto ci sia qualche analogia fra l’attività vessatoria di Antioco IV contro il popolo giudaico (cfr. 1Maccabei 1:41-61), macroscopiche discrepanze fra il simbolo profetico e la figura storica a cui si è voluto accostarlo rendono molto problematica questa identificazione. (1) Il “piccolo corno” sorge dopo le dieci (v. 24 u.p.). Esso si configurerebbe dunque come un undicesimo “re”. Antioco IV fu l’ottavo dinasta seleucide, non l’undicesimo, avendo avuto sette e non dieci predecessori. Dieci corna non possono rappresentare sette regnanti. (2) Il “piccolo corno” nella sua crescita fa cadere tre delle corna preesistenti. Antioco IV passò sopra i diritti dinastici di due nipoti, Demetrio e Antioco, figli del defunto Seleuco IV fratello dell’Epifane254. L’esistenza di un terzo figlio di Seleuco IV, ipotizzata per far coincidere la storia col testo danielico, non è stata mai dimostrata255. (3) Antioco Epifane non tentò di cambiare le sacre istituzioni dei Giudei (i “tempi” e la “legge”) come si dice in Dn 7:25 a proposito del “piccolo corno”, semplicemente ne decretò la soppressione (cfr. 1Maccabei 1:44,45). (4) Daniele fa durare tre tempi e mezzo, ovvero, come si spiegherà più avanti, tre anni e mezzo, la persecuzione del “piccolo corno” contro i “santi dell’Altissimo”. La persecuzione antigiudaica di Antioco Epifane si colloca fra il 15 Dicembre 167 a.C. (la data della erezione di una statua di Giove capitolino nel tempio di Yahweh in Gerusalemme) e il 25 Dicembre 164 a.C., quando fu celebrata la dedicazione del tempio purificato256. La durata della persecuzione fu dunque di tre anni e dieci giorni. Il divario di quasi sei mesi rispetto al tempo indicato da Daniele è davvero inspiegabile se la composizione del libro risale, come si dice, esattamente a quell’epoca. (5) L’attività del “piccolo corno” copre uno spazio temporale che supera di gran lunga il breve arco di tempo di una vita umana, estendendosi fino al tempo del giudizio e dell’instaurazione del regno eterno di Dio (Dn 7:26,27). La persecuzione dei “santi” rappresentò soltanto una parte di tale attività. Ne consegue una impossibilità logica di identificare questo simbolo con una figura storica individuale.

254 - Cfr. G.RICCIOTTI, Storia d’Israele, Torino 1947, vol.II, pp. 266-267. 255 - Cfr. G. RINALDI, op.cit., p. 112. 256 - Cfr. G.RICCIOTTI, op.cit., pp. 270 e 292.

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I primi espositori cristiani di Daniele, avendo identificato l’Impero romano nella quarta bestia e una serie di re o regni minori nelle dieci corna, riconobbero quasi all’unanimità l’Anticristo futuro nell’undicesimo corno. Girolamo in particolare difese con energia questo punto di vista contro l’opinione di Porfirio. Egli scrisse nel suo commentario su Daniele: “ E’ inutile che Porfirio insinui che il corno piccolo spuntato dopo le dieci corna, sia Antioco Epifane...”257. Poche righe più avanti aggiunge: “ Diciamo dunque ciò che ci hanno tramandato tutti gli scrittori ecclesiastici: verso la fine del mondo, quando l’Impero romano sarà in completa dissoluzione, verranno dieci re che si divideranno l’Impero romano, e sorgerà poi un altro piccolo re, l’undicesimo, che dei dieci re ne abbatterà tre”. Due paragrafi dopo Girolamo identifica l’undicesimo corno con “l’uomo del peccato” preconizzato in 2Te 2:2,3: “è l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, tanto che ha il coraggio di piazzarsi nel tempio di Dio proclamandosi lui stesso Dio”258. Sull’interpretazione della parte finale della visione Girolamo si fa dunque portavoce di una tradizione esegetica ben consolidata nella Chiesa antica: “...diciamo... ciò che ci hanno tramandato tutti gli scrittori ecclesiastici...”. In effetti prima di lui avevano commentato allo stesso modo Dn 7:7,8: Giustino, Ireneo, Ippolito (eccezion fatta per il “piccolo corno”), Cipriano, Lattanzio e Cirillo. Eccettuati i primi tre, questi antichi espositori cristiani di Daniele si aspettavano nel futuro immediato la dissoluzione dell’Impero romano (già in declino al loro tempo) e l’insorgere dell’Anticristo seguito a breve intervallo di tempo dal ritorno del Signore, il giudizio dell’Anticristo e la fondazione del regno eterno di Dio. Non c’era quindi nessuna difficoltà per loro a immaginare il “piccolo corno” come una figura umana individuale. Nel nostro tempo, con sedici secoli di storia alle spalle, quel punto di vista è superato. Nel potere antidivino che nasce dopo lo sfacelo del quarto regno è giocoforza intravedere una successione di “re”, una sorta di dinastia ininterrotta, un sistema di potere che doveva svilupparsi nella storia fra la caduta dell’Impero romano d’Occidente e il tempo ancora futuro del ritorno di Cristo. Nel rispetto delle opinioni contrarie e senza volere offendere i sentimenti religiosi dei cattolici, dobbiamo ricordare che fin dal XIII secolo è stato scorto nel “piccolo corno” di Dn 7 un simbolo del papato storico. Fu Eberardo II, arcivescovo di Salisburgo (1200-1246), il primo a proporre questa identificazione nel 1240259. In Inghilterra fece sua questa interpretazione John Wycliff, il noto professore di Oxford e precursore della Riforma, morto nel 1384. Nel XVI secolo fu rilanciata dai padri della Riforma e in seguito fu mantenuta dai loro continuatori (da Cramner a Knox) e applicata praticamente da tutti gli espositori

257 - Girolamo su Daniele, Roma 1966, p. 105, 258 - Ibidem 259 - Cfr. LE ROY EDWIN FROOM, op.cit., pp. 797, 798; S.D.A.B.C., vol. IV, pp. 50,51.

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protestanti conservatori nel Vecchio e nel Nuovo continente260. Un espositore evangelico contemporaneo osserva: “...le confessioni luterane hanno visto giusto nell’identificare il papa con l’anticristo, anche se il loro punto di vista è stato ridicolizzato o minimizzato. Siffatta svalutazione dipende dal non avere tenuto conto di quanto i riformatori avessero compreso a fondo il papato. L’odierna comprensione superficiale di questa realtà non poteva che condurre ad una interpretazione superficiale”261. La chiesa romana reagì a questa presa di posizione dei protestanti sull’identità dell’Anticristo e, rifiutata l’ermeneutica profetica storica, stravolse l’esegesi antica e introdusse due sistemi interpretativi rivoluzionari e contraddittori tra loro: l’ermeneutica futurista e l’ermeneutica preterista (vedi Introduzione, III, 4). Gli espositori avventisti di Daniele fin dal principio si sono attestati sulle posizioni dei primi esegeti cristiani privilegiando l’ermeneutica storica applicata dai Padri della Chiesa fino al V secolo, ripristinata da Gioacchino da Fiore nell’XI secolo, ripresa dai Riformatori nel XVI secolo e mantenuta dai continuatori della Riforma fino alle soglie dei tempi moderni. L’identificazione del persecutore di Dn 7:8,21-25 deve necessariamente tenere conto di tutte le informazioni che fornisce il testo danielico: delle implicazioni spazio-temporali come dei caratteri distintivi e degli aspetti differenziati della sua attività. Consideriamo ad una ad una le suddette informazioni e confrontiamole con lo sviluppo storico del papato. 1. Il potere raffigurato dal “piccolo corno” sarebbe sorto quando già avrebbero regnato i “re” simboleggiati dalle dieci corna: “e dopo di quelli ne sorgerà un altro...” (v. 24). Questa indicazione di ordine temporale orienta al periodo post-romanico, quando nei territori dell’Impero d’Occidente già dominavano i regni barbarici. Il potere temporale dei pontefici romani si affermò nel secolo VIII, quando i re franchi donarono al vescovo di Roma i territori italici tolti ai Longobardi.262 Nacque così lo Stato della Chiesa sul quale i pontefici romani re260 - Cfr. S.D.A.B.C., ibidem. 261 - H.C. LEUPOLD, op.cit., p. 323. 262 - Nel 752 Astolfo re dei Longobardi occupò Ravenna ponendo fine al dominio bizantino

nell’Italia del Nord. Poi marciò alla volta di Roma. Papa Stefano II, dopo avere inutilmente sollecitato l’intervento di Costantinopoli, si rivolse ai Franchi. Nel 754 Pipino il Breve scese in Italia alla testa di un esercito franco e sconfisse Astolfo, costringendolo a cedergli Ravenna e le altre terre occupate. Di quelle terre Pipino fece dono al papa “che ormai senza più esitare cercava di sostituirsi in Italia all’Impero” (P. VILLARI, Le invasioni barbariche in Italia, Milano 1905, p. 379). Pipino dovette tornare in Italia due anni dopo, ancora su richiesta di papa Stefano, perché Astolfo minacciò di nuovo Roma. Sconfitto per la seconda volta il Longobardo dovette consegnare al vincitore un numero maggiore di città di cui il re dei Franchi consegnò le chiavi a Stefano II insieme con l’atto di donazione “a San Pietro, alla santa Repubblica romana ed a tutti i successivi pontefici” (P. VILLARI, ibidem, p. 374). Nacque così lo Stato della Chiesa sul quale i pontefici regnarono da veri sovrani.

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gnarono da veri sovrani fino al 1870. Ma la supremazia universale della sede romana sulla cristianità in realtà era stata riconosciuta ufficialmente con un editto imperiale due secoli prima.263 2. Secondo Dn 7:8 l’undicesimo corno cresce (aramaico silqath) fra le dieci corna. Girolamo traduce meglio l’aramaico beneheon: “de medio eorum”; così pure varie versioni moderne: “in mezzo a quelle” (TOB), “in mezzo ad esse” (Bernini), “in mezzo a queste” (G.Rinaldi). La locuzione avverbiale orienta in senso spaziale. Il potere di cui è simbolo il “piccolo corno” doveva sorgere e crescere in un punto geografico centrale rispetto ai regni germanici sparsi nei territori dell’ex impero latino, ovvero nel cuore stesso di quei territori, a Roma. E in Roma si sviluppò e si affermò il papato storico.264 3. Il “piccolo corno” crescendo si fa spazio con l’abbattere tre delle corna precednti (vv. 8a e 20a). Ciò sta a significare che il potere che esso raffigura nel corso del suo sviluppo storico avrebbe fatto cadere tre dei regni preesistenti (v. 24 u.p.). È noto dalla storia che le popolazioni germaniche che si insediarono nei territori dell’Impero latino, a parte i Franchi, abbracciarono via via la fede ariana invisa ai cattolici. La presenza di forti regni ariani in Italia e nell’Africa del nord, dove il cattolicesimo era fiorente, era una circostanza assai sgradita per il vescovo di Roma. L’intervento diretto o indiretto di Bisanzio, che allora si ergeva a paladina della fede cattolica, determinò la caduta, uno dopo l’altro, di tre regni germanici ariani che riducevano la libertà d’azione di Roma papale: degli Eruli in

263 L’imperatore Giustiniano verso la Chiesa si comportò da degno successore di Costantino.

Sulle questioni religiose egli ebbe completa identità di vedute col pontefice romano. Nel 533 annunciò con una lettera a papa Giovanni II (532 - 535) di avere posto sotto l’autorità del pontefice il clero e la chiesa d’Oriente fino ad allora separati da Roma. Ecco i passi più significativi della lettera di Giustiniano a Giovanni II: “ Giustiniano, vittorioso, pio, beato, illustre trionfante, sempre augusto; a Giovanni, patriarca e santissimo arcivescovo della città di Roma:... Poiché abbiamo sempre cercato di mantenere l’unità della Vostra Sede Apostolica e di mantenere le sante chiese di Dio nello stato in cui sono oggi, ovvero nella pace, e liberarle da ogni contrarietà, abbiamo invitato tutto il clero dell’Oriente ad unirsi e a sottomettersi alla Vostra Santità... Voi che siete il Capo della Chiesa ... Noi domandiamo dunque... che Vostra Santità approvi tutti coloro che credono a quanto abbiamo sopra esposto e condanni la perfidia di quanti giudaicamente hanno osato negare la fede legittima... Che la Divinità, o santo e religiosissimo Padre, Vi conceda lunga vita” (da JEAN VEULLEUMIER, L’Apocalypse..., Dammarie-les-lys 1948, p. 231). Nella stessa lettera Giustiniano conferma legalmente il vescovo di Roma “capo di tutte le sante chiese” e “capo di tutti i santi ministri”. In una seconda lettera si compiace col papa per la sua solerzia nel “correggere” (leggi “perseguitare”) gli eretici (vedi S.D.A.B.C., vol. IV, p. 827). Le lettere di Giustiniano furono incorporate nel Codex del Corpus Juris Civilis, libro I, titolo I, con piena forza di editto imperiale. Per la prima volta nella storia l’autorità imperiale riconosceva ufficialmente il vescovo di Roma capo supremo della Chiesa universale e “correttore degli eretici”. 264 - Vedi Appendice 7A a fine capitolo.

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Italia nel 493, dei Vandali nell’Africa del nord nel 534, degli Ostrogoti ancora in Italia fra il 535 e il 553.265 In questi tre avvenimenti storici gli espositori avventisti hanno ravvisato all’unanimità il compimento di ciò che raffigurava la caduta delle tre corna al crescere del “piccolo corno”. 4. L’undicesimo corno, insignificante al suo nascere (aramaico hfry"(zº zê’irah, “minuscolo”, v. 8 u.p.), cresce fino a superare le altre corna (“appariva maggiore delle altre corna”, v. 20 u.p.). Dal tempo di Leone I (V secolo) l’influenza ed il prestigio del papato crebbero grandemente fino a giungere alla massima potenza nei secoli XI e XIII con i pontificati di Gregorio VII (1073-1085) e Innocenzo III (1198-1216). Le Crociate, l’Inquisizione, le lotte sostenute contro l’Impero furono tra le espressioni più significative del potere enorme dei papi nel Medioevo. In questo periodo storico l’autorità dei pontefici romani spesso sovrastò quella dei potentati secolari. 5. Il “piccolo corno” si presenta agli occhi del veggente con insoliti caratteri umani (“aveva degli occhi simili a occhi d’uomo e una bocca che proferiva grandi cose”, v. 8 u.p.). Questi particolari evidenziano una diversificazione ed una singolarità dell’undicesimo corno rispetto alle altre che il testo sottolinea espressamente: “ne sorgerà un altro, che sarà diverso dai precedenti” (v. 24 u.p.). Il potere dei papi si differenziò dal potere dei sovrani secolari per essere stato nel medesimo tempo spirituale e secolare, ecclesiastico e politico; i pontefici romani furono sovrani teocratici. Gli “occhi simili a occhi d’uomo” nel “piccolo corno” evocano chiaroveggenza e lungimiranza non comuni. La storia dei papi mostra come gli uomini che hanno occupato nei secoli il trono pontificio siano stati fra i più sagaci e perspicaci che la Chiesa cattolica abbia saputo esprimere: uomini che hanno visto chiaro nelle cose e lontano nel tempo, che hanno espresso una rara capacità di prevedere e provvedere con tempestività. La “bocca che proferisce cose grandi” (aramaico }fbr : b : r a liLm a m : {upU ufum memallil revrevân, vv. 8 e 20b) fa pensare a pronunciamenti che avrebbero avuto un impatto enorme nella storia ecclesiastica e politica. Tali furono in effetti le bolle, in specie quelle di scomunica, e le encicliche dei papi nei secoli. Il v. 25 spiega ulteriormente: “proferirà parole contro l’Altissimo” (aramaico liLm a yº ) f yfL(i dacl : }yiLm i U umillîn letzad ‘illay’a yemallil ). Il S.D.A.B.C. osserva: “Letzad si può tradurre ‘in alto contro’, con l’implicazione che il piccolo corno nell’opporsi all’Altissimo si esalti al punto di eguagliarsi a Dio (vedi su II Te 2:4; cfr. Is 14:1214)”266. Il passo parallelo di Ap 13:5 recita: “E le fu data una bocca che proferiva parole arroganti e bestemmie”. Certe rivendicazioni inaudite dei pontefici romani

265 - Vedi Appendice 7B a fine capitolo. 266 - Vol. IV, p. 831.

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nei secoli passati267 rispondono in modo sorprendente a queste anticipazioni della Parola profetica. Nella nostra cultura la bestemmia è l’insulto verbale all’indirizzo della Divinità, ma nell’ambiente giudaico essa si configurava come l’attribuzione indebita di prerogative divine a creature umane o la rivendicazione di siffatte prerogative da parte di una creatura umana. Il vangelo di Giovanni ricorda un episodio in cui Gesù, essendosi eguagliato a Dio, i giudei lo accusarono di bestemmia e tentarono di lapidarlo (Gv 10:30-33). 6. Il potere che s’incarna nel simbolo del “piccolo corno”, dice l’angelo al profeta, “ridurrà allo stremo i santi dell’Altissimo” (aramaico )"Lb a yº }yénOy:l(e y"$yiDqa l : U uleqaddîshê ‘elyonîn yevalle’). Il verbo bl’, di cui yevalle’ è la terza persona singolare dell’imperfetto, significa “distruggere”, “sterminare” (la Bibbia TOB traduce letteralmente: “distruggerà i santi dell’Altissimo”). Nel v. 21 la stessa azione violenta del “piccolo corno” è descritta così: “faceva guerra ai santi e aveva il sopravvento”. Come non scorgere in queste parole un riferimento profetico alle guerre di religione che funestarono la Francia nel XVI secolo, come non vedervi un’anticipazione delle persecuzioni continue e implacabili contro gli “eretici” ad opera dei principi e dei sovrani cattolici su istigazione della curia romana? Le crociate sanguinose contro gli Albigesi e i Valdesi nel Medioevo e contro gli Hussiti e gli Ugonotti in tempi più recenti, figurano tra le pagine più nere della storia dell’Europa cattolica. La Chiesa romana non nega di aver perseguitato gli “eretici” e rivendica la legittimità di siffatta violenta azione repressiva nell’ambito dell’esercizio di un’autorità che essa pretende di avere ricevuto da Gesù Cristo. 7. L’angelo-rivelatore spiega a Daniele che il sinistro persecutore dei santi penserà anche “di mutare i tempi e la legge” (aramaico tfdwº }yénm : zé hfy næ $ : h a l : raBs: yé wº weyisbar lehashnayah zimnîn wedath). Il vocabolo sevar (da cui viene l’imperfetto isbar reso dalla Riveduta “penserà”), secondo B.DAVIDSON come verbo significa “sperare” e come sostantivo “scopo”, “mira”, “intenzione” (The Analythical Hebrew and Chaldee Lexicon). Il verbo shna’ (da cui deriva l’imperfetto hashnâyah) significa “cambiare”, “alterare”, “rendere diverso” (ibidem). In riferimento all’oggetto dell’intenzione del “piccolo corno”, Daniele usa il vocabolo zimnîn (forma plurale di zimn’) che ha il senso di “tempi fissati, tempi stabiliti”. Con questa valenza il termine ricorre in Dn 2:16; 3:8; 4:36; 6:10,13; 7:12. Per esprimere il concetto più generico di “tempo” (anche di “anno”) Daniele usa un altro vocabolo, ‘iddan (plur. ‘iddanîn): cfr. 2:21; 4:16,23,25,32. W.Gesenius spiega in Hebrew - Chaldee Lexicon to the Old Testament, alla voce zimna’, che questo termine “è usato in riferimento ai tempi sacri (giorni festivi)”

267 - Vedi Appendice 7C a fine capitolo.

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e cita come esempio Dn 7:25. L’aramaico dath significa “legge” in generale, ma in un contesto religioso acquista il senso specifico di “legge divina”, anche di “religione”, “sistema religioso” (cfr. W.GESENIUS, ibidem, il quale rimanda a Dn 7:25 ove dath ricorre con questa accezione). Dunque Daniele ha voluto dirci che il potere che si cela nel “piccolo corno” avrebbe avuto in animo (si sarebbe prefisso) non già di abolire, ma di alterare i tempi sacri fissati da Dio (i Sabati) e la legge divina, ovverosia il Decalogo base morale dell’Antica e della Nuova Alleanza (vedi Es 24:3,8; Gr 31:31-33; Eb 10:1417; Rm 2:13; 13:8-10). La Chiesa romana non ha abolito il riposo religioso settimanale prescritto dal IV comandamento del Decalogo, ne ha alterato il valore e il significato con l’averlo trasferito arbitrariamente dal settimo al primo giorno della settimana268. Il cambiamento del giorno di riposo da un lato e l’introduzione del culto delle immagini dall’altro hanno condotto all’alterazione della legge divina con la soppressione del secondo comandamento, il cambiamento del quarto e la divisione in due del decimo per colmare il vuoto lasciato dall’eliminazione del secondo. Quella legge Gesù Cristo l’aveva dichiarata solennemente inalterabile (Mt 5:17-18). 8. La durata del sopravvento del “piccolo corno” sui santi dell’Altissimo è fissata con precisione: “i santi saranno dati nelle sue mani per un tempo, dei tempi e la metà d’un tempo” (aramaico }fD(i galp: U }yénD f (i wº }fD(i -da( ‘ad ‘iddan we‘iddanîn ûfelag ‘iddân, letteralmente “fino a un tempo, tempi e la metà di un tempo”). Per largo consenso dei commentatori in questo contesto ‘iddân - ‘iddanîn si deve intendere “anno - anni”269. I massoreti lessero il gruppo consonantico ‘ddnn come una forma plurale e così lo vocalizzarono, ma è opinione diffusa tra gli studiosi di Daniele che esso dovrebbe leggersi come un duale (‘iddanaîn). Sta di fatto che lo stesso periodo profetico ricorrente nell’identica forma in Ap 12:14 (“un tempo, dei tempi e la metà di un tempo”, greco ’ekei kairòn kaì kairoùs kaì ‘emisu kairou), nel v. 6 dello stesso capitolo compare in una forma diversa che autorizza a leggere kairoùs “due tempi”, cioè nella forma “milleduecentosessanta giorni” (greco ‘eméras chilias diakosìas ‘exekonta). Milleduecentosessanta giorni equivalgono esattamente a tre anni e mezzo calcolando gli anni come formati da 360 giorni (non sono giorni ed anni di calendario, ma giorni ed anni profetici). In definitiva, la durata del sopravvento del “piccolo corno” sui santi dell’Altissimo è fissata in Dn 7:25 in tre anni e mezzo profetici. Espositori ebrei di Daniele equipararono ad anni solari i giorni degli anni profetici prima ancora dei commentatori cristiani. Agli inizi del IX secolo il dotto giudeo Nahawendi interpretò come anni solari i 1290 e i 2300 giorni profetici di

268 - Vedi S.BACCHIOCCHI, Un esame dei testi biblici e patristici..., tesi di laurea, 1974. 269 - Cfr. S.D.A.B.C., vol. IV, p. 833.

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Dn 12:11 e 8:14. Altri studiosi ebrei nei secoli X, XI, XII e XIII applicarono lo stesso principio d’interpretazione ai “giorni” delle profezie danieliche270. Fra i cristiani l’abate Gioacchino da Fiore, nel XII secolo, fu il primo espositore delle profezie apocalittiche ad eguagliare ad anni solari i giorni profetici271. Da allora fino ai nostri giorni sono stati numerosi, in particolare fra gli acattolici, gli espositori di Daniele e dell’Apocalisse di Giovanni che hanno seguito questo criterio esegetico272. Gli avventisti, da William Miller in poi, lo hanno applicato senza eccezioni. Dunque per 1260 anni i santi dell’Altissimo dovevano essere alla mercé di un potere autoritario e persecutore, quel potere che abbiamo identificato nel papato storico. Come delimitare nella storia questo ampio arco di tempo? Vari espositori protestanti avevano proposto prima di Miller gli anni 538 e 1798 come terminus a quo e terminus ad quem di questo periodo temporale. Vediamo come si giustificano sul piano della storia queste date. Nel 533 l’imperatore Giustiniano introdusse nel Corpus iuris civilis un decreto col quale poneva tutte le chiese e tutti i vescovi d’Oriente, fino ad allora indipendenti da Roma, sotto l’autorità del pontefice romano, e conferiva a lui l’ufficio ed il potere di “correttore degli eretici”, in pratica lo investiva del diritto e dell’autorità di perseguitare i cristiani dissidenti. Solo 5 anni dopo, però, quando gli Ostrogoti abbandonarono l’assedio di Roma strenuamente difesa dai Bizantini, il papa fu in grado di esercitare i poteri che gli conferiva l’editto imperiale. Dunque dal 538 il pontefice romano fu di fatto e non soltanto di diritto il capo universale della Chiesa e il correttore degli “eretici”. Milleduecentosessanta anni dopo, nel 1798, un evento che allora parve incredibile mise fine al potere temporale dei papi: le truppe francesi agli ordini del generale Berthier, vittoriose nella campagna d’Italia, occuparono Roma, e il loro comandante supremo per incarico del Direttorio depose Pio VI e lo mandò in esilio a Valence, nella Francia del sud, proclamando solennemente la fondazione della Repubblica Romana. “Con la morte di Pio VI a Valence il papato sembrò annientato. Tant’è vero che in Francia papa Braschi veniva chiamato Pio Sesto ed Ultimo”273. Con la deposizione e l’esilio di Pio VI ad opera del Direttorio, finivano per la Chiesa romana dodici secoli e mezzo di influenza sui potentati secolari per re-

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- Cfr. LE ROY EDWIN FROOM, op. cit., p. 713. - Ibidem, pp. 712-713. - Cfr. LE ROY EDWIN FROOM, op.cit., voll. II, III e IV. - J.GELMI, I Papi da Pietro a Giovanni Paolo II, Milano 1987, pp. 214-215.

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primere la dissidenza religiosa, e per i cristiani dissidenti terminava un lungo periodo di vessazioni e persecuzioni sanguinose. La rispondenza dei fatti storici ai vaticini della profezia avalla nello stesso tempo la profezia stessa e l’interpretazione storica che se ne è data fin qui. 26 Poi si terrà il giudizio e gli sarà tolto il dominio, che verrà distrutto ed annientato per sempre. 27 E il regno e il dominio e la gran-

dezza dei regni che sono sotto tutti i cieli saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo; il suo regno è un regno eterno, e tutti i domini lo serviranno e gli ubbidiranno”. Nell’aramaico le prime due parole del v. 26 sono identiche alle prime due parole dell’ultima frase del v.10: dinâ’ yittiv. La traduzione di G.Rinaldi è più conforme all’originale di quanto non lo sia la traduzione della Riveduta: “La corte poi s’assiderà”. Questo versetto dunque (il 26) non fa che interpretare i vv. 10 e 11, ma avendo in più un riferimento al dominio che verrà tolto al corno. Finalmente il “piccolo corno” (e non il dominio come sembra suggerire la Riveduta) sarà “distrutto e annientato per sempre” (è un’allusione al giudizio esecutivo che avrà luogo alla fine dei mille anni dei quali si parla in Ap 20:7,10. La fine del sistema anti-divino rappresentato dal corno, decretato nel giudizio preavvento (“la corte poi s’assiderà”), sarà radicale e definitiva. Mentre nel v. 11 è la bestia che viene distrutta, secondo il v. 26 lo è il corno. Segno evidente, come si è osservato nel commento del v.11, che la bestia e il corno formano una unità organica: essi che hanno in comune la responsabilità morale dell’opposizione contro Dio, divideranno infine la sorte finale. Il v. 27 riprende e amplifica la rivelazione stringata che era stata fatta nel v.18 circa l’attribuzione del regno ai santi dell’Altissimo: Lì si diceva laconicamente che “i santi dell’Altissimo riceveranno il regno...”, qui si annuncia che “il regno e il dominio e la grandezza dei regni che sono sotto tutti i cieli saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo”. Tre espressioni di senso affine: “il regno”, “il dominio” e “la grandezza dei regni”, sottolineano la pienezza del potere che sarà conferito ai santi; una quarta: “che sono sotto tutti i cieli”, ne evidenzia l’universalità spaziale. L’ultima frase: “è un regno eterno”, enfatizza la durata senza fine del regno dei “santi”. Secondo il v.14 è il “figlio dell’uomo” ad essere investito del dominio e del regno eterni dopo la sessione della corte celeste; i vv. 18 e 27 invece li attribuiscono ai santi dopo la distruzione del corno, mentre l’ultima parte del v. 27 li aggiudica all’Altissimo (“il suo regno”). La triplice attribuzione non è contraddittoria. Il Nuovo Testamento cita 19 volte il Sl 101:1, direttamente o implicitamente, riferendolo al Messia (Mt. 22:44; 26:64;At 2:34; Rm 8:34; Ef 1:20; Cl. 3:1; Eb 1:13; 13:12; 1Pie 3:22, ecc...). Lo stare 181

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seduto e l’essere stato esaltato alla destra del Padre indicano lo status regale del Figlio di Dio274. La reggenza di Dio Padre sul mondo e la co-reggenza del Figlio furono per così dire una reggenza e una co-reggenza di diritto ma non di fatto giacché di fatto quaggiù regnarono la bestia e il suo undicesimo corno quali strumenti di potere del “principe di questo mondo” (Gv 14:30). Soltanto alla vigilia del suo ritorno in gloria, dopo il giudizio pre-avvento, quando sarà stata pronunciata la sentenza definitiva sul “principe di questo mondo” e sui suoi emissari terreni, Gesù Cristo riceverà l’investitura del regno tolto al diavolo e ai suoi accoliti umani. È anche scritto che Gesù Cristo renderà partecipi i suoi eletti glorificati della sovranità universale che Egli a sua volta dividerà col Padre: “ed essi tornarono in vita e regnarono con lui mille anni” (Ap 20:4; cfr. 2Tm 2:12). 28 Qui finirono le parole rivoltemi. Quanto a me, Daniele, i miei pen-

sieri mi spaventarono molto, e mutai di colore; ma serbai la cosa nel cuore. Daniele chiude con un rapido cenno autobiografico il racconto della visione e della sua interpretazione, e ancora una volta declina il suo nome come a voler confermare l’autenticità di quanto ha riferito. C’informa sul forte impatto fisico ed emotivo che la visione ha avuto su lui: “i miei pensieri mi spaventarono molto, e mutai di colore”. Tutto questo è indice di un forte stress psicofisico. Daniele vuole mantenere vive nella memoria le cose che gli sono state rivelate (“serbai la cosa nel cuore”).

274 - Cfr. Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento a cura di L.COENEN - E.BEYREUTHER H.BRETENHARD, Bologna 1980, pp. 973, 974

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APPENDICE 7A Nel IV secolo si giunse ad un’equiparazione delle sedi patriarcali della cristianità (Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Roma), poi col favore dell’Imperatore Costantino la sede romana acquistò una posizione preminente. La Chiesa cercò di adeguarsi alla politica dell’Impero: ne prese a modello la riorganizzazione dell’amministrazione politica attuata da Costantino, per organizzare la propria amministrazione e la stessa gerarchia ecclesiastica. DAMASO I (366 - 384) sostenne l’autorità preminente del vescovo di Roma in base alla tradizione sul soggiorno romano dell’apostolo Pietro. Nacque il concetto di Sede Apostolica ed ebbe inizio l’evoluzione dell’ufficio del vescovo di Roma verso il papato. SIRICIO I (384 - 399) pretese che tutte le chiese si uniformassero alla condotta della chiesa di Roma. Ispirandosi alla forma dei decreti imperiali, Siricio redasse le Costituzioni Pontificie (Decretalia constituta) in cui si afferma l’identità del papa e di Pietro. Sembra che Siricio sia stato il primo vescovo di Roma ad assumere il titolo di papa. LEONE I MAGNO (440 - 461) è considerato il fondatore del primato romano. Con l’appoggio dell’Impero, papa Leone si pose al di sopra dei concili e avocò a sé il diritto di definire i dogmi della Chiesa e dettare le decisioni importanti. Leone I si proclamò “primo fra tutti i vescovi” e pretese di esercitare “con piena potestà” la “cura della Chiesa universale” (E. MEYNIER, Storia dei papi, Torre Pellice 1932, p. 62). Nel 452 papa Leone acquistò grande prestigio per avere dissuaso a Mantova il re degli Unni dal saccheggiare Roma. Sotto il pontificato di Leone I l’imperatore VALENTINIANO III, nel 445, confermò il primato

del vescovo di Roma nell’Occidente. Dal 496 il pontefice romano ebbe dalla sua parte un potente alleato con la conversione al cattolicesimo di Clodoveo re dei Franchi. Nel 533 l’Imperatore Giustiniano fece pervenire a papa Giovanni II delle lettere nelle quali riconosceva il pontefice romano capo della Chiesa universale. In risposta Giovanni II si compiacque con l’Imperatore per avere egli mantenuto la preminenza della sede romana, ripristinato l’unità della Chiesa e promosso la persecuzione degli “eretici”. Le lettere di Giustiniano al vescovo di Roma furono incorporate nel Corpus Juris con piena forza di decreti imperiali. GREGORIO MAGNO (590 - 604) fondò di fatto il potere temporale dei papi con l’accentrare i fondi della Chiesa e divenne in concreto sovrano temporale della città di Roma. Papa ZACCARIA (741 - 752) nel 751 approvò l’usurpazione del trono dei Franchi ad opera di Pipino e consacrò l’usurpatore re dei Franchi dopo avere sciolto i sudditi dal giuramento di fedeltà a Childerico, ultimo legittimo sovrano merovingio. STEFANO II (752 - 757) si distaccò da Costantinopoli e si legò al regno dei Franchi. Da Pipino papa Stefano ricevette nel 756 i territori tolti ai Longobardi (v. nota 1); in seguito il pontefice pretese una sovranità territoriale indipendente fondando tale rivendicazione su un presunto documento di Costantino (Donatio Constantini) di cui l’umanista Lorenzo Valla nel 1440 dimostrò la falsità. LEONE III (795 - 816) nell’800 incoronò il franco Carlomagno imperatore del sacro Romano Impero. I suoi successori e in seguito anche i sovrani di varie nazioni europee, attribuirono all’incoronazione papale valore di conferimento reale della dignità imperiale. Nell’875 papa GIOVANNI VIII (872 -

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881) incoronò imperatore Carlo il Calvo di Francia senza tenere conto dei diritti legittimi del fratello maggiore Ludovico il Germanico. Oramai “il papato appariva come l’autorità che poteva disporre della corona e darla a chi riteneva degno e rifiutarla all’indegno” (S.HELLMAN, Storia del Medioevo, Genova 1990, p. 111). Nel 1054 il conflitto di potere tra il patriarca di Costantinopoli e papa LEONE IX (1049 - 1054) per il primato universale, provocò la rottura fra la Chiesa Orientale e la Chiesa Occidentale. GREGORIO VII (1073 - 1085) fu uno dei più grandi pontefici del Medioevo. Papa Gregorio concepì il progetto di porre tutta la società umana sotto la completa direzione della Chiesa. “Egli vagheggiò uno stato mondiale teocratico sotto la direzione del sommo sacerdote della chiesa cristiana” (S. HELLMAN, op. cit., p. 252). Nella lotta con l’Impero per la questione delle investiture ecclesiastiche, Gregorio ebbe la meglio. Nel 1075 l’energico pontefice depose e scomunicò Enrico IV sciogliendone i sudditi dal giuramento di fedeltà. Abbandonato dai principi vassalli e dai sudditi in rivolta, l’Imperatore nel 1077 si vide costretto a recarsi a Canossa in veste di penitente per chiedere al papa l’assoluzione. Gregorio lo ricevette nel castello di Matilde di Toscana dopo tre giorni di attesa a piedi nudi in pieno inverno e gli concesse la revoca della scomunica. Nel 1075 Gregorio VII promosse una riforma radicale del papato che si compendiò nelle 27 massime del Dictatus Papae fra le cui inaudite rivendicazioni figurava la proclamazione del potere assoluto del papa di deporre i sovrani temporali sottoposti all’autorità della Chiesa.

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Nel 1095, papa URBANO II (1088 1099) colpì di scomunica il re di Francia Filippo I per avere ripudiato la moglie Bertha e sposato in seconde nozze Berthrada. Sotto il pontificato di PASQUALE II (1099 - 1118), nel 1103, Filippo I dovette implorare il perdono del papa a piedi nudi e col saio di penitente per essere riammesso nella Chiesa. L’imperatore Enrico V di Germania nel 1111 ricevette la corona imperiale dai piedi di papa PASQUALE II assiso sul trono pontificio. Federico I Barbarossa, scomunicato per avere voluto imporre al papato l’autorità imperiale, nel 1177, dopo essere stato battuto a Legnano dalla Lega Lombarda, si vide costretto a stipulare la pace con papa ALESSANDRO III (1159 - 1181) per ricevere l’assoluzione. Enrico II Plantageneto re d’Inghilterra fu duramente avversato dall’arcivescovo di Cantenbury, Thomas Becket, per avere sottoposto il clero alla giurisdizione del tribunale regio con le Costituzioni di Clarendon del 1164. A seguito dell’assassinio di Thomas Becket, di cui la curia romana accusò il re, questi fu colpito di anatema da papa ALESSANDRO III. Per ottenere la sospensione della pena il re dovette sottoporsi pubblicamente alla fustigazione sulla tomba del suo mortale nemico. INNOCENZO III (1198 - 1216), un pontefice della statura morale di un Gregorio VII, si batté con grande energia per l’affermazione assoluta dei pontefici all’esterno come all’interno della Chiesa. Nel 1201 papa Innocenzo scagliò l’interdetto sul regno di Francia per costringerne il re Filippo Augusto a riprendere la moglie ripudiata, Ingerburge. Nel 1213, Innocenzo III mise sotto interdetto il regno d’Inghilterra il cui sovrano, Giovanni Senza Terra, era entrato in conflitto col pontefice. Giovanni, abbandonato dai sudditi, fu costretto a de-

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porre la corona ai piedi del pontefice per riceverla dalle sue mani come vassallo della Chiesa. Per volere di papa Innocenzo il IV Concilio Lateranense riunitosi nel 1215 istituì i tribunali ecclesiastici per la repressione delle eresie dando origine a quella istituzione sinistra che prese il nome di Inquisizione. Innocenzo III fu il promotore della sanguinosa crociata contro gli Albigesi della Francia del Sud. BONIFACIO VIII (1294 - 1303) fu l’ultimo grande papa del Medioevo. Papa Bonifacio rilanciò con grande energia la politica teocratica perseguita dai suoi illustri predecessori Innocenzo III e Gregorio VII, pretendendo per la Chiesa romana la supremazia temporale. Con la bolla Unam Sancta papa Bonifacio riaffermò la supremazia dei pontefici romani su tutti i principi temporali mediante la tesi delle due chiavi e delle due spade, simboli dei poteri temporale ed ecclesiastico. Con la morte di Bonifacio VIII cominciò un periodo di declino del papato. Nel 1309 per l’influenza preponderante del clero francese, la Santa Sede fu trasferita ad Avignone, nella Francia del sud. Era l’inizio della Cattività avignonese del papato. Il diffondersi della corruzione e del nepotismo nella corte papale di Avignone determinò una caduta di autorità della Chiesa. Nel 1376 GREGORIO XI (1370 - 1378) riportò a Roma la sede papale. Due anni dopo i cardinali francesi elessero papa CLEMENTE VII (1378 - 1394) che si insediò nella ripristinata corte di Avignone, e fu l’inizio del Grande Scisma d’Occidente. Due papi, uno a Roma ed uno ad Avignone, si contesero il pontificato legittimo anatemizzandosi a vicenda. Con la elezione di MARTINO V a Costanza nel 1417 finì lo Scisma d’Occidente. Ripristinata l’unità della Chiesa, i pontefici si adoperarono per consolidare lo Stato

pontificio che sempre più venne assumendo il carattere di un vero e proprio principato. Sotto il pontificato di LEONE X (1513 1521) una crisi ancora più grave scosse la Chiesa di Roma. Nel 1517 il frate agostiniano Martin Lutero in Germania attaccò duramente il commercio delle indulgenze con le famose 95 tesi di Wittenberg. Nel 1519 Lutero rifiutò di riconoscere il primato papale e la tradizione della Chiesa romana. Nel 1520 con l’abbruciamento pubblico della bolla di scomunica Exsurge Domine ruppe definitivamente con Roma. Era nata la riforma protestante. PAOLO III (1534 - 1549), per combattere il protestantesimo, nel 1542 reintrodusse l’Inquisizione e nel 1545 indisse il Concilio di Trento, massima espressione di quel vasto movimento di reazione della Chiesa di Roma alla Riforma luterana che prese il nome di Controriforma. Per merito dei Gesuiti, i veri paladini della Controriforma, trionfò e si affermò il centralismo papale. PAOLO IV (1555 - 1559), Pio IV (1559 1565) e Pio V (1566 - 1572) dettero grande impulso all’Inquisizione in Italia (Inquisizione Romana). GREGORIO XIII (1572- 1585) fece coniare una medaglia-ricordo e indisse un grande giubileo per celebrare il massacro degli Ugonotti in Francia del 1572. Sisto V (1585 - 1590) e Gregorio XIV (1590 - 1591) interferirono nella politica interna della Francia e della Spagna per stroncare la candidatura al trono di Francia di Enrico di Navarra amico degli Ugonotti. La Pace di Westfalia (1648), che mise fine alla Guerra dei Trent’anni, segnò il fallimento della restaurazione cattolica in Europa e rappresentò un notevole passo avanti sulla via delle libertà religiosa, civile e politica in

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Europa. Il potere papale, già scosso dall’affermarsi della Riforma in gran parte dell’Europa del nord e in Inghilterra, nel secolo XVIII venne ad essere ulteriormente indebolito per l’impatto che ebbero sulla cultura europea le idee innovatrici dell’Illuminismo. Sul finire del secolo la Rivoluzione Francese assestò al potere papale quello che allora sembrò il colpo di grazia. Il 25 febbraio 1798 le truppe francesi agli ordini del generale Louis Alexandre Berthier occuparono Roma per mandato del generale Bonaparte che aveva invaso i territori dello Stato pontificio. Berthier depose Pio VI (1775 - 1798) e proclamò la Repubblica Romana. Il deposto pontefice, deportato a Valence, nel sud della Francia, vi morì l’anno seguente. “Con la morte di Pio VI a Valence il papato sembrò annientato” (I. GELMI, I Papi da Pietro a Giovanni Paolo II, Milano 1987, p. 215). La caduta definitiva del potere temporale dei pontefici romani avvenne il 2 ottobre 1870 quando un plebiscito sanzionò il fatto compiuto dell’occupazione di Roma da parte delle truppe di Vittorio Emanuele II il 20 settembre di quello stesso anno.

APPENDICE 7B Dopo la morte di Valentiniano III nel 455, si verificò nell’Impero d’Occidente una crisi di potere. Ne approfittò Ricimero, un generale di origine svevo-gotica che era salito ai massimi onori sotto Valentiniano, per nominare e deporre gli imperatori a suo talento: ben 5 imperatori si succedettero l’uno all’altro fra il 455 e il 472. Morto Ricimero nel 473, fu messo sul trono imperiale a Ravenna Glicerio che in capo a qualche mese fu deposto da Giulio

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Nepote a sua volta esautorato nel 475 da Oreste, un romano della Pannonia, già ministro di Attila, al quale l’Imperatore d’Oriente Zenone aveva conferito il titolo di “Patrizio Romano”. Non avendo osato assumere egli stesso la porpora imperiale, Oreste fece acclamare imperatore il proprio figlio Romolo che per la giovanissima età fu soprannominato Augustolo. I barbari (Eruli, Sciri, Turingi) che formavano la parte preponderante dell’esercito, non avendo ricevuto da Oreste le terre che avevano richieste, si ribellarono ed elessero loro capo Odoacre, un barbaro che era sceso in Italia qualche anno prima alla testa di una banda di avventurieri. Oreste fuggì e riparò a Pavia. Odoacre lo inseguì ma non riuscì a catturarlo sebbene avesse espugnato la città. Oreste fuggì ancora una volta e si rinchiuse in Piacenza dove lo raggiunse il suo avversario e stavolta lo uccise. Poi Odoacre corse a Ravenna e depose Romolo Augustolo. Era il 28 agosto del 476. Tramontava l’Impero d’Occidente e cominciava la storia d’Italia; finiva l’Età antica e si apriva il Medioevo. Odoacre non osò neppure lui assumere il governo dell’Impero. Nel 478 spedì a Costantinopoli le insegne imperiali e chiese per sé, ottenendolo, il titolo di “Patrizio Romano”. Di fatto però governò l’Italia da principe indipendente. A causa della sua ingerenza nell’elezione del nuovo vescovo di Roma alla morte di Simplicio nel 483, Odoacre, che per giunta era di fede ariana, si attirò la profonda avversione della Chiesa. Intanto l’Imperatore, insospettito della condotta insubordinata del barbaro, sollecitò a scendere in Italia Teodorico che appena ventenne gli Ostrogoti della Pannonia avevano

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eletto loro capo. Nel 488 un popolo intero, valutato dagli storici fra i 200 e i 300 mila individui, varcò le Alpi con alla sua testa Teodorico. Battuto ripetutamente dai Goti, Odoacre raggiunse Roma, ma la città gli chiuse le porte. Le popolazioni del Centro Italia gli si mostrarono ostili sia per le sue razzie che per i suoi contrasti col papa. Infine una vasta cospirazione organizzata dal clero lo costrinse a tornare coi suoi uomini verso il nord. L’11 agosto del 490 sulle rive dell’Adda ci fu la battaglia decisiva. Duramente sconfitto dagli Ostrogoti, Odoacre riparò a Ravenna. La città si arrese a Teodorico il 27 febbraio del 493 dopo 3 anni di assedio. Odoacre sul momento ebbe salva la vita, ma meno di un mese dopo fu ucciso a tradimento da Teodorico e così ebbe termine il suo regno durato 17 anni. Subito dopo la vittoria su Odoacre nel 490, Teodorico chiese all’Imperatore Zenone l’investitura della dignità regia. Morto Zenone nel 491, il suo successore, Anastasio, lasciò senza risposta la rinnovata istanza di Teodorico. Finalmente nel 498, essendo divenuto assai potente, l’Ostrogoto rinnovò la richiesta e stavolta ottenne da Anastasio le insegne imperiali a condizione che il suo potere fosse subordinato a quello dell’Imperatore. In sostanza Teodorico esercitò una sorta di governo militare sotto l’egida dell’Imperatore. Romani e Ostrogoti convissero a lungo in Italia ma non si fusero mai. Tutto sommato comunque quello di Teodorico fu un buon governo. Intanto i rapporti tra il papa l’Imperatore si deteriorarono. Teodorico, con non comune abilità politica, riuscì a mantenere buoni rapporti con l’uno e con l’altro. Nel 518 salì sul trono imperiale di Costantinopoli Giustino. Ortodosso fervente, il

neo-Imperatore si mise a perseguitare i monofisiti. Il nuovo corso che s’instaurò a Costantinopoli favorì un riavvicinamento fra il papa e l’Imperatore a cui non fu estranea l’azione di Teodorico. Presto però l’accordo fra Roma e Costantinopoli si volse a danno del re ostrogoto. Essendo entrambi ortodossi, il papa e l’Imperatore si trovarono uniti contro l’ariano Teodorico. Giustino verso il 524 cominciò a perseguitare gli ariani in Oriente. Teodorico reagì perseguitando a sua volta i cattolici in Italia. L’urto col papa fu inevitabile. Per giunta essendo morto papa Giovanni I nel 526, Teodorico volle ingerirsi nell’elezione del suo successore e questo sollevò contro di lui grande e generale malcontento. Il re ostrogoto morì pochi mesi dopo mentre si preparava alla guerra che sembrava inevitabile. Aveva regnato in Italia per 32 anni. A Teodorico succedette in giovanissima età il nipote Atalarico con la reggenza della madre Amalasunta. Intanto, morto Giustino a Costantinopoli nel 527, salì sul trono imperiale il nipote Giustiniano. Il nuovo Imperatore riconobbe la successione di Atalarico e la reggenza di Amalasunta. La morte prematura di Atalarico nel 534 portò sul trono degli Ostrogoti un cugino di lui di nome Teodato il quale si sbarazzò subito della zia, deciso a regnare da solo. Fu un buon pretesto per Giustiniano per attuare il proposito che meditava da tempo di cacciare i Goti dall’Italia. Restaurare l’unità dell’Impero e restituirgli l’antico splendore fu uno degli obiettivi primari della politica di Giustiniano. Prima di liberare l’Italia dal dominio dei Goti era però necessario, per avere le spalle coperte, annientare il potere dei Vandali nell’Africa del nord. Il pretesto per un intervento militare fu

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offerto a Giustiniano dalle lotte interne e i disordini che travagliavano il regno dei Vandali. Alla decisione di Giustiniano certo non fu estranea la persecuzione dei cattolici ad opera dei Vandali ariani. Nel 531 fu deposto a Cartagine, la capitale del regno vandalo, Ilderico, nipote di Valentiniano III per parte di madre, che non nascondeva le sue simpatie romane e cattoliche. A succedergli fu chiamato Gelimero, uomo bellicoso e di tutt’altri sentimenti. Fu il casus belli che permise a Giustiniano di intervenire legittimamente. Nel 533 una grande flotta partita da Costantinopoli sbarcò in Africa, a 9 giorni di marcia da Cartagine, 10.000 fanti e 5.000 cavalieri agli ordini del valoroso generale Belisario. La prima battaglia, il 13 settembre, fu vinta dagl’Imperiali nonostante la loro inferiorità numerica. Due giorni dopo Belisario entrò da trionfatore a Cartagine. Gelimero fuggì in Numidia e in seguito contrattaccò ma senza fortuna e uscì definitivamente di scena. I Vandali che avevano portato tanto terrore e tante rovine nell’Impero scomparvero dalla storia. L’assassinio di Amalasunta nel 535 offrì a Giustiniano il pretesto per intervenire in Italia. Quello stesso anno Belisario sbarcò in Sicilia con 7000 uomini e in 7 mesi l’isola fu conquistata. Gl’Imperiali avanzarono verso Roma senza quasi incontrare resistenza, tranne che a Napoli. Teodato temporeggiò e venne deposto. In sua vece fu eletto Vitige, uomo deciso ed energico. Non potendo difendere Roma Vitige si ritirò e gli Imperiali vi entrarono trionfalmente il 10 dicembre del 536. I Goti contrattaccarono a varie riprese senza successo nonostante la schiacciante superiorità numerica. Intanto - correva l’anno 537 - giunse a Roma Antonina, l’energica moglie del gene-

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rale bizantino, per dare attuazione alla volontà dell’Imperatrice Teodora di deporre papa Silverio a lei inviso e fare eleggere in sua vece il diacono Vigilio incline a favorire i monofisiti che l’Imperatrice aveva preso sotto la sua protezione. Belisari,o con un pretesto, depose Silverio - che morì esule nell’isola di Palmarola nel 538 - e fece eleggere al suo posto Vigilio come l’Imperatrice aveva voluto. Intanto l’assedio di Roma si protraeva; nuovi tentativi di assalto da parte di Vitige fallirono. I Goti cominciarono a manifestare segni di stanchezza e intanto marciava verso Roma dal sud un corpo di spedizione bizantino per prendere i nemici alle spalle. Vitige decise di ritirarsi: era il 12 marzo del 538. Roma era salva, ma la guerra coi Goti non era finita. Morto Vitige, i Goti nel 541 elessero come loro capo Totila, uno dei più valorosi capitani ostrogoti. Totila dette del filo da torcere ai Bizantini: nel 543 tolse loro Napoli e marciò alla volta di Roma. Nel 546 gli Ostrogoti ripresero la “città eterna” ma fu un successo effimero. L’anno seguente dovettero abbandonarla a seguito di un forte contrattacco bizantino. Il destino dei Goti in Italia era ormai segnato. Nel 551 Giustiniano richiamò in patria Belisario e lo sostituì con Narsete per proseguire la guerra contro i Goti. Il nuovo generale impegnò in battaglia il nemico in Umbria, presso Gualdo Tadino, e gl’inflisse una tremenda sconfitta. Totila cadde in combattimento. Il suo successore, Teja, non ebbe più fortuna di lui. Costretto da Narsete ad accettare battaglia in condizioni sfavorevoli presso Nocera nel 553, ebbe l’esercito quasi distrutto ed egli stesso cadde nella pugna.Finì per sempre non solo il dominio dei Goti in Italia, che durava da 60 anni, ma anche la stessa nazione gotica.

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APPENDICE 7C Si attribuisce a Costantino una dichiarazione che egli avrebbe fatto al concilio di Nicea nel 325. L’Imperatore avrebbe detto che i vescovi sono “dèi”. Storica o leggendaria che sia la notizia, il fatto è che i papi del Medioevo ne fecero il fondamento della supremazia politica dei pontefici. Ignaz von Doellinger dice che nella presunta dichiarazione di Costantino Gregorio VII “vide la prova che lui, il papa, il vescovo dei vescovi, dominava nella sua inviolabile maestà al di sopra di tutti i monarchi della terra. E’ evidente - affermava Ildebrando - che il Pontefice, chiamato dio dal pio Costantino, non può essere legato o sciolto da nessuna potestà temporale più di quanto Dio non possa essere giudicato dagli uomini” (La Papautè, Parigi 1904, p. 41, n. 57, cit. da J. VUILLEUMIER in Apocalypse..., p. 210). Questo papa, dice ancora Doellinger, “il primo che depose un monarca e ne sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà, dichiarò al Sinodo di Roma nel 1080: ‘ Noi vogliamo mostrare al mondo che abbiamo il potere di togliere a chiunque e darli a chi ci par bene i regni, i ducati, le contee, in breve i possedimenti di tutti gli uomini, perché abbiamo il potere di legare e di sciogliere” (op. cit., p. 54, n. 154 in VUILLEUMIER, ibidem). Giovanni Miegge scrive a proposito del Dictatus Papae formulato da Gregorio VII: “Fondandosi sul De Civitate Dèi di Agostino, sulle Decretali pseudo-isidoriane e sulle enunciazioni di Nicola I, il papa afferma la propria signoria sulla chiesa universale e sul mondo intero. Egli è il solo uomo di cui si debba baciare il piede e che può portare le insegne imperiali. Egli solo può nominare e deporre i vescovi, deporre gl’imperatori e sciogliere i sud-

diti dal giuramento di fedeltà verso sovrani ingiusti. Nessun sinodo può essere chiamato generale senza il suo ordine, nessun testo canonico esiste al di fuori della sua autorità. Non può essere giudicato da nessuno. Le cause importanti di ogni chiesa devono essere a lui sottoposte. La chiesa romana non ha mai sbagliato, e secondo le promesse della Sacra Scrittura non sbaglierà mai e il papa ordinato canonicamente diviene indubbiamente santo per i meriti di San Pietro” (K. HEUSSI - G. MIEGGE, Sommario di Storia del Cristianesimo, Torino 1984, p. 95). Gregorio IX (1227-1241) affermò che “il papa... è signore del mondo, tanto delle cose quanto delle persone”. Clemente V (1305-1314) dichiarò: “in nome della sua autorità apostolica che ogni imperatore doveva obbedire al papa e di conseguenza non gli era consentito di stringere alleanza con un principe che fosse sospetto al papa. Lo stesso pontefice sostenne che “essendo vacante il trono imperiale il papa doveva succedere alla potestà regia e che ogni imperatore aveva l’obbligo di prestargli giuramento di vassallaggio” (V UILLEUMIER , op.cit., p. 211). Ecco alcuni estratti da un’opera enciclopedica compilata da un ecclesiastico cattolico del XVIII secolo: “Così alte sono la dignità e l’eccellenza del papa che egli non è semplicemente uomo, ma quasi Dio e vicario di Dio... “Il papa cinge la triplice corona come re del cielo, della terra e degl’inferi... “Il papa è quasi Dio in terra, unico sovrano dei fedeli di Cristo, capo dei re, rivestito della pienezza del potere, investito dall’Iddio Onnipotente del governo non solo del regno terreno ma anche del regno celeste...

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“Così grandi sono l’autorità ed il potere del papa che egli può modificare, spiegare e interpretare le leggi divine... “Il papa può modificare la legge divina perché il suo potere discende da Dio e non dall’uomo e dato che egli agisce da vicegerente di Dio sulla terra col più ampio potere di legare e di sciogliere... “Tutto ciò che il Signore Iddio e il Redentore fanno lo fa anche il suo vicario, purché non faccia alcunché che sia contrario alla fede” (LUCIO FERRARIS, art. “Papa” in Prompta Bibliotheca, vol. VI, pp. 25-29, cit. in S.D.A.B.C., vol. IV, p. 831). I cardinali del sacro collegio offrono il loro omaggio e la sottomissione al pontefice neo eletto nel corso di una cerimonia che prende il nome di “triplice adorazione del sacro collegio”. Nella cerimonia d’incoronazione del nuovo pontefice il cardinale-diacono gli dice mentre gli pone sul capo il “triregno”: “Ricevi la tiara ornata di tre corone e sappi che tu sei il padre dei principi, l’arbitro del mondo e il vicario del Salvatore nostro Gesù Cristo sulla terra” (J.VUILLEUMIER, op.cit., p. 211). Titoli quali “Sommo Pontefice”, “Santo Padre”, “Vicario di Cristo”, “Capo della Chiesa” riferiti correntemente al pontefice ro-

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mano, alla luce della dottrina del Nuovo Testamento sono indebitamente attribuiti ad un essere umano sia pure rivestito di autorità religiosa. Tali titoli evocano e presuppongono un’autorità ed una dignità sovrumane. Col titolo di Sommo Sacerdote (Sommo Pontefice) l’Epistola agli Ebrei indica la dignità e la funzione di Cristo in cielo: Eb 4:15,16; 6:20; 8:1,2; 9:11; 10:21. Padre Santo è l’appellativo col quale Gesù si rivolse a Dio nella preghiera di intercessione per i suoi apostoli alla vigilia della crocefissione: Gv 17:11. La funzione di Vicario di Cristo secondo il Vangelo di Giovanni spetta allo Spirito Santo (“vicario” significa “facente le veci di...”, “supplente”, “sostituto”). Gesù Cristo ha indicato lo Spirito Santo come suo supplente e sostituto fra gli uomini: Gv 14:16; 17:26; 16:7,12,13. Infine il Nuovo Testamento riconosce Gesù Cristo soltanto come Capo della Chiesa: Ef 1:22; Cl 1:18. La rivendicazione dei titoli suddetti da parte di una creatura umana, o la loro attribuzione ad essa da parte di terze persone, secondo lo spirito del Nuovo Testamento si configura come una usurpazione e una “blasfemia”.

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Capitolo 8 ____________________________________________________

I

n questo capitolo l’autore del libro narra la seconda visione che gli è stata rivelata. E’ una visione parallela alla precedente, ma solo in parte, giacché qui la serie dei regni dei quali la profezia anticipa l’esistenza inizia con la Persia (Babilonia, oramai prossima al tramonto, è rimasta fuori dal campo visuale della rivelazione); inoltre la nuova visione si arricchisce di dettagli inesistenti in quella che l’ha preceduta. I simboli provengono ancora dal regno animale ma, a differenza del capitolo 7, qui tengono il campo bestie domestiche anziché belve selvagge. La diversa natura delle figure animalesche orienta a un oggetto diverso come tema centrale della seconda profezia. In entrambe le visioni la lotta per l’egemonia politica, raffigurata dall’attività delle bestie simboliche dalla quale si sviluppano condizioni che portano alla persecuzione del popolo santo, costituisce un motivo comune. Ma nella seconda sul tema della persecuzione s’innesta quello della prevaricazione contro il santuario del Signore (il quale sarà tuttavia giustificato e purificato in capo a un arco di tempo determinato con precisione); è la novità della seconda rivelazione alla quale ha già orientato la natura singolare degli animali simbolici: il montone e il capro, entrambi animali sacrificali, hanno infatti evocato l’ambiente del santuario e la sua liturgia.

1 Il terzo anno del regno del re Belsatsar, io, Daniele, ebbi una vi-

sione, dopo quella che avevo avuta al principio del regno. Tutte le visioni di Daniele sono datate (cfr. 7:1; 9:1; 10:1). La visione narrata nel cap. 8 è del “terzo anno del regno del re Beltsazar” ovvero della sua co-reggenza col padre Nabonide (vedi Introduzione, parte IV). Questa data corrisponde al 546 a.C. “...dopo quella che avevo avuto al principio del regno”: è un’allusione alla visione delle quattro bestie avuta appunto l’anno primo di Beltsazar (7:1). Daniele declina il suo nome per attestare l’autenticità di quanto verrà esponendo. “...ebbi una visione”, ebr. yal) " hf)r : né }Ozfx chazôn nir’ah ’êlay, letteralmente “una visione apparve a me”. Chazôn è il termine con cui i profeti (ad eccezione di Ezechiele) designano correntemente le rivelazioni ricevute in visione. (cfr. Is 191

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1:1, 21:2; Lam 2:9; Ad 1:1; Aba 2:23 ecc...). Dalla radice verbale chzh, “vedere”, châzôn evoca con immediatezza la modalità di questa forma di rivelazione. 2 Ero in visione; e, mentre guardavo, ero a Susan, la residenza reale,

che è nella provincia di Elam; e, nella visione, mi trovavo presso il fiume Ulai. Daniele fu presente fisicamente in Susa o lo fu “in ispirito” ? La seconda alternativa in base al testo appare la più probabile: “ Ero in visione / e mentre guardavo / ero a Susa...” L’essere trasportato “in ispirito” durante la visione in luogo diverso dalla residenza abituale fu un’esperienza comune ad altri veggenti (cfr. Ez 8:3; 11:1; 37:1; 40:1; 43:1; Ap 17:3; 21:10). Susa fu la capitale del forte regno elamita. Un testo cuneiforme dell’inizio dell’età persiana, il “Cilindro di Ciro”, cita Susa fra le città alle quali questo sovrano, dopo la presa di Babilonia, restituì le statue delle divinità che i re caldei avevano trafugato, segno che dopo la caduta dell’Elam la città era passata sotto la sovranità babilonese. La menzione di Susa come luogo dal quale il profeta contemplò la visione non è casuale. Presto Susa sarebbe divenuta la prima fra le città reali del primo regno di cui la visione avrebbe preconizzato la nascita, l’ascesa ed il tramonto: il regno di Persia. “...a Susa, la residenza reale” (ebr. hfryiBh a }a$U$:B beshûshan habbîrah). È stata notata l’affinità dell’ebraico bîrah con l’assiro birtu che significa “fortezza”. Bîrah designa il palazzo reale che sorgeva nell’area fortificata della cittadella la quale a sua volta si trovava all’interno delle città reali. Le versioni italiane traducono bîrah “residenza reale”, “palazzo”, “cittadella”, “castello”, “fortezza”. Il libro di Esther distingue la “cittadella” di Susa (shûshan habbîrah) dalla città vera e propria (‘îr shûshan): Et 3:15 e 8:14,15. Nella residenza reale, o cittadella di Susa, cento anni dopo svolse la mansione di coppiere del re Artaserse I il giudaita in esilio Nehemia (cfr. Ne. 1 e 2). Nella visione Daniele riconobbe la “cittadella” (bîrah) di Susa: probabilmente c’era stato come funzionario della corte di Babilonia. Non dalla cittadella comunque contemplò la visione ma dalla riva orientale di un fiume che scorreva non lontano: “nella visione mi trovavo presso il fiume Ulai” (ebr. yflU) labU)-la( yityéyh f yén) A wá }OzfxB e he)r : ) e wæ wa’er’eh bechazôn w’anî hayiytî ‘al-’ûval ’ûlai, letteralmente “e mentre guardavo nella visione io mi trovavo presso il fiume Ulai”). Il termine corrente per “fiume” nella lingua ebraica è nahar (cfr. Gr 46:6; Ez 1:1; Dn 10:4 ecc...). ’Uval è un termine raro che praticamente è usato solo in questo versetto in tutto l’Antico Testamento. Secondo C.BOUTFLOWER il termine deriva da una radice verbale che significa “condurre”. Questo espositore afferma 192

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che “canale” sarebbe la traduzione più appropriata di ’uval. In effetti presso le rovine dell’antica Susa, riportate alla luce da Marcel e Jane Dieulafoy e Jacques de Morgan fra il 1884 e il 1897, sono ancora visibili le tracce di un ampio canale che nell’antichità congiungeva i fiumi Choaspes e Coprates (oggi Kerka e Abdizful) che scorrevano ai due lati dell’altura allungata sulla quale sorgeva Susa. Il Boutflower identifica quel canale con l’Ulai di Daniele (l’Eulaeus degli antichi scrittori greci). Come via di traffici fluviali l’Ulai deve essere stato per Susa una fonte di ricchezza. L’Ulai appare dunque come un simbolo dell’immensa ricchezza del futuro Impero persiano (BOUTFLOWER). 3 Alzai gli occhi, guardai, ed ecco, ritto davanti al fiume, un montone

che aveva due corna; e le due corna erano alte, ma una era più alta dell’altra, e la più alta veniva su l’ultima. Nell’ebraico il sostantivo ’ayil, “montone”, è seguito dall’aggettivo numerale ’echad, “uno” (dfx) e léy) a ), come a voler sottolineare la singolarità della figura che per prima appare nella visione: un singolo animale ne occupa tutto il campo. Il montone è dunque il simbolo di una potenza egemone, quale fu appunto l’Impero dei Medi e dei Persiani con cui l’animale è espressamente identificato (v. 20). A differenza delle visioni parallele dei capitoli 2 e 7, in questo capitolo la serie dei regni comincia con la Medo-Persia. La ragione è ovvia: Babilonia è in pieno declino, sette anni la separano dal tracollo. Essa appartiene oramai alla storia, non è più oggetto di anticipazione profetica. Mentre nel cap.7 le monarchie universali sono rappresentate da belve selvagge - simboli che evocano il carattere violento della conquista e del dominio nel cap. 8 le stesse entità politiche sono raffigurate con animali domestici, segno che in questa rivelazione esse sono viste da un’ottica diversa. Il montone e il capro che verrà dopo introducono ad un contesto culturale ebraico; nell’ordinamento liturgico d’Israele infatti questi animali figuravano fra le vittime sacrificali (cfr. Le 5:15; 16:5; Nu 28:22,27 ecc...). In effetti il centro focale della visione è l’offesa che sarà arrecata al culto di Jahvé nel suo santuario e il ripristino di esso in capo a 2300 “sere-mattine” (vv. 11-14). Gli altri simboli che compaiono nella visione sono figure di contorno. Il montone “aveva due corna”. Nella simbologia apocalittica le corna rappresentano regni e nazioni (confrontare il commento a 7:24). Poiché il montone è identificato con “i re di Media e di Persia” (v. 20), le due alte corna dell’animale raffigurano le due nazioni - i Medi e i Persiani - sulle quali regnarono i dinasti achemenidi dopo che Ciro II nel 549 a.C. le ebbe unificate. “...una era più alta dell’altra, e la più alta veniva su l’ultima” (ebr. hænorx A ) a B f hflo(h h f obG: h a wº wehaggevohah ‘olah ba’acharonah) “il (corno) più alto sa193

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liva dopo”. Quando nel VII secolo a.C. le tribù persiane unificate da Teispe - il trisavolo di Ciro II - formarono il piccolo regno di Anshan, la Media era già da molti anni un regno forte e temuto; i Persiani ne divennero tributari. Ma con la vittoria di Ciro II su Astiage a metà del secolo VI a.C., questi ultimi prevalsero sui loro antichi dominatori. Il corno “salito dopo” rappresenta precisamente questo evento. Il montone sta “ritto davanti al fiume”, cioè sulla sua sponda orientale, guardando davanti a sé, ovvero a occidente, in atteggiamento di sfida. Ciro volse subito la sua attenzione verso l’Anatolia giusto a occidente della Media e della Persia. 4 Vidi il montone che cozzava a occidente, a settentrione e a mezzo-

giorno; nessuna bestia gli poteva tener fronte, e non c’era nessuno che la potesse liberare dalla sua potenza; esso faceva quel che voleva, e diventò grande. Il montone carica con impeto irresistibile verso occidente, settentrione e mezzogiorno. Se osserviamo una cartina della regione del Vicino Oriente noteremo che dritto ad ovest di Susa si trovava Babilonia, a nord-ovest c’era il regno di Lydia e a sud-ovest il regno d’Egitto. Nel 546 a.C. - tre anni dopo avere unificato la Media e la Persia - Ciro attaccò e sconfisse Creso conquistando il regno di Lydia e con esso l’Asia Minore occidentale e le isole della Ionia. Sette anni dopo (nel 539) prese Babilonia e se ne annesse i territori. Nel 525 suo figlio Cambise II invase l’Egitto avendo sconfitto i mercenari greci di Psammetico II a Pelusio e fece di questa antica nazione un possedimento persiano. Le acquisizioni territoriali, ad est realizzate dai successori di Ciro e Cambise, non sono prese in considerazione nella visione perché erano irrilevanti in rapporto all’oggetto centrale della medesima: l’attacco del corno al santuario ed il ripristino di quest’ultimo. “...nessuna bestia gli poteva tenere fronte, e non c’era nessuno che la potesse liberare dalla sua potenza”. L’alleanza militare in funzione anti-persiana fra Atene, l’Egitto e Babilonia all’inizio del regno di Ciro non poté contrastare l’espansione della giovane nazione iranica. Quando le città e le isole greche della Ionia si sollevarono contro il dominio persiano intorno al 500 a.C., l’appoggio di Atene non poté impedire che la rivolta fosse domata con durezza da Dario I e che Mileto, l’istigatrice della sommossa, fosse rasa al suolo. “Il montone faceva quel che voleva e diventò grande”. In questa frase sono sintetizzati il dispotismo dei sovrani achenemidi e le dimensioni gigantesche dell’impero sul quale essi regnarono dopo le conquiste di Ciro II, Cambise II e Dario I.

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5 E com’io stavo considerando questo, ecco venire dall’occidente un

capro, che percorreva tutta la superficie della terra senza toccare il suolo; e questo capro aveva un corno cospicuo fra i suoi occhi. “E com’io stavo considerando...” Le cose che Daniele vede nella visione catturano la sua attenzione e stimolano la sua riflessione (i profeti di Yahweh non sono stati strumenti passivi dell’ispirazione profetica). “...ecco venire dall’occidente...”. Con i rovesci subiti in Grecia da Dario I negli ultimi anni di regno e da suo figlio Serse I, cominciò il declino lento ma inarrestabile dell’Impero persiano. Il capro che viene dall’occidente è identificato espressamente col regno di Iawan (v. 21), cioè con la Grecia (Iawan, da Ionia, era il nome con cui i Semiti designavano i Greci). La corsa frenetica del capro verso oriente anticipa con sorprendente realismo la marcia rapida e travolgente delle falangi di Alessandro lungo le fasce costiere dell’Asia Minore, della Siria e della Palestina fino all’antica terra dei faraoni fra il 334 e il 332 a.C. Il gran corno fra i due occhi del capro è il simbolo del “primo re” di Iawan (v. 21), ovvero di Alessandro Magno, il secondo ed ultimo rappresentante della dinastia macedone. 6 Esso venne fino al montone dalle due corna che avevo visto ritto davanti al fiume, e gli s’avventò contro, nel furore della sua forza. 7

E lo vidi giungere vicino al montone, pieno di rabbia contro di lui, investirlo, e spezzargli le due corna; il montone non ebbe la forza di tenergli fronte, e il capro lo atterrò e lo calpestò; e non ci fu nessuno che potesse liberare il montone dalla potenza d’esso. Quello che descrive il v. 6 non è un duello fra due avversari mossi dalla stessa determinazione di abbattere l’altro, ma l’assalto impetuoso di uno degli avversari contro l’altro. Tale fu in effetti la guerra fra Alessandro e Dario III. “(Il capro) gli s’avventò contro nel furore della sua forza... il montone non ebbe la forza di tenergli fronte, e il capro lo atterrò e lo calpestò”. Con estrema sinteticità e con precisione sono anticipati la folgorante campagna militare di Alessandro in Oriente ed il crollo dell’Impero persiano. Nel 334, Alessandro sbarcò con le sue falangi e la sua cavalleria sulla costa dell’Asia Minore; sulle rive del Granico attaccò e travolse le truppe dei satrapi persiani dell’Asia Minore e avanzò incontrastato lungo la costa fino alla Cilicia, accolto come liberatore dalle città della Ionia. Presso Isso, nell’autunno del 333, battè per la seconda volta l’armata persiana nell’occasione agli ordini del re Dario in persona. Poi volse a mezzogiorno: Sidone e Biblo lungo la costa fenicia si sottomisero spontaneamente; Tiro resistette e fu distrutta. La stessa sorte toccò a Gaza, sulla costa palestinese, per 195

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avere rifiutato il vassallaggio ai Macedoni. In Egitto Alessandro entrò da trionfatore nel 332 accolto dai sacerdoti come il figlio di Horus. Fondata una nuova Alessandria sulla costa del Mediterraneo, il Macedone, nella primavera del 331, riprese la marcia verso nord. Percorse la Palestina e la Siria senza combattere e ad est dell’alto corso dell’Eufrate, fra Arbela e Gaugamela, attaccò per la terza volta e sbaragliò l’esercito avversario. Dario si dette alla fuga e non si fece più vivo; Alessandro entrò da trionfatore in Babilonia: l’Impero persiano era crollato di schianto dopo avere dominato per 218 anni. L’ineluttabilità dell’evento è preannunciata con sorprendente precisione nell’ultima frase del v. 7: “...e non ci fu nessuno che potesse liberare il montone dalla potenza d’esso”. 8 Il capro diventò sommamente grande; ma, quando fu potente, il

suo gran corno si spezzò; e, in luogo di quello, sorsero quattro corna cospicue, verso i quattro venti del cielo. “Il capro divenne sommamente grande...” (ebr. do)m : -da( lyiDg: h i {yéZ(i h f ryipc : U ûtzefîr ha‘izzîm higdîl ‘ad-me’od ). La voce verbale higddîl, “s’ingrandì”, è rafforzata dall’avverbio ‘ad me’od, “molto”. L’impero simboleggiato dal capro avrebbe superato quello raffigurato dal montone per dimensione territoriale. In effetti l’Impero macedone fu più esteso dell’Impero medo-persiano. Dopo la vittoria dei Macedoni ad Arbela nel 331, cadde in potere di Alessandro l’immenso territorio già sotto la sovranità dei re persiani. Occupate l’una dopo l’altra le città reali coi loro favolosi tesori (Babilonia, Susa, Pasargade, Persepoli, Ecbatana), Alessandro riprese la marcia verso est. Il suo obiettivo primario era la cattura del satrapo della Battriana, Besso, che teneva prigioniero il re sconfitto. In realtà Besso aveva fatto assassinare Dario e se ne era proclamato successore. Nella Battriana l’usurpatore cadde nelle mani di Alessandro e questi lo consegnò a un tribunale persiano che lo condannò a morte. Così il re dei Macedoni poté proclamarsi re dei Medi e dei Persiani come legittimo successore di Dario III. Non pago delle conquiste realizzate Alessandro, dopo la cattura di Besso, si spinse ancora verso est. Nel 328 condusse le sue falangi oltre l’Indo e sconfisse l’esercito del re Poro schierato al di là dell’Idaspe. Anche l’India favolosa era nelle sue mani. Il capro greco-macedone era diventato “sommamente grande”. “Ma quando fu potente, il suo gran corno si spezzò...” Il gran corno del capro non s’infranse nella lotta, come le due corna del montone, ma si ruppe spontaneamente. Alessandro sarebbe morto di morte naturale, non in battaglia. Avvenne esattamente così. Sottomessa l’India, il condottiero vittorioso dovette rinunciare ai propositi di nuove conquiste oltre l’Idaspe per il rifiuto delle truppe di seguirlo. A malincuore dovette prendere la via del ritorno. Nel tardo inverno del 324 i reduci di tante battaglie e di tante vittorie giunsero stremati a Pasar196

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gade. Alessandro proseguì per Susa e Babilonia. Quivi si dedicò a riorganizzare l’amministrazione dell’immenso impero. Ai primi di giugno del 323 cadde in preda ad accessi febbrili che in pochi giorni lo condussero alla morte. “...e in luogo di quello sorsero quattro corna cospicue verso i quattro venti del cielo”. Con queste parole la profezia sentenzia la fine dell’unità dell’Impero di Alessandro, anzi la fine dell’Impero stesso. Questo avvenne 21 anni dopo la morte del grande sovrano. Era caduto il gran corno del capro macedone. Poiché l’erede al trono era un fanciullino in tenera età, per disposizione del re morente la reggenza fu assunta da Perdicca, il più fidato dei suoi generali. Gli altri generali si divisero il comando dell’esercito ed il governo provvisorio delle province. Nel 321 morì il reggente e si procedette ad una nuova ripartizione delle cariche militari e politiche. Seguì una serie di vicende intricate che videro coinvolti quasi tutti gli alti funzionari dell’Impero e nel corso delle quali perirono di morte violenta alcuni di costoro e quasi tutti i familiari del defunto sovrano (la madre Olimpia, la moglie Rossane, il figlioletto Alessandro II e il fratello Filippo Arrideo). Per ultima nel 308 scomparve la sorella Tessalonica. Estintasi così la famiglia reale, uno dei generali più anziani del defunto sovrano, Antigono Monoftalmo, si proclamò suo unico successore. Per tutta risposta quattro altri generali che governavano altrettante province, Lisimaco, Cassandro, Seleuco e Tolomeo, si dichiararono rispettivamente re di Tracia, di Macedonia, di Babilonia e dell’Egitto. Fu l’inizio della fine dell’unità dell’Impero. Questa si consumò definitivamente nel 301 quando l’esercito di Antigono e di suo figlio Demetrio fu sbaragliato ad Isso, nella Cilicia, dalle forze coalizzate di Tolomeo, Seleuco, Cassandro e Lisimaco. Erano sorti i regni ellenistici, le quattro corna volte verso i quattro venti del cielo. Fin qui l’interpretazione del cap. 8 di Daniele è univoca: gli espositori di ogni tendenza si trovano concordi nell’identificare la Persia degli Achemenidi nel montone, il regno di Macedonia nel capro, Alessandro nel gran corno sulla fronte del capro e i regni ellenistici eredi dell’Impero di Alessandro nelle sue quattro corna. Questa esegesi a senso unico è ciò che ci si deve aspettare dal momento che siffatta interpretazione della prima parte della visione è data espressamente nel libro (vv. 20-22). Dal v. 9 in poi invece l’esegesi storica e l’esegesi storico-critica divergono l’una dall’altra in modo inconciliabile. 9 E dall’una d’esse uscì un piccolo corno, che diventò molto grande

verso mezzogiorno, verso levante, e verso il paese splendido. Il v. 9 introduce con la parte finale della visione una nuova tematica che si svilupperà dalla precedente nei 5 versetti successivi. Questi versetti formano un blocco unitario e costituiscono il centro tematico dell’intero capitolo ottavo. “E dall’una di esse uscì un piccolo corno...”. Questa traduzione modifica il 197

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pronome che nell’originale è di genere maschile. L’ebraico infatti recita: hfryi(C : m i tax) a -}erqe )fcyæ {ehm" tax) a h f -}imU ûmin ha’achath mehem yatza’ qeren ’achath mitz‘îrah, letteralmente: “e dall’una di essi uscì un corno dalla piccolezza”. Come si vede, l’aggettivo numerale ’achath, “una”, ed il pronome hem, “essi”, non concordano nel genere. I sostantivi antecedenti a cui può riferirsi il pronome hem sono, nel v. 8, qarnayîm, “corna” (femminile) e ruchôth, “venti” (che come un buon numero di sostantivi ebraici ha i due generi)275. “Venti” comunque è scritto nella forma femminile, ruchôth, per cui il pronome hem, di genere maschile, non concorda con nessuno dei due sostantivi antecedenti del v. 8. W.H. SHEA276, seguito da G.H. HASEL277, ha scorto la soluzione di questa apparente confusione di generi nella particolare costruzione sintattica dei vv. 8 e 9. La parte finale del v. 8 presenta una sequenza di generi secondo l’ordine: femminile-maschile: (“verso i quattro venti - ruchôth, femminile - dei cieli - hashshamayîm, maschile - “), alla quale corrisponde una identica sequenza di generi nella parte iniziale del v. 9: “...dall’una (ûmin ha’achath, femminile) di essi (mehem, maschile)”. Esiste dunque un parallelismo di generi secondo lo schema A + B - A + B che Shea ha espresso graficamente nel modo seguente:

A Daniele 8: 8b

le ’arba‘ ruchôth “verso i quattro venti”

hashshamayim “dei cieli”

FEMMINILE

MASCHILE A

Daniele 8:9a

B

ûmin “e da

ha’achath la una”

B mehem “di essi”

275 - Vedi P.JOÜON, Grammaire de l’hebreu biblique, p. 412; L.KOHLER e W.BAUMGARTNER, Lexicon in Veteris Testamenti Libros, p. 877. 276 - Daniel and the Judjement, p. 85. 277 - Symposium on Daniel, p. 378.

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G.HASEL278 così spiega lo schema riportato sopra: “Mentre è mantenuta la sequenza dei generi femminile - maschile, c’è anche concordanza di numero tra le forme plurali del sostantivo maschile ‘cieli’ (shamayîm) e del suffisso pronominale maschile ‘essi’ (hem). L’aggettivo numerale ‘una’ (’achath) nel v. 9 a sua volta fa coppia con la forma femminile del sostantivo ‘venti’ (ruchôth) nel v. 8. “Questa costruzione sintattica - prosegue Hasel - è del tutto corretta sotto il profilo della grammatica ebraica e autorizza a ravvisare nel passo un parallelismo fra generi accoppiati... che ha l’equivalente nel parallelismo sinonimico secondo lo schema femminile + maschile - femminile + maschile caratteristico della poesia ebraica” (in nota l’Autore cita come esempi: Is 62:1b; 28:15; 42:4; 44:3b; Sl 57:6,11; 108:6; Gb 5:9; 18:10; Pr 5:5; 29:3). “In breve - osserva Hasel - abbiamo a che fare con una sintassi basata sull’accoppiamento dei generi la quale, per quanto attiene all’origine del ‘piccolo corno’, orienta verso uno dei punti cardinali...” E conclude, citando Shea: “Pertanto ‘risulta evidente da questa comprensione della sintassi di Dn 8:8,9 che nella visione il ‘piccolo corno’ entrò in scena provenendo da uno dei quattro venti del cielo’ e non dal corno seleucide o da una qualsiasi delle altre corna”. Questa comprensione di Dn 8:8,9 ha il pregio di rispettare l’integrità del testo, laddove l’esegesi storico-critica per adattarlo alla figura di Antioco Epifane ha dovuto alterarlo. Cambiando senza fondate ragioni il genere del pronome essa ha letto la frase iniziale del v. 8: “e dall’una di esse”, e l’ha collegata con l’espressione “quattro corna” del versetto precedente per fare uscire il quinto corno da una di quelle quattro corna. Anche la traduzione “un piccolo corno” ha richiesto un “aggiustamento” del testo originale. Come abbiamo visto l’ebraico dice letteralmente: “uscì un corno dalla piccolezza” (hfryi(C : m i tax) a -}erqe )fcyæ yatza’ qeren ’achath mitztze‘îrah). Del vocabolo composto mitztze‘îrah, “dalla piccolezza”, è stato soppresso il prefisso min, “da”, per modo che ‘îrah da sostantivo (“piccolezza”) è diventato aggettivo (“piccolo”). Con un ulteriore emendamento si è modificato anche l’aggettivo numerale ’achath (“una”) inserendovi la lettera resh per trasformarlo in ’achereth (“un altro”). In definitiva l’espressione originale “un corno dalla piccolezza” si è tramutata in “un altro piccolo corno”279, come si legge in molte versioni moderne.

278 - Op. cit., pp. 380-381. 279- Cfr. G.H. HASEL, op.cit., p. 395, nota 44.

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Il raffronto fra 5 versioni italiane riportato sotto evidenzia delle variazioni nella traduzione della seconda parte del v. 9: “...diventò molto grande verso il mezzogiorno, verso il levante e verso il paese splendido” (Luzzi) “... s’ingrandì verso il sud, verso l’ovest e verso il paese dello splendore” (Bernini) “... crebbe molto verso il mezzogiorno, l’oriente e verso la Palestina” (TOB) “... s’ingrandì assai verso mezzogiorno, verso oriente e verso lo splendore della terra” (Bibbia Concordata) L’ebraico dice: yibC e h a -le)wº xfrzº M i h a -le)wº begNå h a -le) retyå -laDg: Ti wá wattigddal-yether ’el hannegev we’el hammizrach we’el hatztzevî, letteralmente: “e s’ingrandì enormemente verso il sud, verso l’est e verso lo splendore”. Prima di prendere in esame l’ultima espressione del versetto, conviene soffermarsi sull’avverbio yeter. La Riveduta (Luzzi) e la TOB lo traducono “molto”, la Bibbia Concordata “assai”, Bernini lo omette addirittura. Rinaldi, con più aderenza all’originale, lo rende “enormemente”. È significativo che Daniele applichi con forza crescente il verbo gâdâl, “ingrandire”, al montone, al capro e al “piccolo corno”. a) In riferimento al montone persiano il profeta usa la forma attiva-riflessiva higdîl, che significa “si ingrandì”. b) Con la stessa forma verbale seguita dall’accrescitivo ’ad me’od, “molto”, “grandemente”, descrive la crescita del capro greco-macedone. c) Per rappresentare l’ingrandirsi del “piccolo corno” adopera una forma diversa dello stesso verbo seguita dall’avverbio yeter, “enormemente”, “smisuratamente”, (il verbo yatar significa “eccellere”, “essere preminente”, GESENIUS e DAVIDSON). Se Daniele, come sostiene l’esegesi moderna, avesse inteso davvero raffigurare Antioco Epifane col simbolo del “piccolo corno”, in sostanza ci avrebbe detto che il re di Siria sarebbe stato più potente dei re di Persia e di Alessandro e avrebbe dominato su un territorio più vasto di quello degli imperi persiano e macedone. Questo sarebbe stato assolutamente fuori della realtà storica perché Antioco non fu affatto più potente di Ciro, di Dario o di Serse e neanche di Alessandro e il territorio sul quale regnò fu soltanto una frazione di quello dell’Impero mace200

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done. Come vedremo in seguito, col simbolo del “piccolo corno” Daniele volle rappresentare una realtà del tutto diversa. Il nostro autore indica con chiarezza le direzioni dello spazio nelle quali si espanse il dominio del “piccolo corno”: verso il sud (’el hannegev), verso l’est (’el hammizrach) e verso lo splendore (we’el hatztzevî). Antioco tentò caparbiamente di estendere il suo dominio a mezzogiorno, cioè di impadronirsi dell’Egitto, ma non vi riuscì per l’intervento risoluto di Roma. Pertanto egli non s’ingrandì enormemente verso il sud. L’Epifane intervenne militarmente nelle province alte e orientali del regno (l’Armenia, la Persia, l’Elimaide, la Sogdiana), ma non per conquistarle, giacché esse facevano parte dello stato seleucide fin dalla sua nascita, intervenne bensì per mantenerle dato che le popolazioni locali - e in particolare i potentissimi Parti - minacciavano di riprendersele280. Dunque nessuna estensione del potere di Antioco verso oriente. Veniamo all’espressione finale del v. 9, ’el hatztzevî. Le versioni moderne aggiungono alla fine del versetto un vocabolo che nell’originale non c’è. È il termine “paese” (Riveduta, Bernini, Rinaldi) o “terra” (Bibbia Concordata). La TOB non traduce il vocabolo ebraico (zevi) ma lo interpreta dando per scontato che esso si riferisca alla Palestina. Che ’el hatztzevî “verso lo splendore” designi la Palestina è soltanto una congettura. Nel v. 10 si dice che il corno s’ingrandì “fino all’esercito del cielo” e fece cadere in terra delle stelle. È un riferimento evidente al firmamento. Nel v. 9 Daniele dopo avere descritto un’espansione orizzontale del corno (verso il sud e verso l’est) ha voluto alludere ad una sua estensione in verticale (verso lo splendore, cioè verso il firmamento). Quale possa essere il senso di questa sua proiezione verso l’alto si vedrà subito. 10 S’ingrandì, fino a giungere all’esercito del cielo; fece cader in terra

parte di quell’esercito e delle stelle, e le calpestò. “S’ingrandì fino a giungere all’esercito del cielo...” HASEL281 osserva che il termine “esercito” (ebr.)fbc : tzeva’) nell’Antico Testamento è applicato anche al popolo di Dio (Es 7:4: “...farò uscire dal paese d’Egitto le mie schiere”, ebr. tziv’othay). Se in Dn 8:10 il termine è applicato alla stessa maniera, esso si riferisce al popolo di Dio sulla terra sul quale si estende sinistramente il potere del corno. In effetti il v. 24 interpreta l’azione descritta nel v. 10 come la distruzione “dei

280 - Vedi F.A. ARBORIO MELLA, L’Impero Persiano, Milano 1979, p. 217. 281 - Op.cit., p. 398.

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potenti e dei santi dell’Altissimo” per mano del “corno” (i “santi dell’Altissimo” in 7:27 sono i fedeli di Dio che ricevono il regno dopo il giudizio). “L’attacco mosso ai ‘potenti ed al popolo dei santi’ - commenta Hasel - è un’allusione alla persecuzione del popolo di Dio. In breve l’attività del ‘piccolo corno’ consiste: (1) in una espansione orizzontale (possibilmente mirata a un rafforzamento di sé stesso mediante l’adozione del culto idolatrico) e (2) nella persecuzione dei santi di Dio sulla terra”282. Dio e Gesù Cristo s’identificano col popolo eletto perseguitato: “chi tocca voi tocca la pupilla dell’occhio suo” (Za 2:8); “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 9:4). Combattendo il suo popolo, il corno si aderge contro Dio. 11 S’elevò anzi fino al capo di quell’esercito, gli tolse il sacrifizio per-

petuo, e il luogo del suo santuario fu abbattuto. È stato notato un significativo cambiamento del genere dei verbi tra i vv. 9-10 e il v. 11. Nei vv. 9 e 10 ricorrono quattro forme verbali che a parte la prima sono tutte di genere femminile come si può vedere dallo specchietto sotto: vv. 9-10 )fcyæ yaza’ laDg: Ti thigddal laDg: Ti thigddal l”PaT thafal {“s:mr : Ti thirmesem

(“uscì”) (“s’ingrandì”) (“s’ingrandì”) (“fece cadere”) (“calpestò”)

m. f. f. f. f.

Nel v. 11 ci sono 3 forme verbali tutte di genere maschile come mostra lo specchietto che segue sotto: v. 11 lyiDg: h i higddîl {yir”h hurayîm \al$ : h u hushlak

(“s’ingrandì”) (“tolse”) (“abbattuto”)

m. m. m.

Svariate opinioni - tutte poco convincenti - sono state formulate per spiegare questo singolare cambiamento del genere dei verbi tra i vv. 9-10 ed il v. 11. Da ultimo si è ipotizzata - senza fondati motivi – un’interpolazione nel testo. Gli esegeti della scuola storicista hanno ravvisato in siffatto mutamento di genere il trapasso da una prima ad una seconda fase di sviluppo dell’entità rap282 - Ibidem.

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presentata dal simbolo unico del corno, vale a dire Roma. Qualcuno di loro G.M. PRICE per esempio - ha visto in 8:9-12 uno svolgimento simultaneo delle fasi politico-pagana ed ecclesiastico-papale. G.H.HASEL283 propende per uno svolgimento consecutivo: nei vv. 9-10 egli scorge Roma nella fase politico-pagana (premedievale) e nei vv. 11-12 la stessa entità storica nella fase ecclesiastico-papale (medievale e post-medievale). Il commento che segue, improntato al pensiero di questo autore, fornirà argomenti validi (filologici soprattutto) a supporto di questa visione, in particolare per quanto attiene al v. 11. “S’elevò fino al capo di quell’esercito...”, ebr. lyiDg: h i )fbC f h a -ra& da(wº we ‘ad sar hazzavâ’ higgdîl, letteralmente: “fino al principe dell’esercito s’ingrandì”. Hasel facendo riferimento a R. MOSIS284, osserva che usato in questa forma (cioè nella forma hifil) il verbo gadâl esprime l’idea che farsi grande “è un atto arrogante, presuntuoso e illegale”. Il “piccolo corno” si appropria in modo illegale, arrogante e presuntuoso le prerogative che appartengono in maniera esclusiva al “Principe dell’esercito”285. Chi è il “Principe dell’esercito” (sar hazzavâ’)? I commentatori che applicano ad Antioco Epifane Dn 8:9-14 vi identificano il sommo sacerdote Onia III assassinato nel 171 a.C. HASEL286 osserva con ragione che sebbene il termine sar (“principe”) nell’Antico Testamento sia talvolta riferito al sommo sacerdote (vedi 1Cr 24:5; Ed 8:24,29), l’espressione sar hazzavâ (“principe dell’esercito”) in nessun caso è applicata ad un sommo sacerdote. In Gs 5:14 è un Essere sovrumano che si presenta al leader delle tribù israelitiche con l’attributo di “Principe dell’esercito di Yahweh” (sar zevâ’ YHWH). In Dn 10:13 Micael è chiamato “uno dei primi principi” (’achad hassârîm hari’shshonîm) e 11:1 menziona “Micael vostro principe” (mîkâ’el sarkem), principe cioè del popolo di Dio. In 12:1 si annuncia il levarsi di “Micael, il gran principe” (mika’el hassar haggâdôl), in difesa del suo popolo (qui il principe Micael appare rivestito di potere giudiziale e lo si può con fondati motivi identificare con la figura del Figlio dell’uomo che esercita lo stesso potere in 7:13,14,26). Nel Nuovo Testamento Micael riceve il titolo di “arcangelo” (archangelos) ed è identificato con Gesù Cristo (Gd 9; 1Te 4:16; Ap 12:7,8). In Daniele tutto lascia credere che Mika’el e il sar hazzavâ siano la stessa figura celeste. È dunque contro il Figlio di Dio e non contro un sacerdote giudaico che si fa grande il “piccolo corno”.

283 - Op. cit., p. 401. 284 - “gadhal”, TDOT, 1975, 2:404. 285 - HASEL, op. cit., p. 402. 286 - Idem, p. 403.

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“...gli tolse il sacrificio perpetuo...”, ebr. dyimTf h a {yarh u UNeMm i U umimmennû hûraym hattamîd, letteralmente: “e a lui fu tolta la perpetuità”. L’antecedente più prossimo a cui possa essere riferita l’espressione ebraica mimmennû (“a lui”) è “principe dell’esercito”. È dunque a questo Essere celeste che fu tolto il tamîd. La forma verbale hûraym è difficile da tradurre. Dalla radice verbale rwm, “togliere via”, “rimuovere”, la traduzione più plausibile sembra essere “fu tolto”, “fu rimosso”. Tamîd nell’Antico Testamento ricorre invariabilmente con funzione di aggettivo (“continuo”, “perpetuo”) o di avverbio (“del continuo”, “perpetuamente”). In 8:11-13, 11:31 e 12:11 tamîd è preceduto dall’articolo (hattamîd) e di conseguenza ha valore di sostantivo (“la continuità”, “la perpetuità”). Dandosi per scontato senza motivi plausibili che tamîd in 8,11 e 12 si riferisca al sacrificio quotidiano (Es 29:38-42; Nu 28 e 29), tutte le versioni suppliscono in 8:11-13, 11:31 e 12:11 il vocabolo “sacrificio” (Rinaldi ha: “il sacrificio quotidiano”, altre versioni: “il sacrificio continuo” o “perpetuo”). Daniele conosce ed usa a proposito la terminologia liturgica del santuario: in 9:21 menziona “l’oblazione della sera” (minchath ‘erev). Se in 8:11-13, 11:31 e 12:11 avesse voluto riferirsi al sacrificio continuo, avrebbe usato il termine tecnico ‘olath hattamîd (“olocausto continuo”) proprio della terminologia del santuario (cfr. Nu 28 e 29 nell’ebraico). Sembra ovvio che con l’usare tamîd come sostantivo Daniele abbia voluto dire una cosa diversa. Tamîd nella legislazione cultuale del Pentateuco, oltre che all’olocausto quotidiano come aggettivo (‘olath hattamîd, “l’olocausto perpetuo”: vedi Es 29:42; Nu 28:3,6,10 ecc.), è applicato con funzione di avverbio a svariati atti liturgici, come il mantenimento del fuoco sacro sull’altare dei sacrifici (Le 6:13 - 6:6 nell’ebraico -), il mantenimento delle luci del candelabro del santuario (Le 24:2, vedi anche Es 27:20), il cambio settimanale dei pani di presentazione nel tabernacolo (Le 24:8). In 1Cr 16:37 tamîd con valore di avverbio è riferito al servizio dei sacerdoti davanti all’arca dell’Alleanza. In 8:11-13, 11:31 e 12:11 semmai sarebbe più logico supplire il termine generico “servizio” piuttosto che quello restrittivo “sacrificio”. Ma a prescindere da tutto questo, tenendo conto dell’uso che ne fa Daniele con funzione di sostantivo (una forma che non ricorre altrove nell’Antico Testamento), hattamîd (“la continuità”, “la perpetuità”) non può riferirsi ad altra cosa che ad una attività del celeste “Principe dell’esercito” che si svolge senza interruzione. L’ultima frase del v. 11 (nell’ebraico O$fDq: m i }Ok:m \al$ : h u wº wehushlak mekôn miqdashô) nelle versioni in lingua italiana è resa con notevoli varianti: “... e il luogo del suo santuario fu abbattuto...” (G. Luzzi).

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“... e fu profanato il luogo del suo santuario...” (G. Rinaldi). “... e fu profanata la santa dimora...” (TOB). “... e fu rovesciato il fondamento del suo santuario...” (Bibbia Concordata). Hushlak è la forma hofal del verbo shalak, “gettare”, “abbattere”, “rovesciare”, “distruggere”, sia in senso letterale che in senso metaforico. “Fu abbattuto” (Luzzi) e “ fu gettata a basso” (Diodati) sono dunque traduzioni coerenti di hushlâk. Ma poiché questo verbo non consente di armonizzare il passo danielico col modello della persecuzione di Antioco, giacché il re di Siria profanò ma non distrusse il tempio giudaico di Gerusalemme287, si è proceduto ad un’arbitraria sostituzione della forma verbale originale hushlak, attestata dai manoscritti più antichi, con una forma verbale totalmente diversa: tirmos (“contaminato”, “profanato”, “dissacrato”) la quale mette d’accordo il testo biblico col modello storico scelto dagli esegeti storico-critici288. La RINALDI e la TOB seguono il testo ebraico così modificato. Mekôn è il complemento del verbo hushlak. Luzzi e Rinaldi traducono “luogo” il sostantivo mekôn, Diodati “stanza” e Bernini e la Concordata “fondamento”. La TOB lo omette. Dal verbo kwn, “stabilire”, “fissare”, “confermare”, mekôn significa “dimora”, “luogo”, “fondamento”. Quest’ultimo è il senso preferito da Hasel289 il quale rileva che su 17 volte che mekôn ricorre nell’Antico Testamento, 16 volte si trova in contesti cultuali: in 7 casi come designazione del luogo della dimora di Dio in cielo (1Re 8:39, ecc.), cioè del suo santuario, come si vede da Es 15:17 dove l’equivalenza “dimora (di Dio)” - “santuario” è attestata dal parallelismo poetico. In 3 casi mekôn è riferito alla “dimora” terrestre di Jahvé, il santuario mosaico (Es 15:17), e il tempio salomonico (1Re 8:13; 2Cr 6:2); due volte, infine, è associato metaforicamente al trono celeste di Dio: nei Sl 89:14 (15 nell’ebraico) e 97:2, dove si dice che “giustizia ed equità sono le basi (mekôn) del suo trono”. Ulteriori indicazioni, nota ancora l’Hasel, emergono da un’analisi dei contesti cultuali di mekôn. “Dal luogo della sua celeste dimora - dice testualmente - cioè dal suo santuario nel cielo, Egli ascolta le preghiere dei suoi fedeli, israeliti e non (1Re 8:39, 41, 43), e da esso elargisce il perdono e rende giustizia”290.

287 288 289 290

- Vedi I Maccabei capitolo 1; G. RICCIOTTI, Storia d’Israele, vol. II, pagg. 270-271. - Cfr. G. HASEL, op.cit., pp. 410-411. - Ibidem, p. 412. - Ibidem, pp. 412-413.

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L’azione ostile del corno è diretta precisamente contro questa attività divina. “Ma l’atto del corno di abbattere il mekôn (‘fondamento’) del santuario celeste osserva ancora il nostro autore - è una interferenza nell’atto di Dio di ascoltare le preghiere dei suoi devoti e di offrire il perdono, base/fondamento del santuario di Dio nei cieli. L’atto del corno implica dunque un’intromissione nel senso che esso rende inefficace il ‘fondamento’ o la ‘base’ (mekôn) del santuario celeste dal quale procede la giustizia divina”291. Secondo la cristologia del Nuovo Testamento il Figlio di Dio, esaltato alla destra del Padre dopo la risurrezione (At 5:55-56; Rm 8:34; Eb 1:3,8), svolge nel suo celeste santuario (Eb 8:1-2; 9:11-12) un ministero continuo di mediazione e intercessione a favore nostro (1Tm 2:5; Rm 8:34; Eb 7:25; 1Gv. 2:1). “Questo ‘abbattere’ è un modo di trasmettere in un linguaggio grafico metaforico, l’idea che il potere del ‘piccolo corno’ giunge, per così dire, al centro stesso dell’attività divina nel santuario del cielo, un’attività che comporta il perdono del peccato. Siffatta azione tocca il cuore dell’intercessione e del ministero continui del ‘Principe dell’esercito’ (il Cristo) che ministra nel santuario celeste. In altri termini il potere del corno anti-divino attacca la base stessa dell’intercessione del celeste santuario con le sue attività mediatoria e salvifica a beneficio dell’uomo fedele”292. Mekôn miqdashô è il complemento del verbo hushlak, è ciò che il corno ha abbattuto. Miqdash, dal verbo qadâsh, “essere santo”, è il termine col quale il Pentateuco designa il santuario mosaico (cfr. Es 25:8; Le 12:4; 21:12; Nu 10:21; 18:1 ecc.) e con cui il cronista indica il tempio di Yahweh in Gerusalemme (1Cr 22:19; 2Cr 29:21). “Santuario” è dunque la traduzione corretta di miqdash e non “oblazione” come nella versione del Bernini. La TOB traduce miqdashô “la santa dimora”, non tenendo conto del suffisso di terza persona maschile unito a miqdâsh. Daniele ha voluto dire che fu il santuario del “Principe dell’esercito”, e non il santuario in senso indefinito, che il corno empio abbatté. “La dimensione cosmica del rovesciamento della base celeste del santuario citiamo ancora Hasel - esprime la realtà del tentativo di vanificare il ministero di Cristo in cielo mediante l’instaurazione di un rivale sistema mediatorio che distoglie l’attenzione degli uomini dall’opera sommo-sacerdotale di Cristo, privandoli così dei benefici continui del suo ministero nelle corti celesti”293.

291 - Ibidem, p. 414. 292 - Ibidem. 293 - Ibidem, p. 415.

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12 L’esercito gli fu dato in mano col sacrifizio perpetuo a motivo

della ribellione; e il corno gettò a terra la verità, e prosperò nelle sue imprese. Nei primi 7 versetti del cap. 8 s’incontrano 6 riferimenti che hanno attinenza con l’uso della facoltà visiva: 3 volte (vv. 1 e 2) si ripete la parola “visione” (chazôn), 2 volte (vv. 4 e 7) ricorre la voce verbale “io vidi” (ra’îthî) e 1 volta (v. 3) si legge l’espressione “alzai gli occhi e guardai” (wa’essa’ ’enay wa’er’eh). È evidente che l’attenzione di Daniele in questa parte della visione è concentrata sulle figure simboliche che scorrono davanti ai suoi occhi. Nel v. 12, con un attacco mosso alla “continuità” e un oltraggio inflitto alla “verità”, si conclude l’attività del “corno” contro il “Principe”, il suo “esercito” e il suo tamîd (“continuità”), e con essa si chiude anche la parte “visiva” della rivelazione. Nelle versioni moderne della Bibbia la prima parte del v. 12 è resa con notevoli differenze di senso. Si confrontino le seguenti traduzioni italiane: “L’esercito gli fu dato in mano col sacrificio perpetuo a motivo della ribellione; e il corno gettò a terra la verità e prosperò nelle sue imprese” (Luzzi). “Una milizia fu incaricata del sacrificio perpetuo sacrilego e la verità fu gettata a terra. Ciò si fece e vi riuscì” (Bernini) “E fu posto sul sacrificio quotidiano il peccato e si gettò a terra la verità; e ciò si fece e si riuscì” (Rinaldi) “In luogo del sacrificio quotidiano fu posto il peccato e fu gettata a terra la verità. Ciò esso fece, e vi riuscì” (TOB) “Una stele fu collocata nel luogo del sacrificio perpetuo con empietà e fu gettata a terra la verità. Così fece ed ebbe successo” (Bibbia Concordata) Alcune osservazioni s’impongono. 1. A parte le prime due traduzioni, le altre omettono il vocabolo “esercito” o “milizia” (tzava’) che si trova nell’originale. 2. Tutte le traduzioni riportate sopra aggiungono il termine “sacrificio” che manca nell’ebraico (il Luzzi vi supplisce anche la parola “corno”). 3. In tutte le versioni citate sopra si nota la preoccupazione dei traduttoti di armonizzare la prima parte del versetto col fatto storico della profanazione del tempio giudaico perpetrata da Antioco Epifane nel 167 a.C. (vedi 1Mac207

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cabei 1:54; 2Maccabei 6:1-2). Le versioni moderne interpretano il testo originale più che tradurlo. Proviamo a leggere il passo nell’ebraico: ;hfxyilc : h i wº hft& : (f wº hfcr : ) a tem) E \"l$ : t a wº (a$pf B : dyimTf h a -la( }"tNæ Ti )fbc f wº wetzava’ tinnathen ‘al hattamîd befasha‘ wetashlek ’emeth ’artzâh we’ashtah wehitzlîchah. Letteralmente: Un esercito fu dato sopra la continuità nella trasgressione, e si gettò la verità a terra; si fece e riuscì. L’interpretazione del passo che sarà data di seguito si attiene all’analisi che ne fa Hasel nell’opera citata alle pagine 416-420. Il sostantivo tzava’, “esercito”, può essere tenuto come il soggetto della proposizione perché precede il verbo (tinnaten, “dato”). Detto sostantivo essendo indeterminato (non è preceduto dall’articolo) si dovrebbe mantenerlo distinto dallo stesso sostantivo nei vv. 10 e 11. In altre parole, “l’esercito” che agisce in questo versetto non è lo stesso “esercito” contro il quale si volge l’attacco del “corno” nel v. 10. “La continuità” (hattamid) è la stessa entità menzionata nel v. 11 (il sostantivo è preceduto dall’articolo). “Esercito dunque nel v. 12 designa qualcosa che va contro ‘la continuità’ e deve essere messo in relazione col ‘corno’, in definitiva è l’esercito del ‘corno’ che si pone contro la ‘continuità’ del ‘Principe’. In questo contesto l’azione descritta nel v. 12 sembra suggerire l’idea che un esercito del piccolo corno nella forma di Roma ecclesiastica (questo simbolo può essere riferito al clero) sia investito del potere di opporsi alla continuità, cioè al ministero ininterrotto di mediazione e intercessione del celeste Principe dell’esercito. L’intercessione, la mediazione ed altri benefici connessi col tamîd sono completamente in potere dell’esercito del ‘piccolo corno’”294. Tinnaten è la forma passiva (nifal) femminile del verbo natan, “dare”. La preposizione ‘al (“sopra”), che nel testo in esame segue il verbo tinnaten, spesso, alla stessa stregua della preposizione be (“in”), ha il senso peggiorativo di “contro”295. Il verbo natan, “dare”, associato alla preposizione ‘al (o alla preposizione be), acquista il senso negativo di “porre contro”, “far ricadere su”296.

294 - G. HASEL, op.cit., pp. 416-417. 295 - Cfr. P.P. JOÜON, Grammaire de l’hebreu biblique, p. 407. 296 - 1Re 8:32: “... facendo ricadere sul suo capo...”, ebraico: ...latheth (dal verbo nathan)

darkô ber’osho (vedi anche 2Cr 6:23; Ez 7:3,4: “... ti farò ricadere addosso...”, ebraico: wenaththathi (dal verbo nathan) ‘alaîk ... (vedi anche 9:10; 11:21; 16:43; 17:19; 22:31).

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In definitiva, il “piccolo corno” ha posto qualcosa contro il ministero continuo del “Principe dell’esercito” e ciò facendo ha commesso una trasgressione (befasha‘, “con trasgressione”). Nella seconda proposizione del v. 8: wetashlek ’emet ’artzâh, “e gettò la verità a terra”, il verbo è ancora al femminile; esso può dunque avere come soggetto tanto il qeren (“corno”) del versetto precedente, quanto lo tzava’ (“esercito”) nominato in questo versetto, dal momento che entrambi i sostantivi nell’ebraico sono di genere femminile. Fu dunque il “corno”, o l’“esercito” del corno, che gettò a terra la verità. ’Emet, “verità”, spesso nell’Antico Testamento è usato in riferimento alla vera dottrina e al vero culto divino (W.GESENIUS). In Sl 119:142 ’emet è associato alla Parola di Dio: ûthoratkâ ’emet, “la tua legge è verità”. Questo vocabolo in altri punti del libro di Daniele (8:26; 10:1, 21; 11:2) è riferito alla rivelazione che procede da Dio. “Sulla base di questi usi del vocabolo - spiega Hasel - ‘verità’ nel v. 12 può comprendersi come un riferimento alla rivelazione di Dio nel suo insieme, comprese ‘la legge di Mosè’ e la rivelazione apocalittica contenuta nello stesso libro di Daniele. Questo contesto danielico corrobora l’idea che ‘verità’, qui nel v. 12, si riferisca alla divina verità della rivelazione che il corno getta a terra. Tale verità rivelatoria contiene le istruzioni relative al culto, alla salvezza e ad altri temi correlativi compreso il tema sul piano di Dio attinente all’instaurazione dei regni della grazia e della gloria”297. L’idea espressa dai due verbi che concludono il versetto è chiara: il potere simboleggiato dal “piccolo corno” riesce nelle sue imprese volte a contrastare l’azione di Dio. Ma solo in apparenza, giacché nella realtà Dio mantiene il controllo della situazione. 13 Poi udii un santo che parlava; e un altro santo disse a quello che

parlava: “Fino a quando durerà la visione del sacrifizio continuo e la ribellione che produce la desolazione, abbandonando il luogo santo e l’esercito ad essere calpestati?” È stata notata nel libro di Daniele una correlazione costante fra cielo e terra. Nel cap. 2 i quattro metalli che compongono la statua vista in sogno dal re di Babilonia evocano realtà “orizzontali”, terrene; mentre la pietra che cade dall’alto e frantuma la statua richiama ad una realtà “verticale”, celeste. Nel cap. 7 il giudizio e l’instaurazione del Regno eterno di Dio (realtà “verti-

297 - G. HASEL, op.cit., p. 419.

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cale”) fanno seguito alle attività delle 4 bestie e del “piccolo corno” (realtà “orizzontale”). Nei capp. 11 e 12 da una successione di eventi terreni che coinvolgono di volta in volta le potenze del mondo (la Medo-Persia, la Macedonia, i regni ellenistici e l’Impero romano), realtà “orizzontali”, si passa all’entrata in scena di Micael che redime i giusti alla risurrezione dei morti (realtà “verticale”). Il cap. 8 non fa eccezione: prende l’avvio dall’ambito delle cose terrene, poi si eleva in “verticale” svelandoci una violenta aggressione portata dal “corno” contro il “Principe” del cielo e culmina con l’audizione che introduce pienamente nella realtà celeste. Nel v. 12, come abbiamo visto, si è conclusa la fase “visiva” della rivelazione. Col v. 13 ha inizio una nuova fase nella quale il profeta deve impegnare soprattutto la facoltà auditiva. Due volte (vv. 13 e 16) egli dice: “e udii” (hf(m : $ : ) e wæ wa’eshme‘ah), e 3 volte (vv. 14, 17 e 18) usa l’espressione “e disse” (wayy’omer). Attonito per le cose sconvolgenti che ha visto nella parte finale della visione, Daniele assiste adesso a un dialogo fra due esseri celesti. Il dialogo verte precisamente su quelle attività dissacratorie del “corno” che hanno scosso il profeta. La maggior parte delle versioni moderne della Bibbia traduce il passo in modo da lasciar capire che la domanda dell’uno dei “santi” rivolta all’altro riguardi la durata dell’attività maligna del “corno”: “Poi udii un santo che parlava; e un altro santo disse a quello che parlava: ‘Fino a quando durerà la visione del sacrificio continuo e la ribellione che produce la desolazione abbandonando il luogo santo e l’esercito ad esser calpestati?” (così la versione di Luzzi). Altre versioni rendono il passo sostanzialmente alla stessa maniera: “Udii un santo parlare e un altro santo dire a quello che parlava: ‘Fino a quando durerà questa visione: il sacrificio quotidiano abolito, la desolazione dell’iniquità, il santuario e la milizia calpestati?” (TOB) “Udii parlare un santo e un altro santo disse a quel tale che parlava: ‘Fino a quando durerà la visione, vale a dire, fino a quando il sacrificio perpetuo sarà abolito, l’iniquità devastatrice sussisterà, e il santuario con il suo esercito sarà calpestato?” (Concordata) “Allora intesi un santo che parlava e un alto santo disse a quel tale che parlava: ‘Fino a quando durerà la visione: il sacrificio perpetuo rimosso, l’empietà devastatrice che vi è stata installata e la milizia conculcata?” (Bernini) In queste traduzioni sono aggiunte delle parole che nel testo originale non ci 210

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sono (le forme verbali durerà, abolito o rimosso, sussisterà ed il sostantivo sacrificio). S’avvicina un po’ di più all’ebraico la traduzione di G.Rinaldi: “Or io udii un santo parlare, e un altro santo disse a quel tale, che parlava: ‘Fino a quando la visione: il sacrificio quotidiano abolito e il peccato devastatore posto là e il santuario e il celeste esercito oggetto di conculcazione?” Questo traduttore non aggiunge il verbo “durerà”. Si deve comunque riconoscere che il testo ebraico è alquanto oscuro:;sfmr : m i )fbc f wº $edoqwº t"T {"mo$ (a$Pe h a wº dyimT f h a }Ozfxh e yatm f -da( ‘Ad matay hachazôn hattamîd wehappesha‘ shomem teth weqodesh wetzava’ mirmas? Letteralmente: Fino a quando la visione, la continuità e la trasgressione desolante (cioè che produce desolazione) e il santuario e l’esercito calpestati? Si ha l’impressione che effettivamente manchino delle parole nella frase. Ma il supplirle congetturalmente, come si è fatto, comporta - è naturale - il rischio di alterare il pensiero originale. Conviene meglio procedere ad un’accurata analisi filologica e contestuale del passo. È quello che ha fatto Hasel298, noi seguiremo la sua analisi. ‘Ad è una preposizione temporale: “fino a”, e il vocabolo che segue, mathay, è un avverbio interrogativo di tempo: “quando...?” L’aggiunta della forma verbale “durerà” nella maggior parte delle traduzioni moderne altera il senso della domanda. La frase interrogativa: ‘ad matay...? (“fino a quando...?”) esprime non già durata, ma limite di tempo. Quel che si vuol sapere non è quanto durerà l’azione devastante del “corno” (l’attacco mosso al tamîd, la trasgressione che cagiona desolazione e l’oltraggio fatto al santuario e all’ “esercito”), ma quando tutto questo finirà. Ben a proposito Hasel ricorda che l’angelo-interprete svela a Daniele in termini espliciti il tempo futuro a cui si riferisce la visione: “questa visione concerne il tempo della fine”, }Ozfxh e j"q-te(l : yiK kî le‘eth qetz hechazôn (v. 17); e ancora: “poiché si tratta del tempo fissato per la fine”, j"q d"(Om:l yiK kî lemô‘ed qetz (v. 19); e di nuovo: “la visione delle sere e delle mattine... è vera”, ma “si riferisce a un tempo lontano”, {yiBr a {yimyæ l : tem) E reqoBh a wº ber(e h f h")r : m a U ûmar’eh ha‘erev wehabboqer... ’emeth... leyamîm rabbîm (v. 26). “Siffatta enfasi posta sul tempo della fine nel v. 8 - sottolinea testualmente il

298 - Op. cit., pp. 439-448.

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nostro Autore - avvalora il senso di fine di un tempo che abbiamo dato al dialogo in forma di domanda/risposta nei vv.13 e 14”299. La comprensione del responso dell’interpellato nel v. 14 ovviamente richiede a monte la comprensione dei termini con i quali l’interpellanza è stata formulata nel v. 13. I termini su accennati, ricordiamolo ancora una volta, sono: “continuità” (tamîd), “trasgressione” (peshâ‘), “desolazione” (shomem) e “santuario” (qodesh) (il senso di “esercito” - tzeva‘ - è già stato chiarito). Si è già osservato come l’aggiunta del vocabolo “sacrificio” a “continuità” letta come aggettivo (“continuo”), sia un’operazione non autorizzata dal contesto né - aggiungiamo qui - dai manoscritti. Nell’ebraico non c’è alcun aggettivo che qualifichi il termine tamîd e i numerosi manoscritti masoretici di Daniele esistenti hanno tutti l’identica forma. Thamîd nel v. 13 ha lo stesso significato che nei vv. 11 e 12: il vocabolo si riferisce al ministero sacerdotale ininterrotto di Gesù Cristo nel santuario celeste. Il termine ebraico per “trasgressione”, peshâ‘, è “la parola più profonda usata nel Antico Testamento per esprimere il concetto di ‘peccato’”300. Fondamentalmente questa parola significa “ribellione” nel senso di azione mediante cui “uno interrompe ogni rapporto con Dio sottraendogli ciò che è suo, derubandolo, appropriandosi fraudolentemente di ciò che gli appartiene”301. Il nostro Autore ha studiato le connessioni terminologiche e teologiche fra pesha‘ e vari contesti scritturali. In Dn 9:24 il vocabolo compare nella frase: “per porre fine alla trasgressione (pesha‘)”. Dio ha fissato un tempo entro il quale Israele dovrà far cessare la “trasgressione”. In Le 16:16 e 21 pesha‘ è usato nel contesto della purificazione del santuario nel giorno dell’espiazione. Sia in Dn 9:24 che in Le 16:16,21 questo vocabolo è usato in relazione col popolo di Dio (in Le 16 l’enfasi cultico-giudiziale è inequivocabile ed un contesto cultico è evidente in Dn 8:11-14). La “trasgressione” a cui si allude in Dn 8:11-14 può essere la trasgressione alla quale il popolo di Dio è stato trascinato mediante l’attività del “piccolo corno”. Il participio shomem in certe versioni della Bibbia è tradotto “causante orrore”, in altre è reso “che produce la desolazione” (Luzzi) e da certi espositori è stato accostato all’espressione “abominazione della desolazione” ricorrente in Dn 9:27, 11:31 e 12:11. In realtà in questi 3 passi l’unico elemento comune è il termine shomen; a parte questo “non ci sono due espressioni che siano identiche”302.

299 300 301 302

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- Ibidem, p. 430. - L. KÖHLER, Old Testament Theology, p. 170, citato da HASEL, op. cit., p. 440. - R. KNIERIM, “pesha‘ Verbrechen”, THAT, 2:493, citato da HASEL, op.cit., p. 440. - H.H.ROWLEY riportato da HASEL, op. cit., p. 441.

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Alcuni autori hanno collegato l’espressione wehappesha‘ shomem (resa in qualche versione “la ribellione che produce la desolazione”) alle parole di Gesù in Mt 24:15: “Quando dunque avrete veduta l’abominazione della desolazione, della quale ha parlato il profeta Daniele, posta in luogo santo (chi legge pongavi mente)...”. Hasel osserva che da come ne parla Gesù risulta chiaro che la profezia nel suo tempo non si era ancora adempiuta. Poi si pone la domanda se Gesù in Mt 24:15 si riferisca davvero a Dn 8:13. La fraseologia scelta da certi traduttori per tradurre Dn 8:13 e Mt. 24:15 - osserva - parrebbe presupporlo. Ma nel testo greco che soggiace alla frase “l’abominazione della desolazione” nella traduzione di Mt. 24:15 - puntualizza Hasel l’espressione è to bdelygma tas eremoseos, un’espressione molto simile a quella che si trova nella traduzione di Dn 11:31 nella versione greca di Teodozione: bdelygma eremoseos è identica alla traduzione della stessa frase in Dn 12:11: to bdelygma tes eremoseos. I LXX rendono l’espressione ebraica wehappesha‘ shomen in Dn 8:13 he hamartia eremoseos. In queste traduzioni si riflette la terminologia ebraica differenziata usata in Dn 8:13 da una parte e 11:31 e 12:11 dall’altra. Il termine bdelygma - spiega Hasel richiamandosi a W. BAUER e ad altre autori - significa “abominazione” e traduce l’ebraico shiqqutz. Si può dunque osservare che dal punto di vista della linguistica la frase di Mt 24:15 (“l’abominazione della desolazione”) non deriva da Dn 8:13 (o 9:27) ma piuttosto da Dn 12:11 e possibilmente da 11:31. “In breve - ne deduce il nostro Autore - l’attività descritta in Dn 8:13 con la frase ‘la trasgressione che provoca orrore’ non è identica a quella con cui Gesù in Mt 24:15 descrive ‘l’abominazione della desolazione’. Gesù sembra fare riferimento agli eventi descritti in 12:11 e verosimilmente anche in 11:31”303, ma non in 8:13. Il senso di shomem in 8:13 può essere chiarito dall’uso che si fa dello stesso termine in altri punti del libro. In 8:27 ricorre una forma della radice shmm da cui deriva shomem. Daniele dice di essere “spaventato” o “ costernato” (’eshthômem) a motivo della visione. L’uso differenziato di parole che provengono dalla stessa radice (shmm) osserva Hasel - consente di cogliere 3 idee: (1) uno stato psicologico caratterizzato da orrore traumatizzante; (2) devastazione/desolazione quando il termine è riferito a santuario/tempio; (3) giudizio decretato da Dio. E conclude: “Sulla base di questo background la frase: ‘la trasgressione che provoca orrore’ sembra esprimere un fortissimo raccapriccio suscitato dalla trasgressione cultico-religiosa

303 - HASEL, op. cit., p. 443.

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a cui ha dato origine il ‘piccolo corno’ mediante un sistema contraffatto di servizio sacerdotale e di mediazione che rivaleggia col sistema celeste e induce gli uomini a trasgredire la verità sulle attività redentive divine”304. Nei vv. 11 e 13-14 due parole differenti ma aventi la stessa radice (qdsh): miqdash (v. 11) e qodesh (vv. 13 e 14), in sostanza significano la stessa cosa. Miqdash è reso “santuario” in varie versioni italiane (Luzzi, Rinaldi, Concordata) mentre altre lo traducono “santa dimora” (CEI) o “oblazione” (Bernini). Qodesh nei vv. 13 e 14 è reso concordemente “santuario” nelle versioni citate di solito in questo commentario (TOB, Concordata, Bernini, Rinaldi, Luzzi; quest’ultimo nel v. 13 lo traduce “luogo santo”). La TOB francese traduce uniformemente “santuario” sia miqdash in 8:11 che qodesh in 8:13 e 14. Hasel305 sostiene l’identità di senso dei due termini contro quegli autori che li distinguono semanticamente (MARTI, PLOGER, HASSLBERGER) riconoscendo al primo il significato di “santuario” e annettendo al secondo quello di “cose sante”, “disposizioni” e “istituzioni religiose” o di “sacri insegnamenti”. A questi autori il nostro teologo oppone un’argomentazione scritturale convincente che riproduciamo nelle righe che seguono. Nell’Antico Testamento qodesh ricorre non meno di 469 volte, 326 nella forma singolare allo stesso modo che 8:13-14. Come nome astratto qodesh può riferirsi alla santità di Dio (Es 15:11; Is 52:10 ecc...), ma in senso concreto spesso designa il santuario terreno (Es 36:1; Le 4:6; Nu 3:28, 31-32; 1Cr 22:19; Is 43:28; Ml 2:11; Sl 68:24 ecc...), e qualche volta anche il santuario dei cieli (Sl 60:6; 68:5; 102:19 ecc...). Talora qodesh designa il luogo santissimo del santuario (Le 16:2; Ez 41:21,23). Con valore di aggettivo qodesh è associato a “sacerdoti” (Le. 21:6) e a “leviti” (2Cr 23:6 ecc...); a volte qualifica il popolo di Dio (Is 62:12; Dn 12:7 ecc....). Ma nell’Antico Testamento neanche una volta sola - puntualizza Hasel - questo termine designa “disposizioni” e “istituzioni religiose”, “sacri insegnamenti” e simili in senso collettivo. L’uso di qodesh nelle Scritture ebraiche aiuta a chiarire il senso del termine in 8:13-14. In questo contesto danielico qodesh fa parte dei termini e delle frasi che ricapitolano i concetti espressi nei vv. 11 e 12 dove compare il vocabolo miqdash, che qodesh ricapitola nei vv. 13-14. Entrambi questi termini ricorrono con frequenza nell’Antico Testamento come designazioni del santuario/tempio sia terreno che celeste. Nell’audizione che comincia in 8:13, qodesh ricompare con ulteriori implicazioni. Una è rilevabile inequivocabilmente nell’espressione “il ‘luogo’ santissimo” (qodesh qodashîm) riferita al “santuario” in 9:24.

304 - Ibidem, p. 443. 305 - Ibidem, pp. 445-446.

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“L’unzione del santuario dei cieli è il preludio dell’epilogo di quella ‘purificazione’ del santuario alla quale si allude in 8:13-14”. Un’altra implicazione ha attinenza diretta col popolo di Dio o con i termini usati in altre parti del libro per designarlo. Il cap. 7 menziona ripetutamente “i santi dell’Altissimo” (aramaico: qaddîshe ‘elyônîn), detti anche “il popolo dei santi dell’Altissimo” (‘am qaddîshe ‘elyônîn). Ai “santi dell’Altissimo” perseguitati dal “piccolo corno” è “resa giustizia” (7:22 Concordata, TOB) nel giudizio dell’Altissimo che precede l’avvento del regno eterno che i “santi” riceveranno dalle mani del Figlio dell’uomo. Anche nel cap. 8 il “corno” che nasce “dalla piccolezza” perseguita il “popolo dei santi” (‘am qedoshîm, v. 24). E finalmente avrà fine la dissipazione delle “forze del popolo santo” (‘am qodesh) (12:7). Queste associazioni terminologiche e concettuali di qodesh col santuario, i santi ed il giudizio nel libro di Daniele dice Hasel - non possono essere accidentali: qodesh in 8:13 mira a stabilire delle connessioni terminologiche e concettuali per chiarire i punti di massima tensione delle visioni dei capitoli 7, 8-9 e 11-12. Evidenziate le implicazioni di qodesh (“santuario”) in daniele, Hasel ritorna su 8:13 per rilevare che nella frase “il santuario e l’esercito dati ad essere calpestati” non si può scorgere una correlazione sintattica fra i termini “santuario” (qodesh) ed “esercito” (tzava’). “Esercito - egli dice - ricapitola quanto lo stesso termine esprimeva nel v. 10, ovvero il popolo di Dio identificato come “il popolo dei santi” nel v. 24. Il “santuario” e “l’esercito” sono abbandonati ad un “calpestio”. Mirmas come sostantivo nell’Antico Testamento compare con due sole attinenze, dice Hasel: (1) il calpestio del terreno coltivato da parte degli animali da pascolo (Is 5:5; 7:25; Ez 34:19); (2) il calpestio del popolo da parte del nemico (Is 10:6; 28:18; Mic 10:7). In Is 1:12 una forma verbale dalla quale deriva mirmas è usata in un contesto cultico. Si allude in questo passo agli adoratori e agli animali sacrificali che calcano i sacri cortili del tempio. Nelle forme verbali e nominali derivate dalla radice rms manca qualunque idea di contaminazione o dissacrazione. Mirmas in 8:13 esprime il concetto di prevaricazione a danno del “santuario” e dell’ “esercito”. “Abbiamo condotto con accuratezza la nostra indagine in merito alla domanda formulata in 8:13 - conclude Hasel - con l’intento di farne emergere il significato dal testo stesso letto alla luce del contesto del capitolo, del libro di Daniele e della Bibbia in generale. Da questa indagine è risultato chiaro che il tenore della interpellanza orienta alle cose che dovranno accadere al termine della visione. L’espressione temporale in 8:13 non è incentrata su quello che avverrà durante il lasso di 215

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tempo contemplato nella visione, dirige bensì l’attenzione verso il punto terminale di questo lasso di tempo ed oltre”306. 14 Egli mi disse: “Fino a duemila trecento sere e mattine; poi il san-

tuario sarà purificato”. Il responso dell’essere celeste è rivolto non all’altro essere celeste che lo ha sollecitato con la sua domanda, ma al profeta che ha assistito al dialogo fra i due: “Ed egli mi disse...”, yal)" rem)oYwá wayy’omer ’elay... L’angelo-rivelatore parla a Daniele come se avesse letto nel suo pensiero un intenso desiderio di conoscere il tempo futuro in cui terminerebbe infine la guerra accanita del “corno” contro il celeste “Principe”, il suo “santuario” ed il suo “esercito”. La rivelazione dell’angelo è diretta e concisa: “Fino a duemilatrecento seremattine...”, tO)"m $ol$ : U {éyPa l : ) a reqoB ber(e da( ‘ad ‘erev boqer ’alpaym ûshelosh me’oth... Interpellanza e responso iniziano con la stessa parola: ‘ad, “fino a”. Segno che interpellante e interpellato hanno in mente la stessa cosa: un punto di arrivo, una scadenza (non una durata come interpretano generalmente le versioni). Questo punto d’arrivo è posto al termine di un periodo di “2300 sere-mattine”. Gli studiosi di Daniele - e non soltanto quelli contemporanei - che abbassano al II secolo a.C. la data di composizione del libro, sono concordi nel dire che l’espressione del testo ebraico ‘erev-boqer ’alpaym ûshelosh me’ôth, “duemila-trecento sere-mattine” indica il numero totale di sacrifici tamîd (“continui”) che furono soppressi nel tempio di Gerusalemme durante la persecuzione di Antioco Epifane tra il 167 e il 164 a.C. Poiché ogni giorno si immolavano nel tempio gerosolimitano due olocausti - uno al mattino e uno la sera - 2300 sacrifici si offrivano in 1150 giorni (così A.BENTZEN, K.MARTI, J.A.MONTGOMERY, N.W. PORTEOUS, O.PLÖGGER, M.DELCOR, A.LACOCQUE ed altri seguiti quasi senza eccezioni dai commentatori e dai compilatori delle note delle versioni)307. Contro il dimezzamento delle 2300 sere-mattine militano però serie difficoltà che gli espositori conservatori non hanno mancato di rilevare. Hasel le ha riassunte nei punti seguenti: 1. Nel linguaggio del rituale sacrificale quotidiano il doppio sacrificio del mattino e della sera è designato invariabilmente con l’espressione “olo-

306 - Ibidem, p. 448. 307 - Vedi G.RINALDI, Daniele, pp. 117-118; G.BERNINI (come interpretazione alternativa),

Daniele, p.238; Bibbia Concordata, nota a Dn 8:14; Traduzione ecumenica, TOB (col testo della CEI), nota X a p. 1640; Bibbia di Gerusalemme, testo della CEI (come opzione possibile) nella nota a Dn 8:14 a p. 1935.

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causto continuo” al singolare (dyimTf talo(‘olath tamîd). Questa espressione è applicata, con un’unica eccezione (Nu 28:23), ai due olocausti quotidiani insieme308. Ogni ‘olath tamîd comprendeva due sacrifici quotidiani, non uno solo309. Pertanto la divisione in due del ‘olath tamîd - e conseguentemente delle 2300 sere-mattine in 8:14 - è arbitraria. 2. Nel linguaggio della liturgia sacrificale dell’Antico Testamento, per quanto attiene al doppio sacrificio quotidiano l’ordine di successione dei due olocausti è invariabilmente mattina e sera, mai sera e mattina 310. Dunque l’espressione “sere-mattine” in 8:14 non è riferita ai sacrifici tamîd ma ad un periodo di tempo. 3. La separazione delle “sere” e delle “mattine” allo scopo di dimezzare il numero 2300 non ha alcun sostegno esegetico. L’espressione “sera e mattina” per designare un giorno intero compare per la prima volta nel racconto della creazione in Ge 1: “fu sera e fu mattina, e fu il primo giorno”, dfx) e {Oy reqob-yihyº wá ber(e -yihyº wá wayhî ‘erev wayhî voqer yom ’echad (l’espressione si ripete 6 volte). Daniele per indicare i giorni profetici usa il linguaggio lapidario del racconto della creazione (S.J. SCHWANTES). C.F. KEIL311 osserva con ragione: “Un lettore ebreo non potrebbe capire il periodo temporale (di) 2300 sere-mattine... (come equivalente a) 2300 mezze giornate o 1150 giorni completi, poiché alla creazione sera e mattina costituirono un giorno pieno e non due mezze giornate... Dobbiamo dunque prendere le parole così come sono, vale a dire dobbiamo comprenderle nel senso di 2300 giorni completi”. Gli ebrei quando volevano indicare separatamente i giorni e le notti numeravano gli uni e le altre: “quaranta giorni e quaranta notti”, “tre giorni e tre notti” (cfr. Es 34:28; 1Re 19:8; Gion 2:1; Mt 12:40). “Quaranta giorni e quaranta notti” non significava 20 giorni pieni ma 40 giorni di calendario. Correttamente i LXX traducono “2300 giorni” l’espressione ebraica “2300 sere-mattine”.

308 - “Questo è il sacrificio mediante il fuoco che offrirete all’Eterno: degli agnelli dell’anno, senza difetti, due al giorno come olocausto perfetto (‘olath thamîd)”. Nu 28:3. In Nu 28 e 29 l’espressione ‘olath thamîd (“olocausto continuo”, al singolare), è riferita 15 volte al doppio olocausto quotidiano (28:3,4,10,15,31; 29:11,16,19,22,25,28,31,34,38). L’unica eccezione in 28:23 non invalida quest’uso costante. 309 - Vedi S.J. SCHWANTES, “‘Ereb Boqer of Daniel 8:14 Re-examined” in Symposium on Daniel, pp. 462 e seguenti 310 - Vedi Es 29:39; Le 6:12,13; Nu 28:4, II Re 16:15; 1Cr 16:40; 23:30; 2Cr 2:4; 13:11; Ed 3:3. 311 - Biblical Commentary on the Book of Daniel, Grand Rapids 1949, p. 630, citato da G.HASEL, op. cit., p. 432.

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4. Comunque, che le 2300 “sere-mattine” si comprendano correttamente come 2300 giorni pieni o erroneamente come 2300 mezze giornate, resta il fatto incontestabile che nessun periodo di 6 anni, 4 mesi e 20 giorni (a tanto corrisponderebbero 2300 giorni di calendario considerando l’anno di 360 giorni), o di 3 anni, 2 mesi e 10 giorni, da riferire a un episodio della campagna antigiudaica di Antioco IV è deducibile dai due libri dei Maccabei o dagli scritti di Giuseppe Flavio. C.H.H. WRIGHT312 scrive: “Tuttavia, che si consideri questo periodo come equivalente a 2300 o a 1150 giorni, i tentativi di armonizzarlo con un’epoca storica specifica menzionata nei libri dei Maccabei o in Giuseppe, sono falliti... Ha ragione il prof. Driver - conclude Wright - quando dichiara: ‘Sembra impossibile trovare due eventi separati da 2300 giorni (6 anni e 4 mesi) che corrispondano ai fatti descritti’”. La profanazione del tempio ad opera di Antioco durò esattamente 3 anni e 10 giorni (vedi 1Maccabei 1:54; 4:52) , cioè 1090 giorni di calendario. C’è un divario di 60 giorni rispetto ai presunti 1150 giorni, un divario che non si spiegherebbe se il libro fosse stato davvero composto al tempo dei Maccabei! Senza contare il fatto che il dimezzamento dei 2300 giorni è comunque un’operazione arbitraria perché non sostenibile biblicamente. All’argomentazione del Dott. Hasel aggiungiamo una nostra considerazione. Le profezie di Daniele hanno di regola uno sbocco escatologico (cfr. 2:44; 7:25-26; 12:1-3). Quella riportata nel cap. 8 non fa eccezione. Gli eventi predetti in questo capitolo si estendono dall’età persiana (v. 20) sino alla fine dei tempi (v.19). I primi 8 versetti del capitolo anticipano profeticamente eventi storici che si sarebbero svolti lungo un arco di tempo di circa 240 anni (dal sorgere dell’Impero medo-persiano al tramonto dei regni ellenistici). Poi sarebbe sorto il potere raffigurato dal “piccolo corno” (vv. 9-12) che avrebbe agito a suo talento sino alla sua finale distruzione “senz’opera di mano”, r"b< f yé dæy sep) e b : U ûve’efes yâd yishshaver (v. 25). L’identica espressione in 2:34 è interpretata da Daniele nei vv. 44-45 come un intervento risolutivo di Dio alla fine dei tempi. Comprimere in soli 3 anni di calendario una successione di eventi di così vasta portata come sono quelli descritti in 8:9-12 e interpretati nei vv. 22-25, ci sembra francamente un’impresa disperata! È sana norma esegetica riconoscere valore simbolico a riferimenti temporali inseriti in contesti letterari simbolici. Questo principio è stato com-

312 - Citato da G.HASEL, op. cit., nota 25, pp. 432-433.

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preso a applicato fin dagl’inizi del IX secolo in ambito ebraico e a partire dalla seconda metà del XII secolo fra i cristiani. Sono stati numerosi, nei due campi, gli espositori di Daniele che nei secoli seguenti hanno equiparato ad anni storici i giorni profetici menzionati in questo libro313. Un consenso ampio su un’interpretazione biblica è certamente una circostanza confortante, ma non è di per sé sufficiente a garantire la correttezza dell’interpretazione stessa. La prova del nove sta nel sostegno oggettivo che quest’ultima può ricevere da una solida documentazione biblica. Una siffatta documentazione sul principio di equivalenza giorno-anno nelle profezie danieliche e offerta dal prof. WILLIAM H. SHEA314.

313 - Agl’inizi del IX secolo il dotto giudeo Nahawendi eguagliò ad altrettanti anni i 1290 e i

2300 giorni delle profezie di Daniele. Nel secolo X utilizzarono lo stesso principio per interpretare le 70 settimane e uno o più di uno dei periodi di 1290, 1335 e 2300 giorni del libro di Daniele, i dotti giudei Saadia ben-Josef, Jeroham, Hakohen, Iefet ibn-Alì e Rashi. Nei secoli XI e XII applicarono questo criterio esegetico ai più lunghi periodi profetici di Daniele i rabbi Hanasi e Eliezer, e nel secolo XIII lo studioso giudeo Nahmanides (vedi LEROY EDWIN FROOM, The Prophetic Faith of Our Fathers, Washington DC 1946,1950, vol. I, p. 713. Vedi anche ALFRED-FELIX VAUCHER, Lacunziana I, 1949, pp. 54-56). Fra i cristiani l’abate calabrese Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202) fu il primo espositore delle profezie apocalittiche ad utilizzare il principio giorno-anno per interpretare i lunghi periodi profetici di Daniele (i 1260, i 1335 e i 2300 giorni). Lo seguirono il teologo laico spagnolo Arnoldo da Villanova (circa 1235- circa 1313), il francescano della Linguadoca Pierre Jean d’Olivi (1248-1298) e l’italiano Ubertino da Casale nato nel 1259 (vedi L.E.FROOM, op. cit., pp. 750-751; 772-773; 780). L’escatologo ALFRED-FELIX VAUCHER nel suo saggio Les prophécies apocalyptiques et leur interpretation (Collonges-sous-Salève 1972, p. 9) cita lo studioso William Bell Dawson (nato nel 1854) il quale ha scritto: “Che un giorno nella profezia corrisponda ad un anno lo hanno riconosciuto i principali esegeti dalla Riforma in poi” (“Solar and Lunar Cycles implied in the prophetical Numbers in the Book of Daniel” in Transactions of the Royal Soc. of Canada, 2d Series, XI, III, Ottawa 1905, p.51). A.F.Vaucher dice che “non basterebbero parecchie pagine per menzionare tutti gli autori protestanti che si sono occupati dei 2300 giorni compresi come altrettanti anni” e ne nomina alcuni fra i più noti: il fisico inglese Isaac Newton (1643-1727), l’astronomo valdese Jean Philippe Loys de Cheseaux (1718-1751), il vescovo anglicano Thomas Newton (1704-1782), il cronologo William Hales (1747-1831), l’espositore Edward Bishop Elliott (1793-1853) (Les prophécies apocalyptiques et leur interpretation, p. 10). Fra gli autori cattolici che hanno interpretato i 2300 giorni di Dn 8:14 in termini di anni il Vaucher ricorda il canonico Claude Lesquevin (seconda metà del XVIII secolo), l’ebraicista Francois Houbigant (1686-1783), il canonico giansenista Pierre Jourdan, morto nel 1746, il giurista messicano José Maria Rosas-Gutierrez (1769-1848), Pierre Lacheze (1840), William Palmer (1811-1879), Salvatore Di Pietro (1830-1898) ed altri (ibidem, p. 11). 314 - Vedi Appendice 8A a fine capitolo.

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In questo commentario l’equivalere dei “giorni” profetici delle visioni danieliche ad anni storici è fondato primariamente sull’autorità della Scrittura, come si dimostra nella nota 40, e solo secondariamente sul consenso di un buon numero di interpreti distribuiti lungo un ampio arco di tempo. Come già detto prima, qui si respinge l’interpretazione corrente delle 2300 sere-mattine di 8:14 in termini di mezze giornate di calendario, e si sostiene l’equivalere di questo periodo profetico a 2300 anni storici interi. Annunciare un evento che si produrrà in capo ad un periodo di tempo esattamente quantificato sarebbe una cosa futile se non fosse dato di poter determinare con precisione la data di scadenza del periodo stesso. Daniele non fornisce la data di scadenza dei 2300 giorni-anni annunciati in 8:14 (aspettarselo sarebbe pretendere troppo dalla profezia!), ma fa riferimento ad un evento storico futuro cronologicamente determinabile che consente di fissare nella storia l’inizio di quel periodo, e conseguentemente il suo scadere. Prima di entrare nel merito però dovremo analizzare i termini del v. 14, che fanno seguito all’elemento numerico allo scopo di cogliere il senso e la portata dell’evento predetto per la fine dei 2300 giorni-anni. L’angelo rivelatore rispondendo all’angelo che lo ha interpellato fa seguire all’elemento numerico la frase: “poi il santuario sarà purificato” (G. Luzzi) o “giustificato” (altre versioni). L’ebraico ha: $edoq qaDc : né wº wenitzdaq qodesh. Nitzdaq è la forma nifal (passivo semplice) del verbo tzadaq, “essere giusto” “essere corretto”, “giustificare”, “rivendicare”, “rendere giusto”, “addurre alla giustizia” (B. DAVIDSON). Le versioni antiche traducono unanimemente nitzdaq: “sarà purificato” i LXX e Teodozione, la Vulgata, la Siriaca e la Copta, dipendenti dai LXX, traducono allo stesso modo. Si vedrà più avanti che la nozione di “purificazione” non è estranea ai termini derivati dalla radice tzdq, secondo l’uso che ne fa l’Antico Testamento. La maggior parte dei traduttori contemporanei si attiene però alle accezioni comuni del verbo tzadaq. La Versione della CEI, per esempio, traduce nitzdaq “sarà rivendicato”, la Concordata: “sarà resa giustizia”, la TOB francese: “sera rétabli dans ses droits”, Bernini: “sarà fatta giustizia”, Rinaldi: “sarà giustificato”. Hasel ha studiato la gamma piuttosto ampia di significati che esprime il verbo ebraico tzadaq basandosi sui termini paralleli ricorrenti nella poesia ebraica e sulle forme verbali affini usate nell’Antico Testamento. 1. Termini paralleli nella poesia ebraica. Giustamente, questo studioso osserva che un procedimento importante per ricuperare i significati delle parole ebraiche consiste nel confrontare i termini paralleli nei componimenti poetici dell’Antico Testamento. Per quanto attiene alla radice tzdq, si è notato che vari vocaboli derivanti da essa ricorrono in parallelismo coi termini zakah, “essere 220

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puro”, thaher, “essere pulito”, “netto”, e bor, “pulizia”, “nettezza”315. In Gb 15:14 e 25:4 sono messi in parallelo zakah, “essere puro”, e tzadaq, “essere giusto” (nelle forme yizkeh e yitzdaq). Il Sl 51:6 (51:4 nella Riveduta) recita: “...perciò sei giusto (thitztzddak) quando parli, retto (tizqeh) nel tuo giudizio” (Versione. CEI). In Gb 4:17 compaiono in parallelo gli aggettivi tzaddîq, “il giusto”, e tahar yadayîm, “il puro di mani” (Hasel nota che taher è il termine tipico dell’Antico Testamento per indicare la purezza cultico-rituale, e cita Le 16:9, 30 dove il termine è usato in rapporto alla purificazione del Santuario). Il Sl 18:20 pone in parallelo i sostantivi tzedeq, “giustizia”, e bor, “nettezza”: ivi la “giustizia” dell’uomo retto è eguagliata alla “purezza delle sue mani”. “Sembra ragionevole arguire sulla base di questi termini paralleli e delle loro strette associazioni - conclude Hasel - che le nozioni di pulizia/purezza, nettare/purificare debbano considerarsi parte del contenuto semantico delle varie forme di tzadaq secondo i loro usi contestuali. Si può pensare che l’unanimità con cui le versioni antiche traducono “sarà nettato/purificato” l’ebraico nitzdaq in 8:14, rifletta le suddette sfumature semantiche di netto/puro e nettezza/purezza che si colgono in questi termini sinonimi del parallelismo poetico ebraico”316. 2. Forme verbali affini nell’Antico Testamento. Si conoscono una quarantina di forme verbali della radice zdq le quali esprimono tutta una gamma di sfumature di senso della radice stessa. Hasel menziona la forma qal (attivo semplice) che significa “essere nel giusto”, “avere ragione”, “detenere la giusta causa”, “essere giusto, retto”, “ rivendicare”; la forma piel (attivo intensivo) che significa “dichiarare giusto”, “mostrare che qualcuno è giusto, innocente”, “voler essere giusto”; la forma hifil (attivo causativo) che ha il senso di “rendere giustizia”, “dichiarare giusto”, “giustificare”, “rivendicare”; e infine la forma hitpael (riflessivo intensivo) che vuol dire “giustificarsi”. Dall’uso biblico delle varie forme verbali derivate dalla radice tzdq - osserva Hasel - emergono tre idee fondamentali che sono: giustificare, rivendicare, rettificare. Anche nelle lingue moderne questi verbi evocano la corte di giustizia ed il processo giudiziario. Il nostro autore cita vari passi di Isaia nei quali dei vocaboli derivati dalla radice tzdq appaiono in stretta relazione con l’ambiente della corte di giustizia. In Is 43:9, per esempio, il Signore rivolge ai popoli pagani una sfida in questi termini: “Producano i loro testimoni e stabiliscano il loro diritto” (tzadaq, forma qal). È il linguaggio della giurisprudenza. È come se il Signore sfidasse le divinità pagane a

315 - G.HASEL, op. cit., p. 450. 316 - Ibidem, p. 451.

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portare la loro causa davanti a dei testimoni in una corte di giustizia. Il processo deve, per così dire, stabilire il diritto di Yahweh di assolvere in giudizio: “Io son quegli che per amor di me stesso cancello le tue trasgressioni (pesha‘) e non mi ricorderò più dei tuoi peccati (v. 25). In Is 45:25 il Signore promette: “Nell’Eterno sarà giustificata (tzadaq, forma qal) e si glorierà tutta la progenie d’Israele”. L’ambiente della corte giudiziaria appare ancora in Is 50:8, nel “terzo canto del Servo di Yahweh”, dove si dice: “Vicino è colui che mi giustifica (tzadaq nella forma hifil); chi contenderà meco? Compariamo assieme! Chi è il mio avversario? Mi venga vicino!” Hasel osserva che il verbo tzadaq, che appare in questi passi in un linguaggio giudiziario, non deve sorprendere giacché l’uso di tutta una varietà di forme della radice tzdq - e in particolare delle forme nominali - appartiene al linguaggio forense e alla prassi giudiziaria dell’Antico Testamento. Infine riassume nei punti seguenti i risultati della sua analisi: a) L’uso che fa la Bibbia delle forme verbali e aggettivali della radice zdq le colloca nel contesto del linguaggio della corte di giustizia e del processo giudiziario. b) Diverse forme derivate da tzdq appartengono alla terminologia del linguaggio forense. c) Yahweh è colui che scagiona l’accusato ristabilendo il diritto col fargli giustizia. d) La questione su chi cancellerà “le... trasgressioni” (Is 43:25) deve essere inquadrata in uno scenario che vede contrapposti Yahweh e le divinità pagane. Da tutto questo Hasel trae la seguente deduzione: “L’associazione, all’interno di un quadro cosmico che vede coinvolti Yahweh e le divinità pagane, dell’ambiente giudiziale e della rivendicazione di Yahweh del potere di cancellare la trasgressione (pesha‘), può essere una chiave di lettura per capire come mai in 8:14 sia usato il verbo nitzdaq. Anche 8:14 è inserito in uno scenario cosmico dove si svolge una divina attività giudiziaria che coinvolge e il santuario celeste e la trasgressione (pesha‘) del popolo di Dio. In ogni caso lo scenario da corte di giustizia che compare in Dn 8 riguarda il tempo della fine ed è illuminato con grande efficacia dalla parallela visione sul giudizio in 7:9-19, 13-14. “Queste considerazioni fondate su diversi elementi di prova - prosegue il nostro Autore - orientano ad una comprensione di nitzdaq come una designazione variegata che racchiude nella sua sfera semantica accezioni quali: ‘purificazione’, ‘rivendicazione’, ‘giustificazione’, ‘rettificazione’, ‘restaurazione’. Comunque si traduca il termine ebraico nelle lingue moderne, la ‘purificazione’ del san222

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tuario implica nello stesso tempo reale purificazione, rivendicazione, giustificazione e restaurazione. “Si direbbe che Daniele abbia scelto il termine nitzdaq - un termine derivante da una radice ricca di connotazioni ampiamente utilizzate in ambito giuridico e nei procedimenti giudiziari - allo scopo di trasmettere con efficacia gli aspetti interconnessi della ‘purificazione’ del santuario celeste nel contesto cosmico del giudizio finale. Le accezioni ristrette e limitate di altri termini possibili non avrebbero reso giustizia alle implicazioni di vasta portata dell’attività divina nella corte celeste”317. Ritornando sul tema del “santuario”, Hasel vede nel trapasso terminologico da miqdash (“santuario”) in 8:11-12 a qodesh (“santuario”) nei vv. 13-14, un riflesso della transizione dalla visione nei vv. 3-12 all’audizione nei vv. 13-14. La ricapitolazione nel v, 13 dei misfatti del “piccolo corno” descritti nei vv. 10-12 può essere un indizio che qodesh nel v. 13 si riferisca al santuario celeste aggredito da questo potere. Il v. 13 segnerebbe perciò il trapasso dalle cose accadute nel passato a quelle che avverranno allo scadere delle 2300 sere-mattine nel tempo della fine. Il significato del trapasso da miqdash nella visione a qodesh nell’audizione può essere illuminato attraverso uno studio del rituale dell’espiazione in Le 16. Qodesh rappresenta un legame terminologico fra Dn 8:14 e Le 16. Sembra ovvio - puntualizza l’Autore al quale stiamo facendo riferimento - che un ebreo a cui era talmente familiare il rito sacrificale culminante ogni anno con la purificazione del santuario nel Giorno dell’Espiazione, pensasse a questo rituale (il rituale dell’Espiazione) quando udiva la frase nitzdaq qodesh (“il santuario sarà purificato”). In 1Cr 23:28 qodesh è posto in relazione diretta con taher, “purificare”: si dice in questo passo che i sacerdoti avevano l’incarico della “purificazione (thaher) di tutte le cose sante (qodesh)”, in pratica del santuario nel suo insieme. Dn 8:14 usa un linguaggio che evoca associazioni cultiche, in particolare con riferimento al Giorno dell’Espiazione che racchiudeva in sé nozioni come purificazione, giustificazione, rivendicazione, nozioni che coinvolgevano tanto il santuario quanto il popolo. In Dn 8:8-12 manca qualunque accenno ad una contaminazione/profanazione del santuario ad opera del “piccolo corno”. In 8:11 l’attacco del “corno” è diretto contro il “fondamento” del santuario e non contro il santuario stesso (vedi commento a 8:11). Nella pericope che descrive l’attività del “corno” sono oggetto di aggressione “l’esercito del cielo” e “le stelle” (v. 10), “il Principe dell’esercito” (v. 11a), il servizio tamîd (vv. 11b-12a), “il fondamento” del santuario celeste (v. 11c) e “la verità” (v. 12b).

317 - Ibidem, pp. 453-454.

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In breve il “piccolo corno” si erge contro il “Principe dell’esercito” con l’usurparne le funzioni ed oltre a ciò ne perseguita il popolo. Questo quadro desunto da 8:9-12 è avvalorato dalla interpretazione angelica in 8:23-25. Al limite si può pensare che il “piccolo corno” contamini indirettamente il santuario celeste. Poiché nell’antico Israele i peccati commessi per istigazione di Satana contaminavano il santuario nel quale essi venivano trasferiti con la confessione, era come se indirettamente fosse Satana stesso a provocare tale contaminazione. In questo senso si potrebbe dire che il “piccolo corno”, agente di Satana, abbia un ruolo indiretto nella contaminazione del santuario celeste318. Ad ogni modo l’idea di una contaminazione del santuario ad opera del “piccolo corno” è totalmente assente in Dn 9:8-12. Attraverso il rituale annuale dell’Espiazione il santuario israelita veniva purificato dai peccati del popolo che vi si erano “accumulati” durante l’anno liturgico. Il Giorno dell’espiazione era un giorno di giudizio e redenzione, di purificazione e purgazione - osserva Hasel. Similmente, e in senso antitipico, nel tempo della fine sarà “purificato” il santuario dei cieli dai peccati “accumulati” fino allo scadere delle 2300 “sere-mattine”. L’epistola agli Ebrei, nel Nuovo Testamento, attesta in modo esplicito questo collegamento tipologico fra il santuario terreno e quello celeste laddove dichiara: “Era dunque necessario che i simboli delle realtà celesti fossero purificate con tali mezzi; le realtà celesti poi dovevano esserlo con sacrifici superiori a questi” (Eb 9:23, versione CEI). “Le attività giudiziali e redentive a favore d’Israele che si svolgevano nel santuario terreno nel Giorno dell’Espiazione hanno un corrispettivo nell’attività giudiziale e redentiva che si svolgerà nel santuario dei cieli nel tempo della fine. Abbiamo notato svariati collegamenti terminologici diretti fra Dn 8 e Le 16 - dice Hasel - che accostano l’uno all’altro questi due capitoli. L’enfasi cultico-giudiziale posta sul termine pesha‘ (‘trasgressione’) lega tra loro Le 16 e Dn 8 e 9. Il concetto che esprime la parola ebraica qodesh (‘santuario’) ha un profondo corrispettivo in Le 16. L’idea che scaturisce da nitzdaq (‘purificato’), con la sua ricca enfasi semantica, richiama alla mente con immediatezza il momento della ‘purificazione’ del santuario e del popolo di Dio in Le 16:16, 19, 30” (in nota l’Autore richiama l’attenzione sul fatto che i LXX usano forme del vocabolo greco katharizô, “purificare”, sia in Dn 8:14 che in Le 16, e che una forma del medesimo termine ricorre in Eb 9:23 dove si parla della purificazione delle “realtà celesti”319. “Tali legami inequivocabili - conclude Hasel - sono indici sicuri delle connessioni concettuali e teologiche tra Le 16 e Dn 8. Ciò che Le 16 descrive come

318 - Ibidem, pp. 456-457. 319 - Ibidem, nota 134 in calce alle pp. 457-458

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il grande momento culminante della purificazione, giustificazione e rivendicazione per l’antico Israele nel Giorno dell’Espiazione alla fine del ciclo liturgico annuale, Dn 8 descrive come il grande momento culminante per tutto il popolo di Dio in una scala cosmica e universale alla fine del tempo presente, preludio del sorgere del tempo nuovo quando soltanto il Regno di Dio sussisterà”320. Gli elementi di ordine storico e cronologico sulla base dei quali si stabilirà la data di decorrenza delle 2300 “sere-mattine” saranno esaminati nel commento di 9:25. 15 E avvenne che, mentre io, Daniele, avevo questa visione e cercavo

d’intenderla, ecco starmi ritta davanti come una figura d’uomo. Col declinare il proprio nome preceduto dal pronome personale enfatico (l)¢Yné d f yén) A ’anî Danîy’el, “io, Daniele”), il profeta sembra volere attestare l’autenticità di quanto ha riferito e verrà riferendo (cfr. 7:15,28; 8:1; 9:2; 10:2; 12:5). Della rivelazione ricevuta Daniele ha compreso soltanto ciò che l’angelo gli ha spiegato, vale a dire che allo scadere di 2300 “sere-mattine” finirebbero gli oltraggi inflitti dal “corno” alla “continuità” (tamîd), al “santuario” (qodesh) e all’ “esercito” (tzaba’). Tutto il resto gli è rimasto oscuro. Il profeta ha ancora davanti agli occhi le figure simboliche della visione (hechazôn) e cerca di comprenderle (bînah, dal verbo byn, “comprendere”, del quale più avanti segnaleremo il ruolo importante nell’ambito di questa visione e della rivelazione successiva). È accaduto tante volte che rimanesse oscuro ai profeti di Jahvé il senso dei messaggi che fu loro richiesto di trasmettere alla posterità, nonostante che essi indagassero con cura per venirne a capo (cfr. 1Pie 1:10,11). Mentre Daniele s’interroga intorno alle cose viste nella visione, ecco comparire davanti a lui “uno in piedi dall’aspetto d’uomo” (versione CEI), ebraico rebgf h”):rm a K: kemar’eh gaver. Non è un uomo, è un essere celeste mandato in sembianze umane per non turbare ulteriormente il profeta già provato a motivo della rivelazione divina (H.C. LEUBOLD). 16 E udii la voce d’un uomo in mezzo all’Ulai, che gridò, e disse: “Ga-

briele, spiega a colui la visione”. Come la figura angelica ha un aspetto umano, così anche la voce che risuona “in mezzo all’Ulai” sembra voce umana. È certamente la voce di Dio perché Dio soltanto può impartire un ordine a un angelo celeste. L’Altissimo si adatta, per così dire, alla condizione umana per farsi capire da

320 - Ibidem, pp. 457-458.

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una creatura umana. La voce proveniente dall’Ulai chiama per nome la figura che sta di fronte a Daniele: “Gabriele...!” Il primo elemento del nome angelico è lo stesso vocabolo che usa Daniele per “uomo” quando definisce l’aspetto dell’angelo: gaver, “eroe”. “Dio è potente” (gavri’el) sembra essere il significato del nome angelico. Questo messaggero celeste compare ancora in Dn 9:21. Nel Nuovo Testamento ritorna due volte: in Lc 1:19, dove si annuncia al sacerdote Zaccaria, il futuro padre del precursore del Messia, con le parole: “Io son Gabriele, che sto davanti a Dio; e sono stato mandato a parlarti e recarti questa buona notizia”; e ancora in Lc 1:26 dove Gabriele annuncia alla vergine Maria la divina maternità. ELLEN WHITE321 dice che Gabriele occupa in cielo la posizione che fu del decaduto Lucifero. La voce che viene dall’Ulai comanda a Gabriele di fare da interprete al profeta: “Gabriele, spiega a lui la visione !” (versione CEI), ebraico: he)r : M a h a -te) zfLh a l : }"bh f l")yirb : Ga gavrî’el haven lehallaz ’eth hammar’eh. Daniele qui non usa il vocabolo abituale per “visione”, chazôn, ma adopera, e per la prima volta, un termine diverso: mar’eh. Dalla radice verbale r’h, “vedere”, mar’eh ha lo stesso significato generale di chazôn, ma con alcune specifiche sfumature di senso delle quali si dirà più avanti. Non è certo senza motivo che Daniele usa qui per “visione” mar’eh anziché chazôn. Sembra ragionevole supporre che i due termini siano applicati a due aspetti distinti della rivelazione. Che sia così lo si dimostrerà nel commento del v. 26. 17 Ed esso venne presso al luogo dove io stavo; alla sua venuta io fui

spaventato, e caddi sulla mia faccia; ma egli mi disse: “Intendi bene, o figliuol d’uomo! perché questa visione concerne il tempo della fine”. 18 E com’egli mi parlava, io mi lasciai andare con la faccia a terra, profondamente assopito; ma egli mi toccò, e mi fece stare in piedi. Si deve supporre che Gabriele sia apparso di fronte a Daniele a una certa distanza da lui, verosimilmente sulla riva opposta del fiume-canale, altrimenti non sarebbe comprensibile la frase: “Ed esso venne presso al luogo dove io stavo”. Per quanto in sembianze umane, Gabriele è pur sempre un essere celeste, e la presenza di un essere siffatto ha sempre suscitato grande inquietudine nel cuore dei mortali. Nel cap. 10 per tre volte (vv. 9,15 e 17) Daniele esterna il suo profondo malessere per la presenza vicino a lui di un Essere divino. La stessa sconvolgente emozione provarono i profeti Isaia ed Ezechiele in circostanze identiche (cfr. Is 6:5; Ez 1: 28).

321 - The Desire of Ages, p. 99.

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In siffatti frangenti è il sentimento dell’umana peccaminosità, che per contrasto con la perfezione celeste e divina si svela in tutta la sua negatività, che fa nascere nel cuore dell’uomo un’angoscia mortale. I profeti dell’Altissimo sanno che l’uomo nella sua condizione di essere peccatore non può reggere in presenza del Divino (cfr. Es 33:20). È difficile dire se il cadere “con la faccia a terra” del profeta debba capirsi come un atto di cosciente riverenza o come la conseguenza di un momentaneo deliquio provocato dalla forte emozione. Sembra più probabile la seconda supposizione. Gabriele fa appello all’intelligenza del profeta: “Intendi figliol d’uomo” ({fd) f -}eB }"bh f haven ben ’adam). Compare ancora il verbo byn che in questa parte del libro ha una funzione-chiave. L’appellativo “figlio d’uomo” evidenzia la fragilità e precarietà della condizione umana; essa equivale in sostanza a “essere mortale”. Girolamo commenta: “Tanto Ezechiele come Daniele e Zaccaria hanno spesso da trattare con gli angeli, e per evitare che montino in superbia o che si credano di avere anch’essi o natura o dignità angelica, si richiama alla loro mente la loro fragilità, e vengono chiamati figli degli uomini perché sappiano di non essere che uomini”322. L’angelo-interprete mette subito in luce un “trend” ed uno sbocco escatologici della rivelazione che sta per spiegare a Daniele: “... perché questa visione concerne il tempo della fine” (}Ozfxh e j"q-te(l : yiK ki le‘eth qetz hechazôn). “È questo un fatto rilevante che attiene all’intera interpretazione, un fatto che nessun uomo avrebbe potuto scoprire da sé e che segna un approccio generale a tutto il capitolo. Un approccio che quanti si impegnano nello studio di questo capitolo dovrebbero tenere in altissima considerazione”323. Chazôn in questo versetto si riferisce all’intera rivelazione riportata nei vv.12-14. Accasciatosi davanti all’angelo Daniele è rimasto tuttavia cosciente, ma via via che Gabriele gli parla le forze lo abbandonano fino alla perdita completa dei sensi (yiTm : D a r : né nirdamtî, “giacqui profondamente assopito”). Lo stesso accadde a Giovanni quando ebbe a Patmos la visione del Cristo glorificato (cfr. Ap 1:17). Gli angeli hanno poteri che superano quelli degli uomini, come quello di trasfondere nelle creature umane energia vitalizzante. È bastato un tocco di Gabriele perché Daniele tornasse in sé e avesse forze sufficienti per rimettersi in piedi. Così gli angeli celesti assistettero Gesù stremato dal prolungato digiuno (Mt 4:11).

322 - Girolamo su Daniele, p. 120. 323 - H.C. LEUPOLD, Exposition of Daniel, p. 361.

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19 E disse: “Ecco, io ti farò conoscere quello che avverrà nell’ultimo

tempo dell’indignazione; poiché si tratta del tempo fissato per la fine. Prima di spiegare a Daniele la visione, Gabriele ne enfatizza la parte finale: “Ecco, io ti rivelo ciò che avverrà al termine dell’ira, perché la visione riguarda il tempo della fine” (versione CEI). Evidentemente è nella parte conclusiva della rivelazione che si svela il motivo di fondo per cui essa è stata data a Daniele. La visione mira fondamentalmente a far conoscere qualcosa di estremamente significativo che avverrà quando sarà finita l’ira. L’ira cioè del “corno” contro il celeste “Principe”, il suo “santuario” ed il suo “esercito”, la quale finalmente verrà meno dopo lo scadere delle 2300 “sere-mattine” quando il “corno” stesso “sarà infranto senz’opera di mano” (v. 25 u.p.; cfr. con 2Te 2:7-8). L’interprete mandato da Dio ribadisce che il tempo a cui sta facendo riferimento è “il tempo della fine” (j"q d&"(Om:l yiK kî lemô‘ed qetz). 20 Il montone con due corna che hai veduto, rappresenta i re di Me-

dia e di Persia. Nell’interpretazione della visione Gabriele si rifà dal principio. Il montone (léy) a ’ail) descritto nei vv. 3 e 4 è il simbolo dell’Impero dei Medi e dei Persiani. Per l’esattezza Gabriele identifica il montone coi “re di Media e di Persia” (sfrpf U yadm f y"kl : m a malkê maday ûfaras). La Media come regno autonomo cessò di esistere quando il suo ultimo re, Astiage, soccombette nella lotta contro Ciro il Persiano nel 549 a.C. (cfr. il commento del v. 3). Da allora regnarono sui due regni iranici unificati i sovrani della dinastia degli Achemenidi (“i re di Media e di Persia”) inaugurata da Ciro II. Abbiamo qui la prova che nella prospettiva danielica la Medo-Persia è il secondo dei quattro regni annunciati profeticamente nei capp. 2 e 7. Il primo, Babilonia, non è menzionato perché all’epoca di questa visione essa ormai entrava nella storia. 21 Il becco peloso è il re di Grecia; e il gran corno fra i suoi due oc-

chi è il primo re. L’angelo-interprete spiega a Daniele che il capro (ryipC f tzafîr) rappresenta “il re di Grecia”, }æwyæ yawan nell’ebraico. Yawan (da Jonia, il nome con cui si designavano nell’antichità le isole e le città costiere dell’Asia Minore popolate da genti di stirpe greca) era il nome col quale i Semiti indicavano la Grecia in generale. In breve il capro rappresenta 228

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l’Impero di Alessandro che si affermò nella storia a seguito della vittoria definitiva dei Macedoni sui Persiani nel 331 a.C. (vedi il commento del v. 4). Che la frase: “è il re di Grecia” (malkê - yawan) debba intendersi “è il regno di Grecia”, si vede dalla frase seguente: “e il gran corno fra i suoi due occhi è il primo re”. Se il corno, che è una parte del capro, rappresenta un “re”, il capro stesso non può rappresentare anch’esso un re; non può raffigurare che un regno. Un regno sul quale il re rappresentato dal gran corno esercita la sua sovranità. Dn 8:21a è uno di quei casi in cui in questo libro “re” equivale a “regno” (vedi il commento di 2:38). Il “primo re” di cui è figura il gran corno fra gli occhi del capro, con tutta evidenza è Alessandro Magno, il fondatore dell’Impero Macedone (vedi commento del v. 5). 22 Quanto al corno spezzato, al cui posto ne son sorti quattro, questi

sono quattro regni che sorgeranno da questa nazione, ma non con la stessa sua potenza. La morte prematura e imprevedibile di Alessandro all’apice della potenza e della gloria è anticipata profeticamente con la rottura repentina e inaspettata del gran corno che lo raffigura. Con la fine di Alessandro è prevista anche la fine dell’unità dell’impero da lui fondato: “Quanto al corno spezzato, al cui posto ne sono sorti quattro, questi sono quattro regni che sorgeranno da questa nazione...”. Si noti l’ambivalenza di questo elemento simbolico; nel v. 21 un corno rappresenta un re; nel versetto seguente 4 corna raffigurano 4 regni. Sono i regni ellenistici di Macedonia, Tracia, Siria ed Egitto sorti dopo la disfatta di Antigono ad Isso nel 301 a.C. e posti sotto la sovranità di Cassandro, Lisimaco, Seleuco Nicatore e Tolomeo Lago (vedi il commento del v. 8). Come era stato previsto dalla profezia (“ma non con la stessa sua potenza”) nessuno di questi regni eguagliò per grandezza e potenza l’impero di Macedonia dal quale essi derivarono. 23 E alla fine del loro regno, quando i ribelli avranno colmato la mi-

sura delle loro ribellioni, sorgerà un re dall’aspetto feroce, ed esperto in stratagemmi. Dopo avere svelato le realtà che si nascondono nelle figure delle 4 corna, Gabriele perviene alla spiegazione del simbolo seguente, il “piccolo corno”. Come già rilevato (vedi il commento del v. 9) l’identificazione del re di Siria Antioco IV Epifane in questo simbolo è quasi unanime324. 324 - Per una esposizione delle ragioni di questa identificazione valga per tutte la n. VII a p. 120 del commentario del prof. Giovanni Rinaldi.

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Gli espositori moderni di scuola critico-liberale - sono la maggioranza - circoscrivono alla figura storica del re di Siria la portata del passo danielico. Altri nel passato (così Girolamo nel V secolo) hanno visto nel “piccolo corno” di Dn 8 un simbolo di Antioco come tipo dell’Anticristo finale. Oggi questa tesi è accolta in generale dai cattolici. All’identificazione del “piccolo corno” danielico col re di Siria Antioco IV si oppongono i seguenti fatti: 1) le quattro corna rappresentano 4 regni (8:22). Il quinto, che non nasce su una delle quattro corna, ma viene da una delle quattro direzioni dello spazio (vedi il commento del v. 12) deve raffigurare anch’esso un regno. 2) Antioco IV fu l’ottavo regnante della dinastia seleucide (vedi il commento di 7:25). Questo personaggio è dunque incluso in una delle 4 corna, quella raffigurante il regno di Siria. 3) L’interprete mandato da Dio spiega a Daniele che il potere simboleggiato dal quinto corno sorgerebbe “alla fine del loro regno” (v.23): {ftUk:lm a tyirx A ) a b : U ûwe’acharîth malkûtam, letteralmente “dopo il regno loro”, ovvero il regno delle 4 corna, giacché le 4 corna sono l’antecedente più prossimo del pronome “loro”. Ciò implica indiscutibilmente che questa entità sinistra doveva venire all’esistenza dopo che fossero tramontati tutti i regni ellenistici. Antioco Epifane regnò dal 175 al 163 a.C. Dopo la sua morte il regno di Siria durò ancora 100 anni. Fu infatti nel 63 a.C. che Pompeo ridusse la Siria a provincia romana dopo avere deposto l’ultimo seleucide. Trentatré anni dopo divenne possedimento romano l’Egitto dei Tolomei. Il regno di Macedonia era stato annesso ai possedimenti romani nel 148 a.C. Dunque fra il 148 e il 30 a.C. scomparvero l’uno dopo l’altro tutti i regni ellenistici eredi dell’Impero di Alessandro. Pertanto è intorno all’anno 30 a.C. che si deve collocare storicamente il sorgere della potenza raffigurata dal “piccolo corno”. Fu proprio in quest’epoca, con la conquista dell’Egitto, che Roma concluse la sua espansione verso Oriente proponendosi di fatto al mondo come l’ultima erede del dominio universale di Alessandro. Gabriele interpreta il “piccolo corno” come “un re dall’aspetto feroce ed esperto in stratagemmi” (traduzione di Luzzi). L’ebraico ha: tOdyix }yibm" U {yénPf -za( \elm e melek ‘atz panîm ûmevîn chîdôth, meglio tradotto dalla Versione della CEI: “un re audace, sfacciato e intrigante”. L’espressione ebraica significa letteralmente: “un re sfrontato e abile negli enigmi” (cioè nell’ambiguità, nella dop230

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piezza). Se questo re sfrontato non è Antioco, chi è allora? A noi sembra più conforme ai fatti della storia identificarvi l’astuto e intrigante Ottaviano come simbolo vivente e personificazione di Roma stessa che con lui abbatté l’ultimo dei regni ellenistici, si vide elevata a entità divina e iniziò la fase imperiale della sua storia. Secoli prima Daniele aveva visto Babilonia personificata nel suo illustre sovrano quando aveva dichiarato a Nabucodonosor: “La testa d’oro sei tu” (2:38)325. Il trapasso dal regno delle quattro corna a quello del “piccolo corno” sarebbe stato segnato dal culminare dell’empietà: “...quando l’empietà avrà raggiunto il colmo” (v. 23, versione della CEI). I sovrani tolemaici alla stessa maniera degli antichi faraoni avevano ricevuto onori divini dai sacerdoti egiziani. Ottaviano Augusto sulla falsariga di questa pratica egiziana istituì il culto di Roma divinizzata e consentì che si erigessero nelle provincie dell’impero dei templi in onore del divo imperatore. Il popolo romano gli tributò onori divini dopo la morte, e in seguito furono fatti oggetto di culto gli imperatori viventi. La sensibilità religiosa ebraica non avrebbe potuto immaginare nulla di più empio. Si è visto nel commento del v. 11 che nel testo ebraico tra i vv. 9-10 e i vv. 11-12 interviene un cambiamento della struttura della frase. Nei vv. 9-10 le forme verbali, tranne la prima, sono di genere femminile, mentre nel v. 11 sono di genere maschile. Siffatto mutamento del genere dei verbi secondo Hasel326 riflette il trapasso da una prima a una seconda fase di sviluppo dell’entità storica che il “corno” rappresenta. Questo autore vede Roma nella fase storica politico-pagana nei vv. 9 e 10 e nella fase ecclesiastico-papale nei vv. 11 e 12. In effetti Roma come centro del mondo antico occidentale non scomparve con la fine dell’impero, soltanto assunse un volto nuovo: da centro politico ne divenne il centro religioso. “Gli elementi di romanità che i barbari e gli Ariani lasciarono sopravvivere scrive l’illustre storico ADOLF HARNACK - ... furono... posti sotto la protezione del vescovo di Roma, la più alta personalità dopo la scomparsa dell’Imperatore... Fu così che la Chiesa Romana si sostituì all’Impero Romano universale di cui rappresentò realmente la continuità; l’impero non è perito, soltanto si è trasformato... Non è una mera osservazione intelligente, è il riconoscimento della realtà storica, è la maniera più idonea e feconda di rappresentare il carattere di questa Chiesa. Essa ancora governa le nazioni... Essa è una creazione politica imponente

325 - La frase che segue: “e dopo di te sorgerà un altro regno” (v. 39), presuppone che in pre-

cedenza Daniele avesse già fatto allusione ad un regno. L’espressione: “La testa d’oro sei tu”, significa in effetti: “La testa d’oro è il tuo regno”. 326 - Op. cit., p. 401.

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quanto un impero universale perché è la continuazione dell’Impero Romano. Il Papa che si fregia dei titoli di ‘Re’ e di ‘Sommo Pontefice’, è il successore di Cesare”327 Se il trapasso da una prima ad una seconda fase storica dell’entità simboleggiata dal “corno” è adombrato nella visione, sembra logico che esso debba riflettersi anche nell’interpretazione di essa. Dal nostro punto di vista il suddetto trapasso avviene fra i vv. 23 e 24. 24 La sua potenza sarà grande, ma non sarà potenza sua; egli farà

prodigiose ruine, prospererà nelle sue imprese, e distruggerà i potenti e il popolo dei santi. 25 A motivo della sua astuzia farà prosperare la frode nelle sue mani; s’inorgoglirà in cuor suo, e in piena pace distruggerà molta gente; insorgerà contro il principe de’ principi, ma sarà infranto, senz’opera di mano. Gli atti qui attribuiti al sistema di potere raffigurato dal “piccolo corno” non debbono intendersi come azioni individuali isolate e occasionali, ma debbono capirsi come lo svolgimento di un disegno volto al mantenimento e al consolidamento della supremazia, giacché il “re sfrontato” non è una figura umana individuale, come si è visto, ma rappresenta una successione di figure individuali, una sorta di dinastia, un sistema di potere. Otto segni caratterizzano il “curriculum” di questo formidabile sistema di potere. 1. “La sua potenza sarà grande, ma non sarà potenza sua”, ebraico: Oxokb : )olwº OxoK {ac(f wº we‘atzam kochô welo’ vekochô, alla lettera: “Grande (sarà) la sua potenza ma non per potenza sua”. Sarebbe un’assurdità affermare che Roma repubblicana e imperiale non avesse in sé stessa la potenza che le consentì di estendere su gran parte del mondo antico il suo dominio. Come sarebbe fuori della realtà storica asserire che venisse da altri e non da sé medesimo il potere che Antioco IV esercitò con grande energia nei 12 anni del suo governo sulla Siria. È invece esatto che il potere immenso che esercitò la Chiesa romana nel Medioevo le venne dal sostegno politico delle monarchie d’Europa. Gli eserciti dei ducati, dei principati e dei regni europei furono messi al servizio della Chiesa per difenderne non solo la dottrina, ma anche gli interessi politici ed economici, quando i papi lo richiesero. Bonifacio VIII nel XIII secolo

327 - ADOLF HARNACK, What is Christianity? New York 1903, pp. 269 -270, cit. in S.D.A. Bible

Commentary, vol. IV, p. 846. Il corsivo è dell’Autore.

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rivendicò la supremazia assoluta della Chiesa con la famosa teoria delle due spade: la spada spirituale e la spada temporale che doveva esserle sottomessa. 2. “...causerà inaudite rovine”, ebraico tyix$ : yá tO)flp: né wº wenifla’ôth yashchith. Talvolta senza necessità di esercitare pressione, talaltra valendosi dell’arma formidabile della scomunica per piegare i principi riottosi, i papi seppero comunque ottenere gl’interventi degli eserciti d’Europa per sradicare l’“eresia” o realizzare le mire politiche del papato. Tra i secoli XIII e XVI le guerre di religione, eventi davvero inauditi che videro spesso intrecciarsi interessi ecclesiastici e politici, sparsero per l’Europa - e non solo per l’Europa - lutti e rovine immani. Le crociate tra i secoli XI e XIII, la guerra contro gli Albigesi nel secolo XIII, le “guerre di religione” in Francia fra il 1562 e il 1598, la Guerra dei Trent’anni tra il 1618 e il 1648 sono solo alcuni di questi eventi inauditi che direttamente o indirettamente videro coinvolta la Chiesa romana. 3. “... prospererà nelle sue imprese”, ebraico: hf&(f wº x a yilc : h i wº wehitzlîcha we‘assah, letteralmente: “prospererà e agirà”. Nel corso della lunga storia della Chiesa di Roma spiccano la preveggenza e il dinamismo dei pontefici. Sotto la guida di papi energici e lungimiranti la Chiesa prosperò, e molto, anche sul piano materiale, così da divenire una potenza economica di tutto rispetto. Fu l’opulenza della Chiesa che nel Medioevo fece nascere nelle anime più sensibili della cattolicità quello scontento che poi generò i movimenti di dissidenza. In certi momenti della storia europea il prestigio dei papi e lo splendore della corte pontificia eclissarono la fama dei sovrani ed il fasto delle corti secolari. 4. “...e distruggerà i potenti ed il popolo dei santi”, ebraico: {yi$ odq: -{a(wº {yimUcA( tyix$ : h i wº wehishchîth ‘atzumîm we‘am qedoshim (la traduzione che precede è quasi letterale). Nel Medioevo i potenti d’Europa che osarono sfidare l’autorità del papato dovettero pagare un prezzo molto alto per averlo fatto. Nel secolo XI Roberto II il Pio re di Francia, colpito di anatema dal papa per avere disatteso una legge canonica della Chiesa, dopo 3 anni di lotte inutili dovette piegarsi e confessare pubblicamente i suoi “errori“ per essere reintegrato nell’autorità regia. Enrico IV imperatore di Germania, deposto e scomunicato da papa Gregorio VII nel 1077 a motivo della investitura regia dei vescovi in Germania, si vide costretto ad andare a Canossa col saio di penitente per ottenere dal pontefice la revoca della scomunica. 233

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Enrico Plantageneto re d’Inghilterra, colpito da anatema per avere con un decreto sottoposto il clero alla giurisdizione del tribunale regio nel 1164, dovette alfine sottoporsi pubblicamente alla fustigazione sulla tomba dell’arcivescovo Thomas Becket suo mortale nemico perché fosse revocato l’anatema papale contro di lui. Nel 1213 Giovanni Senza Terra, scomunicato e dichiarato decaduto dal trono d’Inghilterra per contrasti con la Santa Sede, si vide obbligato a porre la corona ai piedi del pontefice per riceverla dalle sue mani come vassallo della Chiesa. Si potrebbero citare altri casi analoghi. L’intolleranza della Chiesa romana verso la dissidenza religiosa nel Medioevo generò quelle sinistre strutture ecclesiastiche che furono i tribunali per la repressione dell’“eresia”. Non si contano i malcapitati che fra il XIII e il XVII secolo furono tradotti davanti ai tribunali dell’Inquisizione con l’accusa di eresia; i molti che non abiurarono furono condannati al rogo e consegnati al Braccio secolare per essere arsi vivi. Ma prima ancora che fosse istituita l’Inquisizione, con una crociata spietata bandita da Innocenzo III fu sterminato il popolo albigese nella Francia del Sud. Sotto Isabella e Ferdinando di Castiglia e Aragona l’Inquisizione Spagnola fece perire nei roghi un gran numero di ebrei e sotto Carlo V e Filippo II cancellò il Protestantesimo che cominciava a mettere radici in Spagna. Dal tardo Medioevo fino alle soglie dei tempi moderni subirono atroci persecuzioni le comunità valdesi in Lombardia, nel Piemonte, nel Delfinato, in Calabria, responsabili i duchi di Savoia e i re di Francia sollecitati dalla Curia Romana. Per non parlare delle stragi di Hussiti in Boemia nel XV secolo e degli Ugonotti in Francia nel XVI, e delle vittime dell’Inquisizione Romana durante la Controriforma. 5. “...a motivo della sua astuzia farà prosperare la frode nelle sue mani”, ebraico: OdæyB : hfmr : m i x a yilc : h i wº Ol:k& i -la(wº we‘al siklô wehitzlîcha mirmah beyadô, alla lettera: “e con la sua astuzia farà prosperare l’inganno nelle sue mani”. La storia registra non rari casi di legittimazione, ad opera di pontefici romani, di azioni illegittime perpetrate da uomini potenti. Nel 751 papa Zaccaria approvò l’usurpazione del trono dei Franchi da parte di Pipino il Breve e consacrò l’usurpatore re dei Franchi dopo avere sciolto dal giuramento di fedeltà i sudditi di Childerico, l’ultimo legittimo sovrano merovingio. Papa Stefano II nell’VII secolo, dopo che Pipino aveva fatto dono alla Chiesa dei territori tolti ai Longobardi, pretese una sovranità territoriale indipendente fondando tale rivendicazione su un presunto documento costantiniano (Donatio Constantini) che avrebbe fatto risalire al primo imperatore cristiano l’autonomia di Roma nei confronti dell’Impero. Che quel docu234

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mento fosse un falso costruito ad arte lo dimostrò il filologo Lorenzo Valla nel 1440. Nel IX secolo comparve in Francia un altro documento apocrifo, le cosiddette Decretali dello Pseudo-Isidoro, al quale nella stessa epoca si appellò papa Nicolò I per accentrare in Roma tutta l’organizzazione amministrativa della Chiesa. Ancora nel IX secolo papa Giovanni VIII attribuì per convenienza la corona imperiale a Carlo il Calvo di Francia ignorando i diritti legittimi del fratello maggiore Ludovico il Germanico. “Da Nicola I in poi - scrive lo storico S. HELLMANN - non destò più meraviglia vedere il papa, per quanto corrotto egli potesse essere personalmente, immischiarsi autorevolmente, chiamato o non chiamato, in questioni temporali”328 Durante il grande scisma d’Occidente (1378-1431) la cristianità assistette attonita allo spettacolo deprimente offerto da due papi che si anatemizzavano a vicenda l’uno da Roma e l’altro da Avignone. Nell’ultimo scorcio del secolo XVI papa Sisto V e il suo successore Gregorio XIV brigarono l’uno presso la corte francese per stimolare la persecuzione degli Ugonotti, l’altro presso la corte di Spagna per indurla ad un intervento militare in Francia allo scopo di bloccare la candidatura al trono di Enrico di Navarra amico degli Ugonotti. 6. “...s’inorgoglirà in cuor suo”, ebraico: lyiDg: yá Obfbl : b i U ûvîlvavô yagdîl, alla lettera: “e nel suo cuore si magnificherà”. Fin dal V secolo i pontefici romani s’ingegnarono per accrescere il prestigio e la potenza del papato. Leone I Magno nel V secolo fu il primo vescovo di Roma che affermasse la discendenza diretta del papato dall’apostolo Pietro. Con l’appoggio dell’Impero egli si pose al di sopra dei concili e avocò a sé il diritto di definire i dogmi della Chiesa. Nel 1075 papa Gregorio VII pubblicò le 27 massime del Dictatus Papae nelle quali riaffermò con grande energia la supremazia assoluta del papa rispetto ai sovrani temporali ed il suo potere di deporli se non sottomessi alla Chiesa. Nel XIII secolo Innocenzo III fece decadere l’autorità dei vescovi e istituì i legati pontifici diretti rappresentanti del papa. Innocenzo si proclamò “Vicario di Cristo Re dei re” dal quale i principi laici ricevono come feudi i loro domini. Per lungo tempo gli scandali della simonia e del nepotismo afflissero il papato.

328 - S. HELLMANN, Storia del Medioevo, p. 255.

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7. “...e in piena pace ne distruggerà molti...” (così Luzzi). Il testo ebraico ha {yiBr a tyix$ : yá hæwl : $ a b : U ûveshalwah yashchîth rabbîm, letteralmente: “e con lusinghe corromperà molti”. Il papato alternò la scomunica e la lusinga per guadagnare alla causa della Chiesa i potenti del mondo. Con la promessa della remissione dei peccati e del Paradiso i Crociati furono persuasi a marciare contro gl’infedeli per liberare il Santo Sepolcro. Con la concessione dell’indulgenza e dei beni espropriati agli “eretici” Innocenzo III ottenne che i nobili di Francia e torme di malfattori aderissero alla crociata per sterminare gli Albigesi nella Francia del sud. 8. “...insorgerà contro il Principe dei principi”, ebraico: dom(A yá {yir& f -ra&la(wº û‘al sar sarîm ya‘amod, alla lettera: “e contro il principe dei principi si ergerà”. Gabriele ripete in sostanza quanto Daniele aveva già detto nel v. 11 (vedi il commento di quel versetto). In breve il sistema di potere raffigurato dal “corno” si sarebbe elevato contro il Principe dei principi (il Principe Mika’el) col togliergli il servizio tamîd (il ministero continuo) e con l’abbattere il fondamento del suo santuario (mekôn miqdashô). Secondo l’interpretazione data nel commento del v. 11, questa azione sovvertitrice del “corno” adombra un’usurpazione del ministero continuo di Cristo nel santuario dei cieli per il perdono dei peccati, sostituito con un ministero sacerdotale terreno rivestito del potere di rimettere esso stesso i peccati. L’interpretazione di Gabriele si chiude con l’annuncio della distruzione finale del sinistro sistema di potere: “ma sarà distrutto senz’opera di mano”, ebraico: r"b< f yé dæy sep) e b : U ûve‘efes yad yishshaver, letteralmente: “e senza mano sarà spezzato”. Questa espressione, “senz’opera di mano”, vuol dire in sostanza “senza intervento umano”. L’identica espressione in 2:34 è riferita alla caduta della pietra distruttrice della statua che Daniele spiega come l’instaurarsi di un regno eterno che “l’Iddio del cielo farà sorgere” (2:44-45). Nel cap. 7 poi l’angelo-interprete conclude la spiegazione che fornisce a Daniele dicendo che nel giudizio sarà tolto il potere al corno persecutore - lo stesso sistema raffigurato con identico simbolo nel cap. 8 - ed esso “verrà distrutto ed annientato per sempre” (7:26). Gabriele dice in sostanza che il “re sfrontato” sarà distrutto al giudizio finale (cfr. con 2Te 2:3-8). 26 E la visione delle sere e delle mattine, di cui è stato parlato, è vera.

Tu tieni segreta la visione, perché si riferisce ad un tempo lontano”. Attenendosi all’ordine con cui si susseguono i fatti nei vv. 9-14, Gabriele, avendo concluso la spiegazione della visione (}Ozfxh e hechazôn), accenna per ultimo al di236

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scorso che Daniele ha ascoltato nell’audizione. L’angelo si limita ad attestare la veracità di quanto è stato detto a Daniele, ma senza entrare nel merito: “e la visione delle sere e delle mattine di cui è stato parlato, è vera...” (tem) E ram) E nå re$) A reqoBh a wº ber(e h f h")r : m a U ûmar’eh hâ‘erev ûhaboqer ’asher ne’emar ’emeth). Per la seconda volta ricorre in questo capitolo il vocabolo mar’eh per “visione”, e qui è riferito direttamente alle 2300 sere e mattine: “la visione (mar’eh) delle sere e delle mattine”. Ecco la prova che mar’eh in Dn 8 è applicato ad un aspetto della rivelazione che si vuole mantenere distinto da un altro aspetto al quale Daniele ha applicato il termine chazôn. In breve, mentre chazôn è riferito alle cose viste da Daniele, mar’eh è applicato alle cose udite329. 329 - Si può ammettere che in Dn 8 chazôn e mar’eh non siano usati come vocaboli sinonimi, ma come

termini tecnici specifici riferiti ad aspetti distinti della profezia. In 8:16 mar’eh (apparizione) deve riferirsi in modo specifico alla comparsa nella visione di due esseri personali (i “santi”) e al dialogo intercorso tra loro. Ulteriore sostegno a questa tesi viene dal v. 26 dove ritorna il vocabolo mar’eh: “la visione (mar’eh, apparizione) delle sere e mattine di cui è stato detto è verace, ma tu suggella la visione (chazôn), poiché essa si riferisce a giorni lontani”. La prima circostanza da sottolineare è la menzione del mar’eh delle sere e mattine nominato per la prima volta nella conversazione fra i due “santi” nella quale l’uno dice all’altro che dovranno trascorrere 2300 sere e mattine prima che il santuario sia purificato. Mar’eh nel v. 16 dovrebbe quindi collegarsi direttamente con l’apparizione (mar’eh) dei due “santi” che avevano parlato fra loro delle sere-mattine (v. 14). Il secondo fatto da rilevare nel v. 16 è che mar’eh è qualcosa che fu detta (ne’emar, forma nifal o passiva del verbo ’amar, “dire”), e non udita. Chazôn è qualcosa che può vedersi soltanto, mar’eh è qualcosa che può sia vedersi che udirsi. Infatti Daniele vide l’essere personale che gli apparve e lo udì parlare. Così anche in 10:8-9: “E io rimasi solo, ed ebbi questa grande apparizione (mar’eh)... udii il suono delle sue parole...” In 8:16 Gabriele riceve da Dio l’ordine di far comprendere a Daniele il mar’eh (apparizione), ma quando l’angelo conclude l’interpretazione, Daniele non ha ancora capito il mar’eh. Perciò Gabriele fu mandato una seconda volta presso Daniele per istruirlo riguardo al mar’eh. L’angelo non fece menzione del chazôn (visione in senso generico), ma si riferì in modo specifico al mar’eh che Daniele non aveva capito. Probabilmente ciò che era rimasto oscuro a Daniele e l’aveva lasciato talmente turbato, era il fatto che fosse permesso al potere raffigurato dal “piccolo corno” di calpestare per un tempo così lungo 2300 sere-mattine - l’esercito di Dio ed il suo santuario. Esiste dunque un rapporto diretto tra le rivelazioni di Dn 8 e 9 per quanto riguarda la terminologia profetica, la quale nel cap. 9 è applicata ad un aspetto specifico della rivelazione del cap. 8, quello emerso nel dialogo fra i due “santi” apparsi a Daniele nella visione. Poiché in un caso mar’eh è applicato anche a Gabriele (Dn 10:18), si dovrebbe considerare la possibilità che i riferimenti a mar’eh in 8:26 e 9:23 comprendano la spiegazione data a Daniele sia in occasione dell’apparizione dei due “santi” nella visione di 8:13-14, sia in occasione dell’apparizione di Gabriele a Daniele in 8:15-25. Ad ogni modo, comunque si rapportino tra loro le suddette due apparizioni, è chiaro che mar’eh in 8:16 può riferirsi unicamente all’apparizione dei due “santi” in 8:13-14, data la posizione di quel riferimento nel contesto del capitolo. La distinzione importante da farsi è che il contenuto dei versetti 3-12, nei quali si descrivono le attività delle due bestie e del “piccolo corno”, dovrebbero definirsi chazôn (visione), mentre l’apparizione dei due “santi” e di Gabriele (o la prima o entrambe) per contrasto dovrebbero definirsi con la parola mar’eh. Condensato da W.H. SHEA, “The Relationship Between the Prophecies of Daniel 8 and Daniel 9” in The Sanctuary and the Atonement a cura del Comitato per la ricerca biblica della Conferenza Generale degli Avventisti del 7° Giorno, Washington DC, 1981, p. 228s.

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Gabriele conclude col domandare al profeta di mantenere segreta la visione giustificando la richiesta con la circostanza che essa “si riferisce ad un tempo lontano”, ebraico: {yiBr a {yimyæ l : yiK }Ozfxh e {ots: hfT) a wº )Uh hû’ we’attah setom hechazôn kî leyamîm rabîm, letteralmente: “ora tu nascondi la visione perché (essa concerne) giorni lontani”. Ciò che Daniele dovrà mantenere segreta è la visionechazôn, vale a dire la rivelazione nella sua totalità. E dovrà farlo perché essa non riguarda il presente o il futuro immediato ma concerne un futuro remoto. I “tempi lontani” si rapportano evidentemente non alle implicazioni iniziali della rivelazione (l’avvento del regno di Persia, oramai prossimo) ma alle implicazioni finali. 27 E io, Daniele, svenni, e fui malato vari giorni; poi m’alzai, e feci gli

affari del re. Io ero stupito della visione, ma nessuno se ne avvide. La rivelazione è finita; Daniele chiude il racconto con un riferimento allo stato di prostrazione fisica in cui essa lo ha lasciato. Il profeta ha perso i sensi e ha dovuto trascorrere diversi giorni a letto prima di riprendere le sue mansioni pubbliche in Babilonia. È un indice del forte stress fisico ed emotivo a cui una prolungata esperienza estatica sottopone i profeti di Jahvé. Daniele è tornato ai suoi incarichi abituali ma gli è rimasto un forte turbamento “a motivo della visione”, in ebraico: }yibm" }y")wº he)r : M a h a -la({"mOT:$) e wæ û’eshthômem ‘al hammar’eh we’ên mevîn, “ma provavo un opprimente stupore sulla visione perché non la potevo intendere” (Rinaldi). La traduzione rende con precisione l’originale. Daniele non aveva motivo di stupirsi per la visione-chazôn, ovvero per le cose viste nella rivelazione, giacché questa gli era stata interpretata. Era la visione-mar’eh (egli lo dice), vale a dire la rivelazione sulle 2300 sere-mattine ricevuta nell’audizione, quella che gli cagionava turbamento, giacché su di essa erano rimasti dei lati oscuri che l’angelo non aveva chiarito. Il profeta si crucciava per non capire (e’en mevîn) tutto il senso e la portata di quel dettaglio della rivelazione. Il verbo byn (“intendere”) e il sostantivo mar’eh (“visione-apparizione”) sono importanti elementi di collegamento con la rivelazione successiva riportata nel cap. 9.

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APPENDICE 8A Il prof. WILLIAM H. SHEA in Selected Studies on Prophetic Interpretation, Washington DC 1981, alle pp. 66-88, ha evidenziato significativi parallelismi fra i termini “giorni” ed “anni” nella narrativa storica, nella poesia e nella legislazione levitica dell’Antico Testamento. I) Nei racconti storici i “giorni” sono equiparati ad “anni” secondo tre distinte modalità: 1. L’equivalenza giorni-anni si nota in riferimenti ad eventi che ricorrevano una volta l’anno. La solennità pasquale, per esempio, doveva essere celebrata “di anno in anno” (Esodo 13:10), letteralmente “di giorni in giorni”, ebraico hfmyimyæ {yimYæ m i miyyamîm yamîmah. “Sacrificio dei giorni”, {yimYæ h a xabzå zevc a h hayyamîm, era detto un sacrificio che si offriva annualmente (1Sm 20:6). Ogni anno, letteralmente “di giorni in giorni” (miyyamîm yamîmah), cfr. 1Sm 2:19, Anna portava una tunica nuova al piccolo Samuele (1Sm 2:19). Elkana saliva a Shiloh con la famiglia ogni anno per offrire il sacrificio annuo (1Sm 1:21), letteralmente “sacrificio dei giorni” (zevach hayyamîm), cfr. 1Sm 2:19. In Gc 11:40 si dice che le fanciulle d’Israele celebravano il sacrificio della figlia di Jefte “tutti gli anni”, letteralmente “di giorni in giorni” (miyyamîm yamîmah). Questo passo è particolarmente importante in rapporto all’equazione giorno = anno poiché alla fine del versetto ricorre l’espressione “quattro giorni l’anno” (’arba‘ yamîm bashanah) nella quale yamîm ha il significato letterale di “giorni” e shânâh quello letterale di “anno”. 2. A volte nell’Antico Testamento yamîm, “giorni”, designa un periodo di tempo corrispondente ad un anno. In 1Sm 27:7, per esempio, si dice lette-

ralmente che Davide e i suoi uomini dimorarono nel paese dei Filistei “giorni e quattro mesi” (yamîm we’arba‘ah chadashîm). La frase significa “un anno e quattro mesi”. Nu 9:22 dice in riferimento al soggiorno d’Israele nel deserto che finché la nuvola non si alzava i figli d’Israele rimanevano nel luogo dove erano accampati, fosse “per due giorni, sia un mese, sia giorni” (hû yimaîm hû chodesh yamîm). La progressione naturale delle unità di tempo non può essere che “giorni, mese e anno”; è evidente che la seconda volta che ricorre la parola “giorni” (al plurale come di regola), essa ha il significato di “anno”, come correttamente la rendono le versioni. 3. Non di rado nell’Antico Testamento “giorni” equivale ad “anni” in passi nei quali si indica la durata della vita di una persona. Per esempio 1Re 1:1 dice che il re Davide “era vecchio nei giorni” (zaqen ba bayamîm), volendo significare che questo personaggio era avanti negli anni. Nella Genesi l’uso di “giorni” per “anni” appare ancora meglio definito. Giacobbe, per esempio, dice al faraone (Ge 47:9): “I giorni degli anni dei miei pellegrinaggi sono stati pochi e cattivi e non hanno raggiunto i giorni degli anni dei miei padri...” Tre volte si ripete l’espressione yeme shnê, “i giorni degli anni”. Questa forma di linguaggio sembra improntata alle genealogie dei patriarchi antidiluviani riportate nel cap. 5 della Genesi. In queste genealogie per ben 10 volte si ripete l’espressione: “E X visse tanti anni e generò Y. E X, dopo che ebbe generato Y, visse tanti anni. E tutti i giorni di X furono tanti anni, poi morì” (ebraico: qol yemê... shânâh...). Un nesso significativo fra “giorni” ed “anni” da una parte ed una predizione profetica dall’altra che si coglie nella terza frase

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della genealogia di Ge 5, si ritrova nel capitolo successivo dove, nel v. 3, Dio dice in riferimento alla malvagità degli antidiluviani: “Il mio spirito non dimorerà per sempre con l’uomo; perché nel suo traviamento egli non è che carne; e i suoi giorni saranno quindi centoventi anni”. Questa è la prima cronoprofezia della Bibbia in cui “giorni” ed “anni” sono messi in parallelo. “Da questa breve rassegna - osserva Shea - si può vedere come dal nesso che venne stabilendosi fra le parole ‘giorno’ ed ‘anno’ si sviluppassero un uso linguistico ed un modello mentale dai quali in seguito si trassero specifici rapporti quantitativi da applicare in contesti profetici”. E conclude: “È evidente che il principio anno-giorno nella profezia sui generis non apparve repentinamente, ma vi fu introdotto derivandolo da un modello che già faceva parte del pensiero ebraico” (op. cit. p. 67). Come la narrativa storica in prosa - dice ancora il prof. Shea - la letteratura poetica dell’Antico Testamento, se non offre un criterio metodologico da applicare nell’interpretazione dei periodi profetici, fornisce comunque degli esempi di associazione fianco a fianco di due unità di tempo la cui stretta relazione reciproca è messa in luce dall’uso del parallelismo poetico. Ecco alcuni esempi: “I tuoi giorni son essi come i giorni del mortale, i tuoi anni son essi come gli anni degli umani...?” (Gb 10:5) “L’empio è tormentato tutti i suoi giorni, e pochi son gli anni riservati al prepotente” (Gb 15:20) “Se l’ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e i loro anni nella gloria” (Gb 36:11) Altri esempi si possono trarre dal cap. 2 del Deuteronomio:

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“Ricordati dei giorni antichi, considera gli anni delle età passate, interroga tuo padre, ed egli te lo farà conoscere,i tuoi vecchi, ed essi te lo diranno” (De 32:7) Un paio di esempi si possono cogliere nel libro dei Salmi: “Ripenso ai giorni antichi,agli anni da lungo tempo passati” (Sl 77:5) “Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo cruccio, noi finiamo gli anni nostri come un soffio. I giorni de’ nostri anni, arrivano a settant’anni; o, per i più forti, a ottant’anni; e quel che ne fa l’orgoglio non è che travaglio e vanità; perché passa presto, e noi ce ne voliam via” (Sl 90:9,10) “Questa lista di passi biblici nient’affatto esaustiva - precisa l’Autore - è proposta a puro titolo esemplificativo. ‘Giorni’ ed ‘anni’ nei parallelismi dei testi citati non indicano periodi di tempo brevi e lunghi, ma periodi di tempo di uguale lunghezza, calibrati però entro unità di tempo più brevi e più lunghe. L’identico processo mentale si rispecchia nelle cronoprofezie con la differenza che in queste ultime l’equivalenza è specificata numericamente”. Due paragrafi più sotto conclude: “Il nesso stretto e particolare fra ‘giorni’ ed ‘anni’ che si scorge nella prosa e nella poesia dell’A.T., fornisce una base per applicare in modo specifico alle cronoprofezie apocalittiche questo modello di pensiero” (op. cit., p. 69). La legislazione levitica nell’ambito della più ampia legislazione mosaica - facciamo sempre riferimento all’argomentazione del prof. Shea - contemplava fra altre un’istituzione attinente all’economia agricola dell’antico Israele la quale prendeva il nome di anno sabatico (cfr. Le 25:1-7). Per sei anni, in forza di questa istituzione, il contadino israelita doveva seminare il suo campo, potare la sua vi-

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gna, raccoglierne i frutti, ma il settimo anno doveva astenersene: i prodotti spontanei del campo e della vigna erano di tutti: dello straniero, del povero, dello schiavo e del proprietario stesso del campo e della vigna. L’anno sabatico cadeva alla fine di ogni settennio. La legge relativa a questa istituzione esordiva con queste parole (v. 2): “ Quando sarete entrati nel paese che io vi dò, la terra dovrà avere il suo tempo di riposo consacrato all’Eterno”, letteralmente “sabatizzerà la terra un Sabato per Jahvé” (weshavthâh ha’arez shabbath leyehowa). Il “Sabato” menzionato qui ovviamente non è il Sabato settimanale, è l’ultimo anno di un settennio. Nel v. 4 la prescrizione è ripetuta in una forma lievemente variente: “il settimo anno sarà un Sabato... per la terra, un Sabato in onore dell’Eterno” (shabbath shabbathôn). Replicata ancora nel v. 5, la disposizione levitica ha la parola “anno” nell’identica posizione in cui nel v. 4 c’è la parola “Sabato”: “sarà un Sabato, un completo riposo per la terra” (v. 4) Il settimo anno “sarà un anno di completo riposo per la terra” (v. 5) In questo parallelismo si coglie con naturalezza una identità tra Sabato dedicato alla terra e anno dedicato alla terra. “In Le 25:1-7 - osserva Shea - è chiaramente implicito che l’anno sabatico è modellato sul giorno sabatico vale a dire sul Sabato settimanale. Sei giorni di lavoro erano seguiti dal settimo giorno di riposo sabatico: così sei anni di lavori agricoli dovevano essere seguiti da un settimo anno di riposo per la terra. Il settimo giorno doveva essere un Sabato di ‘solenne riposo’ (Le 23:3); similmente il settimo anno, l’anno sabatico, doveva essere un Sabato di

‘solenne riposo’ per la terra (Le 24: 4,5). “Esiste dunque un rapporto diretto fra il ‘giorno’ e l’anno’ dal momento che l’identica terminologia è applicata all’uno e all’altro; il posteriore anno sabatico fu modellato sull’anteriore giorno sabatico. Tale rapporto appare quantitativamente più chiaro quando si consideri la parte successiva della legislazione contenuta in Le 25, ovvero quella relativa al Giubileo” (ibidem, p. 71). Anche se Le 25:8 è un testo legislativo - osserva Shea - il principio giorno-anno funziona alla stessa maniera che nel libro di Daniele, ovvero i ‘giorni’ proiettati nel futuro segnano gli anni del futuro. Il passo riguarda la celebrazione dell’anno giubilare e recita letteralmente: “Conterai per te sette Sabati d’anni (wesafartha leka sheva‘ shabthoth shanîm), sette anni sette volte (sheva‘ shanîm sheva‘ pe‘amîm) e saranno per te i giorni dei sette Sabati d’anni quarantanove anni (wehayû leka yemê sheva‘ shabthoth hashshanîm thesha‘ we’arba‘im shana). La spiegazione dell’espressione numerica della prima frase del passo (“sette Sabati d’anni”) che viene data nella seconda frase (“sette volte sette anni”), mostra che un ‘Sabato d’anni’ deve comprendersi come un periodo di sette anni. Il Sabato, settimo giorno della settimana, è equiparato ad un settimo anno; l’ultimo giorno della settimana, insomma, sta per l’ultimo anno di un settennio, cosicché ciascun giorno di ogni settimana terminante col Sabato equivale ad un anno del ciclo giubilare. “Che la terminologia ‘sabatica’ - dice testualmente il nostro Autore - fosse inoltre utilizzata per designare la ‘settimana’, risulta evidente dalla fraseologia parallela usata due capitoli più avanti. Quivi si fa riferimento alla

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festa delle Settimane, o di Pentecoste, che si celebrava in capo a sette ‘settimane intere’, letteralmente ‘sette sabati interi’ (shabbathôth tmîmoth, Le 23:15). Poiché bisognava contare più che dei giorni di ‘Sabato’ completi per arrivare al cinquantesimo giorno fissato per la celebrazione della Pentecoste, è evidente che ‘Sabati’ qui significa ‘settimane’, come giustamente traducono il termine le versioni. Questa fraseologia parallela attinente alla Pentecoste mostra che i ‘Sabati’ ai quali si fa riferimento in Le 25:8 in relazione al Giubileo, debbono anche significare ‘settimane’. “In definitiva il giorno del Sabato e i sei giorni che lo precedono vennero utilizzati come modello per fissare, secondo le direttive divine, la ricorrenza dell’anno giubilare” (op. cit., p. 71). Ben a ragione Shea sostiene che nell’ambito della profezia questa utilizzazione del principio anno-giorno ha il suo corrispettivo in 9:24-27, sebbene qui ricorra un termine un po’ diverso, shavu‘a, il quale tuttavia significa la stessa cosa che “Sabati” in Le 25:8, cioè “settimane”. Che il principio annogiorno sia applicabile ai periodi temporali di 9:24-27, risulta dunque particolarmente evidente dalla costruzione parallela che si trova nella legislazione levitica relativa all’anno giubilare. “Si potrebbe quasi dire che il periodo temporale contemplato in 9:24-27 sia modellato sulla legislazione giubilare” (p. 72). Concludendo - riportiamo sempre il pensiero di Shea - se è legittimo applicare il principio anno-giorno ai giorni della settimana di cui si parla in Le 25 per calcolare il tempo futuro che deve trascorrere fino al prossimo Giubileo, lo è anche in rapporto ai giorni delle settimane di Dn 9 per calcolare il tempo futuro facendolo decorrere dall’inizio di quelle “settimane”; e per estensione lo stesso prin-

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cipio potrà ragionevolmente applicarsi ai “giorni” delle altre cronoprofezie danieliche. Il prof. Shea cita Nu 14:34 come un terzo caso in cui nella Bibbia il principio giorno-anno è applicato in modo alquanto differente da come lo è in Le 25. Nel cap. 14 dei Numeri i “giorni” come unità di misura per calcolare gli “anni” sono presi da eventi del passato storico immediato, precisamente dai 40 giorni che 12 uomini mandati da Giosuè impiegarono per esplorare il paese di Canaan. Poiché il popolo accampato nel deserto credette al rapporto negativo presentato dalla maggior parte degli esploratori, Dio sentenziò che esso sarebbe rimasto nel deserto per 40 anni: “Come avete messo quaranta giorni a esplorare il paese, porterete la pena delle vostre iniquità quarant’anni; un anno per ogni giorno (yôm lashshanath yôm lashshanath); e saprete che cosa sia incorrere nella mia disgrazia”. Il destino di quella generazione ribelle errare nel deserto - “è predetto in forma di giudizio profetico calibrato sul principio annogiorno”. È evidente - arguisce il nostro Autore - che interpretando un giorno come equivalente a un anno nelle profezie apocalittiche, il principio anno-giorno viene applicato in ordine inverso rispetto a come lo è in Nu 14:34. In questo passo un giorno passato equivale a un anno futuro; nelle profezie apocalittiche un giorno futuro sta per un anno futuro. “Questo non significa - spiega il prof. Shea - che il principio anno-giorno in ciascuno dei due casi abbia un’origine indipendente, significa soltanto che esso è stato adattato e trasformato per l’uso che se ne fece nel più tardivo genere di tempo profetico apocalittico. I due tipi di tempo profetico possono ancora essere considerati come essendo in rapporto

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l’uno con l’altro... Non è detto che l’apocalittica debba usare i giorni profetici della profezia classica alla stessa maniera di quest’ultima, e tuttavia l’utilizzo posteriore di siffatti elementi temporali è tratto dal modello-base fornito dalla profezia classica” (pp. 72-73). La considerazione fatta sopra vale anche per quanto attiene alla divergenza fra il “modus operandi” del principio giorno-anno nel Levitico e l’applicazione di esso nel libro dei Numeri. Vale altresì nel caso di Ez 4:6 del quale si tratterà più avanti - ove lo stesso principio è applicato con una modalità ancora differente rispetto a Nu 14 e Le 25. L’uso del principio nel libro di Daniele posteriore rispetto a quello di Ezechiele - si rifà al modello più antico, quello di Le 25. In sostanza si può parlare di un uso continuo del principio. “Come l’uso linguistico di ‘giorni’ accoppiati ad ‘anni’ in passi in prosa e in poesia nell’Antico Testamento forma il background dal quale si sviluppa il principio, così i testi nei quali il principio anno-giorno è utilizzato in maniera differente forniscono una base per l’applicazione specifica che se ne fa nell’apocalittica” (p. 73). W. Shea prende ancora in esame il passo di Ez 4:6. In Ez 4 si descrive un’azione simbolica con 3 elementi principali che sono: (1) il significato dell’azione mimata; (2) l’elemento crono-profetico che vi è implicato e (3) il background storico attinente all’elemento temporale. Dal contesto - osserva l’Autore - risulta evidente che lo scopo della parabola mimata era quello di predire l’assedio e la conquista di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi e la susseguente deportazione dei suoi abitanti. I 430 anni (390 + 40), che costituiscono la motivazione per la quale il profeta dovrà giacere prima su un fianco poi sull’al-

tro, rappresentano il progressivo degrado morale e spirituale della società israelitica durante il tempo della monarchia divisa. I giorni durante i quali il profeta doveva “portare” i peccati del popolo - dice W. Shea - corrispondono al tempo che Dio impiegò per giudicare il suo popolo nel tempio, come si vede dai cc. 1, 9 e 10 del libro di Ezechiele. Gli elementi temporali di questa profezia giustificano il confronto con gli elementi temporali di Nu 14:34. Da un siffatto confronto emergono significative analogie che si apprezzano meglio attraverso un raffronto delle traduzioni letterali dei due passi: Numeri 14:34: “Secondo il numero dei giorni (bemispar hayyamîm) nei quali avete spiato il paese, quaranta giorni (’arba‘îm yôm), giorno per anno, giorno per anno (yôm lashshanah yôm lashshanah) porterete la vostra iniquità (this’û ‘awônothêkem) quarant’anni (’arba‘îm shanah)”. Ezechiele 4:4-6: “... per il numero di giorni (mispar hayyamîm) che starai sdraiato su quel lato, tu porterai la loro iniquità (thissa’ ’eth ‘awonam). E io ti conterò gli anni della loro iniquità (shne ‘awônam) in numero pari a quello dei giorni (lemî spar yamîm): trecentonovanta giorni. Tu porterai così l’iniquità della casa d’Israele... e porterai l’iniquità della casa di Giuda per quaranta giorni (’arba‘îm yôm), un giorno per un anno, un giorno per un anno (yôm lashshanah yôm lashshanah) che io t’impongo”. Nella lingua originale l’uno e l’altro testo presentano aspetti linguistici paralleli. In entrambi i passi l’atto di “portare” e l’“iniquità” portata sono espressi alla stessa maniera; tutti e due sono introdotti con la stessa frase: “il numero dei giorni”, e tutti e due esprimono lo stesso concetto con l’identica

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frase replicata: “giorno per anno, giorno per anno”. Da questo raffronto - osserva il prof. Shea - si vede che il secondo dei due passi (Ez 4) dipende direttamente dal primo (Nu 14) per vari aspetti significativi: il principio annogiorno applicato in Ez 4:6 è dunque, linguisticamente, lo stesso principio oprante in Nu 14:34. Tuttavia si nota una differenza nella modalità di applicazione del principio. I “giorni” futuri in senso profetico in Ezechiele sono fatti derivare da un eguale numero di “anni” storici passati, inversamente di quel che avviene in Nu 14 dove gli “anni” di giudizio fanno seguito ad un egual numero di “giorni” di trasgressione (i 40 giorni ai quali si riferi-

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scono i giudizi negativi degli esploratori). Nei Numeri, insomma, il principio è applicato secondo l’ordine: un giorno per un anno, e in Ezechiele secondo il criterio inverso, un anno per un giorno. Ma il principio operante nei due casi è lo stesso, come si vede dai raffronti linguistici. “Ezechiele - osserva Shea - non è che dica ‘anno per il giorno’ e Numeri ‘giorno per l’anno’. La fraseologia (‘un giorno per un anno un giorno per un anno’) compare nei due passi nell’identica forma. Non c’è alcuna differenza fra di essi sebbene differisca nei due casi l’applicazione storico-cronologica. Ciò significa che lo stesso principio poteva applicarsi con modalità diversificate in situazioni differenti” (op. cit., p. 74).

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Capitolo 9 ____________________________________________________

D

iversi anni sono trascorsi dal giorno in cui era stata rivelata a Daniele la visione del montone e del capro quando un evento epocale ha mutato l’assetto politico del mondo orientale e ha riacceso la speranza nel cuore dei giudei che vivono nell’esilio in Babilonia.: la nazione che ha distrutto Gerusalemme e il tempio del Dio d’Israele, la nazione che ha devastato il paese di Giuda e ne ha sradicato gli abitanti, la potente e crudele Babilonia è caduta nelle mani dei Persiani. Si è così compiuto il suo fato, annunciato sessantasei anni prima dal profeta Geremia. La Caldea, dove vivono dispersi gli esuli di Giuda, è divenuta una provincia della nuova potenza egemone: la governa Dario il Medo, luogotenente e revassallo di Ciro, il gran re di Persia. Che sia spuntato il giorno agognato del ritorno in patria? Che sia giunto per la città santa e per il suo santuario il tempo felice della rinascita? - debbono aver pensato i deportati. Daniele dovrebbe esultare, invece è inquieto. Lo turba il pensiero che l’infedeltà degli esuli possa ritardare la loro liberazione. E allora prega. Prega il suo Dio affinchè Egli voglia perdonare il peccato del suo popolo ed esso torni libero nella terra dei padri e Gerusalemme e il tempio del Signore risorgano dalle macerie. La risposta del Cielo giunge immediata, recata da Gabriele, l’angelo della rivelazione che sette anni prima ha spiegato al profeta la visione del montone e del capro. Si illumina un particolare essenziale che allora era rimasto nell’oscurità e si annuncia l’avvento di una nuova èra di restaurazione e di salvezza per Israele e per tutte le nazioni della terra.

1 Nell’anno primo di Dario, figliuolo d’Assuero, della stirpe dei Medi,

che fu fatto re del regno dei Caldei, Com’è sua abitudine, Daniele apre con l’indicazione della data il racconto di una nuova esperienza rivelatoria. È l’anno primo di Dario il Medo figlio di Assuero quando riceve per la terza volta una rivelazione divina. Il nome di Dario il Medo figlio di Assuero è sconosciuto a tutte le fonti antiche di cui si è a conoscenza. Questo però non significa necessariamente che il personaggio sia una figura leggendaria. Anche il nome del suo predecessore sul trono di Babilonia, Beltsasar, era ignoto a tutte le fonti greche e babilonesi note fino al 1861. Poi comparve inaspettatamente in un documento e si vide che la funzione pubblica della persona che lo portava concordava con la funzione che Daniele attribuisce a Beltsasar 245

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nel cap. 5 del suo libro330. Una fra le diverse proposte di identificazione del Dario danielico con un personaggio storico dell’epoca, appare più verosimile delle altre. È quella che accosta questa figura a un personaggio eminente dell’entourage di Ciro il Grande, Gubaru, o Ugbaru, governatore del Gutium e conquistatore di Babilonia per conto del sovrano persiano 331. 330 - Nel 1861 H.F.TALBOT pubblicò i testi di alcuni cilindri di terracotta rinvenuti 7 anni prima da J.E.Taylor presso la torre templare di Ur. Uno dei testi suddetti riportava una preghiera che il re Nabonide rivolgeva al dio Sin in occasione del restauro della ziqqurat. In quella preghiera per la prima volta compariva il nome di Beltsasar. Nelle righe 24-28 del documento cuneiforme si poteva leggere la seguente richiesta alla divinità:

“... e quanto a Bel-sar-usur (Beltsasar), il figlio primogenito, il rampollo del mio cuore, il timore della tua grande divinità nel suo cuore fa’ esistere. Il nome di Beltsasar appariva così in una fonte babilonese contemporanea e questo personaggio vi compariva come il figlio primogenito di Nabonide. Poi il nome di Bel-sar-usur comparve in diversi documenti venuti in luce negli anni successivi”. Nel 1944 fu ripubblicato in una versione più corretta un testo babilonese conservato nel Museo Britannico (BM 38299) dove si trova tuttora, noto col nome di Racconto in versi di Nabonide (il testo suddetto era stato pubblicato vari decenni prima da Sidney Taylor). Questo documento a un certo punto informa: “Egli (Nabonide) affidò il campo al (figlio) più anziano, il primogenito, le truppe in (tutto) il paese pose sotto il suo (comando).Si (disinteressò) di tutto e conferì a lui la regalità (sharrûtim), ed egli stesso partì per un lungo viaggio... si diresse verso Tema (lontano) nell’occidente”. (ANET, p. 313) La notizia è confermata direttamente da Nabonide in uno dei testi di Harran pubblicato nel 1958: “Io mi recai molto lontano dalla mia città di Babilonia in direzione di Tema... Per dieci anni io mi trattenni in mezzo a loro e non feci ritorno alla mia città di Babilonia”. (Riportato da G. PETTINATO in Babilonia, centro dell’universo, p. 231) Un quarto documento noto come la Cronaca di Nabonide, pubblicato la prima volta da F.G.PINnel 1882 e ripubblicato da S. TAYLOR nel 1924, riferisce che la festa dell’Akitu o dell’Anno Nuovo, non fu celebrata in Babilonia dall’anno settimo di Nabonide perché il re non tornò più da Tema (il testo si trova in ANET, p. 306). Dai documenti citati si evince quanto segue: 1. che Nabonide nell’anno settimo del suo regno partì per Tema (nell’Arabia del nord); 2. che prima di partire conferì la regalità al figlio primogenito; 3. che il nome del figlio primogenito di Nabonide era Bel-sar-usur (Beltsasar); 4. che a Tema Nabonide rimase 10 anni, praticamente fino alla caduta di Babilonia nel 539 a.C. Tutto sembra concordare con le notizie che ci fornisce Daniele su questo personaggio. CHES

331 - Vedi Appendice A a fine capitolo.

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Si è sentenziato con troppa fretta che Daniele in 5:31, nel cap. 6 e in 9:1 confonda il successore di Beltsasar sul trono di Babilonia con Dario I figlio d’Istaspe. L’illazione è gratuita perché: 1) Daniele distingue il successore di Beltsasar da Dario I col precisare che quello apparteneva alla stirpe del Medi (mentre questo era persiano) e che al momento di salire sul trono di Babilonia aveva 62 anni (laddove Dario I era più giovane quando assunse la reggenza del regno persiano). 2) Daniele conosce bene la serie dei primi sovrani che regnarono sulla Persia dopo la caduta di Babilonia. Infatti nell’anno terzo di Ciro un angelo gli svela che “sorgeranno ancora in Persia tre re” (dopo Ciro che regna già al momento della rivelazione), “poi il quarto diventerà molto più ricco di tutti gli altri; e quando sarà diventato forte per le sue ricchezze, solleverà tutti contro il regno di Yawan” (Dn 11:2). Nel quarto re che solleva tutti contro il regno di Yawan è trasparente la figura di Serse I, l’invasore della Grecia e distruttore di Atene. I tre che lo precedono sono nell’ordine: Cambise II successore di Ciro, l’usurpatore Gaumata e Dario I figlio di Istaspe e padre di Serse. 3) Daniele sa infine che Ciro regna sulla Persia (10:1) e che Dario il Medo governa soltanto la Caldea e con potere subordinato: “fu fatto re dei Caldei” (9:1).

2 il primo anno del suo regno, io, Daniele, meditando sui libri, vidi

che il numero degli anni di cui l’Eterno avea parlato al profeta Geremia, e durante i quali Gerusalemme doveva essere in ruine, era di settant’anni. Il regno di Dario il Medo (vedi nota 2) deve essere cominciato nell’autunno del 539 a.C., subito dopo la caduta di Babilonia nelle mani dei medo-persiani. Col tramonto di Babilonia un evento epocale si è consumato: la potente nazione mesopotamica che ha fatto tremare il Vicino Oriente, la nazione pagana che ha devastato Giuda e Gerusalemme e distrutto il tempio di Yahweh, Babilonia che ha deportato e mantenuto nell’esilio il popolo di Dio è crollata di schianto. Daniele non è certo rimasto indifferente di fronte al mutato quadro politico. Egli ha con sé alcuni dei venerati libri (sefarîm) della tradizione canonica d’Israele. Non possiamo sapere quanti e quali, ma certamente più d’uno e fra di essi un rotolo di Geremia. Indagando nei “libri” il profeta cerca di capire il significato di quel numero di anni - settanta - che secondo la parola rivelata da Yahweh a Geremia dovevano trascorrere sulle rovine di Gerusalemme: hænf$ {yi(b : $ i i{al$ f Urºy tOb:rx f l : tw)oLm a l : )yibNæ h a hæym i r : yé -le) hæwhºy-rabd : hæyh f re$) A {yén< f h a raPs: m i {yirpf S: B a yitonyiB l)¢Yné D f yén) A ’ani danî’el bînothî bassefarîm mispar hashshanîm ’asher hayah devar yehowah ’el yirmyâh hannavî’ lemallo’wth lecharvôth yerûshalaim 247

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shiv‘îm shânâh, alla lettera: “io, Daniele, (cercavo) di capire dai libri il numero degli anni nei quali secondo la parola di Yahweh a Geremia il profeta, (dovevano compiersi) le desolazioni di Gerusalemme: settant’anni” (l’uso del verbo bîn, “comprendere”, denota ancora una volta la tensione continua di Daniele a comprendere quanto gli viene rivelato in modo sovrannaturale o quanto il corso degli eventi temporali sembra indicare). In due punti del suo libro Geremia fissa in 70 anni la durata del castigo di Giuda: in 25:11-12 e in 29:30332. Nel primo passo il profeta annuncia la desolazione del paese e l’asservimento dei suoi abitanti al re di Babilonia per la durata di 70 anni, nel secondo preconizza il ritorno dei deportati dopo che avranno trascorso un settantennio in Babilonia. Il riferimento di Daniele a Geremia in 9:2 si rapporta piuttosto alla prima delle due predizioni di questo profeta riguardo all’esilio, sebbene entrambe inquadrino sostanzialmente la stessa prospettiva. S’intravede un collega-

332 - La cronologia del settantennio differisce secondo che questo periodo temporale si appli-

chi alla durata dell’esilio o alla durata della desolazione del tempio. Nel primo caso i 70 anni decorrono dall’inizio della deportazione, nel secondo dalla distruzione del tempio. Secondo Dn 1:1 la prima deportazione di cittadini di Giuda in Babilonia avvenne nell’anno terzo del re Gioiachim (gli anni di regno essendo calcolati in base al criterio babilonese della post-datazione) o nell’anno quarto secondo Gr 25:1 (con gli anni di regno computati in base al criterio della predatazione in uso in Giuda). Era comunque il 605 a.C. a prescindere dal sistema di conteggio degli anni. Se si contano 70 anni a partire da questa data, si perviene al 636 a.C., tenendo conto del calcolo inclusivo del tempo in forza del quale si calcolavano come anni interi le frazioni dell’anno iniziale e dell’anno finale del periodo considerato. Il decreto di Ciro che consentiva il rimpatrio degli esuli deve essere stato promulgato agl’inizi del 538 a.C., Babilonia essendo stata conquistata nell’autunno del 539. Nel 537 debbono essere stati portati a termine i complessi preparativi in vista del rimpatrio e nell’estate del 536 debbono essere arrivati a Gerusalemme i primi contingenti dei rimpatriandi, tenendo conto che ci volevano almeno 5 mesi (Ed 7:9) ad una schiera di gente appiedata per coprire la distanza fra Babilonia e Gerusalemme. Che non sia un’impresa semplice stabilire le date di avvenimenti dell’era pre-cristiana si comprende quando si tenga presente che i cronologi moderni calcolano gli anni avanti Cristo in base al calendario giuliano con l’inizio dell’anno il 1° gennaio, mentre gli Ebrei li contavano in base al loro calendario luni-solare con l’inizio dell’anno in settembre/ottobre (Tishri) e i Babilonesi in base allo stesso tipo di calendario ma con l’inizio dell’anno in marzo/aprile (Nisan). Riferiti alla desolazione del tempio i 70 anni debbono decorrere dall’anno undicesimo di Sedechia, il 587 a.C. quando il sacro edificio fu distrutto dai Babilonesi (cfr. 2Re 25:2,8-10, Gr 52:5, 12-14). Il tempio ricostruito fu dedicato al culto l’anno sesto del regno di Dario I (Esd 6:15) corrispondente al 516 a.C., esattamente 70 anni dopo la sua distruzione. Tanto l’esilio quanto la desolazione del tempio durano 70 anni, pur se i due segmenti di tempo di identica lunghezza appaiono sfalsati di una ventina d’anni l’uno rispetto all’altro.

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mento fra il tempo della desolazione annunciata da Geremia e l’antica legge dell’anno sabbatico 333. Daniele sa che sono trascorsi 66 anni da quando lui e i suoi compagni furono tolti alle famiglie e deportati in Babilonia nell’anno terzo del regno di Gioiachim (il 605 a.C.). È dunque prossima la redenzione del suo popolo annunciata dal profeta Geremia?... Comunque Daniele non è sereno... 3 E volsi la mia faccia verso il Signore Iddio, per dispormi alla preghiera e alle supplicazioni, col digiuno, col sacco e con la cenere.

La consapevolezza che è vicina la fine dell’esilio non ha suscitato contentezza nell’animo di Daniele, ma inquietudine. Egli certo non ha dubitato che la promessa del Signore data per bocca di Geremia sia verace, ma non ignora che le promesse divine sono condizionate, secondo la parola rivelata, sempre a Geremia, nella bottega del vasaio (Gr 18:7-10). Il vecchio profeta è anche a conoscenza della precaria condizione spirituale della sua gente deportata nella Babilonide. Lo opprime, dunque, il pensiero che per i peccati del popolo nell’esilio possa essere rinviato sine die il suo rimpatrio e procrastinata a tempo indeterminato la ricostruzione del desolato santuario del Signore e della sua santa città in rovine. Da questa riflessione penosa Daniele è indotto a cercare Dio nella preghiera: “Volsi la mia faccia verso il Signore...” Forse è un’allusione ad un orientamento fisico del profeta in direzione di Gerusalemme (6:10). Per Daniele Dio ({yihol) E h f ha ‘Elohîm, il Potente), è anche il Signore (yænod) A ’Adonai, il Sovrano). A Lui rivolgerà la sua preghiera (hfLpi T: tefillah), cioè l’effusione dell’animo, e

333 - L’estensore del libro delle Cronache nel riferire i fatti tragici dell’anno undicesimo di Sede-

chia (587 a.C.), coglie un nesso fra Gr 25:9-13 e Le 26:34-43. Egli puntualizza che la sciagura che si abbatté su Gerusalemme ed i suoi abitanti avvenne “affinché s’adempiesse la parola dell’Eterno pronunciata per bocca di Geremia, fino a che il paese avesse goduto dei suoi Sabati, difatti esso dovette riposare per tutto il tempo della sua desolazione, finché furono compiuti i settant’anni” (2Cr 36:19-21). Si evidenzia in questo passo una terza conseguenza della catastrofe del 587 a.C. oltre a quelle preannunciate da Geremia (la desolazione del paese e la deportazione dei suoi abitanti), cioè il riposo della terra per tutta la durata della desolazione. Il cronista sembra voler dire che fu ridato alla terra il riposo prescritto dalla legge dell’anno sabbatico enunciata in Le 25:2-7, riposo del quale essa era stata defraudata per tanti anni (70 anni corrispondono a 10 anni sabbatici). È significativo che Gesù, secondo Lc 4:17-19, definisse la natura e lo scopo del suo ministero messianico col richiamarsi ad un passo di Isaia (61:1-2) ove sono tramutati profeticamente in future benedizioni messianiche i benefici sociali dell’anno giubilare (Le 25:13-16, 39-41, 54), a sua volta collegato con l’anno sabbatico (Le 25:8). Letti alla luce di Lc 4:18-19, Le 25:8 e 25:10-13, 39-41 sembrano additare al futuro riscatto messianico, il tema centrale della rivelazione di Dn 9:24-27.

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le sue supplicazioni ({yénUnAxt a tachanûnîm), ovvero le petizioni permeate di fervore umile e intenso per conseguire le grazie divine che gli stanno a cuore. Lo farà con veste di sacco, con digiuno e con cenere cosparsa sul capo come si conviene ad un peccatore penitente (erano, quelli, i segni esteriori di una profonda costernazione e contrizione del cuore; cfr. Et 4:1). 4 E feci la mia preghiera e la mia confessione all’Eterno, al mio Dio,

dicendo: “O Signore, Dio grande e tremendo, che mantieni il patto e continui la benignità a quelli che t’amano e osservano i tuoi comandamenti! 5 Noi abbiamo peccato, ci siamo condotti iniquamente, abbiamo operato malvagiamente, ci siamo ribellati, e ci siamo allontanati dai tuoi comandamenti e dalle tue prescrizioni, 6 non abbiamo dato ascolto ai profeti, tuoi servi, che hanno parlato in tuo nome ai nostri re, ai nostri capi, ai nostri padri, e a tutto il popolo del paese. A Colui che porta il nome ineffabile (hæwhy Yahweh) cui lo legano forti vincoli affettivi (yahol) E ’Elohay, “il mio Dio”), Daniele presenta la sua supplicazione e la sua confessione (heDwá t : ) e ’ethwaddeh). Supplicazioni e confessione sono dunque i contenuti della preghiera, ma nel presentarle al Signore Daniele ne inverte l’ordine: prima confessa, poi supplica. L’esordio: “Ah! Signore, il Dio grande e tremendo...” ()frONahwº lOdfGh a l")h f yænod) A )æN) f ’anna’ ’adonay ha’el haggadol wehannôra’...) fa trasparire i sentimenti di riverente timore del peccatore penitente davanti alla grandezza e alla maestà di Dio. La sua fedeltà indefettibile (“che mantieni il patto”) e la sua ininterrotta benevolenza (“e continui la benignità”) verso coloro che lo amano e osservano i suoi comandamenti, sono i presupposti sui quali l’implorante fonda la sua fiducia (cfr. Es 20:6). Nel confessare i peccati del suo popolo Daniele non si estranea, non prende le distanze: “Noi abbiamo peccato...” Anche nel peccato il profeta si fa solidale con la sua gente. Una confessione è sincera quando la colpa è messa a giorno senza attenuanti e giustificazioni. Così è la confessione di Daniele: non vaga e generica, non attenuata e parziale, ma definita e completa. Con 5 forme verbali sono enumerate altrettante colpe specifiche: Un)f+fx chata’nû, “noi abbiamo peccato” (da chata’, “mancare lo scopo”); Unyéw(f ‘awînû, “noi abbiamo agito perversamente” (da ‘awah, un verbo che implica allontanamento dalla retta via); Un:($ a r : h i hirsha’nû, “noi abbiamo agito malvagiamente” (da râshâ‘, “condursi malvagiamente”); Un:dr f m f maradenû, “ci siamo ribellati” (da marad, “insorgere”, “rivoltarsi”); rOs “deviare”, “stornarsi” (all’infinito). L’orante commenta H.C.Leupold - “riconosce che tutte le forme di espressione che caratterizzano il peccato sono applicabili a Israele, e questo è un segno essenziale della genuinità del pentimento: la colpa non è stata sminuita” 334.

334 - H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 384.

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La confessione prosegue col riconoscimento di una colpevole noncuranza nella quale la comunità d’Israele a tutti i livelli è stata coinvolta: “Non abbiamo dato ascolto ai profeti, tuoi servi, che hanno parlato in tuo nome ai nostri re, ai nostri capi, ai nostri padri e a tutto il popolo del paese” (cfr. 2Cr 36:11-16). “Daniele non cercò di giustificarsi e di giustificare il suo popolo davanti a Dio, al contrario confessò le loro trasgressioni con umiltà e contrizione, senza sminuirne la gravità, senza tacere i demeriti. E riconobbe che era stato giusto il procedere di Dio verso una nazione che non aveva tenuto conto delle sue richieste nè aveva prestato ascolto ai suoi appelli”335. 7 A te, o Signore, la giustizia; a noi, la confusione della faccia, come

avviene al dì d’oggi: agli uomini di Giuda, agli abitanti di Gerusalemme e a tutto Israele, vicini e lontani, in tutti i paesi dove li hai cacciati, a motivo delle infedeltà che hanno commesse contro di te. Al Signore (yænod) A ’Adonay) Daniele ascrive la giustizia (hfqd f C : h a hatztzadaqah), a sé medesimo e alla sua gente “la vergogna sul volto” ({yénPf h a te$oB bosheth happanîm) che la presente condizione di gente senza patria rende manifesta a tutti. La confessione coinvolge nella loro totalità gli appartenenti al popolo di Dio, tanto i più avvantaggiati cittadini di Giuda e Gerusalemme quanto gli abitanti del più lassista regno di Samaria, deportati e dispersi prima di loro, giacché quelli non furono meno colpevoli di questi. La vergogna dunque copre il volto di tutti i dispersi, quelli di Giuda - i vicini - e quelli di Samaria - lontani - tutti ugualmente puniti perché tutti alla stessa maniera colpevoli di infedeltà verso Dio. La giustizia divina è pienamente rivendicata e la colpa del popolo è messa a nudo senza attenuanti. Il contrasto è radicale. 8 O Signore, a noi la confusione della faccia, ai nostri re, ai nostri

capi, e ai nostri padri, perché abbiamo peccato contro te. Ancora una volta il supplicante riconosce davanti al Signore la meritata condizione di miseria del popolo colpevole dal quale egli non si dissocia: “O Signore, a noi la vergogna sul volto”. In una situazione di colpa collettiva si è generalmente propensi a chiamare in causa le responsabilità altrui prima di riconoscere le proprie. Daniele procede in ordine inverso: prima riconosce la colpevolezza sua e della sua generazione, poi chiama in causa le trascorse generazioni cominciando dai vertici dell’organizzazione sociale e politica della sua nazione: i re e i capi. In una struttura di governo di tipo teocratico, qual era quella d’Israele, la responsabilità dei governanti per la generalizzata infedeltà verso Dio era certo maggiore che la responsabilità dei governati. Le colpe del passato comunque non attenuano la gravità delle

335 - ELLEN G. WHITE, Testimonies for the Church, vol. V, p. 636.

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colpe del presente: “Poiché (tutti) abbiamo (ugualmente) peccato conto di te”. 9 Al Signore, ch’è il nostro Dio, appartengono la misericordia e il perdono; poiché noi ci siamo ribellati a lui, 10 e non abbiamo dato

ascolto alla voce dell’Eterno, dell’Iddio nostro, per camminare secondo le sue leggi, ch’egli ci aveva poste dinanzi mediante i profeti suoi servi. A questo punto dell’invocazione s’interrompe il riferimento diretto a Dio (“a te”, leka, nel v. 7); di lui si parla in terza persona: “Al Signore nostro Dio”, Uny"hol) E yænod)al la’donay ’elohênu. È piuttosto una riflessione dell’orante sulla disponibilità di Dio a perdonare che non una invocazione. “Al Signore nostro Dio...”. È una dichiarazione più formale e dignitosa commenta H.C. Leupold - che riflette in modo più pieno la maestà di Dio”. “Al Signore nostro Dio (appartengono) la misericordia e il perdono” (tOxilS: h a wº {yimx A r a h f harâchamîm wehasselichôth). Se addolora e opprime il cuore il sentimento della colpa, conforta e infonde speranza la certezza che Dio è misericordioso e propenso a perdonare. Se il castigo ha reso manifesta la sua giustizia, il perdono metterà in luce la sua grazia. Il “perché” (yiK ki) nel v. 9 è esplicativo: la misericordia e il perdono di Dio sono necessari perché c’è stata una insensata ribellione contro di Lui. Il pensiero di Daniele ritorna dunque sulla realtà angosciante del peccato, e la sua preghiera si fa di nuovo confessione, o piuttosto riconoscimento di colpevolezza, ma nella sua riflessione, come traspare dall’uso della terza persona in riferimento a Dio: “... e non abbiamo dato ascolto alla voce dell’Eterno, dell’Iddio nostro” (Uny"hol) E hæwhºy lOq:B beqôl Yehowa ’elohênû). È anche trasparente nell’uso del verbo e del pronome alla prima persona plurale laddove fa riferimento ai soggetti della colpa (“non abbiamo dato ascolto... le sue leggi, che egli ci aveva poste dinanzi...”), che il supplicante si include nel novero dei ribelli alla voce di Yahweh. La riflessione-confessione si concentra ancora sulla specificità del peccato: non sono stati accolti gli appelli di Dio a vivere in conformità con le sue leggi (wyftorOt thôrotâyw). 11 Sì, tutto Israele ha trasgredito la tua legge, s’è sviato per non ub-

bidire alla tua voce; e così su noi si sono riversate le maledizioni e imprecazioni che sono scritte nella legge di Mosè, servo di Dio, perché noi abbiam peccato contro di lui. La confessione è di nuovo diretta, l’orante rivolgendosi a Dio in seconda persona: “Sì, tutto Israele ha trasgredito la tua legge, s’è sviato per non ubbidire alla tua voce...” Ancora una volta è specificato il peccato d’Israele e stavolta si ha l’impressione che il profeta se ne dissoci (“...Israele ha trasgredito...”), ma non è così: “... su di noi si son riversate le maledizioni e imprecazioni che sono scritte nella legge di Mosè, servo di Dio, perché noi abbiamo peccato...” Daniele rico252

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nosce nella sciagura che si è abbattuta sul suo popolo l’avverarsi delle maledizioni annunciate nella legge di Mosè contro i suoi trasgressori. Probabilmente egli pensa a quei passi ammonitori del Levitico e del Deuteronomio nei quali la desolazione del paese e la deportazione in terre lontane dei suoi abitanti sono prospettate come il castigo di Dio sui trasgressori delle sue leggi (vedi Le 26:3234, 45; De 28: 49-52; 64,65). 12 Ed egli ha mandato ad effetto le parole che aveva pronunziate contro di noi e contro i nostri giudici che ci governano, facendo venir su noi una calamità così grande, che sotto tutto il cielo nulla mai è stato fatto di simile a quello ch’è stato fatto a Gerusalemme. 13 Com’è scritto nella legge di Mosè, tutta questa calamità ci è venuta addosso; e, nondimeno, non abbiamo implorato il favore dell’Eterno, del nostro Dio, ritraendoci dalle nostre iniquità e rendendoci attenti alla sua verità. 14 E l’Eterno ha vegliato su questa calamità, e ce l’ha fatta venire addosso; perché l’Eterno, il nostro Dio, è giusto in tutto quello che ha fatto, ma noi non abbiamo ubbidito alla sua voce.

Di nuovo la confessione si fa indiretta. Daniele torna a riferirsi a Dio in terza persona: “Ed egli ha mandato ad effetto le parole che aveva pronunciate contro di noi...” Ancora una riflessione dentro la confessione. La sciagura che ha travolto Israele non è avvenuta per caso, tutto è successo perché il Signore ha reso operante la sua parola, in questo caso una parola di maledizione contro i violatori della sua santa legge. Senza il suo consenso, mai le milizie dei re d’Assiria e di Babilonia avrebbero potuto invadere e devastare Samaria e Giuda e deportarne gli abitanti, mai sarebbe stato permesso a Nabucodonosor di distruggere la santa città ed il santuario del Signore. Mai, insomma, si sarebbe prodotta quella catastrofe inaudita: “sotto il cielo nulla mai è stata fatto di simile a quello ch’è stato fatto a Gerusalemme”. E tutto questo “era scritto nella legge di Mosè”: “Desolerò il paese... E quanto a voi, io vi disperderò fra le nazioni... il vostro paese sarà desolato, e le vostre città saranno deserte” (Le 26: 32-33). Ma la durissima lezione non è servita: “... nondimeno non abbiamo implorato il favore dell’Eterno, del nostro Dio, ritraendoci dalle nostre iniquità e rendendoci attenti alla sua verità” (tem) E ’emeth, la verità rivelata nella sua santa legge). Daniele riconosce la giustizia di Dio e la responsabilità d’Israele nelle calamità che si sono abbattute sul popolo: “L’Eterno, il nostro Dio, è giusto in tutto quello che ha fatto, ma noi non abbiamo ubbidito alla sua voce”. È stata formulata qualche critica a proposito dell’aspetto formale di questa estesa e circostanziata confessione, non condivisa però da un espositore meticoloso come Leupold: “Non è esatto... che l’impeto delle emozioni che hanno fatto scaturire questa confessione abbia dato luogo, come hanno creduto alcuni, compreso Haevernick, ad una sequela di pensieri non abbastanza chiaramente articolati o logicamente coordinati. Può bensì essere vero che la progressione dei pensieri non sia chiaramente marcata, come lo è talvolta in altri casi, ma quando un senti253

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mento intenso pervade un discorso, come avviene con tutta evidenza in questo caso, facilmente l’emozione respinge dietro le quinte la logica”336. 15 Ed ora, o Signore, Iddio nostro, che traesti il tuo popolo fuori del paese d’Egitto con mano potente, e ti facesti il nome che hai oggi, noi abbiamo peccato, abbiamo operato malvagiamente.

La confessione si chiude con l’evocazione di un grandissimo evento del passato, in cui rifulse la potenza redentrice di Dio verso il suo popolo. Un’evocazione che mette in risalto l’immensa ingratitudine d’Israele: contro il suo Dio che lo trasse fuori dall’Egitto con mano potente esso ha peccato ed ha agito malvagiamente. Per la quarta volta ritorna nella confessione di Daniele la frase: “Noi abbiamo peccato”, rivelando quanto opprimesse il suo cuore il peccato d’Israele nel quale ancora una volta egli coinvolge sé stesso. 16 O Signore, secondo tutte le tue opere di giustizia, fa’, ti prego, che

la tua ira e il tuo furore si ritraggano dalla tua città di Gerusalemme, il tuo monte santo; poiché per i nostri peccati e per le iniquità de’ nostri padri, Gerusalemme e il tuo popolo sono esposti al vituperio di tutti quelli che ci circondano. Dopo la confessione, la petizione. Quasi volendo subito sgombrare il campo da ogni più piccola presunzione di merito, Daniele invoca la misericordia divina prima di presentare le sue richieste: “Signore, secondo tutta la tua giustizia...” (!etoqd : c i -lfkK: yænod) A ’adonay kekol-tzidkoteka...). Per prima cosa il profeta supplica il Signore che ponga fine alla sua indignazione verso Gerusalemme: “... si plachi la tua ira e il tuo sdegno verso Gerusalemme, tua città, verso il tuo monte santo...” (versione della C.E.I.). Daniele pensa allo scadere imminente dei 70 anni? È possibile. Il “monte santo” è il colle di Sion caro ai salmisti (Sl 48:2; 78:68; 125:1), ora cosparso delle rovine di Gerusalemme. Lo santificava la presenza del santuario, mistica dimora del Signore (Sl 72:2 u.p.). Mille volte profanato e dissacrato da atti criminali e idolatrici, il “monte santo” infine fu abbandonato al furore devastante dei Caldei e alla desolazione. Se la rovina della città santa e del tempio di Yahweh e se la deportazione degli abitanti del paese erano state conseguenza delle colpe di ieri, il permanere dello stato di abbandono del paese e della misera condizione dei deportati sventure che davano adito agli scherni dei pagani - sono l’effetto delle colpe di oggi: “per i nostri peccati e per le iniquità dei nostri padri Gerusalemme e il tuo popolo sono esposti al vituperio di tutti quelli che ci circondano”. Ancora un riconoscimento della colpa, quella passata e quella presente.

336 - Op. cit., p. 382.

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17 Ora dunque, o Dio nostro, ascolta la preghiera del tuo servo e le

sue supplicazioni, e fa’ risplendere il tuo volto sul tuo desolato santuario, per amor del Signore! Dalla richiesta al Signore di porre fine allo sdegno, Daniele passa alla domanda di volgersi propizio verso il suo santuario: “Ed ora ascolta o nostro Dio la preghiera del tuo servo e la sua supplica...” (wyænUnAxTa -le)wº !:Db : (a taLpi T: -le) Uny"hol) E (am$ : hfT(a wº we‘attah shema‘ ’elohênû ’el tefillath ‘avdeka we’el tachanûnâyw...). Da questo punto la preghiera di Daniele si fa supplicazione: “... fa risplendere il tuo volto verso il tuo desolato santuario...” ({"m< f h a !:$D f q: m i -la( !yånPf r")h f wº weha’er paneykâ ‘al miqdashka hashshomem...). Gerusalemme in rovine, il popolo esposto al vituperio, il santuario desolato: sono questi i motivi per i quali il profeta implora la misericordia di Dio in nome dell’amor suo. 18 O mio Dio, inclina il tuo orecchio, ed ascolta; apri gli occhi e

guarda le nostre desolazioni, e la città sulla quale è invocato il tuo nome; perché noi umilmente presentiamo le nostre supplicazioni nel tuo cospetto, fondati non sulle nostre opere giuste, ma sulle tue grandi compassioni. Il vocativo col suffisso pronominale di prima persona, yahol) E h"+h a hatheh ’elohay, “Oh Dio mio”, esprime tutta l’intensità della supplica di Daniele. “... inclina il tuo orecchio...”, sembra ora che il supplicante domandi al Signore di chinarsi fino a lui, piccola creatura terrena, nel timore che la sua flebile voce si perda nello spazio infinito che lo separa dall’Iddio grande ed eterno lassù nei cieli altissimi. Il linguaggio si fa ardito: “apri gli occhi e guarda...”, come se lo sguardo del Signore dell’universo fino a quel momento fosse rivolto altrove. È un modo di esprimersi che solo agli uomini di grande fede è permesso. “... guarda le nostre desolazioni...” - la solitudine del popolo di Dio in terra straniera e lo stato di abbandono della patria lontana - “e la città sulla quale è invocato il tuo nome” Gerusalemme ridotta a una desolata rovina in favore della quale si levano a Lui le supplicazioni di Daniele e dei suoi compagni di sventura. Daniele sembra intuire, o essere informato, che altri fratelli nell’esilio, come lui invochino con umiltà il perdono ed il favore di Dio: “Noi umilmente presentiamo le nostre supplicazioni nel tuo cospetto, fondati non sulle nostre opere giuste, ma sulle tue grandi compassioni”. Daniele supera prima ancora che sia nato il legalismo del tardo giudaismo e sorprendentemente anticipa di 6 secoli la teologia della grazia enunciata dall’apostolo Paolo. Daniele è ben consapevole che né i suoi connazionali né lui stesso hanno alcun merito su cui fondare le richieste rivolte a Dio: egli si basa unicamente sulla misericordia divina.

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19 O Signore, ascolta! Signore, perdona! Signore, sii attento ed agisci;

non indugiare, per amor di te stesso, o mio Dio, perché il tuo nome è invocato sulla tua città e sul tuo popolo!” L’incalzare delle richieste sembra tradire un senso di urgenza. La forza della supplicazione è comunque accresciuta dall’aggiunta della finale âh ai primi tre verbi: shem‘âh, selachâh, haqshivâh. Questa particella ebraica ha una funzione paragonabile a quella dell’interiezione italiana “deh” ! Il prof. Giovanni Rinaldi, molto attento al testo originale, ha tradotto il v. 19: “Signore, deh, ascolta! Signore, deh, perdona ! Signore, deh, presta attenzione, agisci...!”. L’ultimo verbo, ’achar (“indugiare”, “ritardare”) preceduto dall’avverbio di negazione ’al, “non”, sembra tradire il timore che la fine delle angustie dei deportati e l’inizio della restaurazione nazionale allo scadere dei 70 anni predetti da Geremia (vedi il commento del v. 3) possano essere differiti a causa del persistere del peccato in seno alla comunità degli esuli. Daniele invoca il perdono confidando nella bontà del signore: “per amore di te stesso”, cioè: perché perdonare è conforme alla tua natura. “Lo spirito di questa preghiera - osserva Boutflower - è ciò che deve guidare alla retta comprensione della rivelazione da cui venne ad essa la risposta”.337 20 Mentre io parlavo ancora, pregando e confessando il mio peccato

e il peccato del mio popolo d’Israele, e presentavo la mia supplicazione all’Eterno, al mio Dio, per il monte santo del mio Dio, Ancora una volta l’orante ricorda il duplice scopo della sua preghiera: confessare e supplicare. Nella confessione collettiva Daniele si è sempre coinvolto nel peccato del suo popolo. Da questo versetto si capisce che non è stato un atto formale: “...confessando il mio peccato e il peccato del mio popolo”. Riferendosi al Signore il profeta usa il nome proprio della Divinità: Yahweh, Colui che è, che ha in sé medesimo la causa della sua esistenza, che esiste fuori dal tempo. Al nome proprio aggiunge l’appellativo familiare “mio Dio” (’Elohay). E alludendo a Gerusalemme, in modo pertinente usa l’espressione “il monte santo del mio Dio” perché effettivamente della città e del santuario non è rimasto che un monte cosparso di rovine. 21 mentre stavo ancora parlando in preghiera, quell’uomo, Gabriele, che avevo visto nella visione da principio, mandato con rapido volo, s’avvicinò a me, verso l’ora dell’oblazione della sera.

Nel versetto precedente il narratore ha introdotto con un avverbio temporale (‘ôd, “mentre”) un riferimento all’istante in cui è avvenuto un fatto inatteso e straordinario che ha interrotto la sua preghiera; ma la frase si è prolungata in un

337 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 180.

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doppio inciso per sottolineare ancora il perché di quella preghiera, cosicché quando riprende il discorso nel v. 21 deve ripetere la frase iniziale del v. 20: “mentre stavo ancora parlando in preghiera...”. Probabilmente Daniele sta per finire la sua supplicazione quando scorge davanti a sé l’angelo già visto in visione vari anni prima: “... quell’uomo, Gabriele, che avevo visto nella visione (}Ozfx chazôn) prima”. Gabriele gli è apparso in sembianze umane (“quell’uomo”) così come gli si era mostrato nella visione (la visione del cap. 8, ovviamente). Ora Gabriele in persona sta davanti a lui. È stato “mandato” dal Signore che ha accolto la sua supplica. La frase: “con rapido volo”, vuole forse alludere allo spazio immenso che ha dovuto superare l’inviato del Cielo per giungere fino a Daniele mentre egli prega ancora. È “il momento dell’oblazione della sera” (ber(f -taxnº m i t"(K: ke‘eth minchath ‘erev), tra le 3 e le 4 pomeridiane, quando nel tempio del Signore il sacerdote offriva l’oblazione incruenta che accompagnava il secondo olocausto quotidiano (cfr. Es 29:41; Nu 28:4,5). Era anche il momento della terza preghiera del giorno, la più importante. Fin dalla giovinezza Daniele ha osservato i tre momenti della preghiera quotidiana (vedi Dn 6:10, cfr. Sl 55:18). 22 E mi ammaestrò, mi parlò, e disse: “Daniele, io son venuto ora per

darti intendimento. Alla fine del cap. 8 abbiamo lasciato Daniele stupito a motivo della visione perché non la intendeva. Era l’anno terzo di Beltsasar di Babilonia (8:1), il 546 a. C. Ora, nell’anno primo di Dario il Medo (9:1), il 539 a.C., Gabriele ritorna e gli annuncia che è venuto per dargli intendimento (hænyib !:lyiK:&ah:l lehaskîlkâ vînâh). L’uso della stessa terminologia evidenzia un collegamento fra i due momenti: l’angelo è venuto per rendere intendente Daniele che non aveva inteso. Sette anni sono trascorsi prima che si cominciasse a far luce su un enigma che aveva turbato lo spirito del profeta. Il perché di questo lungo intervallo di tempo non è detto. Possiamo solo cercare di ipotizzarlo. È probabile, anzi sembra certo, che all’epoca della visione fosse prematuro sciogliere un enigma di cui gli eventi degli anni futuri avrebbero agevolato la comprensione. Nell’anno primo di Dario il Medo qualcosa è accaduto che ha fatto compiere una svolta al corso degli eventi. Babilonia che ha tenuto nell’esilio il popolo di Dio è scomparsa e una nuova potenza egemone si è affacciata alla ribalta. Comincia ad avverarsi la visione di otto anni prima: il montone medo-persiano già domina lo scenario politico. Il dettaglio della visione rimasto nell’ombra riguardava qualcosa che doveva avere attinenza col regno dei Medi e dei Persiani. Nell’audizione (8: 26,27) Daniele aveva capito che allo scadere di 2300 “sere e mattine” sarebbe finita l’aggressione del “corno” contro la “perpetuità” e sarebbero cessati il “peccato che produce la desolazione” e l’oltraggio fatto al 257

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“santuario” e all’“esercito”. Ma non gli era stato rivelato né il tempo dal quale bisognava contare le “2300 sere e mattine” né che cosa significasse la frase “poi il santuario sarà purificato”. Nella visione Daniele aveva visto il “corno” abbattere il “fondamento del suo santuario”, ma non lo aveva visto contaminare il santuario stesso. Perchè dunque esso doveva essere purificato? Quando torna Gabriele con una nuova rivelazione, già domina la nazione che lascerà liberi gli esuli giudei di tornare in patria e permetterà che essi ricostruiscano il santuario distrutto. In seguito questa nazione decreterà anche che Gerusalemme sia ricostruita, e questo evento fornirà un elemento cronologico di base (9:25) per calcolare il tempo profetico. Infine non sarà il tempio ricostruito nell’età persiana il “santuario” che sarà “purificato” in capo alle 2300 “sere e mattine”, ma sarà un “santuario” che il Messia consacrerà alla fine di 70 settimane di anni dopo avere compiuto l’espiazione del peccato (9:24-27). Sono dunque maturi i tempi perché Daniele possa cominciare ad “intendere”. 23 Al principio delle tue supplicazioni, una parola è uscita; e io son

venuto a comunicartela, poiché tu sei grandemente amato. Fa’ dunque attenzione alla parola, e intendi la visione! Stavolta Gabriele si rivolge al profeta non più da interprete ma da rivelatore. Egli è portatore di un messaggio di grande significato che riguarda Daniele, il suo popolo e la sua città. All’inizio delle sue supplicazioni (!yånUnAxTa taLx i t : B i bitchillath tachanûnîm), dunque appena ha terminato la confessione, “una parola è uscita” (rfbd f )fcyæ yatza’ davar), una risoluzione è stata presa in cielo, e Gabriele è stato inviato per farla conoscere al “prediletto del Signore” (quale emozione deve aver provato Daniele nel sentirsi dire da un angelo: “poiché prediletto sei tu” (hfT) f tOdUmAx yiK ki hamudôth ’athah)! L’angelo invita il profeta a concentrare la sua attenzione su quanto sta per rivelargli: “Ora stai attento alla parola e comprendi la visione” (he)r : M a B a }"bh f wº rfbD f B a }yibU ’ûvîn baddavar wehavên bammar’eh), l’originale usa il verbo bîn, “comprendere”, anche in riferimento alla “parola”. Due cose dunque ha da comunicare il messo celeste al profeta. La prima riguarda una decisione (davar) che è stata presa in cielo a seguito della sua supplicazione; la seconda concerne un aspetto di questa decisione che sembra avere attinenza con la precedente rivelazione sulle 2300 “sere e mattine”. Non certo a caso Daniele usa qui il vocabolo mar’eh per “visione”, lo stesso vocabolo con cui l’interprete celeste si era riferito alle 2300 “sere e mattine” in 8:26. In 9:26 mar’eh sembra un riferimento diretto a quell’aspetto della rivelazione del cap. 8 che era rimasto senza spiegazione (v. 26) ed era perciò divenuto motivo di stupore per il profeta che non aveva potuto interderla (v. 27).

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24 Settanta settimane sono fissate riguardo al tuo popolo e alla tua santa città, per far cessare la trasgressione, per mettere fine al peccato, per espiare l’iniquità e addurre una giustizia eterna, per suggellare visione e profezia, e per ungere un luogo santissimo.

Ora Gabriele rivela il tenore della decisione che è stata presa in cielo: “Settanta settimane sono fissate riguardo al tuo popolo e alla tua santa città” (!e$d : qf ryi(la(wº !:M(a -la( \aTx : nå {yi(b : $ i {yi(b u $ f shavu‘îm shiv‘îm nechttak ‘al ‘ammeka we‘al ‘îr qodsheka...). C’è una relazione tra i 70 anni della cattività (v. 2) e le 70 settimane annunciate dall’angelo per il popolo e la santa città; esiste pure un rapporto di questi due segmenti temporali con l’anno sabbatico e l’anno giubilare. Osserva Doukhan: “I settant’anni (7X10) conducono a un messia dell’anno sabbatico (Ciro), mentre le settanta settimane (7 X 7 X 10) portano a un Messia del giubileo”338. Ciro, re di Persia, il futuro liberatore del popolo di Dio tenuto nell’esilio da Babilonia, è designato come l’unto del Signore (messia) in Is 45:1. Anche Boutflower ha visto un nesso fra i 70 anni e le 70 settimane: “ Ora in questa visione caratteristicamente cronologica, quei settant’anni d’un tratto si dilatano e diventano settanta settimane d’anni, e questo affinché dal loro espandersi e dall’uso del sacro numero sette come moltiplicatore, fosse allertata l’attenzione dei santi verso qualcosa di gran lunga più gloriosa, verso una liberazione infinitamente più grande dell’emancipazione dal giogo di Babilonia”339. Daniele era nell’angustia a motivo del “vituperio” (l’esilio) cui era esposto il popolo di Dio: il Signore farà finire il vituperio e farà molto più di questo. Come alla fine del settennio sabbatico si ricominciava a coltivare la terra lasciata incolta per un anno (Le. 25:3,4), così allo scadere di 10 anni sabbatici (70 anni) finirà la desolazione della terra di Giuda perché i deportati ritorneranno. Come nell’anno giubilare ricorrente ogni 49 anni tornavano liberi gli schiavi (Le 25:30-41), così in capo a 10 anni giubilari (490 anni) il Signore accorderà al suo popolo la liberazione dalla schiavitù del peccato. “Daniele aveva cercato di capire i 70 anni di Geremia; la spiegazione gli fu fornita attraverso la profezia delle 70 settimane di anni. Egli aveva implorato il perdono dei peccati del suo popolo; gli fu detto che in 70 settimane sarebbe stata compiuta l’espiazione perfetta. Aveva pregato affinché si compisse la promessa di Geremia: in 70 settimane d’anni cominceranno ad avverarsi tutte le profezie. Aveva invocato il ristabilimento del santuario: in 70 settimane d’anni sarà unto il santuario dei santuari. Tutto ciò ch’egli ha domandato si compirà in misura sovrabbondante. Quello che avverrà allo scadere dei 70 anni, alla fine della cattività, ne sarà solo una pallida immagine”340.

338- J. DOUKHAN, Le soupir de la terre, p. 201. 339 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 182. 340 - CARL AUGUST AUBERLEN, Le Prophète Daniel et l’Apocalypse de saint Jean, Losanna 1880,

pp. 127-128.

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Il termine shavûa‘ sebbene indichi genericamente un insieme di sette cose o settenario, nell’Antico Testamento spesso vuol dire “settimana”. Per esempio in Ge 29:27, dove Labano dice a Giacobbe: “Finisci la settimana di questa...”, l’ebraico ha: malle’ shevûa‘ zoth; e nel v. 28 l’espressione “finì la settimana...” nell’originale è: wayyemalle’ shevûa‘. In Es 34:22, “festa delle settimane” nel testo ebraico è chag shavuû‘oth; lo stesso in De 16:10. Daniele in 9:24,25 e 26 e in 10:2 e 3 adopera la forma plurale maschile (shavu‘îm) anziché la più consueta forma femminile (shavu‘oth), forse per una semplice questione di stile. La traduzione “settanta settimane” dell’espressione ebraica shavu‘îm shiv‘îm in 9:24 che si trova in tutte le versioni della Bibbia, antiche e moderne, è una traduzione corretta341. Le settanta settimane menzionate in questo punto del libro di Daniele sono comunque settimane profetiche equivalenti a settenni (vedi nota 6 nel commento del cap. 8). Il prof. Doukhan ha messo in evidenza un parallelismo chiastico secondo lo schema A-A1, B-B1 tra i vv. 2 e 24 di Daniele 9, un parallelismo dal quale si evince con chiarezza che le settimane menzionate in questo capitolo sono settimane di anni: Dn 9:2:

settanta (A)

anni (B)

Dn 9:24:

settimane (B1)

settanta (A1)

341- “Lo studio esegetico del cap. 9 di Daniele rivela che differenti testimonianze linguistiche

convergenti indicano che il vocabolo shavû‘a (adoperato in questa profezia come unità di tempo) dovrebbe tradursi ‘settimane’ e non ‘settenario’. Procedendo da questa considerazione, ci si può domandare che tipo di settimane siano quelle di cui si parla in questo capitolo. Il vocabolo ebraico per ‘settiman’ si può usare in due modi differenti: 1) per indicare un insieme di sette giorni successivi indipendentemente dal giorno iniziale; 2) oppure per riferirsi specificamente a una settimana sabbatica con inizio la Domenica e fine il Sabato. Nel primo caso si può parlare di settimana non sabbatica, nel secondo di settimana sabbatica. “La questione è se le 70 settimane simboliche di tempo profetico in Daniele debbano interpretarsi secondo il modello della settimana sabbatica o quello della settimana non-sabbatica. Se si tratta di settimane non-sabbatiche, queste unità temporali si riferiscono semplicemente a un periodo globale di 490 giorni. Ma se si ha a che fare con settimane sabbatiche, questo periodo di 490 anni consecutivi deve essere divisibile per anni sabbatici, ovvero per cicli di sette anni (vedi Le 25:1-7). “Il testo non fornisce nessuna indicazione esplicita a questo riguardo. L’unico modo per venirne a capo è di applicare un test pragmatico, cioè esaminare le date applicate alla profezia per verificare se esse coincidano con anni sabbatici conosciuti. “Fonti extrabibliche ci hanno fornito negli anni recenti informazioni che ci consentono di datare gli anni sabbatici del periodo post-esilico considerandoli come un’unità di sette ogni settimo anno (l’Autore rinvia a un lavoro di B. Z. WACHOLDER, “The Calendar of Sabbatical Cycles During the Second Temple and the Early Rabbinic Period” in HUCA 44, 1973, 153-196).

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“Il chiasmo - spiega Doukhan - chiarisce la natura delle settimane; come ‘settanta’ è in parallelo con ‘settanta’, così ‘anni’ è in parallelo con ‘settimane’ ”342. Le settanta settimane sono un tempo di grazia che il Signore ha accordato a Israele e a Gerusalemme. La richiesta di Daniele è stata esaudita molto al di là di quanto egli potesse desiderare. Egli aveva invocato la clemenza divina riguardo a Gerusalemme e al popolo esposti al vituperio (v. 16): gli è stato risposto che al suo popolo e alla sua santa città sono stati concessi settanta volte sette anni di clemenza (7 anni per ciascuno dei 70 anni di sdegno) nei quali l’iniquità sarà infine rimossa. Le 70 settimane sono state “fissate” per il popolo e per la santa città. “Fissate” nell’originale è \aTx : nå nechttak, forma passiva (nifal) del verbo chatak, che oltre a “fissare”, “determinare”, significa anche “tagliare”, “dividere”, “separare”343. Nechttak, dunque, si può anche tradurre “tagliate”, “separate”. Questo è il

“Oggi si può dimostrare che gli anni 457 a.C., 27 a.D. e 34 a.D. (le date relative ad eventi fondamentali della profezia di Dn 9), furono anni sabbatici. Possiamo dunque rispondere alla domanda formulata al principio che le ‘settimane’ della profezia di Dn 9 sono settimane sabbatiche le quali implicano a loro volta anni sabbatici. “La teologia che soggiace all’anno sabbatico può dunque arricchire di significato gli eventi predetti in Dn 9. Nell’anno sabbatico gli schiavi dovevano tornare liberi e la terra alienata doveva tornare al proprietario originale. Si scorge un nesso con gli eventi del 457 a.C., all’inizio delle 70 settimane, quando molti degli esiliati in Babilonia tornarono nelle terre che erano appartenute a loro e ai loro padri. “Un altro collegamento si può cogliere in quell’episodio evangelico in cui Gesù legge Is 61 nella sinagoga di Nazareth (Lc 4:16, 21). questo episodio acquista ulteriore significato se si tiene conto del fatto che Gesù lesse quel passo attinente in senso tipologico all’anno sabbatico appunto in un anno sabbatico, il 27 a.D., e lo applicò a sé stesso al principio del suo ministero. Così facendo Egli si annunciò come il Grande Liberatore dei Giudei e di tutto il genere umano. Non fu per caso che Egli fece questo annuncio proprio in quel tempo. Dati i collegamenti col Levitico , con Isaia e con Daniele sembra evidente che la coincidenza tradisce un disegno divino”. - W. H. SHEA, “ Unity of Daniel - The 70 Weeks as Sabbatical Years” in Symposium on Daniel, pp. 225 - 227. 342 - J. DOUKHAN, op. cit., p. 205. Il chiasmo, dalla lettera greca “chi” (c) è una “figura grammaticale consistente in due concetti tra loro intimamente legati i cui termini sono disposti in ordine reciprocamente invertito, cioè in posizione incrociata”. - ALDO GABRIELLI, Grande dizionario illustrato della lingua italiana, Milano 1989, voce “chiasmo”. 343 - Cfr. B. DAVIDSON, The Analytical Hebrew and Chaldee Lexicon, voce “chatak”.

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senso preferito dal prof. W. SHEA.344. Due condizioni che dovranno realizzarsi in seno al popolo di Dio ricondotto nella sua terra dovranno anticipare e preparare i tempi messianici: 1) “... far cessare la trasgressione” ((a$Pe h a )"Lka l : lekalle’ happesha‘), ovvero realizzare una genuina conversione; 2) “... mettere fine al peccato” (tO)f+x a {"th f l : U ûlechatem chattaôth, “sigillare il peccato”), vale a dire “rinchiuderlo”, impedirgli di rifiorire e determinare di nuovo la rottura del restaurato rapporto d’Israele con Dio. Israele, insomma, dovrà creare una società giusta, preparata a ricevere il suo Messia. A questo fine precisamente sarà mirata l’opera del precursore anticipata profeticamente in Is 40:3-4 e Ml 3:1 (cfr. con Mt 3:3; Mr 1:3; Lc 3:4; Gv 1:23).

344 - “Il verbo che adopera Gabriele nella dichiarazione iniziale sulle 70 settimane è una forma

passiva (nifal) della radice chatak. La radice significa chiaramente ‘tagliare’ o ‘determinare, decretarè. Poiché questo è l’unico punto del testo biblico ebraico in cui il termine ricorre, si è discusso circa l’esatta sfumatura di senso che gli si dovrebbe riconoscere in questo passo. Il senso di ‘decretare’ o ‘determinare’ è stato mutuato dall’ebraico mishnaico, posteriore di un millennio rispetto al tempo di Daniele (sesto secolo a.C.). Comunque nell’ebraico mishnaico il vocabolo è stato usato correntemente col significato di ‘tagliare’. “I sensi lati delle radici verbali semitiche si sono sviluppati a partire dai loro significati concreti per una tendenza verso l’astratto (in base a queste linee di sviluppo essi sono elencati nei dizionari ebraici). È dunque ragionevole ritenere che il significato primitivo della radice di questa parola racchiudesse l’idea di tagliare e che da questa idea di base derivasse il concetto di tagliare un decreto, determinare qualcosa. Conseguentemente all’epoca di Daniele questo vocabolo doveva già significare ‘tagliare’. Oggi è impossibile accertare se i sensi lati ‘decretare’ e ‘determinare’ si siano o no sviluppati in quell’epoca, mancando testimonianze idonee a stabilire dei confronti. “La principale testimonianza di questo tipo proviene dall’ugaritico del tredicesimo secolo a.C.; essa accredita questa nozione di tagliare (un figlio tagliato da un padre), ma non le idee posteriori di decretare e determinare. Pertanto queste tre linee di testimonianza (il significato primitivo della radice che sovrasta il senso lato; il caso isolato di una parola appartenente alla stessa famiglia linguistica, e il significato predominante in fonti più tardive), favoriscono, anche se non possono provarla in modo assoluto, la tesi che questo verbo dovrebbe tradursi ‘tagliare’ nel passo in questione. Il senso primitivo del verbo indicherebbe che le 70 settimane debbano essere ‘tagliatè dai 2300 giorni. “In sintesi: i periodi temporali di queste due profezie possono direttamente rapportarsi fra loro in base: 1) alla loro collocazione nella struttura letteraria di Daniele, 2) al periodo storico nel quale ambedue hanno avuto il loro momento iniziale, 3) alla terminologia profetica che li accosta l’uno all’altro e 4) al significato del verbo iniziale della seconda profezia. Sulla base di queste linee di testimonianze è legittimo concludere che le 70 settimane furono direttamente connesse con i 2300 giorni e furono tagliate da essi. Inoltre la specifica data iniziale del primo periodo si dovrebbe utilizzare per fissare la data dell’inizio del secondo”. WILLIAM H. SHEA, ibidem, pp. 229-230.

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Alla conversione che avrà nella penitenza suggellata dal battesimo d’acqua (cfr. Mt 3:1,2,11; Mr 1:5; Lc 3:3) la sua espressione genuina, farà seguito l’opera infinitamente grande del Messia. Egli verrà: 1) “... per espiare l’iniquità” (}ow(f r"Pka l : U ulekapper ‘awon). Il verbo kafar, qui usato all’infinito, significa letteralmente “coprire” (cfr. Ge 6:14). Nel linguaggio teologico dell’Antico Testamento kafar può significare “coprire il peccato”, “perdonare”, “espiare”, “rappacificare”, secondo le forme specifiche nelle quali il verbo viene usato345. Kafar è insomma un termine-chiave della teologia anticotestamentaria della riconciliazione. Kapporeth era detto il coperchio dell’Arca del patto, o propiziatorio, sul quale il sommo sacerdote aspergeva il sangue del sacrificio espiatorio per la purificazione del santuario nel Giorno delle Espiazioni (Le 16: 14-16), lo yôm hakkippurîm (Le 23:27). Nella dispensazione vetero-testamentaria ad ogni peccato doveva rinnovarsi il sacrificio di espiazione (Le 4:22,23). Non sarà più così nell’economia messianica perché un sacrificio unico e perfetto che sarà offerto nella settantesima settimana espierà una volta per tutte i peccati del popolo di Dio (Eb 9:28; 10:14). Il Messia si offrirà alla morte anche: 2) “... per addurre una giustizia eterna” ({yiml f o( qedc e )yibh f l : U ulehavî’ tzedeq ‘olamîm). I sacrifici espiatori offerti nel santuario giudaico, prefigurativi di un futuro sacrificio perfetto, procuravano soltanto una giustizia temporanea, perciò dovevano essere continuamente rinnovati (Eb 7:27; 9:12; 10:12). L’effetto del sacrificio perfetto consumato sulla croce sarà una giustizia perenne (Is 51:8; Rm 3:21,22; Fl 3:9). Le ultime due dichiarazioni anticipano i risultati finali dell’opera del Messia: 1) “... suggellare visione e profezia” ()yibnæ wº }Ozfx {oTx : l a wº welachtom chazôn wennavî’). Nell’antichità i sovrani apponevano il loro sigillo sui decreti reali al fine di autenticarli. Il verbo châtham, “sigillare”, non ha qui il senso di “rinchiudere”, come nella frase precedente “suggellare il peccato”, ma significa precisamente “autenticare”. È l’avverarsi della profezia che ne attesta la veridicità (cfr. De 18:22; Gv 13:19). Tutte le profezie messianiche della rivelazione anticotestamentaria si sono avverate in Cristo (cfr. Lc 24:27, 44-46). Con la sua incarnazione, la sua vita santa, la sua morte cruenta, la sua risurrezione gloriosa. Egli ha per così dire impresso sulla profezia il sigillo dell’autenticità. Suggellare visione e profezia vuol dire accreditarne l’autenticità. Questo avviene quando la profezia si avvera (cfr. De 18:22; Gr 28:9; Gv 13:19). Tutte le profezie messianiche si compirono nei trentatré anni circa della vita terrena di

345 - Cfr. B. DAVIDSON, op. cit., voce “kâfar”.

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Gesù. La sua nascita verginale, gli aspetti variegati del suo ministero salvifico, la sua morte cruenta, la sua risurrezione gloriosa erano stati predetti con stupefacente realismo dai profeti antichi. Matteo soltanto ha non meno di una quindicina di riferimenti alle Scritture che collegano direttamente i vari momenti della vita di Cristo con le profezie dell’Antico Testamento346. Sulla via di Emmaus il Risorto, dopo avere rimproverato l’incredulità dei due anonimi discepoli, “spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo concernevano” (Lc 24:27, 44). La serie degli atti messianici che segneranno la fine delle 70 settimane si chiuderà con un rito di consacrazione: 2) “... ungere un santo dei santi” ({yi$d f qf $edoq x a o$m : l i wº welimshoach qodesh qodashîm). L’unzione di consacrazione si praticò in Israele fin dai primordi della sua storia. Con questo rito, dopo l’istituzione del sacerdozio Levitico, furono consacrati per il servizio sacro Aaronne e i suoi figli (Es 30:30; 40:13; Le 8:12). Con lo stesso rito fu dedicato al culto il santuario mosaico (Es 40:9; Le 8:10; Nu 7:1). Col rito dell’unzione furono consacrati i re di Giuda e Israele nel periodo della monarchia (1Sm 16:13; 2Sm 2:4; 5:3; 1Re 1:39; 2Re 9:6; 11:12). Non v’è dubbio che “ungere” in questo passo di Daniele abbia il senso di “consacrare”. Sull’identificazione del “Santo dei santi” che dovrà essere consacrato alla fine delle 70 settimane non c’è accordo fra gli espositori di Daniele. La Bibbia di Gerusalemme vi ravvisa sia il tempio sia il sommo sacerdote (nota a 9:24). Leupold vi identifica il Cristo fra i suoi eletti nella celeste Gerusalemme347. Boutflower vi scorge l’unzione regale di Cristo in cielo dopo aver compiuto l’espiazione348. Bernini vede invece nel Santo dei santi la parte più interna del santuario349 e Rinaldi vi identifica un luogo sacro. “Notare dice testualmente - che nel v.26 la parola che qui traduciamo ‘santità’, qodesh, vale certamente ‘santuario’”350. Gli ultimi due autori applicano la frase di Daniele alla ridedicazione al culto del santuario di Gerusalemme nel 164 a.C. dopo la profanazione operata da Antioco Epifane. Noi concordiamo con questi esìmi autori sulla identificazione del santuario nel “Santo dei santi” menzionato in Dn 9:24, ma dissentiamo da loro, per le ragioni che diremo più avanti, sull’applicazione storica. Nell’Antico Testamento il superlativo “santissimo” ({yi$d f qf $edoq qodesh qodashîm) è applicato:

346 - Mt 1:23; 2:5,17; 3:3; 4:14,16; 8:17; 11:10; 12:17-21; 13:14, 15, 35; 21:4,5,42; 22:43,44; 26:31; 27:9,10. 347 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 416. 348 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 183, 184. 349 - G. BERNINI, Daniele, p. 259. 350 - G. RINALDI, op. cit., p. 128.

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alle vittime espiatorie: Le 6:25; 7:1; all’altare: Es 29:37; agli arredi e agli utensili del santuario: Es 30: 29; al profumo sacro: Es 30:36; ai doni e alle offerte presentati nel santuario: Nu 18:9; 2Cr 31:14; ai pani della presentazione: Le 24: 5-9; allo spazio destinato al tempio: Ez 43:12; alla seconda stanza del santuario: Es 26:33; 1Re 6:16; 7:50; 8:6; 1Cr 6:49; 2Cr 3:8; Ez 41:4; 45:3. una volta sola il superlativo “santissimo” è riferito al sommo sacerdote: 1Cr 23:13.

Poiché dunque l’espressione qodesh qodashîm nell’Antico Testamento è riferita comunemente al santuario e alle cose sacre che gli erano pertinenti e una volta soltanto ad una persona, noi riteniamo che in Dn 9:24 la stessa espressione debba applicarsi al santuario piuttosto che alla figura del Messia351. E poiché, per motivi che sono stati ampiamente esposti in questo commentario, noi rifiutiamo l’interpretazione preterista delle profezie apocalittiche, non crediamo che il santuario menzionato in questo passo di Daniele sia da identificarsi col tempio di Gerusalemme profanato dal re di Siria nel II secolo a.C. Né risulta dai Vangeli o dagli iscritti di Giuseppe Flavio che il tempio giudaico sia stato riconsacrato al tempo del Messia, anzi 40 anni dopo la sua morte e risurrezione esso fu distrutto dai Romani e mai più venne ricostruito. In definitiva noi riteniamo che 9:14 alluda alla consacrazione del santuario dei cieli dove il Messia risorto e assunto in cielo ha iniziato a svolgere il ministero sacerdotale continuo come nostro mediatore (cfr. Eb 8:1,2; 9:11,12; 1Tm 2:5). Il santuario di Dio in cielo, di cui quello terreno era solo “ombra e figura” (Eb 8:5), fu visto da Giovanni in visione (Ap 11:19; 15:5,8; 16:1,17). Il tempio di Dio in cielo fu consacrato dal Messia assunto “alla destra del Padre” dopo la risurrezione. La mirabile profezia delle 70 settimane è stata interpretata almeno in tre modi diversi: a) in senso storico-preterista, b) in senso messianico indiretto, c) in senso messianico diretto. L’interpretazione storica preterista colloca cronologicamente i 490 anni della profezia danielica tra la distruzione di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi nel 587 a.C. e l’epoca dei Maccabei (II secolo a.C.). Siffatta interpretazione si riflette già nel testo greco dei LXX. L’ignoto traduttore giudeo alessandrino, scor-

351 - Cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 852.

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gendo in Dn 9 il riflesso dell’epoca dei Maccabei, non ha esitato a stravolgere il senso del testo ebraico dei vv. 24-27 per adattarlo alla figura storica di Antioco Epifane. “I primi ventitré versetti di questo capitolo - spiega Boutflower - nella Septuaginta sono tradotti fedelmente, ma nei vv. 24-27, alla fine del capitolo, la profezia originale è irriconoscibile: il traduttore si è fatto interprete e nel leggere la sua interpretazione si rimane esterrefatti per il modo spietato con cui egli ha smembrato, deturpato e poi ricomposto secondo le sue idee preconcette quella che era stata una profezia stupenda e di grande significato”352. La moderna lettura storico-critica di Daniele, anche se non ha stravolto il testo originale, con qualche forzatura lo ha adattato al modello scelto dal traduttore dei LXX e adottato dopo dal pagano Porfirio. L’interpretazione messianica indiretta accoglie integralmente la spiegazione storico-critica e la applica tipologicamente al Messia (è la linea esegetica di qualche espositore cattolico contemporaneo, come il prof. Giovanni Rinaldi citato frequentemente in questo nostro lavoro). L’interpretazione messianica diretta di 9:24-27 applica la profezia al Messia identificato con Gesù Cristo. Fu la linea esegetica seguita dai primi espositori della Chiesa fino al V secolo. Per gli apologisti cristiani di quell’epoca Dn 9:24-27 rappresentò il cavallo di battaglia nella polemica messianica con l’ebraismo. Oggi l’interpretazione messianica diretta della profezia delle settimane è seguita da vari autori protestanti e da qualche commentatore cattolico, oltre che dagli Avventisti del settimo giorno (fra i primi va ricordato Boutflower e fra i secondi il canonico Vidal, meno conosciuto). 25 Sappilo dunque, e intendi! Dal momento in cui è uscito l’ordine di

restaurare e riedificare Gerusalemme fino all’apparire di un unto, di un capo, vi sono sette settimane; e in sessantadue settimane essa sarà restaurata e ricostruita, piazze e mura, ma in tempi angosciosi. 26 Dopo le sessantadue settimane, un unto sarà soppresso, nessuno sarà per lui. E il popolo d’un capo che verrà, distruggerà la città e il santuario; la sua fine verrà come un’inondazione; ed è decretato che vi saranno delle devastazioni sino alla fine della guerra. 27 Egli stabilirà un saldo patto con molti, durante una settimana; e in mezzo alla settimana farà cessare sacrificio e oblazione; e sulle ali delle abominazioni verrà un devastatore; e questo, finché la completa distruzione, che è decretata, non piombi sul devastatore”. L’esegesi critico-liberale moderna applica nel modo seguente la profezia delle settimane: le prime sette sono poste fra la distruzione di Gerusalemme ad opera

352 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 170.

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di Nabucodonosor nel 587 a.C.353 ed il decreto di Ciro a favore dei Giudei nel 538 a.C. (l’intervallo di tempo fra i due eventi è di 49 anni). Ciro, il re di Persia che permise ai Giudei nell’esilio di rimpatriare, è identificato col messia del v. 25 (in Is 45:1 questo monarca orientale è effettivamente qualificato come l’unto del Signore). Fin qui l’interpretazione storico-critica fa coincidere in modo ineccepibile il dato numerico danielico con le date della storia. Ma non vi riesce quando tenta di applicare storicamente il secondo periodo temporale della profezia. Le 62 settimane successive (434 anni), in capo alle quali sarebbe stato soppresso l’unto (v. 26), sono fatte terminare nell’anno 171, quando fu assassinato il sommo sacerdote Onia III identificato con l’“unto” del v. 26. I 7 anni dell’ultima settimana, a metà della quale sono soppressi i sacrifici (v. 27a), sono posti fra il 171 e il 165 a.C. Nel 167 (non proprio a metà dei 7 anni !) Antioco IV abolì il sacrificio quotidiano. Fra il 538 a.C., l’anno dell’apparizione dell’“unto” del v. 25 secondo i critici, ed il 171 a.C., l’anno della soppressione violenta dell’ “unto” del v. 26 secondo la stessa fonte, c’è un intervallo di 367 anni. Ma 69 settimane di anni (l’intervallo di tempo che separa l’“unto” menzionato nel v. 25 da quello nominato nel v. 26) fanno 434 anni. La differenza rispetto al calcolo dei critici è di 65 anni, e non è poca ! A questo punto evidentemente i calcoli non tornano più. I fautori di questa interpretazione cercano di cavarsela dicendo che l’autore di Daniele eseguì un calcolo sbagliato, perché un giudeo palestinese del II secolo a.C. non poteva disporre dei dati cronologici esatti per stabilire la cronologia fra la distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. e la fissazione dell’era seleucidica nel 312 a.C. “In fin dei conti - contesta Boutflower - perché mai dovremmo pensare che uno scrittore palestinese del 165 a.C. fosse talmente disinformato sulla cronologia del periodo fra il 586 e il 312 a.C. e in particolare sui due secoli di governo persiano fra il 539 e il 331 a.C.? ìSe i Giudei non ebbero sovrani nazionali in base ai quali poter calcolare gli anni, ebbero però una successione ininterrotta di sommi sacerdoti i cui anni di servizio dovevano certamente essere registrati”354. Tale autore osserva poi che i Giudei del periodo persiano non furono affatto trascurati nell’uso delle date, come si evince chiaramente dai libri di Aggeo, Zaccaria, Esdra e Nehemia nei

353 - L’interpretazione storico-critica di Dn 9:24-27 considera che la “parola” a partire dalla quale si devono contare le 7 e 62 settimane sia la profezia sulla durata dell’esilio in Gr 25:11 e 29:10. Ma il primo vaticinio è del 605 a.C. (Gr 25:1) e il secondo del 596 (Gr 28:1). Per far partire le 70 settimane dal 587 a.C. si è supposto che il profeta avesse l’intenzione di riferirsi all’inizio reale dell’esilio con l’ultima deportazione e la presa di Gerusalemme (cfr. G. RINALDI, op. cit., commento a Dn 9:25, p. 128). 354 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 177.

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quali sono riferiti eventi accaduti nel primo e secondo anno di Ciro, nel secondo, quarto e sesto anno di Dario I e nel settimo, ventesimo e trentaduesimo anno di Artaserse I, in non pochi casi riportando persino il giorno e il mese. I papiri di Elefantina, poi, riferiscono fatti privati datati al quattordicesimo e ventesimo anno di Serse, al sesto, nono e ventitreesimo anno di Artaserse I e al terzo, settimo e tredicesimo anno di Dario II Noto; una lettera reca la data del 20 di Marcheshvan dell’anno diciassettesimo di Dario II. Questi documenti registrano tutta una serie di eventi datati fra il 539 e il 408 a.C. “Non è verosimile - conclude Boutflower - che fosse disponibile abbastanza materiale documentario da permettere ad uno scrittore intelligente del 165 a.C. che lo avesse voluto di costruire un corretto schema cronologico sugli ultimi quattrocento anni? Se i documenti di famiglia di Elefantina, tutti accuratamente datati, sono sopravvissuti fino al ventesimo secolo, certamente deve esserci stata abbondanza di documenti datati, sia pubblici che privati, giunti fino all’epoca del presunto autore del libro di Daniele, documenti che gli avrebbero consentito di calcolare con precisione l’intervallo di tempo trascorso fra il decreto di Ciro e la morte del sommo sacerdote Onia III”355. La comprensione del passo danielico richiede una lettura molto attenta. Intanto si deve osservare che la maggior parte delle traduzioni di Dn 9:25 separano le 7 dalle 62 settimane. Ecco un piccolo campionario di traduzioni in tre lingue moderne diverse: Sappilo dunque, e intendi! dal momento in cui è uscito l’ordine di restaurare e riedificare Gerusalemme fino all’apparire di un unto, di un capo, vi sono sette settimane; e in sessantadue settimane essa sarà restaurata e ricostruita, piazze e mura, ma in tempi angosciosi. G. LUZZI. Sappi dunque e comprendi: Da quando è uscita la parola per far ritorno e ricostruire Gerusalemme, fino ad un Consacrato, a un Principe, sette settimane. E per sessantadue settimane saran nuovamente riedificati piazza e fossato, ma in mezzo a tempi calamitosi. G. BERNINI Sappi e intendi bene, da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane. Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazza e fossati, e ciò in tempi angosciosi. Versione C.E.I. Sappi e intendi: dall’uscita della parola di tornare e di ricostruire Gerusalemme, fino all’unzione di un capo: sette settimane. Per sessantadue settimane: piazza e fossato si ricostruiranno, ma in angustia di tempi. BIBBIA CONCORDATA.

355 - Ibid., pp. 177-178.

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Or sappi e intendi: - Dall’uscita della parola di far ricostruire e riedificare Gerusalemme - fino a un Unto-Capo - sette settimane - E per sessantadue settimane - sarà di nuovo edificata - piazza e fossa - e ciò in angustia di tempi. G. RINALDI. Sache donc et comprends. Depuis le surgissement d’une parole en vue de la reconstruction de Jérusalem, jusqu’à un messie-chef, il y aura sept septéneires. Pendant soixante-deux septénaires, places et fossés seront rebâtis, mais dans ladétresse des temps. TOB. Sache donc et comprends: depuis qu’est parti le comandement de rebâtir Jérusalem jusqu’à un oint, un chef, il y a sept semaines; et pendant soixantedeux semaines elle sera rebâtie, place et fossé, et cela dans la detresse des temps. CRAMPON. Sache donc et comprends ceci: depuis la parole ordonnant de retablir et rebâtir Jérusalem, jusqu’à la venu de l’Oint, du Conducteur, il y a sept semaines. Puis pendant soixante-deux semaines, les places et les remparts de Jérusalem seront rebâtis, mais en des temps difficiles. VERSION SYNODALE. Know therefore and discern, that from the going forth of the commandment to restore and to build Jerusalem unto the anointed one, the prince, shall be seven weeks; and threescore and two weeks, it shall be built again, with street, and moat, even in troublous time. REVISED VERSION. Learn, therefore, and understand: “From the going forth of the word to restore and rebuilt Jerusalem, till there comes a prince, an anointed one, there shall be seven weeks; then for sixty-two weeks it shall be rebuilt with its squares and streets. AMERICAN TRANSLATION. Alcune versioni, contrariamente a quelle citate sopra, congiungono le sette e le sessantadue settimane. Anche di queste presentiamo un ridotto campionario in tre lingue: Sappi adunque, e intendi, che da che sarà uscita la parola che Gerusalemme sia riedificata, infino al Messia, Capo dell’esercito, vi saranno sette settimane, e altre sessantadue settimane, nelle quali saranno di nuovo edificate le piazze, e le mura, e i fossi; e ciò in tempi angosciosi. G. DIODATI. Sappi, adunque, e nota attentamente: Da quando uscirà l’editto per la riedificazione di Gerusalemme, fino al Cristo principe, vi saranno sette settimane, e sessantadue settimane; e saran di nuovo edificate le piazze e le muraglie in tempi di angustia. MARTINI. Sappi dunque e considera bene; dall’emanazione della parola affinché sia 269

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edificata di nuovo Gerusalemme, fino a un Unto, un principe, ci saranno settimane sette e settimane sessantadue; e di nuovo saranno riedificate le piazze e le mura in tempi di angustia. G. RICCIOTTI. Ecco quel che tu devi sapere e comprendere: dal momento in cui è stato pronunziato il messaggio che riguarda il ritorno dall’esilio e la ricostruzione di Gerusalemme fino all’apparizione di un condottiero consacrato devono passare sette periodi di sette anni e sessantadue periodi di sette anni; e questo ritorno dall’esilio e questa ricostruzione della città e delle fortificazioni si faranno in tempi difficili. TILC. Prends-en conaissance et intelligence: Depuis l’instant que sortit cette parole: ‘Qu’on revienne et qu’on rebâtisse Jérusalem jusqu’à un Prince-Messie, sept semaines et soixante-deux semaines, restorés, rebâtis places et remparts mais dans l’angoisse des temps. BIBLE DE JÉRUSALEM. Tu saurais donc, et tu l’entendrais, que depuis que la parole sera sortie pour s’en retourner et pour rebâtir Jérusalem, jusqu’au CHRIST le Conducteur, il y a sept semaines et soixante-deux semaines; et les places et la brèche seront rebâties dans un temps facheux. OSTERVALD. Know therefore and understand, that from the going forth of the commandment to restore and built Jerusalem, unto the Prince, shall be seven and threescore and two weeks: the street shall be built, and the wall, even in troublous time. KING’S JAMES VERSION. Il congiungimento o la separazione dei due segmenti temporali non è il risultato di una scelta arbitraria da parte dei traduttori, dipende dall’avere dato credito a un modello testuale piuttosto che a un altro. Le versioni che disgiungono le sette e le sessantadue settimane seguono il testo ebraico masoretico (TM), quelle che le uniscono si appoggiano alle versioni antiche (la versione greca di Teodozione o la versione latina di Girolamo, la Vulgata). Sotto trascriviamo il testo ebraico (masoretico) e la sua traslitterazione: hf(b : $ i {yi(b u $ f dyignæ x a yi$m f -da( i{al$ f Urºy tOn:bl i wº byi$h f l : rfbd f )fcom-}im l"K& : t a wº (adt " wº ;{yi T i ( f h qOc: b U jUrf x º w bOx: r hf t º n : b é n º w bU$f T {é y á n : $ U {yi < i $ {yi ( u b f $ º w weteda‘ wethaskel min-motzâ’ davar lehashîv welivnôth yerûshalaim ‘ad mashîach nagîd shavu‘îm shiv‘ah weshavu‘îm shishshîm ûshnaîm tashûv wenivnetâ rechôv wecharutz ûvtzôq ha‘ittîm. Letteralmente: Sappi e considera, dall’uscita di una parola per restaurare e riedificare Gerusalemme fino a un unto capo, settimane sette e settimane sessantadue, e (essa) sarà restaurata e riedificata piazza e fossato nella distretta dei tempi.

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Sotto la parola shiv‘ah (“sette”) i masoreti hanno posto un accento disgiuntivo (atnach) la cui funzione può essere paragonata a quella del nostro punto e virgola o punto fermo. Questo segno dovrebbe dividere in due la frase tra le parole “sette” e “sessantadue”, donde la separazione dei due numerali nella maggior parte delle versioni. Il prof. Doukhan, docente di Antico Testamento e letteratura ebraica, rileva che nelle enumerazioni di unità di misura (talenti, sicli, settimane, giorni ecc...) o nei numeri alti, l’atnach spesso assume la funzione di accento congiuntivo anziché disgiuntivo, e cita tre esempi356: “E l’argento di quelli della raunanza dei quali si fece il censimento, fu cento talenti (atnach) e mille settecento settantacinque sicli, secondo il siclo di santuario” (Es. 38:25). “Il rame delle offerte ammontava a settanta talenti (atnach) e duemila quattrocento sicli” (Es. 38:29). “Tutti quelli dei quali fu fatto il censimento furono seicentotremila (atnach) cinquecento cinquanta” (Nu 1:46).

Ai passi riportati sopra si può aggiungere Nu 26:51: “Tali sono le famiglie di Neftali secondo le loro famiglie. Le persone censite furono seicentomila (atnach) settecentotrenta”.

Esattamente come nei passi citati sopra, in Dn 9:25 l’atnach è posto tra due parti di un numero: Sappi e considera, dall’uscita di una parola per restaurare e riedificare Gerusalemme fino a un unto-capo settimane sette (atnach) e settimane sessantadue. Il testo masoretico risale al IX secolo; anteriori ad esso sono le antiche versioni già ricordate della Bibbia ebraica: la greca di Teodozione, del II secolo, la latina detta Vulgata, del V secolo, alle quali bisogna aggiungere la Siriaca, del II secolo. Ecco come hanno reso Dn 9:25 Teodozione e Girolamo:

356 - JACQUES DOUKHAN, op. cit., p. 209.

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kaiìì gnw¯sv kaiìì sunh/seij a)po\ e)co/dou lo/gou tou= a)pokriqh=nai kaiìì tou= oi )kodomh=sai Ierousalhm eÀwj xristou= h(goume/nou e(bdoma/dej e(pta\ kaiìì e(bdoma/dej e(ch/konta du/o kaiìì e)pistre/yei kaiìì oi )kodomhqh/setai plateiÍa kaiìì teiÍxoj kaiìì e)kkenwqh/sontai oi ( kairoi¿ Kaì gnose kaì sunéseis ’apò ’exòdou lògou tou ’apokrithenai, kaì tou oikodomèsai ‘Ierousalèm ’eos Christou ‘egouménou ’ebdomades ‘eptà kai ‘ebdomades ‘exekountadùo kaì ’epistréfei kaì oikodomethésetai plateìa, kaì teichos, kaì ekkenothésontai oi kairoì. E sappi e comprendi: dall’uscita di una parola per tornare ed edificare Gerusalemme fino a un Unto, un capo, settimane sette e settimane sessantadue, e si ritornerà e sarà ricostruita piazza e mura e angosciosi (saranno) i tempi. Scito ergo et animadverte: Ab exitus sermonis ut iterum aedificetur Ierusalem usque ad Christum ducem, hebdomades septem et hebdomades sexaginta duae erunt, et sursum aedificabitur platea et muri in angustia temporum. Sappi dunque e comprendi: Dall’uscita della parola perché sia riedificata Gerusalemme fino a un Cristo condottiero, vi saranno settimane sette e settimane sessantadue e sarà riedificata piazza e mura in tempi di angustia. Boutflower sottolinea l’importanza degli accenti nel sistema di puntazione masoretica per indicare la continuità o la separazione fra una parola e le parole che la precedono e la seguono, ma aggiunge che essi sono più che semplici segni di punteggiatura, sono accenti veri e propri e come tali si prestano a evidenziare pause e accentuazioni enfatiche. Secondo questo autore Dn 9:25 è un esempio di accentuazione enfatica. I puntatori masoretici vollero richiamare l’attenzione sul fatto che le 69 settimane che precedono la venuta del Messia, per qualche buona ragione sono divise in due tronconi di 7 e 62 settimane. Boutflower cita tre esempi di accentuazione enfatica segnata con l’atnach tolti dal libro di Daniele: “Allora quegli uomini accorsero tumultuosamente e trovarono Daniele (atnach) che faceva richieste e supplicazioni al suo Dio” (6:11). “Il primo anno del suo regno io, Daniele, meditando sui libri (atnach) vidi che il numero degli anni ecc...” (9:2). “Or questo Daniele si distingueva più dei capi e dei satrapi (atnach) perché c’era in lui uno spirito straordinario ecc...” (6:3). Il testo ebraico dei tre versetti citati ha questo segno sotto la parola preceduta dall’indicazione “atnach” tra parentesi: 272

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“Sarebbe davvero strano - osserva Boutflower - indicare sessantanove settimane con l’espressione ‘sette settimane e sessantadue settimane se non ci fosse una ragione per farlo, se non ci fosse cioè un motivo per dividere in due il periodo e anteporre il numero minore al numero maggiore. Ma una ragione c’è, ed è che le prime sette settimane dovevano testimoniare la restaurazione e ricostruzione di Gerusalemme ‘in tempi di angustia’, poiché questo era per il veggente un motivo di ansia per via dell’enormità del peccato nazionale ... le prime sette settimane sono comprese come un periodo di ricostruzione mentre le successive sessantadue sono lasciate in bianco non essendovi alcun evento particolare da associare ad esse”357. L’unico scopo di questo secondo periodo somMto al primo è di fissare il tempo della morte violenta del Messia: “dopo le sessantadue settimane un unto sarà soppresso”. Contrariamente all’interpretazione storico-critica, l’esegesi ortodossa di 9:2427 identifica l’unto soppresso dopo le sessantadue settimane con l’unto-principe che deve apparire in capo alle sette e sessantadue settimane (v. 25). In entrambi i casi “unto” compare senza l’articolo, ma lo stato indeterminato del nome non è motivo per mettere in discussione il senso messianico della profezia. Osserva giustamente Boutflower che i termini mâshiach (“unto”) e nagîd (“principe”) essendo titoli, sono trattati come nomi propri e come tali nell’ebraico non richiedono l’articolo. Lo confermano casi paralleli citati da questo medesimo autore. In Gr 20:1 compare il nome composto pâqid-nagîd, “sovraintendente-capo”, titolo ufficiale di un funzionario del tempio; in Is 9:5 uno dei titoli del messia futuro è ’Elgibbôr, “Dio potente”; in Is 26:4 Dio è chiamato Yah-Yehowa. Infine in Dn 2:45 appare il titolo divino ’Elâh-rav, “Dio grande”. In tutti questi casi i titoli composti di due parole sono privi dell’articolo. Nel secolo ventesimo l’interpretazione messianica diretta di Dn 9:24-27 della quale Charles Boutflower è un esponente autorevole - nella forma più accurata è stata formulata da Honteim nel 1906 e più vicino a noi da Closen nel 1938358. Prima dell’Honteim comunque diversi espositori di estrazione cattolica e protestante sostennero con buoni argomenti l’interpretazione messianica diretta della profezia delle settimane. Fra i cattolici ricorderemo l’abate Jules Fabre d’Envieu e fra i protestanti il teologo Carl August Auberlen. Il commentario di J. Fabre d’Envieu fu pubblicato a Parigi fra il 1888 e il 1891 in 4 volumi di cui due d’introduzione. Su Dn 9:25 questo autore si esprime nei termini seguenti: “Le sette settimane sono collegate con le ‘piazze e le mura che saranno ricostruite, onde in capo a quarantanove anni Gerusalemme sarà di nuovo una città. Le sessantadue settimane sono in rapporto con gli avvenimenti in-

357 - C. BOUTFLOWER, op. cit., pp. 185-186. 358 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 131.

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dicati nei vv. 26 e 27. Ogni inciso ha così il suo inizio preciso e il suo termine sicuro. Abbiamo tre drammi, ciascuno col suo punto iniziale ed il suo punto finale nettamente indicati. L’intero periodo conduce fino ad un’ultima settimana, all’ultimo dramma che comprende il ministero e la morte del Messia”359. L’opera di C.A. Auberlen apparve in Germania nel 1854. Nel 1880 ne fu pubblicata a Losanna un’edizione in lingua francese a cura di H.De Rougemont. Da essa traiamo il commento che segue su 9:25: “La prima spiegazione aggiunta a questa profezia del tutto generica contenuta nel v. 24 è che l’apparizione del Messia (stavolta designato espressamente) non avrà luogo - come certamente Daniele aveva sperato - subito dopo la cattività, e non coinciderà con la restaurazione del popolo e la ricostruzione della città, ma al contrario fra questi avvenimenti e l’affermazione del Messia dovrà esserci un intervallo di sette e sessantadue settimane di anni (69 in tutto). Nelle prime sette Gerusalemme sarà, sì, ricostruita, ma non ancora con quella gloria messianica e divina promessa da Geremia (31:38-40) o da Isaia (54:11 e ss; 40-62)... “Così l’angelo distoglie lo sguardo di Daniele dalla fine della cattività e lo fa volgere verso la fine della sessantanovesima settimana, quando il Messia dovrà comparire”360. Più vicino a noi altri espositori cattolici e protestanti hanno compreso e spiegato Dn 9:24-27 in chiave messianica diretta. Tra i cattolici citiamo E. Philippe: “Alle date e ai fatti del testo rispondono le date e i fatti della vita di Gesù ed essi soltanto. Le settanta settimane (490 anni) terminano con l’apparizione dei beni messianici... “La città è riedificata nelle prime sette settimane (49 anni), e fra quali angustie come sappiamo da Esdra ! Sessantadue settimane dopo (434 anni) il Cristo è messo a morte. Poi il popolo che lo ha rinnegato è reietto a sua volta. Infine, in un tempo successivo, la città e il Tempio vengono distrutti dall’esercito di Tito e la rovina e le devastazioni continuano. Nella settantesima settimana Gesù inaugura la sua alleanza con gli Apostoli, prima di tutto, poi i sacrifici antichi sono aboliti e poco tempo appresso nel Tempio sono perpetrati misfatti orrendi dagli idolatri e dagli stessi Zeloti, e una guerra devastante provoca una desolazione irreparabile”361.

359- J. FABRE D’ENVIEU, Le livre du Prophète Daniel, tomo II, parte seconda, p. 942. 360 - C.A. AUBERLEN, Le prophète Daniel et l’Apocalypse de Saint Jean, a cura di H.DE ROUGEMONT

1880, pp. 128-129. 361 - E. PHILIPPE, “Daniel” in Dictionnaire de la Bible a cura di F. VIGOUROUX, Parigi 1926, tomo II, colonna 1281.

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Il pensiero del protestante Charles Boutflower sulla profezia delle settimane è stato riportato nelle pagine precedenti (l’opera dalla quale è stato attinto, In and Around the Book of Daniel, è del 1923). Ancora un pensiero di fonte protestante sull’interpretazione di Dn 9:24-27: “L’interpretazione messianica tradizionale - scrive il prof. Edward J. Young comporta difficoltà minori rispetto alle altre interpretazioni e nel medesimo tempo rende giustizia al testo. Secondo questa interpretazione ‘settanta settimaneí è un’espressione simbolica per indicare il periodo nel quale dovrà compiersi la salvezza messianica che è stata decretata (v. 24). Nel v. 25 si dice che due segmenti di tempo dovranno trascorrere tra l’uscita di una parola da parte di Dio riguardo la ricostruzione di Gerusalemme e l’apparizione del Cristo. Dopo che saranno trascorsi questi due segmenti di tempo, il Messia sarà messo a morte e Gerusalemme e il tempio saranno distrutti dalle milizie romane di Tito. Il Messia farà cessare con la sua morte i sacrifici giudaici e questo avverrà a metà della settantesima settimana”362. Un’esposizione dettagliata dell’interpretazione messianica diretta di Dn 9:24-27 confermerà il giudizio del prof. Young sulla maggiore aderenza di questa spiegazione al linguaggio del testo danielico. La “parola” (davar), dalla uscita della quale dovrà iniziare il conteggio delle 7 e 62 settimane, è il primo elemento di cui è essenziale cogliere il significato per una retta intelligenza della profezia. Se “parola” si riferisse ad una dichiarazione già nota363 - dunque al passato - davâr dovrebbe avere l’articolo. Invece questo vocabolo non è preceduto dall’articolo: min motzah davar... (“dall’uscita di ‘una’ parola...”). “Parola” in 9:25 essendo indeterminato deve perciò riferirsi ad una dichiarazione non ancora conosciuta, una dichiarazione futura. Dovrà essere una risposta umana a quella “parola” divina “uscita” in cielo a seguito della preghiera di Daniele, quella “parola” che Gabriele è venuto a comunicargli: “Al principio delle tue supplicazioni una parola è uscita; ed io son venuto a comunicartela” (9:23)364. La profezia anticipa gli eventi, non li determina, come le previsioni meteorologiche annunciano i cambiamenti del tempo ma non ne sono la causa. Per fare risorgere dalle rovine una città ribelle come Gerusalemme (Ed 4:12; Ne 6:56) in un paese come Giuda tuttora sottoposto a sudditanza verso uno Stato straniero (Ne 9:36-37), ci voleva imprescindibilmente un editto reale. I Giudei rimpatriati da Babilonia dopo il decreto di Ciro formavano una comunità religiosa

362 - E.J. YOUNG, The New Bible Commentary, Londra 1970. commento a Dn 9:27, p. 700. 363 - Vedi Appendice B a fine capitolo. 364 - Cfr. C.BOUTFLOWER, op. cit., p. 187.

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raccolta intorno al suo ricostruito santuario, non una nazione indipendente. La ricostruzione della città senza l’espresso consenso del sovrano di Persia avrebbe costituito praticamente un’implicita dichiarazione di indipendenza che il Gran Re non avrebbe certo tollerato. Siamo a conoscenza di almeno tre decreti imperiali persiani in favore dei Giudei deportati in Babilonia o rimpatriati da essa. I. IL DECRETO DI CIRO II. Fu il primo editto reale favorevole ai Giudei; esso verosimilmente fu emanato un anno dopo la conquista persiana di Babilonia, cioè nel 538 a.C. Di questo editto abbiamo nell’Antico Testamento due versioni, una abbreviata in 2Cr 36:23 ed una più estesa in Ed 1:2-4, ambedue introdotte da una nota redazionale quasi identica contenente la data del documento ed una notazione teologica. L’estensore (probabilmente lo stesso per le due versioni) vede nel decreto reale il compimento della profezia di Gr 29:10. Il documento persiano, redatto in termini molto rispettosi verso la fede ebraica, autorizza: 1) il rimpatrio da Babilonia degli esuli giudei; 2) la ricostruzione del tempio di “Yahweh, l’Iddio dei cieli” in Gerusalemme; 3) l’assistenza materiale ai rimpatriandi da parte delle popolazioni di cui essi percorreranno i territori. Nell’editto di Ciro manca qualsiasi accenno ad una ricostruzione di Gerusalemme. II. IL DECRETO DI DARIO I. I reduci da Babilonia in seguito al decreto di Ciro ricostruirono subito l’altare e ripristinarono i sacrifici, compreso l’olocausto quotidiano (Ed 3:3). Poi gettarono le fondamenta del tempio (Ed 3:10-11), ma l’opposizione tenace dei nemici li costrinse a sospendere i lavori (Ed 4:4). La ricostruzione del sacro edificio fu ripresa una quindicina di anni dopo - l’anno secondo di Dario I, il 520 a.C. - per l’incoraggiamento dei profeti Aggeo e Zaccaria (Ed 4:5, 24; 5:12). L’intervento dell’autorità persiana, probabilmente sollecitato dai nemici dei Giudei, non comportò un’interruzione immediata dei lavori (Ed 5:3-5). Dietro una relazione obiettiva dei funzionari reali (Ed 5:7-17), il re Dario promosse un’indagine negli archivi reali di Babilonia e di Ecbatana e in quest’ultima località fu rintracciata la copia del decreto di Ciro (Ed 6:1-5). Con un suo editto Dario ratificò il decreto di Ciro ordinando perentoriamente: 1) che si lasciassero proseguire i lavori per la ricostruzione del tempio dei Giudei in Gerusalemme; 2) che le spese necessarie si detraessero dalle imposte reali riscosse nella satrapia transeufratica; 3) che si fornisse ai sacerdoti giudei di Gerusalemme tutto il necessario per lo svolgimento regolare delle pratiche cultuali. L’editto termina con minacce di sanzioni molto severe per gli inadempienti e con l’ordine di esecuzione immediata delle disposizioni reali (Ed 6:6-12). Anche questo documento ufficiale della cancelleria reale persiana omette ogni riferimento alla ricostruzione di Gerusalemme. Il tempio fu riscotruito in 4 anni. L’anno sesto di Dario, il 515 a.C., fu solennemente dedicato al culto (Ed 6:15-16). Ma le mura della città rimasero demolite per il resto del regno di Dario, per tutto il tempo del regno di Serse I (486-465) e 276

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fino all’anno ventesimo del regno di Artaserse I, il 444 a.C. (Ne 5:14; 6:15), quando erano trascorsi 94 anni dal primo decreto e 76 dal secondo. III. IL DECRETO DI ARTASERSE I. L’identificazione dell’Artaserse nominato in Esdra 7 è controversa: gli studiosi sono divisi tra Artaserse I Longimane (465-423 a.C.) e Artaserse II Mnemone (405/04-359/58 a.C.). Quelli che optano per la seconda alternativa invertono l’ordine biblico Esdra-Nehemia anticipando la missione di Nehemia a Gerusalemme rispetto a quella di Esdra. Questa opzione non è però esente da serie difficoltà e non possono nasconderlo quanti la difendono; d’altra parte i problemi che presenta l’altra alternativa non sono affatto insolubili (vedi la nota 365). “Non ci sono motivi per dubitare dell’esattezza del racconto biblico”, scrive Stafford Wright a proposito della successione cronologica Esdra-Nehemia nell’Antico Testamento365. L’esegesi ortodossa di Daniele, rispettosa dell’ordine cronologico biblico riguardo agli interventi di Esdra e Nehemia nella madrepatria, identifica Artaserse I Longimane nel personaggio con questo nome che compare nel cap. 7 del libro di Esdra. Noi diamo qui per scontato che questo sia esatto e che per conseguenza Esdra anticipasse Nehemia (gli argomenti a giustificazione di questa opzione sono esposti nella nota 365). Esdra, sacerdote e scriba versato nella legge di Mosè (Ed 7:6), rimpatriò da Babilonia col permesso del re Artaserse I l’anno settimo del regno di questo sovrano, e con lui rimpatriò un gruppo di alcune migliaia di connazionali fra i quali figuravano sacerdoti, leviti e altri appartenenti al personale del tempio (Ed 7:7). La partenza da Babilonia avvenne nella primavera del 457 a.C. e l’arrivo a Gerusalemme 4 mesi dopo, nell’estate dello stesso anno. Esdra aveva con sè un decreto del re Artaserse che concedeva notevoli privilegi alla comunità dei reduci dall’esilio. Questo è il più esteso e il più completo degli editti reali persiani in favore dei Giudei. In generale gli espositori ortodossi di Daniele considerano che sia questo decreto la “parola” per riedificare e restaurare Gerusalemme (9:25) e di conseguenza fanno decorrere le 70 settimane dall’anno 457 a.C.366. Noi riteniamo del tutto corretta questa data e da essa iniziamo il conteggio delle 7 e 62 settimane che debbono condurre fino al Messia. Quattro dei cinque espositori citati nelle pagine precedenti (C. Boutflower, J. Fabre d’Envieu, C.A.Auberlen ed E.Philippe) sono concordi nel dire che durante le prime sette settimane doveva compiersi la ricostruzione di Gerusalemme e in capo alle successive sessantadue doveva comparire il Messia.

365 - J.STAFFORD WRIGHT, The Date of Ezra’s coming to Jerusalem, 1958, XI c. 366 - Vedi C.BOUTFLOWER, op. cit, p. 185; CANONICO G. VIDAL, La prophécie des Semaines, Algeri

1947, pp. 79-83; C.A.AUBERLEN, op. cit., pp. 154, 161; J.DOUKHAN, op. cit., pp. 203-204 ecc...).

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Che sia così lo si vede se si tiene conto della struttura letteraria del v. 25, una struttura rispondente allo schema A1 - B1, A2 - B2 : A1 - “... fino a un Unto-Principe

B1 - settimane sette

A2 - e settimane sessantadue

B2 - essa sarà restaurata e ricostruita...”

Se colleghiamo A1 e A2 notiamo che il Messia dovrà comparire alla fine delle sessantadue settimane. Parimenti se colleghiamo B1 e B2 ci rendiamo conto che la restaurazione e ricostruzione di Gerusalemme dovranno compiersi in capo a sette settimane. L’ultima frase del v. 25 preannuncia tempi calamitosi (bezoq ha‘iththîm) in concomitanza con la ricostruzione materiale della città santa. In effetti la riedificazione di Gerusalemme avvenne tra enormi difficoltà per l’opposizione ostinata e talvolta violenta dei Samaritani, irritati dal rifiuto opposto da Zorobabele alla loro offerta di collaborazione nell’opera di ricostruzione (Ed 4:1-4). Furono ostacolate in ogni maniera possibile - e in certi momenti impedite - la riedificazione del tempio (Ed 4:4-5, 24) e della città col suo muro di cinta (Ed 4:7-23). Poi, durante la missione di Nehemia a Gerusalemme 13 anni dopo Esdra, i costruttori giudei dovettero fare i conti con un individuo potente che fu l’anima nera dell’opposizione antigiudaica, il samaritano Sanballat, spalleggiato da due altri nemici dei Giudei, l’ammonita Tobia e l’arabo Gheshem (Ne 2:10; 4:7-8; 6:1-7). Tanto seria fu la minaccia di Sanballat e dei suoi alleati che durante i lavori sul muro cittadino Nehemia dovette disporre delle sentinelle armate e dovette persino armare i lavoratori (Ne 4:7-18, 21). All’inizio di questo secolo il nome di Sanballat è comparso in un papiro aramaico del V secolo a.C. scoperto da poco. Si trattava della copia di una lettera che il capo della comunità giudaica di Elefantina - un’isola in mezzo al Nilo di fronte ad Assuan - scrisse al governatore persiano di Giuda in Samaria, Bagoa, per sollecitare l’autorizzazione a ricostruire il tempio della comunità che i nemici egiziani avevano distrutto. L’autore della missiva dice di avere scritto anche a “Delaya e Shelemyah, i figli di Sinuballit governatore di Samaria” (Sinuballit è la forma babilonese del nome di Sanballat). Dato l’alto incarico pubblico ricoperto da Sanballat messo in luce da questo documento, si capisce perché fosse tanto temibile la sua opposizione contro i Giudei. All’epoca di questa lettera (il papiro n. 30 della collezione Cowley) Sanballat, se era ancora in vita, aveva un’età molto avanzata e non era più in carica, visto che ai figli di lui si rivolsero i coloni giudei di Elefantina. In quel tempo dunque Sanballat, non avendo più voce in capitolo in Samaria, non poteva oramai nuocere ai Giudei e i rapporti di questi ultimi con le autorità di Samaria non erano più così tesi come lo erano stati al tempo di Nehemia. Il documento è datato all’anno 16° del Dario (Dario II), il 408 a.C. Vedremo più avanti perché questa data sia importante. Ai tempi di Nehemia la ricostruzione di Gerusalemme non era finita con 278

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l’erezione del muro di cinta nel 444. All’interno del muro bisognava ancora ricostruire le case tuttora in rovina (Ne 7:4). Su questa seconda fase del riassetto della città non abbiamo notizie. È comunque difficile ammettere che Sanballat si fosse dato per vinto dopo l’erezione del muro, è anzi verosimile che questa circostanza avesse accresciuto il suo livore verso i Giudei. I tempi di angustia per costoro dunque non erano finiti con la ricostruzione del muro di Gerusalemme e non potevano finire finché Sanballat fosse in vita o comunque contasse in Samaria. Ma nel 408 a.C., esattamente 49 anni dopo l’editto di Artaserse I Longimane (408 + 49 = 457), Sanballat non era più governatore di Samaria. Le 7 settimane della tormentata ricostruzione della santa città erano finite ed erano finiti per i Giudei i tempi di angustia. Restavano le 62 settimane (434 anni) che dovevano trascorrere fino alla venuta dell’Unto-Principe. L’editto sulla restaurazione di Gerusalemme era stato emanato nella primavera del settimo anno di Artaserse I (Ed 7:8-9), vale a dire nel mese di marzo quando il 457 a.C. calcolato sul calendario giuliano era cominciato da 3 mesi. Poiché nel computo cronologico storico non esiste l’anno zero (il 31 dicembre dell’1 a.C. fu seguito dal 1° gennaio dell’1 d.C.), 457 anni pieni dalla emanazione del decreto di Artaserse scaddero nel mese di marzo dell’anno 1 dopo Cristo. Aggiungendo i 26 anni completi avanzati dopo avere sottratto 434 anni da 457, si arriva al mese di marzo dell’anno 27 d.C. Con molta verosimiglianza nell’autunno di questo anno367 Gesù di Nazareth fu battezzato nel Giordano da Giovanni Battista. Tutti e quattro gli evangelisti testimoniano il prodigio della discesa visibile dello Spirito Santo sulla persona di Gesù nel momento del battesimo (Mt 3:16; Mr 1:10; Lc 3:20-21; Gv 1:32). Luca soltanto aggiunge al racconto del battesimo e della tentazione del Signore nel deserto l’episodio dell’inaugurazione del suo ministero pubblico nella sinagoga di Nazareth quando Egli annunciò la sua missione applicando a sé la profezia di Is 61:1-2: “Lo Spirito del Signore è sopra me; per questo egli mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato a bandir liberazione ai prigionieri, ed ai ciechi ricupero della vita; a rimettere in libertà gli oppressi, e a predicare l’anno accettevole del Signore” (Lc 4:18-19). Nel libro degli Atti, Luca ricorda la missione di Pietro a Cesarea quando l’apostolo annunciò al centurione Cornelio e ai suoi familiari la salvezza in Cristo col volgere la loro attenzione al ministero messianico di Gesù: “Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea: vale a dire la storia di Gesù di Nazareth; come Iddio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza; e com’egli è andato attorno facendo del bene...” (At 10:37-38). Dalle notizie di Luca sull’inizio del ministero messianico di Gesù a Nazareth e sull’evangelizzazione dell’ufficiale romano a Cesarea, si evince che il Signore ricevette la consacrazione messianica con l’unzione dello Spirito Santo, e dai quattro evangeli citati prima sappiamo che ciò avvenne durante il suo battesimo nel Giordano. I sinottici associano un prodigio audibile alla discesa visibile dello Spirito Santo: “Ed ecco una voce dai cieli che disse: -Questo è il mio diletto Figliolo nel

367- Vedi Appendice C a fine capitolo.

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quale mi sono compiaciuto -” (Mt 3:17; cfr. con Mr 1:11 e Lc 3: 22b). Così Giovanni e tutti i Giudei che si trovavano lì quando Gesù ricevette il battesimo, furono testimoni oculari e auricolari della consacrazione messianica di Gesù di Nazareth. “Principe della pace” (sar shalôm) era stato uno dei titoli con cui Isaia aveva caratterizzato il Messia venturo (Is 9:5 u.p.). Nell’anno 27 E.V. - 483 anni dopo l’editto di Artaserse I Longimane su Gerusalemme - comparve in Israele l’Unto-Principe che Daniele aveva preannunciato. Nei vv. 26 e 27 di Dn 9 culmina e si conclude la mirabile profezia delle settanta settimane. Sono qui anticipati profeticamente gli eventi verso i quali dovevano convergere i dettagli preliminari della profezia, ovvero la morte violenta del Messia, la sua alleanza “con molti” e la fine del sistema tipico dei sacrifici. Infine, dopo le 70 settimane, sarebbero sopravvenute la fine tragica di Gerusalemme e del santuario e la desolazione del paese. A leggere l’uno dopo l’altro i vv. 25-27 si ha l’impressione che la successione degli eventi ivi predetti sia confusa, specie nei vv. 26 e 27. Ciò dipende dalla particolare struttura letteraria che ha dato Daniele a questo brano. Il professor JACQUES DOUKHAN ha evidenziato nei tre versetti un parallelismo incrociato o chiastico che si può illustrare mediante il diagramma sottostante.

STRUTTURA CHIASTICA IN DANIELE 9:25-27 A1 (v. 25a) costruzione della città Dalla uscita di una parola perché sia restaurata e ricostruita Gerusalemme fino “al” Messia Principe vi saranno 7 settimane e 62 settimane

B1 (v. 25b) costruzione della città essa sarà restaurata e ricostruita piazze e fossato (chrtz) ma in tempi angosciosi

A2 (v. 26a) distruzione del Messia - Principe Dopo le 62 settimane il Messia sarà soppresso senza alcun aiuto

B2 (v. 26b) distruzione del santuario e il popolo di un principe aggressore distruggerà la città e il santuario. La sua fine verrà in un’inondazione, e fino alla fine di un decreto (chrtz) vi sarà guerra; sarà una desolazione.

A3 (v. 27a) cessazione del sacrificio e delle oblazioni E riuscirà nell’alleanza con molti in una settimana; e a metà della settimana farà cessare per sempre sacrificio e oblazione

B3 (v. 27b) distruzione del popolo del Principe e dal lato dell’abominazione vi sarà desolazione fino alla fine, (fino) a che quello che è decretato (chrtz) sia versato sulla desolazione

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Il prof. Doukhan spiega: “La distribuzione (delle frasi) qui illustrata non è artificiosa, la richiede la doppia corrente di pensiero che attraversa tutto il capitolo: 1) popolo - peccato e 2) Gerusalemme - santuario. Essa si giustifica altresì dall’appello che mediante un’espressione comune ogni emistichio rivolge all’emistichio corrispondente, così che i tre emistichi che riguardano Gerusalemme (B1, B2, B3) hanno in comune la radice chrtz, mentre i tre che concernono il Messia (A1, A2, A3) si riferiscono sistematicamente a un tempo espresso in settimane”. “I due temi Messia e Gerusalemme - spiega ancora Doukhan - sono utilizzati alternativamente in modo da conferire al versetto la sua struttura intercrociata: A1 B1 A2 B2 A3 B3

Messia Gerusalemme Messia Gerusalemme Messia Gerusalemme

“Si può anche notare - prosegue il nostro autore - lo stupendo parallelismo chiastico tematico fra i due membri. Questa struttura suggerisce una dialettica particolare articolata sulle idee di costruzione - distruzione come indica la figura seguente:

LA DIALETTICA “COSTRUZIONE - DISTRUZIONE” IN DANIELE 9:25-27 Primo chiasmo A1

Costruzione mashiach - nagîd (Messia - Principe)

B1

Costruzione

A2

Distruzione

B2

Distruzione ‘am nagîd (popolo del principe)

Secondo chiasmo A2

Distruzione mashiach nagîd

B2

Distruzione

A3

Distruzione

B3

Distruzione (‘am nagîd) 281

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“Il profeta - commenta J. Doukhan - ha voluto comunicare il suo messaggio attraverso la bellezza della struttura poetica. Ha ragione Martin Buber quando osserva che qui il Wie (“Come”) e il Was (“Cosa”), si confondono”368. Un modo più semplice di evidenziare la struttura letteraria di Dn 9:25-27 è il seguente, proposto ancora da J. DOUKHAN369: A1 Venuta del Messia, v. 25a Dalla uscita di una parola che sia restaurata e riedificata Gerusalemme fino a (l’)Unto Principe, settimane sette e settimane sessantadue B1 Costruzione della città, v. 25b saranno restaurate e riedificate piazza e trincea (charuz), ma in tempi angosciosi A2 Morte del Messia, v. 26a E dopo sessantadue settimane sarà soppresso (letteralmente “tagliato”) (l’)Unto e nessuno (sarà) per lui B2 Distruzione della città, v. 27b e sull’ala delle abominazioni: desolazione fino alla fine, finchè ciò che è decretato (necheretzeth) venga sulla desolazione (o sul desolatore). A3 Alleanza del Messia, v. 27a e stabilirà una salda allenza con molti in una settimana, e a metà della settimana farà cessare sacrificio e oblazione B3 Distruzione della città, v. 27b e sull’ala delle abominazioni: desolazione fino alla fine, finchè ciò è decretato (necheratzah) venga sulla desolazione (o sul desolatore). Lo schema strutturale dei vv. 25-27 è il seguente: A1 + A2 + A3 - B1 + B2 + B3. Tenendo conto della struttura letteraria di questi 3 versetti, gli eventi ivi predetti si susseguono nell’ordine sottoindicato: 1. Venuta e morte del Messia v. 25a. - Il Messia verrà alla fine di 7 e 62 settimane di anni (contati dal momento in cui sarà stato emanato un editto che autorizzerà la ricostruzione di Gerusalemme).

368 - Da “The Seven Weeks of Daniel 9” in The Sanctuary and the Atonement, Washington D.C. 1981, pp. 260-263. 369 - Le Soupir de la Terre, p. 268

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v. 26a. - In capo alle 7 e 62 settimane (483 anni) il Messia sarà messo a morte dopo che tutti lo avranno abbandonato. v. 27a. - Nel corso degli ultimi 7 anni (prima di essere soppresso) il Messia stabilirà una salda alleanza con molti e a metà del settennio porrà fine ai sacrifici e alle oblazioni che si offrono nel santuario. 2. Ricostruzione e distruzione di Gerusalemme v. 25b. - Gerusalemme sarà riedificata in tempi di angustia durante 7 settimane di anni. v. 26b. - La santa città e il suo santuario rimarranno distrutti nel corso di una guerra devastante della quale sarà responsabile il popolo di un principe (nagîd) venturo. v. 27b. - Vi sarà desolazione a motivo delle abominazioni (che si perpetreranno) nel santuario finché la rovina decretata si abbatterà sui responsabili della desolazione. Sulla ricostruzione di Gerusalemme e la venuta del Messia di cui parla il v. 25 si è già detto. Vediamo come si sono svolti nella storia del Giudaismo i fatti predetti nei vv. 26a e 27a in rapporto alla morte del Messia, alla sua alleanza “con molti” e all’abolizione del rituale sacrificale. Sulla durata del ministero messianico di Cristo non c’è unanimità di consensi fra gli studiosi. Si può comunque ritenere come assai probabile, se non assolutamente certa, una durata di 3 anni e mezzo. Questo in base alla menzione nel vangelo di Giovanni di 3 Pasque (Gv. 2:13; 6:4 e 12:1) e di una festività non specificata (Gv. 5:1), ragionevolmente identificabile con una Pasqua, durante il ministero di Gesù. Se Cristo iniziò, come si è detto, il suo ministero nell’autunno dell’anno 27, tre anni e mezzo a decorrere da questa data scaddero nella primavera dell’anno 31370. Nella Pasqua di quest’anno Gesù dovette subire il martirio della crocifissione. Alla vigilia di questo evento cruciale Gesù effettivamente strinse con i Dodici un’alleanza destinata ad estendersi a tutti credenti. Tutti e tre i Sinottici ricordano l’istituzione del rito eucaristico: cfr. Mt 26:26-29; Mr 14:22-25; Lc 22: 14-20) e tutti e tre riportano

370 - Se è impresa ardua datare i fatti della narrazione evangelica non lo è di meno assegnare date certe agli avvenimenti del racconto lucano nel libro degli Atti. La ragione sta ancora nel prevalere dell’interesse per i fatti e le idee sull’interesse per i dati cronologici in colui che ha steso il racconto. Questo dato di fatto è comprensibile, ciò non toglie però che il cronologo sia privato della possibilità di fissare con sicurezza nel tempo le tappe più significative della storia della chiesa primitiva. Sulla scorta degli scarsi e vaghi dati cronologici reperibili nel libro degli Atti, si è tentato di costruire una cronologia approssimativa del periodo fra la Pentecoste e l’ar-

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la formula di consacrazione del calice con cui Gesù ne accompagnò la distribuzione agli apostoli: “... questo è il mio sangue, il sangue del patto , il quale è sparso per molti per la remissione dei peccati” (Mt 26:28; Mc 14:24). In Lc 22:20 la formula compare con una lieve variante: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue che è sparso per voi” (cfr. 1Co 11: 25). Nella Pasqua dell’anno 31, dunque, il Messia istituì la Nuova Alleanza col nuovo popolo di Dio, l’Alleanza che Geremia aveva annunciato 600 anni prima (Gr 31:31; cfr. con Eb 8:6 e seguenti). La crocifissione, il giorno dopo l’inaugurazione della Nuova Alleanza, segnò la fine del ministero messianico di Gesù. In quella circostanza tragica il Redentore fu solo; lo abbandonarono persino i suoi amati apostoli (vedi Mt 26:56; Mc 14: 50-52). Gabriele lo aveva predetto 570 anni prima al profeta Daniele: “... nessuno sarà per lui”. La morte cruenta del Messia segnò la fine del sistema sacrificale, fondamento liturgico dell’Antica Alleanza. Il sacrificio espiatorio prefigurava “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1:29). Ora che l’Agnello di Dio è stato immolato il sacrificio prefigurativo è divenuto inutile. Ne è stato un segno inequivocabile lo spontaneo “lacerarsi in due da cima a fondo” della “cortina del tempio” tra il “santo” ed il “santissimo” nell’istante in cui Gesù Cristo “rese lo spirito” (Mt 27: 50-51)371. Il Luogo santissimo, da sempre celato agli sguardi umani indiscreti, non aveva più misteri. L’espiazione che lo Yom Kippur prefigurava era ormai una realtà storica. Si continuò ancora per 39 anni a immolare il sacrificio sul grande altare del tempio, ma come un rito vuoto di significato agli occhi di Dio. La morte del Messia cambiò diverse cose. Al principio della sua missione in terra Gesù aveva vietato ai Dodici di portare l’annuncio evangelico ai Gentili ed ai Sa-

rivo di Paolo a Roma integrando con informazioni tratte dalle epistole quelle attinte dagli Atti. In questa nota interessano soltanto i tempi del martirio di Stefano e della conversione di Saulo. Il fariseo Saulo da Tarso, dopo avere abbracciato la fede cristiana, dovette fuggire da Damasco perché il governatore del re Areta vi aveva messo delle guardie per farlo arrestare (cfr. 2Co 11:32 e seguenti). Questa circostanza lascia credere che in quest’epoca Damasco, già possedimento romano, fosse sotto la sovranità del tetrarca dei Nebatei Areta IV e che il funzionario menzionato da Paolo fosse il suo viceré. Si è potuto stabilire in base a delle monete dell’epoca che nell’anno 33 E.V. Damasco era ancora sotto la sovranità di Roma. Nel 37, quando Vitellio, governatore della Siria, mosse contro Areta, il funzionario romano si diresse a sud, verso Petra, senza sostare a Damasco; ciò farebbe pensare che in quest’epoca Damasco non fosse più sotto il controllo dei Romani. Areta IV, che morì nell’anno 40, deve avere preso possesso di Damasco fra il 37 e il 40. Di conseguenza Saulo, che fuggì da Damasco controllata da Areta 3 anni dopo la conversione (Gal 1:18), deve avere abbracciato la fede di Cristo fra il 34 e il 37, verosimilmente nel 35. Stefano subì il martirio in Gerusalemme prima della conversione di Saulo (At 8:1), quindi non dopo il 34 e probabilmente non prima. 371 - Cfr. E.G.WHITE, Desire of Ages, pp. 165, 757, nell’edizione italiana - La Speranza dell’uomo, pp. 108 e 541; S.D.A. Bible Commentary, vol. V, p. 550; G.STEWART, Commentario esegetico pratico del Nuovo Testamento, Matteo, p. 298.

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maritani, la loro missione era di andare dalle “pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10: 5-6). Ma prima di tornare in cielo, Egli conferì ai suoi apostoli un mandato universale (Mt 28: 18-20) cfr. con At 1:8). Rifiutando il suo Messia Israele aveva segnato il proprio destino. Gesù lo aveva previsto: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figlioli come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali; e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta”. “Perciò io vi dico che il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a una gente che ne faccia i frutti” (Lc 13: 34-35; cfr. con 21: 20-24 e Mt 21: 43). Tre anni e mezzo dopo la crocifissione di Gesù, nell’anno 34 morì martire a Gerusalemme per mano dei Giudei il diacono Stefano (At 6:5). Il discorso che aveva pronunciato davanti al Sinedrio prima di essere lapidato ricorda i discorsi dei profeti antichi. Come quei fedeli portavoce di Dio Stefano aveva ricordato ai connazionali dal cuore indurito i benefici che i padri avevano ricevuto dal Signore e l’ingratitudine con cui lo avevano ripagato (At 7: 2-50); e come i veggenti antichi ebbero delle visioni, anche lui ebbe una visione: prima di spirare vide aprirsi il cielo e lassù vide il Signore Gesù glorificato alla destra del Padre (At 7: 55-56). Quella di Stefano fu l’ultima voce profetica che si fece udire in Israele, e Israele la fece tacere per sempre. Scaddero le 70 settimane di anni accordati a Israele per convertirsi e Israele mancò la sua ultima occasione ! Non passò molto tempo che il fariseo Saulo da Tarso, che di quel delitto era stato testimone consenziente (At 7:58; 8:1; 22:20), fu fermato da Gesù Cristo alle porte di Damasco dove si recava per devastare la comunità cristiana (At 9: 16; 22: 3-8; 26: 9-15). Al discepolo damasceno riluttante ad andargli incontro come gli era stato comandato da Gesù - credendolo egli ancora un persecutore implacabile (At 9: 13-14) - il Signore rivelò che invece quell’uomo era uno strumento ch’Egli aveva eletto per portare il suo nome davanti ai Gentili (At 9:15; cfr. con Ga 1:15-16; 2:2, 7-8). In Antiochia di Pisidia, durante il primo viaggio missionario, Paolo, il persecutore di un tempo divenuto ardente testimone di Cristo, comprese che era giunto per lui il momento di votarsi all’evangelizzazione dei Gentili. Ciò avvenne dopo la reazione ostile dei Giudei ad una sua predicazione nella sinagoga locale - una predicazione che nella prima parte tanto era somigliata al discorso di Stefano ai sinedriti (At 13: 15-22). Fu in quella circostanza che Paolo e Barnaba decisero di volgersi al mondo pagano: “Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la Parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili” (At 13:46). Era il crepuscolo d’Israele cui stava per seguire l’aurora di un tempo nuovo per il mondo dei Gentili. Considerate le circostanze che condussero alla reiezione d’Israele come popolo eletto di Dio, rimane da vedere come si realizzarono nella storia giudaica gli eventi tragici predetti in 9: 26b e 27b riguardo a Gerusalemme e al santuario. Il “popolo di un principe” (‘am nagîd) che avrebbe distrutto la città e il santuario non può essere identificato coi Romani, perché 1) non il popolo romano fu coin285

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volto nella tragedia giudaica dell’anno 70, ma un esercito di Roma, e 2) perché nagîd in Daniele è designazione di una dignità sacra, non profana372. “Popolo” va dunque riferito ai Giudei e “principe” al sommo sacerdote che in quel tempo rappresentò per loro la massima autorità riconosciuta. L’attribuzione ai Giudei della responsabilità della distruzione di Gerusalemme e del tempio a tutta prima può sembrare un falso storico, ma se si analizzano i fatti che portarono alla guerra giudaica del 66-70, si capisce che proprio i

372 - Nell’Antico Testamento nagîd indica ora la dignità regale (2Cr 11:22), ora il comando mili-

tare (1Cr 13:1), ora la sovraintendenza in ambito amministrativo (1Cr 26:24; 2Cr 28:7). Ma al di là di questi usi profani, il termine è adoperato con una connotazione religiosa per designare l’eletto di Yahweh per condurre il suo popolo (1Sm 9:16), e con un senso più strettamente religioso per indicare il sacerdote (1Cr 9: 11). In questi casi nagîd è posto in relazione con un ufficio particolare di cui Dio investe un uomo da lui scelto, mediante il rito dell’unzione. Con l’unzione Samuele consacrò Saul nagîd dell’eredità di Yahweh (1Sm 10:1; cfr. con 9:16). E in seguito gli annunciò che il Signore lo aveva riprovato per la sua indegnità e si era scelto un uomo “secondo il suo cuore” per farlo nagîd del suo popolo (1Sm 13: 14). Vari anni dopo, gli anziani delle tribù convenuti a Hebron per riconoscere Davide re di tutto Israele, rammentarono che a lui il Signore aveva promesso di farlo pastore del suo popolo, nagîd d’Israele (2Sm 5:2). Il profeta Natan pure ricordò a Davide che Yahweh lo aveva preso dall’ovile per fare di lui il nagîd d’Israele (2Sm 7:8). Molti anni dopo, Ahija, un profeta del nord, rinfacciò all’indegno Geroboamo che governava le tribù secessioniste che dal Signore egli era stato fatto nagîd del suo popolo (1Re 14:7); lo stesso peccato di apostasia rimproverò più tardi al re di Samaria Baasa un altro profeta del nord, Jehu, ricordandogli che Dio lo aveva stabilito come nagîd del suo popolo (2Re 20:5). 1Cr 29:22 dice, alludendo all’accessione al trono di Salomone, che egli era stato unto e consacrato a Yahweh come nagîd del popolo. I passi citati attestano l’uso continuo del termine nagîd durante il periodo della monarchia israelitica per indicare i re davidici, e talvolta i re di Samaria, come gli eletti di Dio per condurre il suo popolo. Rileva giustamente Claus Schedl che, dall’elezione di Saul in poi, il titolo di nagîd sarebbe aureolato di una luce religiosa mentre melek indicherebbe l’aspetto profano del regno. “ Così - scrive testualmente - Saul sarà il nagîd, il pastore consacrato, designato e proclamato da Jahvè, e solo dal riconoscimento del popolo gli verrà il titolo regio di melek”. - Storia del Vecchio Testamento, Roma 1961, vol. II, p. 68 (vedi anche R. DE VAUX, Le Istituzioni dell’Antico Testamento, Torino 1964, p. 101). Una pagina prima C. Schedl collega la parola ebraica nagîd alla radice ugaritica noked, “pastore”, e aggiunge che con questo senso il termine si ritrova anche nell’accadico nakid. In modo significativo l’accostamento alla pastorizia del termine nagîd è fatto anche in due dei passi citati prima: 2Sm 5:2 e 7:8. Tale accostamento suggerisce che il re d’Israele fosse considerato il pastore scelto da Dio per custodire il suo gregge. In due libri post-esilici il titolo di nagîd con un’implicazione particolare è applicato all’ufficio sacerdotale. In 1Cr 9:11 e Ne 11:11 è riferito al sacerdote Ahitub il titolo di “nagîd della casa di Dio”; in 2Cr 31:13 lo stesso titolo è attribuito al sacerdote Azaria. Quest’uso particolare del termine nagîd nell’Antico Testamento ne attesta un senso speciale che si discosta dalle accezioni comuni di “principe”, “capo”, “conduttore”, “sovrintendente” che il termine ha in altri casi. Questo senso particolare mette in luce l’idea di una investitura sacra conferita da Dio a uomini scelti per svolgere un compito che al di là degli aspetti secolari e profani, aveva un alto significato religioso sottolineato dalla consacrazione mediante l’unzione (cfr. R. DE VAUX, op. cit. p. 389). Is 55:4 applica il titolo di nagîd al re Davide come tipo del Messia.

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Giudei furono la causa della catastrofe che spazzò via la loro nazione. Dice lo storico giudeo Giuseppe Flavio riferendosi a Gerusalemme assediata dai Romani: “una città che non meritava simili sofferenze se non per avere dato vita a una generazione come quella che ne causò la rovina” (Guerra Giudaica, VI 8,5). I Romani non avrebbero intrapreso di loro iniziativa in Giudea una guerra talmente dispendiosa per loro e rovinosa per il paese se i Giudei non li avessero costretti a farlo. Furono gli Zeloti fanatici e truculenti e i molti connazionali che li assecondarono la causa vera della rovina immane che si abbatté su Giuda, su Gerusalemme e sul tempio in quell’infausto anno 70 dell’Era Volgare. La guerra giudaica, di cui Giuseppe Flavio ci ha lasciato una documentazione impressionante nei sette libri dell’opera omonima, cominciò con l’insurrezione antiromana di Gerusalemme a maggio dell’anno 66, e non finì prima che tutto il paese fosse ridotto in uno stato di completa desolazione. Proprio come l’angelo rivelatore aveva predetto a Daniele. Simile a un’inondazione che tutto travolge, le legioni e le truppe ausiliarie di Roma condotte da Vespasiano prima e da suo figlio Tito poi, si riversarono nella Galilea, la Samaria e la Giudea e infine espugnarono Gerusalemme e rasero al suolo la città e il tempio373. Dn 9:27b ha un’espressione che a prima vista sembra incomprensibile: “... e sull’ala delle abominazioni (vi sarà) desolazione...” ({"mo$m : {yicUQi$ vánK: la(wº we ‘al kenaf shiqqûtzîm meshômem...). I LXX traducono questa espressione: kaì ’epì tò ’ieron bdelígma, “e sopra il tempio (vi sarà) un’abominazione di desolazione” (C. Boutflower). Questa antica versione greca del Vecchio Testamento traduce dunque “tempio” il vocabolo ebraico kanaf che ordinariamente significa “ala”. Come prima accezione secondaria di kanaf W.Genesius dà: “margine”, “estremità”. Con questo preciso significato il termine compare in diversi passi dell’Antico Testamento. In 1Sam 24:5, 12 esso è tradotto “il lembo (del mantello)”, in Nu 15:38 “angoli (delle vesti)”, in De 22:12 “canti (del mantello)”. Za 8:23 ha l’espressione kenaf ’ish yehûde, “il lembo (del mantello) di un uomo di Giuda” (vedi anche Ez 5:3 e Ag 2:12). In De 23:1, 27:20; Ez 16:8 e Ruth 3:9 kanaf indica il lembo di una coperta. L’autorevole lessicografo tedesco dà come ulteriore significato secondario di kanaf, “estremità”. Con questa accezione il vocabolo è presente nell’espressione “l’estremità o le estremità della terra” (miknaf ha’arez) in Is 24:16, Gb 37:3, 38:13, Is 11:12. Infine come terza accezione secondaria di kanaf Gesenius segnala: “la sommità più alta del tempio, Dn 9:27” e raffronta questa espressione con quella greca pterìgion tou ‘ierouí, “il pinnacolo (letteralmente ‘la piccola ala’) del tempio”, in Mt 4:5374. 373 - Nel mese di maggio dell’anno 66 E.V., a Gerusalemm,e si manifestò in aperta rivolta l’insofferenza dei Giudei verso il governo romano esasperata negli ultimi tempi dai soprusi del prepotente e corrotto procuratore Gessio Floro. 374 - Gesenius’ Hebrew - Chaldee Lexicon to the Old Testament, voce “kanaf”; cfr. B. DAVIDSON, The analytical Hebrew and Chaldee Lexicon, stessa voce; C. BOUTFLOWER, In and Around the Book of Daniel, pp. 202, 203.

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È evidente che questo vocabolo ebraico nell’Antico Testamento è anche adoperato per indicare l’estremità di un oggetto qualunque; in architettura può denotare la parte sommitale di una struttura edilizia, appunto il pinnacolo. Prima che fosse distrutto, il tempio si ergeva sulla sommità del colle di Sion quasi fosse il suo pinnacolo. Tradurre: “sopra il tempio” l’espressione ebraica ‘al kanaf, come fanno i LXX, ci sembra dunque del tutto ragionevole. È stato osservato con ragione che il Salvatore stesso avallò la correttezza di questa traduzione di kanaf allorchè avvertì i suoi discepoli: “Quando dunque avrete vedute l’abominazione della desolazione (tò bdéligma tes ’eremoseos), della quale ha parlato il profeta Daniele, posta in luogo santo (‘estòs ’en topo ‘agio) ... allora quelli che sono in Giudea fuggano ai monti” (Mt 24:15). Il “luogo santo” nominato da Gesù in questo passo è senza dubbio il santuario. “Il segno che misericordiosamente Cristo aveva indicato - commenta Boutflower - non solo si avverò in modo inequivocabile, ma lasciò a tutti quelli che gli credettero, ampio margine di tempo per fuggire come Lot dalla città condannata, poiché il tempio fu occupato dagli Zeloti e trasformato in fortezza circa tre anni prima che la città fosse per la prima volta investita dai Romani e circondata di un muro di circonvallazione”375. Per la coscienza di ogni pio giudeo la presenza permanente nei sacri cortili del tempio di una masnada di briganti senza scrupoli non poté non rappresentare un’intollerabile abominazione. Giuseppe Flavio ricorda il dolore del vecchio sacerdote Anano alla vista dell’empia profanazione del tempio occupato dagli Zeloti. Dice lo storico giudeo: “Una volta che il popolo era raccolto in assemblea e tutti erano indignati per l’occupazione del santuario, per le ruberie per le uccisioni, ma non avevano ancora intrapreso alcuna azione di resistenza perché ritenevano, e a ragione, che non sarebbe stato facile mettere a posto gli Zeloti, si levò a parlare alla folla Anano e, rivolgendo ripetutamente lo sguardo al tempio con gli occhi pieni di lacrime, così disse: ‘Come sarebbe stato bello per me morire prima di vedere la casa di Dio ricolma di tanti empi misfatti e i luoghi inaccessibili e sacri violati da piedi tanto scellerati !”376. Si consumava in quei giorni tristissimi, tra lo sgomento dei pii giudei come Anano, l’abominazione della quale aveva parlato Daniele e a cui Gesù aveva fatto riferimento (Mt 24:15), l’abominazione che era al tempo stesso preludio e causa della desolazione che incombeva sul sacro luogo e sulla santa città (“l’abominazione della desolazione”). Circa tre anni dopo, il 5 agosto dell’anno 70, i legionari di Tito occuparono la spianata del tempio; il giorno seguente il sacro edificio andò in fiamme nonostante che il generale romano avesse deciso col suo consiglio di guerra di risparmiarlo. Successivamente le milizie romane occuparono e incendiarono prima la città bassa, poi la città alta. Infine, spentesi le

375 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 203 376 - GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, IV. 3, 10.

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fiamme, per ordine di Tito i soldati spianarono i ruderi della città e del tempio. I capi della rivolta scontarono duramente le sofferenze che fecero patire al popolo. Giovanni di Ghiscala, arresosi per fame, fu dai Romani condannato al carcere a vita. Simone Bar-Ghiora si consegnò al vincitore dopo avere invano tentato la fuga; portato a Roma, subì l’esecuzione capitale durante la celebrazione del trionfo di Tito377. Dice di lui lo storico giudeo: “Così Dio, per punirlo della sua crudeltà contro i concittadini, che aveva tiranneggiato senza compassione, lo diede in balia dei nemici che più l’odiavano...”378. Fu così che il giudizio divino si abbatté sui responsabili della catastrofe che cancellò la città santa col santuario del Signore e provocò un’ecatombe fra il popolo e sofferenze inenarrabili ai sopravvissuti.Come era stato predetto, quel che era decretato si riversò infine sul desolatore (shomem).Con questa immagine cupa di desolazione e di castigo si chiude la rivelazione delle settanta settimane che ho avuto al centro la figura eccelsa del Messia-Redentore.

377 - Ibide, VII. 9,4 378 - Ibidem, VII. 2,2.

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APPENDICE 9A Dall’antichità fino ad oggi vari personaggi storici sono stati sovrapposti alla figura del danielico Dario il Medo. Già nel I secolo Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche, X. 11,4) lo identificò con Ciassàre II figlio di Astiage ultimo re dei Medi. Tentativi di dare un’identità a questo personaggio ignoto alla storia, in tempi recenti sono stati compiuti da diversi studiosi. I.B. Alfrink, seguito da altri, ha proposto di identificare Dario il Medo nominato da Daniele con Astiage ultimo re dei Medi. L’identificazione però sembra improbabile per le seguenti ragioni: a) il padre di Astiage fu Ciassàre I e non Serse (Assuero). b) Dario il Medo aveva 62 anni quando divenne re dei Caldei (Dn 5:31), Astiage, se era ancora in vita all’epoca della caduta di Babilonia, doveva essere molto più anziano avendo cominciato a regnare 50 anni prima. c) Astiage cercò di sopprimere Ciro fin dalla nascita (vedi Erodoto, I, 108); Ciro da adulto lo vinse e lo relegò in Ircania secondo alcune fonti, secondo altre lo uccise. È estremamente improbabile che lo avesse nominato re-vassallo di Babilonia. II. Vari autori moderni, fra i quali ricorderemo Hengstenberg, Rosenmuller, Hävernick, Kliefoth e Knabenbauer, propendono per l’identificazione di Dario il Medo con Ciassàre II figlio di Astiage, identificazione già proposta nel I secolo da Giuseppe Flavio in Antichità Giudaiche, come si è visto, e condivisa nel V secolo da Girolamo (Girolamo su Daniele, p. 89). In ambito avventista questa tesi ha raccolto i consensi del S.D.A. Bible Commentary (vol. IV, pp. 816-817) e più recentemente del compianto GERARD HASEL (Daniel, questions débattues, p. 33). Fra i cattolici di lingua italiana è stata caldeggiata da E. TESTA (Il Messaggio della salvezza, vol. III, p. 140). Sebbene vi siano convergenze significative fra il personaggio

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danielico e la figura storica di Ciassàre II, difficoltà non lievi ne rendono problematica l’identificazione. Il nome del padre di Ciassàre era Astiage, non Assuero, e una presenza di Ciassàre II in Babilonia come successore di Nabonide non è documentata in nessuna delle fonti babilonesi o greche conosciute. III. Il prof. D.J. Wiseman ha proposto d’identificare il Dario di Daniele con Ciro II re di Persia supponendo che Dario fosse un altro nome di Ciro e ipotizzando che la congiunzione aramaica “u” in Dn 6:28 abbia funzione esplicativa e non congiuntiva (“e”), cosa possibile secondo i grammatici. Wiseman ha letto così il passo in questione: “E questo Daniele prosperò sotto il regno di Dario, cioè di Ciro il Persiano”. Vari studiosi - fra i quali J.G. Baldwin, A.R. Millard e G. Wenham - hanno appoggiato questa tesi; essa ha tuttavia contro di sé difficoltà non minori che le tesi precedenti. Ciro aveva meno di 62 anni all’epoca della conquista di Babilonia. Daniele distingue i due personaggi notando che l’uno è persiano (6:28) e l’altro meda (5:30; 9:1; 11:1). Ciro regnò nella Persia (10:1), Dario sui Caldei (9:1). Il padre di Ciro fu Cambise I, Dario fu figlio di Assuero (9:1). IV. P.Riessler, H.Winkler, C.Boutflower ed altri hanno accostato Dario il Medo a Cambise II figlio di Ciro sulla base di una trentina di testi cuneiformi dai quali si evince che Ciro nominò suo figlio Cambise re-vassallo di Babilonia per un anno mentre lui continuò a regnare sulla Persia. Anche questo tentativo però incontra gravi difficoltà. In primo luogo non si sa in quale dei 10 anni del regno di Ciro dopo la conquista di Babilonia Cambise abbia regnato sulla città come vassallo. Secondariamente Cambise fu di stirpe persiana, non meda. Terzo Cambise fu figlio di Ciro, non di Assuero. Infine Cambise aveva meno di 62 anni nel 539 a.C. V. E.Babelon nel 1882 propose di identi-

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ficare il Dario danielico con un personaggio di nome Gubaru che secondo la Cronaca di Nabonide fu governatore di Babilonia. La tesi di Babelon fu in seguito condivisa da studiosi quali F. Delitzsch, F.W. Albright, G. Pinches e R.D. Wilson. H.H. Rowley però l’avversò perché le notizie di fonte babilonese e greca su questo personaggio sembravano contraddittorie. J.C. Whitcomb, a seguito di uno studio comparato di tutti i documenti antichi che fanno riferimento a Gubaru, dimostrò nel 1959 che dalla caduta di Babilonia (539 a.C.) fino all’anno V di Cambise II (526 a.C.) ci furono in Persia due personaggi che portarono questo nome: il governatore di Babilonia di cui si è detto sopra e il generale di Ciro e governatore del Gutium che conquistò Babilonia ricordato nella Cronaca di Nabonide anche col nome di Ugbaru e da Senofonte col nome di Gobryas (per non confonderli chiameremo da qui in avanti Gubaru il primo e Ugbaru-Gobryas o solo Ugbaru il secondo). Whitcomb mantenne l’identificazione di Dario il Medo con Gubaru governatore di Babilonia poiché sembrava che Ugbaru-Gobryas fosse vissuto troppo poco dopo la presa di Babilonia perché avesse potuto svolgere il ruolo attribuitogli da Daniele. Due circostanze rendevano però problematica questa identificazione. La prima era che Gubaru fu governatore di Babilonia, mentre Dario il Medo occupò secondo Daniele una posizione più elevata (“fu fatto re”, 9:1). La seconda era che Gubaru cominciò a governare Babilonia nell’anno IV di Ciro e rimase in carica fino all’anno V di Cambise, mentre Dario il Medo fu posto sul trono di Babilonia subito dopo la morte di Beltsasar (5:30-31) e il suo regno finì prima dell’anno III di Ciro (cfr. 9:1 e 10:1). William H. Shea, dopo uno studio accurato dei testi babilonesi, è giunto alla conclusione che Ugbaru-Gobryas governatore del Gutium e generale di Ciro risponde meglio di Gubaru governatore di Babilonia alle attribuzioni del Dario danielico. La sua argomentazione si

può così sintetizzare: 1) “Re di Babilonia” è il titolo reale dei sovrani babilonesi in tutti i documenti datati; 2) Nel periodo persiano a questo titolo venne aggiunto quello di “Re dei Paesi”; 3) Serse I abolì il titolo di “Re di Babilonia” e mantenne solo quello di “Re dei Paesi” dopo la rivolta di Babilonia repressa nel 482 a.C.; questo titolo rimase in uso fino ad Alessandro il Macedone. 4) I testi economici e amministrativi di Babilonia rivelano che Ciro, contrariamente ai suoi predecessori neo-babilonesi, non assunse il titolo di “Re di Babilonia” che 14 mesi dopo avere preso possesso della città. Nei primi 4 mesi dell’anno di accessione e per 10 mesi nell’anno seguente il titolo che gli danno questi documenti è quello di “Re dei Paesi”. Ciò può significare soltanto che Ciro, dopo la conquista della città, non assunse il titolo nè l’ufficio di re di Babilonia. La spiegazione più verosimile è che durante questi 14 mesi un re vassallo di Ciro svolgesse in Babilonia la funzione di re, o meglio di viceré. 5) Questo periodo di tempo coincide abbastanza bene con la durata del regno di Dario il Medo deducibile dalle informazioni di Daniele. Infatti il profeta menziona nel suo libro soltanto il primo anno di regno di Dario (9:1 e 11:1) e ci lascia supporre che nell’anno terzo di Ciro egli fosse scomparso dalla scena (10:1). Questa tesi tuttavia è resa problematica dalla circostanza segnalata sopra che Ugbaru non sarebbe vissuto abbastanza da poter gestire gli affari di governo in Babilonia come presuppone il racconto di Daniele. La Cronaca di Nabonide informa che Babilonia cadde in potere dei Persiani il 16 di Tishratu e che Ciro vi entrò da trionfatore 17 giorni dopo, il 3 di Arashamnu. Poi riferisce che fra i mesi di Kislimu e Addaru furono riportate nelle loro sedi le immagini degli dèi. Subito dopo segnala la morte di Gubaru (Ugbaru) l’11 di Arashamnu. Per facilitare la

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comprensione della sequenza degli avvenimenti in questa parte della Cronaca (III colonna), riportiamo sotto la successione consecutiva dei mesi dell’anno secondo il calendario babilonese con l’indicazione degli eventi ai quali si è accennato sopra. Se le notizie della Cronaca si susseguono nell’ordine cronologico consecutivo, la

morte di Ugbaru avvenne dopo i fatti menzionati a monte, vale a dire la conquista di Babilonia il 16 di Tishratu, l’entrata di Ciro nella città il 3 di Arashamnu e il trasferimento degli déi nelle sedi loro pertinenti fra i mesi di Kislimu e Addaru. Se invece si dà un’interpretazione retrospettiva alla menzione dell’ottavo mese dopo il dodicesimo (cosa che appare

anni a.C.

mesi calendario GIULIANO

1 2 3 4 5 6 7

(marzo/aprile) (aprile/maggio) (maggio/giugno) (giugno/luglio) (luglio/agosto) (agosto/settembre) (settembre/ottobre)

8 9 10

(ottobre/novembre) ARASHAMNU (novembre/dicembre) KISLIMU (dicembre/gennaio) TEBBETU

11 12 1

(gennaio/febbraio) (febbraio/marzo) (marzo/aprile)

SHABBATU ADDARU NISANU

2 3 4 5 6 7 8 9 10

(aprile/maggio) (maggio/giugno) (giugno/luglio) (luglio/agosto) (agosto/settembre) (settembre/ottobre) (ottobre/novembre) (novembre/dicembre) (dicembre/gennaio)

AIRARU SIMANU DUMUZU ABU ULULU TISHRATU ARASHAMNU KISLIMU TEBBETU

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mesi calendario Notizie della Cronaca di Nabonide BABILONESE NISANU AIRARU SIMANU DUMUZU ABU ULULU TISHRATU

16° giorno: Babilonia cade nelle mani dei Persiani 3° giorno: Ciro entra in Babilonia le immagini delle divinità sono riportate nelle loro sedi abituali

11° giorno di ARASHAMNU (verosimilmente dell’anno successivo): muore Ugbaru.

Ciro assume il titolo reale di “Re di Babilonia” accanto a quello di “Re dei Paesi” (testi amministrativi)

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poco verosimile), allora Ugbaru sarebbe morto tre settimane dopo la conquista persiana di Babilonia. William H. Shea, autore dello studio al quale facciamo riferimento in queste pagine, sostiene l’ordine consecutivo delle notizie riportate nella III colonna della Cronaca di Nabonide, avendo dimostrato, come diremo subito, che questo fu il criterio seguito abitualmente dai cronisti babilonesi fin dall’VIII secolo a.C. Il prof. Shea ha proceduto ad un esame accurato di tutti gli avvenimenti datati dall’epoca di Nabonassar (VIII secolo a.C.) fino al tempo della Cronaca. In questo modo ha scoperto che su 318 avvenimenti datati riportati nei testi presi in esame, 313 si susseguono nell’ordine cronologico consecutivo. Lo studioso ha giustamente concluso che i 313 casi di datazione consecutiva degli avvenimenti debbono riflettere la regola, mentre i 5 casi anomali debbono rappresentare una deroga della regola (in un altro studio Shea ha fornito la spiegazione di tale deroga). È parso legittimo a questo ricercatore applicare la regola alla successione dei fatti riportati nella III colonna della Cronaca di Nabonide. Altre circostanze aggiungono peso alla tesi della identificazione del Dario di Daniele con Ugbaru generale di Ciro e conquistatore di Babilonia. Per esempio il fatto stesso che il suo nome figura nella Cronaca; questo fatto lo fa annoverare fra i personaggi di rango regale. In 10 testi amministrativi - osserva Shea - 58 re sono nominati 177 volte, mentre le cronache registrano 7 nomi di personaggi non di rango reale, oltre ai nomi dei sovrani. Un’altra circostanza significativa è la menzione della data del decesso di Ugbaru. Nelle cronache, su 22 personaggi di cui si dà la data della morte, 20 erano re o regine e 2 soltanto non rivestivano dignità regale. La deduzione più significativa che ha tratto Shea dal confronto dei testi amministrativi con la Cronaca di Nabonide è che il cam-

biamento del titolo reale di Ciro dal 14° mese dopo la caduta di Babilonia debba porsi in relazione con un avvenimento importante riportato nella Cronaca stessa, cioè con la morte di Ugbaru. Se gli avvenimenti registrati in questo documento lo sono nell’ordine cronologico consecutivo, il titolo reale di “Re di Babilonia” fu aggiunto al titolo corrente di Ciro, “Re dei Paesi”, circa 6 settimane dopo la morte del conquistatore di Babilonia. Sembra logico dedurne che Ugbaru debba avere svolto la funzione di “re” o vicerè di Babilonia fino al momento della sua scomparsa. Concludendo il suo studio il prof. Shea segnala 6 maggiori linee di convergenze fra il personaggio danielico e l’ex governatore del Gutium. 1) Ugbaru comandò le truppe medo-persiane che si impadronirono di Babilonia; Dn 5:31 sembra presupporre lo stesso ruolo per Dario il Medo. 2) Secondo la Cronaca di Nabonide Ugbaru costituì dei governatori sulla provincia di Babilonia. Dario il Medo fece la stessa cosa secondo 6:1-2. 3) Ugbaru scomparve poco più di un anno dopo la conquista persiana di Babilonia, il che può far supporre che egli non fosse giovane. Dario il Medo, secondo 5:31 aveva 62 anni quando “fu fatto” re di Babilonia. 4) Combinando la cronologia della Cronaca di Nabonide con quella dell’assunzione dei titoli reali nei testi amministrativi, si deduce che Ugbaru morì 14 mesi circa dopo la caduta di Babilonia. Daniele, come già ricordato, cita solo il primo anno di regno di Dario il Medo (9:1; 11:1) e in 10:1 menziona l’anno terzo di Ciro. La spiegazione più naturale è che Dario fosse scomparso prima dell’anno terzo di Ciro. 5) La distinzione che fa Daniele fra i regni di Ciro e di Dario il Medo corrisponde bene alla situazione che descrivono i testi cuneiformi babilonesi. Il titolo di “Re di Persia” che Daniele dà a Ciro in 10:1 concorda col ti-

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tolo di “Re dei Paesi” che gli attribuiscono i testi amministrativi, e la notizia che Dario il Medo regnò sul “regno dei Caldei” riportata in 9:1, coincide con la notizia della Cronaca secondo la quale Ciro cominciò a portare il titolo di “Re di Babilonia” dopo la morte di Ugbaru. 6) La condizione di vassallo di Ugbaru concorda bene con l’informazione di 9:1 secondo la quale Dario “fu fatto re”. Le fonti cuneiformi e classiche tacciono sulla famiglia di Ugbaru, cosicchè non abbiamo modo di sapere se il padre di costui si chiamasse Assuero o altro. Ugbaru, secondo la Cronaca, prima di conquistare Babilonia fu governatore del Gutium. Era, questa, una provincia del regno di Ciro che confinava con la Media. Secondo il prof. R.D.Wilson, citato da H.C.Leupold, il Gutium “era una contrada di estensione indefinita che probabilmente abbracciava tutto il territorio tra Babilonia da una parte e le montagne dell’Armenia a nordest dall’altra, e forse anche il paese al di là dei monti Zagros che aveva Ecbatana per capitale”. L’identificazione di Dario il Medo con Ugbaru ha un aspetto problematico nella diversità del nome. Non è però questa una difficoltà insormontabile. Giuseppe Flavio in Antichità Giudaiche, X. 11,4 asserisce che il Dario di Daniele “era chiamato dai Greci con un altro nome”. Abbiamo notizie su regnanti dell’Antico Oriente che adottarono un secondo nome all’atto di assumere le prerogative reali, il cosiddetto “nome del trono”. Il re assiro Tiglat-Pileser III (745-727 a.C.), per esempio, assunse il nuovo nome di Pulu quando cinse la corona di Babilonia (vedi E.CASSIN - J. BOTTERO - J. VERCOUTTER, Gl’imperi dell’Antico Oriente, Storia Universale Feltrinelli, vol. 4, p. 54). Anche la Bibbia conosce il doppio nome di questo sovrano (cfr. 1Re 15:19, 29; 1Cr 5:26). Suo figlio Salmanassar V (727-722 a.C.) pure adottò un secondo nome, Ululaya,

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come re di Babilonia (op. cit., p. 47). I testi amministrativi di Borsippa del periodo persiano menzionano un re di nome Akshimaksu sconosciuto alle altre fonti storiche. Si è scoperto che questo nome era una variante del nome del noto re persiano Serse I (Xsayarsan nel persiano antico). Dario potrebbe essere il “nome del trono” del personaggio che assunse il trono di Babilonia dopo la morte di Beltsasar. Per informazioni più ampie intorno alla problematicità della figura di Dario il Medo vedi WILLIAM H. SHEA, “Darius le Mède et Daniel son Gouverneur” in Daniel question dèbattues a cura di P. WINANDY, Sèminaire Adventiste Collonges-sous-Salève 1980, p. 91ss.

APPENDICE 9B Oggi un buon numero di studiosi dell’Antico Testamento, aderendo ad un’ipotesi proposta dal belga ALBIN VAN HOONACKER nel 1890, antepone cronologicamente Nehemia a Esdra, contrariamente all’ordine biblico. Tale inversione è stata giustificata in base ad una serie di illazioni tratte dai libri di Esdra e Nehemia, alle quali sono state opposte parallele controdeduzioni. Vediamo. 1) Si è osservato che Nehemia sembra avere una scarsa conoscenza di Esdra. In effetti Esdra è assente nel libro di Nehemia fino a tutto il cap. 7. Ciò però si spiega se si ammette che vi sia stato un calo di popolarità del sacerdote-scriba dopo la riforma sui matrimoni misti (Ed c. 10) la quale, se riscosse ampia adesione fra il popolo, ebbe anche degli oppositori (Ed 10:15). Il rinvio delle donne straniere (Ed 10:10-12) sicuramente scombinò parecchi nuclei familiari (v. 44) ed è anche verosimile che provocasse attriti e tensioni con le popolazioni circostanti. Con l’arrivo di Nehemia Esdra può avere pensato che fosse saggio mettersi in disparte per lasciare al nuovo arrivato il compito di pro-

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seguire le riforme. Una volta portata a termine la ricostruzione del muro di cinta (Ne 6:15), Nehemia deve aver pensato che fosse giunto per Esdra il momento di uscire dall’ombra e riprendere la posizione che gli competeva nella vita nazionale. Sta di fatto che alla solenne dedicazione del muro appena ricostruito, Esdra condusse una delle due processioni corali che presero parte alla cerimonia (l’altra era condotta da Nehemia: Ne 12:36,38). Esdra comparve ancora come leader religioso di punta poco tempo dopo quando fu celebrata la Festa delle Capanne (Ne 8:1-6). 2) Si è dedotto che Nehemia non fosse al corrente del rimpatrio avvenuto con Esdra, perché nel promuovere il censimento della popolazione si valse delle liste genealogiche del primo rimpatrio. I reduci da Babilonia al tempo di Esdra furono molto meno numerosi di quelli che erano tornati 80 anni prima con Giosuè e Zorobabele (5 o 6.000 contro 50.000: cfr. Ed 8:3-20 con 2:64-65). Dovendosi procedere ad un nuovo censimento sembra naturale che si prendesse per base un registro demografico con un numero cospicuo di famiglie censite a preferenza di uno con un numero esiguo. Del resto l’espressione “quelli ch’eran tornati dall’esilio la prima volta” in Ne 7:5 presuppone che vi sia stato un secondo rimpatrio dopo quello di Zorobabele, e questo non poteva essere che quello di Esdra (Ed 7 e 8), visto che né Esdra né Nehemia accennano ad altri rimpatri oltre a questi due. Il rimpatrio di Nehemia nel 444 a.C. fu solitario (Ne 2:9-11). Dunque l’arrivo di Nehemia a Gerusalemme nel 444 a.C. fu preceduto e non seguito da quello di Esdra. 3) Si è voluto dedurre da Ed 8:33 che questo personaggio, arrivato a Gerusalemme, trovasse quivi una commissione di tesorieri del tempio che sarebbe stata istituita da Nehemia. Ed 8:33 documenta un fatto contingente. Dopo che la carovana condotta da Esdra fu giunta a Gerusalemme, i sacerdoti e

i leviti che prima della partenza avevano ricevuto in consegna i preziosi offerti per il tempio dal re di Persia, dai suoi ministri e dai giudei rimasti in Babilonia (Ed 8:24-29), consegnarono i detti preziosi al sacerdote Meremoth che li ricevette dalle loro mani in presenza di un secondo sacerdote e di due leviti (Ed 8:33). In questo passo non si dice che i sacerdoti e i leviti che ricevettero in custodia l’oro e l’argento per il tempio costituissero una commissione preesistente né, tanto meno, che essa fosse stata insediata da Nehemia. Fra il primo e il secondo governatorato di Nehemia (Ne 13:6) era accaduto che il personale del culto aveva abbandonato il tempio per procacciarsi i mezzi di sostentamento, giacché le decime non erano più state portate (Ne 13:6-7, 10). Nehemia ripristinò i servizi del tempio e il principio sacro della decima, e affidò a un sacerdote e a uno scriba coadiuvati da altre due persone l’incarico di sovrintendere all’ammasso nei magazzini del tempio delle derrate portate come decime e alla loro distribuzione al personale sacro (Ne 13: 11-13). Non si dice però se questa commissione di amministratori delle decime fosse permanente né se essa avesse anche l’incarico di custodire il tesoro del tempio. 4) Si è creduto di cogliere in Ed 9:9 la prova che il muro di cinta di Gerusalemme fosse già stato costruito quando il sacerdote Esdra arrivò a Gerusalemme. Sappiamo che appena giunto da Babilonia, Esdra dovette confrontarsi con un problema religioso dai complessi risvolti sociali, il problema dei matrimoni misti (Ed 9:1-2). Egli pensò di risolverlo in modo radicale. Prima però volle avere un convegno penitenziale coi notabili (Ed 9: 34). Confessando in preghiera la colpa del popolo il pio uomo di Dio riconobbe che nonostante tutte le infedeltà remote e recenti Dio non aveva abbandonato i deportati, anzi aveva fatto volgere in loro favore la benevolenza dei re di Persia per tornare in vita come popolo, per riedificare il tempio del loro Dio,

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per concedere ad essi un muro sicuro “in Giudea e in Gerusalemme” (Ed 9:9). Non si può concludere perentoriamente da questo passo che il “muro” per il quale Esdra fu riconoscente a Dio fosse già ricostruito; egli aveva in mano un decreto del re che lo autorizzava a ricostruire la città, come si vedrà più avanti, e può essere stato per questo che il sacerdotescriba espresse gratitudine verso Dio. Ad ogni modo l’ebraico gader, “muro”, nelle versioni è generalmente tradotto “ricovero”, “riparo”, “rifugio”, “asilo sicuro”, il chè sembra essere legittimato dalla menzione di Giuda accanto a Gerusalemme in rapporto al gader: non è immaginabile un territorio di Giuda circondato da un muro di cinta ! Come hanno inteso molti traduttori, gader può avere qui un senso figurato e non letterale. 5) I fautori dell’inversione cronologica tra Esdra e Nehemia fanno notare: a) che il sacerdote Johanan, figlio di Eliashib, aveva una stanza nel tempio quando Esdra giunse a Gerusalemme (Ed 10:6); b) che suo padre Eliashib fu sommo sacerdote 13 anni dopo, al tempo di Nehemia (Ne 3:1, 20; 13:4,7); c) che Johanan è ricordato come sommo sacerdote in una lettera di Elefantina del 410 a.C. Da tutto questo si è dedotto che Johanan menzionato in Ed 10:6, e lo stesso Esdra, debbono collocarsi cronologicamente fra il tempo del sommo sacerdozio di Eliashib padre di Johanan, sotto Nehemia, e l’epoca in cui lo stesso Johanan esercitò il sommo sacerdozio attestato nel documento di Elefantina. Posto che non ci sono motivi per dubitare che i due Johanan menzionati in Esdra e nel papiro di Elefantina siano la stessa persona, c’è da aggiungere che questa circostanza non obbliga a ritardare l’arrivo di Esdra a Gerusalemme rispetto alla data tradizionale. Se Johanan era un giovane sacerdote sui trent’anni quando Esdra giunse a Gerusalemme nel 457 a.C. e divenne sommo sacerdote alla morte del padre Eliashib in un anno imprecisato della seconda metà del V secolo

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a.C., poté essere ancora in vita e in carica 47 anni dopo il 457 a.C., avendo un’età fra i 70 e gli 80 anni. Non c’è motivo per ritenere che in quest’epoca il sommo sacerdozio non fosse più un incarico a vita (vedi Nu 20:28; De 20:6). I sommi sacerdoti, se vivevano a lungo, arrivavano alla fine del loro incarico con un’età molto avanzata. Aaronne fu sommo sacerdote fino ai 123 anni (Nu 33:39), Eli fino ai 98 (1Sm 4:15) e Jehoiada fino ai 130 (2Cr 24:14-15). È curioso, ma gli studiosi che antepongono Nehemia ad Esdra incappano nella stessa difficoltà che tentano di risolvere con questa inversione cronologica. Ed 8:33 dice che il personaggio con questo nome rimise nelle mani del sacerdote Meremoth figlio di Uria i preziosi per il tempio portati da Babilonia. Questo Meremoth figlio di Uria è ricordato in Ne 3:4 e 21 fra i costruttori del muro di cinta di Gerusalemme. Ora, se Esdra fosse giunto a Gerusalemme nell’anno 7° di Artaserse II, cioè nel 397 a.C., posto che nel tempo della ricostruzione del muro della città Meremoth avesse avuto una trentina di anni, ne avrebbe avuti più di 70 quando ricevette dai reduci di Babilonia l’oro e l’argento per il tempio. Cosa non impossibile, solo che a questo personaggio sarebbe giocoforza assegnare un’età che è ritenuta inammissibile per Johanan! Ma c’è una contraddizione ancora più grave. Se si ammette che il sacerdote e scriba Esdra rimpatriasse da Babilonia l’anno 7° di Artaserse II (397 a.C.), allora resta un enigma senza soluzione la sua presenza in Gerusalemme 47 anni prima per la dedicazione del muro di cinta (Ne 12:13) e la Festa delle Capanne (Ne 8:1-6). Di fronte a queste difficoltà insormontabili alcuni studiosi hanno creduto di dover cancellare il nome di Esdra dal libro di Nehemia (qualcuno ha pensato addirittura di doverlo cancellare dalla storia !). Altri meno radi-

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cali hanno ritenuto di dovere trasformare in 37° l’anno 7° di Artaserse I per fare comunque arrivare Esdra a Gerusalemme dopo Nehemia, nel 427 a.C. anziché nel 457 a.C. (una critica sensata sulla cronologia invertita di Esdra-Nehemia - alla quale in parte si richiamano le note che precedono - si trova nel III volume del S.D.A. Bible Commentary, pp. 370-374). Vari studiosi moderni si sono mostrati propensi a riconoscere come più verosimile l’ordine cronologico Esdra-Nehemia che quello contrario, o quanto meno ad ammettere come più probabile l’identificazione dell’Artaserse di Esdra 7 con Artaserse I Longimane. Martin Noth, per esempio, ritiene probabile che l’Artaserse di Esdra sia Artaserse I Longimane e non Artaserse II Mnemone, e stima molto verosimile, anche se non del tutto sicura, l’attribuzione di Esdra a questo Artaserse I (Storia d’Israele, Brescia 1975, p. 390). SIEGFRIED HERRMANN scrive che “considerato lo stato globale di questi testi (Esdra e Nehemia) si può anche dire... che il corso degli eventi nella forma attuale in cui si presentano è in linea di principio giusta, che cioè l’attività di Esdra e Nehemia non sono state un puro e chiaro succedersi dell’una all’altra, ma che molto probabilmente si sono incrociate. In questo senso già Alt ammise che Esdra con tutta probabilità non ha raggiunto i suoi scopi subito con i suoi primi provvedimenti”. - Storia d’Israele, Brescia 1977, p. 409. Anche MARTIN METZGER è del parere che non sia necessario far precedere Esdra da Nehemia. Egli scrive: “Il fatto che Nehemia abbia dovuto prendere provvedimenti anche in campo cultuale ha fatto supporre che la sua missione sia avvenuta anteriormente a quella di Esdra (...). Questa argomentazione non è tuttavia del tutto convincente; si può pensare, infatti, che anche dopo la riorganizzazione del culto da parte di Esdra non tutti gli inconvenienti in questo campo fossero stati elimi-

nati”. - Breve storia d’Israele, Brescia 1985, p. 176. Sulla scorta delle informazioni sia pure frammentarie reperibili nei libri di Esdra e Nehemia è possibile ricostruire il corso degli eventi di quest’epoca secondo l’ordine cronologico biblico (Esdra prima di Nehemia) nell’assoluto rispetto dell’integrità del testo. Ed 6:14 dice che i Giudei finirono i loro lavori di ricostruzione (in Gerusalemme) “secondo il comandamento dell’Iddio d’Israele e secondo gli ordini di Ciro, di Dario e di Artaserse re di Persia”. I lavori condotti a termine in Gerusalemme col consenso di Ciro e di Dario si riferiscono senza dubbio alla ricostruzione del tempio autorizzata da Ciro (Ed 1:24) e conclusa nell’anno sesto di Dario (Ed 6:15). Ma quali furono i lavori intrapresi col consenso di Artaserse? I libri di Esdra e di Nehemia hanno due soli riferimenti a lavori di ricostruzione condotti in Gerusalemme durante il regno di Artaserse: 1) la ricostruzione del muro cittadino nell’anno ventesimo (444 a.C.) sotto la direzione di Nehemia (Ne 2:1; 5:15); 2) un principio di ricostruzione della città e del muro (Ed 4:12) in un anno imprecisato del regno di Artaserse (sicuramente l’Artaserse primo, giacchè quando cominciò a regnare il secondo nel 405/04 a.C. il muro era ricostruito da 40 anni). Secondo Ed 4:7-12 i Samaritani informarono il re Artaserse che i Giudei riedificavano la “città ribelle”, ne rialzavano le mura e ne restauravano le fondamenta. Tutto questo, come si è notato in altro luogo, non poteva essere fatto senza un ordine espresso del re. “Quando a Gerusalemme si doveva fare qualcosa - scrive Siegfried Herrmann - allora evidentemente i circoli locali non erano in grado di fare: la spinta doveva venire dall’esterno, c’era bisogno di autorizzazioni; c’era bisogno di interposte persone, personalità energiche che sapessero introdurre conoscenze e relazioni per persuadere le autorità e ricevere documenti, senza i quali non si faceva nulla an-

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che allora” (op. cit., p. 413). L’ordine di riedificare la città e rialzarne il muro di cinta fu concesso a Esdra da Artaserse I Longimane l’anno settimo del suo regno. In quell’anno il sacerdote Esdra ricevette dal re il permesso di rimpatriare con “alcuni figli d’Israele, dei sacerdoti, dei Leviti, dei cantori, dei portinai e dei Netinei” (Ed 7:7). La carovana lasciò Babilonia il 1° giorno del 1° mese (Nisan) e arrivò a Gerusalemme il 1° giorno del 5° mese (Elul): Ed 4:9. Lungo il tragitto attraverso la vasta satrapia transeufratica i conduttori della carovana esibirono alle autorità persiane locali “i decreti del re” (Ed 8: 36). Il testo del decreto di Artaserse I, che Esdra aveva con sè, ci è stato conservato nella originale lingua aramaica in Ed 7:12-26 (è comprovato che l’aramaico fu la lingua ufficiale della cancelleria reale persiana). Questo editto in primo luogo autorizzava il capo-carovana a raccogliere tra i connazionali rimasti in Babilonia dei donativi per il tempio di Gerusalemme (Ed 4:16), oltre a quelli offerti dal re e dai suoi ministri (v. 15). Inoltre ordinava ai tesorieri delle province percorse dai reduci di fornire loro tutto il necessario per proseguire il viaggio verso Gerusalemme (Ed 4:21). Infine decretava l’esenzione dalle imposte per tutto il personale del tempio (v. 24). Ma la concessione più sorprendente riguardava l’istituzione di un ordinamento giudiziario autonomo per l’amministrazione della giustizia secondo il diritto nazionale, cioè secondo la legge di Mosè. Con questi privilegi in ambito amministrativo e giudiziario Giuda poteva considerarsi ormai quasi un piccolo stato dentro l’impero persiano. Non è azzardato postulare che come coronamento di siffatte larghe concessioni, mai fatte prima d’allora dai re di Persia alla comunità dei rimpatriati, Artaserse autorizzasse la ricostruzione materiale della città. Sta di

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fatto, come già accennato, che la riedificazione della città e delle sue mura fu intrapresa dai reduci dall’esilio in un momento non specificato del regno di Artaserse I, ma dovette essere interrotta dietro ordine espresso del re (Ed 4:23) allarmato per le gravi accuse mosse ai costruttori dal governatore di Samaria e dai suoi colleghi (Ed 4:1216). Con una lettera ai funzionari governativi di Samaria Artaserse ordinò l’interruzione dei lavori lasciando tuttavia aperta la possibilità di una ripresa (Ed 4:21). Una crisi politica a metà del secolo V a.C. suggerisce un motivo plausibile per spiegare la revoca da parte di Artaserse dell’autorizzazione di ricostruire Gerusalemme. Intorno al 450 a.C. la stabilità dell’impero fu messa in pericolo dalla rivolta di Megabizo, il potente satrapo della provincia transeufratica di cui faceva parte la Giudea. In questo clima politico s’inquadra bene la misura adottata dal sovrano persiano nei confronti di Gerusalemme, questa città che nel passato si era fatta notare per la sua indocilità (Ed 4:19). Gli zelanti funzionari samaritani, interpretando a modo loro il decreto reale, probabilmente distrussero quanto era stato ricostruito. Sta di fatto che alcuni anni dopo Nehemia trovò Gerusalemme distrutta, le sue porte bruciate e le mura tutte da ricostruire (Ne 2:17). Gli anni di regno di Artaserse I sono stati fissati in modo sicuro grazie ai testi amministrativi di Babilonia e a 14 papiri di Elefantina datati secondo il calendario civile giudaico post-esilico (con l’inizio dell’anno in autunno) e in base al calendario solare egiziano. L’anno settimo di Artaserse I Longimane si è così potuto calcolare con precisione scientifica (vedi SIEGFRIED H.HORN E LYNN H. WOOD, The Chronology of Ezra 7, Washington D.C., 1953). Si deve considerare che gli anni storici avanti Cristo si calcolano in base al calenda-

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Gennaio CALENDARIO 465 a.C. GIULIANO Nisan COMPUTO PERSIANO

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Nisan

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Gen.

Gen.

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Nisan

Nisan

Nisan

Nisan

Nisan

Nisan

2° anno

acc. 1° anno Tishri

Gen.

Nisan

acc. 1° anno

COMPUTO GIUDAICO

Gen.

3° anno

2° anno

Tishri

4° anno

3° anno

Tishri

Accessione al trono di Artaserse I Dicembre 465 a.C.

5° anno

4° anno

Tishri

6° anno

5° anno

Tishri

7° anno

6° anno

Tishri

8° anno

7° anno

Tishri

Tishri

Partenza di Esdra da Babilonia Arrivo di Esdra Luglio 457 a.C. a Gerusalemme Marzo 457 a.C.

Da S.D.A. Bible Commentary, vol. III, p. 104.

rio solare giuliano con l’inizio dell’anno il 1° gennaio, e che i calendari lunari persiano e giudaico post-esilici facevano decorrere l’anno rispettivamente dalla primavera e dall’autunno. Il regno di Artaserse I cominciò il 17 dicembre del 465 a.C. L’anno settimo cadde tra il 458 e il 457. Il 1° di Nisan, data della partenza di Esdra da Babilonia, coincise con la fine di marzo del 457, e il 1° di ’Ab, data dell’arrivo della carovana a Gerusalemme, con la fine di luglio (vedi diagramma sopra). Che il calendario in uso tra i Giudei del dopo-Esilio fosse un calendario con l’inizio dell’anno in autunno, si ricava dai primi due capitoli del libro di Nehemia. Al servizio del re

Artaserse I a Susa, Nehemia, nel mese di Kisleu dell’anno ventesimo del re, fu informato da alcuni giudei giunti da Gerusalemme sullo stato miserevole dei reduci dall’esilio (Ne 1:14). Nel mese di Nisan dello stesso anno Nehemia domandò e ottenne dal re Artaserse il permesso di recarsi a Gerusalemme e, con un’autorizzazione scritta, di rialzarne le mura e ricostruirne le porte (Ne 2:1-8). Considerato che le cattive notizie dalla madrepatria giunsero il nono mese (Kisleu) e che Nehemia partì da Susa il primo mese (Nisan) dello stesso anno, si deve concludere che in questi due capitoli del libro le date sono riferite ad un calendario con l’inizio dell’anno in autunno (vedi grafico nella pagina seguente).

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CALENDARIO RELIGIOSO GIUDAICO CALENDARIO CIVILE GIUDAICO IN USO PRIMA DELL’ESILIO

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

NISAN (marzo - aprile) IYYAR SIVAN TAMMUZ ’AB ELUL TISHRI MARCHESHVAN KISLEU TEBET SHEBAT ADAR

IN USO DOPO L’ESILIO (è mantenuta la numerazione dei mesi Calendario Religioso)

Anno 20° di Artaserse I in Ne 1:1-4 e 2:1-8

7. 8.

TISHRI MARCHESHVAN

9. 10. 11. 12.

KISLEU TEBET (Ne 1:1-4) SHEBAT ADAR

1. 2. 3. 4. 5. 6.

NISAN IYYAR SIVAN TAMMUZ ’AB ELUL

(Nehemia riceve cattive notizie)

(Nehemia parte da Susa - Ne 2:1-8)

APPENDICE 9C Si conoscono date avanti Cristo certe fino al mese e al giorno, ma incredibilmente si ignora l’anno della natività di Gesù. Ciò dipende dal fatto che gli scrittori del Nuovo Testamento, e in particolare gli autori dei vangeli, si interessarono assai meno della cronologia che delle vicende della vita di Gesù Cristo e dei contenuti della sua predicazione. Così, paradossalmente, l’Evento che divide in due la Storia non ha un inizio storico accertato. L’idea di numerare gli anni dalla nascita di Cristo venne a un monaco nella prima metà del VI secolo. Fino a quest’epoca la mancanza di un criterio uniforme di datazione

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per fissare le ricorrenze religiose aveva creato problemi alla Chiesa. Il monaco scita Dionigi il Piccolo ideò una tabella per fissare le date della Pasqua contando gli anni dalla natività di Gesù Cristo. Valendosi delle informazioni disponibili al suo tempo, il religioso orientale calcolò che questo evento aveva avuto luogo nell’anno 754 ab Urbe condita, cioè dalla fondazione di Roma. Presso i Romani la data più accreditata della fondazione della loro città, calcolata dall’erudito latino Marco Terenzio Varrone nel I secolo a.C., corrispondeva appunto a quello che oggi è per noi il 753 a.C. Dionigi fece decorrere la sua nuova scala cronologica dall’Anno Domini Nostri 532, ovverosia dal 532° anno dalla natività del Signore. Soltanto

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dopo vari secoli l’Era Cristiana come scala cronologica per datare gli eventi storici divenne di uso generale nel mondo cristiano. Oggi sappiamo che l’anno da cui comincia l’Era Cristiana (o Era Volgare) ha soltanto un valore convenzionale come data della natività di Cristo, giacché questo evento accadde prima dell’anno 754 di Roma. Dionigi il Piccolo aveva inavvertitamente calcolato con un errore di alcuni anni la data della Natività. Il margine approssimativo è stato valutato in tempi relativamente recenti grazie al calcolo astronomico. Lo storico giudeo Giuseppe Flavio informa in Antichità Giudaiche (XVII. 6.4,5) che un’eclisse di luna si produsse pochi giorni prima della morte di erode il Grande. Gli astronomi moderni hanno calcolato che quell’eclisse ebbe luogo la notte del 13 marzo dell’anno 750 di Roma corrispondente al 4 a.C. (cfr. G. RICCIOTTI, Storia d’Israele, vol. II, p. 415). E poiché Erode era ancora in vita quando Gesù nacque a Betlemme (Vedi Mt 2:3, 13-16), è evidente che la Natività avvenne prima del 4 a.C., probabilmente nell’anno 5 o nell’anno 6 (qualche cronologo ha proposto l’anno 7 o l’anno 8). Alcuni eventi concomitanti con la nascita di Gesù Cristo ricordati nei vangeli sono di scarsa utilità per fissare la data della nascita di Cristo. Uno di tali eventi è il censimento ordinato da Quirinio, governatore della Siria, di cui dà notizia Luca (Lc 2:2). Due iscrizioni che nominano Quirinio sembrano alludere ad un censimento sotto il suo governatorato avvenuto il 4 o il 6 a.C., ma l’interpretazione di dette iscrizioni è incerta (cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. V, p. 241). Né si può prendere in considerazione la “stella” dei magi come un reale fenomeno astronomico. L’astro misterioso guidò i sapienti orientali fino a Gerusalemme, poi si mosse nel cielo in direzione sud e infine si fermò sopra “il luogo dov’era il fanciullino” (Mt 2:1-2, 9). Gli strani spostamenti della “stella dei Magi” nella volta celeste non corrispondono a quelli di un

corpo celeste reale. L’unica spiegazione plausibile del fenomeno rimane quella che esso sia stato un evento soprannaturale (cfr. E.G. WHITE, The Desire of Ages, p. 60, nell’edizione italiana - La speranza dell’uomo – p. 33). Come per la natività del Signore, così per altri eventi della sua vita è impossibile fissare una data certa sulla base di circostanze concomitanti ricordate nei Vangeli. I riferimenti di Luca al mandato di un funzionario pubblico romano ed ai tetrarcati di tre piccoli sovrani palestinesi, e più ancora il riferimento all’anno 15° di Tiberio (Lc 3:1-3), parrebbero elementi validi per fissare l’inizio del ministero di Giovanni Battista e quindi della missione pubblica di Gesù. Purtroppo non è così. Il mandato pubblico ed i tetrarcati su accennati si possono porre fra il 26 e il 34 (vedi articolo “Chronology” in S.D.A. Bible Dictionary, vol.V, p. 202), un arco di tempo troppo esteso perché si possa fissare al suo interno una data con margine di incertezza accettabile. La menzione dell’anno 15° di Tiberio è anch’essa di relativa utilità perché non è noto in base a quale criterio Luca calcolasse gli anni del principato di questo imperatore, né si conoscono fonti giudaiche sugli anni dei principati romani per fare un confronto. Nelle province orientali dell’Impero gli eventi si datavano abitualmente in base ad anni di regno, ma in modo diverso da provincia a provincia secondo che nel computo si calcolasse oppure no l’anno di accssione; in più l’inizio dell’anno cadeva in primavera in alcune regioni e in autunno in altre. A Roma gli eventi si datavano in base agli anni di consolato o di tribunato, perciò la cronologia romana, di solito accurata, non serve per datare in anni dell’Era Volgare l’anno 15° di Tiberio secondo Luca. In ogni modo se Luca, come sembra assai probabile, adottò il computo degli anni di regno che in quel tempo era d’uso corrente nel Vicino Oriente, egli dovette contare come anno primo l’anno di calendario nel quale Ti-

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CAPITOLO 9

berio cominciò a regnare. In tal caso l’anno 15° del principato di Tiberio, calibrato sul calendario civile giudaico, fu il 27/28 E.V. cominciato nell’autunno. È l’ipotesi che oggi gode di maggior credito fra gli studiosi (vedi GIULIO FIRPO, Il problema cronologico della nascita di Gesù, Brescia 1983, p. 84). Si deve convenire che “la data del battesimo che meglio conviene ai dati cronologici della narrazione biblica sulla vita di Cristo, e in particolare sulla durata del suo ministerio e sulla sua crocifissione (...) è l’autunno del 27 A.D.”. (S.D.A. Bible Dictionary, art. cit.). Le stesse incertezze che regnano riguardo alle date della nascita e del battesimo di Cristo, sussistono sulla data della sua crocifissione. La scelta di un anno in cui la Pasqua cadde di Venerdì è alquanto aleatoria. L’inizio del mese nella Giudea veniva fissato di volta in volta in base alla comparsa della sottile falce lunare a ponente dopo il tramonto del sole, e questo evento astronomico apprezzabile a vista se le condizioni atmosferiche sono favorevoli, si produce regolarmente 24 ore dopo la luna nuova. In condizioni di osservazione non ottimali, per esempio col cielo offuscato a ponente, la “falce”

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poteva essere scorta due o anche tre giorni dopo la luna nuova. Se poi l’osservazione era impedita per vari giorni di seguito dalla copertura del cielo, allora l’inizio del mese doveva essere stabilito su base congetturale. Ora chi può dire quali fossero le condizioni del cielo sopra la Palestina quando fu fissato il 1° di Nisan dell’anno in cui Gesù fu crocifisso? Se dette condizioni fossero state sfavorevoli allora ci sarebbe uno scarto di 1, 2 o 3 giorni fra il 15 di Nisan giudaico dell’anno della crocifissione e il 15 di Nisan dello stesso anno calcolato oggi astronomicamente. Uno scarto da scalare, ovviamente, nell’arco della settimana di Passione. Si capisce quindi come non sia possibile determinare con sicurezza mediante il calcolo astronomico l’anno della crocifissione di Cristo. Altri capitoli, basati su criteri che non possiamo discutere qui, permettono di stabilire che ci sono due anni possibili nei quali la crocifissione può avere avuto luogo in giorno di Venerdì: sono gli anni 30 e 31 dell’Era Volgare. La scelta dovrebbe cadere sull’alternativa che meglio s’accorda con le indicazioni bibliche, e questa alternativa è l’anno 31.

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APPENDICI GENERALI AL COMMENTO DEI CAPITOLI 8 E 9 1. Rapporti vicendevoli significativi fra Daniele 8 e 9 Le profezie di Daniele, se si differenziano per la diversità dei simboli utilizzati, in rapporto ai contenuti non ci appaiono tuttavia rivelazioni indipendenti e nettamente differenziate. Al contrario, dettagli paralleli e richiami vicendevoli le collegano le una alle altre. L’esistenza concreta di elementi di collegamento tra la profezia del cap. 9 e quelle antecedenti è stata riconosciuta da vari espositori. Il prof. Rinaldi, per esempio, scrive in riferimento al cap. 9: “La rivelazione di questo capitolo si collega a quelle precedenti, che intende completare...”379. Rapporti significativi si scorgono in particolare tra le rivelazioni dei capitoli 8 e 9. Identità di modalità rivelatoria, interconnessioni logiche, affinità tematiche e linguistiche fanno sì che la seconda si presenti come continuazione e completamento della prima. Si considerino i fatti seguenti: 1. In entrambi i capitoli l’angelo Gabriele appare come mediatore della rivelazione. 2. Nel cap. 8 Daniele usa 4 volte il termine chazôn in riferimento alle cose viste nella rivelazione (vv. 1, 2 e 15). Lo stesso vocabolo è adoperato una volta, con identico riferimento, nel dialogo fra due angeli (v. 13), e due volte dall’angelo Gabriele (vv. 17 e 26b). Nel v. 16, dove la voce che viene dall’Ulai comanda a Gabriele di spiegare al profeta la visione, compare per la prima volta il vocabolo mar’eh (“visione”). Nel v. 26a, dove ritorna per la seconda volta, questo vo-

cabolo è da Gabriele direttamente riferito al dettaglio delle 2300 sere-mattine che Daniele ha colto nel dialogo fra due angeli (“la visione, mar’eh, delle sere e delle mattine”). In questo contesto sembra evidente che il termine venga usato per indicare specificamente una rivelazione fatta a voce (“la visione mar’eh, delle sere e delle mattine di cui ti è stato parlato...”). Il vocabolo compare per la terza volta nel v. 27 dove Daniele dice di essere rimasto stupito a motivo della visione (mar’eh) per non averla compresa. Poiché Gabriele ha spiegato per intero la visione simbolica (chazôn) nei vv. 20-25, è chiaro che nel v. 27 il profeta con la parola mar’eh intende riferirsi al dettaglio delle 2300 sere-mattine che l’angelo non ha spiegato (v. 26). 3. Mentre il cap. 8 finisce con Daniele stupito per non avere capito (’en mevîn), nel v. 22 del cap. 9 Gabriele ritorna e gli dice di essere venuto per fargli capire (lehavîn). Poi (v. 23) lo sollecita a capire la visione (haven bammar’eh). La terminologia è identica nei due luoghi. Da ciò si evince che l’angelo è tornato per riprendere il discorso interrotto sette anni prima. Ci si potrebbe interrogare sul perché di questo lungo intervallo di tempo. Una risposta potrebbe essere questa: quando Gabriele spiegò a Daniele la visione (era l’anno terzo della coreggenza di Beltsasar, 8:1) Babilonia, per quanto in declino, dominava ancora lo scenario della politica internazionale, e finché Babilonia imperava, la fine dell’esilio e la restaurazione di Gerusalemme e del santuario erano un sogno. Adesso però la storia ha voltato pagina: è l’anno primo della reggenza di Dario il Medo (9:1) - verosimilmente l’Ugbaru luogotenente di Ciro (vedi commento a 9:1-2 e nota relativa). L’astro di Babilonia è tramontato per sempre ed è sorto sull’orizzonte della

379 - G. RINALDI, op. cit., p. 123.

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storia il nuovo astro persiano (8:20 si è avverato). La fine di Babilonia ed il sorgere dell’impero persiano erano stati indicati dalla profezia come il preludio della rinascita d’Israele (cfr. Gr 25:12-14; 29:10; Is 44:28; 45:1, 4, 13). È dunque giunto il tempo di rivelare a Daniele cose che sarebbe stato prematuro annunciare sette anni prima. 4. L’espressione “sere-mattine” (‘erevboqer) in 8:14 è improntata al linguaggio del racconto della Creazione del capitolo primo della Genesi, dove 6 volte la frase “fu sera e fu mattina” (wayehî ‘erev wayehî voqer) designa un giorno pieno. Come è stato ricordato nel commento di questo passo (8:14), l’espressione “sere-mattine” non va, comunque, presa alla lettera, poichè essa compare in un contesto simbolico. “Sere - mattine” non significa dunque “giorni di calendario” ma “giorni profetici” che sono equivalenti ad anni storici (cfr. il commento a 8:14 e la nota relativa). Questo elemento temporale inserito nella visione-audizione del cap. 8 ha un riscontro nella rivelazione-audizione del cap. 9 la quale esordisce precisamente con un riferimento ad un elemento temporale: settanta settimane (di anni) “sono tagliate” (nechthak) per il popolo e per la santa città (cfr. il commento a 9:24). Il passivo nechthak associato alle settanta settimane fa pensare ad una estrapolazione dei 490 anni da un periodo di tempo più esteso. E quale potrebbe essere questo periodo se non quello dei 2300 anni a cui si allude in 8:14 ? Rafforza questa tesi la designazione di entrambi i periodi, in 8:26a e in 9:23 u.p., con lo stesso vocabolo: mar’eh. È inoltre significativo che eventi di grande portata in rapporto con la redenzione

siano posti alla fine dei 490 come dei 2300 anni. Allo scadere del periodo più breve (9:26a e 27a) sarà offerto il vero sacrificio espiatorio il quale porrà fine ai sacrifici che lo prefiguravano nel santuario di Gerusalemme. Allo scadere dei 2300 anni sarà posta fine alla prevaricazione contro il ministero continuo di Cristo (thamîd) nel santuario dei cieli per il perdono dei peccati e sarà rimossa l’offesa recata al santuario (il santuario “sarà purificato”). È pure significativo il parallelismo tra il santuario che sarà purificato in 8:14 u.p. ed il santuario che sarà consacrato (“unto”) in 9:24 u.p. Così, allo scadere dei 490 anni iniziati con la promulgazione di un decreto autorizzante la restaurazione di Gerusalemme, si concluderà in Gerusalemme restaurata, con la morte cruenta del Messia, un rituale ciclico che era “ombra e figura delle cose celesti” (Eb 8:5), ovvero di eventi ultraterreni; e lassù nel cielo quegli eventi cominceranno ad aver corso con l’inizio del ministero sacerdotale del Messia risorto e glorificato (Eb 8:1-2), un ministero continuo di mediazione per il perdono dei peccati (1Tm 2:5; Eb 8:6; 9:15; 12:24; 1Gv 2:1) che si concluderà in capo a 2300 anni con un solenne “kippur” celeste (“il santuario sarà purificato”) di cui era figura il “kippur” che il sommo sacerdote d’Israele celebrava nel santuario di Gerusalemme alla fine di ogni ciclo liturgico annuale. Dunque i due periodi profetici annunciati in 8:14 e 9:24 si giustappongono, così che il più breve viene a formare la prima “tranche” del più esteso ed entrambi hanno in comune la data d’inizio380. Questa data è l’anno 457 a.C. (vedi il commento a 9:25 e la nota relativa).

380 - Esemplificando: supponiamo di volere misurare due lunghezze: una di 30, l’altra di 100 centimetri. Per delimitare la prima useremo i primi 30 centimetri del nostro metro, e per determinare la seconda utilizzeremo il metro intero; ma nell’uno e nell’altro caso inizieremo la misurazione dal primo centimetro. Così, poiché i 490 anni costituiscono il primo segmento dei 2300, è chiaro che l’uno e l’altro arco di tempo hanno in comune la data iniziale.

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2. Il Giorno dell’Espiazione e il suo significato tipologico Nell’ambito del calendario liturgico d’Israele il Giorno dell’Espiazione (Yom hakkippurîm nella Bibbia, familiarmente Yom kippur) rappresentava la più grande solennità religiosa dell’anno. La Mishnah381 gli consacra un intero trattato che porta il titolo di yoma, “il Giorno”. Il Giorno dell’Espiazione si celebrava il decimo giorno del settimo mese, il mese di di Tishri (Le 16:29; 23:27; Nu 29:7), cioè tra settembre e ottobre secondo il calendario giuliano. Il cerimoniale della festa è descritto nel cap. 16 del Levitico; in queste pagine lo rievocheremo integrando la Bibbia col Talmud. Il primo giorno del settimo mese il suono del corno sacerdotale annunciava una solenne convocazione del popolo: Le 23:24; Nu 29:1 (nella tarda storia giudaica vi si celebrava il Rosh hashshanah, il Capodanno). I nove giorni successivi erano giorni di preparazione spirituale in vista del gran Giorno dell’Espiazione. Al tramonto del nono giorno

cominciava lo yom hakkippurîm con la cessazione di ogni attività lavorativa e il digiuno rigoroso (Le 23:32)382. Tutto il decimo giorno, fino al tramonto del sole, era osservato come un Sabato solenne (ebr. shabath shabathôn, letteralmente “un Sabato dei Sabati”) con la congregazione raccolta intorno al santuario. In questa ricorrenza straordinaria il rituale era celebrato dal sommo sacerdote con l’assistenza dei sacerdoti ordinari al principio e alla fine, da solo nella parte centrale. Di buon mattino, indossati i paramenti splendidi383 dopo un completo lavaggio del corpo, egli offriva l’olocausto del mattino. Così vestito, il sommo sacerdote era una figura del Cristo nella sua gloria come Figlio di Dio e rappresentante del Padre davanti al suo popolo384. Compiuto il rito dell’olocausto mattutino, il sommo sacerdote svestiva i paramenti splendidi, si lavava di nuovo tutto il corpo e indossava la candida tunica di lino (Le 16:4). Con questo semplice abbigliamento sacerdotale celebrava i riti centrali del giorno, rappresentando tipologicamente Gesù Cristo come mediatore del popolo davanti a Dio385.

381 - La Mishnah (letteralmente “Ripetizione”) - la prima e più corposa porzione del Talmud - è un’ampia collezione di norme e regolamenti formulati durante vari secoli dal Sinedrio e dai più autorevoli rabbini. Codificata e messa per iscritto sul finire del II secolo d. C., si compone di 6 “ordini” (sedarîm), ciascuno suddiviso a sua volta in un numero variabile di “trattati” per un totale di 63. “Yoma” è il titolo di uno dei 12 trattati dell’ordine Mo‘ed, “Feste stabilite”. 382 - Sebbene il digiuno (ebr. tzôm) non sia menzionato in modo esplicito nelle prescrizioni relative alle osservanze del giorno dell’Espiazione (Le 16:29, 31; 23: 27, 32; Nu 29:7), esso è presupposto nell’espressione “affliggerete le anime vostre” (ebr. ‘inniten ’eth nafshotêkem) che si ripete cinque volte nei passi indicati sopra (cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. II, p. 779; The New Bible Dictionary, voce “Fast”). Secondo il lessicografo B. Davidson il verbo ‘ânâh, “affliggersi”, “umiliarsi”, seguito dal sostantivo nefesh, “anima”, prende il senso di “digiunare” (The Analytical Hebr. and Chald. Lex., voce “‘anah”). Il “Digiuno” che Luca menziona in Atti 27:9 è senza dubbio un riferimento al Giorno dell’Espiazione (cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. VI, pag. 445; G. LUZZI, Fatti degli Apostoli, pag. 257; C.M. MARTINI, Atti degli Apostoli, pag. 316; A. WIKENHAUSER, Atti degli Apostoli, p. 357). 383 - Descritti in Es 28:4-39. 384 - Cfr. S.D.A. Commentary, vol. I, p. 774. 385 - Cfr. The Great Controversy, pp. 421- 422; Ed. italiana, Il Gran Conflitto, pp. 308-309.

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Nell’atrio del Santuario il sommo sacerdote riceveva dalla congregazione due capri per il sacrificio di espiazione, oltre a un montone da offrire in olocausto (Le 16:5). Era una prassi inusuale, giacchè nel servizio giornaliero come vittima sacrificale d’espiazione per il popolo si richiedeva un giovenco (Le 4:14) e non un capro; ma quello era un rituale speciale, diverso da quelli ordinari. I due capri erano destinati a due distinti rituali ai quali erano assegnati mediante la sorte (Le 16:10). Il sommo sacerdote in mezzo fra i due animali estraeva da un’urna d’oro due tavolette di bosso (d’oro in epoca tardiva) sulle quali erano incise le diciture: “per Yahweh” e “per Azazel”. La tavoletta estratta con la mano sinistra la deponeva sul capro che stava alla sua sinistra e viceversa. Poi, per distinguere i due animali, annodava un filo di lana rossa sulle corna di quello destinato ad Azazel. Il capro sorteggiato “per il Signore” doveva essere immolato come sacrificio espiatorio per la purificazione del Santuario e del popolo (Le 16:9, 33), l’altro doveva essere abbandonato vivo nel deserto (v. 10). Qualche teologo ha opinato che entrambi i capri fossero figure di Cristo, rappresentando l’uno e l’altro fasi differenti della sua opera espiatoria. Ma la maggioranza degli studiosi del rituale Levitico riconosce nei due animali i simboli di due enti sovrannaturali distinti e contrapposti, ovvero Dio e Satana. Questo punto di vista si basa principalmente sulla comprensione della parola ebraica ‘aza’zel che gran parte delle versioni non traduce ma si limita a traslitterare.

Si è supposto che ‘aza’zel fosse un nome composto risultante da ‘ez, “capro”, e ’azal, “partire”, “andar via”; donde la traduzione inglese “scapegoat”, letteralmente “capro in fuga”, cui corrisponde l’italiano “capro emissario”, cioè capro inviato, mandato via. Gesenius fa derivare ‘aza’zel dalla radice ‘azal, “rimuovere”, “separare”. Secondo questa interpretazione Azazel sarebbe stato il capro destinato a separare, a rimuovere il peccato da Israele. Queste ipotesi filologiche, per quanto concordino col destino e la funzione dell’animale, mal s’accordano con la struttura grammaticale del passo. I due capri erano l’uno “per Yahweh” l’altro “per ‘Aza’zel”: il parallelismo richiede che come Yahweh è designazione di un Ente personale, così lo sia ‘Aza’zel. Nella versione siriaca e nel Targum386 ‘Aza’zel è il nome di un essere sovrannaturale, un demone; il libro di Enoc fa di ‘Aza’zel il principe dei demoni relegato nel deserto, luogo improduttivo dove non si esercita l’azione vitalizzante di Yahweh387. Osserva Hasel richiamandosi a un pensiero di C.F.Keil: “... non già un’entità maligna subordinata poteva essere posta in antitesi a Yahweh, bensì il diavolo stesso, il capo degli angeli caduti, in seguito chiamato Satana”388. Fondandoci sul parallelismo dei nomi in Le 16:8-10 e sull’antica tradizione che si rispecchia nel libro di Enoch, nella versione siriaca e nel Targum, concludiamo che il secondo capro, come abbiamo anticipato qualche paragrafo addietro, era destinato all’avversario di Dio, a Satana389. Si aggiunga che le funzioni cui erano destinati i due capri

386 - Versione aramaica parafrastica dell’Antico Testamento sorta nella sinagoga e messa per

iscritto intorno al II secolo a.D. 387 - Cfr. R.DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, p. 488. 388 - “Studies in Biblical Atonement II: The Day of Atonement”, in The Sanctuary and the Atone-

ment, p. 122. 389 - Cfr. C. SCHEDL, Storia del Vecchio Testamento, vol. I, p. 406.

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erano in completa antitesi, e si avrà una dimostrazione ulteriore che essi non potevano raffigurare un’unica e medesima realtà. L’uno dei due animali era immolato, l’altro no; dell’uno si aspergeva il sangue, dell’altro no; il sangue del capro espiatorio purificava (Le 16:15-16), il capro emissario contaminava (v. 26). Il sommo sacerdote doveva prima fare l’espiazione per sé stesso onde essere idoneo a fare l’espiazione per il popolo. Perciò, concluso il sorteggio e la presentazione al Signore dei due capri nell’atrio del Santuario (vv. 7 e 8), egli faceva accostare presso l’altare dell’olocausto il giovenco e lo immolava come vittima espiatoria per sé e per “la sua casa” (v.. 6). Poi con l’incensiere d’oro in una mano e nell’altra un vaso pure d’oro con due manciate di resine odorose polverizzate, entrava tutto solo nel Luogo Santo (Le 16:17) giacché egli era l’unica persona del popolo idonea a presentarsi alla presenza di Dio nel Santo dei Santi. Davanti al velo che lo separava dall’Arca santa col suo propiziatorio390, egli spargeva le resine odorose sulle braci dell’incensiere prelevate in precedenza dall’altare dell’olocausto (Le 16:12) sì che il fumo, penetrando dall’alto, invadeva il Luogo Santissimo (vv. 12 e 13). Spostato da un lato il velo e deposto l’incensiere fumante davanti all’Arca già offuscata dalla nuvola d’incenso, il sommo sacerdote tornava nell’atrio camminando a ritroso (Talmud), vi prelevava una bacinella d’oro col sangue del giovenco immolato ed entrava per la seconda volta nel Santo dei Santi. Quivi aspergeva col dito di quel sangue una volta il propiziatorio e sette volte il suolo davanti ad

esso (Le 16:14). Con questo rito egli aveva fatto l’espiazione per la sua persona e “per la sua casa” (v. 17) ovvero per corpo sacerdotale (v. 33). “Esente da peccato, egli adesso rappresentava adeguatamente Gesù Cristo, Colui che è senza peccato, ed era perciò in grado di mediare a beneficio degli altri”391. Pronunciata una breve preghiera mentre la congregazione attendeva con ansia la sua ricomparsa, il sommo sacerdote tornava nell’atrio del Santuario, faceva accostare il capro “del sacrificio per il peccato che è per il popolo” (Le 16:15a) e lo immolava senza imporre le mani sul suo capo. Quindi, recando una bacinella col sangue dell’animale, entrava per terza volta nel Santo dei Santi e con quel sangue ripeteva esattamente, per la congregazione, le aspersioni già fatte per sé e per il corpo sacerdotale col sangue del giovenco (v. 15b). Con questo rito era fatta “l’espiazione per il santuario a motivo delle impurità dei figli d’Israele, delle loro trasgressioni e di tutti i loro peccati” (Le 16:16a). “Il Santo dei Santi ha ormai ricuperato il suo splendore: né i peccati del sacerdozio né quelli dei fedeli offuscano più gli sguardi di Yahweh. Il ‘propiziatorio’ ha svolto il suo ruolo, ha concretizzato il suo nome procurando la propiziazione agli adoratori di Yahweh”392. Riportato il velo nella posizione abituale in modo da occultare di nuovo l’Arca col suo propiziatorio, il celebrante ungeva col sangue del capro e del giovenco i corni dell’altare che stava davanti al velo e ne aspergeva sette volte il disopra (Le 16:18-19).

390 - Il propiziatorio (ebr. kapporeth) era una lastra d’oro massiccio sormontata da due figure di cherubini, anche essi d’oro, la quale fungeva da coperchio dell’Arca (Es 37: 6-9). 391 - S.D.A. Bible Commentary, vol. I, p. 776. 392 - ALÉXIS MÉDEBIELLE, L’Expiation dans l’Ancien et le Nouveau Testament, vol. I, pp. 97-98.

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Col rituale precedente sul propiziatorio e quello susseguente sull’altare del profumo era compiuta “l’espiazione per il santuario (ovvero per il Santo dei Santi) 393, per la tenda di convegno (vale a dire per il Luogo Santo) e per l’altare” (v. 20). Infine il Sommo Sacerdote usciva nell’atrio e versava tutto il sangue residuo alla base dell’altare dell’olocausto (un canale sotterraneo, secondo la Mishnah, lo faceva scorrere fin nella sottostante Valle del Cedron). “Il Santo dei Santi, il Santo e l’altare risplendono di nuovo della loro purezza primitiva, sacerdoti e laici hanno ricevuto il perdono di tutti i loro peccati: l’espiazione è perfetta”394. La purificazione del Santuario mediante il rituale annuale dell’Espiazione era resa necessaria dalla contaminazione che vi avevano prodotto i peccati d’Israele - laici e sacerdoticonfessati ed espiati mediante i prescritti sacrifici durante l’anno liturgico. Le diverse modalità del rituale espiatorio giornaliero sono descritte nel cap. 4 del Levitico. In tutti i casi si richiedeva l’immolazione di una vittima preceduta dall’imposizione della mano sulla sua testa da parte del penitente che con questo atto trasferiva su di essa il suo peccato. Quindi egli stesso sgozzava l’animale (Le 4:4, 24, 29, 33). Se il peccato che si doveva espiare era stato consumato dall’intera congregazione, allora erano gli anziani che la rappresentavano che imponevano le mani sul capo della vittima sacrificale (Le 4:15) trasferendo simbolicamente su di essa il peccato della comunità. In questo caso, come nel caso in cui un sacerdote avesse peccato coinvolgendo, come suo rappresentante davanti a Dio, tutta la congregazione, l’animale prescritto per

l’espiazione era un giovenco (vv. 3 e 14) e il rito espiatorio si svolgeva all’interno del Santuario, davanti al velo al di là del quale si trovava l’Arca dell’Alleanza contenente le tavole del Decalogo (cfr. Es 25:16; 40:20; De 10: 2, 5; 1Re 8:9; 2Cr 5:10; Eb 9:4). Il sacerdote officiante portava il sangue della vittima nel Luogo Santo e ne aspergeva sette volte il suolo davanti al velo (Le 4: 5, 6, 16, 17), poi ne ungeva i corni dell’altare del profumo (vv. 16a e 17a); il resto lo spargeva alla base dell’altare dell’olocausto nell’atrio del Santuario. Con questo rito era espiato e perdonato il peccato collettivo della comunità d’Israele (Le 4:20, 35 u.p.); simbolicamente esso era stato trasferito dal popolo sul giovenco, e dal giovenco nel santuario, davanti al propiziatorio, per mezzo del suo sangue. Una riparazione era stata offerta alla santa legge di Dio - espressione del carattere e della santità di Dio stesso - che era stata violata. L’espiazione del peccato individuale, che ne fosse responsabile un leader o una persona comune del popolo (Le 4:22, 27), avveniva nell’atrio del santuario (vv. 25 e 30). L’animale sacrificale prescritto era un capro se l’espiazione si faceva per un leader (v. 23, era una capra o un’agnella se si faceva per una persona comune del popolo (vv. 28 e 32). La differenza probabilmente teneva conto della diversa posizione dei penitenti nella comunità e quindi del diverso grado di responsabilità sociale. In entrambi i casi, comunque, il confessante era tenuto ad imporre una mano sul capo della vittima prima di sgozzarla (vv. 24, 29, 33), dichiarando la sua colpa e trasferendola sull’animale. Poi il sacerdote compiva il rito espiatorio ricoprendo del sangue della vittima i corni dell’altare

393 - Santuario (ebr. qodesh) nell’Antico Testamento designa la struttura sacra adibita al culto

nel suo insieme, ma a volte il termine è usato con un’accezione ristretta per indicare il Luogo Santissimo. 394 - A. MÉDEBIELLE, op. cit., vol. I, p. 98.

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dell’olocausto. Il resto lo spandeva alla base di esso (vv. 25, 30, 34). Il grasso e le interiora delle vittime in tutti i tipi di sacrifici espiatori venivano bruciati sull’altare dell’olocausto (Le 4: 8-10, 19, 26, 31, 35), ma le carni erano trattate in modo diverso secondo che l’espiazione avvenisse nell’atrio del Santuario (per la colpa individuale) o nel Luogo Santo (per la colpa collettiva). Nel primo caso le carni erano consumate dai sacerdoti (Le 4:26) i quali in questo modo assumevano su di sé i peccati dei figli d’Israele per espiarli “davanti al Signore” (Le 10:17); nel secondo caso le carcasse erano bruciate fuori del campo (Le 4:12; 6:30) giacché l’eliminazione definitiva dei peccati della comunità aveva luogo il 10 di Tishri. Questo particolare trattamento dei resti delle vittime offerte per il peccato collettivo nel servizio giornaliero e nel Giorno del Kippur, secondo Eb 13:11-12, prefigurava l’immolazione di Cristo “fuori della porta” (della città santa) “per santificare il popolo col proprio sangue”. Ogni cosa sacra raggiunta dal sangue dei sacrifici espiatori quotidiani era divenuta impura perché quel sangue era carico di peccato. Tutte le colpe d’Israele per le quali era stata fatta l’espiazione col sangue delle vittime erano simbolicamente passate nel santuario ed erano venute “accumulandosi” durante dodici mesi. Bisognava perciò rimuoverle onde ripristinare l’originale stato di purezza del propiziatorio e dell’altare per renderli degni della santità del Signore. A ciò appunto mirava e provvedeva il rituale dello Yom Kippur che abbiamo descritto. Dovunque si era posato il sangue contaminante dei molti sacrifici quotidiani, doveva passare il sangue purificatore dell’unico

sacrificio annuale. Compiuto dunque il rito di purificazione del Luogo Santissimo e del Luogo Santo (Le 16:16, 17), il sommo sacerdote si portava di nuovo nell’atrio del Tabernacolo (in seguito del Tempio) e faceva accostare a sé il capro che la sorte aveva assegnato ad Azazel. Imposte le mani sulla testa dell’animale confessava sopra di esso le colpe del popolo. Con questo atto simbolico erano deposti sul capro emissario “tutte le iniquità dei figli d’Israele, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati” (Le 16:21)395 rimossi dal Santuario; non per espiarli, giacché a ciò si era provveduto in precedenza, ma per allontanarli: “l’espulsione del capro ‘per Azazel’ - scrive Médebielle - non produce l’espiazione, soltanto ne raffigura gli effetti”396. Descrivendo il rito centrale del Giorno dell’Espiazione, abbiamo notato che la mano del celebrante non si posava sul capo del capro espiatorio. L’imposizione della mano sulla vittima - quest’atto, ricordiamolo ancora una volta, che implicava trasferimento di colpa era stata compiuta ad ogni sacrificio espiatorio giornaliero. Non occorreva ripeterla nel Giorno dell’Espiazione, perché i peccati della comunità erano già stati “rimossi” dai penitenti e “posti” nel santuario, come abbiamo detto. L’aspersione del sangue del capro “per il Signore” non mirava dunque ad espiare di nuovo peccati individuali e collettivi già espiati, ma era intesa precisamente a fare “l’espiazione per il Santuario a motivo delle impurità dei figli d’Israele...” (Le 16:16), come spiega il v. 19, sia pure limitatamente all’altare: “E farà (il sommo sacerdote) sette volte l’aspersione del sangue col dito, sopra l’altare, e così lo purificherà e lo santificherà

395 - Secondo il Talmud il primo dei tre termini indica i delitti volontari, il secondo il delitto di ribellione e l’ultimo i peccati involontari. 396 - A. MÉDEBIELLE, op. cit., p. 111.

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a motivo delle impurità dei figli d’Israele...”. Il versetto seguente allarga la portata del rito: “... l’espiazione per il santuario (il Luogo Santissimo), per la tenda di convegno (il Luogo santo) e per l’altare (l’atrio).”. Il capro col “carico” dei peccati d’Israele (Le 16:22) era condotto nel deserto da un uomo a cui era stato affidato questo incarico (v. 21 u.p.). Col bastone che aveva in mano l’uomo punzecchiava l’animale per farlo correre. Alcune fonti riferiscono che i più facinorosi fra il popolo gli correvano dietro urlando e strappandogli il pelame per impaurirlo: si voleva impedire in ogni maniera che l’animale potesse tornare indietro: se fosse accaduto, i peccati già espiati sarebbero tornati addosso al popolo e sarebbe stata una sciagura! Secondo la tradizione rabbinica il capro emissario veniva abbandonato dall’uomo che lo conduceva in un luogo desolato presso l’attuale Khirbet Khareidan a circa 6 chilometri da Gerusalemme397 dove probabilmente diveniva preda degli sciacalli ancor prima di morire di fame e di sete. In altri momenti si preferì precipitare l’animale in un burrone, e per un certo numero di anni addirittura lo si fece a pezzi prima che fosse giunto al luogo di destinazione. Partito il capro emissario, il sommo sacerdote svestiva la semplice tunica di lino e, indossati di nuovo i paramenti splendidi dopo un ennesimo lavaggio del corpo, offriva per sé e per il popolo l’olocausto della sera (Le 16:23-24). Con questo rito terminava la grande festa.

Il popolo aveva vissuto il Giorno dell’Espiazione nella consapevolezza di essere sottoposto al giudizio di Dio. Secondo la tradizione tardo-giudaica398, tutti passano al vaglio del giudizio divino nel giorno dell’Anno Nuovo, tuttavia chiunque si renda conto di non essere in regola con Dio, ha ancora nove giorni di tempo per rimediare, prima che la sua sorte sia segnata in modo irrevocabile nello Yom hakkippurîm. I nove giorni tra la festa del Capodanno e il Giorno dell’Espiazione erano per i Giudei giorni di revisione introspettiva della propria vita e di penitenza: chi nel Gran Giorno si fosse trovato impreparato, cioè non afflitto per i propri peccati e non penitente, sarebbe stato eliminato dalla congregazione d’Israele, come è scritto nella Thorah (Le 23:28). Era convinzione dei Giudei che nello Yom hakkippurîm era “deciso il destino di chi deve vivere e di chi deve morire”399. Tramontato il sole, come il luccichio delle prime stelle annunciava la fine del digiuno e dell’afflizione, ci si abbandonava a gioiosi festeggiamenti. “Tutto il popolo - dice Médebielle - nella gioia di sentirsi riconciliato col suo Dio e di nuovo l’oggetto dei suoi favori, dava libero sfogo al suo entusiasmo con banchetti e con danze”400. Cinque giorni dopo cominciava la Festa dei Tabernacoli (Le 23:34; Nu 29:12). Non conosceva la gioia, secondo i rabbini, chi non avesse assistito al trasporto del popolo durante gli otto giorni della Festa dei Tabernacoli. Il Nuovo Testamento riconosce l’esistenza di un nesso tipologico fra il servizio li-

397- Cfr. R. DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, p. 487 398 - Talmud, “Rosh Hashshanah” 16a. 399 - Jewish Encyclopedia, vol. 2, p. 268, articolo “Atonement, Day of”, citato in S.D.A. Bible

Commentary, vol. I, p. 776. 400 - A. MÉDEBIELLE, op. cit., p. 101.

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turgico nel santuario d’Israele e l’opera redentiva del Messia, tra l’ufficio del sommo sacerdote terreno e il ministero di Gesù Cristo in cielo dopo il sacrificio della croce. La Lettera agli Ebrei fa di siffatto rapporto il cardine della sua teologia: “Ora, il punto capitale delle cose che stiamo dicendo è questo: che abbiamo un tal Sommo Sacerdote, che si è posto a sedere alla destra del trono della Maestà nei cieli, ministro del santuario e del vero tabernacolo che il Signore e non un uomo, ha eretto” (Eb 8:1-2). Il v. 5, poi, col caratterizzare come “ombra e figura delle cose celesti” il santuario giudaico, ne esplicita ulteriormente la funzione prefigurativa. Il nesso esistente fra l’ombra terrena e la realtà celeste è ulteriormente sviluppato e chiarito nel cap. 9 della Lettera agli Ebrei. Ad una descrizione sommaria del santuario dell’Antica Alleanza e dei suoi arredi (vv. 1-5) e ad un accenno al servizio liturgico giornaliero (v. 6) e a quello annuale (v. 7) che in esso si svolgevano, Eb 9 fa seguire un’applicazione del suddetto servizio liturgico all’opera sacerdotale di Gesù Cristo nel Santuario del cielo. Spiega il v. 8 che “Lo Spirito Santo voleva con questo significare che la via al santuario non era ancora manifestata finché sussisteva ancora il primo tabernacolo”. Come nel tempio giudaico il Luogo Santissimo restava coperto dal velo per tutto il tempo in cui nel Santo si svolgeva il servizio sacro diuturno, così il Tempio di Dio in cielo doveva rimanere inaccessibile fintantoché fosse in funzione la sua controfigura terrena. È questo, secondo Eb 9:8, il senso che lo Spirito Santo intese dare al servizio cultuale giornaliero e annuale nel santuario giudaico (le parole “santuario”, greco ‘aghion, e “primo tabernacolo, greco pròtes skenes, in questo versetto non sono sinonimi, sono due

termini distinti che sembrano voler designare l’una il Luogo Santissimo, l’altra il Luogo Santo del tempio israelitico come raffigurazioni rispettivamente del santuario celeste e della sua controfigura terrena). In definitiva il Tempio di Dio in cielo non avrebbe assunto la sua funzione prima che il sacrificio della croce avesse realizzato ciò che la liturgia sacrificale nel Santuario dell’Antica Alleanza prefigurava e preannunciava. Come sappiamo, questo evento cosmico - l’inaugurazione in cielo del Santuario della Nuova Alleanza - fu anticipato profeticamente a Daniele dall’angelo Gabriele nel contesto della rivelazione delle settanta settimane. In 9:24, la consacrazione di un “luogo santissimo” (ebr. qodesh qodashîm) appare come il coronamento dell’opera espiatoria che il Messia avrebbe compiuto401. Proseguendo, nel cap. 9, il suo ragionamento fondato sul parallelismo fra il vecchio e il nuovo, l’autore della Lettera agli Ebrei dice nel v. 12 che Cristo - definito “Sommo Sacerdote di futuri beni” nel v. 11 - “mediante il proprio sangue, è entrato una volta per sempre nel santuario, avendo acquistato una redenzione eterna”. Gesù Cristo dunque svolge ad un tempo il ruolo di sacerdote e quello di vittima sacrificale, e in questa duplice funzione realizza quanto il ministero del sacerdozio aronnico prefigurava, ovverosia la nostra riconciliazione con Dio e l’affrancamento dal peccato. Come sacerdote, Egli media fra noi e il Padre (1Tm 2:5), come vittima sacrificiale compie il nostro riscatto (v. 6). Il sacrificio di Cristo non solo procura a noi il perdono dei peccati (come per anticipazione lo procurava agli israeliti il sacrificio espiatorio), ma ne realizza la totale e definitiva rimozione dalla presenza di Dio, come avveniva simbolicamente sotto l’Antica Alleanza

401 - Vedi il commento di Dn 9:24; cfr. con S.D.A. Bble Commentary, vol. IV, p. 852.

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con l’immolazione del capro espiatorio nel giorno del Kippur. Come il sangue di quel capro fatto cadere sul propiziatorio, davanti ad esso e sopra l’altare del profumo rimuoveva simbolicamente i peccati d’Israele avendo come effetto immediato la purificazione del sacro luogo, così il sacrificio di Gesù Cristo da Lui stesso, in veste di Sommo Sacerdote immortale, offerto nel Santo dei Santi del cielo, allontanerà per sempre da esso la memoria dei peccati confessati del nuovo Israele, restituendo così al Tempio di Dio il suo stato di perfetta purezza402. Dice ancora la Lettera agli Ebrei (9:2223): “E secondo la legge, quasi ogni cosa è purificata con sangue; e senza spargimento di sangue non c’è remissione. Era dunque necessario che le cose raffiguranti quelle nei cieli (cioè il santuario giudaico e i suoi sacri arredi) fossero purificati con questi mezzi (ovvero con sangue di giovenchi e di capri), ma le cose celesti stesse dovevano esserlo con sacrifici più perfetti di questi” (vale a dire col sacrificio perfetto del Figlio di Dio). Se le “cose celesti” debbono essere purificate, vuol dire che qualcosa deve averne prodotto una contaminazione. Ap 20:12 descrivendo il giudizio finale dice che “i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le opere loro”. Sono stati i peccati dei fedeli registrati in cielo, dove li ha trasferiti la confessione in virtù del sacrificio della croce, che hanno prodotto la contaminazione delle “cose celesti”, e sarà la loro rimozione nel tempo

del giudizio pre-avvento che determinerà la purificazione di quelle “cose”. I peccati confessati della comunità della Nuova Alleanza saranno “cancellati” dai registri celesti perché Gesù li ha espiati col suo sangue (è evidente il nesso col rituale ebraico dell’Espiazione). Si è visto che la congregazione d’Israele visse il giorno del Kippur con la consapevolezza di essere sottoposta al giudizio divino. Il Kippur celeste sarà anch’esso un tempo nel quale il popolo della Nuova Alleanza sarà passato al vaglio del giudizio di Dio (quel giudizio che il profeta Daniele descrive in 7:10). Sarà, come si è accennato sopra, il giudizio che precederà la venuta del Signore (vedi il commento di Dn 7:10), il giudizio nel quale avverrà la rimozione dai “libri” celesti dei peccati espiati da Gesù Cristo e conseguentemente sarà purificato il tempio di Dio in cielo come fu annunciato a Daniele (Dn 8:14)403. Come gli indegni figli d’Israele che il gran Giorno dell’Espiazione avesse colto impenitenti sarebbero stati “sterminati” dalla comunità purificata (Le 23:29), così saranno “cancellati” dal “libro della vita” nel tempo del giudizio preliminare (Ap 3:5; 20:15) i membri della nuova comunità d’Israele i cui peccati, per il perseverare nella trasgressione, non saranno stati espiati da Gesù Cristo. E.G.White ha colto assai bene il nesso tipologico fra il rituale sacrificale quotidiano e annuale nel Santuario terreno e l’opera sacerdotale di Cristo nel Tempio celeste. Ella

402 - Scrive S. Paolo nella Lettera ai Romani (3:25) che Dio ha prestabilito Gesù Cristo “come

propiziazione mediante la fede nel sangue di lui”. Il termine greco tradotto “propiziazione”, ‘ilasterion, è lo stesso vocabolo che nei LXX traduce l’ebraico kapporet, “propiziatorio”, usato nell’Esodo e nel Levitico (con identico significato ‘ilasterion è adoperato in Eb 9:5). Nondimeno in Rm 3:25 ‘ilasterion non ha il senso di “propiziatorio”, come pensarono gli esegeti più antichi, ma piuttosto quello di “sacrificio di espiazione”, con implicito riferimento al sacrificio dello Yom Kippur (vedi Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento a cura di L. KOENEN, E. BEYREUTHER E H. BIETENHARD, pp. 1150-1151).

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scrive: “Come anticamente i peccati del popolo venivano deposti per fede sulla vittima espiatoria, e per mezzo del sangue trasferiti simbolicamente nel santuario terrestre, così nel nuovo patto i peccati della persona pentita sono posti per fede su Cristo e trasferiti nel santuario celeste. Come nella purificazione tipica del santuario terrestre avveniva la rimozione dei peccati che lo avevano contaminato, così la purificazione tipica del santuario celeste avviene con la rimozione o cancellazione dei peccati che vi sono stati registrati. Ma prima che questo possa essere fatto deve esserci un esame dei libri del cielo per stabilire chi, mediante il pentimento e la fede in Cristo, può beneficiare della sua espiazione. La purificazione del santuario include, perciò, un’opera di indagine o giudizio. Essa deve avvenire prima della venuta di Cristo per redimere il suo popolo, perché quando egli viene avrà

seco la sua ricompensa per dare a ciascuno secondo che sarà stata l’opera sua (Ap 22:12)”404. Come l’annuale purificazione del Santuario d’Israele si concludeva con la partenza del capro emissario carico dei peccati del popolo, così la finale purificazione del celeste tempio di Dio sarà completa quando i peccati del popolo del Nuovo Patto, di cui Satana fu l’istigatore, saranno posti su di lui ed egli li sconterà con l’essere distrutto per sempre dopo un millennio di forzato esilio in un mondo ridotto in un desolato deserto (Ap 20:1-3; 20:10)405. Il tripudio con cui l’antico Israele celebrava la Festa dei Tabernacoli a cinque giorni dalla solennità severa del kippur, sembra anticipare il gaudio dei redenti nel Regno eterno di Dio dopo il giudizio purificatore del kippur celeste e la distruzione definitiva del peccato e del suo istigatore.

403 - Il giudizio discriminatorio che precederà il giudizio retributivo è descritto da Giovanni in

Ap 11:1-2 con una figura appropriata che ha il Tempio di Dio come elemento di base. Dice Giovanni: “Poi mi fu data una canna... e mi fu detto: Lèvati e misura il tempio di Dio e l’altare e novera quelli che vi adorano; ma tralascia il cortile che è fuori del tempio, e non lo misurare perché esso è stato dato ai Gentili...”. È certamente significativo che nelle visioni di Giovanni il tempio di Dio in cielo compare ripetutamente nel contesto del giudizio finale: in Ap 14:15 dal Tempio esce l’angelo che annunzia la mietitura (ovvero la raccolta degli eletti di Dio al ritorno di Gesù Cristo); in 15:6 dal Tempio escono gli angeli con le coppe delle 7 ultime piaghe; in 16:1 dal Tempio procede la voce di Dio che comanda ai 7 angeli di versare le piaghe sulla terra; e ancora dal Tempio, in 16:17, proviene la voce che decreta il giudizio di Babilonia mistica. In 11:19, nel contesto della settima tromba annunciatrice del giudizio, appare il Santo dei Santi del “tempio di Dio che è nel cielo” (Giovanni vede “l’arca del suo patto”), e nel cap. 15 la stessa immagine ricompare in un contesto drammatico che richiama alla mente il gran Giorno dell’Espiazione: “... e il tempio del tabernacolo della testimonianza (ovvero il Santo dei Santi) fu aperto nel cielo” (v. 5). “E il tempio fu ripieno di fumo a cagione della gloria di Dio e della sua potenza; e nessuno poteva entrare nel tempio finché fossero compiute le sette piaghe...” (v. 8). 404 - Il Gran Conflitto, p. 309. 405- Per ulteriori approfondimenti sul tema del giudizio pre-avvento, vedi E.G.WHITE, Il Gran Conflitto, cap. 23: “Rivelato il mistero del Santuario”; autori vari, The Sanctuary and the Atonement, specie i capitoli XV, XVI e XXIII

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C

ol cap. 10 inizia la parte finale del libro di Daniele. Il racconto che si svolge in questo capitolo precede e introduce l’ultima delle quattro rivelazioni che Daniele ha raccolto nella seconda sezione del suo libro. È una profezia proiettata nel futuro prossimo e lontano, una profezia che attraverso complessi sviluppi intermedi congiunge l’epoca del profeta e il remoto tempo della fine. La grande profezia comincia al v. 2 del cap. 11 e termina al v. 3 del capitolo seguente. Gli ultimi versetti hanno tutta l’apparenza di un post-scriptum. Poiché la narrazione si svolge senza soluzione di continuità dal principio del cap. 10 fino alla fine del libro, gli ultimi tre capitoli formano di fatto un corpus unico. Una circostanza avversa non specificata, ma che non è difficile intuire, ha fatto nascere una gran pena nel cuore del vecchio profeta. Dopo tre settimane di duolo e di parziale digiuno, egli ha assistito ad una sfolgorante teofania dalla sponda del Tigri. La straordinaria manifestazione lo ha lasciato in uno stato di grande prostrazione fisica. Poi gli è apparso un angelo celeste e gli ha preannunciato un gran conflitto nel quale il suo popolo sarà coinvolto.

1

Il terzo anno di Ciro, re di Persia, una parola fu rivelata a Daniele, che si chiamava Beltsasar; e la parola è verace, e predice una gran lotta. Egli capì la parola, ed ebbe l’intelligenza della visione.

Come è sua consuetudine (7:1; 8:1; 9:1), Daniele indica la data della nuova rivelazione: “l’anno terzo di Ciro re di Persia”. Gli anni di regno di Ciro sono qui fatti decorrere dalla data della conquista di Babilonia, il 539 a.C. L’anno terzo cadde dunque nel 536 o nel 535, secondo che gli anni di regno siano computati sul calendario con l’inizio dell’anno in primavera o in autunno406. Posto che all’epoca della deportazione nel 605 a.C. Daniele avesse intorno ai 18 anni, adesso doveva essere un vegliardo quasi novantenne, essendo trascorsi da allora 69 anni. Per la terza ed ultima volta Daniele fa riferimento al regno di Ciro. Alla fine del cap. 1 ha menzionato il suo primo anno di regno come il termine ultimo del

406 - Cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 586.

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suo incarico ufficiale, e in 6:28 ha incluso in modo generico “il regno di Ciro il Persiano” nell’arco di tempo della sua lunga e onorata attività pubblica. In 10:1 per la prima e unica volta riferisce al regno di questo monarca un episodio importante dell’esperienza di profeta. È stato osservato che il titolo di “re di Persia” che Daniele attribuisce a Ciro non è conforme all’uso antico, giacché su 1560 contratti babilonesi datati agli anni di regno dei re persiani soltanto uno reca l’espressione “re di Persia”. Risponde con ragione H.C.Leupold: “Quando l’eccezione compare nelle tavolette amministrative babilonesi non la si giudica immediatamente anacronistica. Perché mai non dovrebbe essere consentito a uno scrittore biblico di usare tale costruzione eccezionale, tanto più se egli scrive in un’altra lingua...?”407. Anche se il titolo “re di Persia” non era d’uso comune ai suoi giorni, Daniele col riferirlo a Ciro ne riconosce, d’accordo con la Storia, la sovranità su tutto l’impero persiano (si confronti il titolo subalterno di “re del regno dei Caldei” che egli dà a Dario il Medo in 9:1). “Emerso da una relativa oscurità quale principe del minuscolo stato di Anshan, sull’altopiano iranico, in pochi anni Ciro rovesciò l’uno dopo l’altro i regni di Media, di Lidia e di Babilonia e li riunì sotto la sua sovranità fondando l’impero più vasto che si fosse mai visto. Con un monarca di siffatta levatura dovranno adesso confrontarsi Daniele e il suo popolo...”408. Ancora una volta Daniele parla di sé in terza persona409 (“una parola fu rivelata a Daniele”) e fa seguire al suo nome d’origine il nome babilonese (Beltsasar), quasi a voler rilevare ancora una volta il persistere della sua condizione di esule in terra straniera. Con un’espressione inconsueta, davar, “una parola” (davar può anche tradursi “una cosa”), il profeta ha voluto designare l’ampia rivelazione che verrà esponendo nel capitolo seguente e nei primi 3 versetti del cap. 12. Egli ha anche voluto testimoniare la sua convinzione riguardo alla veracità della profezia che gli è stata rivelata (“la parola è verace”, rfbD f h a tem) E wå we’emeth haddavar) e della quale ha compreso la tematica centrale: “essa predice una gran lotta” (lOdf g )fbc f wº wetzava’ gâdôl). Tzava’, il termine corrente per “esercito” (vedi 8:10-12), può anche significare “guerra”, “lotta”, e con tale accezione il vocabolo è usato in questo contesto. A differenza delle profezie che sono state rivelate a Daniele con i simboli enigmatici delle visioni (vedi i cc. 7 e 8), la rivelazione riportata in questa parte finale del libro, come quella del cap. 9, gli è stata recata da un angelo con linguaggio piano e letterale, ond’egli può dire di avere capito la “parola” (rfbD f h a -te) }yibU ûvîn ’eth haddavar) ed avere avuto intelligenza della visione (he)r : M a B a Ol

407 - Exposition of Daniel, pp. 442- 443. 408 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 857. 409 - Per una delucidazione su questa particolarità letteraria , vedi il commento a 7:1-2.

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hænyibU ûvîna lô bammar’eh), in altre parole di non avere avuto bisogno d’una interpretazione. Allo stesso modo che in 9:26 è qui adoperato il termine mar’eh per indicare l’apparizione di un angelo che viene a recare a viva voce una rivelazione divina. 2 In quel tempo, io, Daniele, feci cordoglio per tre settimane intere.

“In quel tempo”: letteralmente “in quei giorni” ({"hh f {yimYæ B a bayyamîm hâhem), cioè nei giorni che precedettero la rivelazione che sta per narrare. In quei giorni l’anziano profeta è stato colto da una gran pena della quale non spiega il motivo. Ma avendoci egli indicato con precisione l’epoca dei fatti che verrà esponendo, non è difficile indovinarlo. Correva dunque l’anno terzo di Ciro - il 536/35 a.C. - quando il primo e più cospicuo scaglione dei rimpatriati da Babilonia da pochissimo tempo era giunto nella desolata terra di Giuda col sommo sacerdote Giosuè e con Zorobabele. Il libro di Esdra ci ragguaglia su un aspro conflitto fra i giudei rimpatriati e i vicini samaritani sorto dal rifiuto dell’offerta di collaborazione fatta da questi ultimi ai capi dei Giudei mentre ponevano mano alla ricostruzione del Tempio410. Le vicissitudini dei reduci erano seguite con viva partecipazione dai connazionali che avevano scelto di rimanere nei luoghi dell’esilio (vedi Ne 1:1-4). La notizia dei momenti difficili che stavano vivendo i rimpatriati nella lontana Gerusalemme certamente giunse alle orecchie di Daniele in Babilonia e non poté non suscitare ansia nell’animo del vecchio profeta. Non tanto il conflitto in sé stesso, tuttavia, deve avere provocato la pena di Daniele, quanto piuttosto i riflessi negativi che tale conflitto poteva avere sui rapporti dei reduci dall’esilio con le autorità centrali persiane. Poteva accadere - come di fatto avvenne411 che la situazione agitata in quella provincia periferica dell’impero inducesse il sovrano di Persia a revocare o quanto meno a sospendere l’editto favorevole ai Giudei (vedi Ed 1: 1-4). Era messa a repentaglio più che la ripresa della vita sociale ed economica della comunità dei rimpatriati; era esposto a serio pericolo il ripristino della vita religiosa intorno al tempio ricostruito. Questa fosca prospettiva deve avere cagionato l’afflizione di Daniele412 che si è protratta per tre settimane (letteralmente “tre settimane di giorni”, {yimæy {yi(ubf$ hf$ol:$ sheloshah shavu‘îm yâmîm). Il termine “settimane” è comparso 4 volte nel cap. 9 (ai vv. 24, 25 e 26) nella usuale forma femminile (shavu‘oth). In questo versetto (10:2) compare nella inconsueta forma maschile (shavu‘îm) e per di più seguito dalla specificazione “di giorni”. “Giorni” in apposizione rispetto a “settimane” conferisce alla

410 - Vedi Esdra 4:1-5; cfr. col commento di Dn 9:25 e con le note relative. 411 - Vedi Esdra 4: 24. 412 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 857-858; J. DOUKHAN, Le Soupîr de la terre, p.

225; H.C.LEUPOLD, Exposition of Daniel, p. 445.

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frase il senso di “settimane complete”. Ma shavu‘îm non potrebbe anche sottindere un valore diverso del termine rispetto al senso che esso riveste al femminile nel cap. 9? 3 Non mangiai alcun cibo prelibato, né carne né vino entrarono nella mia bocca, e non mi unsi affatto, sino alla fine delle tre settimane.

Si intuisce che nei ventun giorni di duolo e di digiuno Daniele si dedicasse ad una ricerca intensa di Dio per intercedere ancora, come nel cap. 9, a pro del suo popolo, ora contrastato dai nemici, e del santuario di cui sembra compromessa la riedificazione. L’espressione “non mangiai alcun cibo prelibato” - letteralmente “pane di delizie” (tOdumx A {exl e lechem chamudôth) - lascia intendere che per tre settimane Daniele si attenesse ad una dieta estremamente frugale, forse poco più che una dieta di sopravvivenza. Il suo fu dunque un digiuno parziale. Carne e vino (}éyyá wæ rf&b f vasar wayayin) anche presso gli ebrei facevano parte del “menu” dei giorni di festa e di letizia (vedi Am 6:4-6; Lc 15: 23-24; Gv 2:2-3). Daniele durante i giorni di cordoglio si astenne dunque da cibi e bevande che allietavano la mensa nelle occasioni gioiose. Presso gli Ebrei, popolo di allevatori e coltivatori, carne e vino non scarseggiavano, e non c’è motivo di ritenere che se ne astenessero per motivi religiosi; ne era comunque biasimato l’uso smodato413. Nelle regioni calde dell’Antico Oriente era comune ungersi con oli e unguenti odorosi per ammorbidire l’epidermide e attenuare gli effetti della traspirazione. Durante i giorni del duolo Daniele trascurò anche questa pratica per così dire igienica. 4 E il ventiquattresimo giorno del primo mese, come io mi trovavo in

riva al gran fiume, che è lo Hiddekel, È l’unica volta in cui Daniele riporta una data indicando con precisione il giorno e il mese. Purtroppo non c’è modo di sapere se egli facesse riferimento al calendario babilonese-persiano con l’inizio dell’anno in primavera (Nisan) o al calendario in uso in Giudea col capodanno in autunno (Tishri). Nel primo caso il primo mese dell’anno terzo di Ciro sarebbe corrisposto al periodo marzo-aprile del 536 a.C., nel secondo allo stesso periodo dell’anno seguente, il 535 a.C. Poiché i 21 giorni di digiuno di Daniele finirono con la visione sul bordo dell’Hiddekel il 24° giorno del primo mese, quel periodo di 3 settimane era cominciato il quarto giorno dello stesso mese.

413 - Piantare la vigna ed usarne il prodotto erano parte dei beni promessi nella prospettiva

della restaurazione dopo il castigo dell’esilio (Am 9:14). Non sono infrequenti tuttavia, specie nei testi profetici e sapienziali, le rampogne all’indirizzo dei bevitori (cfr. Is 5:11, 22; Abac 2:5, 15; Pv 20:1) e la messa in guardia contro le bevande alcoliche (Pv 23: 29-35). E’ sempre riprovato l’uso smodato del vino e della carne (Pv 23: 20-21).

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E dato che nel dopo-esilio i giudei numeravano i mesi allo stesso modo a prescindere dal tipo di calendario utilizzato (vedi il diagramma in fondo alla nota 365), nel periodo del duolo di Daniele cadde la festività pasquale (il 14 di Nisan si celebrava la Pasqua e i 7 giorni seguenti erano i giorni degli Azzimi). Questa coincidenza, per quanto fortuita, era certamente significativa. Mentre fra i Giudei rimpatriati o rimasti nell’esilio si celebrava il ricordo della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, Daniele è stato in pena per le angustie del suo popolo nella madrepatria e ha pregato perché ne fosse liberato. Allo stesso modo che nel capitolo ottavo, sarà sul bordo di un fiume che Daniele riceverà una visione, con la differenza, tuttavia, che stavolta la sua presenza sulla sponda dello Hiddekel sarà una presenza fisica e non “in ispirito”. Gli ebrei chiamavano Hiddekel il gran fiume che scorreva a oriente dell’Eufrate e che gli assiro-babilonesi nominavano Idiglat e i persiani Tigra (dal nome persiano deriva il nome odierno, Tigri). 5 alzai gli occhi, guardai, ed ecco un uomo, vestito di lino, con attorno ai fianchi una cintura d’oro d’Ufaz.

“Alzai gli occhi e guardai” (o più semplicemente “io guardavo”) è la formula con cui Daniele introduce di solito la descrizione di una visione (cfr. 8:3; 7:2) o di un suo dettaglio importante (7:4,6,9,11,13). Daniele vede, ritta sul fiume, una figura dall’apparenza umana (“guardai, ed ecco un uomo”). Dalla descrizione che segue è chiaro che si tratta di un Essere sovrannaturale. La tunica di lino di cui è rivestita la maestosa figura e la cintura d’oro che gliela stringe alla vita caratterizzano la dignità sacerdotale (cfr. Es 28:4,8,39). L’immagine richiama alla mente la figura del Sommo Sacerdote nel Gran Giorno dell’Espiazione, un’immagine perfettamente idonea a introdurre la rivelazione che seguirà, giacché essa culminerà con una scena di giudizio-salvezza per i membri del suo popolo “che saran trovati iscritti nel libro”, e di giudizio-perdizione per il resto degli uomini (Dn 12:1-2). Ufaz, ricordata anche in Gr 10:9, era il nome di una regione oggi ignota dalla quale proveniva dell’oro sopraffino. Da alcuni viene identificata con Ofir, rinomata nell’antichità per l’oro di gran pregio che vi si esportava (cfr. 1Re 9:28). È da notare che le parole Ufaz e Ofir scritte in caratteri ebraici si somigliano alquanto. 6 Il suo corpo era come un crisolito, la sua faccia aveva l’aspetto

della folgore, i suoi occhi eran come fiamme di fuoco, le sue braccia e i suoi piedi parevano terso rame, e il suono della sua voce era come un rumore d’una moltitudine. Con paragoni tratti dall’esperienza dei sensi il profeta tenta di descrivere l’aspetto della figura che gli è apparsa sullo Hiddekel. Cinque volte usa il prefisso ke, “come”, “simile a” (la seconda volta unito a mar’eh: qfrb f h")r : m a K: kemar’eh varaq, letteralmente “come l’aspetto del fulmine”). Una luce chiara come la luce riflessa da una gemma purissima irradia dal corpo 318

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dell’augusto Personaggio (l’ebraico ha $yi$r : t a k: OtæYwé g: U ûgewiyyatô ketharshish, letteralmente “il suo corpo [era] come tarshish”). Tarshish, una regione del Mediterraneo occidentale - verosimilmente la Spagna - era il luogo di provenienza della pietra preziosa nominata in questo punto del testo danielico, una pietra che alcuni hanno identificato col crisolito, altri col topazio, altri ancora col berillio. Leupold traduce l’espressione ebraica semplicemente “pietra di Tarshish”. Il volto della figura riluce di uno splendore accecante, come quello del lampo, gli occhi mandano bagliori di fuoco, le parti nude del corpo - le mani e i piedi - brillano come rame tirato a lucido. Chi è lo straordinario Personaggio? Alcuni (G.Bernini, C.H. Leupold ed altri) vi hanno visto un angelo, forse lo stesso Gabriele. J. Doukhan, dopo avere rilevato che “Tutto è superlativo per esprimere il carattere straordinario e sovrannaturale di questo personaggio”, osserva che una descrizione siffatta “non si limita al solo libro di Daniele, la si ritrova con gli stessi elementi nel libro di Ezechiele (cap. 1°): la folgore (vv. 14, 28), il crisolito (v. 26), il rame forbito (vv. 7, 27), il fuoco (vv. 13, 28), la voce di una moltitudine (v. 24). Ezechiele - nota Doukhan - spiega nel concludere: ‘era un’apparizione dell’immagine della gloria dell’Eterno’ (v. 28). La si ritrova altresì nel libro dell’Apocalisse (cap. 1); anche qui il personaggio veste l’abito sacerdotale, il poderes, con una cintura d’oro (v. 13); anche qui gli occhi splendono come fuoco e le membra brillano come il rame; anche qui la voce tuona come quella di una moltitudine (v.15). In questo luogo il personaggio identifica sé stesso con un essere divino. ‘Io sono il primo e l’ultimo, e il Vivente; e fui morto, ma ecco son vivente per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell’Ades, (v. 18). Il linguaggio usato evoca chiaramente Gesù Cristo così come è descritto più in alto nel medesimo capitolo: ‘il primogenito dei morti’ (v. 5), ‘l’Alfa e l’Omega’ (v.7). Infine la reazione di Daniele davanti a questa visione è stata la stessa di Ezechiele e Giovanni: tutti e tre si sono accasciati al suolo come schiacciati e sono caduti in deliquio (Dn 10:9; Ez 1:28; Ap 1:17)”414. Il Personaggio descritto da Daniele deve identificarsi con l’Angelo dell’Eterno (Ge 22:11, 12, 15, 16; Za 3: 1-5; Ml 3:1), col Principe Mika’el (Dn 10:13; 11:1; 12:1; Ap 12:7-8); in definitiva con Gesù Cristo, l’eterno Figlio di Dio415. 7 Io solo, Daniele, vidi la visione; gli uomini ch’erano meco non la vi-

dero, ma un gran terrore piombò su loro, e fuggirono a nascondersi. Si noti ancora una volta la cura dell’autore di attestare la propria identità: “Io..., Daniele, vidi la visione” (hf)r : M a h a -te) ... l)¢Yné d f yén) A yityi)r f wº wera’itî ’anî dani’el... ’eth hammar’ah). Sulla riva dello Hiddekel Daniele non era solo quando gli apparve il divino

414 - J. DOUKHAN, op. cit., p. 226. 415 - Cfr. E.G.WHITE, The Great Controversy, pp. 470, 471, in Italiano Il Gran Conflitto, p. 344.

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Personaggio. Dei comuni mortali erano con lui (sul loro numero, la loro identità e il motivo della loro presenza in quel tempo, il testo tace). Quegli uomini - dice Daniele - “non videro la visione”. Non si può percepire il divino con le comuni facoltà naturali. Occorre una facoltà sovrannaturale, un carisma, per vivere un’esperienza così alta, un’esperienza che trascende ogni e qualsiasi umana esperienza. L’uomo di Dio soltanto ne è dotato, i comuni mortali no. Daniele è un uomo di Dio. Gli uomini che erano in compagnia di Daniele non videro dunque quello che Daniele vide, e tuttavia avvertirono una presenza impalpabile, ebbero la sensazione che una manifestazione misteriosa e minacciosa stava avendo luogo. Ne furono terrorizzati e d’istinto corsero a nascondersi come per proteggersi da un pericolo incombente. Un fenomeno analogo avverrà secoli dopo e sarà l’occasione della conversione a Cristo del persecutore Saulo da Tarso (At 9:3-7; 22: 6-9). 8 E io rimasi solo, ed ebbi questa grande visione. In me non rimase più forza; il mio viso mutò colore fino a rimanere sfigurato, e non mi restò alcun vigore.

Daniele è solo davanti alla grandiosa manifestazione (hflodG: h a hf)r : M a h a hammar’ah haggedolah). Un uomo, pur se eccelle per dirittura morale e sensibilità spirituale, è sempre e soltanto un uomo, cioè una creatura fragile e imperfetta. I limiti della natura umana si sono palesati drammaticamente nei santi uomini di Dio quando è stato loro dato di assistere a una manifestazione personale della Divinità, pur se velata dall’apparenza umana. Daniele è stato uno dei rari esemplari della specie umana che Dio ha gratificato di una sua manifestazione personale, ma la sua umanità non ha potuto sostenere il confronto con la maestà divina. Il volto gli si è scolorito e le forze lo hanno abbandonato. Effetti simili aveva prodotto sul profeta la prima apparizione dell’angelo Gabriele (cfr. 8:18). 9 Udii il suono delle sue parole; e, all’udire il suono delle sue parole, caddi profondamente assopito, con la faccia a terra.

Tale è l’impatto della potenza emanante dalla maestà divina sul fisico del vecchio profeta che egli perde totalmente le forze e si accascia al suolo privo di sensi ({fD:rén yityéyfh hayiytî nirdam, dal verbo radam, “cadere in un sonno profondo”: cfr. con Giud 4:21; Sl 76:6; Gion 1:5,6. In Dn 10:9, come in 8:18, tale voce verbale esprime perdita totale della coscienza, cfr. con Ez 1:28 u.p.; 3:23). L’Essere divino che è apparso a Daniele parla, ma il profeta non distingue le parole che proferisce, soltanto ode “il suono delle sue parole” (wyfrb f D : lOq qôl devaraiw, letteralmente “la voce delle sue parole”). Egli è ancora in sé, ma la sua percezione sensoriale si è affievolita, come quando uno è in stato di dormiveglia. È in quegli istanti che perde conoscenza e si accascia al suolo. 320

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10 Ed ecco, una mano mi toccò, e mi fece stare sulle ginocchia e sulle palme delle mani.

Tornato in sé, Daniele sente che una mano è posata sul suo corpo e capisce che è stato grazie al contatto di quella mano che egli ha ripreso conoscenza, come se quel contatto gli avesse trasfuso una carica di energia vitale (si confrontino le esperienze parallele di Ezechiele e di Giovanni: Ez 2:1,2; 3:24; Ap 1:17). Steso bocconi, il profeta non può ancora scorgere il corpo a cui appartiene la mano che lo ha toccato, ma si rende conto che un essere sovrumano gli sta accanto. Le forze ritornano gradualmente come gradualmente erano svanite. Ora egli è in grado di sollevarsi dalla posizione prona, ma non ancora di rizzarsi sulle gambe. Per alcuni istanti deve rimanere appoggiato sulle palme delle mani e sulle ginocchia, gattoni, come i bambini che non camminano ancora. Adesso può scorgere davanti a sé la figura che lo ha toccato con la mano. È proprio un essere sovrannaturale, ma non è la Figura sfolgorante che gli ha fatto perdere i sensi. È un angelo; è l’angelo Gabriele?416 11 E mi disse: “Daniele, uomo grandemente amato, cerca d’intendere

le parole che ti dirò, e rizzati in piedi nel luogo dove sei; perché ora io sono mandato da te”. E quand’egli m’ebbe detta questa parola, io mi rizzai in piedi, tutto tremante. Una voce familiare saluta Daniele con parole affettuose e rassicuranti: “uomo grandemente amato...”, letteralmente “uomo di delizie”, tOdumAx-$yi) ’îsh chamudôth (chamudôth è lo stesso vocabolo che nel v. 3 è tradotto “desiderabili” o “deliziosi”). È l’identica espressione con cui Gabriele ha salutato il profeta 3 anni prima (cfr. 9:23). Come nell’episodio del cap. 9, la ricerca intensa e perseverante di Dio nell’umiltà e nella preghiera è stata premiata. Ma in più rispetto a quell’episodio, stavolta la venuta dell’angelo con un messaggio speciale da parte di Dio è stata preceduta da una manifestazione personale della Divinità. Nella prima manifestazione Daniele ha udito il suono di una voce possente come il rumoreggiare di una moltitudine, ma non ha potuto distinguere le parole che quella voce ha proferite. Ora è essenziale che egli intenda quanto il messo celeste sta per rivelargli, perché si tratta di un messaggio di estrema importanza: “presta attenzione alle parole che io ti dirò” (!yel) " r"bod yikon) f re$) A {yirb f D : B a }"bh f hâven baddevarîm ’asher ’anokî dover ’eleyka). Il comando: “rizzati in piedi”, sembra trasfondere nel profeta ulteriori energie: “ E quando m’ebbe detta questa parola, io mi rizzai in piedi...” Il vegliardo riassume la posizione eretta davanti all’angelo, ma è ancora malfermo sulle gambe. Quanto è spossante per un essere umano il confronto con la Maestà divina!

416 - Cfr. E.G.WHITE, Prophets and Kings, pp. 571-572.

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Colui che ha rimesso in piedi il profeta e lo sollecita a concentrarsi per ascoltarlo, non è venuto di sua iniziativa, egli sta semplicemente eseguendo un mandato: “ora io sono stato mandato da te...” La Divinità non riceve mandati, li conferisce. Ecco la prova che chi ha toccato Daniele e lo ha fatto tornare in sé non è stato l’Essere maestoso che lo ha fatto andare in deliquio, ma soltanto un suo messaggero. Per dirlo con un’espressione tolta dal linguaggio tecnologico moderno, egli è stato una cinghia di trasmissione, non un motore. 12 Ed egli mi disse: “Non temere, Daniele; poiché dal primo giorno che

ti mettesti in cuore d’intendere e d’umiliarti nel cospetto del tuo Dio, le tue parole furono udite, e io son venuto a motivo delle tue parole. Un uomo di Dio quanto più sia cosciente della propria imperfezione e indegnità tanto più prova sgomento e confusione nel confrontarsi con la perfezione divina (vedi Is 6:5). L’angelo deve avere notato il grande disagio del vecchio profeta nel trovarsi in sua presenza, perciò lo rincuora e lo rassicura chiamandolo per nome: “Non temere, Daniele...!”. “Dal primo giorno...”. È di certo un riferimento all’inizio dei 21 giorni di duolo e di umiliazione (vedi il v. 2). Come abbiamo detto nel commento del v. 2, eventi inquietanti stavano accadendo in quei giorni nella patria lontana dove da poco erano giunti i primi reduci dall’esilio. Daniele ne era rimasto scosso e aveva cercato di capire perché succedevano quelle cose. Come già tre anni prima (cfr. 9:3), si era umiliato davanti al suo Dio - forse confessando ancora una volta i peccati del suo popolo dei quali si sentiva in qualche modo corresponsabile - e aveva rivolto al Signore fervide suppliche per la sua gente. Ora egli è messo al corrente dal messaggero di Dio che le sue suppliche sono state accolte in cielo fin dalle prime battute: “dal primo giorno... le tue parole furono udite...”. “Dio - osserva J.Doukhan - esaudisce anche la preghiera inespressa, o piuttosto non ancora espressa. Perché non è la preghiera in sé stessa che è vana, ma è l’illusione che l’intervento dall’alto sia stato provocato dal peso magico delle parole con le quali la preghiera è stata espressa”417 (La supplica di Daniele era dunque stata esaudita fin dalle prime parole, ma per tre settimane intere non era successo nulla che lo facesse supporre. Solo dopo 21 lunghi giorni l’angelo del Signore è venuto per portargli la risposta. Perché questo prolungato indugio? La risposta è data nel versetto seguente. 13 Ma il capo del regno di Persia m’ha resistito ventun giorni; però

ecco, Micael, uno dei primi capi, è venuto in mio soccorso, e io son rimasto là presso i re di Persia.

417 - Op. cit., p. 228.

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L’inviato del cielo prima di visitare Daniele aveva dovuto svolgere una missione di grande importanza presso la suprema autorità del regno di Persia le cui decisioni o mancate decisioni avevano inciso negativamente sulle vicende dei Giudei rimpatriati con Zorobabele determinando quello stato di cose che aveva suscitato la perplessità di Daniele. La spiegazione del ritardo fornita dall’angelo (“Ma il capo del regno di Persia m’ha resistito ventun giorni”) fa supporre che la sua missione si rivelasse più ardua del previsto. Chi è “il capo del regno di Persia” che si è opposto con tanta tenacia al messaggero celeste? È da scartare subito la supposizione che sia uno dei re di Persia ai quali si fa riferimento alla fine del versetto (sfrpf y"kl : m a malkê paras). L’angelo dà una qualifica diversa al personaggio misterioso che gli ha resistito: sarPf tUk:lm a ra& sar malkûth paras, “capo”, o meglio “principe del regno di Persia”. È pure da respingere l’opinione che il sar malkûth paras fosse un personaggio persiano di sangue reale sconosciuto alla storia. Un essere umano, sia pure rivestito di autorità, non poteva opporsi con successo a un angelo di Dio, se si pensa ai poteri sovrumani di cui sono dotati questi agenti celesti (cfr. Is 37:36; At 12:6-10). Solo un essere sovrannaturale può opporre resistenza a un essere sovrannaturale. Posto che lo stesso termine (sar) qualifica tanto il personaggio celeste che venne in aiuto dell’angelo ({yéno$)irh f {yir> f h a dax) a l")kf yim mîka’el ’achad hassarîm harishonîm..., “Micael, uno dei primi principi...”) quanto il personaggio che gli ha resistito 21 giorni, quest’ultimo deve essere stato anch’egli un essere sovrannaturale. Alcuni commentatori vi hanno visto un angelo celeste protettore del regno di Persia418 e, anche in base a quanto si dice in seguito (v. 20), hanno concluso che i regni della terra sono posti sotto la tutela di angeli buoni. Se fosse così, bisognerebbe dedurre da questo passo di Daniele che c’è rivalità e contrapposizione fra gli angeli di Dio, un’idea che non è suffragata dalla Scrittura e che, anzi, contrasta con la visione biblica sugli angeli celesti. Si deve perciò concludere che il sar del regno di Persia che ha contrastato per tre settimane l’angelo di Dio, fosse un emissario di Satana, un angelo decaduto. Sar - spiega il S.D.A: Bible Commentary (vol. IV, p. 589) è un “termine che si ripete 420 volte nell’A.T., mai però col significato di ‘re’. Esso viene riferito ora a un funzionario reale (Ge 40:2, tradotto ‘capo’), ora a un’autorità locale (1Re 22:20, tradotto ‘governatori’), anche ai capi subalterni di Mosè (Es 18:21, tradotto appunto ‘capi’). Con quest’ultimo significato il termine compare nell’espressione sar hassaba’, ‘comandante dell’esercito’ (la stessa espressione tradotta ‘principe dell’esercito’ in 8:11) in uno degli ostraca di Lakis, una lettera scritta da un ufficiale dell’esercito giudaico al suo superiore, probabilmente all’epoca della conquista di Giuda ad opera di Nabucodonosor nel 588-586 a.C., quando Daniele si trovava in Babilonia...”.

418 - Cfr. G.Rinaldi, op. cit., p. 137

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“L’essere celeste che apparve a Giosuè presso Gerico è chiamato ‘il capo (ebr. sar) dell’esercito del Signore’ (Gs 5:14, 15). ìDaniele usa spesso questo vocabolo con riferimento ad esseri sovrannaturali (Dn 8:11, 25; 10:13, 21; 12:1). ìSi è supposto, sulla base di queste considerazioni, che sar denoti un essere sovrannaturale che in quel tempo si contrappose agli angeli di Dio e tentò di volgere la politica del regno di Persia contro gli interessi superiori del popolo di Dio. La questione fondamentale era il benessere di questo popolo contrastato dai vicini pagani. Poiché si dice in appresso che Micael è il ‘principe (sar) che sta per i figli del tuo popolo’ (12:1), non sembra irragionevole concludere che ‘il principe del regno di Persia’ fosse un sedicente angelo guardiano di questo popolo appartenente in realtà alle milizie dell’avversario” (ibidem, p. 859). Il punto di vista di H.C.Leupold sull’identità del ‘principe del regno di Persia’ in 10:13, concorda sostanzialmente col commento del S.D.A. Bible Commentary. Scrive questo espositore che in quel punto del libro di Daniele “il riferimento è senza dubbio agli angeli malvagi detti dèmoni nel Nuovo Testamento. Tali potenze demoniache - aggiunge - nel corso del tempo hanno sviluppato una forte influenza su certe nazioni e i loro governi fino ad averne il controllo. Esse hanno messo in atto tutte le risorse possibili allo scopo di ostacolare l’opera e frustrare i piani di Dio”419. Il conflitto ultraterreno descritto in 10:13 apre una finestra su un universo spirituale in gran parte sconosciuto che sovrasta il mondo sensibile e in una certa misura ne influenza gli eventi. Un conflitto titanico che oppone le forze del Bene e del Male in una dimensione cosmica si svolge al di là e al disopra dei contrasti umani condizionandone in parte gli esiti specie laddove questi abbiano ripercussioni sull’opera e sul popolo di Dio420. Nel caso in esame è assai verosimile che l’angelo di Satana, arbitrario “principe” spirituale del regno di Persia, esercitasse la sua nefasta influenza sul sovrano di questa nazione - Ciro II - allo scopo di impedire la realizzazione del disegno divino riguardo alla nazione santa, ovvero il ripristino della vita religiosa in seno ad essa. La lotta fra l’angelo di Dio e l’emissario di Satana si protrasse per tutto il tempo del duolo di Daniele, del tutto all’oscuro su questo conflitto fra angeli: “il capo (sar) del regno di Persia- dice al profeta l’inviato del cielo - m’ha resistito ventun giorni”. Solo l’intervento di una potestà superiore al fianco dell’angelo buono ha potuto vincere l’opposizione caparbia dell’angelo malvagio: “però, ecco, Micael, uno dei primi capi (o principi), è venuto in mio soccorso...” (yénr " zº (f l : )fB {yéno$)irh f {yir& f h a dax) a l")kf yim h¢Nh i wº wehinneh mîka’el ’achad hassarîm hari’shonîm ba’le‘azrenî...). J.Doukhan segnala una possibile traduzione alternativa di questo passo la quale pone Mika’el al vertice della dignità celeste. Egli dice testualmente: “Il v.

419 - Op. cit., p. 457. 420 - Il tema del conflitto tra Cristo e Satana, tra il Bene e il Male, è trattato magistralmente

nel volume di Ellen G.White The Great Controversy (in traduzione italiana Il gran conflitto, Ed. AdV, Firenze, 1977).

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10 lascia anche capire attraverso l’uso di un superlativo che egli (Micael) è ‘il primo dei primi capi’ (traduzione letterale), e non ‘uno dei primi capi’ (versione Ségond). La parola ’achad che si traduce comunemente col numero cardinale ‘uno’ è usata ugualmente col significato del numero ordinale ‘primo’. Quest’ultimo senso conviene assai meglio al contesto di questa frase in particolare e del libro di Daniele in generale”421. È la prima volta che compare nel libro di Daniele, e nella Bibbia intera, il nome proprio Mika’el. Chi è questo personaggio potente che ha piegato la resistenza di un emissario del diavolo? Per prima cosa si deve volgere l’attenzione al titolo con cui lo di designa (sar, “capo” o “principe”) non solo in questo punto ma anche in 11:1 (“Micael vostro capo”) e in 12:1 (“Micael il gran capo”). Sar, lo abbiamo visto prima, nell’Antico Testamento il più delle volte è adoperato per indicare una dignità politica (“principe”) o una carica militare (“capo”, “comandante”) o un’autorità locale (“governatore”). Ma talvolta è riferito a entità personali sovrannaturali, come in questo punto del libro di Daniele. Sempre in Daniele tre volte, come si è appena detto, il titolo “sar” è dato al personaggio Micael. In Is 9:5 sar shalom, “principe della pace”, è uno dei titoli riconosciuti al Messia venturo. Infine in Ap 12:7 si riconosce in Micael che combatte e vince il gran dragone, il Cristo risorto vittorioso su Satana. I rabbini antichi identificarono Micael col Messia venturo e col sommo sacerdote officiante nella Sion celeste.422 (Ribadiamo quindi che il principe Micael che ha infranto la resistenza del “principe del regno di Persia” altri non è che il Cristo, l’eterno Figlio di Dio423. Mi-ka’el nella lingua ebraica è una proposizione interrogativa: “chi è come Dio?” Si coglie una sfida in questa interrogazione. Una sfida che nessuno nell’universo è in grado di raccogliere . Il senso sembra essere questo: Nessuno è come Dio se non Colui che porta questo nome, appunto Mika’el. Vinto grazie all’intervento di Micael, l’angelo-avversario ha dovuto battere in ritirata. Adesso la corte persiana è sotto il controllo dell’inviato del cielo: “e io sono rimasto là presso i re di Persia”. Così il Testo Masoretico. I LXX, seguiti da Teodozione, hanno: “e io l’ho lasciato là (Micael)...”. Questa espressione è più coerente col contesto immediato. Infatti dopo l’intervento efficace di Micael, l’angelo ha lasciato la corte persiana ed è andato da Daniele il ventunesimo giorno del suo cordoglio. Per questo motivo varie versioni moderne hanno preferito seguire il testo greco. Così, fra altre, le anglosassoni Revised Standard Version, Moffatt e Goodspeed, e fra le italiane le versioni della C.E.I., della Bibbia Concordata e di G.Bernini. Ellen G.White accredita in un manoscritto inedito questa versione del parti-

421 - Op. cit., p. 232. 422 - J. DOUKHAN, op. cit., p. 332. 423 - Per ulteriori approfondimenti su questa identificazione vedi il commento a 8:7.

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colare del racconto. Ella dice testualmente: “... Michael venne in suo aiuto, poi rimase presso il re di Persia per tenere in scacco le forze del male opponendo buoni consigli ai cattivi”424 H.C.Leupold, sulla scorta del testo ebraico che recita alla fine del v. 13: “e io sono rimasto là presso i re di Persia (malkê parâs)”, osserva che è implicitamente assicurata per gli anni a venire la presenza attiva degli agenti celesti presso la corte persiana onde il popolo di Dio goda anche in futuro il favore dei sovrani di quella nazione425. 14 E ora sono venuto a farti comprendere ciò che avverrà al tuo po-

polo negli ultimi giorni; perché è ancora una visione che concerne l’avvenire”. L’emissario del cielo (con tutta probabilità l’angelo Gabriele) rivela adesso a Daniele lo scopo della sua venuta. Egli ha l’incarico di fargli capire (!ºnyibAhal lehavîneka) quel che avverrà al suo popolo “negli ultimi giorni” ({yimYæ h a tyirx A ) a B : be’acharith hayyamîm, la frase può anche tradursi “alla fine dei giorni” o “nella parte estrema dei giorni”). Frequente negli oracoli dei profeti, e presente anche negli scritti neotestamentari, l’espressione indica ora la parte finale di un periodo di tempo o di un’epoca (cfr. Is 2:2; Gr 30:24; 48: 47; 49: 39; Os 3:5; At 2:17; Eb 1:2), ora il tempo del secondo avvento di Cristo e del giudizio (cfr. Os 2:28; 2Tm. 3:1; 2Pie 3:3, e al singolare Gv 6:40; 11:24; 12:48). In Dn 10:14 l’espressione “gli ultimi giorni” si riferisce all’ultimo periodo della storia umana prima del giudizio. Per “farti comprendere ciò che avverrà al tuo popolo...”: con questa precisazione è fissato il contenuto della rivelazione che Daniele sta per ricevere (“tuo popolo” sulla bocca dell’angelo si riferisce all’Israele storico nell’immediato, e al popolo di Dio della Nuova Alleanza nella prospettiva escatologica). La vicenda storica del popolo di Dio presente e futuro sarà il centro focale della profezia, una profezia proiettata molto in avanti nel tempo: “è ancora una visione che concerne l’avvenire”, letteralmente “è ancora una visione per i giorni” ({yimYæ l a }Ozfx dO( ‘od chazôn layyamîm) o, come traducono varie versioni (C.E.I., T.O.B., Concordata) “per quei giorni”, cioè per “gli ultimi giorni”. L’enfasi è posta sulla parte finale del tempo futuro che sarà oggetto di rivelazione. 15 E mentr’egli mi rivolgeva queste parole, io abbassai gli occhi al

suolo, e rimasi muto. Più conforme all’ebraico: “abbassai il volto al suolo” (hfcr : ) a yánpf yiTt a næ natattî panaî ’artzah).

424 - Lettera 201, 1899, in S.D.A. Bible Commentary, p. 1173. 425 - Op. cit., p. 459.

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Il piegarsi del capo verso il basso e la perdita della favella sono i segni di un forte malessere fisico: un nuovo deliquio sta per cogliere il vecchio profeta. La forte emozione che le parole dell’angelo gli hanno procurato (“mentr’egli mi rivolgeva queste parole”) sta fiaccando la sua già provata resistenza fisica. 16 Ed ecco uno che aveva sembianza d’un figliuol d’uomo, mi toccò le

labbra. Allora io aprii la bocca, parlai, e dissi a colui che mi stava davanti: “Signor mio, a motivo di questa visione m’ha colto lo spasimo, e non m’è più rimasto alcun vigore. L’aspetto sfolgorante dell’angelo sembra avere avuto anch’esso un effetto debilitante sul fisico di Daniele: “Signor mio, a motivo di questa visione... non m’è più rimasto alcun vigore”, yaryic Uk:ph e nå h):rM a B a yénod) A ’adonî bamar’âh nehefku tzirai. È improbabile che il profeta si riferisca a una delle visioni avute in precedenza, come ha congetturato qualche commentatore. Quelle visioni sono troppo lontane nel tempo perché possano ancora influire sulle emozioni di Daniele. La parola mar’eh ha anche il senso di “aspetto”, “apparizione” (vedi il versetto seguente), e questa è l’accezione che conviene meglio al testo in esame. E’ perciò preferibile la traduzione di G.Rinaldi: “Signor mio, nell’apparizione mi incolsero questi miei dolori...” (la T.O.B. traduce in modo simile: “Monseigneur, à cause de l’apparition, des angoisses m’ont saisi...”). Solo ora Daniele può scorgere davanti a sé il suo eccezionale interlocutore. L’angelo ha dunque velato il suo splendore straordinario, come spiega E.G.White,426 sì che il profeta può contemplare la sua figura simile a quella di un comune essere umano ({fd) f y¢nB : tUm:dKi kidmûth benê ’adam, letteralmente: “somigliante a figli d’uomo”). Il tocco dell’angelo ha disserrato le labbra contratte di Daniele. L’uomo di Dio, quasi sul punto di svenire (“non mi è rimasto più alcun vigore”), forse balbettando si lamenta per il grande malessere che lo ha colto. 17 E come potrebbe questo servo del mio signore parlare a cotesto signor mio? Poiché oramai nessun vigore mi resta, e mi manca fino il respiro”.

Con tipico stile orientale, Daniele parla all’inviato del cielo con la deferenza dovuta al suo rango, e gli spiega la ragione per la quale non aveva potuto articolare parola: le forze lo hanno quasi del tutto abbandonato al punto che egli non è stato più in grado di far funzionare con regolarità i muscoli toracici per introdurre aria nei polmoni ed espellerla (i sintomi del grave malessere sono descritti con precisione).

426 - The Sanctified Life, Ediz. 1955, p. 52.

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“Questo servo” sulla bocca di Daniele è un riferimento a se stesso in terza persona; “mio signore” e “cotesto signor mio” sono espressioni riverenziali rivolte all’interlocutore. L’uomo di Dio ha la lucida coscienza del grande divario di natura che esiste tra sé e l’angelo: altra è la dignità umana, altra la dignità angelica. 18 Allora colui che aveva la sembianza d’uomo mi toccò di nuovo, e

mi fortificò. Col precedente tocco delle labbra l’inviato di Dio aveva reso al profeta la capacità di articolare di nuovo le parole, ma la sofferenza e la grande debolezza fisica permangono. Adesso l’angelo posa ancora una volta la mano su di lui ed egli sente che le forze ritornano (“mi toccò di nuovo e mi fortificò”), come se da quel contatto egli ricevesse una carica di energia vitale. Daniele vede tuttora l’angelo nell’aspetto umano: “colui che aveva la sembianza d’uomo”, nell’originale {fd) f h")r : m a K: yiB bî kemar’eh ’adam, “colui che aveva apparenza d’uomo” (mar’eh appare chiaramente nell’accezione di “aspetto”, “apparenza”). 19 E disse: “O uomo grandemente amato, non temere! La pace sia

teco! Sii forte, sii forte”. E quand’egli ebbe parlato meco, io ripresi forza, e dissi: “Il mio signore, parli pure poiché tu m’hai fortificato”. Per la seconda volta l’inviato del Signore rivolge all’uomo Daniele il saluto affettuoso e rassicurante: “O uomo grandemente amato, non temere!” (tOdumx A $yi) )fryiT-la) ’al tîra’ ’îsh chamudôth, “non temere o uomo prediletto”, letteralmente “di predilezione”); e aggiunge l’augurio di pace: |fl {Olf$ shalôm lake, e un incoraggiamento ripetuto due volte: qæzx A wá qázx A chazaq wachazaq, che alcune versioni traducono con due verbi distinti “fortificati e rinfrancati !”. Nelle parole dell’angelo - osserva H.C.Leupold - c’è una triplice enfasi: “Non temere”, “Pace a te”, “Sii forte”, rafforzata dal saluto affettuoso già rivolto in precedenza: “O uomo prediletto”. “In aggiunta al tocco fisico che fortificò il corpo - commenta questo autore - ci fu la parola confortante che fortificò il cuore e la mente”427. L’effetto delle parole incoraggianti dell’angelo è stato immediato: il ricupero delle forze è stato rapido e completo: “E quand’egli ebbe parlato meco, io ripresi forza”. Ora Daniele è pienamente in grado di ascoltare la rivelazione che il messo celeste ha da fargli: “Il mio signore parli, perché tu mi hai fortificato”. “Animato da un forte interesse per la rivelazione, Daniele era tanto ansioso di ascoltare quanto l’angelo di istruire” (Leupold). Il racconto particolareggiato del malessere di Daniele tra l’interruzione e la ripresa delle spiegazioni dell’angelo, così come i ripetuti riferimenti agli interventi di costui per mettere il profeta in condizione di ascoltare, sono indici della estrema importanza di ciò che sta per essere rivelato al profeta. 427 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 463.

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20 Ed egli disse: “Sai tu perché io sono venuto da te? Ora me ne torno a combattere col capo della Persia; e quand’io uscirò a combattere ecco che verrà il capo di Javan.

La domanda può sembrare fuori luogo, giacché il soggetto parlante aveva già dato due motivazioni alla sua venuta: una prima nel v. 12: “sono venuto a motivo delle tue parole”, e una seconda nel v. 14: “sono venuto per farti comprendere ciò che avverrà al tuo popolo”. Può anche sembrare strano che alla domanda non segua né una risposta dalla parte di chi ascolta, né una spiegazione dalla parte di chi parla. In realtà non c’è niente di strano in tutto questo. Data la condizione di crescente sofferenza e debolezza fisica dell’ascoltante, era del tutto possibile che questi non avesse potuto seguire fino in fondo quanto gli era stato detto. Una domanda intesa a sincerarsene, da parte di chi ha parlato, era perciò assolutamente logica e appropriata, tanto più che a quel discorso interrotto quasi appena iniziato doveva adesso collegarsi la rivelazione vera e propria. Un cenno di assenso dell’ascoltante può avere rassicurato l’interrogante che adesso può riprendere tranquillamente il discorso interrotto. L’angelo (v. 14) stava parlando della sua missione presso la corte di Persia per contrastare l’influenza su quella corte dell’angelo di Satana, un’influenza nefasta per il popolo di Daniele; e stava accennando all’intervento risolutivo di Micael in questo conflitto ultraterreno quando ha dovuto interrompersi per il malore che ha colto il suo interlocutore. Ora che Daniele è in condizione di ascoltare, riprende il discorso da questo punto. Col sostegno del Principe Micael, dunque, l’estenuante confronto con l’angelo del male si era risolto felicemente, ma l’avversario, temporaneamente battuto, di certo non si darà per vinto. Urge pertanto che colui che parla a Daniele ritorni presso il re di Persia per riprendere la lotta: “Ora torno a combattere col principe di Persia”, sfrPf ra&-{i( {"xL f h i l : bU$f) hfT(a wº we‘attah ’ashûv lehillachem ‘im sar paras428. Chiaramente si prospetta un nuovo conflitto con l’emissario di Satana, un conflitto destinato a prolungarsi molto al di là del tempo nel quale Daniele riceve questa rivelazione (sui riflessi di siffatto conflitto nella storia posteriore d’Israele, vedi Ed 4: 4-5, 24; 6-23). In sostanza l’angelo rivelatore fa capire a Daniele che la lotta durerà finché la Persia non sarà soppiantata dalla Grecia: “e quando uscirò a combattere ecco che verrà il capo di Javan” (ossia il principe di Grecia).

428 - Il testo ebraico può sembrare ambiguo, giacché la preposizione ‘im (“con”) può essere

compresa sia nel senso di un’alleanza (“al fianco di”) sia nel senso di una contrapposizione (“contro”). Alla stessa incertezza può dar luogo la preposizione meta nella versione greca del passo (su meta nel senso di “insieme con”, “accanto a” vedi Gv 1:3 e Ap 2:16). Il verbo ebraico lâchâm, “combattere”, seguito dalla preposizione ‘im, come in questo passo di Daniele, ritorna 28 volte nell’Antico Testamento col senso evidente di “combattere contro” che emerge dal contesto (cfr. De 20:4; 2Re 13:12; Gr 41:12; Dn 11:11). In Dn 10:20 lehillachem ‘im ha sicuramente questo senso (vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 861).

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L’ebraico recita: )fB }æwyæ -ra& h¢Nh i wº )"cOy yén) A wá wa’anî yotze’ wehinneh sar yawan ba’, letteralmente: “quando uscirò, il principe di Yavan verrà” (è sottinteso “quando uscirò dal conflitto”, cioè “quando avrò abbandonato la lotta”). La Concordata rende bene il senso dell’originale: “... e quando sarò uscito da questa lotta, ecco che verrà il principe di Grecia”. In sostanza l’angelo sta dicendo a Daniele che quando egli avrà abbandonato la lotta col “principe di Persia”, allora si farà avanti un altro avversario, un nuovo angelo di Satana, un sedicente protettore del regno di Grecia. È implicito che anche questi agirà sui nuovi egemoni del mondo per ostacolare il cammino del popolo di Dio. “L’angelo - commenta il S.D.A. Bible Commentary - aveva notificato a Daniele che sarebbe tornato a riprendere la lotta contro le forze tenebrose che agivano con l’intento di dominare la mente del re di Persia. Poi spinse lo sguardo nel futuro e anticipò che quando infine egli abbandonerebbe la lotta, ne seguirebbe uno sconvolgimento nelle vicende politiche del mondo. In effetti finché l’angelo di Dio trattenne le forze del male intenzionate ad esercitare il loro dominio sul governo persiano, questo impero sussistette. Ma non appena si ritrasse l’influsso divino e le forze delle tenebre esercitarono il loro dominio incontrastato su questa nazione, in breve ne seguì la rovina. Le milizie greche condotte da Alessandro scorsero la terra e in breve volgere di tempo estinsero l’Impero Persiano. “La verità che l’angelo ha dichiarato in questo versetto illumina la rivelazione che seguirà. La profezia successiva, la quale prospetta un susseguirsi di guerre, assume grande significato quando la si comprende alla luce di quello che l’angelo ha detto in questo punto. Mentre gli uomini si battono tra loro per la conquista del potere terreno, al di là di siffatto scenario e nascosto agli sguardi umani, si svolge un conflitto ancora più gigantesco di cui sono un riflesso il fluire e rifluire degli eventi umani429. Come il popolo di Dio, stando a quel che è rivelato, è protetto nel corso della sua storia travagliata descritta profeticamente da Daniele, così è certo che in questo conflitto più gigantesco, le legioni della luce prevarranno sulle forze delle tenebre”430. 21 Ma io ti voglio far conoscere ciò che è scritto nel libro della verità;

e non v’è nessuno che mi sostenga contro quelli là tranne Micael vostro capo. Capitolo 11 1 E io, il primo anno di Dario, il Medo, mi tenni presso di lui per sostenerlo e difenderlo. Il passo è reso alquanto oscuro da un’inattesa interruzione di senso fra la prima e la seconda frase. Si è supposta una lacuna testuale per tentare di dare una spiegazione al fenomeno, ma la congettura non è necessaria. Si deve anche

429 - Vedi Education, p. 173. 430 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 861-862.

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lamentare che una infelice divisione del testo viene a complicare ulteriormente la difficoltà. In conseguenza di questo taglio malaccorto del testo metà di un discorso continuativo è andata a concludere il cap. 10 e l’altra metà è andata a introdurre il capitolo seguente. Avendo finora parlato del conflitto invisibile che lo ha opposto al “principe del regno di Persia”, l’angelo sembra volere adesso lasciare da parte questo discorso, che è secondario rispetto alla rivelazione capitale che ha da fargli: “Ma io ti voglio far conoscere ciò che è scritto nel libro della verità...” La straordinaria rivelazione sarà tratta dal libro di Dio che è assolutamente attendibile (“nel libro della verità”, tem) E bftk: B i biktav ’emeth). H.C.Leupold osserva che l’avversativo ’aval (“nondimeno”) che apre il versetto è più forte del semplice “ma”, e aggiunge che l’uso di esso va notato in quanto l’ebraico adopera di rado gli avversativi, valendosi correntemente della congiunzione waw (“e”) con funzione avversativa. Quell’’aval, insomma, sottolineerebbe la maggiore importanza di ciò che resta da dire rispetto a ciò che è stato detto. E tuttavia è necessario aggiungere un pensiero supplementare a quel che è stato detto in merito al conflitto tra angeli, allo scopo di prevenire fraintendimenti possibili sulla partecipazione di questi esseri celesti a siffatti conflitti. E’ necessario aggiungere che un solo essere celeste, Micael, lo ha sostenuto e lo sosterrà ancora nel conflitto che incombe. Non perché il cielo se ne disinteressi aggiungiamo noi - ma perché le risorse congiunte di Gabriele e Micael sono più che sufficienti. Riassumendo: prima dell’annunciata rivelazione (“ti mostrerò ciò che è scritto nel libro della verità”), l’angelo torna per un momento sul discorso precedente per fare una puntualizzazione necessaria sugli angeli buoni che prendono parte al conflitto spirituale contro gli angeli cattivi. “Vostro principe”, {ekr : & a sarkem: così l’angelo caratterizza Micael parlando con Daniele. Se i regni pagani di Persia e di Grecia hanno (e avranno) un protettore fraudolento nella persona di un angelo infernale, Israele è posto sotto la tutela dell’augusto Principe del cielo. Alludendo alla lotta tuttora in corso, l’angelo identifica l’avversario con un pronome al plurale: heL) " ’elleh, “costoro”. Egli aveva detto a Daniele che finita la lotta contro il “principe di Persia”, subentrerebbe nel conflitto il “principe di Grecia”. L’avere Gabriele usato il pronome plurale in riferimento alla parte avversa in un conflitto che non è finito, implica che egli combatterà anche contro il venturo “principe di Grecia” ed avrà ancora il sostegno di Micael. A questo punto l’emissario del cielo volge verso il passato l’attenzione del suo attento interlocutore, gli rivela che egli ha già svolto un’azione di sostegno verso un leader terreno, presumibilmente anche in quell’occasione per proteggere i santi del Signore: “il primo anno di Dario il Medo, mi tenni presso di lui per sostenerlo e per difenderlo”; difenderlo da chi se non da uno spirito malvagio? Era anche il primo anno di Ciro, il fatto risale dunque a due anni prima. Grammaticalmente l’espressione “presso di lui”, yidm : (f ‘amdî, come pure le voci verbali “per sostenerlo e per difenderlo”, zO(fm:lU qyézAxam:l lemachazîq ulema‘ôz”, possono riferirsi tanto a Dario il Medo quanto a Micael menzionato 331

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prima di Dario. Ma la logica richiede che il riferimento sia al primo in quantochè il Principe Micael non può avere avuto bisogno del sostegno e della protezione di un angelo. Nel cap. 6 del suo libro Daniele ci ragguaglia su un pericolo mortale che ha corso sotto il regno di Dario il Medo. Se questo personaggio, come è assai verosimile, si identifica con Ugbaru, il generale di Ciro e conquistatore di Babilonia (vedi il commento di 6:1), la sua reggenza come re-vassallo di Babilonia non durò più di 14 mesi. L’episodio drammatico che ha avuto per protagonista Daniele (6:11-17), si svolse nel corso di quei 14 mesi, vale a dire nello stesso periodo di tempo in cui l’angelo celeste si tenne presso Dario il Medo “per sostenerlo e difenderlo” (11:1). Non pare azzardata l’ipotesi che dietro l’emozionante vicenda di Daniele ci sia stato un angelo di satana, vero istigatore del complotto contro il profeta; e che all’origine del ribaltamento della situazione ci sia stato il prevalere dell’angelo di luce sull’angelo delle tenebre. Forse non fu a caso che in quel medesimo scorcio di tempo (9:1) Daniele ricevette la splendida rivelazione delle settanta settimane.

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Capitolo 11 _________________________________________________________________

I

n questo capitolo è esposta la rivelazione annunciata all’inizio del capitolo precedente (una “parola verace” che “predice una gran lotta”, 1:1). La rivelazione comunque mira a far conoscere a Daniele “ciò che avverrà” al suo popolo “negli ultimi giorni” (v. 14). Nel corso di essa apparirà chiaro che nella “gran lotta” il popolo di Dio sarà coinvolto suo malgrado. La profezia prospetta un incessante seguito di conflitti che vedranno contrapposti due forti avversari denominati in modo generico e univoco “il re del Sud” e “il re del Nord”. Poiché i contrasti violenti cui darà luogo la loro rivalità si prolungheranno “sino al tempo della fine” (vv. 35 e 40), è naturale che le parti che vi svolgeranno un ruolo di primo piano avranno un’identità sempre diversa nel decorrere del tempo, pur se l’angelo le designa invariabilmente alla stessa maniera (“il re del Sud” e “il re del Nord”). Con gli infausti avvenimenti predetti s’intrecceranno le vicende del popolo di dio in certi momenti della sua storia futura e grave pregiudizio ne verrà alle sue sacre istituzioni: sarà vilipeso “il patto santo” (vv. 28 e 30) e sarà profanato “il santuario” e il suo tamîd (v. 31). Prospettive funeste che sembrano echeggiare le attività devastanti del “piccolo corno” descritte nei capitoli 7 e 8. E non fa meraviglia, giacché questa rivelazione ricalca in generale gli schemi delle visioni narrate in quei due capitoli. Il percorso storico delineato in questa proiezione profetica si apre con un rapido colpo d’occhio sulla iniziale successione dinastica nel regno di Persia e prosegue, dopo un salto di parecchi decenni, con uno sguardo alla Grecia invitta di Alessandro Magno e al suo dividersi in quattro regni minori dopo la scomparsa del Macedone. La rassegna profetica entra quindi nel cuore della futura vicenda storica descrivendo le guerre interminabili fra i Làgidi d’Egitto e i Seleucidi di Siria, e in questo susseguirsi convulso di vicende violente emerge a un certo punto e domina la scena profetica un personaggio spregevole che i più identificano col re di Siria Antioco Epifane e pochi altri con l’Anticristo finale o con una figura di anticristo storico. Finalmente la lunga sequela di conflitti sbocca e si conclude in una scena tumultuosa in cui non pochi commentatori hanno scorto gli eventi del tempo della fine. La rivelazione ha il suo epilogo in un annuncio confortante e liberatorio per il popolo santo -l’annuncio della sua salvezza escatologica (12:1-3) - agognato compenso alle dolorose peripezie che ne avranno segnato il cammino storico. Sul cap. 11 di Daniele, se fino al v. 20 regna fra gli espositori una sostanziale convergenza, riguardo al resto c’è una notevole disparità di vedute. I libe333

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rali vi identificano, sino alla fine del capitolo, la figura storica di Antioco Epifane (è un punto di vista non recente e non originale giacché, come si è detto altrove in questo commentario, esso ricalca - e non solo qui - un’opinione (quella del neoplatonico Porfirio) vecchia di quasi diciotto secoli. Sia pure con qualche variante, questa è in generale la scelta interpretativa della maggioranza dei commentatori contemporanei di Daniele. Gli antichi interpreti della Chiesa - dei quali si fece portavoce Girolamo nel suo commentario - videro nella parte centrale di questo cap. 11 “l’Anticristo che verrà alla fine del tempo”, seppure adombrato tipologicamente nella figura peraltro secondaria di Antioco IV. Nel tempo attuale gli espositori conservatori di Daniele ammettono in generale la presenza di Antioco nel cap. 11, ma gli assegnano un ruolo limitato. Alcuni soltanto come personaggio storico, altri come figura storica e nel contempo tipo dell’Anticristo finale. Altri infine - e fra questi i nostri - scorgono nella figura dominante della seconda metà del capitolo un anticristo storico, come si è accennato sopra. Si deve comunque dire che fra gli interpreti avventisti di Daniele non c’è stata e tuttora non c’è una completa identità di vedute riguardo al punto del cap. 11 a partire dal quale si dovrebbe identificare l’Anticristo storico (ne riparleremo nel corso del commento). Intanto, a titolo di esemplificazione, riportiamo di seguito, in una sintesi schematica, i pareri di 4 autori contemporanei sull’identità dei personaggi storici ai quali alluderebbe Daniele in questo capitolo undicesimo del suo libro. GIOVANNI RINALDI (cattolico): v. 2: vv. 3 e 4: v. 5: v. 6: v. 7: v. 10: v. 14: v. 20: vv. 21-39: vv. 40-45:

i re di Persia Alessandro Magno e i Diadochi Tolomeo I Sotere e Seleuco I Nicatore Tolomeo II Filadelfo, Antioco I Sotere e Antioco II Theo Tolomeo III Evergete, Seleuco II Callinico, Seleuco III Cerauno Antioco III il Grande e Tolomeo IV Filopatore Tolomeo IV Epifane Seleuco IV Filopatore, Tolomeo VI Filometore Antioco IV Epifane tempo della fine (sulla linea di alcuni Padri)

GIUSEPPE BERNINI (cattolico): v. 2: vv. 3 e 4: v. 5: v. 6: v. 7: v. 8: v. 9: 334

i re persiani Alessandro il Grande Tolomeo I Sotere e Seleuco I Nicatore Tolomeo II Filadelfo, Berenice sua figlia e Antioco II Theo Tolomeo III Evergete e Seleuco II Callinico Seleuco II Callinico incerto

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v. 10: v. 11: v. 12: v. 14: vv. 15 e 16: v. 17: v. 18: vers. 19: v. 20: vv. 21-45: vv. 36-45:

Antioco III il Grande Antioco III il Grande e Tolomeo IV Filopatore Tolomeo IV Filopatore e Antioco III il Grande Antioco III il Grande ancora Antioco III il Grande Antioco III il Grande, sua figlia Cleopatra e Tolomeo V Epifane Antioco III e il romano Cornelio Scipione fine di Antioco III Seleuco IV Filopatore ed il suo tesoriere Eliodoro Antioco IV Epifane eventi della fine

HERBERT C. LEUPOLD (evangelico): FUTURO PROSSIMO: ALLEANZE E CONFLITTI FRA EGITTO E SIRIA (vv. 2-35) vv. 2-4: preambolo storico vv. 5-6: Tolomeo Lago, Tolomeo Filadelfo, Antioco Theo vv. 7-9: Tolomeo Evergete, Seleuco Callinico vv. 10-19: Seleuco III Cerauno, Antioco III il Grande v. 20: Seleuco IV Filopatore vv. 31-35: Antioco IV Epifane FUTURO PIU’ REMOTO: L’ANTICRISTO E SUA DISFATTA E DISTRUZIONE (11:36 - 12:3) vv. 36-39: politica e successi apparenti dell’Anticristo vv. 40-45: ultime fortune e fine dell’Anticristo

2 E ora ti farò conoscere la verità. Ecco, sorgeranno ancora in Per-

sia tre re; poi il quarto diventerà molto più ricco di tutti gli altri; e quando sarà diventato forte per le sue ricchezze, solleverà tutti contro il regno di Javan. Ora che Daniele ha ricuperato le sue forze ed è in grado di tenersi in piedi davanti all’angelo e di ascoltarlo, questi gli farà conoscere “la verità” (ebr. íemeth) o, come aveva detto prima (10:21), “ciò che è scritto nel libro della verità”, vale a dire gli eventi non ancora accaduti che sono registrati nel libro di Dio e che con infallibile certezza si realizzeranno (è in questo senso, cioè nel senso di qualcosa che avverrà con assoluta sicurezza, che devesi intendere la “verità” che il messaggero di Dio si appresta a svelare al profeta). La rivelazione esordisce con un accenno alla successione dinastica nel regno di Persia per i prossimi decenni: “Ecco, sorgeranno ancora in Persia tre re; poi il quarto diventerà molto più ricco di tutti gli altri...”. Sulla identità di questi regnanti i pareri dei commentatori non sono concordi, ma i più vi ravvisano gli 335

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immediati successori di Ciro431 e noi siamo su questa linea. Quando Daniele ricevette questa rivelazione, da un paio d’anni regnava sulla Persia Ciro il Grande. I tre primi successori furono suo figlio Cambise II (529-522 a.C.), l’usurpatore Gaumata, o pseudo Smerdis (522) e Dario I figlio di Istaspe, restauratore della dinastia (522-585). Il quarto fu Serse I il Grande, figlio di Dario I (485-465). Noi propendiamo per questo ordine di successione principalmente per il fatto che nessuno dei re persiani risponde quanto Serse I alla descrizione del quarto re fatta dall’angelo: “poi il quarto diventerà molto più ricco di tutti gli altri; e quando sarà diventato forte per le sue ricchezze, solleverà tutti contro il regno di Javan”. Sullo splendore della corte imperiale di Serse in Susa ha un accenno il libro di Ether in 1:1-7 dove questo personaggio eccentrico compare col nome ebraicizzato di Assuero. D’altronde è nota alla storia l’opulenza eccezionale dei re di Persia. Secondo la tradizione greca Alessandro s’impadronì dei 40.000 talenti d’oro (pari a 1200 tonnellate!) del tesoro dei re di Persia quando conquistò Susa. E ancora quantità ingenti di oro portò via dalle altre città reali persiane432. Erano tali le ricchezze di Serse che quand’egli condusse la poderosa e dispendiosissima spedizione militare del 480 a.C. contro la Grecia, secondo quanto narra Erodoto (VII. 29, 30), non solo rofiutò l’offerta che gli fece un uomo di Lidia - un cero Pitio - del suo tesoro privato per concorrere alle ingenti spese di guerra, ma egli stesso fece dono al generoso ospite lidio di 7000 statèri d’oro per accrescere quel suo patrimonio. Ancor più il riferimento dell’angelo rivelatore a una grande campagna militare contro la Grecia ci sembra avvalorare l’identificazione con Serse il Grande del quarto re che “solleverà tutti contro il regno di Javan”. Riguardo alla dimensione dell’esercito mobilitato da Serse per conquistare la Grecia, lo storico di Alicarnasso dice: “A qual numero ascendesse il contingente di soldati che formavano i singoli popoli, non posso dire con esattezza (...) ma nel suo insieme l’esercito di terra risultò di 1.700.000 unità” (VII. 60). Anche se la cifra appare esagerata, è comunque certo che quella di Serse fu un’armata di tutto rispetto433. I soldati provenivano dalle contrade più disparate dell’Asia e del Bacino orientale del Mediterraneo: Erodoto (VII. 72-80) annovera ben 43 etnie, senza contare i persiani e le popolazioni isolane. Verso le sponde della Grecia veleggiò nel contempo una flotta di 1207 triremi che avevano fornito al Gran Re i fe-

431 - Così già Girolamo nel suo commentario (vedi su 11:2). Quanto ai contemporanei, cfr.

S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 864; G. RINALDI, Daniele, p. 141; H.C.LEUPOLD, Exposition of Daniel, pp. 476-477; A.C.GAEBELEIN, Il profeta Daniele, p. 181. 432 - Cfr. ALAN MILLARD, Archeologia e Bibbia, p. 142. 433 - Gli storici moderni valutano a circa 200.000 il numero dei combattenti dell’esercito di Serse il Grande in questa circostanza

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nici, i siri, gli egiziani, i ciprioti, i cilici, i dori asiatici, i carii, gli ionii, gli eoli e gli abitanti delle isole e dell’Ellesponto. Al seguito della flotta da battaglia navigarono 3000 imbarcazioni da carico fra grandi e piccole per trasportare i cavalli e le vettovaglie” (ibidem, VII. 89-97). Come non scorgere la realizzazione storica della profezia - “solleverà tutti contro il regno di Javan”- in questa forza poderosa e multietnica lanciata contro le città libere della Grecia ? L’esito della spedizione fu disastroso per i Persiani, come ci hanno tramandato gli storici antichi, ma questo andava al di là degli scopi della profezia, perciò essa non vi accenna. Il riferimento iniziale ai re di Persia era un elemento marginale della rivelazione; esso serviva solo da preambolo agli sviluppi successivi. 3 Allora sorgerà un re potente, che eserciterà un gran dominio e

farà quel che vorrà. In questo re potente (ebr. rOBiG \elm e melek gibbor, “re guerriero”), in questo conquistatore e dominatore universale (“eserciterà un gran dominio”) e autocratico (“farà quel che vorrà”) non è difficile scorgere in trasparenza la figura di Alessandro Magno. Lasciati dunque da parte i re di Persia, il rivelatore passa al regno di Grecia che ha già introdotto alla fine del versetto precedente. Può suscitare perplessità questa transizione repentina dal tempo di Serse I all’epoca di Alessandro il Macedone, sorvolandosi su 135 anni di storia persiana nei quali 8 dinasti si succedettero sul trono degli Achenemidi: Artaserse I Longimane (465-423 a.C.), Serse II (423), Sogdiano (423), Dario II Noto (423-405), Artaserse II Memnone (405-359), Artaserse III Ocho (359-338), Arsete (438-436), Dario III Codomano (336-330). Ma a ben riflettere sulla condizione della Persia dopo Serse I, la circostanza appare meno sorprendente di quanto non sembri a prima vista. Dopo le disastrose sconfitte di Salamina e di Platea nel 480 a.C. e nell’anno seguente, la Persia non fu più quella di prima. Iniziò per essa un declino che venne accentuandosi sotto i sovrani sempre più deboli e inetti che la governarono, fino al collasso definitivo nel 330 a.C. Può ben essere questa la ragione per la quale dopo Serse il Grande la Persia esce dalla visuale profetica e ad essa subentra la Grecia che l’ha umiliata ed ha spezzato per sempre ogni sua velleità di espansione territoriale. 4 Ma quando sarà sorto, il suo regno sarà infranto, e sarà diviso verso i quattro venti del cielo; esso non apparterrà alla progenie di lui, né avrà una potenza pari a quella che aveva lui; giacché il suo regno sarà sradicato e passerà ad altri; non ai suoi eredi.

Sembra di poter cogliere nella laconicità di questa sentenza profetica una premonizione sulla durata effimera dell’impero di Alessandro. In effetti questo si disgregò una ventina d’anni dopo la morte prematura del suo fondatore, quando quattro generali del Macedone se ne spartirono l’immenso territorio. 337

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Nel cap. 7 questa circostanza è stata anticipata con la figura di 4 teste sul corpo di un leopardo che rappresentava appunto la Grecia, e nel cap. 8 col simbolo di 4 corna spuntate sulla fronte di un capro (immagine dell’Impero macedone) dopo che era caduto un singolo grande corno (figura di Alessandro). Nel cap. 11 tale evento è preannunciato per la terza volta e stavolta non più in simboli ma con linguaggio chiaro: “il suo regno (il regno di Alessandro) sarà infranto, e sarà diviso verso i quattro venti del cielo” (ritorna l’espressione “verso i quattro venti del cielo” già apparsa in 8:8, cfr. il commento di 7:6 e di 8:20-22). In 11:4 si sentenzia, come già era stato detto in 8:22 u.p., che i regni sorti dalla disgregazione dell’impero non avrebbero avuto la forza di quello. In effetti nessuno dei regni ellenistici eguagliò mai l’impero unito sotto la guida di Alessandro per la forza travolgente delle sue armate. In questo versetto del cap. 11 compare un dettaglio riguardo al trapasso della sovranità nell’impero greco che manca nella profezia parallela del capitolo ottavo: si dice che il dominio passerebbe in altre mani e non in quelle dei diretti discendenti del re potente mentovato nel versetto che precede. Fu esattamente quello che avvenne nella Storia. Non il figlio di Alessandro, non il fratello raccolsero l’eredità del Macedone, ma i suoi generali. 5 E il re del mezzogiorno diventerà forte; ma uno dei suoi capi di-

venterà più forte di lui, e dominerà; e il suo dominio sarà potente. Un ulteriore repentino cambio di scena si verifica nel panorama profetico. Si affacciano ora per la prima volta, alla ribalta della Storia, due nuove figure denominate in modo generico “il re del mezzogiorno” l’una, e “il re del settentrione” l’altra (nel versetto seguente): sono designazioni stereotipe di personaggi realmente comparsi nella storia. Secondo un’interpretazione condivisa da un gran numero di commentatori, sotto la prima designazione si nascondono i regnanti tolemaici che si succedettero sul trono dell’Egitto (il “mezzogiorno”) fino a Tolomeo VII Fiscone, e sotto la seconda i re seleucidi che regnarono sul trono di Siria (il “settentrione”) fino ad Antioco IV Epifane. Tale interpretazione è stata rifiutata in tutto o in parte da altri espositori. Questo commentario da qui sino alla fine del capitolo si atterrà in linea di massima all’esposizione del Seventh-day Adventist Bible Commentary e ad essa farà seguire un’interpretazione alternativa in parte divergente. “Il re del mezzogiorno”: questo riferimento spaziale (il mezzogiorno) e l’altro contrapposto nel versetto seguente (il settentrione) sono determinati in rapporto alla posizione geografica della Palestina. Un testo sud-arabico (Glaser 1155) che informa su un conflitto tra la Persia e l’Egitto chiama rispettivamente “signore del nord” e “signore del sud” i sovrani dei due paesi. Il “re del mezzogiorno” a cui si fa riferimento in questo versetto è Tolomeo I Lago soprannominato Soter (“salvatore”). Già generale di Alessandro poi satrapo d’Egitto dalla morte del Macedone, Tolomeo assunse in proprio la reggenza di questo paese nel 306 a.C. e la tenne fino alla morte avvenuta nel 283. 338

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Egli fu il capostipite della dinastia dei Lagidi o tolemaica che governò l’Egitto fino alla conquista romana nel 30 a.C. “Uno dei suoi capi”, ebr. sarîm, “capi militari”: è Seleuco I Nicatore, anch’egli generale di Alessandro. Costretto nel 316 da Antigono Monoftalmo (altro comandante militare del gran re scomparso) a lasciare Babilonia dove si era installato fin dal 321, Seleuco trovò amichevole accoglienza presso Tolomeo di cui divenne un ufficiale subalterno. Nel 312, con l’appoggio di Tolomeo, Seleuco sconfisse a Gaza Demetrio, figlio di Antigono. Poco tempo dopo riprese possesso della Babilonide e nel 305 si autoproclamò re di gran parte del settore asiatico di quello che era stato lo sterminato impero di Alessandro. “... ma uno dei suoi capi diventerà più forte di lui”. Il riferimento è ancora a Seleuco Nicatore. Dopo avere consolidato il suo dominio sui territori dell’Est, effettivamente Seleuco divenne più forte di Tolomeo. Secondo lo storico Arriano, Seleuco Nicatore fu “il più grande dei re che succedettero ad Alessandro, fu la mente più sagace e regnò sul territorio più vasto dopo quello di Alessandro”434. Alla sua morte avvenuta nel 280 a.C., i domìni sui quali egli aveva regnato si estendevano dall’Ellesponto fino al nord dell’India. 6 E alla fine di vari anni, essi faranno lega assieme; e la figliuola del

re del mezzogiorno verrà al re del settentrione per fare un accordo; ma essa non potrà conservare la forza del proprio braccio, né quegli e il suo braccio potranno resistere; e lei e quelli che l’hanno condotta, e colui che l’ha generata, e colui che l’ha sostenuta per un tempo, saran dati alla morte. “E alla fine di vari anni...”, ebraico: {yén$ f j"ql : U ûlqetz shanîm, letteralmente: “e al termine di anni”. Dopo la scomparsa di Seleuco I Nicatore nel 281 a.C., Egitto e Siria vennero a conflitto per il controllo della Celesiria, una regione fra il Libano e l’Antilibano (l’odierna Valle della Beqa). La guerra fra Tolomeo II Filadelfo e Antioco I Sotere cominciò nel 275 e finì nel 272 con la vittoria delle forze egiziane. Così la Celesiria e le coste mediterranee della penisola anatolica passarono sotto la sovranità dell’Egitto. Qualche tempo dopo però Antioco II Theo, figlio e successore di Antioco I, occupò le città e i porti mediterranei dell’Anatolia. “... e la figliola del re del mezzogiorno verrà al re del settentrione per fare una lega...” Per la prima volta compare in Dn 11 l’espressione “il re del settentrione”, qui riferita, secondo il nostro parere, ad Antioco II Theo. Tolomeo II, oramai avanti negli anni, per prevenire un ulteriore colpo di mano del suo avversario sulla Celesiria, pensò bene di accordarsi con lui. La pace fra i due sovrani fu suggellata da un matrimonio di Stato. Berenice, figlia di Tolomeo Filadelfo (“il re del mezzogiorno”) andò in sposa ad Antioco Theo dopo che questi ebbe ripudiato la prima moglie (e sorella) Laodice ed escluso dalla successione al trono il primogenito di lei Seleuco.

434 - Anabasi di Alessandro, VII. 22, da S.D.A. Bible Commentary, vol. VII, p. 866.

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“... ma essa non potrà conservare la forza del proprio braccio...” (ebr.: (a OrºZh a x a OK roc(: t a -)olwº welo’ ta‘tzor kôach hazzerôa‘, “ma ella non riterrà la forza del suo braccio...”). Dopo che nacque un figlio alla nuova coppia ci fu una riconciliazione fra Antioco e Laodice. In seguito Antioco morì repentinamente, sembra avvelenato da Laodice. “... né quegli né il suo braccio potranno resistere...” (ebr.: O(orzº U dom(A yá )olwº welo’ ya’amod uzro‘ô, letteralmente: “e non resisterà il suo braccio...”. Varie versioni antiche (Teodozione, Simmaco, Vulgata) con un semplice cambio di vocali hanno letto: “e non sussisterà il suo seme”, ovvero la sua discendenza435. Sta di fatto che Laodice, dopo la morte di Antioco, fece assassinare il figlio nato da quest’ultimo e da Berenice. “... e lei, e quelli che l’hanno condotta, e colui che l’ha generata; e colui che l’ha sostenuta per un tempo saran dati alla morte” (ebr.: {yiT(i B f Hfqzé x A m a U Hfdl : oYh a wº fhye)yib:mU )yih }"tæNitºw wethinnathen hi’ umvî’eyhâ wehayyoldah umachaziqâh ba‘iththîm, lett.: “e sarà data (a morte) lei e il suo seguito e il suo genitore e colui che l’avrà sostenuta in quel tempo”). Laodice fece mettere a morte la rivale Berenice e con lei il figlio e le ancelle che l’avevano seguita in Siria. La parola ebraica yoldah secondo la tradizione masoretica significa “colui che l’ha generata”. Tolomeo II morì in Egitto dopo gli eventi funesti accaduti in Siria. Non si capisce perché la sua fine sia fatta risalire a Laodice. Un semplice cambio di vocali consentirebbe di leggere il termine ebraico: “colui che ella ha generato”. Così traducono varie versioni moderne. Per esempio la TOB: “son enfant”, la Concordata: “suo figlio”, la CEI: “il figlio”. La frase finale: “colui che l’ha sostenuta in quel tempo”, si riferisce probabilmente ad Antioco Theo. La seconda parte del versetto nel testo della CEI ci sembra più chiara che in altre versioni: “... e non resisterà né lei né la sua discendenza e sarà condannata a morte insieme coi suoi seguaci, il figlio e il marito”. In definitiva il passo dice che per volere di Laodice sarebbero periti Berenice, il suo seguito egiziano, suo figlio e suo marito. 7 E uno de’ rampolli delle sue radici sorgerà a prendere il posto di

quello; esso verrà all’esercito, entrerà nelle fortezze del re di settentrione, verrà alle prese con quelli, e rimarrà vittorioso; L’ebraico dice lett.: “Sorgerà un germoglio dalle sue radici al posto suo...” (ONaK h f ye$r f $ f recN¢ m i dam(f wº we‘amad minnetzer sharasheyah kannô...). Il “germoglio” è Tolomeo III Evergete figlio di Tolomeo II Filadelfo (“dalle sue radici”) e fratello della assassinata Berenice. “...verrà all’esercito (cioè marcerà contro l’esercito), entrerà nelle fortezze del re del settentrione...” Salito al trono d’Egitto alla morte del padre nel 246

435 - Cfr. G.RINALDI, op. cit., apparato critico a p. 142.

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a.C., Tolomeo III si precipitò con le sue truppe in Siria per salvare la sorella, ma vi giunse troppo tardi. Per vendicarla scorrazzò attraverso i vasti territori del regno seleucida, si spinse fino a Babilonia e nella Battriana, occupò la Cilicia e la città di Seleucia (la “fortezza del re del settentrione”, identificato col giovane Seleuco II Callinico figlio di Laodice e di Antioco II Theo). 8 e menerà anche in cattività in Egitto i loro dèi, con le loro immagini

fuse e coi loro preziosi arredi d’argento e d’oro; e per vari anni si terrà lungi dal re del settentrione. La menzione dell’Egitto chiarisce al di là di ogni dubbio quale sia il paese dove regna il re del mezzogiorno. Tolomeo Evergete rientrò in Egitto con un vistoso bottino: vi figuravano anche le statue dei faraoni ricuperate in Babilonia dove le avevano portate i Persiani. Il Decreto di Canopo (239/238 a.C.) così loda Tolomeo III. “E le sacre immagini che i persiani avevano portato via dal paese il re ricuperò, avendo egli condotto una spedizione in terra straniera, e le riportò in Egitto e le rimise nei templi dai quali ognuna di esse era stata trafugata”436. Scrive Girolamo nel suo commentario che Tolomeo III “saccheggiò il regno di Seleuco e ne asportò quarantamila talenti d’argento oltre a duemilacinquecento vasi preziosi e statue di dèi, fra cui si trovavano anche quei pezzi che Cambise dopo la conquista dell’Egitto aveva portato in Persia” (su Dn 11:7). “...e per vari anni si terrà lungi dal re del settentrione”, più chiara la versione della C.E.I.:”... per qualche anno si asterrà dal contendere col re del settentrione”. Negli ultimi anni di regno (morì nel 221 a.C.) Tolomeo III non fu impegnato in attività belliche di una qualche importanza. 9 E questi marcerà contro il re del mezzogiorno, ma tornerà nel proprio paese.

“Questi” è il re del settentrione, Seleuco II Callinico. Ristabilita la propria autorità sulle terre del suo vasto regno che si erano sottomesse a Tolomeo Evergete, il Callinico intorno al 242 marciò contro l’Egitto puntando su una rivincita per ricuperare i tesori perduti ed il prestigio compromesso, ma sconfitto da Tolomeo III dovette tornarsene in Siria a mani vuote. 10 E i suoi figliuoli entreranno in guerra, e raduneranno una moltitudine di grandi forze; l’un d’essi si farà avanti, si spanderà come un torrente, e passerà oltre; poi tornerà e spingerà le ostilità sino alla fortezza del re del mezzogiorno.

436 - J.P.MAHAFFY, A History of Egypt Under the Ptolemaic Dynasty, New York, 1899, p. 13, cit. in S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 867).

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“... i suoi figlioli”, vale a dire i due figli di Seleuco II Callinico, Seleuco III Cerauno e Antioco III il Grande. Alla morte di Seleuco II nel 226, gli succedette il figlio maggiore Seleuco III il quale però non regnò che per pochi anni, essendo stato ucciso nel 229 mentre accorreva in Asia Minore per difendere i suoi possedimenti minacciati da Attalo re di Pergamo. “... l’un d’essi si farà avanti, si spanderà come un torrente e passerà oltre...”. Costui è Antioco III succeduto al fratello Seleuco III. Nel 219 Antioco III iniziò le ostilità a sud della Siria. Occupò la Celesiria, assediò Sidone e invase la Palestina passando successivamente in Transgiordania. “... e spingerà le ostilità sino alla fortezza del re del mezzogiorno. Nel 217 Antioco il Grande alla testa di un esercito di 60.000 fanti, 6.000 cavalieri e 102 elefanti secondo lo storico Polibio marciò su Rafia, a sud-ovest di Gaza (“la fortezza del re del mezzogiorno”). 11 Il re del mezzogiorno s’inasprirà, si farà innanzi e muoverà

guerra a lui, al re del settentrione, il quale arruolerà una gran moltitudine; ma quella moltitudine sarà data in mano del re del mezzogiorno. 12 La moltitudine sarà portata via, e il cuore di lui s’inorgoglirà; ma, per quanto ne abbia abbattuto delle decine di migliaia, non sarà per questo più forte. Presso Rafia Tolomeo IV Filopatore (“il re del mezzogiorno”), succeduto al padre Tolomeo III nel 221, attendeva Antioco con un esercito forte di 70.000 fanti, 5.000 cavalieri e 73 elefanti. La battaglia fu aspra e terminò con una vittoria strepitosa delle forze egiziane. Antioco si ritirò lasciando sul terreno, al dire di Polibio, 10.000 fanti, 300 cavalieri e 5 elefanti, e nelle mani degli egizi 400 prigionieri (“la moltitudine portata via”). “... il cuore di lui s’inorgoglirà, ma per quanto ne abbia abbattuti delle diecine di migliaia, non sarà per questo più forte”. Il dissoluto e indolente Tolomeo Filopatore mancò di cogliere sino in fondo i frutti della vittoria di Rafia, come avrebbe potuto e dovuto fare. Se avesse inseguito i nemici in fuga molto probabilmente li avrebbe sgominati e avrebbe anche potuto catturare Antioco. Ma si ritenne pago del risultato conseguito sul campo di battaglia e se ne tornò in Egitto gonfio d’orgoglio. 13 E il re del settentrione arruolerà di nuovo una moltitudine più nu-

merosa della prima; e in capo ad un certo numero d’anni egli si farà avanti con un grosso esercito e con molto materiale. Fra gli anni 212 e 204 Antioco III dedicò le sue energie al ricupero dei territori orientali che a seguito della fortunata campagna militare di Tolomeo III (vedi v. 8), erano passati sotto la sovranità dell’Egitto. Antioco portò le sue truppe fino ai confini dell’India (gli storici antichi hanno chiamato “Anabasi” questa spedizione del Seleucide nell’Oriente durata 6 o 7 anni). Conclusa con successo questa campagna nell’est, Antioco III preparò con 342

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gran cura una nuova spedizione contro l’Egitto. Intorno al 203 a.C. il re Tolomeo IV e la regina perirono misteriosamente e sul trono dei Làgidi fu posto il loro figlioletto di 5 o 6 anni, Tolomeo V Epifane. Antioco stimò che fosse il momento giusto per una nuova offensiva al sud. “... in capo a un certo numero d’anni...”: probabilmente è un riferimento ai 16 anni circa (217-201) che trascorsero tra la disastrosa battaglia di Rafia e la seconda spedizione contro l’Egitto. 14 E in quel tempo molti insorgeranno contro il re del mezzogiorno; e degli uomini violenti di fra il tuo popolo insorgeranno per dar compimento alla visione, ma cadranno.

Da questo punto le interpretazioni sul cap. 11 di Daniele, fin qui convergenti, cominciano a divergere, anche notevolmente. Un certo numero di commentatori stima che nei vv. 14-45 si riflettano ancora le vicende dei re seleucidi e làgidi, altri pensano che dal v. 14 fino al 35 siano di scena Roma imperiale e la Chiesa cristiana. “Numerosi commentatori qui o più avanti in questo capitolo vedono riferimenti ad Antioco IV, che regnò fra il 176 e il 164 a.C., e alla crisi nazionale giudaica che la sua politica di ellenizzazione forzata fece esplodere. È di certo un fatto storico innegabile che il tentativo di Antioco di costringere i Giudei a rinnegare la religione e la cultura nazionali per adottare la religione, la cultura e la lingua dei Greci, costituì l’evento più significativo della storia giudaica del periodo intertestamentale. “La minaccia rappresentata dalla politica di Antioco Epifane pose i Giudei di fronte ad una crisi paragonabile a quelle causate dal faraone, da Sennacherib, da Nabucodonosor, da Haman e da Tito. Durante il suo breve regno di 12 anni, poco mancò che Antioco estinguesse la religione e la cultura giudaiche. Spogliò il santuario dei suoi tesori, saccheggiò Gerusalemme, lasciò in rovine la città e le sue mura, massacrò migliaia di giudei e altri ne condusse in esilio come schiavi. Un editto reale impose ad essi l’abbandono di tutti i riti della loro religione per vivere da pagani. Furono costretti ad accogliere altari pagani nelle loro città e ad offrire su di essi carne di porco, nonché a consegnare tutte le copie delle loro scritture sacre per essere fatte a pezzi e bruciate. Antioco pose anche un idolo sull’altare del tempio in Gerusalemme e offrì sopra di esso carne di maiale. “Parve farsi labile, negli anni in cui fu promossa questa politica, la prospettiva di una sopravvivenza della religione giudaica e degli stessi Giudei come popolo con una sua propria identità nazionale. “Finalmente i Giudei insorsero e cacciarono dalla Giudea le forze di Antioco. Riuscirono persino a respingere un esercito che Antioco aveva spedito in Palestina col compito specifico di sterminarli. Di nuovo liberi dalla sua mano oppressiva, essi restaurarono il tempio, vi misero un nuovo altare e ricominciarono ad offrire il sacrificio. Avendo stretto alleanza con Roma alcuni anni dopo (161 a.C.), i Giudei godettero per circa un secolo un’indipendenza e una prosperità relative sotto la protezione romana, fin343

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ché la Giudea non divenne provincia di Roma nel 63 a.C. Coloro che sostengono che Antioco Epifane sia menzionato nei vv. 14 e 15, identificano negli ‘uomini violenti’ quei giudei che tradirono i loro connazionali e collaborarono con Antioco per attuare la sua politica ed eseguire i suoi decreti crudeli e blasfemi437. “E’ possibile che nel cap. 11 ci siano riferimenti alla crisi provocata dalla politica di Antioco Epifane, per quanto le opinioni divergano considerevolmente riguardo alla parte della profezia in cui si dà notizia di lui. Riconoscere che nel cap. 11 ci siano riferimenti ad Antioco Epifane non implica comunque che si consideri questo personaggio protagonista dei fatti anticipati nelle profezie dei capitoli 7 e 8, più di quanto non lo richieda la menzione di altri re seleucidi”438. Sugli “uomini violenti di fra il tuo popolo” (letteralmente “i figli dei demolitori del tuo popolo”) l’opera citata osserva: “L’espressione può comprendersi in senso soggettivo, ‘i figli dei violenti fra il tuo popolo’ (...). Così intesa essa si riferirebbe a quei giudei che presero occasione dai conflitti internazionali per promuovere i loro interessi nazionali, anche travalicando i limiti della legalità pur di raggiungere i loro fini. Se invece si prende la frase in senso oggettivo, il passo può significare: ‘coloro che agiscono con violenza contro il tuo popolo’. Nell’espressione intesa in questo modo si è visto un riferimento ai Romani i quali nel 63 a.C. privarono i Giudei dell’indipendenza, e in seguito (nel 70 e nel 135 d.C.) distrussero il Tempio e la città di Gerusalemme. In effetti fu durante il regno di Antioco III (vedi su 10-13) che i Romani, intervenuti in Oriente per tutelare gli interessi dei loro alleati (Pergamo, Rodi, Atene ed Egitto), fecero sentire il loro peso sulle politiche della Siria e dell’Egitto”. 15 E il re del settentrione verrà; innalzerà de’ bastioni, e s’impadro-

nirà di una città fortificata; e né le forze del mezzogiorno, né le truppe scelte avran la forza di resistere. Prosegue la descrizione - iniziata nel v. 13 - della seconda campagna di Antioco III in Palestina. La “città fortificata” (tOrfcb : m i ryi( ‘îr mivtzarôth, lett.: “una città di fortificazioni”) è probabilmente Gaza. Occupata la Celesiria nel 202, Antioco espugnò questa città fortificata nel 201 dopo un prolungato assedio. Secondo altri espositori la “città fortificata” sarebbe Sidon, che nel corso di questa stessa campagna Antioco III assediò mettendo alla strette l’esercito egizio che vi si era asserragliato, costringendolo alla resa.

437 - Per informazioni più particolareggiate sulle esperienze dolorose dei giudei in quegli anni

infausti, vedi I Maccabei 1 e 2 e GIUSEPPE FLAVIO, Antichità, XII, 6,7; Guerre, I, 1. 438 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 868-869.

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16 E quegli che sarà venuto contro di lui farà ciò che gli piacerà, non essendovi chi possa stargli a fronte; e si fermerà nel paese splendido, il quale sarà interamente in suo potere.

Da questo punto in avanti, si farà seguire all’interpretazione esposta nel commentario avventista (S.D.A. Bible Commentary) la spiegazione condivisa dalla maggior parte degli autori moderati e conservatori. I commentatori che scorgono Roma già nel v. 14, ritengono che la conquista della Palestina a cui fa riferimento questo versetto sia l’occupazione romana ad opera di Pompeo nel 63 a.C. Intromettendosi nella lite tra i fratelli asmonei Ircano e Aristobulo per la successione al trono di Giudea, il generale romano scese a Gerusalemme dalla Siria e dopo 3 mesi di assedio costrinse alla resa i difensori giudei che si erano asserragliati entro le fortificazioni del Tempio. Fu in quell’occasione, secondo Giuseppe Flavio (Antichità XIV. 4,4), che Pompeo sollevò il velo tra il Santo e il Santissimo per scoprire quale segreto si nascondesse dietro di esso. Interpretazione corrente. “Quegli che sarà venuto contro di lui” sarebbe sempre Antioco III. Passato in Asia minore nel 201, dopo avere conquistato Gaza, per combattere contro Attalo III re di Pergamo, Antioco dovette tornare verso la Celesiria minacciata da un esercito egiziano agli ordini del generale Scopas. Lo scontro fra Siri ed Egiziani avvenne al Panion presso le sorgenti del Giordano, e fu disastroso per le forze di Scopas che furono sbaragliate. Così la Palestina, “il paese splendido”, passò sotto la sovranità di Antioco III. 17 Egli si proporrà di venire con le forze di tutto il suo regno, ma

farà un accomodamento col re del mezzogiorno; e gli darà la figliuola per distruggergli il regno; ma il piano non riuscirà, e il paese non gli apparterrà. Il termine ebr. {yir$ f yi w wîsharîm, tradotto “farà un accomodamento” (Luzzi), “stipulerà un’alleanza” (CEI), “farà accordi” (Concordata) rende alquanto oscura la frase (ebr. hf&(f wº OMi( {yir$ f yéw wîsharîm ‘immô we‘âsâh, lett.: “ma equi con lui farà”). Le versioni considerano wîsharîm equivalente a mêsharîm, “equità”, “integrità”, “rettitudine”. Nel v. 6 mêsharîm indica un accordo equo fra il re del nord e il re del sud. Se nel v. 17 mêsharîm è la lettura corretta, potrebbe esservi un riferimento alla richiesta fatta da Tolomeo XI Aulete in punto di morte, nel 51 a.C., di porre i suoi due figli, Cleopatra e Tolomeo XII, sotto la tutela di Roma. L’espressione inconsueta {yi$Næ h a tab bath hannashîm, “figlia di donne”, secondo il S.D.A. Bible Commentary, enfatizza probabilmente la femminilità della donna di cui si sta parlando. Vari commentatori hanno applicato questa espressione alla figlia dell’Aulete. Tre anni dopo la morte del padre, Cleopatra divenne amante di Giulio Cesare che nel frattempo aveva invaso l’Egitto. Dopo l’assassinio di Cesare, Cleopatra si legò a Marcantonio, il rivale di Ot345

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taviano ed erede di Giulio Cesare. Nel 31 a.C. Ottaviano sconfisse ad Azio le forze navali congiunte di Marcantonio e Cleopatra. Dopo la morte di Marcantonio, Cleopatra, avendo invano tentato di sedurre Ottaviano, si tolse la vita. Con la sua scomparsa nel 30 a.C. si estinse la dinastia tolemaica e l’Egitto divenne provincia romana. Il S.D.A. Bible Commentary osserva che la condotta stravagante di Cleopatra collima con la descrizione fatta nell’ultima parte di questo versetto. A Cleopatra interessavano di più le sue finalità politiche che non Giulio Cesare o Marcantonio. Interpretazione corrente. Il protagonista della vicenda narrata nel v. 17 il re del nord - sarebbe ancora Antioco III. Roma esercitava oramai la sua influenza sulla politica degli stati orientali. Antioco, allo scopo di sistemare definitivamente l’annosa questione della Celesiria senza offrire a Roma un pretesto per intervenire in difesa dell’alleato egiziano, pensò di combinare un matrimonio di stato fra sua figlia Cleopatra, detta la Sira, e il giovane Tolomeo V Epifane, certo anche con l’intenzione di spadroneggiare in Egitto. Il fastoso matrimonio si celebrò a Rafia nel 194 a.C. Ma il piano di Antioco rimase frustrato poiché Cleopatra svolse in pieno il suo ruolo di regina d’Egitto. Inoltre, avendo ella ricevuto in dote la Celesiria, Tolomeo ebbe un motivo ineccepibile per rivendicarne il possesso. 18

Poi si dirigerà verso le isole, e ne prenderà molte; ma un generale farà cessare l’obbrobrio ch’ei voleva infliggergli, e lo farà ricadere addosso a lui.

Le “isole” (ebr. {yéY) i ’iyyîm, “terre marittime”, “litorali”), verso le quali si volgerà il re del nord, sono identificabili con le coste mediterranee dell’Africa lungo le quali fu sconfitto il partito di Pompeo. Frattanto Giulio Cesare, che eventi turbolenti nei possedimenti orientali di Roma avevano richiamato dall’Egitto, combatté vittoriosamente contro Farnace re dei Cimmèri. In lui si identifica il }yicqf qatzîn (“comandante militare”, come in Gs 10:24), che fa cessare “l’obbrobrio”, o meglio “l’arroganza” come traducono versioni più recenti. Interpretazione corrente. Antioco III, dopo che i Romani ebbero sconfitto la Macedonia nel 197 a.C., occupò alcune città costiere dell’Asia Minore (le isole), già possedimenti macedoni, e passò in Grecia per tentare di arrestare l’avanzata romana. Battuto da Marco Porcio Catone si ritirò in Asia Minore. Quivi nel 190 lo raggiunse il console Lucio Cornelio Scipione, detto l’Asiatico (il “generale”, ebr. qas–n), e gli inflisse una disastrosa sconfitta. 19 Poi il re si dirigerà verso le fortezze del proprio paese; ma inciamperà, cadrà, e non lo si troverà più.

Nella caduta e scomparsa del re del nord si ravvisa la morte violenta di Giulio Cesare avvenuta nel marzo del 44 a.C. 346

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Interpretazione corrente. Come avveniva quasi sempre quando una forte nazione subiva una dura sconfitta, le province tributarie dell’Est si ribellavano contro la sovranità della Siria. “Antioco non si perse d’animo. Partito contro le province ribelli, con la speranza anche di raccogliere denaro per far fronte all’indennità da pagare, volle impadronirsi delle ricchezze custodite in un tempio di Bel in Elimaide, ma ivi fu ucciso dagli abitanti insorti a difesa del luogo sacro”439. Tale fu la fine ingloriosa di Antioco III, che pure era stato un monarca energico e risoluto. 20 Poi, in luogo di lui, sorgerà uno che farà passare un esattore di

tributi attraverso il paese che è la gloria del regno; ma in pochi giorni sarà distrutto, non nell’ira, né in battaglia. “...un esattore di tributi...” Il S.D.A. Bible Commentary spiega: “ebr. &" gOn ryib(A m a ma‘avîr noges, lett. ‘uno che fa circolare un oppressore’. Il participio noges, dal verbo nagas, ‘opprimere’, ‘riscuotere’, è usato in Es 3:7 a proposito degli ‘angariatori’ egiziani, e in Is 9:4 è riferito ad oppressori stranieri. Il passo allude pertanto a un re che avrebbe mandato degli oppressori o esattori attraverso i suoi domìni. Molti espositori hanno scorto qui un riferimento a un esattore di tributi, una figura che all’uomo medio antico appariva come l’incarnazione dell’oppressione regia. In Lc 2:1 si dice che ‘in quei dì avvenne che un decreto uscì da parte di Cesare Augusto, che si facesse un censimento di tutto l’impero...’ Ad Augusto, successore di Giulio Cesare, si attribuisce la fondazione dell’Impero romano; egli morì in pace nel proprio letto nel 14 a.D. dopo più di 40 anni di regno”440. Interpretazione corrente. Il successore di Antioco III, suo figlio, Seleuco IV Filopatore (187-175) ereditò col trono l’incubo del pagamento a Roma delle annualità di quell’indennità di guerra che suo padre aveva dovuto sottoscrivere ad Apamea nel 188. Assillato dalla necessità di raccogliere danaro, Seleuco spedì a Gerusalemme il suo ministro delle finanze Eliodoro, con l’incarico di prelevare il tesoro del Tempio. Dice il II libro dei Maccabei (3:24-27) che una straordinaria manifestazione divina impedì a Eliodoro e agli uomini del suo seguito di eseguire gli ordini del re. Tornato in Siria Eliodoro complottò contro Seleuco e lo assassinò col proposito di impadronirsi del trono. 21 Poi, in luogo suo, sorgerà un uomo spregevole, a cui non sarà

stata conferita la maestà reale; ma verrà senza rumore, e s’impadronirà del regno a forza di lusinghe.

439 - G.RICCIOTTI, Storia d’Israele, vol. II, par. 40. 440 - Vol. IV, p. 870.

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“... un uomo spregevole...”, cioè un individuo che sarà oggetto di disprezzo… Ad Augusto succedette Tiberio (14-37) sul trono imperiale. Alcuni storici sostengono che ci fu da parte di Svetonio, Seneca e Tacito un deliberato tentativo di appannare l’immagine di Tiberio. Non ci sono dubbi che questi scrittori latini calcarono la mano parlando di Tiberio, nondimeno esistono sufficienti indizi per affermare che Tiberio fu un individuo eccentrico e poco amato. “... a cui non sarà stata conferita la maestà...” L’ebraico è reso meglio se si traduce il tempo verbale al passato. Probabilmente c’è qui un riferimento al non diritto alla successione sul trono imperiale da parte di Tiberio, essendo costui divenuto figlio di Augusto per adozione ed essendo stato nominato erede al trono imperiale a mezza età. “... senza rumore ...”, ossia pacificamente. Tiberio assunse il trono pacificamente alla morte di Augusto. Figliastro del suo predecessore, la sua elevazione alla dignità imperiale fu dovuta in gran parte agli intrighi di sua madre Livia. Interpretazione corrente. Antioco III, in ottemperanza alle clausole della pace di Apamea, dovette consegnare ai Romani 20 ostaggi fra i quali figurava il suo secondogenito Antioco IV. Il successore di Antioco III, Seleuco IV, poco tempo prima di perire per mano del suo ministro delle finanze, procedette ad un cambio degli ostaggi secondo i patti che erano stati concordati coi Romani da suo padre: richiamò in Siria il fratello e ottenne di mandare a Roma in sua vece il proprio figlioletto Demetrio. Sulla nave che lo riportava in patria, Antioco ebbe sentore dell’assassinio di suo fratello. Rientrato in Siria, si mise subito all’opera per sbarrare a Eliodoro la strada verso il trono. Con l’appoggio di Roma e di Pergamo, ebbe rapidamente ragione dell’avversario e assunse il potere regio senza curarsi dei diritti legittimi dei nipoti Demetrio e Antioco. 22

E le forze che inonderanno il paese saranno sommerse davanti a lui, saranno infrante, come pure un capo dell’alleanza.

“...le forze che inonderanno...”, ebr. ve+< e h a tO(orzº U ûzero’ôth hashshettef, lett. “le braccia dell’inondazione”. “Braccia” esprime il concetto di “forza”, e in questo passo in particolare della forza militare (cfr. i vv. 6 e 15). E’ l’immagine di un esercito che si spande a guisa di un fiume che straripa (cfr. 9:26). Tiberio condusse vittoriosamente varie campagne militari in Germania, e nell’Oriente sulle frontiere dell’Armenia e della Partia. “... un capo dell’alleanza”, tyir:B dyigºn negîd berîth, “un principe dell’alleanza”. È identico al Principe (nagîd) che confermerà il patto (berith) in 9:25-27 (cfr. 8:11). È chiaro dal cap. 9 che si tratta del Messia, Gesù Cristo. Fu sotto il regno di Tiberio (14-37 a.D.) e sotto il governo del suo procuratore in Giudea Ponzio Pilato, che Gesù subì il supplizio della croce nell’anno 31. Interpretazione corrente. Intorno al 173 morì in Egitto Cleopatra la Sira che aveva retto il trono per il figlio minorenne Tolomeo VI Filometore. Poco tempo dopo l’insediamento di costui sul trono dei Làgidi, tornò d’attualità in 348

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Egitto la questione della Celesiria. Per prevenire un attacco egiziano, Antioco IV scese in Palestina con l’esercito, ma non proseguì oltre. Nel 169 però le truppe egiziane varcarono minacciosamente il confine. Antioco, che si era garantita la neutralità di Roma - allora impegnata nella guerra contro Perseo in Macedonia mosse contro l’esercito egizio, lo impegnò in battaglia alla frontiera e lo sconfisse occupando poi Pelusio e il Delta e facendo prigioniero lo stesso Tolomeo VI441. Il “principe dell’alleanza” è identificato col sommo sacerdote Onia III deposto dall’Epifane nel 175 e mandato in esilio in Antiochia, poi a Dafne, sobborgo di questa città, dove in seguito venne assassinato. 23 E, nonostante la lega fatta con quest’ultimo, agirà con frode, sa-

lirà, e diverrà vittorioso con poca gente. Qualche commentatore ha avanzato l’ipotesi che in questo punto Daniele retroceda nel tempo e si riferisca alla lega di mutua amicizia e assistenza stipulata nel 161 a.C. tra Romani e Giudei442. Si è presunto che l’espressione ebraica del v. 24 tradotta “per un tempo” indichi un “tempo” profetico di 360 anni. Altri espositori che si sono attenuti alla continuità cronologica della profezia di Dn 11, hanno ravvisato qui un riferimento alla politica romana di stringere patti di mutua assistenza (come si direbbe oggi), come la lega stipulata nel 161 a.C. coi Giudei. In forza di simili patti i Romani riconoscevano ai partners lo status di “alleati” e presumibilmente le clausole comprendevano la protezione reciproca e la promozione dei mutui interessi. Roma si mostrava così nel ruolo di amica e protettrice, in realtà però dietro questa facciata si nascondeva la sua vera intenzione, che era quella di agire “con frode” per volgere a proprio vantaggio gli accordi del patto. Spesso essa faceva pesare sugli alleati il costo delle conquiste e di regola ne riserbava per sé i benefici. E come atto finale, gli alleati venivano assorbiti nell’Impero. Interpretazione corrente. Sarebbero qui descritti gli intrighi di Antioco Epifane per consolidare il suo dominio sui Giudei. Con lusinghe e promesse quest’uomo astuto e cinico trasse dalla sua parte gruppi di giudei filo-ellenisti e persone che contavano in Gerusalemme, in particolare un certo Giasone che ottenne il suo appoggio per impadronirsi del sommo sacerdozio (cfr. 1Maccabei 4:7). 24 E, senza rumore, invaderà le parti più grasse della provincia, e farà quello che non fecero mai né i suoi padri, né i padri dei suoi padri: distribuirà bottino, spoglie e beni e mediterà progetti contro le fortezze; questo, per un certo tempo.

441 - Cfr. G.RICCIOTTI, Storia d’Israele, vol. II, par. 43. 442 - Cfr. GIUSEPPE FLAVIO, Antichità, X. 10,6.

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“...per un certo tempo...”, ebr. t"(-da( ‘ad ‘eth, “fino ad un tempo...”. L’espressione denota un limite di tempo al di là del quale cesserebbero gli espedienti messi in atto dal potere qui descritto. Il vocabolo ‘eth non sembra riferirsi ad un periodo temporale specifico o a un arco di tempo profetico. In 4:16 e in 7:25 il termine tradotto “tempi” è l’aramaico ‘iddanin, e in 12:7 “tempi” traduce l’ebraico mo‘adîm. La frase ‘ad ‘eth sembra designare un momento indeterminato del futuro rispetto a chi scrive. Il potere malvagio, insomma, avrebbe agito finché non fosse pervenuto al limite stabilito da Dio (vedi 11:27; cfr. 12:1). Gli autori che attribuiscono valore profetico al termine “tempo” (‘eth) in questo versetto, ravvisano nelle vicende in esso narrate un riferimento al periodo storico durante il quale Roma fu il centro politico e amministrativo dell’Impero. Essi ritengono che alla vittoria di Ottaviano su Marcantonio e Cleopatra ad Azio nell’anno 31 seguì l’inizio dell’ascesa di Roma verso l’età imperiale. Procedendo in avanti di 360 anni (l’equivalente del “tempo” profetico) a decorrere da questa data, si perviene all’anno 330 a.D. quando la capitale dell’Impero fu spostata da Roma a Bisanzio, chiamata poi Costantinopoli. Altri espositori scorgono in questo versetto un riferimento alla politica di Roma verso le terre conquistate e annesse all’Impero. È noto dalla storia che i conquistatori romani solevano distribuire con prodigalità il bottino di guerra ai nobili e agli ufficiali dell’esercito, e che ai combattenti vittoriosi assegnavano terreni nelle regioni conquistate. “Fino ad un tempo” - un tempo considerevolmente lungo - non ci fu “fortezza” che poté resistere alla pressione delle invincibili legioni di Roma. Interpretazione corrente. La “provincia” delle cui parti “più grasse” (più fertili) il re del nord s’impadronirebbe, secondo alcuni autori sarebbe la Giudea, secondo altri, che si appellano a 1Maccabei 3:30, sarebbe la Perside, a oriente della Mesopotamia. Alla stregua di tutti i conquistatori, Antioco spogliò i territori dei quali si impadronì, ma a differenza dei suoi predecessori (“i padri e i padri dei suoi padri”) egli non usò le ricchezze saccheggiate per circondarsi di fasto, come era comune fra i monarchi orientali dopo ogni guerra vittoriosa. L’Epifane, invece, distribuì generosamente il bottino di guerra ai suoi amici e sostenitori e anche ai templi e alle città per comprarsene l’appoggio e l’adulazione. Tra le “fortezze” contro le quali il re del settentrione medita progetti - osserva H.C.Leupold - si può annoverare Pelusio nella quale Antioco insediò una guarnigione militare per mantenere aperte le frontiere d’Egitto ond’egli avesse libertà di tornarvi in qualsivoglia momento. Ma solo “fino ad un tempo”, cioè finché Dio lo avrebbe permesso. 25 Poi raccoglierà le sue forze e il suo coraggio contro il re del mezzogiorno, mediante un grande esercito. E il re del mezzogiorno s’impegnerà in guerra con un grande e potentissimo esercito; ma non potrà tenere fronte, perché si faranno delle macchinazioni contro di lui. 26 Quelli che mangeranno alla sua mensa saranno la sua rovina, il suo esercito si dileguerà come un torrente, e molti cadranno uccisi.

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I commentatori che annettono valore profetico all’espressione “un tempo” del v. 24 (“un tempo” = 360 anni solari), vedono ancora nei vv. 25 e 26 la guerra fra Ottaviano e Marcantonio culminata nella battaglia di Azio con la disfatta di quest’ultimo. “Quelli che mangeranno alla sua mensa...” In questa frase alcuni autori scorgono i favoriti della corte imperiale romana. Fin dagli inizi dell’età imperiale, gli intrighi di palazzo determinarono l’ascesa e la caduta degli imperatori. Successivamente, e particolarmente negli anni in cui un generale dopo l’altro si succedettero sul trono dei Cesari - spesso al costo della testa del predecessore - si realizzò in modo significativo la predizione che i favoriti della corte sarebbero insorti e avrebbero “distrutto” quelli che li avrebbero trattati amichevolmente, e che di conseguenza molti sarebbero caduti uccisi. “... come un torrente...” La Siriaca e la Vulgata leggono: “dilavati” o “spazzati via”. Coloro che vedono riflessa nel v. 24 la lotta fra Ottaviano e Marcantonio, scorgono nel v. 26 la fine di quest’ultimo. Quando Cleopatra, spaventata dal clamore della battaglia, si ritirò dalle acque di Azio con le 60 navi egizie, Marcantonio la seguì concedendo la vittoria all’avversario; poi si suicidò. Dal punto di vista di chi sostiene che vi sia una continuità cronologica nel cap. 11 di Daniele, nel v. 26 si rifletterebbe l’instabilità politica che afflisse l’Impero tra Nerone e Diocleziano. Interpretazione corrente. Antioco IV organizzò e condusse la prima campagna contro l’Egitto nel 170-169 a.C. Tolomeo VI si batté con valore, ma a causa di un tradimento rimase sconfitto, Antioco invase il Delta e fece prigioniero il giovane re. I due inetti ministri di Tolomeo, Leneo ed Euleo (“quelli che mangeranno alla sua mensa”), in parte responsabili della disfatta, erano propensi ad accettare disonorevoli condizioni di pace (“saranno la sua rovina”), ma il popolo di Alessandria insorse e mise sul trono dei Làgidi il fratello minore del Filometore, Tolomeo VII Evergete. 27 E quei due re cercheranno in cuor loro di farsi del male; e, alla stessa mensa, si diranno delle menzogne; ma ciò non riuscirà, perché la fine non verrà che al tempo fissato.

“... si faranno del male...”. Alcuni autori applicano questa frase agli intrighi di Ottaviano contro Marcantonio e di questi ai danni di Ottaviano, l’uno e l’altro aspiranti al governo dell’Impero. Altri vi scorgono un riferimento alla lotta per il potere negli ultimi anni del regno di Diocleziano (284 - 305) e nell’arco di tempo fra la morte di questo imperatore e l’avvento di Costantino il Grande (306 - 337) quando l’Impero fu riunificato (323 o 324). “...la fine non verrà che al tempo fissato” o, come traduce la versione della CEI, “...li attende la fine, a tempo stabilito”. Gli uomini malvagi e le loro macchinazioni dureranno finché lo consentirà la pazienza divina. Nel libro di Daniele è annunciata la vera filosofia della storia: Dio “agisce come vuole con l’esercito del 351

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cielo e con gli abitanti della terra; e non v’è alcuno che possa fermare la sua mano” (4:35). Interpretazione corrente. Antioco Epifane cambiò tattica quando, nel 169 a.C., sull’onda dell’insurrezione popolare ascese al trono d’Egitto Tolomeo VII Evergete. Rinunciò per il momento a cingere lui stesso la corona dei Làgidi e si atteggiò a tutore dei diritti dinastici del suo prigioniero, rimesso subito in libertà. Fra i due intercorsero trattative bilaterali in uno spirito di reciproca insincerità (“si diranno delle menzogne”). Antioco finse di voler far valere il diritto del primogenito a succedere al padre sul trono d’Egitto; Tolomeo VI, al quale non erano sfuggite le vere intenzioni dello zio, finse a sua volta di stare al gioco. L’Epifane aveva probabilmente puntato sulla rivalità tra i due fratelli per attuare il suo piano senza offrire a Roma un’occasione per intervenire. Sennonché com’egli ebbe lasciato l’Egitto, i due Tolomei si accordarono per governare insieme il paese instaurando una sorta di diarchia, una forma di governo che in seguito si ripeté altre volte in Egitto. 28 E quegli tornerà al suo paese con grandi ricchezze; il suo cuore

formerà dei disegni contro al patto santo, ed egli li eseguirà, poi tornerà al suo paese. Dai fautori della spiegazione romana-antica si è colta, in questo versetto, un’allusione all’assedio e alla distruzione di Gerusalemme nell’anno 70 a.D. ad opera di Tito. Gli autori che sostengono la continuità cronologica della narrazione profetica vi scorgono invece una ulteriore descrizione dell’opera di Costantino il Grande. “... formerà disegni contro il patto santo...”. Sarà il Messia, che nel v. 22 è comparso come “principe del patto” (negîd berîth), che “stabilirà” (o confermerà) un saldo patto con molti” (higbîr berîth larabîm) in 9:27. Tale patto è il piano di salvezza stabilito da Dio fin dall’eternità e confermato mediante l’evento storico della morte di Cristo. Sembra dunque ragionevole identificare nel soggetto che agisce in questo passo un potere che si opporrà al piano divino della redenzione ed alla sua azione nel cuore degli uomini. Si fa notare che Costantino, sebbene facesse professione di conversione alla fede cristiana, in realtà agì “contro il patto santo”, avendo avuto come vero obiettivo l’uso strumentale del cristianesimo per unificare l’impero e consolidare il suo potere personale. Costantino concesse grandi favori alla Chiesa ma pretese in cambio il suo sostegno per attuare la propria politica. Interpretazione corrente. Di ritorno verso Antiochia dopo la campagna egiziana, Antioco Epifane sostò nella Giudea per imporre la propria autorità. In Gerusalemme asportò i tesori custoditi nel Tempio e lasciò una guarnigione militare siriaca (cfr. 1Maccabei 1:20-25 e 2Maccabei 5:11-21). L’espressione “il patto santo” designerebbe la comunità dei fedeli della vera alleanza di Yahweh. Col profanare e saccheggiare il Tempio durante la sosta in Gerusalemme, Antioco manifestò le sue vere intenzioni verso il popolo eletto. 352

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29 Al tempo stabilito egli marcerà di nuovo contro il mezzogiorno; ma quest’ultima volta la cosa non riuscirà come la prima; 30 poiché

delle navi di Kittim muoveranno contro di lui; ed egli si perderà d’animo; poi di nuovo s’indignerà contro il patto santo, ed eseguirà i suoi disegni, e tornerà ad intendersi con quelli che avranno abbandonato il patto santo. “...quest’ultima volta la cosa non riuscirà come la prima...” Quegli autori che identificano la figura di Costantino il Grande nel protagonista dell’azione militare qui descritta, pensano che questo particolare della narrazione profetica evochi la realizzazione solo parziale del sogno di Costantino di rinverdire l’antica gloria e potenza dell’Impero. La seconda impresa non riuscita come la prima, in quest’ottica, è vista quale allusione al trasferimento della capitale dell’Impero da Roma a Bisanzio voluto da Costantino, un evento che, sempre in quest’ottica, avrebbe segnato l’inizio del declino dell’Impero stesso. “...delle navi di Kittim...”. Il nome Kittim compare ripetutamente nell’Antico Testamento, come pure nella letteratura tardo-giudaica, rivestendo una varietà di sensi. In Ge 10:4 Kittim è il nome del figlio di Yawan e nipote di Jafet (cfr. 1Cr 1:7). L’area geografica nella quale si stanziarono i discendenti di Kittim fu probabilmente l’isola di Cipro, la cui città più importante è nominata Kt nei testi fenici (Kition dai Greci e Citium dai latini). Balaam in uno dei suoi famosi oracoli (Nu 24:24) annunciò che “delle navi verranno dalle parti di Kittim e umilieranno Assur” (l’Assiria). Si è creduto che questa profezia del mago mesopotamico preannunciasse l’abbattimento dell’Impero persiano per mano di Alessandro il Macedone giunto in Asia appunto dai lidi mediterranei. Un riferimento ai litorali mediterranei si è colto anche nell’espressione geografica “isole di Kittim” che si trova in Gr 2:10 e in Ez 27:6. Nella letteratura tardo-giudaica Kittim compare in 1Maccabei 1:1 riferito alla Macedonia. Questo nome appare ancora in due dei Manoscritti del Mar Morto. Nelle forme ktyy ’ashwr, “Kittim di Assur”, e hktyym bmzrym, “il Kittim in Egitto”, si trova nella Guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre, verosimilmente riferito ai re seleucidi e tolemaici. In questo documento sembra essere assente l’associazione del vocabolo con le coste del Mediterraneo: Kittim compare qui come designazione generalizzata dei nemici dei Giudei. Il Commentario di Abacuc pure menziona il Kittim. L’autore di questo scritto crede che le profezie di Abacuc si stiano avverando ai suoi giorni (probabilmente egli visse verso la metà del I secolo a.C.) nelle angustie vissute dai Giudei: Ac 1:6-11, dove si descrive un’invasione caldea, dall’ignoto autore del Commentario è applicato ai Kittim che nel suo tempo spogliavano il popolo giudaico. Se si tiene conto del contesto storico nel quale vide la luce questo scritto, si deve pensare che il termine con tutta probabilità designi i Romani. 353

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I LXX in Dn 11:30 traducono “i Romani” l’espressione originale “le navi di Kittim”. Sembra dunque chiaro che il vocabolo kittim, riferito in origine all’isola di Cipro e ai suoi abitanti, in seguito fosse esteso al litorale mediterraneo e più tardi ancora agli oppressori stranieri, che venissero dal sud (Egitto), dal nord (Siria) o dall’ovest (Macedonia e Roma). Per la sua origine il libro di Daniele è più vicino ai riferimenti di Geremia e di Ezechiele che non a quelli degli scritti tardo-giudaici ove il termine potrebbe essere stato adoperato come un’estensione dell’uso biblico. Comunque la fraseologia di Dn 11:30 chiaramente ricorda Nu 24:24, dove “kittim” è riferito a conquistatori provenienti da occidente. Sebbene non ci sia accordo fra gli studiosi della Bibbia sul significato storico di “kittim” in questo passo di Daniele, sembra nondimeno evidente che nel cercare di capirlo si debba tenere conto di due circostanze. La prima è che al tempo di Daniele questo nome era riferito alle regioni ed ai popoli occidentali; la seconda è che già allora poteva essere in atto uno spostamento dell’accento dal senso specificamente geografico del vocabolo verso un’accezione più ampia per designare con esso invasori stranieri provenienti da qualsivoglia direzione dello spazio. C’è chi vede, nelle “navi di Kittim”, un’allusione alle orde dei Barbari che invasero i territori occidentali dell’Impero romano determinandone infine il collasso443. “...s’indignerà contro il patto santo...” Alcuni interpreti hanno scorto in questa “indignazione” un’allusione all’azione di Roma ecclesiastica contro il patto santo attraverso la soppressione delle Scritture e la persecuzione dei dissidenti che ad esse si appellavano. Interpretazione corrente. Nel 168 a.C. Antioco Epifane, irritato per l’accordo raggiunto dai due fratelli per governare l’Egitto, invase il paese per la seconda volta ben determinato a mettere fine alla dinastia dei Làgidi e ad annettersene i territori. Intanto Roma, che in quei giorni concludeva vittoriosamente la guerra in Macedonia, allarmata per le iniziative provocatorie dell’Epifane, spedì una legazione ad Alessandria. Cosicché Antioco, giunto alla testa delle sue truppe a poche miglia dalla città, trovò la strada sbarrata dalla legazione romana presieduta dal console Caio Popilio Lenate, che era stato suo amico durante il soggiorno romano. Il legato di Roma era latore di un messaggio perentorio del Senato con cui gli si intimava di sgombrare sollecitamente l’Egitto o considerarsi nemico di Roma. L’Epifane chiese tempo per riflettere, ma il romano, tracciato sul suolo con un bastone un cerchio intorno alla persona dell’interlocutore tergiversante, replicò che di lì non si sarebbe mosso prima di avere dichiarato la sua intenzione. Antioco, che ben conosceva la potenza di Roma, non ebbe altra scelta che sgombrare subito il campo.

443 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol.IV, pp. 872-873.

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Di ritorno da questa spedizione fallimentare, il re di Siria prese d’assalto Gerusalemme, dove serpeggiava la rivolta contro le pratiche e i costumi ellenistici introdotti anni prima, e infierì sulla popolazione perpetrando crudeli massacri, devastando alcuni quartieri della città e saccheggiando ancora una volta il tempio. 31 Delle forze mandate da lui si presenteranno e profaneranno il

santuario, la fortezza, sopprimeranno il sacrifizio continuo, e vi collocheranno l’abominazione, che cagiona la desolazione. Letteralmente: “Braccia (forze) da lui si ergeranno”, cioè delle forze appartenenti a questo potere sorgeranno per compiere la profanazione qui descritta. Alcune versioni traducono: “contamineranno il santuario”; in realtà il verbo ebraico chalâl significa propriamente “profanare” (Gesenius). “Contaminare” qualcosa significa renderla impura, inquinarla; chalal esprime invece l’idea di rendere comune, banale qualcosa che è sacro. Questo verbo è adoperato in Es 20:25 per indicare che le pietre da utilizzare per la costruzione di un altare sarebbero “profanate” se le si lavorasse con lo scalpello. In Es 31:14 chalâl è usato in relazione alla dissacrazione del sabato. “...il santuario, la fortezza...”, ebr. zO(fMh a $fDq: M i h a hammiqdash hammâ‘oz, lett.: “il luogo santo, il rifugio” (la seconda parola è in apposizione rispetto alla prima: “il luogo santo, cioè il rifugio”). Qualche commentatore ha applicato alla città di Roma l’espressione “il santuario, la fortezza o rifugio”. Secondo questa comprensione del passo sarebbe qui adombrato l’attacco distruttivo dei Barbari alla “città eterna”. Altri autori pensano che l’oggetto della profanazione in questo versetto sia il santuario celeste. L’ebraico ma‘oz, tradotto “forza” o “fortezza” (dal verbo ‘azaz, “essere forte”), ritorna ripetutamente in questo capitolo (vv 7, 10, 19, 38, 39), per quanto le versioni non lo rendano in modo uniforme. Il santuario di Gerusalemme era circondato da fortificazioni, ma il luogo di rifugio per eccellenza è il santuario del cielo dove Gesù offre il suo sangue a beneficio dei peccatori (Eb 9:11-14). Secondo questa comprensione dell’espressione: “profaneranno il santuario, il rifugio”, essa si riferirebbe alla sostituzione del sacrificio e del sacerdozio autentici di Cristo nel santuario celeste con un falso sacrificio e un falso sacerdozio terreni (su tamîd - “continuità”, vedi il commento di 8: 12). “L’abominazione che cagiona la desolazione” (ebr. {"mO$:m jUQi
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salemme, che avvenne nel 70 a.D., Gesù identificò con “l’abominazione della desolazione di cui ha parlato il profeta Daniele” gli eserciti romani che avrebbero circondato la città (Mt 24:15; Lc 21:20)445. Considerando che 9:27 è parte della spiegazione di 8:11-13, la conclusione a cui si arriva in modo naturale è che 8:11-13 sia una profezia nella quale sono fuse insieme due prospettive (un po’ come nel discorso profetico di Gesù in Mt 24)446. La prima prospettiva è quella della distruzione di Gerusalemme e del Tempio ad opera dei Romani; la seconda concerne l’attività del papato nei secoli dell’era cristiana. Si noti infine che l’esplicito riferimento di Gesù all’”abominazione della desolazione” come a un evento futuro, esclude Antioco Epifane dalla visuale della profezia. Interpretazione corrente. Questa linea esegetica applica il v. 31 alla feroce repressione perpetrata da Antioco Epifane in Gerusalemme di ritorno dalla seconda campagna in Egitto nel 168. Furono numerosi i pii Giudei che caddero sotto la spada dei soldati di Antioco in quell’occasione. L’anno seguente il re di Siria inviò a Gerusalemme un corpo di spedizione con l’incarico di introdurre l’ellenizzazione forzata nella città. Furono proibiti sotto pena di morte i riti della fede giudaica: l’offerta del sacrificio e la circoncisione; fu proscritta la celebrazione del sabato e delle feste religiose; fu intimato, ancora sotto pena di morte, di consegnare i sacri rotoli della legge per essere lacerati e bruciati. Fu abbattuto un tratto del muro cittadino che Nehemia aveva ricostruito, e col materiale di ricupero si eresse una fortezza pagana nel cuore della città santa, la fortezza dell’Akra. Infine sull’altare dei sacrifici fu eretta un’ara dedicata a Zeus e su di essa si immolò un maiale. Era il 15 dicembre 167 a.C. (cfr. 1Maccabei 1:54-64). Fu l’occasione della rivolta dei Maccabei. 32 E per via di lusinghe corromperà quelli che agiscono empiamente

contro il patto; ma il popolo di quelli che conoscono il loro Dio mostrerà fermezza, e agirà. “...quelli che agiscono contro il patto...”, vedi il commento del v. 28 in alto. Nel soggetto della proposizione iniziale si identifica ancora il papato. “...per via di lusinghe...”, ebr. tOQalx A B a bachalaqqôth, “blandizie”. Fare apparire le sue vie più praticabili delle vie di Dio è stata sempre la strategia di Satana, ma il popolo del Signore ha sempre calcato il sentiero indicato da Gesù in Mt 7:14: “angusta (è) la via che mena alla vita”.

445 - A questa spiegazione del S.D.A. Bible Commentary preferiamo quella che ravvisa “l’abominazione” nell’occupazione e profanazione dei sacri recinti del Tempio, e del Tempio stesso, ad opera degli Zeloti di Eleazaro della primavera-estate del 70 a.D., di cui Giuseppe Flavio ci ha lasciato ampia relazione in Guerre Giudaiche (vedi il commento di 9:27). 446 - Cfr. Desire of ages, p. 628, in italiano La speranza dell’uomo, pp. 449-450).

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“...mostrerà fermezza e agirà”. La frase è applicata ai cristiani dissidenti vissuti nell’Europa controllata dalla Chiesa romana i quali mantennero inalterate la loro fede e le loro convinzioni a dispetto della persecuzione (Albigesi, Valdesi, Hussiti...). Interpretazione corrente. “Quelli che agiscono empiamente contro il patto” sarebbero i giudei rinnegati che avendo ceduto alle lusinghe di Antioco tradirono la fede avita. Nel “popolo di quelli che conoscono il loro Dio” si rispecchierebbero i giudei fedeli che non vacillarono di fronte alla persecuzione e alla morte. Rifulsero in particolare il coraggio e la fede eroica del sacerdote Mattatia e dei suoi 5 figli, i Maccabei. 33 E i savi fra il popolo ne istruiranno molti; ma saranno abbattuti

dalla spada e dal fuoco, dalla cattività e dal saccheggio, per un certo tempo. 34 E quando saranno così abbattuti, sarano soccorsi con qualche piccolo aiuto; ma molti s’uniranno a loro con finti sembianti. “E i savi fra il popolo ne istruiranno molti...” I discepoli di Cristo accolsero il mandato: “Andate... ammaestrate tutti i popoli” (Mt 28:19) come un imperativo imprescindibile sia in tempi di pace che in tempi di persecuzione, e non di rado in tale drammatica circostanza la loro testimonianza si rivelò più efficace che in tempi normali. “...saranno abbattuti...” Nessuno può dire quanti furono i condannati per eresia che perirono sul rogo o furono trafitti dalla soldataglia dei principi e dei duchi fedeli a Roma durante i lunghi secoli dell’intolleranza papale. “...per un certo tempo...”. Il testo masoretico, i Settanta e Teodozione hanno semplicemente “per giorni”. Alcuni manoscritti ebraici tuttavia aggiungono l’aggettivo rabbîm, “molti”. Il periodo al quale si allude con questa espressione è quello dei 1260 “giorni” di Dn 7:25, 12:7 e Ap 12:6, 14 e 13:5. È il tempo durante il quale il potere apostata esercitò più pesantemente l’autorità usurpata perseguitando a morte quanti rifiutarono di riconoscergliela. “...saranno soccorsi con qualche piccolo aiuto...”. I martiri della fede ebbero sempre coscienza del fatto che la loro vita era “nascosta con Cristo in Dio” (Cl 3:3). Nei secoli bui ai quali si riferisci Dn 11:33 Dio inviò ripetutamente al suo popolo oppresso “un piccolo aiuto” attraverso dei leaders che invocarono con grande coraggio un ritorno alle Scritture. Basterà ricordare i predicatori valdesi dal XII secolo in poi, John Wycliff in Inghilterra nel XIV secolo, Jan Huss e Girolamo da Praga in Boemia nel XV secolo. Nel XVI secolo i rivolgimenti che si produssero nella vita politica, economica, sociale e religiosa d’Europa, e che sul piano religioso resero possibile la Riforma protestante, aprirono la via a molte voci nuove che si unirono a quelle delle generazioni precedenti. Interpretazione corrente. Circa i “savi” le opinioni non sono concordi. Alcuni vi identificano in modo generico dei fedeli giudei i quali con la parola e 357

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con l’esempio ammaestrarono il popolo (G.Rinaldi), altri richiamano l’attenzione sul partito degli Hassidei i cui aderenti si unirono a Mattatia e ai suoi figli per opporsi con le armi all’ellenizzazione forzata. Molti di loro caddero nella sanguinosa repressione scatenata da Antioco. Non si trova però una giustificazione storica soddisfacente riguardo al “piccolo aiuto”. Si pensa generalmente agli effetti della rivolta dei Maccabei, ma quegli effetti furono tutt’altro che “piccoli”. 35 E di que’ savi ne saranno abbattuti alcuni, per affinarli, per puri-

ficarli e per imbiancarli sino al tempo della fine, perché questa non avverrà che al tempo stabilito. “...per imbiancarli...”. A volte Dio permette che i suoi fedeli siano messi al cimento, e consente persino che sia loro tolta la vita. Lo consente perché nel crogiolo della prova il loro carattere si purifica ed essi sono così resi idonei per il regno dei cieli. Anche il Figlio di Dio fatto uomo “imparò l’ubbidienza dalle cose che soffrì” (Eb 5:8; cfr. Ap 6:11). “...sino al tempo della fine...”, ebraico ‘eth qetz. Questa espressione compare altrove in Daniele (in 8:17; 11:40; 12:4,9). Nel contesto di 11:35 ‘eth qetz è in rapporto con i 1260 anni dei quali segna la scadenza. Se confrontiamo questi passi con alcune dichiarazioni di E.G.White447, ci rendiamo conto che l’anno 1798 segna l’inizio del “tempo della fine”. “...al tempo stabilito”, ebr. mo‘ed, dal verbo ya‘âd, “fissare”, “stabilire”. Nell’Antico Testamento è un vocabolo abbastanza comune; lo si applica ai tempi fissati per le assemblee religiose (Es 23:15) sia in rapporto al tempo (Os 12:9) che in rapporto al luogo (Sl 74:8). In Dn 11:35 mo‘ed è adoperato in relazione al tempo: un tempo fissato, determinato. Il “tempo della fine” è un tempo fissato da Dio nell’ambito del suo programma riguardo agli eventi umani. Interpretazione corrente. Da alcuni autori i “savi” sono identificati con gli Assidei, come si è detto prima. In effetti non pochi di loro perirono durante la persecuzione implacabile di Antioco IV. Mediante la sofferenza e la morte Dio ha saggiato la loro fede. La prova non doveva però durare indefinitamente: essa sarebbe cessata nel tempo che Dio avrebbe fissato. 36 E il re agirà a suo talento, si estollerà, si magnificherà al disopra d’ogni dio, e proferirà cose inaudite contro l’Iddio degli dèi; prospererà finché l’indignazione sia esaurita; poiché quello ch’è decretato si compirà.

447 - Vedi The Desire of Ages, p. 234 (in italiano La Speranza dell’uomo, p. 157), The Great Con-

troversy, p. 356 (in italiano Il Gran Conflitto, pp. 261-262) e in Testimonies, vol. V, pp. 9 e 10.

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Sui vv. 36-39 gli espositori avventisti hanno applicato generalmente due interpretazioni differenti. Gli uni hanno identificato in questi versetti la Francia rivoluzionaria nel 1789 ed anni seguenti, gli altri vi hanno scorto ancora il potere apostata e persecutore descritto nei versetti precedenti. Coloro che vedono nel “re” la Francia all’epoca della Rivoluzione, sottolineano che questa figura deve rappresentare una nuova entità politica, poiché essa appare subito dopo la menzione del “tempo della fine” e risponde a caratteristiche che non sono quelle riferite all’entità descritta nei versetti precedenti; deve rappresentare un potere orientato verso l’ateismo. È un fatto noto che la filosofia che ha dato impulso alla Rivoluzione francese fu, non solo anticlericale, ma anche ateistica e che essa influenzò successivamente il pensiero del XIX e del XX secolo. Inoltre la Rivoluzione ed i suoi riflessi postumi segnarono la fine del periodo profetico dei 1260 anni. Quanti fra i nostri espositori identificano il “re” menzionato in questo versetto con l’entità politico-ecclesiastica descritta nel v. 32, citano il fatto che nel testo ebraico la parola “re” è preceduta dall’articolo, la qual cosa sembra implicare che il dominatore di cui si sta parlando sia una figura già nota. Essi obiettano che il riferimento al “tempo della fine” nel v. 35 sembra orientare piuttosto al futuro e non implica necessariamente che i vv. 36-39 debbano collocarsi esclusivamente dopo l’inizio del tempo della fine nel 1798 (vedi il commento del v. 35 in alto), tanto più che non prima del v. 40 si allude in modo specifico a un evento che deve aver luogo “nel tempo della fine”. Dal punto di vista di questi nostri autori, il quadro descritto nei vv. 36-39 delinea non già un orientamento ateistico ma piuttosto un tentativo di sopprimere ogni altra entità religiosa. I suddetti autori richiamano anche l’attenzione sul parallelismo tra i capitoli 2, 7 e 8-9 e concludono che nel cap. 11 deve essere presente lo stesso parallelismo centrato sull’ascesa e il culmine del medesimo potere descritto nelle altre profezie del libro di Daniele. “...si magnificherà...” Secondo l’opinione degli interpreti che ravvisano in questo versetto la presenza della Francia rivoluzionaria, questa espressione descriverebbe l’ateismo spinto a cui si lasciarono andare i capi più radicali della Rivoluzione. Si cita a questo proposito una legge emanata dal governo di Parigi il 26 novembre 1793 la quale decretava l’abolizione di tutte le religioni nella capitale della Francia. Anche se quella legge venne revocata pochi giorni dopo dall’Assemblea Nazionale, il fatto dimostra comunque fino a che punto l’ateismo influenzò la politica della Francia in quel periodo. Gli espositori che applicano questi passi del cap. 11 di Daniele alla grande potenza apostata della storia del Cristianesimo, considerano il v. 36 parallelo a Dn 8:11, 25; 2Te 2:4; Ap 13:2, 6; 18:7. Costoro vedono la realizzazione di quanto è predetto in questo passo di Daniele nella pretesa che il papa sia il vicereggente di Cristo in terra, nella rivendicazione del potere del sacerdozio, nella dottrina sul “potere delle chiavi”, ossia sull’autorità di aprire e chiudere il cielo agli uomini. “...proferirà cose inaudite...”. Secondo il parere che sia la Francia il soggetto che agisce in questa parte della profezia, la frase su riportata si riferirebbe alle 359

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dichiarazioni vanagloriose dei rivoluzionari nell’abolire la religione e istituire il culto della Ragione. Quando in seguito fu introdotto il culto dell’Ente Supremo, i reazionari ci tennero a mettere in chiaro che questo Ente non aveva niente a che vedere col Dio dei cristiani. L’altra linea esegetica ravvisa nella frase su riferita (“proferirà cose inaudite”) l’attribuzione al pontefice romano, o la rivendicazione da parte sua, di titoli, poteri e prerogative che appartengono in esclusiva alla Divinità. Interpretazione corrente. Si scorge ancora nel v. 36 il tiranno che “si è eretto contro Dio, anzi, ha voluto sostituirglisi” (Rinaldi), cioè Antioco Epifane. H.C.Leupold da questo punto diverge dall’interpretazione comune del cap. 11 di Daniele. Nel “re” orgoglioso e insolente egli non riconosce più l’Epifane, di cui ha ammesso la presenza fino al versetto precedente, ma scorge la figura dell’Anticristo finale e il suo successo apparente nell’agire contro Dio ed il suo popolo, e infine la sua definitiva disfatta e distruzione448. 37 Egli non avrà riguardo agli dèi de’ suoi padri; non avrà riguardo

né alla divinità favorita delle donne, né ad alcun dio, perché si magnificherà al disopra di tutti. “Non avrà riguardo... alla divinità favorita delle donne...” I commentatori che identificano nella Francia rivoluzionaria il “re” insolente, riferiscono la frase riportata sopra alla presa di posizione dei capi della Rivoluzione verso il matrimonio. Essi dichiararono che l’unione matrimoniale non era più che un contratto civile che si poteva sciogliere senza particolari formalità quando uno dei contraenti lo avesse voluto. I fautori dell’interpretazione “papale” applicano al celibato ecclesiastico il riferimento alla “divinità favorita delle donne”. Interpretazione corrente. È nota alla storia la prodigalità di Antioco Epifane verso i santuari ellenistici e in particolare verso Zeus Olimpico assimilato a Giove Capitolino. A questa divinità romana l’Epifane secondo Livio eresse un tempio presso Antiochia, mentre trascurò Apollo, una divinità assai venerata dai Greci, come pure l’impudico Tammuz (“la divinità preferita dalle donne”). 38 Ma onorerà l’iddio delle fortezze nel suo luogo di culto; onorerà con oro, con argento, con pietre preziose e con oggetti di valore un dio che i suoi padri non conobbero.

“Ma onorerà il Dio delle fortezze nel suo luogo...”, ebr. ONaK-la( ‘al kannô, “in sua vece”, “al posto di quello”, cioè al posto del dio vero. “...l’Iddio delle fortezze”,

448 - H.C.LEUPOLD, op. cit., pp. 510 e ss.

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ebr. {yéZ(u m f H a ol) E ’eloah ma‘ûzzîm. Dai fautori dell’applicazione alla Francia di questi versetti, la frase è riferita al culto della Ragione istituito a Parigi nel 1793. Alcuni capi della Rivoluzione, avendo riconosciuto che per estendere in Europa la rivoluzione stessa era necessario mantenere in Francia una parvenza di religione, favorirono l’instaurazione di una nuova forma di religione imperniata sulla deificazione della ragione. Essa più tardi fu seguita dal culto dell’Ente Supremo, praticamente il culto della natura divinizzata la quale può ben considerarsi “un dio delle forze”. Gli interpreti che applicano invece al papato questa parte della rivelazione, hanno colto nel v. 38 un riferimento al culto dei santi e di Maria. Altri ancora applicano questo passo all’alleanza tra il potere religioso e il potere civile e ai tentativi di Roma ecclesiastica di porre le nazioni sotto la sua autorità. “...con oggetti di valore...”, ebr. tOdumx A chamudôth, “cose dilettevoli”, oggetti preziosi”. Un termine derivato dalla stessa radice si trova in Is 44:9 in riferimento agli ornamenti preziosi coi quali i pagani rivestivano le immagini delle loro divinità. Si è vista la realizzazione di questa predizione nei doni preziosissimi offerti alle immagini di Maria e dei santi (cfr. Ap 17:4; 18:16). Interpretazione corrente. Il dio sconosciuto ai padri che il “re” onora con oro, con argento e con oggetti di valore sarebbe Giove Capitolino, la divinità romana che Antioco IV avrebbe collocato nelle “fortezze” di Dura-Europos e di Beisan con copiose offerte di oggetti preziosi. 39 E agirà contro le fortezze ben munite, aiutato da un dio straniero; quelli che lo riconosceranno egli ricolmerà di gloria, li farà dominare su molti, e spartirà fra loro delle terre come ricompense.

“E agirà contro le fortezze ben munite...”. Il passo è alquanto oscuro ed è stato tradotto in vari modi. Il verbo ‘asah, “fare”, “agire”, “operare”, non ha un complemento diretto, ma è seguito da due preposizioni, le (“a”, “per”) e ‘im (“con”). In Ge 30:30, 1Sm 14:6 ed Ez 29:20, ‘asah senza complemento oggetto e seguito dalla preposizione le ha il senso di “agire per (qualcuno)”. Seguito da ‘im, ‘asah si trova in 1Sm 14:45 col significato di “operare”. Tenendo conto di questi usi del verbo, la frase iniziale di Dn 11:39 potrebbe tradursi: “Ed egli agirà per i più forti rifugi (ma‘ûzzîm) con un dio straniero”. Poiché l’’eloah ma‘ûzzîm del v. 38 sembra essere parallelo a “un dio che i suoi padri non conobbero” menzionato nel v. 39, si può ritenere che l’uno e l’altro siano una sola e medesima cosa. Gli autori che ritengono sia la Francia la protagonista delle vicende descritte in questi versetti, scorgono nel “dio straniero” la posizione preminente che ebbero nel pensiero dei leaders della Rivoluzione l’ateismo ed il razionalismo. Gli altri ci vedono il sostegno assicurato dalla Chiesa romana al culto dei “protettori” (i santi) e alle feste in onore della messa e della Vergine. “...spartirà fra loro delle terre...”. Gli uni colgono in questa frase la fine della grande proprietà terriera in Francia al tempo della Rivoluzione, quando le terre 361

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dei nobili furono dallo Stato vendute a piccoli proprietari; si è calcolato che i due terzi della proprietà terriera in Francia furono espropriati dal governo durante la Rivoluzione. Gli altri scorgono nell’espressione “spartirà fra loro delle terre” un’allusione al dominio papale sui principi temporali ed ai tributi da questi corrisposti alla curia romana. Si è anche pensato alla spartizione delle terre del Nuovo Mondo tra Spagna e Portogallo con l’arbitrato di papa Alessandro VI nel 1493. Interpretazione corrente. Alcuni dei fautori della spiegazione “siriana” ravvisano, nella frase iniziale del versetto, la fiducia riposta da Antioco nella protezione di Giove (“il dio straniero”) della quale i Romani pretendevano di fruire, e nelle frasi seguenti scorgono la propaganda fatta dai dominatori pagani per indurre i Giudei ad accogliere il culto di questa divinità. Altri nella prima parte del versetto colgono un’allusione allo scandalo suscitato nei Giudei il vedere crescere nella città di Davide le fortificazioni nelle quali Antioco avrebbe insediato i soldati incaricati di presidiarla. Nella seconda parte del passo si ravvisa il mandato conferito da Antioco a Lisia di insediare degli stranieri in tutto il territorio e di spartire tra loro il paese. 40 E al tempo della fine, il re del mezzogiorno verrà a cozzo con lui;

e il re del settentrione gli piomberà addosso come la tempesta, con carri e cavalieri, e con molte navi; penetrerà ne’ paesi e, tutto inondando, passerà oltre. 41 Entrerà pure nel paese splendido, e molte popolazioni saranno abbattute; ma queste scamperanno dalle sue mani: Edom, Moab e la parte principale de’ figliuoli di Ammon. 42 Egli stenderà la mano anche su diversi paesi, e il paese d’Egitto non scamperà. 43 E s’impadronirà de’ tesori d’oro e d’argento, e di tutte le cose preziose dell’Egitto; e i Libi e gli Etiopi saranno al suo séguito. 44 Ma notizie dall’oriente e dal settentrione lo spaventeranno; ed egli partirà con gran furore, per distruggere e votare allo stermino molti. 45 E pianterà le tende del suo palazzo fra i mari e il bel monte santo; poi giungerà alla sua fine, e nessuno gli darà aiuto. Dopo i vv. 14 e 15 ritorna per l’ultima volta la menzione dei re del mezzogiorno e del settentrione. Il riferimento al “tempo della fine” esclude che possa trattarsi ancora dei re tolemaici e seleucidi. Gli espositori avventisti che hanno visto la Francia all’epoca della Rivoluzione nei vv. 30-39, hanno ritenuto che “il re del settentrione” nei vv. 40-45 debba identificarsi con la Turchia; gli altri vi hanno scorto un quadro profetico del papato al culmine della sua ascesa. “... poi verrà la sua fine” (v. 45 u.p.). Predizioni simili a questa si trovano nelle profezie parallele dei capitoli 2 (vv. 34, 35, 44, 45), 7 (vv. 11 e 26), 8 (vv. 19 e 25) e 9 (v. 27), ma anche altrove nella Scrittura (per esempio in Is 14:6; 47:11-15; in Gr 50:32; in 1Te 5:3; in Ap 18:6-8, 19, 21). Gli espositori avventisti in generale hanno sostenuto che quanto predetto in Dn 11:40 si adempirà nell’ultimo tratto del tempo della fine. James White - uno dei pionieri dell’avventismo del settimo giorno - esortò 362

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alla prudenza gli uomini della chiesa che tendevano a commentare le profezie di Daniele sulla scorta degli avvenimenti contemporanei. Egli scrisse nel 1877: “Lo studioso deve evitare di esprimersi in termini decisamente affermativi quando espone le profezie che debbono ancora avverarsi e che non hanno quindi il supporto della storia, e questo per non correre il rischio di perdersi nella giungla della fantasia. “Alcuni rivolgono il pensiero più alla verità futura che a quella presente: vedono poca luce sulla via che stanno percorrendo e credono che ve ne sia molta davanti a loro. “Certe prese di posizione sulla questione d’Oriente si basano su profezie che non si sono ancora avverate. Su questo terreno dobbiamo muoverci con prudenza e prendere posizione con cautela per non rischiare di rimuovere posizioni oramai acquisite in seno al movimento dell’avvento. Si deve dire che su questa interpretazione c’è stato un consenso generale, e che gli sguardi di tutti sono puntati sul conflitto in atto tra Turchia e Russia nel quale si crede di scorgere l’avverarsi di quella parte della profezia che confermerà la fede nell’imminente proclamazione del grido di mezzanotte e nella rapida conclusione del nostro messaggio. Quali conseguenze potranno derivare da tanta fiducia riposta su profezie non ancora adempiute se il corso degli eventi sarà diverso da quello previsto, è una domanda che suscita inquietudine”449. Il tempo ha dato ampia conferma della saggezza di questa osservazione critica. In tempi più recenti, specie in certi ambienti evangelici anglosassoni, si è dato molto peso alla minacciosa potenza militare dell’Unione Sovietica vista come la controfigura storica del profetico “re del nord” descritto in Dn 11: 40-45. Al presente la fallacia di quella interpretazione è sotto gli occhi di tutti. È tuttora valido il saggio richiamo di J.White agli espositori avventisti della parola profetica. È sempre incauto azzardare interpretazioni appoggiate al panorama internazionale del momento. La conferma della profezia viene dalla storia, non dalla cronaca, a meno che l’esegeta non sia egli stesso in possesso del carisma profetico. Per quanto attiene a Dn 11:40-45, ci pare che l’espositore non disponga ancora di elementi certi per capire e spiegare gli eventi ivi predetti. Interpretazione corrente. I commentatori che vedono ancora la figura di Antioco IV nel “re del nord” menzionato nel v. 40, non possono dare una giustificazione storica di siffatta interpretazione perché la storia non conosce una terza campagna dell’Epifane contro l’Egitto dopo le due già ricordate. Il Prof. G.Rinaldi osserva a proposito di questi versetti finali di Dn 11, che “Il vero significato, come indicarono alcuni Padri, va cercato nella fine del mondo, a cui con parole

449 - JAMES WHITE in Review and Herald del 29 novembre 1877. Da S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 877

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esplicite il profeta sta per trasferire il discorso (cap.12)”450. Concordiamo con questo giudizio, sebbene riteniamo che con identica espressione, “il tempo della fine” (‘eth qetz), Daniele abbia già introdotto nel v. 35 il concetto della fine del mondo. Sul v. 40 H.C.Leupold fa notare che “non c’è nulla nel contesto che sminuisca la forza della parola ‘fine’, onde è la fine di tutte le cose ciò a cui si fa qui riferimento”451. Questo autore opina che alla fine dei tempi delle forze nuove muoveranno simultaneamente dal nord e dal sud contro l’Anticristo, così come nell’antichità mossero l’uno contro l’altro i personaggi storici designati come “il re del nord” e “il re del sud”, ma l’Anticristo, che disporrà di forze formidabili, contrattaccherà invadendo e devastando le terre di quelli che lo avranno assalito. La rivelazione non termina con la fine del cap. 11, ma prosegue e si conclude nei primi 3 versetti del capitolo seguente. Sul cap. 11 di Daniele il prof. Jacques Doukhan presenta una visione originale in Le soupîr de la terre. Egli non riconosce i re seleucidi nella figura predominante di questo capitolo (il “re del nord”), come fanno quasi tutti i commentatori moderni, ma vi scorge lo stesso potere che i capp. 7 e 8 descrivono col simbolo del “piccolo corno”. A siffatta conclusione il Doukhan perviene attraverso un confronto tra le due figure, confronto dal quale emergono effettivamente parallelismi significativi. In definitiva l’Autore sostiene che non è un conflitto politico quello che si descrive in Dn 11, ma un conflitto spirituale, e trae sostegno alla sua tesi dalla struttura letteraria del testo e dal simbolismo connesso col riferimento spaziale nord-sud. La tesi del Prof. Doukhan, esposta nel capitolo undicesimo dell’opera citata, merita ponderata considerazione.

450 - G.RINALDI, Daniele, p. 49. 451 - H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 520.

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Capitolo 12 ___________________________________________________

I

l percorso delle grandi profezie danieliche lungo le vie maestre della storia - con l’unica eccezione della rivelazione del capitolo nono - conduce invariabilmente al medesimo punto d’arrivo: il giudizio finale ed il regno eterno di Dio. Così il sogno di Nabucodonosor nel cap. 2, così la visione delle quattro fiere nel cap. 7 e quella del montone e del capro nel cap. 8. L’ultima rivelazione in 11:2 - 12:3 non ha un epilogo diverso: anch’essa si arresta sulla soglia dell’eternità. Il cap. 12 non introduce una nuova rivelazione; esso conclude, nei primi versetti, quella iniziata nel capitolo precedente. Si assiste in questi primi tre versetti al felice epilogo delle dolorose peripezie dei santi, che parevano interminabili. Il sorgere in loro difesa del gran Principe Micael, mentre una tribolazione di una dimensione inaudita flagella la terra, li mette per sempre in salvo. Il resto del capitolo (vv. 4-13) - con l’ordine dato al profeta di mantenere segreta la visione, con un fugace riferimento ai tempi profetici rivelati in precedenza, con un accenno all’eredità eterna che è tenuta in serbo per Daniele chiude nel medesimo tempo il libro e la vicenda terrena del suo autore.

1 E in quel tempo sorgerà Micael, il gran capo, il difensore de’ fi-

gliuoli del tuo popolo; e sarà un tempo d’angoscia, quale non se n’ebbe mai da quando esistono nazioni fino a quell’epoca; e in quel tempo, il tuo popolo sarà salvato; tutti quelli, cioè, che saranon trovati iscritti nel libro. Continua e s’avvia alla conclusione l’ampia rivelazione che è venuta sviluppandosi nel cap. 11. Il cap. 12 si apre con un ultimo riferimento al Principe Micael, il cui levarsi in difesa del popolo santo nel tempo della fine è messo in relazione con due condizioni umane in radicale contrasto tra loro: da un lato uno stato generalizzato di angustia estrema, dall’altro una decisiva liberazione e salvezza. Giovanni in due punti dell’Apocalisse allude a questo tempo di angustia universale: nel cap. 7, attraverso la figura di un uragano che sta per devastare mare e terra dalle quattro direzioni dello spazio (vv. 1-3), e nel cap. 16, dove le ultime “piaghe” flagellano la terra, il mare e i fiumi e tormentano gli uomini che hanno ricevuto il “marchio della bestia” (vv. 2 e 9). Per un certo verso la grande distretta finale non risparmierà i figlioli di Dio, giacché se il “sigillo dell’Iddio vivente” che essi avranno ricevuto sulla fronte li 365

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metterà al riparo dalle piaghe, non li sottrarrà tuttavia alla collera della “Bestia” (Ap 13:15). In 12:1, la locuzione avverbiale con cui inizia il versetto, “in quel tempo” ()yihh a t"(b f ba‘eth hahî’) va riferita all’epoca nella quale si svolgeranno gli avvenimenti convulsi predetti negli ultimi 6 versetti del capitolo precedente, vale a dire l’assalto furioso “come una tempesta” del “re del nord” contro il “re del sud” ed il suo dilagare verso il “paese splendido” ed oltre. Non pochi espositori identificano il metaforico “re del nord” in questi versetti con l’Anticristo finale452, e la sua violenta aggressione con la guerra che l’Anticristo scatenerà contro il popolo santo nel tempo della fine453. È in questo tempo (cfr. il v. 40) che Micael sorgerà in difesa del popolo santo. Questo Personaggio eccelso in 10:13 è stato presentato come “uno dei primi principi”454 e in 11:1 l’angelo portatore della rivelazione divina lo aveva caratterizzato come “vostro principe” (principe di Daniele e del suo popolo in contrasto con gli emissari infernali nel ruolo improprio di principi-protettori dei regni di Persia e di Jawan). Se la grande tribolazione “quale non se n’ebbe mai.... fino a quell’epoca” è da rapportarsi anche all’attività finale del gran persecutore, come sembra naturale, sarà in quel tempo che Micael esplicherà il ruolo di difensore o protettore del suo popolo455. L’ultima frase (“tutti quelli cioè che saran trovati iscritti nel suo libro”), in apposizione alla precedente, spiega e precisa il senso di quella: i salvati nel tempo della grande tribolazione saranno quelli i cui nomi saranno scritti nel “libro”, di certo il “libro della vita” dove sono registrati i fedeli discepoli di Gesù Cristo (Lc 10:20; Fl 4:3). Il Signore dichiara in Ap 3:5 che non cancellerà dal libro della vita il nome dei suoi seguaci che avranno vinto. Si presume che il tempo della grande tribolazione sarà preceduto da un esame in cielo del “libro della vita” dovendosene “cancellare” i nomi dei cristiani che non avranno perseverato sino alla vittoria finale. Questo giudizio discriminatorio è quello al quale sia Daniele (Dn 7:9-10) che Giovanni (Ap 20:11-12) assistettero in visione; esso coincide con la giustificazione del santuario del cielo in capo a 2300 sere-mattine (vedi su Dn 8:14). 2 E molti di coloro che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni per la vita eterna, gli altri per l’obbrobrio, per una eterna infamia.

452 - Cfr. H.C.LEUPOLD, Exposition of Daniel, p. 524. 453 - Questo assalto finale del “re del nord” è da identificarsi con la fase finale della guerra del

“piccolo corno” contro i santi dell’Altissimo (Dn 7:25; 8:23-24) e con la persecuzione dell’apocalittica bestia marina rediviva contro chi rifiuta il suo marchio (Ap 13: 15-17). 454 - L’espressione ebraica ’achad hassarîm harishonîm può tradursi “il primo dei primi principi” (vedi il commento di 10:13). 455 - Cfr. E.G.WHITE, Il Gran Conflitto, p. 459.

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I dormienti nella polvere della terra sono evidentemente i defunti. La metafora del dormire, applicata ordinariamente ai giacenti nei sepolcri456, suggerisce uno stato di incoscienza dei trapassati (durante il sonno s’interrompe la percezione della realtà oggettiva). È enunciata in questo passo danielico, per quanto in modo laconico, la dottrina della risurrezione che gli scritti del Nuovo Testamento riprendono ed elaborano457. La risurrezione della quale sta parlando l’angelo a Daniele è una risurrezione parziale di giusti e di reprobi: “molti di quelli che dormono si risveglieranno: gli uni per la vita eterna, gli altri... per un’eterna infamia”. Commenta E.G.White: “Tutti coloro che sono morti nella fede del messaggio del terzo angelo escono dai sepolcri glorificati e odono il patto di pace di Dio concluso con chi ha osservato la sua legge. ‘Anche quelli che lo trafissero’, Ap 1:7, coloro che disprezzarono e derisero l’agonia mortale di Cristo e i più violenti oppositori della sua verità e del suo popolo, risusciteranno per contemplare la sua gloria e l’onore conferito ai fedeli e agli ubbidienti”458. “...per la vita eterna ({flO( y¢Yx a l : lechayyê ‘ôlam) ...per una eterna infamia ({flO( }O):rd i l : ledir’ôn ‘olam)”, con queste indicazioni antitetiche sono precisati i destini ultimi dei fedeli e dei ribelli. L’ebraico dir’on, spiega il S.D.A. Bible Commentary, è “un vocabolo che non compare in nessun altro punto della Bibbia tranne che in Is 66:24. Esso è correlato con l’arabico dara’, ‘ripugnare’, ed ha il senso di ‘orrore’. Gli abitanti dell’universo che per millenni furono testimoni del gran conflitto, proveranno un senso di forte ripugnanza verso il peccato. Quando sarà finito il conflitto e il nome di Dio sarà pienamente giustificato, un profondo senso di orrore per il peccato e per tutto ciò che esso ha contaminato percorrerà l’universo. E’ questo orrore che dà concretezza alla prospettiva che mai più il peccato turberà l’armonia dell’universo”459. 3 E i savi risplenderanno come lo splendore della distesa, e quelli

che ne avranno condotti molti alla giustizia, risplenderanno come le stelle, in sempiterno. Il passo è strutturato nella forma del parallelismo sinonimico caratteristico della poesia ebraica. È data dei savi un’immagine dinamica: essi sono “quelli che avranno condotto molti alla giustizia”.

456 - Cfr. 2Re 2:10; Sl 10:3; Mt 27:52; Gv 11:11; 1Co 15:20; 1Te 4:14; 2Pie 3:4. 457 - Cfr. Mt 22:30; Lc 14:14; Gv 5:29; 6:40; At 24:15; 1Co 6:14; 15:42-44, 51-52; 1Te 4:16-

17; Ap 20:5-6. 458 - The Great Controversy, p. 637; nell’edizione italiana Il Gran Conflitto, p. 463. 459 - Vol. IV, p. 878

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L’ebr. {yilKi & : M a h a hammaskilîm, “i saggi”, viene dal verbo sakal, “essere prudente”, “agire con circospezione” (Gesenius). Maskilîm, participio hifil del verbo sakal, può essere preso nel senso causativo: “coloro che insegnano la prudenza, che fanno essere prudenti”. È precisamente nell’esercizio di questa funzione che i “saggi” sono visti in 11:33 (“i savi fra il popolo ne istruiranno molti”). “L’uomo che ha conoscenza delle cose di Dio, da questa conoscenza è reso edotto che quelle cose egli deve condividerle. La sapienza divina lo induce a farsi maestro di saggezza per gli altri”460. Quali mutamenti radicali apporterà nell’ordine storico l’irruzione del tempo finale! I “saggi”, già perseguitati a morte (11:33-35): saranno allora resi partecipi della gloria eterna degli esseri immortali: “risplenderanno come le stelle in sempiterno” (cfr. 1Gv 3:2), e i loro persecutori, già trionfanti, saranno precipitati nell’infamia. Con questa visione esaltante dei santi risorti e glorificati nel regno eterno di Dio si chiude l’ultima rivelazione che fu data al santo profeta Daniele. 4 E tu, Daniele, tieni nascoste queste parole, e sigilla il libro sino al

tempo della fine; molti lo studieranno con cura, e la conoscenza aumenterà”. A complemento della rivelazione, una precisa istruzione riguardo ad essa viene data a Daniele. Il profeta dovrà mantenere segrete le cose che gli sono state rivelate: {yirb f D : h a {ots: l)¢Yné d f hfT) a wº we’athah dâni’el sethom haddevarîm..., “e tu, Daniele, nascondi le parole...” (da satham, “fermare”, “rinchiudere”, “nascondere”). Dovrà anche sigillare il libro nel quale raccoglierà per iscritto quanto gli è stato rivelato: repS" h a {otx A wá wachathom hassefer..., “e sigilla il libro...” (da châtham, “sigillare”). “Parole” e “libro” si riferiscono sostanzialmente alla stessa cosa, cioè alla profezia che ha avuto inizio in 11:2. “Tale piccolo documento - osserva H.C. Leupold - nell’ebraico può significare qualunque documento, sia esso esteso o breve”461. Non l’intero libro di Daniele doveva dunque essere mantenuto segreto, ma soltanto una sua porzione. Un’istruzione analoga Daniele aveva ricevuto riguardo alla profezia delle “sere e mattine” in 8:26: “Tu tieni segreta la visione”, sethom hachazôn. La motivazione è sostanzialmente la stessa che in 8:26, anche se è espressa con parole differenti: “perchè si riferisce a un tempo lontano”, lett. “a molti giorni”, leyamîm rabîm (in 12:4: “sino al tempo della fine”, j"q t"(-da( ‘ad ‘eth qetz). Il silenzio imposto a Daniele dall’angelo riguardava chiaramente porzioni di profezia riferentisi agli ultimi tempi. “È naturale - scrive E.G.White - che un messaggio attinente al giudizio potesse essere proclamato solo quando fosse

460 - S.D.A. Bible Commentary, vol. cit., p. 879. 461 - H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 534.

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giunto il tempo della fine”462. Secondo la stessa fonte463 il “libretto aperto” nella mano dell’angelo potente descritto in Ap 10:1,2, non è altro che la porzione del libro di Daniele che dovette essere mantenuta segreta e sigillata sino al tempo della fine. “Molti - evidentemente nel tempo della fine - lo studieranno con cura e la conoscenza aumenterà”, ebr. ta(D f h a heBr : t i wº {yiBr a U+:+o$yº yeshottû rabîm wethirbeh hadda‘ath, lett. “lo esamineranno con diligenza in molti e si accrescerà la conoscenza”464. Osserva H.C.Leupold: “quando l’articolo è adoperato con la parola ‘fine’, questa parola denota palesemente la fine di tutte le cose (...). Allora ‘molti lo esamineranno con attenzione’. Il verbo shut significa in primo luogo ‘andare avanti e indietro’, ma con riferimento a un libro ciò significherebbe fare scorrere lo sguardo avanti e indietro, cioè ‘esaminare’. E poiché il verbo è nella forma intensiva (yeshotetu), abbiamo cercato di rendere questa sfumatura di senso col tradurlo ‘esamineranno con diligenza’: leggeranno e rileggeranno e controlleranno quello che avranno letto... E a mano a mano che procederanno in questa seria disamina, ‘la conoscenza si accrescerà’. Alla luce degli accadimenti degli ultimi tempi, lo scopo a cui mira il libro ed il suo significato diverranno sempre più palesi”465. Il S.D.A. Bible Commentary (vol. IV, p. 879) sottolinea che la frase: “e la conoscenza sarà accresciuta” deve considerarsi il seguito logico della precedente. E commenta testualmente: “Quando il libro sigillato sarà dischiuso nel tempo della fine, la conoscenza attinente alle verità contenute in queste profezie aumenterà (...). Sul finire del secolo XVIII e agli inizi del XIX, un insolito interesse verso le profezie di Daniele e dell’Apocalisse si manifestò in aree geografiche distanti l’una dall’altra. Lo studio delle suddette profezie condusse alla convinzione diffusa che il secondo avvento di Cristo fosse vicino. Numerosi espositori in Inghilterra, Joseph Wolff nel Medio Oriente, Manuel Lacunza nel Sud America e William Miller negli Stati Uniti, insieme con una schiera di altri studiosi delle profezie, dichiararono, sulla base del loro studio delle profezie di Daniele, che era imminente il secondo avvento”466. 462 - The Great Controversy, p. 356: (nell’ediz. italiana Il Gran Conflitto, p. 261); vedi anche

Acts of the Apostles, p. 585 (nell’ediz. italiana Gli uomini che vinsero un impero, p. 367) e The Desire of Ages (nell’ediz. italiana La speranza dell’uomo, p. 157). 463 - Vedi Testimonies to Ministers, p. 115. 464 - Yeshotetu è la forma intensiva (piel) del verbo shut, “andare o correre avanti e indietro”, e metaforicamente “scorrere un libro”, “esaminare minuziosamente uno scritto”, secondo la maggioranza dei moderni (B. DAVIDSON). Nell’Antico Testamento shut ritorna 13 volte (Nu 11:8; 2Sm 24:2,8; 2Cr 16:9; Gb 1:7; 2:2; Gr 5:1; 49:3; Ez 27:8, 26; Dn 12:4; Am 8: 12; Za 4:10), per lo più col senso di “andare attorno”, “girovagare”. In Dn 12:4 i più lo leggono nel senso metaforico di “indagare con cura nel libro” con un conseguente accrescimento della conoscenza delle sue profezie. 465 - H.C.LEUPOLD, op. cit., pp. 534-535. 466 - Per ulteriori approfondimenti sul tema degli studi profetici fra l’ultimo settecento e il primo ottocento, vedi LE ROY EDWIN FROOM, The Prophetic Faith of our Fathers, vol. III; R.GERBER, Le Mouvement Adventiste, p. 16-53.

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5 Poi, io, Daniele, guardai, ed ecco due altri uomini in piedi: l’uno di qua sulla sponda del fiume, 6 e l’altro di là, sull’altra sponda del

fiume. E l’un d’essi disse all’uomo vestito di lino che stava sopra le acque del fiume: “Quando sarà la fine di queste maraviglie?” Il messaggio profetico recato a Daniele da un angelo (presumibilmente Gabriele), introdotto in 11:2, si è concluso nel v. 4 del cap. 12. Daniele non dice se il latore del messaggio celeste una volta conclusa la sua missione se ne sia andato o gli sia rimasto ancora vicino. Comunque volgendo lo sguardo intorno o davanti a sé, il profeta scorge due figure dall’aspetto umano che si tengono in piedi sulle rive opposte del fiume (ye’or), certamente l’Hiddekel (il Tigri) in prossimità del quale egli si trovava all’inizio della rivelazione (10:4). Sono due angeli ed è probabile che siano comparsi alla fine della rivelazione stessa. Non è spiegato perché siano in due e perché si tengano sulle opposte sponde del fiume. Anche in 8:13 due angeli stanno davanti a Daniele, e dialogano fra loro; qui invece è uno solo che parla. Un terzo personaggio, certamente di rango superiore (è vestito di lino), si tiene in piedi sulle acque del fiume e a lui si rivolge l’uno degli angeli che parla. Daniele ha già visto una figura simile a questa al principio della visione (10:5). Ivi il personaggio è indicato in modo indeterminato: “un uomo vestito di lino”, ’ish ’echad levûsh habbaddîm, come se lo avesse visto per la prima volta. Qui invece è indicato con l’articolo: “all’uomo in abiti di lino”, {yiDB a h a $Ub:l $yi)l f la’îsh levush habbaddîm, come riferendosi a un personaggio già noto. Parrebbe che alla fine della rivelazione il profeta vedesse di nuovo l’Essere celeste che gli era apparso all’inizio, pur se stavolta non si dilunga a descriverne l’aspetto. “E l’un d’essi disse...” I LXX, Teodozione e la Vulgata traducono: “E dissi...”; così pure G.Rinaldi. Questo sarebbe con certezza il senso della frase se nell’ebraico il verbo fosse seguito dal pronome di prima persona. Ma non è così, wayo’mer non ha alcun pronome ed è seguito immediatamente dalla menzione dell’ “uomo vestito di lino”, onde la traduzione quasi univoca delle versioni: “e uno (di loro) disse...” sembra del tutto corretta. La domanda, che l’uno degli angeli rivolge al personaggio che sta sulle acque, pare rivelare un vivo interesse delle creature celesti per gli eventi umani. In 8:13 una domanda sulle 2300 sere e mattine formulata inizialmente negli stessi termini (‘ad mathay..., “fino a quando...?”) fu rivolta dall’uno dei due angeli dialoganti tra loro all’angelo interprete della profezia. Ivi pure si scorge l’interesse dell’universo angelico per le vicende terrene che attengono alla salvezza degli uomini (cfr. 1Pie 1:12). Nell’originale l’interrogazione è così formulata: tO)fl:Pah j"q yatfm-da( ‘ad mathay qetz happela’ôth. Letteralmente: “fino a quando la fine delle meraviglie?” L’inserzione dell’aggettivo dimostrativo “queste” tra “fine” e “meraviglie”, sebbene non ci sia nell’originale, si impone, giacché pela’ôth (“meraviglie”) si riferisce con tutta evidenza agli eventi preannunciati nella rivelazione. Il S.D.A. Bible Commentary, ibidem, p. 880, osserva: “L’angelo formula la domanda inespressa che deve avere predominato nei pensieri di Daniele. La rapida 370

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e completa restaurazione dei Giudei gravava come un macigno sul cuore del profeta (vedi su Dn 10:2). Invero il decreto di Ciro era già stato promulgato (Ed 1:1; cfr. Dn 10:1), ma restava ancora molto da fare. Dopo la narrazione lunga ed intricata sugli avvenimenti futuri nel corso dei quali il popolo di Dio avrebbe sofferto, il profeta era naturalmente ansioso di sapere per quanto tempo ancora si sarebbero svolte ‘queste meraviglie’ e quando si sarebbe avverata la promessa ‘il tuo popolo sarà salvato’ (12:1). Daniele non aveva colto appieno la relazione fra ciò che gli era stato mostrato ed il futuro. Peraltro una parte della profezia era stata sigillata e sarebbe stata compresa soltanto ‘nel tempo della fine’”. 7 E io udii l’uomo vestito di lino, che stava sopra le acque del fiume,

il quale, alzata la man destra e la man sinistra al cielo, giurò per colui che vive in eterno, che ciò sarà per un tempo, per dei tempi e la metà d’un tempo; e quando la forza del popolo santo sarà interamente infranta, allora tutte queste cose si compiranno. Colui al quale è stata rivolta la domanda è il solo che sia pienamente qualificato per dare risposte certe su ciò che è incognito agli uomini, perché possiede una conoscenza del futuro che nessun altro possiede; pertanto “l’uomo vestito di lino” è interprete autorevole e infallibile della rivelazione. Fin dall’antichità l’alzare la mano era un gesto che rafforzava il giuramento. Abramo dice al re di Sodoma: “Ho alzato la mano all’Eterno, l’Iddio Altissimo, padrone dei cieli e della terra, giurando che non prenderei neppure un filo né un laccio di sandalo, di tutto ciò che ti appartiene...” (Ge 14: 22-23). Con lo stesso gesto è espresso metaforicamente l’impegno solenne di Dio di mandare ad effetto le sue promesse e le sue minacce (cfr. De 32: 40; Sl 106: 26; Ez 20: 56). Alzare entrambe le mani nel giuramento è un gesto che conferisce la più alta solennità possibile al giuramento stesso. “L’uomo vestito di lino”, alzando al cielo la mano destra e la mano sinistra, riveste di una solennità incomparabile il giuramento, già di per sé solenne (“giurò per colui che vive nei secoli dei secoli”), sulla veracità della risposta che sta per dare all’interpellante. La domanda era stata chiara e precisa: “A quando la fine di queste meraviglie?” (Concordata). Si voleva sapere, insomma, entro quanto tempo si sarebbero realizzate le cose straordinarie anticipate nella rivelazione del cap.11. La risposta è concisa e diretta ma alquanto ermetica (“ciò sarà per un tempo, per dei tempi e la metà d’un tempo”)467. L’indicazione cronologica è identica a quella che fissa la durata della persecuzione del “piccolo corno” contro i “santi dell’Altissimo” in 7:25, ivi enunciata in aramaico. La coincidenza dell’attività persecutoria contro il popolo santo ad opera del “re del nord” nel cap. 11 e del “piccolo corno” nel cap. 7, nonché l’identità della durata della persecuzione, porta a concludere che le due

467 - Ebraico lemo‘ed mo‘adîm wachezi, lett. “per un tempo, tempi e metà tempo”.

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figure simboliche debbano riferirsi alla stessa entità storica468. E’ da rilevare che il termine mo‘ed esprime il concetto di tempo fissato, determinato. Per generale consenso dei traduttori e degli espositori di Daniele (vedi il commento di 7:25) le forme plurali aramaica ‘iddanîn ed ebraica mo‘adîm dovrebbero leggersi nella forma duale (‘iddanayin e mo‘adayim). Pertanto l’indicazione temporale in entrambi i casi corrisponde a 3 anni e mezzo o 1260 giorni (giorni simbolico-profetici, come si è spiegato altrove, eguagliabili ad altrettanti anni storici). In definitiva la dichiarazione dell’ “uomo vestito di lino” fatta con solenne giuramento rivela che le cose straordinarie annunciate nella rivelazione si compiranno nell’arco temporale di 1260 anni. Tutto sarà compiuto “quando la forza del popolo santo sarà interamente infranta” (così la Versione Riveduta). L’ebraico recita: heL) " -lfk hænyelk: Ti $edoq-{a(-dáy j"Pná tOLakk: U ûkekallôth napez yad ‘am qodesh tikleyna kol ’elleh, tradotto alla lettera: “e quando sarà completa (o finita) la dissipazione della forza del popolo santo, saranno compiute tutte queste cose”469 (yad, lett. “mano”, è usato col senso traslato di “forza”). H.C. Leupold opta per la seconda accezione della voce kekalloth, “quando sarà finita”, e traduce: “e quando sarà posto fine alla dispersione della forza del popolo santo, allora tutte queste cose saranno finite”. Questa è la traduzione che preferiamo. Il periodo storico dei 1260 anni durante i quali furono sottoposti a persecuzione i cristiani non cattolici fedeli all’Evangelo, cominciò, come si è detto altrove, nel 538 e finì nel 1798 (vedi ancora il commento di 7:25). Gesù Cristo nella parte del sermone profetico in cui predice il suo ritorno avverte: “Or subito dopo l’afflizione di quei giorni il sole si oscurerà, e la luna non darà il suo splendore, e le potenze dei cieli saranno scrollate; e allora apparirà nel cielo il segno del Figliol dell’uomo...” (Mt 24: 29-30; cfr. con Ap 6:12-13). I segni cosmici indicati dal Signore si realizzarono fra il 1780 e il 1833470. Le nuove correnti di pensiero e i profondi mutamenti politici che furono innescati dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese tra la metà e la fine del settecento, posero fine alle persecuzioni papali contro i cristiani evangelici. Fu in questo momento della storia moderna che finì “la dissipazione della forza del popolo santo”, compiendosi quanto fu annunciato dall’“uomo vestito di lino” che stava sulle acque del fiume. 8 E io udii, ma non compresi; e dissi: “Signor mio, quale sarà la fine di queste cose?” 9 Ed egli rispose: “Va’, Daniele; poiché queste parole

son nascoste e sigillate sino al tempo della fine.

468 - Cfr. H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 540 469 - G.Rinaldi traduce: “e quando sarà compiuta la dispersione della potenza del popolo

santo, si compiranno tutte queste cose”. 470 - Vedi E.G.WHITE, Il Gran Conflitto, pp. 223 - 226.

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La formula cronologica “un tempo, tempi e metà tempo”, che Daniele non ha udito enunciare per la prima volta (cfr. 7:25), gli rimane tuttora oscura. L’uso del pronome personale (“ed io”, we’anî), non sempre necessario nella lingua ebraica, può far pensare che il profeta si sia accorto che i due angeli abbiano capito la dichiarazione dell’ “uomo vestito di lino”, mentre per lui è rimasta enigmatica. Ed egli è ansioso di capire, perché sono coinvolti i destini del suo popolo. Due anni prima Daniele aveva invocato la sollecita restaurazione del santuario e della santa città in rovina (9:17-19) e tuttora in stato di desolazione; non riesce quindi a conciliare la risposta immediata di Dio alla sua supplica (9:23-25) con questo oscuro periodo di tempo che sembra essere piuttosto lungo. Donde la sua domanda: “A quando la fine di queste cose?” L’interrogativo è formulato in termini diversi rispetto all’interpellanza dell’angelo. Questi aveva detto: “A quando la fine (di queste) meraviglie ?” (‘ad mathay qetz happela’ôth); Daniele dice in sostanza: “Quale sarà l’esito finale di queste cose?” (heL) " tyirx A ) a hfm mâh ’acharîth ’elleh). “Esito finale” è il senso di ’acharith, in questo contesto danielico, preferito da diversi studiosi471. Sembra, insomma, che il profeta sia ansioso di sapere che cosa accadrà dopo che si saranno compiute le cose straordinarie (pela’ôth) annunciate nella rivelazione. Ma stavolta non ci sarà una risposta per la sua domanda. L’interpellato gli rammenta che quelle “parole sono nascoste e sigillate sino al tempo della fine” (j"q t"(-da( {yirb f D : h a {yimt u x A wá {yimt u s: situmîm wachatumîm haddevarîm ‘ad ‘eth qetz). Non gli aveva comandato l’angelo della rivelazione di tenere nascoste quelle parole e di sigillare il libro sino al tempo della fine ? E’ una disposizione divina, non può essere disattesa. 10 Molti saranno purificati, imbiancati, affinati; ma gli empi agi-

ranno empiamente, e nessuno degli empi capirà, ma capiranno i savi. “L’uomo vestito di lino” che sta “sopra le acque del fiume” predice, per il tempo della fine (menzionato nell’ultima parte del versetto precedente), un radicalizzarsi delle inverse condizioni morali degli uomini. Sul versante opposto rispetto ai “molti” che saranno purificati, resi candidi e raffinati, si troveranno gli empi che agiranno con empietà ({yi($ f r : U(yi$r : h i wº hirshî‘û resha‘îm). Gesù pure previde per il tempo della fine un moltiplicarsi dell’iniquità (Mt 24:12). Nella grande tribolazione dell’ultimo tempo (12:1), mentre si purificheranno e si santificheranno ancora di più i puri ed i santi (Ap 22:11b), gli ingiusti agiranno sempre più da ingiusti e gli impuri da impuri (Ap 22:11a). In 12:10 le due prime voci verbali (UrArB f t : yé yitbararû e Un:Bl a t : yé weyitlabbenu)

471 - Vedi H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 542; cfr. B.DAVIDSON, The Analytical Hebrew and Chaldee Lexi-

con, voce ’acharith.

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sono nella forma hitpael (riflessiva-intensiva) e potrebbero pertanto tradursi “si purificheranno” e “si renderanno candidi”. Il perfezionamento del carattere è frutto della grazia divina, ma è l’adesione della volontà umana che rende possibile l’azione efficace della grazia di Gesù Cristo nel cuore umano (Rm 6:17-19). Le porzioni sigillate delle profezie danieliche che si sveleranno ai “saggi” nel tempo della fine, resteranno per gli empi di un’oscurità impenetrabile: “nessuno degli empi capirà” (lett. “e non capiranno tutti gli empi”, welo’ yavînû qol resha‘îm). Gesù disse ai suoi discepoli che a loro era dato di conoscere il mistero del regno dei cieli, ma agli altri no (Mt 13:11). I “saggi” dell’ultimo tempo comprenderanno le profezie svelate (Unyibæy {yilKi & : M a h a wº wehammaskilîm yavînû) e ne trarranno ispirazione per rimanere fedeli al loro Signore nella grande tribolazione finale. 11 E dal tempo che sarà soppresso il sacrifizio continuo e sarà riz-

zata l’abominazione che cagiona la desolazione, vi saranno milleduecentonovanta giorni. 12 Beato chi aspetta e giunge a milletrecentotrentacinque giorni! Come si è detto altrove nel presente volume a proposito delle 2300 sere e mattine (vedi il commento di 7:25 e 8:14), i “giorni a cui si fa riferimento nel v. 12 vanno compresi in termini di anni storici (sono “giorni simbolico-profetici, non giorni di calendario). Il prof. J.Doukhan spiega che il modo in cui sono rapportati l’uno con l’altro i due periodi di 1290 e 1335 giorni suggerisce che entrambi questi periodi sono orientati nella stessa prospettiva, il secondo rappresentando un prolungamento del primo472. L’inizio dei due periodi è sincrono ed è segnato dalla soppressione della “perpetuità” (dyimTf h a hattamîd) e dalla collocazione dell’ “abominazione della desolazione” (o “del desolatore”), {"mo$ jUQi$ shiqqûtz shomen. Il senso di questa espressione è stato spiegato nel commento di 9:27, dove si trova un’espressione molto simile (we‘al kanaf shiqqûtzîm meshômem, lett. “e sull’ala delle abominazioni, desolazione”). Come si è osservato nel commento di 9:27, Gesù Cristo nel Vangelo di Matteo (24:15) cita queste parole di Daniele e le riferisce alla profanazione e desolazione del Tempio di Gerusalemme che avvennero al tempo dell’insurrezione giudaica contro la dominazione romana. Il tema della desolazione del santuario è presente anche in 8:11-13. Come nel discorso profetico di Gesù in Mt 24 sono accostati fra loro due eventi futuri distanti l’uno dall’altro nel tempo – cioè: 1) la profanazione e desolazione del tempio ad opera degli zeloti e dei Romani e 2) l’avvento di Cristo e la fine

472 - J.DOUKHAN, op. cit., p. 264.

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dell’“età presente” - così in questo passo di Daniele l’attacco mosso dal “piccolo corno” al tamîd (la “perpetuità”) del Principe celeste e al suo santuario - questa aggressione che costituisce il “peccato che produce la desolazione” (happesha‘ shomen) - può essere visto su due piani prospettici, e cioè: 1) nella prospettiva della storia del popolo giudaico, come una predizione della profanazione e distruzione del Tempio gerosolimitano nell’anno ’70 (in modo simile che in 9:27) e 2) nella prospettiva della storia del cristianesimo come un’allusione profetica alla sostituzione del ministero sacerdotale continuo (tamîd) di Cristo nel santuario del cielo con un ministero sacerdotale terreno ad opera della Chiesa romana473. Abbiamo visto che l’inizio dei 1290 e dei 1335 giorni è sincrono, cioè contemporaneo; ne segue che il secondo periodo termina 45 giorni-anni dopo che è finito il primo (1335-1290 = 45), (non si deve dimenticare che “giorni” nelle profezie apocalittiche equivalgono ad anni). Il commento di J.Doukhan sui due versetti in esame in queste pagine è illuminante. Scrive questo studioso nel suo lavoro più volte citato nel presente commentario: “Con i 1335 giorni si arriva a destinazione. È l’ultimo periodo menzionato ed è anche il solo che sia segnato dal senso dell’arrivo alla meta dopo la tensione dell’attesa impaziente. Pertanto è questo il periodo che risponde veramente alla domanda: ‘fino a quando?’ (v. 7; cfr. il v. 8). Ora questa domanda, si badi bene, è identica a quella del cap. 8. Non solo è composta dalle stesse parole ebraiche ‘ad mathay (fino a quando?), ma è ugualmente associata allo stesso motivo dei ‘prodigi’ (pela‘ôth, 8:13, 24) ed è inserita nel medesimo contesto di dialogo fra due esseri celesti (8:13, cfr. 12:6). Infine il personaggio a cui è rivolta la domanda si presenta con l’abito del sommo sacerdote nell’esercizio delle funzioni che gli competono nel giorno del Kippur, un tema dominante nel cap. 8. Tutto concorre a suggerire che le due visioni traducono la stessa preoccupazione e si applicano al medesimo evento. I 1335 giorni, come le 2300 sere e mattine, rispondono alla stessa domanda, una domanda che esprime un’identica preoccupazione, e per conseguenza conducono al medesimo tempo della fine, il 1844. “Nella visione delle 2300 sere e mattine, Daniele vede il tempo che inizia nel 1844 come un tempo di Kippur celeste nel corso del quale Dio procede a giudicare gli uomini e così prepara il regno che viene. “Nella visione dei 1335 giorni, Daniele vede lo stesso tempo, ma stavolta il suo sguardo si volge verso la terra. Il periodo profetico è messo in rapporto con l’uomo di quaggiù che ‘arriva’ fin lì e la cui felicità si scopre nell’attesa. “‘Beato chi aspetta e arriva fin lì...’ (v. 12). Il tempo che inizia nel 1844 è dunque vissuto non solo come un tempo di arrivo a destinazione, ma altresì come un tempo di attesa e di speranza. È precisamente lo spirito che caratterizza la psicologia dell’israelita nel giorno del Kippur. Gli stessi sentimenti di attesa e di speranza animano il Salmo della Festa

473 - Cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 873-874.

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delle Espiazioni, il famoso De profundis:474. ‘Io aspetto l’Eterno, l’anima mia l’aspetta, E io spero nella sua parola. L’anima mia anela al Signore Più che le guardie non anelino al mattino. Israele, spera nell’Eterno’ (Sl 130: 5-7) “A partire da quest’ultimo dato oggi è possibile decifrare i periodi precedenti e nello stesso tempo verificare il valore del risultato ‘1844’. Il ragionamento è semplice e si formula in termini matematici. Il 1844 essendo l’anno di scadenza dei 1335 giorni-anni, basta sottrarre 1335 anni da 1843 (e non da 1844, giacché si includerebbe nel computo tutto l’anno in corso) per determinare il punto d’inizio dei 1335 giorni-anni. La data che si ottiene è l’anno 508 della nostra era; con ciò viene ad essere confermata la data del 1798 come termine di scadenza dei 1290 giorni (508 + 1290 = 1798). Secondo il passo in esame, questo tempo segna il momento in cui è tolto il sacrificio perpetuo allo scopo di stabilire in sua vece ‘l’abominazione del devastatore’ (12:11). I due eventi non coincidono. Il primo prepara il secondo. Il testo dice letteralmente che il perpetuo è tolto ‘al fine di dare (rizzare) l’abominazione del devastatore’ (12:11; cfr. 11:31). L’espressione tecnica ‘abominazione del devastatore’ nel libro di Daniele designa il potere oppressore (8:11, 13; 9:27; cfr. Mt 24:15; Mr 13:14). Secondo la profezia questa oppressione dovrà durare ‘un tempo, dei tempi e la metà di un tempo’, vale a dire 1260 giorni-anni. Poiché questi 1260 anni scadono nel 1798, se ne deduce che la data d’inizio di questo periodo è l’anno 538 (1798-1260 = 538). Queste date, 508, 538, 1798, si sono già incontrate nel corso dello stadio profetico (...). “Nel 508 la Chiesa rafforza le sue basi politiche con l’aiuto del re dei Franchi Clodoveo (481-511)475. Nel mondo ariano che si oppone alla Chiesa e ne

474 - Questo salmo viene recitato nel corso della liturgia del Kippur (vedi “Le preghiere del

Rosh Hashanah” in Shulchan Aruch, c. CIC, 582). Sembra anche che il salmo abbia tratto ispirazione da questa festa, come indica la frase tecnica che lo conclude: “tutte le sue iniquità” (cfr. Le 16:21, 22) - (Nota dell’Autore) 475 - Il franco Clodoveo ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende che modificarono in modo significativo l’assetto politico dei territori nord occidentali del defunto Impero romano tra l’ultimo quindicennio del V e i primi anni del VI secolo. Unificate le tribù dei Salii e dei Ripuari, Clodoveo estese gradatamente il dominio dei Franchi dalla regione renana verso sud-ovest. Nel 486 vinse a Soissons il capo gallo-romano Siagrio, ultimo rappresentante dell’autorità romana in Gallia, e si annesse la regione fra la Somme e la Loira. Nel 496 il futuro fondatore del regno dei Franchi sconfisse gli Alamanni a Tolbiac conquistandone i territori. Nello stesso anno si convertì al cattolicesimo per l’influsso della moglie cattolica, la burgunda Clotilde, e si fece battezzare a Reims dal vescovo Remigio. Fu questo un evento di notevole significato, sia per il regno franco che per la Chiesa romana. “La conversione (di Clodoveo) al cattolicesimo - osserva lo storico Pasquale Villari - ... iniziò la conversione del suo popolo. E la monarchia ne ebbe subito il favore della Chiesa romana che,

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frena lo sviluppo si apre una breccia e da quel momento ‘il papato può attuare in tutta sicurezza i propri progetti di governo’476. “Ma si deve attendere fino al 538 perché l’ultimo regno ariano che minaccia ancora la Chiesa sia finalmente respinto dall’imperatore Giustiniano (527-565). Come aveva predetto il profeta Daniele (7:27), la comparsa del piccolo corno avrebbe comportato la caduta di un certo numero di regni già dipendenti dalla dominazione romana. “Nel 1798 infine, la potenza politica della Chiesa è spezzata a seguito di una serie di avvenimenti che condurranno all’arresto e alla deportazione del papa stesso.

per mezzo dei suoi vescovi, era organizzata ben più fortemente dell’ariana. I Franchi divennero così il popolo eletto da Dio a difesa del papa e dalla religione”. -Le invasioni barbariche in Italia, p. 357. Fu una scelta politicamente oculata quella di Clodoveo. “E fu - scrive lo storico S.Hellmann in riferimento alla conversione del re franco alla fede cattolica - un avvenimento d’importanza storica: il contrasto religioso che alcuni decenni dopo doveva essere fatale per i regni ostrogoto e vandalico e il cui pericolo fu solo scongiurato dai Visigoti e dai Longobardi con una tardiva conversione al cattolicesimo, fu subito da lui evitato mediante una politica saggia e lungimirante”. Storia del Medioevo, pp. 34-35. La conversione di Clodoveo segnò l’inizio di un processo storico che opportunisticamente assecondato dai papi, avrebbe condotto la Chiesa all’acquisizione del potere temporale. “Meravigliosa addirittura - dice il Villari - è la persistenza con la quale i papi continuarono attraverso i secoli, l’opera loro, quasi imponendo ai Franchi la missione voluta, preveduta dalla Chiesa; e non smisero mai fino a che essa non ebbe il suo adempimento con la coronazione di Carlo Magno e la formazione del potere temporale”. - Op. cit, p. 358. Nel 507 Clodoveo con l’aiuto dei Burgundi, sconfisse i Visigoti a Vouillé, nelle pianure del Poitou, e tolse ad essi tutta l’Aquitania fino ai Pirenei. La vittoria di Vouillé spazzò via dalla Gallia i Visigoti liberando dall’influenza ariana quella vasta regione. Dal 508, un regno franco forte e unito che si estendeva dalla regione ad est del Reno fino alle coste della Manica ad ovest e ai Pirenei a sud, avrebbe garantito alla Chiesa protezione e libertà d’azione in quelle terre ove il cattolicesimo era stato finora avversato, consentendole di intensificare la sua influenza. Nel corso della sua visita pastorale in Francia nel settembre del 1996, papa Wojtyla non ha mancato di riproporre ai francesi la figura di Clodoveo di cui ricorreva il millecinquecentesimo anniversario della conversione al cattolicesimo, “uno degli eventi che hanno formato la Francia”, ha sottolineato il Pontefice romano durante l’incontro col Presidente Chirac a Tours. In effetti, come si è visto, la conversione alla fede cattolica valse a Clodoveo l’appoggio della Chiesa, una circostanza che contribuì in maniera determinante alla sua affermazione politica. E valse alla Chiesa il sostegno di una nazione destinata a dominare nei prossimi secoli la politica dell’Europa germanica e latina. 476 - W. ULLMANN, A Short History of the Papacy in the Middle Ages, New York, 1972, p. 37. “Verso il ‘500, scrive Marcel Pacaut, si libera un’istituzione la cui autorità (...) è incontestabile (...) Il papa, sommo pontefice (summu pontifex), sommo sacerdote (summus sacerdos), talora persino chiamato (...) ‘Vicario di Cristo’ (...) gode nella sede apostolica di un prestigio particolare”. - Histoire de la Papautè de l’Origine au Concile di Trente, Parigi 1976, p. 44. (Nota dell’Autore)

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“Quanto al 1844, si deve riconoscere che anche su questa data la profezia ha visto giusto. Certo il 1844, al contrario delle altre date a cui si è fatto riferimento prima, non è una data che la storia abbia conservato. Ad essa non è associata una rivoluzione né una conquista e nemmeno un decreto reale. Quella data non figura nei manuali di storia; essa non evoca nulla nelle nostre memorie scolastiche. Eppure, se si crede al libro di Daniele, il 1844 è una data che conta. Quell’anno precisamente è segnato dal montare di un movimento di attesa e di speranza, un movimento nel contempo interconfessionale e internazionale che definisce sé stesso precisamente in rapporto alla venuta, ‘all’avvento’ di Dio477. Quell’anno è anche segnato da un intensificarsi degli studi sul libro di Daniele, e specificamente su quella profezia che annunciava il tempo della fine. C’è da stupirsene ? Nel 1844 è finalmente decodificata la profezia che annuncia il 1844. “A partire da questa data in effetti la profezia si chiarisce, la si comprende. Daniele lo aveva previsto. L’angelo lo aveva prevenuto. Solo nel tempo della fine la parola sarebbe stata desigillata e la si sarebbe capita (vv. 4, 9, 10). Quando la profezia si adempie, allora si può riconoscerla, si può comprenderla e vi si può credere: ‘... ve l’ho detto prima che avvenga, affinché, quando sarà avvenuto, crediate’ (Gv 14. 29) “Questa è la ragione d’essere di tutte quelle date che segnano il percorso della storia: servire da punti di riferimento nel tempo, per risvegliare e rafforzare l’attesa”478. 13 Ma tu avviati verso la fine; tu ti riposerai, e poi sorgerai per rice-

vere la tua parte di eredità, alla fine de’ giorni. Secoli e secoli sarebbero trascorsi prima che si fossero compiute le ultime profezie rivelate a Daniele; esse non potevano dunque riguardare lui e la sua generazione. La vita terrena dell’anziano profeta - una vita intensa, tutta dedita alla missione alla quale è stato chiamato molti anni prima - volge oramai alla fine. Essere profeta per le età e per le genti a venire, essere profeta universale, insomma: fu questa la missione della quale Daniele fu investito ed egli l’ha svolta con indefettibile fedeltà raccogliendo in forma scritta per consegnarle ai posteri tutte le straordinarie rivelazioni che gli sono state date. Adesso Daniele deve prepararsi al trapasso. Nell’immediato lo attende il riposo nel sepolcro, non la gloria del paradiso! L’eredità eterna la riceverà quando risorgerà “alla fine dei giorni”.

477 - Su questo soggetto vedi H. DESROCHE, Sociologie de l’Esperance, Parigi 1973. (Nota

dell’Autore) 478 - Le soupir de la terre, pp. 264-267.

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Come somiglia a quella che intravide Paolo alla vigilia del martirio la prospettiva che fu posta davanti a Daniele prossimo a lasciare la vita presente. L’apostolo di Gesù si aspettò anch’egli per l’ultimo giorno la ricompensa riservata ai fedeli del Signore: “... il tempo della mia dipartenza è giunto... del rimanente mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno” (2Tm 4: 6, 8). D’ora fino a “quel giorno” egli riposerà nel seno della terra, come il santo profeta Daniele.

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1. BABILONIA

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abilonia sorse in epoca remota (v. Ge 11: 1-9) nella pianura alluvionale percorsa dal Tigri e dall’Eufrate. Nella seconda metà del III millennio a.C. essa divenne, per merito del grande re Sargon di Akkad, il centro di un vasto impero che si estendeva dal golfo Persico al centro dell’Anatolia. La città decadde circa cento anni più tardi quando fu occupata dai barbari Gutei scesi dalle montagne a est del Tigri. Poco più di un secolo dopo, Babilonia entrò nell’orbita politica di Ur avendo i prìncipi del risorto impero sumerico cacciato dal paese i rudi montanari. Nel XIX sec. A.C., dissoltosi l’impero sumerico, Babilonia fu per breve tempo sotto il controllo degli Elamiti; in seguito fu occupata dai semiti Amorrei venuti dal deserto della Siria. Sotto la dinastia amorrea, che ebbe in Hammurabi (c.ca 1728-1686 a.C.) il più illustre dei suoi rappresentanti, la città acquistò nuovo lustro divenendo ancora una volta la capitale di un grande impero. Estintasi la dinastia amorrea a metà del II millennio, Babilonia decadde di nuovo; presa e saccheggiata dagli Hittiti dell’Anatolia, fu poi occupata dai Kassiti che la tennero per vari secoli. Nel XIII sec. a.C. ai Kassiti subentrarono gli Assiri, e Babilonia rimase per seicento anni una dipendenza di Ninive, governata per lo più da principi vassalli. Tiglat-Pileser III (745-727 a.C.) e Sargon II (722-705), il distruttore di Samaria, vollero cingere essi stessi la corona di Babilonia. Invece Sennacherib (705685), stanco di domare rivolte, distrusse la città nel 689 a.C. Risorta dalle sue macerie in breve tempo, Babilonia fu governata da locali principi caldei sottomessi alla sovranità di Ninive, ma anelanti all’indipendenza. Colui che conseguì questo ambìto risultato fu un capo caldeo di nome Nabopolassar, il quale nel 626 a.C. proclamò la secessione da Ninive. Esausta e decadente, l’Assiria non fu più in grado di ripristinare la sua sovranità sulla città ribelle. Fu anzi Nabopolassar che prese l’iniziativa contro i dominatori secolari di Babilonia. Il principe caldeo combatté gli Assiri con alterna fortuna e finalmente, alleatosi col re dei Medi Ciassàre, nel 612 a.C., espugnò Ninive e la rase al suolo ponendo fine per sempre all’egemonia assira nel Vicino Oriente. Babilonia si avviò a ripristinare l’antica grandezza e ad assurgere ancora una volta al ruolo di centro del mondo. Spettò al figlio e successore di Nabopolassar, il grande Nabucodonosor II (605-562 a.C.), conseguire questo brillante risultato. È questo il periodo storico che la profezia danielica anticipa con l’immagine della testa d’oro nel cap. 2 e descrive con la figura del leone alato emergente dal mare nel cap. 7. La prima fase del regno di Nabucodonosor fu caratterizzata principalmente da una intensa attività militare che permise all’energico sovrano di estendere fino 379

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alla costa mediterranea e alla frontiera egiziana l’egemonia di Babilonia. Fu la fase della formazione dell’impero che la profezia rappresenta realisticamente con la figura del leone nel suo ruolo naturale di indomito predatore. Le ali sul dorso evocano la rapidità con cui si mossero le milizie caldee nelle guerre di conquista e negli interventi per domare le rivolte (cfr. Gr 4: 13; 6: 23 u.p.). Tre volte gli abitanti di Giuda e i loro re dovettero sperimentare sulla loro pelle quanto fosse illusorio sperare di svincolarsi dal giogo di Babilonia: nel 605 a.C., sotto Gioiachim, nel 598, all’inizio del regno di Gioiachin, e nel 587, alla fine del regno di Sedechia. Stavolta non solo fu saccheggiato il Tempio di Gerusalemme, ma il sacro edificio e la città stessa furono distrutti e la popolazione superstite fu deportata. A un primo periodo del regno di Nabucodonosor segnato in modo predominante dall’attività militare, ne seguì un secondo nel quale prevalsero l’attività edilizia e la promozione della cultura. E’ questa seconda fase della storia della nuova Babilonia che la profezia descrive con la metamorfosi del leone. La belva che si umanizza (perde le ali, si alza sulle zampe posteriori come un uomo e riceve un cuore umano) evoca in modo concreto la transizione di Babilonia dalla fase di “martello” che frantuma le nazioni (Gr 51: 20) alla fase di “splendore dei regni... superba bellezza dei Caldei” (Is 13: 19). Nella storia delle nazioni il culmine della grandezza e della potenza spesso coincide con l’inizio del declino. Così nella visione di Daniele il cambiamento di indole del leone, nel medesimo tempo che rispecchia il momento di massimo splendore di Babilonia, annuncia l’inizio della decadenza che prelude alla fine. In effetti dopo la morte di Nabucodonosor, avvenuta nel 562 a.C., cominciò per Babilonia un periodo di instabilità politica e progressiva erosione del potere centrale. Il successore del grande sovrano, suo figlio Evil-Merodac, perì per mano dei congiurati dopo due soli anni di regno. L’usurpatore Neriglissar regnò quattro anni (560-556 a.C.) e morì di morte naturale. Suo figlio Labashi-Marduk fu eliminato da una congiura dopo pochi mesi di regno. Il nuovo usurpatore, Nabonide (556-539 a.C.) che sembra avesse sposato una figlia di Nabucodonosor per legittimare la presa del potere, esercitò le funzioni di governo in Babilonia nei primi sei dei suoi sedici anni di regno, avendo trascorso gli altri dieci (549539 a. C.) a Tema, nell’Arabia, mentre suo figlio Belsazar tenne la reggenza a Babilonia fino all’arrivo dei Persiani nell’autunno del 539 a.C. Con la caduta di Babilonia nelle mani di Ciro, la fine tragica di Belsazar (cfr. Dn 5: 30) e l’esilio di Nabonide in Carmania, tramontò la breve stagione della nuova Babilonia dopo un predominio di 66 anni nel vicino Oriente.

2. MEDIA E PERSIA FINO ALL’AVVENTO DELL’ELLENISMO Sul finire del II millennio a.C., numerose tribù indo-ariane appartenenti a varie etnie (Cimmeri, Sciti, Medi, Parsi), emigrarono dalle steppe della Russia meridionale verso l’Armenia e l’Iran e si insediarono nella regione montuosa fra 380

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il Mar Nero e il Mar Caspio. Più tardi le tribù mede e parse si stabilirono più a sud, fra il Lago Urmia e la pianura di Ecbatana. Quivi gli Assiri le sottomisero e le resero tributarie per un periodo di tempo. Nel corso dell’VIII secolo a.C., un capo energico di nome Deioce unificò le tribù mede e fondò Ecbatana, la città dalla quale governò il regno da lui stesso creato. Suo figlio Fraorte assoggettò le tribù dei Parsi. In seguito i Medi stessi furono vinti e dominati per una trentina d’anni dagli Sciti. Ciassàre (653-585 a.C.), il successore di Fraorte, sconfisse gli Sciti e restituì l’indipendenza al suo popolo, poi strinse alleanza con Nabopolassar di Babilonia. Un matrimonio di stato suggellò il patto fra le due nazioni: Amytis, primogenita di Ciassàre, andò in sposa a Nabucodonosor II figlio di Nabopolassar. Per lei Nabucodonosor creò in Babilonia i celebrati “giardini pensili”. Nel 612 a.C. Medi e Babilonesi presero e distrussero Ninive, abbatterono l’impero assiro e se ne spartirono le spoglie. Le tribù parse intorno al sec. VIII a.C. mossero dalla regione del Lago Urmia verso l’altopiano iranico e si insediarono ad est e a sud-est dell’Elam, di là della costa nord-orientale del Golfo Persico. Verso il 700 a.C. un capo autorevole di nome Achemène ne riunì insieme una parte dando origine al piccolo regno dei Parsi e alla dinastia degli Achemènidi con Pasargade come residenza reale. Poi si unificarono anche le tribù del sud-est e nacque il minuscolo regno di Anshan. Teispe, succeduto al padre Achemène, riunì insieme e governò i due piccoli regni, ma prima di morire spartì il potere fra i due figli Ariaramne (c.ca 640590 a.C.) che regnò sui Parsi e Ciro I (c.ca 640-600 a.C.) su Anshan, entrambi come vassalli dei Medi. Ariaramne venne a diverbio con Ciassàre, il re dei Medi, e perse la corona che andò al fratello, cosicchè il doppio regno ebbe di nuovo un solo re. Morto Ciro I, salì al trono suo figlio Cambise I (c.ca 600-553 a.C.) col titolo di “re di Anshan”. Dalla sua unione matrimoniale con la principessa meda Mandane, figlia di Astiage (il successore di Ciassàre), nacque Ciro II, il futuro fondatore dell’impero persiano. A Cambise I succedette nel 553 a.C. Ciro II. Vassallo dei Medi, Ciro regnò da Pasargade col titolo di “re di Anshan”, ma presto si ribellò alla signoria dei Medi e con l’appoggio della sua gente tenne testa all’esercito di Astiage. Nel 549 a.C., grazie soprattutto alla defezione di Arpago, il capo dell’esercito medo che passò dalla sua parte, Ciro rimase vittorioso e occupò Ecbatana dopo avere ucciso il nonno Astiage. Così divenne il nuovo signore della Media e dei suoi possedimenti: l’Assiria, l’Armenia, la Cappadocia e la Siria. Venne in tal modo a ribaltarsi l’antico rapporto politico fra i due popoli indo-ariani: i Medi, già dominatori dei Persiani, ne divennero sudditi. È questo importante momento storico che la profezia danielica inquadra con la figura del grande orso emergente dal mare che si solleva appoggiandosi su un fianco (cioè sulla forza preponderante dei Persiani, se i due fianchi del bestione, come hanno creduto non a torto vari espositori, rappresentano le due etnie, la persiana e la meda). Da politico saggio e lungimirante, Ciro trattò i Medi alla stessa stregua dei Persiani e non da vassalli, e fu magnanimo verso le popolazioni sottomesse. 381

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Consolidato il potere nei territori acquisiti con la vittoria sui Medi - territori che si estendevano dalle regioni ad est del Tigri fino al corso dell’Halys nell’Anatolia centrale - Ciro mirò ad espandersi ancora verso ovest. Nel 547 a.C. tolse ai Babilonesi una provincia che Nabonide aveva sottratto ai Medi e affrontò Creso, il re dei Lidi, che aveva oltrepassato l’Halys per prevenire un attacco persiano. Respinti i Lidi, Ciro attaccò di sorpresa Sardi, la loro capitale, e la espugnò dopo 14 giorni di assedio nell’inverno di quello stesso anno, il 547 a.C. Nei tre anni seguenti il medo Arpago, divenuto uno dei generali più abili di Ciro, sottomise tutte le città greche della Ionia, sicché l’intera Anatolia, dal Mar Nero all’Egeo, entrò nell’orbita persiana. Nell’autunno del 539 a.C., Ciro mosse guerra a Nabonide di Babilonia. Travolte le truppe avversarie presso Opis, sul Tigri, occupò Sippar senza combattere. Il 13 ottobre di quello stesso anno Ugbaru, governatore del Gutium e valoroso generale del gran re, occupò Babilonia con uno stratagemma (v.comm. a 5: 29). Con la città passò nelle mani di Ciro quanto era rimasto dei territori dell’impero caldeo. Anche gli esuli di Giuda (v. 2Cr 36: 22, 23 e Ed 1: 1-4) trassero vantaggio dalla politica magnanima di Ciro verso le popolazioni alienigene deportate nella Babilonide (cfr. Ed 1: 1-4). Otto anni dopo la vittoria sui Babilonesi, Ciro morì combattendo contro i Massageti nell’Iran orientale. Cambise II (530-522 a.C.), che aveva già tenuto la reggenza di Babilonia, salì sul trono di Persia alla morte del padre. Conscio della sua impopolarità, prima di mettersi in marcia per l’Egitto alla testa delle truppe nel 525 a.C., fece assassinare in segreto il fratello Bardya (lo Smerdis di Erodoto). A Pelusio i Persiani batterono le milizie mercenarie di Psammetico III appena salito al trono come successore di Amasi. Dilagate nel Delta, le truppe di Cambise, occuparono Menfi, poi, essendosi sottomesse spontaneamente la Libia e la Cirenaica, volsero a sud verso nuove conquiste. In breve tutta la Valle del Nilo, fino al confine con la Nubia, fu in saldo possesso dei Persiani. Cadeva così l’ultimo baluardo della “triplice alleanza” Creso-Nabonide-Amasi che invano aveva tentato di opporsi all’espansione persiana. I tre regni importanti vinti e sottomessi da Ciro e da Cambise (la Lidia nel 547 a.C., Babilonia nel 539 a.C. e l’Egitto nel 525 a.C.) da vari espositori sono stati accostati alle tre costole che nella visione di Daniele l’orso vorace stringeva fra i denti. L’ordine dato alla belva di levarsi e mangiare molta carne trova riscontro nelle estese conquiste territoriali dei Persiani, dopo il loro sopravvento sui Medi. Nel 522 a.C. Cambise, avuta notizia che un mago della Media - un certo Gaumata - aveva usurpato il trono spacciandosi per il fratello Bardyia che lui aveva eliminato in segreto, prese frettolosamente la via del ritorno, ma a Susa non giunse mai essendo perito in circostanze poco chiare lungo il tragitto. Intanto nella Persia agitata dalla rivolta un principe discendente dagli Achemenidi attraverso un ramo cadetto, Dario figlio di Istaspe, smascherò l’impostore che regnava da circa 6 mesi, lo combatté e lo uccise. Dario I (522-486 a.C.) dovette combattere per quasi tre anni prima di avere ragione dei numerosi pretendenti al trono che avevano alzato la testa dopo la 382

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morte di Cambise, ma, una volta vittorioso, regnò incontrastato su un impero che si estendeva dall’Indo all’Ellesponto lungo l’asse est-ovest, e dall’Armenia alla Nubia lungo la direttrice nord-sud. L’impero degli Achemenidi raggiunse la massima estensione territoriale con la conquista della pianura dell’Indo nel 513 a.C. e la sottomissione della Tracia e della Macedonia nel 514 ad opera di questo grande monarca, non a torto considerato dagli storici il vero fondatore dell’impero persiano. Sovrano energico e illuminato, Dario governò con fermezza e saggezza i suoi immensi domìni. Creò un’efficiente burocrazia amministrativa, promosse grandi opere di pace per il benessere dei suoi sudditi, concentrò nei sontuosi palazzi di Persepoli e di Susa la ricchezza dello stato. Su una roccia presso Behishtun il gran re ci ha tramandato le vicende del suo regno in un lungo testo trilingue (in persiano, in babilonese e in elamita). Ai Giudei nel 520 a.C. consentì di ricostruire il tempio del loro Dio in Gerusalemme (vedi Ed 5: 5,6; 6: 6-12). Gli ultimi anni di regno di Dario furono funestati da gravi rovesci militari: nel 492 a.C., alla prima spedizione contro i Greci, la flotta fu decimata da una tempesta davanti al Monte Athos, e la seconda spedizione nel 490 finì in un disastro a Maratona. Per giunta nel 487 si ribellò e si rese indipendente la grande satrapia egiziana. Nel 486 a.C. Dario morì deluso e amareggiato. Gli successe il figlio Serse I (486-465 a.C.), identificato correntemente con l’Assuero del libro di Esther. Serse non fu all’altezza del padre né come capo militare né come leader politico. Le avventure amorose e gli intrighi dell’harem lo assorbirono più della politica e degli affari di stato. Nondimeno nel 485 a.C. egli marciò contro l’Egitto e lo riconquistò, e due anni dopo intervenne energicamente in Babilonia per domare una rivolta. Nella brutale repressione rimasero distrutte le fortificazioni, i palazzi e i templi della splendida città. Indeciso se riprendere la lotta contro Atene o rinunciarvi, alla fine Serse cedette alle suggestioni dei fautori della guerra. Nel 480 a.C. attraversò l’Ellesponto (rifulse il valore dei Greci alle Termopili), prese Atene e la dette alle fiamme, ma dovette ritirarsi in fretta dopo che la sua flotta era stata distrutta dai Greci a Salamina. L’anno seguente subì due pesanti sconfitte in un solo giorno, a Platea e a Micale. Nel 466 perse la flotta e l’esercito in Panfilia in uno scontro sfortunato con i Greci. L’anno dopo perì per mano dei congiurati in una rivolta di palazzo capeggiata dal potente visir Artabano. Artaserse I Longimano (465-423 a.C.) salì al trono in vece del fratello maggiore Dario da lui fatto assassinare su istigazione di Artabano. Scoperti i raggiri dell’intrigante visir, Artaserse lo fece eliminare, e fu così che poté reggersi sul trono. Di carattere debole e indeciso, scarsamente dotato come leader politico e capo militare, e influenzato dalla madre e dalla moglie, Artarserse non avrebbe potuto regnare a lungo senza l’appoggio del cognato Megabise. Verso il 463 a.C. il libico Inaro tenne in scacco le truppe persiane nel delta del Nilo e nel 460 le respinse con l’aiuto dei Greci. Intanto rivolte e disordini scoppiarono in varie parti dell’impero e Artaserse cercò almeno di mantenersi 383

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amici gli staterelli vassalli di Siria e Palestina meno inclini alla ribellione. Favori particolari elargì ai Giudei nel 457 a.C. (vedi Ed 7: 11-26; Ne 2: 1-8). L’intervento di Megabise in Egitto con l’appoggio della flotta fenicia nel 456 a.C. riportò l’ordine. I Greci e gli Egiziani furono battuti, Inaro si arrese e fu spedito in Persia dove Artaserse, venendo meno ai patti, lo fece uccidere attirandosi il disprezzo di Megabise. La guerra lunga e inconcludente con Atene finì nel 448 a.C. con la pace di Cimone voluta dal re persiano. Poco si sa sugli ultimi vent’anni di regno di questo discusso regnante achemenide. Artaserse I morì nel 423 a.C. dopo 41 anni di regno lasciando l’impero in uno stato caotico. Alla morte di Artaserse I, dopo un breve interregno di Serse II e forse di Sogdiano, il trono di Persia fu occupato da Dario II Noto (423-405/4 a.C.), una figura piuttosto scialba di regnante. Negli ultimi 75 anni, con l’impero oramai in declino, si succedettero sul trono degli Achenemidi Artaserse II Memnone (405/4 - 359/58 a.C.), Artaserse III Ocho (359/58 - 338/37), Arsete (338/37 - 336/35) e Dario III Codomano (336/35 - 331). Sconfitto da Alessandro il Macedone sul Granico, a Isso e ad Arbela, Dario III fu infine assassinato dal satrapo Besso nel 331 a.C. e con lui finì l’impero persiano dopo 208 anni di predominio in Asia e nel bacino orientale del Mediterraneo.

3. GRECIA, MACEDONIA E REGNI ELLENISTICI FINO ALL’AVVENTO DI ROMA Tra la fine del III e gli inizi del II millennio a.C., varie popolazioni indo-europee giunte probabilmente dalla regione danubiana nella penisola balcanica si sovrapposero ai più antichi abitatori egei. Col tempo si imposero i Micenei (gli Achei dei poemi omerici), gli Eoli e gli Ioni. Da queste popolazioni, e dai Dori sopraggiunti più tardi, ebbe origine la stirpe greca. Gli Achei svolsero un ruolo preminente nell’età più antica. Furono loro che, sotto l’influenza della civiltà minoica fiorita nell’isola di Creta secoli prima, svilupparono la splendida civiltà micenea (dal nome della città di Micene) nel sud del Pelopponeso, una civiltà che pervenne alla sua più alta espressione a metà del II millennio a.C. Nuove ondate migratorie dal nord tra la fine del XIII e gli inizi del XII secolo a.C., riversarono nella penisola greca altre popolazioni indoeuropee di cui i Dori rappresentarono il gruppo più consistente. Insediatisi nel sud del Peloponneso, i Dori travolsero il potere e la civiltà dei Micenei e imposero il loro predominio. Le popolazioni indigene che non si sottomisero ai nuovi arrivati emigrarono verso l’est: gli Eoli della Tessaglia e della Beozia ripararono nella Tracia e nella costa nord-occidentale dell’Asia Minore, gli Ioni si portarono nell’Acaia e nell’Attica, e dall’inizio del I millennio a.C. in gran numero attraversarono l’Egeo e oc384

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cuparono la costa sud-occidentale dell’Asia Minore e le isole adiacenti, ove crearono numerosi insediamenti. Fu così che nacque la Ionia, una espansione della Grecia e della sua cultura e civiltà nell’Asia Minore. Fra le 12 città della Ionia emerse Mileto che ne divenne la capitale. I Greci della Ionia vennero in contatto con le emergenti culture semitiche del Vicino Oriente e da esse, già nel IX secolo a.C., impararono l’alfabeto. Gli Ebrei, dal nome della regione - Ionia - derivarono il sostantivo Jawan che l’Antico Testamento applica ai Greci in generale. Dopo un lungo periodo di vita libera e prospera, la città della Ionia nel 560 a.C. furono sottomesse da Creso, Re dei Lidi, e 14 anni più tardi passarono sotto la sovranità persiana a seguito della vittoria di Ciro su Creso. Nel 500 a.C., con l’appoggio di Atene, gli ioni si ribellarono al dominio persiano, ma la rivolta fu domata con durezza: Mileto fu presa e distrutta nel 494 a.C. L’espansione greca oltremare si rivolse anche a occidente. Fra l’VIII e il VI secolo a.C. necessità preminentemente di ordine economico furono all’origine di notevoli flussi migratori dalle coste greche verso i lidi dell’Italia meridionale e della Sicilia orientale. A questi immigrati - principalmente Dori ed Eoli - si deve la fondazione delle colonie greche della Magna Grecia. Per quanto riguarda le forme di governo praticamente fra i Greci, dapprima si adottò il regime monarchico, ma indebolendosi nel corso del tempo l’istituzione monarchica, avvenne che i villaggi contigui cominciarono a raggrupparsi, dapprincipio formando unioni cooperative, poi sviluppandosi in agglomerati urbani con annesso il territorio adiacente. Fu così che nacque la pòlis, la città greca. Le pòleis divennero vere e proprie città-stato, spesso in concorrenza fra loro. Nell’Attica emerse Atene, nel Peloponneso Sparta, nella Beozia Tebe. Col tempo la struttura politica delle pòleis evolse verso forme diverse da quella monarchica: verso una forma democratica in alcune città-stato, come Atene, verso una forma aristocratica in altre come Sparta e Tebe, verso una forma oligarchica in altre ancora. Agl’inizi del V secolo a.C., quando si profilò la minaccia persiana, le città greche maggiori accantonarono i dissidi e unirono le loro forze. Nel 490 a.C. Dario I organizzò una spedizione punitiva contro Atene per avere essa appoggiato le città ioniche durante la rivolta, ma l’esercito persiano fu battuto dai Greci a Maratona e dovette ritirarsi. Dieci anni dopo, Serse I condusse una seconda spedizione contro i Greci con un esercito di oltre 100.000 uomini e una grande flotta. La Beozia e l’Attica furono devastate, Atene fu saccheggiata e l’Acropoli incendiata, ma i Greci inflissero una dura sconfitta alla flotta persiana davanti a Salamina, e Serse dovette sospendere l’offensiva. L’anno seguente i Persiani furono ancora battuti, sulla terraferma a Platea e sul mare presso Micale, vicino a Mileto. Dopo le vittoriose “guerre persiane”, Atene divenne il centro morale, politico e culturale della Grecia e per oltre un settantennio mantenne tale posizione di preminenza; ma avendo perso la guerra del Peloponneso contro Sparta nel 404 a.C., dovette cedere l’egemonia alla rivale. La supremazia di Sparta durò poco più di un trentennio, cioè fino al 371 a.C. quando gli Spartani furono bat385

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tuti in guerra dai Tebani. Per la seconda volta, nel 362 a.C., Tebe sconfisse Sparta che aveva fatto lega con Atene. Intanto cresceva a nord-est il potere della Macedonia e per le città greche in lotta fra loro si profilava una nuova minaccia dopo quella persiana. Nel 359 a.C. divenne re dei Macedoni Filippo II. Dotato di non comuni capacità politiche e militari, il nuovo sovrano unificò la Macedonia, fondò una monarchia militare e inaugurò una nuova tattica di guerra che ebbe il suo punto di forza nella famosa falange da lui stesso creata. Filippo batté la Lega Ellenica nel 343/42 a.C., sottomise Atene ed estese l’egemonia della Macedonia sulla Tessaglia. Progettò una spedizione militare contro la Persia, ma la morte per mano dei congiurati nel 336 lo colse prima che avesse potuto attuarla. Il figlio di Filippo, Alessandro, salito al trono appena ventenne, dovette subito far fronte a una insurrezione delle città greche. La rivolta fu domata con un duro intervento che mise in luce le straordinarie capacità militari del giovane sovrano. Tebe, artefice principale dell’insurrezione, fu presa e rasa al suolo. Consolidato il potere in Macedonia e in Grecia e ricostituita la Lega Panellenica nel 335 dopo la distruzione della ribelle Tebe, Alessandro pensò che fosse giunto il momento di saldare il conto con la Persia, colpevole di avere calpestato il sacro suolo ellenico, oppresso i Greci della Ionia e, da ultimo, tentato di sollevargli contro le città della Tessaglia. In nome di tutta la stirpe ellenica Alessandro mosse contro Dario III Codomano alla testa di 6 falangi e un reparto di cavalleria, in tutto 40.000 fanti e 5.000 cavalieri. Nella primavera del 334, lasciato a Pella come reggente il generale Antipatro, attraversò l’Ellesponto e sbarcò nella Troade. Dario, allarmato, gli mandò contro i satrapi dell’Asia Minore con le loro forze. Con un’abile manovra notturna il Macedone accerchiò gli avversari presso il fiume Granico e all’alba gettò lo scompiglio tra le loro file e li costrinse alla fuga. Con una rapida avanzata lungo la fascia costiera dell’Anatolia le falangi macedoni vittoriose liberarono dal dominio persiano le città e le isole greche della Ionia e si portarono nella Cilicia. Dario in persona mosse contro i Macedoni alla testa di un esercito assai più numeroso di quello avversario. I due schieramenti si fronteggiarono nella stretta valle del Pinaros, presso Isso. Con un’ampia manovra Dario riuscì ad aggirare i Macedoni e prenderli alle spalle bloccando loro ogni possibile ritirata: la loro sorte sembrava segnata. Ma Alessandro con un’azione fulminea scagliò la cavalleria e due falangi contro l’ala sinistra dello schieramento avversario. Questa cedette e trascinò nella rotta il settore centrale dove si trovava il Gran Re (una tradizione raccolta da Plutarco vuole che i due sovrani si trovassero fugacemente l’uno di fronte all’altro: l’episodio è raffigurato in un famoso mosaico pompeiano che si trova nel Museo Nazionale di Napoli). Fra il panico generale Dario si dette alla fuga; Alessandro però dovette tornare indietro con la cavalleria per soccorrere l’ala sinistra del suo schieramento contro cui si era lanciato un forte reparto dell’esercito persiano. Il nemico, stretto tra due fuochi, fuggì lasciando nelle mani dei Macedoni copioso bottino, e la battaglia di Isso si concluse con una nuova, folgorante vittoria dei Macedoni. Era il mese di novembre del 333 a.C. Alessandro s’impadronì della tenda abbando386

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nata del Gran Re dove si trovavano, insieme a un cospicuo tesoro, le sue donne: la madre, la moglie e le figlie con le dame di corte. Dopo avere messo in rotta l’esercito persiano Alessandro, anziché proseguire verso Oriente, marciò in direzione Sud. Damasco, nella Siria, fu conquistata da un suo generale. Cipro, Sidone, Biblo e altre città fenicie si sottomisero spontaneamente ai Macedoni. Tiro, amica dei Persiani, non oppose resistenza, ma rifiutò il vassallaggio. La città commerciale sulla costa fu presa in breve tempo e rasa al suolo. Non fu altrettanto facile per i macedoni prendere l’Acropoli, arroccata su un isolotto fortificato a mezzo miglio dalla costa. Fu necessario costruire un terrapieno con le macerie della città costiera. Dopo 7 mesi di assedio la roccaforte fu espugnata e i difensori furono trattati con inaudita ferocia: dopo che la fortezza fu saccheggiata e data alle fiamme, i superstiti del massacro furono venduti come schiavi. Era il mese di luglio del 332 a.C. Gaza, roccaforte persiana della Filistia , sulla via dell’Egitto, rifiutò la resa. Dopo due mesi di vano assedio Alessandro ne abbatté le mura a colpi d’ariete e fece scempio dei difensori. Il generale persiano che aveva resistito con grande valore, venne ucciso e il suo cadavere, legato al cavallo del vincitore, fu trascinato nella polvere intorno alle rovine della fortezza. Il satrapo d’Egitto non fu in grado di opporsi agli invasori avendo perso le sue truppe nella battaglia di Isso. Il Conquistatore entrò trionfalmente nel Paese dei faraoni salutato dai sacerdoti come il figlio di Horus, e vi rimase per tutto l’inverno 332-331, il tempo necessario per farsi proclamare faraone e figlio di Zeus-Ammon e fondare una nuova Alessandria. Nella primavera del 331 Alessandro si rimise in marcia. Percorsa la Palestina e la Siria senza combattere, attraversò l’Eufrate e il Tigri, a nord dell’Antica Ninive, e dilagò nella pianura assira. Lì, fra Arbela e Gaugamela, lo attendeva Dario III con un esercito forte di 250.000 combattenti, 200 micidiali carri falcati e un reparto di elefanti da combattimento. Alessandro disponeva soltanto di 40.000 fanti e 7.000 cavalieri. Il divario delle forze in campo era dunque enorme. Al centro del suo schieramento, Dario scagliò contro l’avversario l’ala sinistra al comando del satrapo Besso. Alessandro finse di non accorgersene, e al momento opportuno si avventò sul nemico con la cavalleria e alcune falangi e lo travolse. Il Gran Re non ebbe altra scelta che la fuga per salvarsi dalla cattura, ma il Macedone dovette ancora una volta interrompere l’inseguimento per venire in aiuto di un’ala del suo schieramento che stava per cedere sotto la pressione dell’ala sinistra dell’esercito persiano. Nel frattempo però Mazeo, il satrapo di Babilonia, ed i suoi uomini che stavano per travolgere i Greco-macedoni, avendo saputo che il loro re era fuggito, abbandonarono il campo e si dettero alla fuga anch’essi. Anche stavolta, malgrado la loro notevole inferiorità numerica, i Greco-macedoni colsero una grande vittoria, anzi la vittoria definitiva. Dopo lo strepitoso successo di Arbela, Alessandro, su consiglio del satrapo Mazeo passato dalla sua parte, entrò trionfalmente in Babilonia accoltovi come liberatore, e prese possesso della città e del favoloso tesoro che vi era custodito. Durante il breve soggiorno nella superba città caldea, in verità oramai decadente, Alessandro concepì il disegno di conquistare il resto dell’impero persiano 387

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- il mondo favoloso che si apriva davanti a lui a Oriente dell’Eufrate - e di fare di Babilonia il centro del suo sterminato impero. Nell’autunno del 331 ordinò l’adunata generale e marciò alla volta di Susa. In novembre entrò pacificamente nella città nella cui reggia sistemò la famiglia di Dario. Incamerato il cospicuo tesoro che vi avevano accumulato i re achemenidi, in buona parte lo distribuì alle sue truppe. Poi, in pieno inverno, riprese la marcia alla volta di Pasargade. La città fu occupata senza combattere e fu lasciata intatta in onore del grande predecessore, l’achemenide Ciro. Dopo una brevissima sosta a Pasargade, Alessandro marciò su Persepoli e qui fu necessario usare di nuovo le armi giacché il satrapo Ariobarzane era determinato a difendere la città e la sua satrapia. Non poté comunque impedirne l’occupazione e il saccheggio. Nella reggia favolosa il Macedone scoprì il più grande dei tesori finora predati (120.000 talenti!) e lo fece suo. In seguito i conquistatori dettero alle fiamme i palazzi e la splendida reggia di Persepoli. Alessandro si premurò di far sapere agli Ateniesi che aveva finalmente vendicato l’incendio dell’Acropoli da parte di Serse. Nella primavera del 330, deciso a costringere Dario ad abdicare, il Macedone marciò alla volta di Echatana, l’ultima capitale degli Achemenidi, dove si diceva che il Gran Re si fosse rifugiato. La città fu occupata ma di Dario non si trovò traccia. Si trovò invece un tesoro ancora più cospicuo di quello confiscato a Persepoli e naturalmente Alessandro se ne impadronì. Non poté tuttavia occupare legalmente il trono di Persia perché il legittimo sovrano era ancora in vita. Rispediti in patria i combattenti di nazionalità greca e tenuti presso di sé i fidi Macedoni, Alessandro lasciò metà dell’esercito a Ecbatana e con l’altra metà ripartì alla ricerca di Dario. Costeggiò il Caspio e sottomise l’Ircania dove apprese che Besso, l’infido satrapo della Battriana, aveva deposto e fatto prigioniero Dario proclamandosi re in sua vece col nome di Artarserse IV. Nel territorio dei Parti Alessandro venne a contatto con l’avanguardia dell’esercito di Besso. Gli uomini del satrapo, pensando di ingraziarsi Alessandro o di convincerlo a non inseguirli più, gettarono il cadavere del Gran re e si dettero alla fuga. Morto Dario, il Macedone poteva diventarne il legittimo successore sul trono di Persia, ma la guerra non sarebbe finita finché Besso non avesse scontato il suo vile misfatto. Alessandro gli dette la caccia nella Margiana, nella Drangiana e nell’Aracosia senza riuscire a catturarlo. Nella primavera del 329 i Macedoni scesero nella Battriana, ma Besso non si fece sorprendere. Alessandro lo inseguì nella Sogdina, ma quivi dovette fare i conti con l’ostilità della popolazione: occorsero due anni (329-327) per neutralizzare gli indomiti cavalieri sciti. Nella Sogdiana due satrapi già alleati di Besso, mal sopportando gli atteggiamenti dispotici di costui, lo fecero prigioniero e lo consegnarono ad Alessandro. Questi a sua volta lo consegnò ad un tribunale persiano che lo condannò a morte e lo fece giustiziare a Ecbatana. Adesso Alessandro poteva legittimamente sedere sul trono di Persia, ma bisognava ancora sottomettere le estreme province orientali poco disposte a riconoscere la sua sovranità. La Sogdiana stessa, già sottomessa, era in rivolta. Assoldato un gran numero di guerrieri sciti, con un esercito adatto a quell’ambiente 388

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aspro, nel 328 il Macedone irruppe nella regione e in 7 o 8 mesi la riconquistò. Tornato a Battra, sposò la bellissima Rossane, figlia del satrapo Ossiarte di cui aveva espugnato le ultime roccaforti. Ora Alessandro guardava più ad Est: l’India coi suoi affascinanti misteri lo attraeva irresistibilmente. Del resto sotto Dario I la Valle dell’Indo era stata resa tributaria della Persia: quel favoloso paese spettava dunque di diritto al vincitore dei Persiani. Nella tarda primavera del 327, l’esercito macedone varcò l’Hindukush e dilagò nella pianura dell’Indo. Qui si dette ad aggredire, depredare e massacrare le popolazioni inermi. Nell’estate dello stesso anno Alessandro fece attraversare l’Indo al suo esercito su un ponte di barche. Accolti amichevolmente di là del fiume dal re di Taxila, i Macedoni soggiornarono nel Paese fino alla primavera successiva. All’inizio dell’estate del 326 ripresero la marcia verso Est e giunsero all’Idaspe. Guadato il fiume, affrontarono l’esercito del re Poro. Con la tattica già sperimentata al Granico, Alessandro sopraffece e batté le pur valorose truppe del re indiano. Non ancora pago delle conquiste realizzate e spinto da una irrefrenabile bramosia di conquiste, il Macedone avrebbe voluto proseguire la marcia verso le misteriose regioni dell’Oriente estremo dove nessun occidentale aveva ancora messo piede. Ma le truppe esauste dopo 8 anni di marce e combattimenti continui rifiutarono di seguirlo. Il Condottiero non ebbe altra alternativa che ricondurle verso casa. Su una flotta di imbarcazioni costruite sul posto i Macedoni discesero l’Indo fino alla foce. Da lì marciarono via terra verso Persepoli attraverso la Gedrosia e la Carmania, condotti da Alessandro e da Cratèro, mentre la flotta, agli ordini di Nearco, navigò verso la foce del Tigri e dell’Eufrate costeggiando la Gedrosia e la Perside. La marcia dei veterani lungo le distese aspre e inospitali della Gedrosia e della Carmania fu lunga e costellata da mille difficoltà. L’ostilità degli indomiti abitanti della steppa e del deserto, la fame, la sete, gli strapazzi decimarono i combattenti macedoni. Alessandro, con un reparto di cavalieri, arrivò a Pasargade sul finire dell’inverno del 324. Dopo una breve sosta proseguì alla volta di Persepoli e da lì si diresse a Susa. Tornato finalmente a Babilonia, il Gran Re procedette alla riorganizzazione del vastissimo impero: ne riunì sotto la sua sovranità i tre territori dell’Asia, della Grecia e della Macedonia, riconobbe parità di diritti ai Macedoni e ai Persiani, separò i poteri militare e civile nelle satrapie, introdusse una moneta unica in sostituzione del darico d’argento (il titolo attico), mantenne l’amministrazione finanziaria centralizzata in tutto l’impero. Durante i festeggiamenti per celebrare la vittoria nella fastosa Babilonia, Alessandro più volte indulse ad eccessi smodati che indebolirono il suo fisico già provato da infiniti strapazzi. Mentre preparava in Babilonia nuove spedizioni militari contro Cartagine e nel Mediterraneo occidentale, il dominatore del mondo fu assalito da accessi febbrili ribelli alle cure dei medici, che in 12 giorni lo condussero alla morte. 389

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Spirò il 13 giugno del 323 a soli 33 anni, dopo 13 anni di regno. E con la sua morte prematura, si avviò verso il tramonto anche l’unità dell’immenso impero che aveva costruito. Alla morte di Alessandro i suoi generali si divisero gli alti incarichi di governo e di comando militare. Perdicca, a cui il sovrano morente aveva consegnato l’anello imperiale, assunse la reggenza dell’impero per il figlio appena nato del defunto sovrano e per il fratellastro Filippo Arrideo seminfermo di mente; Antipatro prese il comando supremo delle armate d’Europa, Seleuco quello della cavalleria; Cratéro divenne governatore della Grecia e della Macedonia, Antigono della Frigia, della Licia e della Panfilia, Pitone della Media, Eumene della Cappadocia. Tolomeo fu satrapo dell’Egitto e Lisimaco della Tracia. Nel 322 Antigono, Antipatro, Cratero, Lisimaco e Tolomeo insorsero contro Perdicca. Il reggente dell’impero l’anno seguente perì in Babilonia per mano dei suoi stessi uomini. Una nuova ripartizione delle cariche fu decisa nel 321 in una conferenza che si svolse a Triparadiso, nella Siria. Antipatro assunse la reggenza dell’impero; Antigono e Cassandro, figlio di Antipatro, ebbero rispettivamente il comando dell’esercito in Asia e quello della cavalleria al posto di Seleuco; Seleuco si insediò nella Babilonia; Tolomeo mantenne il suo potere in Egitto; Filippo Arrideo, Antigene e Laomedonte ebbero rispettivamente il governo della Frigia Minore, della Susiana e della Siria. Nel 320 a.C. Tolomeo occupò la Celesiria (la regione tra la Fenicia e la Siria). L’anno seguente morì Antipatro lasciando la carica a Poliperconte anziché al figlio Cassandro. Eumene ebbe da Poliperconte il comando delle truppe in Asia. Nel 318 Antigono attaccò e sconfisse la flotta di Poliperconte davanti a Bisanzio. Eumene riparò nella Susiana da dove per due volte impegnò in battaglia e sconfisse le truppe di Antigono. Intanto Cassandro indusse Filippo Arrideo a destituire Poliperconte, l’erede di Antipatro. Costui trovò rifugio e protezione presso Olimpia, la madre di Alessandro. Olimpia marciò sulla Macedonia alla testa di un esercito che non fu contrastato dalle truppe dell’Arrideo, rifiutatosi di combattere contro la madre del grande sovrano scomparso. Olimpia fece catturare e uccidere Filippo Arrideo, la regina Euridice e i seguaci di Cassandro, quindi mise sul trono il nipotino Alessandro IV e restituì le cariche a Poliperconte. Nel 316 a.C. Cassandro imprigionò il re-fanciullo e sua madre, Rossane, e catturata Olimpia a Pidna la fece giustiziare. Nello stesso anno sposò Tessalonica, sorellastra di Alessandro, e fondò in suo onore la città omonima. Sempre nel 316, Eumene, tradito dai suoi in Asia, fu consegnato ad Antigono che lo fece assassinare. Oramai dominatore assoluto dell’Asia, Antigono si impadronì di Babilonia costringendo alla fuga Seleuco che trovò accoglienza presso Tolomeo in Egitto. Lisimaco, Cassandro e Tolomeo si coalizzarono contro Antigono e gli intimarono di restituire la Babilonide a Seleuco e la Celesiria a Tolomeo nonché di cedere a Cassandro la ex satrapia di Eumene e di spartire in 4 il tesoro di Susa e di Ecbatana. Antigono fece orecchio da mercante e fu la guerra, una guerra generale 390

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che si combatté dalla Tracia a Cirene, dalla Grecia a Cipro, dalla Macedonia alla Fenicia. Nel 312 a.C. Tolomeo sconfisse a Gaza l’esercito di Demetrio, il figlio di Antigono Monoftalmo, e rioccupò la Celesiria. Intanto Seleuco, con un piccolo esercito donatogli da Tolomeo, sconfisse un paio di generali di Antigono ed entrò fortunosamente in Babilonia. In quell’anno (312 a.C.) ebbe inizio ufficialmente l’èra seleucidica. Nella Celesiria un esercito egiziano mandato da Tolomeo per cacciare Demetrio da tutta la regione fu sconfitto dalle truppe di quest’ultimo; Tolomeo dovette sgombrare la Celesiria per riavere i suoi soldati fatti prigionieri da Demetrio. Nel 310 a.C. Cassandro fece assassinare Alessandro IV e sua madre Rossane. L’anno seguente Poliperconte si offrì di riconquistare il trono di Macedonia per Eracle, il primo figlio di Alessandro, nato da Barsine di Rodi, ma avendo ricevuto 100 talenti d’oro da Cassandro tradì il figlio del gran re e sua madre e li fece uccidere. Poliperconte ricevette ancora dall’ex nemico il governatorato della Grecia. Nel 308 a.C., con l’assassinio di Cleopatra, sorella di Alessandro, si estinse la famiglia del Macedone. Antigono, credendosi investito del compito di tenere unito l’impero, volle coinvolgervi il figlio Demetrio. Costui nel 307 prese Atene e Cipro. Nel 304 occupò tutta la Grecia cacciandone Cassandro e il suo governatore Poliperconte. A questo punto Antigono si proclamò re di tutto l’impero ed esigette obbedienza dai suoi colleghi. Per tutta risposta Seleuco si proclamò re di Babilonia e Siria, Lisimaco re di Tracia, Cassandro re di Macedonia e Tolomeo faraone d’Egitto. Antigono attaccò l’Egitto ma non riuscì a varcarne le frontiere; suo figlio Demetrio assediò Rodi alleata dell’Egitto (di qui l’appellativo di poliorcete, “l’assediatore”). Tolomeo accorse in soccorso dell’isola costringendo Demetrio ad abbandonare l’assedio (donde l’appellativo di sotère, “salvatore”, attribuito al re egiziano). Con gli scudi e le armi bronzei abbandonati dai soldati di Demetrio, gli isolani eressero il famoso Colosso (vedi comm. a 3: 1). Tolomeo, Lisimaco, Cassandro e Seleuco si unirono per farla finita con Antigono Monoftalmo. Lisimaco passò in Asia Minore, Tolomeo rioccupò la Celesiria, Seleuco invase la Cappadocia. L’ultraottantenne Antigono richiamò il figlio Demetrio dalla Grecia e andò ad attendere i nemici a Isso, nella Cilicia. Intanto Demetrio, giunto sul posto con la cavalleria, attaccò e mise in fuga le truppe di Antioco, figlio di Seleuco, ma non riuscì a congiungersi con la fanteria frapponendosi fra lui e quest’ultima gli elefanti di Seleuco. Gran parte dei soldati di Antigono passarono dalla parte di Seleuco, il resto fu sbaragliato. Antigono cadde trafitto dai giavellotti dei nemici, Demetrio si dette alla fuga. Era l’anno 301 a.C. Con la fine dell’ultimo rappresentante del potere centrale, l’impero di Alessandro restava definitivamente smembrato. I quattro alleati vittoriosi si spartirono fra loro i resti del regno di Antigono e fondarono 4 nuove monarchie: la Tracia e l’Asia Minore occidentale fino all’Alys, sotto Lisimaco; la Babilonide, la Siria e l’Asia Minore orientale, sotto Seleuco; la Grecia e la Macedonia sotto Cassandro; l’Egitto, con la Palestina e la Celesiria, sotto Tolomeo. 391

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Con l’esito della battaglia di Isso nel 301 a.C. si realizzava la divisione in 4 dell’impero macedone che la profezia aveva preconizzato 248 anni prima con la figura simbolica delle 4 teste sul corpo del leopardo (Dn 7: 6). Questo assetto politico del mondo antico non durò a lungo, ma l’unità dell’impero macedone finì per sempre: era durata soltanto una trentina d’anni. Demetrio Poliorcete, sconfitto a Isso, riparò a Efeso e già l’anno seguente attaccò con qualche successo i possedimenti di Lisimaco. Nel 297 a.C. morirono a distanza di 4 mesi l’uno dall’altro Cassandro e suo figlio Filippo IV che gli era succeduto. Il regno di Macedonia fu diviso tra i due fratelli minori di Filippo: Antipatro e Alessandro. La regina-madre Tessalonica assunse la reggenza. Nel 295 a.C. Demetrio tolse Atene agli eredi di Cassandro e si espanse nella Grecia. Nel 293 uccise a tradimento Alessandro, il quale aveva a sua volta eliminato il fratello Antipatro e la madre Tessalonica per regnare da solo. Soppresso l’ultimo discendente di Cassandro, Demetrio si fece proclamare re di Macedonia. Nel 285 a.C. Tolomeo e Lisimaco, infastiditi per le provocazioni di Demetrio, lo attaccarono in Asia Minore e lo sconfissero. Il Poliorcete si consegnò a Seleuco che lo relegò sull’Oronte dove morì due anni dopo. In quello stesso anno - il 283 a.C. - morì in Egitto Tolomeo I Sotere, e due anni dopo fu la volta di Lisimaco, sconfitto e ucciso da Seleuco a Corupedio (281 a.C.). Seleuco a sua volta perì assassinato l’anno seguente. Con la scomparsa di questi personaggi finirono anche le lotte fra i Diadochi e si formarono tre grandi monarchie: la Macedonia sotto la signoria degli Antigonidi fondata nel 279 da Antigono Gònata figlio di Demetrio Poliorcete; la Siria sotto i discendenti di Seleuco; l’Egitto sotto gli eredi di Tolomeo. La Macedonia nel 202 a.C. si alleò con Antioco III di Siria contro l’Egitto. L’intervento di Roma, sollecitato da Pergamo, Atene e Rodi, diede luogo alla II guerra macedonica che si concluse con la sconfitta della Macedonia a Cinocefale nel 197 a.C. L’anno seguente il console romano Tito Quinzio Flaminio proclamò l’autonomia di tutte le città greche. Le mire revansciste di Perseo indussero Roma a un nuovo intervento militare contro la Macedonia, e fu la III guerra macedonica. Nel 168 a.C. il console romano Paolo Emilio sconfisse Perseo a Pidna e con lui finì il regno degli Antigonidi. La Macedonia fu divisa in 4 territori autonomi. Gli stati macedoni cessarono di esistere nel 148 a.C. quando, a seguito di una rivolta domata dai Romani, la Macedonia divenne provincia romana. Quanto ai regni di Egitto e di Siria, interminabili conflitti per questioni territoriali ne determinarono un progressivo logoramento finché Roma pose fine prima al regno seleucidico nel 64 a.C., quando Cneo Pompeo occupò la Siria, poi al regno tolemaico nel 30 a.C. allorché le legioni di Ottaviano sottomisero l’Egitto. Col tramonto dei regni ellenistici eredi dell’impero di Alessandro, si affacciava alla ribalta della storia la quarta monarchia universale.

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4. ROMA DALLA REPUBBLICA ALL’IMPERO Le tribù latine di pastori e agricoltori che occuparono i colli laziali presso la foce del Tevere intorno al 1000 a.C., erano discese in Italia dai territori a nord delle alpi al seguito di una vasta ondata migratoria. Nell’VIII secolo a.C. i Latini si unirono ai Sabini e insieme fondarono una comunità urbana (molto tempo dopo si considerò il 753 a.C. la data di fondazione della città). Per circa due secoli e mezzo dopo la sua fondazione Roma fu governata da una monarchia elettiva (fu il periodo dei leggendari sette re). Il re era assistito da un consiglio di anziani e da un’assemblea popolare rappresentativa. Nella seconda metà del periodo monarchico Roma sottostette al predominio etrusco: gli ultimi tre re furono originari dell’etrusca Tarquinia. Verso il 510 a.C., con la cacciata di Tarquinio il Superbo, i Romani si liberarono del dominio etrusco e del regime monarchico e instaurarono un governo repubblicano retto da due consoli eletti annualmente. Durante il V secolo a.C. codificarono le loro leggi e cominciarono ad eleggere i tribuni del popolo con diritto di veto nei confronti dei magistrati in difesa dei proletari, e fu un passo importante verso l’emancipazione di questi ultimi. Nel IV secolo a.C. Roma intraprese e condusse con determinazione una politica di espansione territoriale che in alcuni decenni le consentì di estendere il suo controllo a buona parte della penisola. Intanto gli Etruschi, già forti e dominanti, indeboliti da lotte intestine e da un’invasione di popoli celtici che si insediarono nella Pianura Padana, non furono più in grado di tenere testa ai Romani i quali nel 396 a.C. tolsero loro Veio e la distrussero. Nel 387 però i Romani stessi furono sconfitti dai Celti scesi dal nord e subirono la distruzione della loro città. Presto Roma fu ricostruita e circondata da una possente cinta di mura attorno ai sette colli. Nel corso del III secolo a.C., avendo oramai il controllo della maggior parte dell’Italia centrale e meridionale, Roma sviluppò una politica di supremazia che la portò inevitabilmente a confrontarsi con le città greche dell’Italia del sud e con le colonie Cartaginesi nella Sicilia occidentale. Pirro, re dell’Epiro, venne in soccorso dei Greci, ma le vittorie conseguite in una guerra decennale (280-271 a.C.) rimasero infruttuose. In quest’epoca la fiorente colonia fenicia di Cartagine, nel nord Africa, era la più forte rivale di Roma. Da lungo tempo i Cartaginesi avevano creato insediamenti nella Sicilia occidentale, nella Corsica e nella Sardegna. In Sicilia lo scontro coi Romani fu inevitabile e fu la Prima Guerra Punica (264 a.C.). Il conflitto finì 23 anni dopo (241 a.C.) con la vittoria di Roma che rimase padrona di tutta la Sicilia, divenuta la sua prima provincia. Tre anni più tardi i Romani tolsero ai Cartaginesi anche la Corsica e la Sardegna. Riavutasi dalla sconfitta subita in Sicilia, Cartagine mirò a espandersi verso occidente, e nel 237 a.C. occupò parte della Spagna mediterranea. Fu l’occasione della Seconda Guerra Punica. Mentre i Romani si apprestavano a invadere la Spagna, il cartaginese Annibale, alla testa di un forte esercito dotato di elefanti, 393

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varcò i Pirenei e le Alpi e discese in Italia sorprendendo il nemico e infliggendogli durissime sconfitte presso il Lago Trasimeno (217 a.C.) e a Canne, in Puglia (216 a.C.). mancò poco che Roma stessa cadesse nelle sue mani. Nel frattempo un esercito romano mise piede nella Spagna e nei iniziò la conquista. Intanto, mentre Annibale spadroneggiava nel sud dell’Italia, nel 204 a.C. Scipione sbarcò sulla costa africana, non lontano da Cartagine, alla testa di un esercito romano. Annibale fu richiamato dall’Italia per respingere i Romani. Lo scontro decisivo avvenne a Zama nel 202 a.C. e fu fatale per i Cartaginesi che ebbero l’esercito distrutto e dovettero cedere a Roma la Spagna, consegnare gran parte della flotta, pagare un forte indennizzo e impegnarsi a non intraprendere azioni di guerra senza il consenso dei vincitori. Roma era praticamente padrona del Mediterraneo occidentale. In quest’epoca la nazione latina non aveva mire territoriali verso l’Oriente, ma durante la seconda Guerra Punica era avvenuto che Filippo V di Macedonia aveva cercato di venire in aiuto di Cartagine. Roma dapprima aveva stretto alleanze con alcuni stati greci e col regno di Pergamo, nell’Asia Minore, contro Filippo, poi intervenne direttamente, e fu la Prima Guerra Macedonica (215-205 a.C.) che si concluse con la sconfitta di Filippo e il riconoscimento da parte della Macedonia dei possedimenti romani sulla costa illirica. Le mire espansionistiche di Filippo V a danno degli alleati di Roma in Grecia provocarono un nuovo intervento dei Romani nel 200 a.C. La Seconda Guerra Macedonica finì con la vittoria decisiva dei romani a Cinocefale, nella Tessaglia, nel 197 a.C. La Macedonia fu lasciata intatta; Roma si accontentò della rinuncia da parte di Filippo alle conquiste fatte (le città greche furono dichiarate libere), della consegna della flotta e del pagamento di una indennità. Mentre Roma era impegnata militarmente nella Macedonia, Antioco III di Siria invase la Celesiria e la Palestina sottraendole all’Egitto (200-198 a.C.). Fatta la pace con l’Egitto, Antioco mandò un corpo di spedizione in Grecia per estromettervi i Romani, ma questi lo batterono alle Termopili nel 191 a.C. L’anno seguente le legioni di Scipione Asiatico sconfissero duramente l’esercito siriaco a Magnesia, vicino a Smirne nell’Asia Minore, e Antioco dovette accettare le onerose condizioni di pace imposte dal vincitore: cessione dei possedimenti a ovest e a nord del Tauro, consegna di gran parte della flotta e di alcuni ostaggi (fra cui il figlio omonimo di Antioco) e pagamento di una forte indennità. Roma comunque non si annesse i territori tolti alla Siria ma li assegnò ai suoi alleati in Asia, principalmente a Pergamo e a Rodi. Dopo questi eventi, in Macedonia Perseo, succeduto al padre Filippo V nel 179 a.C., cercò alleanze in Asia Minore e in Grecia mettendo in allarme il regno di Pergamo che sollecitò l’intervento di Roma. Roma rispose all’appello del suo alleato asiatico, e fu la Terza Guerra Macedonica (171-168 a.C.). Perseo fu sconfitto e fatto prigioniero a Pidna nel 168 e la Macedonia fu divisa in quattro repubbliche indipendenti poste sotto la protezione di Roma. Nel 175 a.C., mentre i Romani erano impegnati nella Terza Guerra Macedonica, Antioco Epifane era tornato in Siria da Roma, dov’era trattenuto in ostaggio, e si era impadronito del trono. Nel 170 invase l’Egitto col proposito di annetter394

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selo. Due anni dopo - lo stesso anno della vittoria dei Romani a Pidna, il 168 a.C. - giunse in Egitto un legato di Roma con un ultimatum per Antioco IV: l’Epifane, che ben conosceva la potenza militare di Roma, non osò sfidarla e sgombrò il paese. Nel 149 a.C. Roma dovette ancora intervenire nella penisola balcanica per stroncare un tentativo di ricostituzione del regno di Macedonia. L’aspirante successore di Perseo fu battuto ancora a Pidna nel 148 a.C. Due anni dopo Roma ridusse a sua provincia la Macedonia. Cosicché fino al 146 a.C. i Romani si erano annessi uno dei tre regni ellenistici superstiti (appunto quello di Macedonia), avevano messo sotto la loro protezione il secondo (l’Egitto) e avevano rintuzzato le velleità di conquiste del terzo (la Siria). Intanto la rinascita di Cartagine dopo la disfatta disastrosa del 202 a.C., metteva in allarme Roma. Provocata dal confinante regno di Numidia alleato di Roma, Cartagine aveva reagito senza tenere conto dell’impegno di non riprendere le armi senza il consenso di Roma. Roma rispose prontamente alla sfida, e fu la Terza Guerra Punica. Cartagine fu presa e distrutta nel 146 a.C. dopo tre anni di assedio. Roma non ebbe più rivali nel Mediterraneo. In politica estera i romani, quando fu possibile, preferirono la diplomazia alla guerra, comunque sempre cercando di trarre per se stessi i massimi vantaggi, ora rafforzando gli alleati, ora indebolendo gli avversari. Perseguendo questa politica nell’Oriente essi sostennero gli stati minori (come il regno di Pergamo, che grazie all’alleanza con Roma pervenne alla leadership nell’Asia Minore) e contrastarono l’espansionismo degli stati più forti, come il regno di Macedonia cui opposero l’alleanza con gli stati greci, o il regno di Siria che imbrigliarono alleandosi con l’Egitto. Ma quando la diplomazia non bastò, non esitarono a prendere le armi. Nel 133 a.C., essendo morto senza eredi Attalo III, ultimo re di Pergamo, questo territorio, che comprendeva buona parte dell’Asia Minore, passò ai cittadini di Roma per lascito testamentario, e nel 129 a.C. divenne provincia romana. Le legioni di Roma intervennero ancora in Africa nel 105 a.C. in risposta alla sfida di Giugurta re di Numidia. La vittoria fruttò a Roma il possesso di una parte di questo territorio. In seguito le armi romane tornarono in Oriente, stavolta per impedire a Mitridate re del Ponto di impadronirsi dei possedimenti romani in Asia. Nell’84 a.C. Mitridate dovette deporre le armi sconfitto. In parallelo con la crescita territoriale all’esterno, era venuta sviluppandosi già dal II secolo a.C. all’interno dello Stato romano una rivoluzione politica e sociale che avrebbe alterato in un senso o nell’altro i rapporti di forza all’interno degli organi di governo e fra le classi sociali. Il potere dell’assemblea popolare venne restringendosi e in pari tempo si accrebbe il potere del Senato. Notevoli mutamenti economici e sociali si produssero a seguito dei contatti col mondo esterno. Il commercio con l’estero da una parte e i tributi delle province dall’altra avevano fatto affluire in Roma notevoli ricchezze, dando luogo al nascere di nuovi modelli di vita. 395

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Gli schiavi, che crescevano di numero ad ogni guerra, soppiantarono gradualmente la manodopera bracciantile locale nelle aziende agricole (gli schiavi erano manodopera a bassissimo costo), con un conseguente aumento della disoccupazione. Importanti innovazioni furono introdotte nell’ambito della religione, della politica, della filosofia, della letteratura e dell’arte a seguito dei contatti con le province, massimamente con la Grecia e l’Oriente. Vizi nuovi che contribuirono a un aumento della criminalità, della corruzione e degli intrighi si insinuarono nella società romana e tutto questo a sua volta concorse al declino e finalmente al collasso della repubblica e al nascere dell’assolutismo. Durante le guerre lunghe e frequenti, le piccole proprietà agricole in cui era frazionato il territorio italico rimasero incolte essendo i loro proprietari arruolati nell’esercito. Lo Stato incamerò gradualmente i terreni incolti e li destinò a pascolo. Tiberio Gracco quando fu eletto tribuno del popolo nel 133 a.C., chiese che si assegnassero ai braccianti disoccupati i terreni pubblici, ma la reazione violenta dei grandi proprietari terrieri lo impedì e Tiberio ci rimise la vita. Nel 123 a.C., eletto tribuno del popolo, Caio Gracco, fratello dell’assassinato Tiberio, ottenne che il grano pubblico fosse venduto ai poveri a metà prezzo e incoraggiò i braccianti disoccupati a insediarsi nelle terre delle province. Il Senato però si oppose alla sua proposta di estendere la cittadinanza romana a tutti gli Italici. Anche Caio Gracco pagò con la vita l’impegno teso a sollevare la sorte dei poveri. Comunque la reazione dei conservatori non riuscì a distruggere completamente l’opera dei Gracchi. Nel 107 a.C. fu eletto console Caio Mario, un figlio del popolo, e gli fu subito affidata la condotta della guerra contro Giugurta in Africa. Prima di intraprendere le operazioni militari, Mario riformò l’esercito trasformandolo attraverso l’arruolamento volontario da un corpo di richiamati in una milizia di soldati di professione. Vinta la guerra in Numidia e tornato in patria nel 105 a.C., il nuovo console respinse i Cimbri e i Teutoni che avevano invaso il nord Italia. Mario seppe inculcare nei suoi soldati l’idea che il potere dell’esercito era superiore a quello del Senato. Frattanto sfociava in aperta rivolta il malcontento diffuso tra gli alleati italici di Roma per il rifiuto del Senato di riconoscere ad essi la cittadinanza romana. La guerra civile ebbe come figure di riferimento da un lato Caio Mario, leader del partito popolare, e dall’altro il generale Lucio Cornelio Silla, un “parvenu”, un paladino della causa del partito aristocratico senatoriale. La guerra civile terminò col trionfo della causa degli Italici ai quali fu dunque riconosciuta la cittadinanza romana. Silla comunque conseguì una vittoria politica sul rivale e ottenne la dittatura. Mario, dichiarato nemico pubblico, si salvò con la fuga. Silla si ritirò a vita privata dopo aver fatto approvare un programma legislativo mirante a rafforzare il potere del Senato. Nel 70 a.C. furono eletti consoli Cneo Pompeo, già ufficiale subalterno di Silla, e Licinio Crasso. Pompeo, che si era distinto in patria e all’estero dopo la morte di Silla nel 78 a.C., introdusse alcune buone riforme; fu comunque asser396

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tore della superiorità del potere dell’esercito e dell’Assemblea Popolare su quello del Senato, in particolare sulle decisioni che riguardavano lo Stato. Nel 67 a.C. il partito popolare conferì a Pompeo il comando di una forza da inviare in Oriente per ripulire il mare dai pirati. Pompeo svolse questo compito in soli tre mesi. Nel 66 lo si autorizzò a condurre la guerra contro Mitridate re del Ponto e Tigrane re d’Armenia ostili a Roma. Vittorioso, spinse le sue legioni fino al Caspio. Riportata l’Asia Minore sotto controllo di Roma, nel 64 a.C. Pompeo intervenne in Siria dove depose l’ultimo seleucida, e l’anno seguente occupò la Palestina ponendo fine al potere degli Asmonei. Sempre nel 63 a.C., la Siria fu ridotta a provincia romana e la Palestina a stato vassallo. Tornato a Roma, nel 60 a.C. Pompeo formò un’alleanza con Crasso, un alto esponente della finanza, e Giulio Cesare, nipote di Caio Mario e partigiano del partito popolare. Cesare si era allontanato da Roma dopo che Silla lo aveva espropriato dei suoi beni, e vi era tornato alla morte dell’ex dittatore. L’alleanza di Pompeo, Cesare e Crasso, dette luogo alla formazione del primo Triumvirato. Dopo un anno di governo della Spagna, Cesare fu eletto console per l’anno 59 a.C. I triumviri controllarono l’attività legislativa dello Stato senza trascurare gli interessi personali nelle provincie di cui avevano assunto il governo: Cesare nelle Gallie, Pompeo nella Spagna e Crasso nell’Oriente. Crasso perse la vita combattendo contro i Parti nel 53. Pompeo fu eletto console unico nel 52. Nel 49 a.C., il Senato chiese a Cesare di rinunciare al comando delle legioni nelle Gallie per presentarsi da privato cittadino come candidato al consolato. Cesare rifiutò sdegnosamente e alla testa delle sue legioni attraversò il Rubicone intenzionato a occupare l’Italia. Pompeo e la maggioranza dei senatori abbandonarono Roma e ripararono in Grecia. L’anno dopo Cesare sbarcò in Grecia, combatté Pompeo e i suoi sostenitori e li sconfisse a Farsalo, nella Tessaglia. Pompeo fuggì in Egitto dove fu ucciso a tradimento. Cesare intimò a Tolomeo XIV di reintegrare nei suoi diritti dinastici la spodestata moglie e sorella Cleopatra VII. Al rifiuto del sovrano, intervenne personalmente in Egitto, sconfisse i rivoltosi e lo stesso Tolomeo presso il Nilo e mise sul trono Cleopatra. Rientrato a Roma e stroncata la resistenza dei seguaci di Pompeo, Cesare assunse la dittatura a vita e si fece conferire altri incarichi importanti concentrando praticamente il potere nelle sue mani. La repubblica era tramontata ed era nato lo stato totalitario. Cesare si dedicò comunque alla riorganizzazione dello Stato promuovendo importanti riforme, fra cui quella del calendario. Sospettato di mirare a costituire una monarchia assoluta, il dittatore fu soppresso il 15 marzo del 44 a.C. a seguito di una vasta congiura capeggiata da Bruto e Cassio. L’attenzione dei Romani si volse a Marc’Antonio, console per quell’anno, nella speranza che egli potesse restaurare l’antico ordine repubblicano. Ma subito si fece avanti per affermare i suoi diritti il diciottenne Ottaviano, nipote, figlio adottivo ed erede di Giulio Cesare. Nel 43 a.C. fu costituito un secondo triumvirato con Ottaviano, Marc’Antonio e Lepido. Intanto Cassio e Bruto furono sconfitti in Grecia, dove avevano 397

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cercato riparo, e furono costretti a suicidarsi. Ottaviano, Antonio e Lepido nel 40 a.C. si divisero il governo dell’Impero. Ottaviano ebbe l’Occidente, Antonio l’Oriente e Lepido l’Africa. L’Italia fu governata in comune. Nel 36 Ottaviano costrinse Lepido a cedergli l’Africa e a ritirarsi a vita privata, rimanendo praticamente padrone di tutto l’Occidente. In Egitto Antonio, invaghitosi della regina Cleopatra, venne meno alla sua lealtà verso Roma. Ripudiata la moglie Ottavia, sorella di Ottaviano, sposò Cleopatra VII e tentò di costituire per lei un regno di tipo ellenistico con l’annessione di territori sottratti a Roma. Nel 32 a.C. Ottaviano dichiarò guerra all’Egitto; l’anno seguente una flotta romana al comando del console Agrippa sconfisse davanti ad Azio, lungo la costa occidentale greca, la flotta della regina Cleopatra, Antonio e la regina ripararono in Egitto abbandonando la flotta al suo destino. Gli alleati di Antonio e i principi vassalli dell’Oriente abbandonarono l’Egitto e si sottomisero a Roma. Nel 30 a.C. Ottaviano sbarcò ad Alessandria; Antonio e Cleopatra si tolsero la vita e l’Egitto fu proclamato dominio romano. Cessava così di esistere l’ultimo dei regni ellenistici eredi dell’impero di Alessandro. Padrona del mondo e all’apice della sua potenza, Roma realizzava la profezia che l’aveva rappresentata con la figura del mostro invincibile che calpestava tutta la terra (Dn 7: 7). Oramai signore incontrastato dell’Impero, Ottaviano si guardò bene comunque dall’assumere il titolo di re, tanto aborrito dai Romani. Ma pur mantenendo le forme esterne del governo repubblicano, concentrò di fatto il potere nelle sue mani con l’assumere simultaneamente diverse magistrature. Nel 27 a.C. il Senato gli conferì il titolo di Augustus (“Maestà”) e in seguito lo riconobbe princeps (“primo cittadino”). Sebbene i Romani considerassero il governo di Ottaviano Augusto come un principato, di fatto egli regnò da monarca. Più tardi il potere imperiale gli derivò dal titolo di imperator che gli conferì il Senato. Nel 12 a.C. gli venne ancora assegnata la carica di pontifex maximus. In ogni caso l’età augustea fu segnata dall’inizio di un lungo periodo di pace (la “pax romana”), da una straordinaria fioritura letteraria e soprattutto dall’evento più grande della storia universale - pur se allora passato inosservato cioè la nascita di Gesù in una provincia periferica dell’Impero. Morto Augusto senza eredi nel 14 d.C., gli succedette il figliastro Tiberio che inaugurò la dinastia Giulio-Claudia. Durante il regno di Tiberio si svolsero le vicende della vita terrena di Gesù: il battesimo, il ministero pubblico, la crocifissione, la resurrezione, l’ascensione. Alla morte di Tiberio nel 37, salì al trono imperiale lo squilibrato Caligola che morì assassinato quattro anni dopo. Gli succedette Claudio (41-54) sotto il cui buon governo Roma tornò alla tradizione augustea. Durante il regno di Claudio i Romani riconquistarono la Britannia meridionale e costituirono la provincia di Tracia. A Claudio, morto avvelenato nel 54, succedette il dispotico e crudele Nerone. Sotto il suo principato avvennero l’incendio di Roma nel 64 e la prima persecuzione dei cristiani nell’Urbe. Morto Nerone nel 68 (com’è noto si tolse la vita), seguì un breve periodo di 398

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instabilità politica in cui il trono dei Cesari parve vacillare: ben 4 imperatori si succedettero fra il 68 e il 69: Galba, Vitellio, Ottone e Vespasiano, l’iniziatore della dinastia flavia. Vespasiano era impegnato in Giudea da 3 anni nella guerra di repressione di un’insurrezione quando le sue legioni lo proclamarono imperatore nel 69. Suo figlio Tito assunse il comando delle legioni in Giudea e portò a termine la guerra di repressione con la conquista e la distruzione di Gerusalemme nel 70. Quello di Vespasiano fu un buon governo; fra le sue realizzazioni va ricordata la costruzione in Roma dell’Anfiteatro Flavio (il Colosseo). Morto Vespasiano nel 79, divenne imperatore suo figlio Tito. L’inizio del suo regno fu segnato dalla catastrofica eruzione del Vesuvio che distrusse Ercolano, Stabia e Pompei. Il regno di Tito fu breve. Nell’81 gli succedette il fratello Domiziano, il cui governo degenerò in dispotismo. Domiziano pretese per sé il titolo di “Dominus et Deus” (“Signore e Dio”), e sul finire del suo regno scatenò una persecuzione contro i cristiani (la seconda dopo quella di Nerone), che infierì particolarmente in Asia Minore. In questo tempo ebbero luogo l’esilio di S.Giovanni a Patmos e la composizione dell’Apocalisse. Domiziano perì nel 96 in una congiura di palazzo, e con lui si estinse la casa dei Flavi. Seguì una serie di imperatori detti “adottivi”, perché elevati al trono in base al principio dell’ “adozione del più degno”, sostituito al principio dinastico. Il primo imperatore “adottivo” fu Cocceio Nerva. Al suo breve regno seguì nel 98 l’elevazione al trono imperiale dello spagnolo Ulpio Traiano. Traiano fu un grande imperatore: combatté e sottomise i Daci in Europa e i Nebatei in Arabia, e costituì le nuove province di Dacia e di Arabia; in Oriente vinse i Parti e conquistò l’Armenia, cosicché due altre province si aggiunsero all’Impero che raggiunse la massima estensione. Morto Traiano nel 117, divenne imperatore “adottivo” Adriano (117-138), ricordato per avere concluso la pace coi Parti rinunciando alle conquiste del suo predecessore, e soprattutto per avere realizzato importanti opere fortificate in Asia (lungo l’Eufrate) e in Europa (sul Reno, sul Danubio e in Inghilterra). Adriano viaggiò molto per ispezionare l’amministrazione dell’Impero. La sua decisione di ricostruire Gerusalemme come città romana fu la causa della seconda rivolta giudaica, capeggiata da Bar Kocheba (132-135). L’insurrezione fu soffocata nel sangue e Gerusalemme fu ricostruita come colonia romana col nome di Aelia Capitolina secondo gli intendimenti dell’imperatore. Dopo Adriano si succedettero sul trono dei Cesari Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180), l’imperatore-filosofo sotto il cui regno i romani combatterono contro i Parti e i Marcomanni, e Commodo (180-192), che si credette incarnazione di Ercole e di Mitra. In quegli anni i cristiani soffrirono severe persecuzioni. Dopo la morte violenta di Commodo nel 192, l’Impero cadde in potere dei Pretoriani e l’unità sembrò venirne meno. Nel 193 ci furono 4 imperatori: Didio Giuliano a Roma, Pescennio Nigro in Siria, Clodio Albino in Britannia e Settimio Severo in Pannonia. 399

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Settimio Severo, iniziatore della dinastia dei severi, sconfitti i rivali e legittimato il potere, ricostituì l’unità imperiale. Gli succedette nel 211 il figlio Caracalla che regnò fino al 218. Dopo un breve regno di Macrino nel 218, l’esercito, divenuto ancora una volta arbitro della situazione, elevò al trono imperiale Eliogabalo di Emesa, in Siria (218-222), nipote di Caracalla e sacerdote di Baal in Siria. Eliogabalo introdusse in Roma il culto di questa divinità orientale. Caduto Eliogabalo per mano dei suoi soldati, salì al trono imperiale nel 222 Alessandro Severo, morto anche lui assassinato, dopo 3 anni di regno, a seguito di una rivolta militare. Seguì una serie di imperatori di nomina militare, quasi tutti periti di morte violenta dopo un breve periodo di regno. Furono: Massimino Trace (235-238), Gordiano III (238-244), Filippo Arabo (244-249), Decio (249-251), Trebonio Gallo (251-253), Valeriano (253-260), Gallieno (260-268), Claudio II (268-270) e Aureliano (270-275) che nel 274 adottò il titolo di “Dominus et Deus” e introdusse il culto del sole e dell’imperatore come religione di Stato. Ad Aureliano succedettero l’uno dopo l’altro Claudio Tacito (275-276), Probo (276-282), Caro (283-284) e Diocleziano (294-305), che nel 303 promosse in tutto l’impero una severa persecuzione dei cristiani. Nel 293 Diocleziano introdusse un’importante riforma amministrativa statale: fu istituito un governo a 4 a termine (Tetrarchia). Diocleziano ottenne l’Oriente con Nicomedia come capitale, Massimiano l’Italia e l’Africa con Milano come capitale, Costanzo la Spagna, la Gallia e la Britannia con capitale Treviri e Galerio l’Illirico e la Macedonia con capitale Sirmio. Gli Augusti - ovvero i reggenti delle 4 parti dell’Impero - si impegnarono a cedere dopo 20 anni il potere ai Cesari cioè ai successori da loro stessi nominati - e questi a loro volta a nominare altri 2 Cesari come coadiutori. Nel 297 il territorio dell’Impero fu diviso in 12 circoscrizioni amministrative (diocesi) e queste in 101 province. Nel 305 abdicarono Diocleziano e Massimiano. Gli altri due Augusti, Galerio e Costanzo, nominarono Cesari Severo e Massimino Daia. Nel 308 un congresso imperiale nominò Licinio Augusto d’Occidente; Diocleziano rifiutò la dignità imperiale. L’instaurazione di una politica dinastica da parte dei singoli Augusti fece fallire il sistema della Tetrarchia. Costantino, il figlio di Costanzo, fu insediato a York, Massenzio, il figlio di Massimiano, a Milano. I due vennero a conflitto e nel 312 Costantino sconfisse e uccise Massenzio al Ponte Milvio, in Roma, restando unico padrone delle province occidentali. L’anno seguente Licinio vinse Massimino Daia presso Adrianopoli. In quello stesso anno (313) Costantino emanò da Milano l’editto di tolleranza favorevole ai cristiani. Nel 324, avendo battuto Licinio presso Adrianopoli, Costantino divenne l’unico sovrano di tutto l’impero. Nel 330, in contrasto con Roma pagana, trasferì a Bisanzio la sede imperiale mutandone il nome in quello di Costantinopoli. Costantino ricevette il battesimo cristiano sul letto di morte nel 337. Nelle lotte di successione tra i figli di Costantino prevalse Costanzo II, il quale rimase unico sovrano dell’Impero dopo la morte dei fratelli Costante e Costantino II. 400

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Nel 361 succedette a Costanzo il nipote Giuliano il quale favorì il ripristino dei culti pagani e fu per questo soprannominato “l’Apostata”. Con lui, morto nel 363, si estinse la dinastia costantiniana. Al breve regno di Gioviano (363-364) seguì il regno di Valentiniano I, eletto imperatore dalla corte. Morto Valentiniano nel 375 divenne imperatore il fratello di lui Valente il quale fu sconfitto e ucciso 3 anni dopo nella battaglia di Adrianopoli. Nel 379 Teodosio I fu nominato Augusto in Oriente da Graziano, morto poi in Occidente nel 383 lottando contro l’usurpatore Magno Massimo. Massimo fu a sua volta vinto e ucciso da Teodosio presso Aquileia 5 anni dopo. Nel 391 Teodosio elevò il Cristianesimo a religione di Stato e proscrisse i culti pagani, ma con l’elevazione di Eugenio a imperatore d’Occidente i culti pagani furono restaurati in questa parte dell’Impero. Due anni dopo Eugenio fu sconfitto e ucciso presso Aquileia e Teodosio rimase unico arbitro dell’Impero nuovamente unificato. Morto Teodosio nel 395, l’Impero fu diviso tra i suoi due figli Arcadio, che resse l’Oriente, e Onorio, che regnò nell’Occidente. Da questo momento vi furono in permanenza un Impero Romano d’Oriente e un Impero Romano d’Occidente ciascuno con le proprie vicende politiche. Dal 404 l’Impero d’Occidente ebbe per capitale Ravenna. Retto da imperatori deboli e sempre più scosso dalle invasioni dei Barbari, l’impero latino sopravvisse ancora per un’ottantina d’anni. A Onorio succedette sul trono dell’Impero d’Occidente, a Ravenna, Giovanni (423-425) e a Giovanni Valentiniano III (425-455) che dal 450 risiedette a Roma. Nel 451 gli Unni di Attila devastarono la Pianura Padana e distrussero Aquileia. Nel 454 Valentiniano III uccise il valoroso generale Ezio che nel 451 aveva respinto gli Unni nella Gallia; l’anno seguente egli stesso morì assassinato. Il suo successore, Petronio Massimo, rimase ucciso lo stesso anno (455) durante il sacco di Roma ad opera dei Vandali. Si aprì una crisi di potere e Ricimero, un generale d’origine svevo-gotica salito ai massimi onori durante il regno di Valentiniano III, dopo la morte di costui nel 455 nominò e depose imperatori a suo arbitrio. Così si succedettero l’uno all’altro dopo brevi periodi di regno: Avito (455-456), Maggiorano (457-461), Libio Severo (461-465), Antemio (467-472) dopo 2 anni di interregno, e Olibio (472). Morto Ricimero, fu fatto imperatore a Ravenna Glicerio (473), il quale fu vinto e deposto dopo pochi mesi di regno da Giulio Nepote che regnò in luogo suo (474-475). Giulio Nepote fu a sua volta deposto dal suo magister militum (capo dell’esercito) Oreste, un romano della Pannonia che era stato aiutante di Attila e capo di un esercito di Germani e al quale l’imperatore d’Oriente, Zenone, aveva conferito il titolo di “Patrizio Romano”. Oreste fece acclamare imperatore il suo figlio adolescente Romolo (475-476) che fu soprannominato “Augustolo”. I Barbari al servizio di Oreste chiesero per sé come compenso un terzo delle terre. Avendo rifiutato quella richiesta, il patrizio fu travolto da una ribellione capeggiata da Odoacre, capo di un forte contingente di Eruli, e ucciso a 401

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Pavia nel 476. Odoacre depose Romolo Augustolo e, non osando rivendicare per sé la dignità imperiale, rinviò all’imperatore Zenone le insegne relative domandando e ottenendo il titolo di Patrizio. Si estinse così l’Impero Romano d’Occidente, i cui territori erano oramai sotto il completo controllo dei Barbari. Questo momento storico segnava il trapasso dalla fase imperiale di Roma alla fase dei regni barbarici.

5. I POPOLI GERMANICI CHE OCCUPARONO I TERRITORI OCCIDENTALI DELL’IMPERO ROMANO Gli Svevi, un gruppo di popolazioni germaniche costituito da Alamanni, Sennoni, Quadi, Marcomanni ed altre, nel II secolo a.C. si stanziarono nella regione del Brandeburgo. Nel 58 a.C. Giulio Cesare respinse un loro attacco alla provincia gallica dell’Impero. Verso il 400 d.C. gli Svevi si insediarono nella Spagna e vi fondarono un regno che nel VI secolo si fuse con quello dei Visigoti. I Gepidi, altra popolazione di stirpe germanica, occuparono la Dacia (l’odierna Romania) nel III secolo d.C. e vi fondarono un regno che i Longobardi distrussero nel 567. Gli Alamanni, un gruppo eterogeneo di popolazioni germaniche, a partire dal III secolo d.C. si stanziarono lungo il corso dell’Elba. Premettero ripetutamente alle frontiere settentrionali dell’Impero, sempre respinti dai Romani nei loro territori. Nel IV e V secolo gli Alamanni raggiunsero una relativa unità. Clodoveo re dei Franchi li sconfisse nel 496 e ne annesse il territorio al suo regno. Gli Angli, stanziati in origine a nord dell’Elba, nel V secolo d.C. emigrarono nella Britannia e quivi fondarono un regno che durò fino al VI secolo. I Sassoni, un conglomerato di varie popolazioni germaniche, vissero in origine nella regione fra la Scandinavia e la Danimarca. Nel V secolo d.C. alcune tribù emigrarono insieme con gli Angli nella Britannia e vi fondarono i regni di Wessex, Essex e Sussex. I gruppi rimasti nel continente si trasferirono nella regione fra l’Oder, il Reno inferiore e l’Elba e nel secolo VIII furono sottomessi e cristianizzati da Carlomagno. I Visigoti, ramo occidentale della più vasta popolazione germanica dei Goti, costretti dagli Unni ad abbandonare il loro territorio, la Dacia Inferiore, si stanziarono nella Mesia lungo il corso inferiore del Danubio. Nel 378, presso Adrianopoli, inflissero ai Romani la prima sconfitta sul loro territorio. Teodosio li accolse nella Mesia e nella Pannonia; sfruttati dai Romani, sul finire del V secolo si ribellarono e, sotto la guida di Alarico, invasero e devastarono i Balcani e l’Illirico. Nel 410, dopo avere percorso l’Italia del nord e del centro, occuparono e saccheggiarono Roma. Sospinti poi dai Romani verso il nord-ovest, invasero la Gallia e fondarono un regno nella regione fra il Rodano, la Loira e la Provenza (regno di Tolosa, 419-507), comprendente anche parte della penisola iberica. Sconfitti dai Franchi nel 507, si ridussero nella Spagna dove dominarono fino alla conquista araba (711). I Vandali nel V secolo d.C. occuparono le coste meridionali del Baltico. 402

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Pressati da est dagli Unni e dai Sarmati, nel 406 oltrepassarono il Reno , attraversarono la Gallia saccheggiando e devastando, e si fermarono nella Spagna (409). Nel 429, condotti da Genserico (428-477), invasero l’Africa dallo stretto di Gibilterra, devastarono le floride province romane e a Cartagine fondarono un regno. Divenuti abili navigatori, con la flotta percorsero il Mediterraneo orientale assalendo e saccheggiando i litorali italici e balcanici. Nel 455 giunsero a Roma dalla foce del Tevere e la saccheggiarono. Convertitisi all’arianesimo, osteggiarono e perseguitarono i cattolici. Nel 534 un esercito bizantino agli ordini di Belisario, l’abile generale di Giustiniano, prese Cartagine e distrusse il regno dei Vandali. I Burgundi, originari della Scandinavia, intorno al 400 d.C. si stabilirono nella regione tra Metz e Magonza. Nella prima metà del V secolo invasero la provincia belgica dell’Impero e nel 437 furono sconfitti dal generale romano Ezio. Nel 443 si trasferirono nella regione del lago di Ginevra dove fondarono un regno autonomo. Nel 490 scesero in Italia in appoggio a Odoacre, capo degli Eruli, contro Teodorico re degli Ostrogoti, e devastarono la pianura padana. Nel 500 Clodoveo, re dei Franchi, li sconfisse e li rese tributari. Gli Eruli ebbero la Scandinavia come terra di origine. Verso il 260 d.C. un gruppo si unì ai Visigoti che invasero le regioni greche dell’Impero. Sulle rive del Danubio, a nord della Tracia, fondarono un regno. Nel V secolo, sotto la guida di Odoacre, invasero l’Italia e vi si stabilirono. Nel 476 ebbero un ruolo determinante nella caduta dell’Impero d’Occidente. Vinti dagli Ostrogoti, in seguito furono sterminati dai Longobardi. Gli Ostrogoti, ramo orientale della popolazione germanica dei Goti, in origine erano stanziati nell’odierna Ucraina. Nella seconda metà del III secolo d.C. invasero i territori orientali dell’Impero romano. Sconfitti e sottomessi dagli Unni, nel 370 si trasferirono nella Pannonia e da lì nella Mesia. Nel 488, sotto la guida di Teodorico, invasero l’Italia. Sconfitto Odoacre re degli Eruli, fondarono un regno con Ravenna come capitale. Il regno ostrogoto fu distrutto, alla fine della lunga “guerra gotica” (535-553) dalle truppe bizantine mandate in Italia da Giustiniano sotto il comando di Belisario prima e di Narsete poi. I Longobardi, insediati lungo il corso inferiore dell’Elba fin dal I secolo d.C., nella seconda metà del VI secolo emigrarono verso il sud. Nel 568, sotto la guida di Alboino, dilagarono nella pianura padana e occuparono l’Italia del nord estromettendo i Bizantini da gran parte del territorio e fondando un loro regno. Il regno longobardo raggiunse il massimo splendore sotto Liutprando (712-744), il quale donò al papa il castello di Sutri. Carlomagno pose fine al regno longobardo quando invase l’Italia nel 774. I Franchi, una confederazione di tribù germaniche divisa in due gruppi (i Salii e i Ripuari), erano stanziati lungo il corso basso e medio del Reno. Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476, i Salii costituirono un regno romano-barbarico che sotto Clodoveo (481-511), della dinastia dei Merovingi, sottomise i Ripuari, gli Alamanni e i Burgundi e controllò tutta la Gallia. Clodoveo fu il primo sovrano barbarico che si convertì alla fede cattolica. Alla sua morte, mentre i successori (i re “fannulloni”) si consumavano in lotte dinastiche, emersero i maestri di palazzo con Pipino Di Heristal. Suo figlio Carlo Martello re403

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spinse gli Arabi a Poitiers (733) bloccando la loro avanzata verso il cuore dell’Europa. Il figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve (751-768), col consenso di papa Zaccaria depose nel 751 Childerico, ultimo sovrano merovingio, e si fece eleggere re dei Franchi, incoronato nel 754 dallo stesso papa Zaccaria. Su richiesta di papa Stefano II, Pipino venne in Italia, sconfisse Astolfo III re dei Longobardi e donò al papa l’Esarcato e la Pentapoli tolti ai Longobardi (Donazioni di Pipino), territori che divennero il nucleo originale dello Stato Pontificio. Carlomagno, figlio di Pipino il Breve, sconfisse e sottomise definitivamente i Longobardi nel 774, riconfermando le “donazioni di Pipino” al papa. Sconfitti i Sassoni fra il Reno e l’Elba nel 772-804, nell’800 fondò il Sacro Romano Impero.

6. FINE DELL’IMPERO D’OCCIDENTE L’ITALIA SOTTO IL DOMINIO DI ODOACRE a) Nel 472 combatteva nell’esercito di Ricimero schierato sotto le mura di Roma un barbaro di nome Odoacre di cui si ignora la tribù germanica di appartenenza. Costui al tempo di Attila aveva militato nell’esercito degli Unni, ma dopo la morte del re barbaro se ne era separato. Prima del 470 Odoacre venne in Italia alla testa di una banda di barbari germanici in cerca di nuove avventure. In quel tempo era a capo dell’esercito romano il patrizio Oreste, originario della Pannonia, già ministro di Attila. Oreste fu l’ultimo dei generali romani che nominarono e deposero gli imperatori e loro talento. Avrebbe forse voluto assumere lui stesso la porpora imperiale, ma non osò farlo per la sua origine barbarica. Fece comunque eleggere imperatore il figlio adolescente Romolo che per la giovane età fu soprannominato Augustolo (475). L’esercito romano in Italia era formato prevalentemente da elementi barbarici di varia origine: Eruli, Sciri, Turingi. Decisi a insediarsi stabilmente in Italia, i rudi soldati di Oreste pretesero insistentemente un terzo delle terre. Al rifiuto del generale si ribellarono e nominarono loro capo Odoacre che promise ad essi quanto era stato loro negato. Oreste fuggì a Pavia inseguito da Odoacre; la città fu presa e messa al sacco, ma il generale romano riuscì temporaneamente a scampare. Due giorni dopo però fu catturato ed ucciso a Piacenza da Odoacre. Il barbaro vittorioso corse a Ravenna, depose l’Augustolo (era il 28 agosto 476) e lo confinò in una villa presso Napoli con un appannaggio perpetuo. Tramontava l’Impero d’Occidente e cominciava la storia d’Italia; finiva l’antichità e si apriva il Medio Evo. Come Oreste prima di lui, il barbaro Odoacre non osò assumere il titolo di imperatore e neanche quello di re; fu soltanto un re di barbari, osserva lo storico Pasquale Villari. Un’ambasceria mandata da Odoacre a Costantinopoli nel 478 portò all’Imperatore Zenone, con le insegne imperiali, un messaggio perentorio: un solo im404

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peratore bastava per l’Oriente e l’Occidente. Quanto a lui, Odoacre, egli poteva governare l’Italia in nome dell’Imperatore col titolo di patrizio romano. La richiesta del barbaro fu accolta; in realtà, però, la sua dipendenza da Costantinopoli fu nominale; di fatto Odoacre governò l’Italia da principe indipendente. Intanto i barbari, in ottemperanza a quanto era stato loro promesso dal capo, si insediarono come ospiti imposti nelle case dei Romani e coltivarono per sé e le loro famiglie un terzo delle terre espropriato ai latifondisti romani. b) Alla morte di papa Simplicio nel 483, Odoacre compì un passo falso. Mirando alla elezione di un papa che gli fosse amico, fece intervenire presso l’assemblea elettiva il Prefetto del Pretorio affinché fosse sanzionato un suo decreto in forza del quale l’elezione sarebbe stata nulla senza la rappresentanza del Re. Questa ingerenza favorì l’elezione del raccomandato, Felice II (483-492). Osserva il Villari: “Se non che egli (Odoacre) non era un Imperatore, ma un re barbaro ed un ariano. Non era quindi sperabile che la Chiesa romana, sempre gelosa delle sue prerogative, avesse mai potuto approvare il suo procedere, che fu infatti principio di gravi scissure”. Le invasioni barbariche in Italia, Milano 1905, pp. 136, 137. L’ingerenza di Odoacre nell’elezione del papa, com’era inevitabile, fece nascere in seno alla Chiesa romana profonda diffidenza e avversione verso di lui. Per di più l’Imperatore Zenone, insospettito dal suo agire da principe indipendente, pensò di sbarazzarsene e con questo fine mise contro di lui altri barbari. Spinse i Rugi, che abitavano al di là del Danubio, a muovere verso le Alpi. Odoacre fu costretto ad affrontarli col suo esercito e li vinse nel Norico (487) catturando il loro re. Ma il figlio di costui sfuggì alla cattura e trovò accoglienza in Pannonia presso gli Ostrogoti che avevano per capo Teodorico degli Amali. c) Nel passato recente la massima parte degli Ostrogoti era rimasta unita agli Unni nella Dacia, ma alla morte di Attila si erano separati e si erano stanziati appunto nella Pannonia. Venuti a patti con l’Imperatore, avevano mandato a Costantinopoli come ostaggio Teodorico, il giovanissimo figlio del loro capo Teodomiro. In Grecia Teodorico ricevette un’educazione militare romana. Nel 472, oramai diciottenne, il giovane ostrogoto tornò nella Pannonia e in un’azione militare contro i Sàrmati dette prova di grande valore. Due anni dopo, morto Teodomiro, gli Ostrogoti lo nominarono loro capo. Più tardi Teodorico prese le parti dell’Imperatore Zenone quando il rivale di costui, Basilisco, tentò di spodestarlo. Avendo vinto grazie all’aiuto del capo ostrogoto, Zenone per riconoscenza lo colmò di onori e lo nominò Patrizio. Il comportamento di Teodorico verso l’Impero fu tuttavia ambiguo: ora rendeva ad esso importanti servigi - ricevendone adeguato compenso - ora si dava a saccheggiare per ottenere di più. Onde Zenone si vide nella necessità di liberarsi in qualche modo di lui. Poiché l’Imperatore non era punto soddisfatto di come andavano le cose in Italia per via della prepotenza di Odoacre, pensò di mandargli contro Teodorico coi suoi Ostrogoti. Teodorico non desiderava altro. Intanto la posizione di Odoacre in Italia si era indebolita a motivo dei contrasti col Papa: il momento per intervenire sembrava propizio. Nell’autunno del 488 gli Ostrogoti ed altre genti germaniche unite a loro, 405

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con Teodorico alla testa, scesero in Italia. Non erano un esercito, ma un popolo intero con i carri e le masserizie, la cui consistenza numerica è valutata dagli storici fra i 200 e i 300 mila individui. Il primo scontro con l’esercito di Odoacre avvenne nell’estate del 489 sull’Isonzo, non lontano da Aquileia. Odoacre, battuto, dovette ritirarsi. Un mese dopo ci fu un’altra battaglia sull’Adige, presso Verona, e Odoacre fu vinto ancora una volta ma il suo avversario dovette subire perdite pesanti dal momento che invece di proseguire verso Roma o Ravenna si rinchiuse in Pavia. Odoacre coi suoi soldati raggiunse Roma, ma la città gli chiuse le porte, e anche le popolazioni italiche gli si mostrarono ostili, in parte a motivo dei suoi contrasti col Papa, in parte a causa delle sue razzie. “E di tutto ciò - dice P.Villari - la Chiesa aveva saputo profittare per eccitare contro di lui le popolazioni, tanto che poco dopo si parlò addirittura d’una generale cospirazione, di una specie di Vespro siciliano organizzato dal clero” (op. cit., pp. 143, 144). Riorganizzate le proprie forze, Odoacre tornò verso il nord per affrontare il rivale. Gli vennero in aiuto i Burgundi, che si misero subito a saccheggiare il paese. In appoggio di Teodorico scesero i Visigoti. Nella battaglia, che si combatté sull’Adda l’11 agosto 490, questi si batterono a fianco degli Ostrogoti e insieme inflissero all’avversario una completa disfatta. Odoacre si rinchiuse in Ravenna. La città resistette tre anni all’assedio degli Ostrogoti. Alla fine dovette cedere. Le trattative per la resa furono concluse il 27 febbraio 493 con l’intermediazione dell’Arcivescovo di Ravenna. “Altra prova anche questa - nota il Villari della straordinaria importanza assunta allora dalla Chiesa, e quindi dal clero in tutti affari di maggiore gravità” (op. cit., pp. 145, 146). Odoacre si arrese ed ebbe salva la vita. Sei giorni dopo Teodorico entrò trionfalmente in Ravenna accolto dall’Arcivescovo e dal clero. Il 15 marzo di quello stesso anno (il 493), Teodorico trafisse a tradimento Odoacre che si era fidato di lui accettando il suo invito ad un banchetto solenne. Così finì il regno di Odoacre che durava da 17 anni. A questo evento concorsero in misura non trascurabile, come si è visto, la Chiesa ed il suo clero.

7. IL DOMINIO OSTROGOTO IN ITALIA L’EPOCA DI GIUSTINIANO FINE DEI REGNI VANDALO E OSTROGOTO a) In Italia, dopo il 493, al predominio di Odoacre subentrò quello di Teodorico, che ebbe tuttavia, almeno dapprincipio, un carattere affatto diverso. Teodorico era venuto in Italia non come re dei Goti, ma come un Patrizio mandato dall’Imperatore quale suo rappresentante. Lo distinguevano da Odoacre il superiore ingegno politico e militare e l’educazione romana ricevuta in Costantinopoli. Ciò non toglie che, come Odoacre, egli ambisse di diventare il vero padrone d’Italia. Subito dopo avere sconfitto Odoacre sull’Adda nel 490, Teodorico 406

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aveva chiesto all’Imperatore di assumere la dignità regia, ma essendo morto Zenone nel 491, Anastasio che gli era succeduto aveva fatto orecchio da mercante. Nel 498, essendo divenuto assai potente, l’Ostrogoto rinnovò la richiesta all’Imperatore e stavolta ottenne le insegne imperiali che Odoacre nel 476 aveva mandato a Costantinopoli, ma non senza limitazioni, la più importante delle quali era che il suo potere non doveva essere affatto indipendente dall’Imperatore. Quello di Teodorico fu in sostanza una sorta di governo militare sotto l’ègida dell’Imperatore: se le armi rimanevano ai Goti, l’amministrazione pubblica continuò ad essere gestita dai Romani. I due popoli, se vissero a lungo l’uno accanto all’altro, non si fusero mai l’uno con l’altro. Tutto sommato, comunque, quello di Teodorico fu un buon governo e buoni furono pure i rapporti con l’Impero e col papa, almeno fino a quando l’intolleranza religiosa dell’Imperatore non venne a turbarli profondamente come si vedrà più avanti. b) In Oriente non si placava la controversia fra Ortodossi e Monofisiti. I primi sostenevano che Maria era madre di Gesù Cristo in quanto uomo soltanto, i secondi affermavano che le nature divina e umana di Gesù erano una sola e medesima cosa. Zenone, dopo che fu rimesso sul trono imperiale dagli Ortodossi nel 477, volle evitare che si riaccendesse la disputa, e con questo intento pubblicò una lettera, nota col nome di Henoticon, con la quale cercò di conciliare le posizioni degli Ortodossi e dei Monofisiti. Papa Simplicio (468-483) condannò senza mezzi termini l’Henoticon e il Patriarca Acacio che pare l’avesse ispirata. Roma non ammise mai simili vie di mezzo, né tollerò l’ingerenza degli imperatori nelle dispute teologiche. Finché durava il dissidio fra il Papa e l’Imperatore, Teodorico poteva governare con relativa tranquillità. Ma una volta composto tale dissidio, le cose si sarebbero messe male anche per lui: egli era pur sempre un ariano e capo di barbari ariani in un paese romano e cattolico. Conscio di questo, Teodorico pensò bene di rafforzare la sua posizione, mantenendo i migliori rapporti possibili col Papa e con l’Imperatore, ma anche stringendo alleanze e vincoli di parentela con i barbari dell’Africa, della Spagna e della Gallia (i Vandali, i Burgundi e i Franchi). Papa Gelasio I (492-496), succeduto a Felice II (483-492) a sua volta successore di Simplicio, condannò l’Henoticon e dichiarò eretico Acacio, minacciando di colpire con la stessa sanzione l’Imperatore se ne avesse diviso le idee. Gelasio scrisse all’Imperatore che la tolleranza degli eretici era “più pericolosa delle devastazioni dei barbari”. Al breve pontificato di Anastasio II (496-498), succeduto a Gelasio, seguì un’elezione assai contrastata del nuovo pontefice. L’assemblea degli elettori era divisa fra Lorenzo, di tendenze moderate, e Simmaco, assai intransigente sull’ortodossia. Fu eletto Simmaco (498-514) ma i contrasti fra le opposte fazioni non si placarono. In questo frangente Teodorico tenne una condotta assai prudente e la pace religiosa in Occidente fu ristabilita. Riguardo all’Henoticon Simmaco scrisse all’Imperatore: “Invano tu credi di poterti elevare contro la potenza di S.Pietro...” (leggi: contro la potenza del Papa). - cfr. P.Villari, op. cit., p. 164. Papa Ormisda 407

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(514-523), succeduto a Simmaco, con altrettanta energia proseguì la lotta contro l’Imperatore. c) Intanto a Costantinopoli ci fu una svolta foriera di grandi mutamenti nell’ambito dei rapporti fra politica e religione dopo che, morto l’Imperatore Anastasio nel 518, salì al trono Giustino. Uomo incolto ma fervente ortodosso, Giustino si fece guidare dal nipote Giustiniano uomo di grande ingegno e ortodosso quanto lui. I monofisiti vennero a trovarsi a mal partito. Scrive il Villari: “Il popolo a Costantinopoli esaltava con grande ardore le dottrine cattoliche, e gli eretici erano perseguitati. Il papa naturalmente ne gioiva” (op. cit., pp. 164, 165). Teodorico, conscio del pericolo che il nuovo corso in Oriente poteva rappresentare per il suo governo in Italia, pensò di farsi promotore di un accordo fra il Papa e l’Imperatore sperando di guadagnarsi il favore dell’uno e dell’altro. L’impresa riuscì ed egli ne trasse un vantaggio immediato: suo genero Eutarico (Teodorico non ebbe figli maschi) fu nominato Console e figlio adottivo dell’Imperatore. “Se non che - nota il Villari - ben presto tutto si volse a danno di Teodorico, il quale, non solo aveva interessi politici assai diversi, ma era ariano, e non poteva andare a lungo d’accordo con un Papa e con un Imperatore che, essendo ambedue ortodossi, dovevano trovarsi, come ben presto si trovarono, uniti contro di lui” (op. cit., p. 165). L’Imperatore Giustino - certo con grande soddisfazione del Papa - cominciò a perseguitare gli Ariani verso il 524. Teodorico dovette reagire perseguitando a sua volta i Cattolici in Italia, anche perché Eutarico era un ariano fanatico e intollerante. L’urto col Papa fu inevitabile e ne seguì lo scontento delle popolazioni italiche. “Tutto questo - dice il Villari - finì coll’irritare assai Teodorico, il quale vedeva a un tratto minacciato di rovina l’edificio con sì gran cura innalzato... A poco a poco parve che andasse in lui scomparendo ogni traccia di romanità; egli tornò a essere il feroce barbaro d’una volta...” (op. cit., pp. 166, 167). Papa Giovanni I, succeduto a Ormisda nel 523, non nascose la sua soddisfazione per la persecuzione degli Ariani in Oriente, e questo eccitò al massimo la collera di Teodorico. Il Re goto costrinse il papa a intercedere presso l’Imperatore in favore degli Ariani. E quando Giovanni I tornò da Costantinopoli senza avere ottenuto quanto il re ostrogoto aveva domandato (era, del resto, quello che Giovanni si era augurato), questi lo imprigionò. Giovanni I morì in prigione nel 526; Teodorico volle ingerirsi nell’elezione del suo successore (Felice III) e questo sollevò contro di lui grande e generale malcontento. Consapevole della gravità della situazione il Re ostrogoto si preparò febbrilmente per la guerra, ma la morte lo colse all’età di 72 anni il 30 agosto 526. Aveva regnato sull’Italia esattamente 33 anni. d) Alla morte di Teodorico, la figlia Amalasunta era già vedova per la morte prematura del marito Eutarico. Il figlio di lei, Atalarico, aveva intorno a 10 anni. Intanto, a Costantinopoli, l’anno seguente (il 527) l’Imperatore Giustino associava al trono il nipote Giustiniano che quattro mesi dopo rimase il solo impera408

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tore per la morte dello zio. Giustiniano riconobbe la successione di Atalarico e la reggenza di sua madre. Amalasunta, incline a una politica mite e conciliatrice, volle che suo figlio ricevesse un’educazione romana, ma di fronte alla fiera opposizione della sua gente si vide costretta ad affidarlo ai capi militari ostrogoti. Atalarico morì prematuramente nel 534. Secondo le consuetudini dei Goti, la successione spettava a Teodato, un nipote del defunto Teodorico per parte di sorella. A lui si rivolse dunque Amalasunta. Ma Teodato non tollerò di essere il secondo nel governo, perciò l’anno seguente confinò la zia presso il lago di Bolsena dove poi venne assassinata. Come vedremo più avanti, fu un buon pretesto per Giustiniano per mettere in atto il proposito che meditava da tempo di cacciare i Goti dall’Italia. e) Giustiniano fu tra i più illustri e fortunati imperatori d’Oriente. Oltretutto ebbe la ventura di avere al suo fianco una donna intelligente e accorta come l’imperatrice Teodora. Seppe anche scegliere gli uomini più adatti a realizzare i suoi ambiziosi progetti. Lo si vide quando pose alla testa dell’esercito imperiale capi abilissimi come Belisario e Narsete, o quando scelse come architetti Isidoro di Mileto e Antemio di Tralles per la costruzione dello splendido tempio di Santa Sofia, o ancora quando affidò a Triboniano il compito di compilare il Corpus Juris Civilis, la grandiosa raccolta di leggi che tanto lustro dette al suo nome. Il Corpus Juris, compilato da varie commissioni di giuristi che lavorarono sotto la presidenza di Triboniano, riuniva in diverse raccolte tutte le fonti del diritto romano e comprendeva anche un manuale pratico, le Institutiones. Fra le suddette raccolte il Codice (Codex Constitutionum) riuniva in 12 libri tutti gli editti imperiali; il Digesto, o Pandette, riassumeva tutti gli scritti classici dei giureconsulti. In 50 libri il Corpus Juris compendiava ben 1000 volumi. L’opera immane, cominciata nel 530, fu portata a termine nel 533. In materia di fede Giustiniano fu ortodosso intransigente. Discuteva volentieri su questioni religiose e ci teneva a essere considerato un teologo. Aborriva l’eresia sotto qualsiasi forma (si intenda per “eresia” ogni deviazione dalla dottrina tradizionale cattolica) e provava repulsione fisica verso gli “eretici”. “Il solo tocco di uno di quei maledetti - soleva dire - è già sozzura”. “Verso la Chiesa osserva lo storico Carl Grinberg - Giustiniano si comportò da degno erede di Costantino”. E ancora: “Il legame indissolubile che a suo tempo era stato teso da Costantino fra il trono e l’altare si era mutato ormai in un dispotismo temporale e spirituale nel contempo, che venne poi definito cesaropapismo. ‘Un solo Stato, una sola legge, una sola Chiesa’, era l’inflessibile canone di governo di Giustiniano” (Storia Universale, vol. 3, pp. 552, 553). f) Non desta affatto meraviglia che in un’epoca in cui sulle questioni religiose regnava ormai una completa identità di vedute fra l’Imperatore e il papa, Giustiniano, nel 533, scrivesse a Papa Giovanni II (532-535) la famosa lettera di cui riportiamo di seguito i passi più significativi: “Giustiniano, vittorioso, pio, beato, illustre, trionfante, sempre augusto; a Giovanni, patriarca e santissimo Arcivescovo della città di Roma: ‘Poiché ab409

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biamo sempre cercato di mantenere le sante chiese di Dio nello stato in cui sono oggi, ovvero nella pace e libere da ogni contrarietà, abbiamo invitato tutto il clero dell’Oriente ad unirsi e a sottomettersi alla Vostra Santità... Voi che siete il Capo della Chiesa... Noi domandiamo dunque... che Vostra Santità approvi tutti coloro che credono a quanto abbiamo sopra esposto e condanni la perfidia di quanti giudaicamente hanno osato negare la fede legittima... Che la Divinità, o santo e religiosissimo Padre, Vi conceda lunga vita” (da Jean Vuilleumier, L’Apocalypse..., p. 231). Nella stessa lettera Giustiniano conferma legalmente il vescovo di Roma “capo di tutte le sante chiese” e “capo di tutti i santi ministri di Dio”. In una seconda lettera si complimenta col Papa per la sua solerzia nel “correggere” gli “eretici” (vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 827). Le due lettere furono incorporate nel Codex del Corpus Juris (libro I, titolo primo) con piena forza di editti imperiali. Ed ecco i brani salienti della lettera con cui Giovanni I rispose all’Imperatore l’anno seguente (534): “Giovanni, vescovo di Roma, al nostro illustrissimo e clementissimo figlio Augusto Giustiniano: al di là degli elogi meritati che si possono rivolgere alla vostra saggezza e alla vostra dolcezza, voi, il più cristiano fra i principi, vi siete ancora distinto come un astro luminoso per l’amore della fede e della carità. Istruito nella disciplina ecclesiastica, voi avete mantenuto la preminenza della sede romana; le avete sottoposto ogni cosa e avete ripristinato l’unità della Chiesa... la pace della Chiesa, l’unità della religione si levino e mantengano la pace di colui che ne è l’artefice... Abbiamo saputo da costoro (Hippazio e Demetrio) che avete pubblicato un editto rivolto ai vostri popoli fedeli, dettato dall’amore e dalla fede e mirato a distruggere gli eretici conforme alla dottrina apostolica, e confermato dai nostri colleghi e i nostri fratelli i vescovi. Noi lo confermiamo con la nostra autorità essendo conforme alla dottrina apostolica” (da J.Vuilleumier, ibidem). g) Fra gli obiettivi politici di Giustiniano primeggiò il proposito di restaurare l’unità dell’Impero e restituirgli l’antico splendore. Per prima cosa bisognava riconquistare l’Italia liberandola dal dominio dei barbari. E per avere le spalle coperte era necessario cominciare dall’Africa. Le lotte interne e i disordini che travagliavano il regno dei Vandali offrirono a Giustiniano il pretesto per intervenire militarmente. Nel 523 era succeduto a Trasamondo sul trono dei vandali il cugino Ilderico, nipote per parte di madre dell’Imperatore Valentiniano III. Ilderico non nascondeva le sue simpatie romane e cattoliche, e questo suscitò fra i barbari ariani un forte risentimento contro di lui che presto sfociò in rivolta aperta. La sollevazione fu domata e Amalafrida, la vedova di Trasamondo e sorella di Teodorico che l’aveva fomentata venne imprigionata e poi assassinata. Questo fatto suscitò negli Ostrogoti d’Italia grandissimo sdegno verso i Vandali, cosa che tornò a tutto vantaggio di Giustiniano. Nel 531 i Vandali deposero Ilderico e misero sul trono Gelimero, uomo bellicoso e di tutt’altri sentimenti. Giustiniano intervenne col pretesto di difendere il 410

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diritto legittimo e i sentimenti romani e cattolici del deposto Ilderico. Una grande flotta salpò da Costantinopoli nel 533 e dopo una sosta a Catania sbarcò in Africa, a 9 giorni di marcia da Cartagine, un esercito di 10.000 fanti e 5.000 cavalieri, tutti agli ordini del valoroso generale Belisario. “Belisario - dice P.Villari - si presentò in Africa non come un conquistatore, ma come un liberatore dei cattolici, dei Romani, del clero e dei proprietari, tutti ugualmente oppressi dai Vandali, eretici, stranieri e barbari” (op. cit., p. 184). La prima battaglia, il 13 settembre 533, fu vinta dagli imperiali nonostante la loro inferiorità numerica. Due giorni dopo Belisario entrava trionfalmente a Cartagine. Ritiratosi in Numidia, Gelimero contrattaccò poco tempo dopo ma perse anche stavolta. L’anno seguente si arrese e fu trattato da Belisario con umanità. “Il risultato più notevole di questa guerra - osserva il Villari - fu che i vandali, dopo avere portato tanto terrore, tante rovine nell’Impero, scomparvero affatto dalla storia, senza che più se ne sentisse parlare” (op. cit., p. 185). Molti vandali furono deportati, altri incorporati nell’esercito bizantino; quelli che rimasero in Africa ebbero confiscati i beni, furono cacciati dalle loro chiese, imprigionati o resi schiavi. Quando Belisario fece ritorno a Costantinopoli fra le spoglie che furono fatte sfilare dietro i prigionieri figuravano gli arredi del tempio di Gerusalemme che Tito aveva portato a Roma nel 70 e Genserico da Roma aveva portato Cartagine nel 455. h) L’assassinio di Amalasunta nel 535 offrì a Giustiniano l’occasione per intervenire in Italia dato che egli aveva preso sotto la sua protezione la regina ostrogota. Nel 535 Belisario sbarcò in Sicilia con un esercito di 7.500 uomini e in 7 mesi l’isola fu riconquistata all’Impero. Come in Africa, il generale bizantino si presentò anche alle genti italiche quale liberatore dalla tirannia dei barbari e dalla persecuzione ariana, sicché ebbe subito il favore e la cooperazione dei Romani. Un suo imprevisto e rapido ritorno in Africa per sedare una rivolta non compromise l’esito della guerra in Italia. Gli imperiali avanzarono in Italia senza quasi incontrare resistenza: Napoli soltanto tenne duro, ma essendo alcuni uomini di Belisario penetrati nella città attraverso gli acquedotti e avendone aperte le porte, essa fu presa senza colpo ferire. In tutto questo tempo Teodato non si mosse. La sua gente, al colmo dell’indignazione, lo depose ed elesse in sua vece Vitige, uomo di tutt’altra tempra. Lasciata in Roma una modesta guarnigione, Vitige si ritirò in Ravenna per radunare le sue forze. Venne a patti coi Franchi, che Giustiniano aveva cercato di muovergli contro, cedendo ad essi la Gallia Narbonese. Fra il 9 e il 10 dicembre 536 Belisario entrava in Roma per una delle sue porte mentre da un’altra usciva la piccola guarnigione dei goti. Roma tornava all’Impero dopo un sessantennio di dominio barbarico. Nel 537 Vitige mosse da Ravenna alla volta di Roma con un esercito di 150.000 uomini. Belisario, che vi aveva lasciato una piccola guarnigione, corse in aiuto della città. Con un assalto veemente gli imperiali fecero retrocedere i goti, ma poi essi stessi dovettero retrocedere fin sotto le mura di Roma. Era già buio e le porte restarono chiuse per timore che con gli amici entrassero anche i nemici. 411

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Belisario allora, raccolti intorno a sé i suoi, sferrò un assalto talmente impetuoso che i goti, credendo che gli imperiali avessero ricevuto rinforzi, si ritirarono. Così Belisario poté entrare nella città alla testa dei suoi. I goti tornarono e circondarono Roma (erano i primi di maggio 537). Reiterati assalti di Vitige furono respinti dai difensori. In uno di questi attacchi gli imperiali gettarono sui goti che si erano ammassati sotto il mausoleo di Adriano (oggi Castel Sant’Angelo) finanche le statue che divelsero dal monumento, facendo strage di nemici sì che i goti dovettero desistere dal proseguire l’assalto. Nella città assediata intanto la situazione si faceva sempre più drammatica per la mancanza di cibo. Belisario vi rimediò in qualche modo: distogliendo gli assedianti da un settore delle mura con finti attacchi in altri settori, poté fare entrare nella città rinforzi e vettovaglie, e questo a diverse riprese. In una di queste occasioni entrò in Roma Antonina, l’energica moglie del generale bizantino. Pare che fosse venuta anche per dare attuazione alla volontà dell’Imperatrice Teodora di deporre papa Silverio a lei inviso e fare leggere in sua vece il diacono Vigilio, incline a favorire i Monofisiti che l’Imperatrice aveva preso sotto la sua protezione. Belisario depose Silverio con l’accusa di volere consegnare la città ai goti e fece eleggere Vigilio (537). Silverio morì esule nell’isola di Palmarola, presso Ponza il 21 giugno 538. Frattanto fra i goti schierati sotto le mura di Roma si manifestavano segni di stanchezza per il lungo e vano assedio. Vitige avanzò proposte di pace, ma Belisario le respinse. Allora chiese e ottenne una tregua di tre mesi, che gli imperiali sfruttarono a loro vantaggio. Vitige tentò un colpo di mano per entrare nella città, ma venne respinto. Inoltre un corpo di spedizione bizantino agli ordini del capitano Giovanni si dette a devastare il Piceno abitato dai goti e prese Rimini costringendo la guarnigione ostrogota a rinchiudersi in Ravenna. Giovanni poi si avviò verso Roma per prendere alle spalle gli assedianti. Sgomenti per i rovesci subiti e per l’avanzare degli imperiali dal nord, i goti infine tolsero l’assedio e si ritirarono. Era il 12 marzo 538. I barbari erano stati sconfitti e i romani poterono celebrare la vittoria. “Belisario scriveva a Costantinopoli che era veramente un miracolo l’aver potuto con un esercito di 5.000 uomini resistere vittoriosamente a 150.000” (Villari). I bizantini non dettero tregua ai goti in ritirata. Li assalirono mentre attraversavano il Tevere creando grande scompiglio tra le loro file sì che molti morirono affogati. Al Passo del Furlo, sugli Appennini, li impegnarono ancora in combattimento e li vinsero. I superstiti disertarono e si unirono ai vincitori. L’esercito di Vitige si assottigliò del continuo, e sebbene i goti occupassero ancora numerose città nell’Italia centrale, il loro potere andò declinando. Ridotti a doversi difendere dagli attacchi continui dei bizantini, non furono più in grado di spadroneggiare quasi incontrastati in Italia come ai tempi di Teodorico, per quanto in seguito riuscissero ancora a cogliere qualche sporadico successo militare. La fase più incisiva del loro dominio in Italia era finita con la sconfitta sotto le mura di Roma il 12 marzo 538. i) Le operazioni militari dei Bizantini nell’Italia centrale sarebbero proseguite con più celerità se l’Imperatore non avesse tolto a Belisario l’unità di co412

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mando. Geloso per i successi del generale, Giustiniano nel 539 spedì in Italia Narsete con l’incarico di dividere il comando con Belisario. Vitige approfittò della discordia fra i due generali per rialzare la testa. Rafforzò le sue posizioni in Liguria e fece occupare e radere al suolo Milano i cui 300.000 abitanti furono trucidati. Intanto Teudiberto re dei Franchi faceva scendere in Italia in aiuto degli Ostrogoti 10.000 Burgundi che si dettero a razziare il paese. Giustiniano, conscio delle conseguenze disastrose della sua decisione, richiamò a Costantinopoli Narsete e l’unità di comandò in Italia fu ripristinata. Ma i guai non erano finiti per i romani. Centomila franchi scesero dalle Alpi con alla testa il loro re Teudiberto, con l’apparente intenzione di venire in aiuto dei goti. In realtà gli invasori si dettero a saccheggiare Pavia, quindi si gettarono addosso ai goti stessi che si videro obbligati a ritirarsi in Ravenna. Anche gli imperiali si ritirarono verso le Marche dove Belisario assediava Osimo. Per buona ventura dei romani una tremenda epidemia diffusasi tra i franchi fece tale strage di barbari che i superstiti si ritirarono al di là delle Alpi (539). Gli imperiali allora posero l’assedio alla capitale dei goti mentre da ogni parte aumentavano le loro diserzioni. Nella primavera del 540 Belisario alla testa dei suoi soldati entrò in Ravenna che da quel momento divenne bizantina e tale rimase per 212 anni, cioè finchè i Longobardi non la tolsero ai Bizantini nel 752. Se il 538 vide la liberazione di Roma dalla morsa in cui l’avevano stretta gli ostrogoti, in quell’anno si videro pure le conseguenze catastrofiche della lunga guerra tra i bizantini e i goti. Quattro anni di lotte continue avevavno ridotto l’Italia in uno stato di desolazione al di là di ogni immaginazione. Da due anni i campi erano in uno stato di completo abbandono. In Toscana gli abitanti fuggirono ai monti e si nutrirono di ghiande. Nel Piceno 50.000 contadini morirono di stenti. I corpi di quegli sventurati erano ridotti in tale stato che dopo la morte gli uccelli predatori rifiutarono di cibarsene. Gli anni che seguirono il 538 furono segnati non solo da indicibili calamità, ma anche da un risveglio del sentimento religioso. In quegli anni nell’Occidente si diffuse straordinariamente il monachesimo. Nel 539 Cassiodoro fondò a Vivarium, presso Squillace (in Calabria) un monastero che divenne un centro di cultura oltre che di vita mistica, sul modello del monastero di Montecassino fondato da Bendetto Da Norcia dieci anni prima. l) Nel 540 Belisario tornò a Costantinopoli alla testa dei suoi soldati: portava con sé il tesoro dei Goti e lo stesso Vitige fra altri prigionieri. La gelosia di Giustiniano però lo relegò sempre di più nell’ombra. Partito Belisario, le sorti dei goti in Italia cominciarono a risollevarsi. Ildibaldo riuscì a impadronirsi di buona parte dell’Italia del nord, ma nel 541 venne ucciso. I goti allora elessero a loro capo Totila, uno dei più valorosi capitani ostrogoti, dotato anche di non comune capacità strategica e politica. Mentre i bizantini per sostentarsi spogliavano le popolazioni e favorivano i latifondisti, suscitando sdegno fra il popolo, Totila al contrario lasciava in pace il popolo e appesantiva la mano sui latifondisti: “s’impadroniva delle loro rendite dice il Villari - e anche di quelle della Chiesa, che era già fin da allora uno dei 413

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principali latifondisti, e che perciò fu a lui doppiamente avversa, essendo i goti di religione ariana” (op. cit., p. 219). Con soli 5.000 uomini Totila battè al di là del Po l’esercito bizantino forte di 12.000 uomini e marciò verso l’Italia centrale e meridionale. Nel 543 occupò Napoli e si affrettò ad assediare Roma. L’anno seguente Giustiniano rimandò in Italia Belisario che però non aveva più né l’energia né gli uomini di una volta. Il generale andò a Ravenna con la vana speranza di raccogliere uomini per rafforzare il suo esercito. Frattanto Totila occupò diverse città nell’Italia centrale tagliando le comunicazioni fra città nell’Italia centrale tagliando le comunicazioni fra Roma e Ravenna; quindi pose l’assedio alla “Città eterna”. Giovanni assalì i goti sparsi nell’Italia meridionale occupando la regione, mentre Belisario, in marcia verso Roma, avendo avuto sentore di una grave disfatta dei Bizantini presso Ostia, si perse d’animo e desistette dal proseguire. Così i goti il 17 dicembre 546 entrarono in Roma mentre la guarnigione bizantina e una gran parte dei cittadini l’abbandonavano in preda al panico. Totila poteva dire ai suoi che se all’inizio della guerra 200.000 goti erano stati battuti da 7.000 bizantini, adesso 20.000 Bizantini erano stati vinti “dai deboli e disprezzati avanzi dei goti”. L’Ostrogoto vittorioso fece pervenire a Costantinopoli proposte di pace minacciando la distruzione di Roma se fossero state respinte. Giustiniano non rispose lasciando che decidessero le armi. Totila, costretto a marciare verso il sud per togliere ai bizantini le terre che essi occupavano, e non avendo abbastanza uomini per lasciare in Roma una guarnigione sufficiente, decise di radere al suolo la città. I goti già demolivano le mura quando giunse una lettera di Belisario che impressionò profondamente il barbaro. “Non sai tu - gli scriveva il generale bizantino - che le ingiustizie fatte a Roma sono ingiustizie ai trapassati, ai posteri, sono una vera profanazione ? Vuoi tu rimanere nella storia come il distruttore piuttosto che come il preservarore della più grande e magnifica città del mondo ?” Era ancora tale il fascino che la “Città eterna” esercitava sui barbari che il distruggerla dovette apparire agli occhi dei goti un delitto imperdonabile. Totila smise di demolire e partì per il sud, non senza avere prima ordinato a tutti gli abitanti di abbandonare la città. Roma rimase deserta e desolata per qualche tempo, finchè Belisario non la ebbe rioccupata. Avutane notizia Totila fece dietro front e marciò in fretta verso Roma: tre volte sferrò l’assalto, sempre respinto dagli imperiali; infine si ritirò a Tivoli. Era l’anno 547. Ora i bizantini erano in possesso delle due capitali, Roma e Ravenna. Due anni dopo Belisario, abbandonato dall’Imperatore, dovette far ritorno a Costantinopoli e quivi, dopo essersi ancora distinto combattendo contro gli Unni, morì nel 565. Nel 551 Giustiniano affidò a Narsete l’incarico di proseguire la guerra contro gli Ostrogoti in Italia. Con un esercito formato da bizantini, traci, illirici e persino barbari (longobardi, eruli, gepidi e unni) Narsete percorse la Dalmazia, entrò in Italia da est e giunse senza difficoltà a Ravenna. Da lì, varcato l’Appennino, penetrò nell’Umbria e presso Todino (oggi Gualdo Tadino) impegnò in battaglia i goti e inflisse loro una severa sconfitta. Totila, che accorse da presso 414

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Roma, rimase ucciso in combattimento (552). I goti sconfitti si raccolsero a Pavia e ivi elessero loro re Teja che si era distinto combattendo valorosamente contro i bizantini. Intanto Narsete, giunto sotto le mura di Roma occupata dai goti, con uno stratagemma si impadronì rapidamente della città costringendo i barbari alla fuga o alla resa. Teja attraversò l’Appennino per congiungersi con i goti del Sud, ma Narsete lo raggiunse a Nocera, presso Napoli, e lo costrinse ad accettare battaglia. I goti combatterono disperatamente ma furono sopraffatti dai bizantini. Teja rimase ucciso con molti dei suoi, i superstiti si arresero. Era l’anno 553. Molti Ostrogoti riattraversarono le Alpi e tornarono ai luoghi d’origine, altri si sparsero per l’Italia e si confusero con le popolazioni indigene, altri ancora si rinchiusero in varie città fortificate e alla fine si arresero. “Così - scrive il Villari - ebbe fine la guerra greco-gota, durata vent’anni, che ridusse l’Italia all’estrema rovina. Il regno degli Ostrogoti , durato sessantaquattro anni, fu distrutto per sempre, ed essi, come popolo, scomparvero affatto al pari dei Vandali, quasi un esercito di ventura che si fosse disciolto” (op. cit., p. 246). m) Giustiniano in vecchiaia si dedicò più ai problemi religiosi che alla conduzione dello Stato. L’interesse per le questioni teologiche che lo aveva sempre contraddistinto divenne quasi una mania religiosa che lo distolse dalle cure temporali. “Aveva l’ambizione di essere il sostenitore della vera fede, il restauratore dell’unità non solo dell’Impero, ma anche della Chiesa” (P.Villari). Avvenne che nelle dottrine di tre vescovi orientali che il IV Concilio di Caledonia nel 451 aveva approvato, furono scoperte tracce di eresia. I tre punti controversi (i Tre Capitoli) attrassero l’attenzione di Giustiniano che volle avere la gloria di correggerli. Così anatemizzò i Tre Capitoli e invitò i Monofisiti, ancora numerosi in Oriente, ad aderire alla vera dottrina da lui esposta. La sua iniziativa non ebbe favorevole accoglienza presso i Monofisiti e suscitò fiera opposizione contro di lui in Occidente, dove il suo decreto fu visto come un’offesa all’autorità del Concilio e del Pontefice stesso. Vigilio, fatto venire a Costantinopoli, cedette alle pressioni di Giustiniano e condannò i Tre Capitoli (548) suscitando un vespaio in Occidente. Impressionato, mutò atteggiamento e si mise contro l’Imperatore, ma alla fine, nel 554, stanco e malato, cedette ancora e rinnovò la condanna dei Tre Capitoli. “Pur tali erano allora la potenza della Chiesa e l’autorità dei Papi - osserva il Villari - che anche in questi anni di debolezza e di patite violenze, si ottennero per essa dall’Impero nuove e notevoli concessioni” (op. cit., p. 234). Nel 554 Giustiniano, su istanza di Papa Vigilio, pubblicò la Prammatica Sanzione che estendeva all’Italia la legislazione imperiale (Corpus Juris Civilis). La Prammatica Sanzione “accrebbe il potere temporale dei Vescovi concedendo loro il protettorato sul popolo, la giurisdizione civile ordinaria sul clero e la vigilanza sui magistrati” (Enciclopedia Universale De Agostini, p. 963). Nota ancora il Villari: “Di certo tutte queste concessioni erano fatte ai Vescovi come ufficiali dipendenti dall’Impero. Ma la Chiesa le accettava senza discutere, e quando l’autorità dell’Impero cominciò a decadere, ed essa poté sem415

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pre più affermare la propria indipendenza spirituale, una eguale indipendenza si estese naturalmente anche all’esercizio di quelle temporali che, senza riflettere alle inevitabili conseguenze, le erano state concesse. L’Impero aveva dato alla Chiesa le armi con le quali essa doveva poi combatterlo” (op. cit., pp. 234, 235). Giustiniano, l’artefice di grandi realizzazioni, ma anche il responsabile di scelte e decisioni che, specie in Italia, ebbero gravi conseguenze, morì ottantatreenne nel 565.

8. I REGNI DEI LONGOBARDI E DEI FRANCHI IL PAPATO TRA L’IMPERO E I LONGOBARDI E TRA I LONGOBARDI E I FRANCHI a) Nel 568 - tre anni dopo la morte di Giustiniano - i Longobardi, dopo varie migrazioni, dalla Pannonia varcarono le Alpi sotto la guida del re Alboino e dilagarono nella pianura padana. Conquistata Milano nel 569, assediarono Pavia che cadde nelle loro mani tre anni dopo (la città divenne poi capitale del regno longobardo). Nel 572 Alboino perì per mano della moglie Rosmunda e l’anno seguente i Longobardi elessero loro re Clefi, duca di Bergamo. Intanto l’esercito, forte di 35.000 uomini, proseguì la conquista progressiva della penisola, terminata la quale rimasero ai Bizantini soltanto la Liguria, la Pentapoli (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona), l’Esarcato (che comprendeva, oltre a Ravenna, Ferrara, Bologna e Adria), i ducati di Roma e di Napoli, la Puglia e la Calabria. Nei territori conquistati i Longobardi crearono numerosi ducati che di più in più tesero all’autonomia (dopo il 650 erano quasi indipendenti i ducati di Trento, Tuscia, Spoleto e Benevento). Alla morte di Clefi avvenuta nel 575 seguì un decennio di eclisse del potere centrale, avendo i duchi evitato di eleggere un successore per rafforzare la loro autonomia. La minaccia dei Bizantini, che si erano frattanto alleati coi Franchi, li indusse nel 585 a ripristinare il potere centrale con l’elevazione al trono di Autari, figlio di Clefi. Autari aveva sposato la cattolica Teodolinda, figlia del duca di Baviera legato ai Franchi. Autari è riconosciuto dagli storici come uno dei principali fondatori del regno dei Longobardi. Ad Autari, morto nel 590, succedette Agigulfo, duca di Torino, che sposò la sua vedova. Sovrano valoroso e prudente, Agigulfo subì la volontà del Pontefice esercitata per mezzo della moglie Teodolinda. Col concorso di papa Gregorio I Magno (590-604) Teodolinda ottenne la conversione al cattolicesimo della corte e di gran parte dei Longobardi. Ad Autari, morto nel 590, succedette Agigulfo, duca di Torino, che sposò la sua vedova. Sovrano valoroso e prudente, Agigulfo subì la volontà del Pontefice esercitata per mezzo della moglie Teodolinda. Col concorso di papa Gregorio I Magno (590-604) Teodolinda ottenne la conversione al cattolicesimo della corte e di gran parte dei longobardi. 416

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Alla morte di Agilulfo nel 616, seguì una lunga reggenza della regina Teodolinda, data la giovane età del figlio Adaloaldo. La diffusione del cattolicesimo tra le loro file aveva fatto nascere la discordia fra i Longobardi, e una sollevazione popolare costrinse Adaloaldo, di fede cattolica, a fuggire a Ravenna. Nel 628 morì Teodolinda e il genero di lei, Ariovaldo, assunse la regalità e la mantenne fino alla morte avvenuta 8 anni dopo. La vedova di Ariovaldo, Gundeberga, figlia di Teodolinda, divenne sposa di Rotari, il successore del re defunto. Salito al trono nel 636, Rotari regnò con prudenza e si segnalò per avere dato al suo popolo una legislazione basata fondamentalmente sulle antiche consuetudini giuridiche germaniche (Rotari fu il primo legislatore dei Longobardi). Alla morte di Rotari, avvenuta nel 652, seguì un periodo di disordini e quasi anarchia durante il quale i duchi tentarono di sottrarsi all’autorità regia. In questo sessantennio si succedettero sul trono dei Longobardi undici re, tutti di scarso rilievo. Nel 712 fu elevato al trono Liutprando, figlio di Ansprando, l’ultimo dei re longobardi insignificanti. Con Liutprando il regno longobardo pervenne al massimo splendore. Approfittando della vivace reazione provocata in Italia da un editto dell’Imperatore Leone III Isaurico (717-741) contro il culto delle immagini (lotta iconoclastica), Liutprando nel 726 occupò l’Esarcato e la Pentapoli, sconfisse i duchi di Spoleto e di Benevento che parteggiavano per i Bizantini e si spinse fino al ducato di Roma. Papa Gregorio III (715-731), di fatto signore di Roma, lo convinse a sospendere il conflitto con l’Imperatore e a ritirarsi dal ducato. Venuto a patti col Pontefice, Liutprando nel 728 fece dono al “beato Apostolo San Pietro” (cioè al Papa) del Castello di Sutri che gli storici considerano il primo nucleo del futuro Stato della Chiesa. Alleato del franco Carlo Martello, Liutprando nel 737-738 combatté al suo fianco contro gli Arabi. b) L’unità dei Franchi era stata realizzata da Clodoveo fra il 486 e il 507; con lui era cominciata la dinastia dei Merovingi. La conversione alla fede cattolica aveva procurato a Clodoveo l’appoggio dell’episcopato, allora già assai influente nella Gallia, e questo gli era valso almeno quanto il valore delle armi, se non più, per conseguire i successi politici e militari che dettero lustro al suo nome. Alla conversione di Clodoveo fece seguito quella dei Franchi, la prima nazione germanica che avesse abbracciato la fede cattolica (gli altri gruppi germanici divennero invece ariani via via che si insediarono nei territori dell’ex Impero latino). Morto Clodoveo nel 511, il regno fu spartito fra i suoi quattro figli, l’ultimo dei quali, Clotario, sopravvissuto ai fratelli e ai nipoti, riunì nelle sue mani tutti i domìni paterni. Alla morte di Clotario nel 514, il regno fu di nuovo diviso fra i quattro figli del re defunto. Seguì un periodo di lotte fratricide per la conquista dell’intera eredità di Clodoveo, lotte che terminarono con l’affermazione di un nipote di Clotario, Clotario II (617-629). Il figlio di Clotario II, Dagoberto I (629-639), fu l’ultimo degno successore di Clodoveo sul trono dei Merovingi. Durante il suo governo la dinastia conobbe i tempi più floridi. Con la morte di Dagoberto nel 639 cominciò per la dinastia franca un pe417

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riodo di declino dovuto all’inettitudine dei regnanti che gli succedettero. La storia ha bollato col titolo poco lusinghiero di “re fannulloni” (rois fénéants) gli ultimi dinasti merovingi. Il vuoto di potere in questo periodo sempre più fu occupato dai capi dell’aristocrazia franca che ricoprirono nelle maggiori province del regno l’ufficio di maestri di palazzo o maggiordomi. Dopo il 683 emerse Pipino di Heristal, maestro di palazzo di Neustria, una delle grandi province del regno franco. Sebbene Pipino riconoscesse in teoria il diritto dinastico dei re merovingi, di fatto si fece padrone di tutto il regno. Alla morte di Pipino di Heristal, avvenuta nel 714, dopo un periodo di disordini e lotte per la successione, l’eredità fu raccolta dal figlio naturale di lui, Carlo Martello. Noto alla storia per avere favorito il nascere del Feudalesimo in seno all’aristocrazia franca, Carlo Martello fu soprattutto un valoroso uomo d’armi. Condusse una serie di fortunate operazioni militari, fra le quali rimase celebre nella storia la vittoriosa battaglia di Poitiers nel 732 che arrestò l’avanzata degli Arabi verso il cuore dell’Europa. A Carlo Martello si appellò papa Gregorio III nel 739 sollecitandone l’aiuto per far fronte alle minacce del longobardo Liutprando. Ma l’appello del Pontefice in quel frangente non fu raccolto dal re franco che aveva bisogno dell’alleato longobardo nella lotta contro gli Arabi (vedi sopra). Alla morte di Carlo Martello nel 741 i due figli di lui, Carlomanno e Pipino detto il Breve, ereditarono ambedue il titolo e i poteri di maggiordomo d’Austrasia, un’altra grande provincia del regno franco. Nel 747 Carlomanno lasciò il potere e abbracciò la vita monastica, sì che Pipino rimase il solo maestro di palazzo dell’Austrasia. Nel 751 Pipino il Breve chiese e ottenne da papa Zaccaria (741752) prima l’assenso alla deposizione di Childerico III, ultimo rappresentante della dinastia merovingia, poi l’incoronazione come re dei Franchi. Il Pontefice nel 754 incoronò Pipino e consacrò lui e la sua famiglia facendo in pratica dei suoi discendenti gli eredi al trono dei Franchi e sanzionando di fatto una flagrante usurpazione. c) Intanto in Italia Liutprando era venuto di nuovo a diverbio col papa e nel 742 aveva occupato Roma. Morì poi a Pavia due anni dopo. Gli succedette il figlio Ildebrando, subito deposto per inettitudine e sostituito con Rachis, duca del Friuli. Dopo 5 anni di regno, sopraffatto nella contesa col Papa, Rachis si ritirò nel monastero di Montecassino e in sua vece fu elevato al trono il fratello di lui, Astolfo (749-756). Astolfo riprese la lotta col papato per il possesso del ducato e della città di Roma. Nel 752, dopo avere occupato Ravenna ponendo fine all’Esarcato, Astolfo marciò alla volta di Roma. Papa Stefano II, succeduto a papa Zaccaria in quello stesso anno, ottenne dal Longobardo una pace che questi infranse pochi mesi dopo. Astolfo minacciò di nuovo Roma e il Papa sollecitò l’Imperatore a intervenire in difesa della città e dell’Italia, ma da Costantinopoli non venne alcuna risposta. Stefano II si rivolse allora a Pipino, tanto più che a lui il re franco doveva la sua incoronazione e consacrazione. Il Pontefice, comunque, tentò ancora di indurre Astolfo a restituire all’Im418

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pero le terre che aveva indebitamente occupato, senza però ottenere alcun risultato. In realtà Stefano II mirava a ottenere per la Chiesa quelle terre: “... nei suoi discorsi, nelle sue lettere - dice il Villari - invece di restituzione all’Impero, cominciò a parlare di restituzione a Roma, a S.Pietro, alla Chiesa” (op. cit., p. 374). d) Nell’estate del 754, in risposta all’appello del Papa, Pipino scese in Italia alla testa di un esercito franco, affrontò i Longobardi e inflisse loro una severa sconfitta; Astolfo, da Pavia dove si era rinchiuso, fu costretto a venire a patti col Re dei Franchi. Il Longobardo s’impegnò a cedere Ravenna e le altre terre occupate. “Le terre così ottenute vennero da Pipino cedute al Papa, che ormai senza più esitare cercava di sostituirsi in Italia all’Impero” (P.Villari, op. cit., p. 379). Partito Pipino col suo esercito però Astolfo non mantenne gli impegni assunti, anzi, alla fine del 755, marciò ancora alla volta di Roma. Papa Stefano si appellò di nuovo a Pipino e questi nella primavera del 756 venne per la seconda volta in Italia alla testa dell’esercito franco: Astolfo abbandonò subito l’assedio di Roma e si rinchiuse ancora a Pavia. I Franchi batterono l’esercito longobardo che Astolfo aveva mandato contro di loro e assediarono Pavia che in breve si arrese. Stavolta le condizioni imposte dal vincitore furono assai più dure: pagamento di un’indennità di guerra e di un tributo annuo, consegna di un maggior numero di città e di nuovi ostaggi. I Franchi presero in consegna le città le cui chiavi “furono in Roma consegnate al Papa insieme con l’atto di donazione a S.Pietro, alla Santa Repubblica romana, e a tutti i successivi pontefici” (P.Villari, op. cit., p. 380). e) Pochi mesi dopo Astolfo morì. Suo fratello Rachis uscì dal monastero per rioccupare il trono, ma Desiderio, duca di Toscana, con generose promesse fatte al Papa ebbe la meglio. Il Pontefice scrisse a Pipino esaltando i meriti di Desiderio e le promesse da lui fatte alla Chiesa. “Si trattava adesso, diceva il Papa, di condurre a compimento la bene incominciata impresa, facendo restituire a S.Pietro e alla Chiesa anche le terre che prima di Astolfo avevano fatto parte dell’Esarcato e della Pentapoli...” (ibidem, p. 381). “È chiaro - osserva ancora il Villari - che ora non si tratta più della pura e semplice attuazione delle antiche promesse, più o meno generiche, fatte da Pipino, ma di nuove domande e sempre meglio determinate. Il Papa chiedeva l’Esarcato e la Pentapoli nella loro primitiva e assai più vasta estensione; chiedeva inoltre le terre, le proprietà della Chiesa, sparse altrove, che erano state indebitamente occupate dai Longobardi o dai Bizantini” (op. cit., p. 382). Desiderio però non mantenne tutte le promesse; doveva ancora trascorrere del tempo prima che le aspirazioni territoriali dei papi si attuassero pienamente. Intanto “la donazione di Pipino rendeva il capo della Chiesa sovrano temporale” (op. cit., p. 382). Pipino il Breve morì nel 768; quanto a Desiderio, egli fu vinto e destituito nel 774 da Carlomagno, figlio e successore unico di Pipino il Breve dopo la morte del fratello Carlomanno. Con Desiderio tramontò il regno dei Longobardi in Italia. Era durato 202 anni. 419

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9. ASCESA E DECLINO DEL PAPATO a) Fu attraverso un processo graduale, avviatosi assai presto nella storia della Chiesa, che si affermò la supremazia di Roma rispetto alle altre sedi della cristianità. I primi segni della tendenza di Roma a imporsi quale centro del mondo cristiano sono rintracciabili già nel II secolo. Ireneo (c.ca 140-200) e Tertulliano (c.ca 155-225) sostennero l’autorità di Roma come città apostolica. Nel III secolo Cipriano (205-258) attribuì all’apostolo Pietro la fondazione della chiesa di Roma ed espresse l’opinione che pertanto il vescovo di questa chiesa dovesse essere onorato al di sopra di tutti gli altri vescovi e che i suoi punti di vista e le sue decisioni dovessero prevalere su quelle degli altri dignitari della Chiesa. Nel IV secolo dapprima si pervenne a un’equiparazione delle sedi patriarcali (Gerusalemme, Antiochia, Alessandria e Roma [Concilio di Nicea, 325]); poi la sede romana col favore dell’Imperatore Costantino acquistò una posizione preminente fra le altre sedi primarie della cristianità. Da questo momento la Chiesa, se da un lato fu liberata dalle persecuzioni, dall’altro venne a trovarsi sotto la pesante tutela dello Stato. Scrive lo storico Carl Grinberg: “Lo Stato mantenne l’unità della Chiesa e la protesse contro le persecuzioni, ma per contro l’autorità temporale si permise di alienare la primitiva libertà della Chiesa. Costantino faceva pesare la sua autorità nelle questioni religiose non meno che negli affari temporali” (Storia Universale, vol. 3, p. 282). Dal canto suo, la Chiesa cercò di adeguarsi per certi versi alla politica dell’Impero; per esempio prese a modello la riorganizzazione dell’amministrazione politica dell’Impero attuata da Costantino per organizzare la propria amministrazione e la stessa gerarchia ecclesiastica. Intorno al 343 il Sinodo di Sardica pose sotto la giurisdizione di Roma i vescovi metropolitani o arcivescovi. Damaso I (366-384) propugnò l’autorità del vescovo di Roma sulla base della tradizione riguardo all’apostolo Pietro; nacque il concetto di Sede apostolica ed ebbe inizio l’evoluzione dell’ufficio del vescovo di Roma verso il papato. L’Imperatore Teodosio I (347-395) riconobbe il vescovo di Roma custode della vera fede e massima autorità religiosa. Siricio I (vescovo di Roma dal 384 al 399) fece sentire a tutte le chiese il dovere di uniformarsi alla condotta della chiesa di Roma e proibì l’ordinazione dei vescovi senza l’autorizzazione della “Sede apostolica”. Ispirandosi nella forma ai decreti imperiali, Siricio redasse le Costituzioni pontificie (Decretalia constituta) in cui è attestata l’identità del papa e di Pietro (pare che sia stato il primo vescovo di Roma ad assumere il titolo di papa). Innocenzo I (402-417) rivendicò, senza riuscire a ottenerla, la giurisdizione sull’intera cristianità. b) Leone I Magno (440-461) è considerato il fondatore del primato romano. Nel 451 papa Leone protestò contro la dichiarazione del Concilio di Calcedonia 420

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sulla parità dei vescovi d’Oriente e d’Occidente (il Patriarca di Costantinopoli mantenne per un certo tempo la supremazia sui vescovi dell’Oriente). Leone I fu il primo vescovo di Roma ad affermare che il papato discende direttamente dall’apostolo Pietro. Con l’appoggio dell’Impero si pose al di sopra dei concili e avocò a sè il diritto di definire i dogmi della Chiesa e dettare decisioni importanti. Nel 452 papa Leone acquistò grande prestigio per avere dissuaso a Mantova il re degli Unni - il terribile Attila - dal saccheggiare Roma. Leone I si proclamò “primo fra tutti i vescovi” e pretese di esercitare “con piena potestà” la “cura della Chiesa universale” (vedi E.Meynier, Storia dei Papi, Torre Pellice 1932, p. 62). Nel 445, sotto il pontificato di questo papa, l’Imperatore Valentiniano III confermò il primato del Vescovo di Roma sull’Occidente. I vescovi romani furono riconosciuti “vicari di Cristo”. Gelasio I (498-514) sostenne, in una lettera all’Imperatore Anastasio, la subordinazione al Papa dei vescovi e dei sovrani in quanto membri della Chiesa soggetti alla disciplina ecclesiastica. c) La conversione al cattolicesimo di Clodoveo re dei Franchi intorno al 496 (vedi nota 8b), procurò al Pontefice romano un potente alleato. La Francia sarebbe stata d’ora in poi la “figlia primogenita della Chiesa”, una forza secolare sempre pronta a difendere e mantenere l’autorità papale. Papa Simmaco (498-514) stabilì che il Pontefice non può essere giudicato da nessun uomo. L’Imperatore Giustiniano nel 533 scrisse a papa Giovanni II una lettera, incorporata poi nel codice del Corpus Juris Civilis con piena forza di decreto imperiale, nella quale il papa veniva riconosciuto capo della Chiesa universale. In risposta Giovanni II si compiacque con l’Imperatore per avere egli mantenuto la preminenza della Sede romana, ripristinato l’unità della Chiesa, promosso la persecuzione degli “eretici” (vedi nota 7f). Papa Gregorio I Magno (590-604) si definì “Servus servorum Dèi”, da allora in poi titolo ufficiale dei pontefici romani. Gregorio I adattò la dottrina di Agostino alla concreta azione politica del papato. Fondò di fatto il potere temporale dei Papi con l’accentrare i fondi della Chiesa romana e gradualmente divenne in concreto sovrano temporale della città di Roma. Gregorio I si staccò dall’ambiente culturale bizantino e si volse ai popoli barbarici dei quali riconobbe l’importanza (divennero cattolici gli Svevi, i Visigoti e i Longobardi). Papa Vitaliano (657-672) nel 664 rinnovò la rivendicazione di supremazia della sede romana nei confronti della chiesa orientale, supremazia che l’imperatore Giustiniano aveva riconosciuto nel 533 (vedi nota 7e). Nel 751 papa Zaccaria approvò l’usurpazione del trono dei Franchi ad opera di Pipino il Breve e consacrò l’usurpatore re dei Franchi a Soissons dopo avere sciolto i sudditi dal giuramento di fedeltà a Childerico ultimo sovrano merovingio (vedi nota 8d). Stefano II (752-757) si staccò da Costantinopoli e si legò al regno dei Franchi (vedi nota 8c). A seguito delle Donazioni di Pipino nel 756 (vedi nota 8d) 421

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nacque lo Stato della Chiesa. Papa Stefano pretese una sovranità territoriale indipendente, fondando tale rivendicazione su un presunto documento costantiniano (Donatio Constantini) che avrebbe fatto risalire al primo imperatore cristiano l’autonomia di Roma nei confronti dell’Impero con la consegna al Papa di Roma stessa e della parte occidentale dell’Impero. L’umanista e filologo Lorenzo Valla nel 1440 dimostrò con inoppugnabili argomenti filologici la falsità delle cosiddette Donazioni di Costantino. Il giorno di Natale dell’anno 800 papa Leone III pose la corona imperiale sul capo di Carlomagno dichiarandolo “piissimo Augusto, imperatore dei Romani, incoronato da Dio”. I successori di Carlomagno e i sovrani di varie nazioni europee attribuirono alla consacrazione papale valore di conferimento reale della dignità imperiale. d) Fra l’847 e l’852, pontificando Leone IV (847-855), comparvero nella provincia ecclesiastica di Reims, in Francia, le cosiddette Decretali dello pseudo Isidoro, documenti apocrifi miranti a consolidare la posizione preminente dei vescovi rispetto ai sinodi della Chiesa e al potere laico. Sulla base delle Decretali in quel tempo fu anche proclamata la supremazia temporale del Pontefice romano (“Papa caput totius orbis”). Nella seconda metà del secolo IX, declinando la potenza dei Carolingi, papa Nicolò I (858-867), che propugnò il potere temporale della Chiesa, si richiamò alle Decretali dello pseudo Isidoro (vedi sopra) per accentrare in Roma tutta l’organizzazione amministrativa della Chiesa. Nell’875 Carlo il Calvo di Francia ricevette la corona imperiale dalle mani di papa Giovanni VIII (872-881), senza che si fosse tenuto conto dei diritti del fratello maggiore Ludovico il Germanico. Oramai “il papato appariva come l’autorità che poteva disporre della corona e darla a chi riteneva degno e rifiutarla all’indegno” (S.Hellmann, Storia del Medioevo, p. 111). Fra il IX e il X secolo il papato attraversò un periodo di crisi come riflesso dell’indebolirsi dell’autorità regia. Per un ottantennio (882-963) esso fu alla mercé dell’aristocrazia romana le cui potenti famiglie si contesero il soglio pontificio. “Roma dal principio dell’XI secolo si andò sempre più affermando come la suprema istanza d’appello per tutta la Chiesa e vane furono le opposizioni sollevate da Attone (Hatto) e da Aribone di Magonza e contemporaneamente dai vescovi francesi. Da Nicola I in poi, non destò più meraviglia vedere il papa, per quanto corrotto egli potesse essere personalmente, immischiarsi autorevolmente, chiamato o non chiamato, in questioni temporali”. S.Hellmann, op. cit., p. 255. Nell’XI secolo il papato si svincolò dalle influenze della nobiltà romana. Leone IX (1049-1054) promosse una riforma in seno alla Chiesa romana. Venne istituito il Collegio dei Cardinali come autorità ecclesiastica universale. Il conflitto di potere fra il Patriarca di Costantinopoli e papa Leone IX per il primato universale provocò la rottura fra la Chiesa Orientale e la Chiesa Occidentale (1054). Roberto II il Pio, re di Francia (996-1031), figlio di Ugo Capeto, fu dal Papa colpito di anatema per avere contratto un matrimonio non conforme alla legge 422

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canonica. “Il popolo costernato si sottomise con tanta umiltà agli ordini del papa, che il re si vide generalmente abbandonato dai cortigiani e dai domestici... infine dovette cedere... Si vide il re... confessare pubblicamente i suoi errori, dopo avere lottato per tre anni contro gli anatemi”. Baquol-Schnitzler, Atlas historique, vol. II, tav. 65, citato da J.Vuilleumier, ibidem, p. 216. e) Nel 1073 salì sul trono pontificio Gregorio VII, uno dei più grandi pontefici del Medioevo. Già nei primi mesi del suo pontificato si trovò in conflitto col re Filippo I di Francia per l’intervento di costui nell’elezione dei vescovi, e lo minacciò di anatema e di deposizione. Gregorio concepì un progetto che mise in luce le mire del papato in questo scorcio dell’XI secolo: “affidare alla Chiesa la completa direzione della società umana”. Scrive lo storico S.Hellmann: “Poiché la politica papale mirava a un dominio universale, Gregorio VII non si è contentato di liberare la Chiesa dallo stato e di subordinarlo più strettamente al papato; egli vagheggiò uno stato mondiale teocratico sotto la direzione del sommo sacerdote della chiesa cristiana” (op. cit., pp. 261-262). Nel 1074 l’energico pontefice progettò di muovere in aiuto dei cristiani orientali alla testa di un esercito di cavalieri come Pontifex e Dux. Nel 1075 promosse una riforma radicale che si compendiò nelle 27 massime del Dictatus Papae (vedi nota 10) nelle quali , fra altre rivendicazioni, era proclamato il potere assoluto del Papa in quanto capo della Chiesa universale di deporre i sovrani temporali, sottoposti all’autorità della Chiesa. In quello stesso anno (1075) papa Gregorio indisse un concilio che vietò l’investitura degli ecclesiastici da parte dei sovrani temporali. Si aprì un conflitto assai teso fra il papa e l’imperatore di Germania Enrico IV, per nulla disposto a rinunciare alla nomina dei vescovi nei suoi domìni (Lotta per le Investiture). Un sinodo di vescovi tedeschi convocati a Worms per volontà dell’imperatore depose il Papa. Per tutta risposta Gregorio VII, in un concilio che si riunì nel Laterano quello stesso anno, depose e scomunicò Enrico IV sciogliendone i sudditi dal giuramento di fedeltà. “Nella potente sentenza che egli pronunciava - osserva S.Hellmann - era tutta compendiata la pretesa della Chiesa al dominio del mondo...” (op. cit., p. 264). “Chi era stato scomunicato dal papa - scrive E.Chastel - veniva abbandonato dai parenti, dagli amici, dalla servitù, giacchè chiunque avesse relazioni con uno scomunicato ne condivideva la pena... Nei territori sotto la giurisdizione di un principe ribelle le chiese dovevano rimanere chiuse, non si doveva più celebrare il culto: non più benedizione, non più sacramenti, non più riti nuziali, non più sepolture in terra consacrata; digiuni rigorosi, tristezza, terrore al massimo grado in luogo di feste, fino a quando i sudditi, vedendo compromessi i loro interessi eterni e temporali, i loro piaceri e la loro salvazione per colpa di un principe ostinato, non lo avessero costretto con la ribellione a piegarsi sotto la legge del capo della Chiesa” (Histoire di Christianisme, vol. III, pp. 229, 231, citato da J.Vuilleumier, ibidem, pp. 215-216). Enrico IV, abbandonato dai principi vassalli e dai sudditi in rivolta, nel gennaio del 1077 si vide costretto a recarsi a Canossa in veste di penitente per chie423

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dere al papa l’assoluzione. Gregorio lo ricevette nel castello di Matilde di Toscana dopo tre giorni di attesa a piedi nudi e gli concesse la revoca della scomunica. Nel 1084 Enrico fece eleggere dai vescovi tedeschi l’antipapa Clemente III e da lui si fece incoronare imperatore Gregorio lo scomunicò per la seconda volta ed egli discese in Italia e occupò Roma; il papa liberato dai Normanni, si rifugiò in Salerno e lì morì nel 1085. La lotta per le investiture aveva comunque messo in luce il grado di potenza a cui era pervenuto il Papato nella seconda metà dell’XI secolo. Nel 1095 papa Urbano II (1088-1099), in un sinodo che si tenne a Clérmont, colpì di scomunica il re di Francia Filippo I reo di avere ripudiato la moglie Bertha e sposato in seconde nozze Berthrada. Sotto il pontificato di Pasquale II (1099-1118) il re Filippo si vide costretto a sottomettersi al pontefice romano. Durante un concilio che si tenne a Parigi nel 1103 Filippo I, come Enrico IV di Germania 26 anni prima di lui, a piedi nudi e col saio di penitente implorò il perdono del papa e fu riammesso nel seno della Chiesa romana. Nel 1111 Enrico V di Germania - il figlio dell’imperatore che dovette andare a Canossa - prostrato davanti a papa Pasquale II (1099-1118) assiso sul seggio pontificio ricevette la corona imperiale dai piedi del pontefice il quale subito la fece rotolare a terra con un calcio per significare che avrebbe potuto togliergliela in qualsiasi momento se se ne fosse mostrato indegno. I cardinali poi la raccolsero e ne cinsero il capo dell’imperatore. Nel 1140 papa Innocenzo II (1130-1143) scagliò l’interdetto sul regno di Francia perché Luigi VII si era rifiutato di riconoscere il nuovo arcivescovo di Bourges. Papa Alessandro III (1159-1181) tenne testa con grande energia all’imperatore di Germania Federico I Barbarossa nella lotta per la guida della cristianità occidentale. Incoronato nel 1155 re d’Italia a Pavia e imperatore del sacro Romano Impero a Roma da papa Adriano IV (1154-1159), Federico I era sceso più volte in Italia per imporre ai Comuni e al Papato l’autorità imperiale: poiché l’avevano rifiutata, distrusse Crema nel 1160 e Milano nel 1162; nel 1166 aveva occupato per breve tempo Roma. Battuto a Legnano nel 1176 dalla Lega Lombarda, l’anno seguente si vide costretto a stipulare la pace con papa Alessandro III a Venezia per ricevere l’assoluzione. Enrico II Plantageneto re d’Inghilterra (1154-1189) fu tenacemente avversato da Thomas Becket arcivescovo di Cantenbury e rigido difensore dei diritti papali, perché con le Costituzioni di Clarendon del 1164 il re aveva sottoposto il clero alla giurisdizione del tribunale regio. Accusato dell’assassinio dell’arcivescovo, Enrico II fu colpito di anatema da papa Alessandro III. Per ottenere la sospensione della pena, il re dovette sottoporsi pubblicamente alla fustigazione sulla tomba del suo mortale nemico Thomas Becket. f) Innocenzo III (1198-1216), un pontefice della statura morale di Gregorio VII, come Gregorio si batté per l’affermazione dell’autorità assoluta dei pontefici 424

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all’esterno come all’interno della Chiesa. Con questo intento fece decadere la potestà dei vescovi e istituì i legati, diretti rappresentanti dei papi. Innocenzo si proclamò “Vicario di Cristo Re dei re” dal quale i principi laici ricevono come feudi i loro regni. Nel 1201 papa Innocenzo III mise l’interdetto sul regno di Francia per costringere il re Filippo-Augusto a riprendere la moglie Ingeburge che aveva ripudiato. Sotto il suo pontificato il papato pervenne al culmine della potenza politica, e quanto fosse illusorio sfidarla si vide allorché Giovanni Senza Terra, fratello e successore di Riccardo Cuor di Leone sul trono d’Inghilterra, protestò per avere Innocenzo III assegnato all’arcivescovo Stephen Langton, senza consultarlo, la sede episcopale di Canterbury rimasta vacante. Il papa scagliò l’interdetto sul regno, scomunicò e dichiarò decaduto il re sciogliendone i sudditi dal giuramento di fedeltà. Nel 1213 Giovanni si vide costretto a cedere: mise la corona a disposizione del pontefice per riceverla da lui come vassallo della Chiesa. Il IV Concilio lateranense riunito da Innocenzo III nel 1215 istituì presso le diocesi i tribunali ecclesiastici per la repressione delle eresie: nasceva quella istituzione sinistra che prese il nome di Inquisizione. Bonifacio VIII (1294-1303) fu l’ultimo grande papa del medioevo. Egli rilanciò la politica teocratica perseguita da Gregorio VII e Innocenzo III, pretendendo per la Chiesa romana la supremazia temporale. Il primo Giubileo bandito da Bonifacio VIII nel 1300, segnò il culmine del prestigio papale. Nel 1302 si riaprì il conflitto fra la Santa Sede e Luigi IV re di Francia sul diritto regio di imporre tributi al clero. Con la bolla Unam Sanctam papa Bonifacio riaffermò, mediante la tesi delle due chiavi e delle due spade (simboli dei poteri temporale ed ecclesiastico) la supremazia dei pontefici romani su tutti i principi terreni. g) Con la morte di Bonifacio VIII cominciò un periodo di declino del papato. Benedetto XI (1303-1304) che gli succedette fu l’ultimo papa di nazionalità italiana. Clemente V (1305-1314) fu il primo di una serie di pontefici di nazionalità francese. Nel 1309 la Santa Sede fu trasferita ad Avignone, nella Francia del sud, e con questo evento cominciava quella fase decadente della storia del papato che prese il nome di Cattività Avignonese. Il diffondersi della corruzione e del nepotismo nella corte papale di Avignone determinò una caduta di autorità della Chiesa. Per mantenere il fasto della corte pontificia, fu messa in atto una politica finanziaria vessatoria a danno dei fedeli: le indulgenze divennero per i papi avignonesi una fonte di lauti proventi (sono note le invettive del Petrarca all’indirizzo della corte papale di quel periodo infausto). Urbano V (1362-1370) nel 1367 riportò temporaneamente a Roma la sede del Papato, nonostante l’opposizione della corte e dell’alto clero francesi. Alla sua morte venne eletto in Avignone Gregorio XI (1370-1378) che 6 anni dopo trasferì definitivamente a Roma la Santa Sede. Morto Gregorio XI nel 1378, a Roma fu eletto a furor di popolo Urbano VI (1378-1389); i cardinali francesi riunitisi a Fondi, gli contrapposero Clemente VII (1378-1394) che si trasferì in Avignone essendo la sede romana occupata dal rivale Urbano VI. Si aprì così il Grande Scisma d’Occidente. Due papi, uno in 425

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Roma e uno in Avignone, si contesero il pontificato legittimo e si anatemizzarono a vicenda (intanto a Roma nel 1389 a Urbano VI era succeduto Bonifacio IX, morto nel 1404, e in Avignone nel 1394 era stato eletto Benedetto XIII come successore di Clemente VII). Mentre pontificavano in Avignone Clemente VII e in Roma Gregorio XII, successore di Bonifacio IX, un concilio di cardinali e vescovi riunitosi a Pisa nel 1409 depose i due papi rivali ed elesse quale pontefice legittimo Alessandro V (1409-1410), ma i papi deposti non si sottomisero, avendo ciascuno l’appoggio di una parte del clero e del popolo, cosicché in quegli anni vi furono 3 papi contemporaneamente. Morto Alessandro V nel 1410, fu eletto a Bologna Giovanni XXIII che 5 anni dopo venne deposto con 72 capi d’accusa per la sua condotta indegna. Nel 1415 rinunciò alla dignità pontificia in Francia il deposto Benedetto XIII. Due anni dopo venne eletto a Costanza Martino V (1417-1431), e con questo evento si chiuse lo Scisma d’Occidente. h) Eugenio IV (1431-1447), per risollevare il prestigio del Papato, che gli eventi dei decenni precedenti avevano non poco scosso, tentò una riforma interna della Chiesa romana. La riforma fallì e ne uscì rafforzata la secolarizzazione del Papato. Per ristabilire l’assolutismo papale, i pontefici ripresero a contrastare i fautori della preminenza dei concili. Ripristinata l’unità della Chiesa, essi si adoperarono per consolidare lo Stato pontificio, che sempre più venne assumendo il carattere di un vero e proprio principato. I pontefici emularono il fasto delle corti europee, intervennero nelle lotte fra i signori, favorirono i propri parenti: Callisto III (1455-1458) elevò alla porpora cardinalizia due nipoti e a un terzo assegnò il ducato di Spoleto; Sisto IV (1471-1484) creò per un nipote lo stato di Imola. Nel 1492 fu eletto papa lo spagnolo Rodrigo Borgia, che assunse il nome di Alessandro VI, noto alla storia per le sue dissolutezze. E’ anche ricordato per essere intervenuto nel 1493 nella contesa fra Spagna e Portogallo per la spartizione delle terre scoperte e conquistate di là dell’Atlantico. i) Nel 1514 Leone X (1513-1521) rinnovò le indulgenze per finanziare la fabbrica di S.Pietro. In Germania la propaganda martellante del monaco Tetzel, emissario dell’Arcivescovo di Magonza, suscitò l’indignazione del frate agostiniano Martin Lutero (1483-1546), dottore in teologia e professore nell’Università di Wittenberg. Il 31 ottobre 1517, Lutero affisse sulla porta del duomo di Wittenberg 95 tesi con le quali denunciava l’abuso del commercio delle indulgenze e proponeva una discussione sull’argomento. Fu la scintilla che accese il grande fuoco della Riforma. Accusato di eresia, il frate di Wittenberg fruì della protezione del principe elettore Federico il Saggio. Nel 1519 Lutero rifiutò di riconoscere il primato papale e la tradizione della Chiesa romana. L’anno dopo, l’abbruciamento pubblico a Wittenberg della bolla papale di scomunica “Exsurge Domine” segnò la rottura definitiva con Roma. Nel 1521, fatto comparire davanti alla Dieta di Worms, Lutero rifiutò di ritrattare le affermazioni dottrinali che gli si 426

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rimproveravano come “errori” e affermò la sua fede incrollabile nell’autorità della Scrittura. Molti umanisti nel nord Europa aderirono alla Riforma luterana. Nel 1534 lo spagnolo Ignazio di Loyola fondò la Compagnia di Gesù, un ordine religioso con un’organizzazione e disciplina di tipo militare che fu retto da un “generale” (“papa nero”). Posta incondizionatamente a disposizione del Pontefice e a lui sottomessa, la Compagnia di Gesù, di cui il fondatore fu il primo generale, divenne lo strumento più attivo del Papa per la repressione dell’“eresia”. Papa Paolo III (1534-1549) confermò l’ordine nel 1540. Nel 1542 fu reintrodotta l’Inquisizione. Per combattere la Riforma, la Chiesa romana promosse la Controriforma, un movimento di conservazione sul piano dogmatico e di rinnovamento su quello dei costumi, che ebbe come massima espressione il concilio di Trento indetto da papa Paolo III nel 1545. Fu affermata, fra altri principi, la supremazia del Papa sui concili. Trionfò e si affermò in seno alla Chiesa romana, per merito dei Gesuiti, il centralismo papale. Il Concilio di Trento si chiuse nel 1563. Paolo IV (1555-1559) nel 1559 introdusse l’Indice (Index librorum proibitorum), un elenco ufficiale di libri ritenuti contrari alla fede cattolica (fra le opere condannate figurava la Bibbia tradotta in lingue volgari). L’Indice fu abolito da Paolo VI nel 1965. l) Nel periodo della Controriforma la persecuzione dei Protestanti in Italia e in Francia si intensificò. Paolo IV si adoperò molto per stimolare l’Inquisizione. Pio IV (1559-1565) non fu da meno. Sotto il suo pontificato furono sterminate le fiorenti colonie valdesi in Calabria. Pio V (1566-1572) rese ancora più dura con un editto la sorte dei perseguitati. Gregorio XIII (1572-1585) fece coniare una medaglia ricordo e indisse un grande giubileo per ringraziare Dio a motivo del massacro degli ugonotti in Francia nel 1572. Sisto V (1585-1590) intervenne nelle questioni interne della Francia allo scopo di stimolare la persecuzione degli ugonotti. Gregorio XIV (1590-1591) brigò per indurre la Spagna a intervenire militarmente in Francia al fine di impedire la candidatura al trono di Enrico di Navarra amico degli ugonotti. Clemente VIII (1592-1605) dedicò molta attenzione all’attività dell’Inquisizione. Nel 1595 ci fu in Italia un’esecuzione capitale di “eretici”. Nel 1600 fu arso vivo a Roma il filosofo Giordano Bruno. Durante il pontificato di Paolo V (1605-1621), la sorte degli ugonotti in Francia si fece più dura dopo che fu assassinato Enrico IV il quale con l’Editto di Nantes (1598) aveva dato respiro ai Protestanti. Sotto Urbano VIII (1623-1644) si riaprì drammaticamente il conflitto fra Galileo e la Santa Inquisizione romana. La zelante azione repressiva svolta dall’Inquisizione in Italia fra la seconda metà del ‘500 e la prima metà del ‘600, stimolata instancabilmente dai papi, spense il Protestantesimo nel nostro paese. La Pace di Vesfalia (1648), che pose fine alla Guerra dei Trent’Anni fra Cattolici e Protestanti, segnò il fallimento della restaurazione cattolica in Europa e costituì un notevole passo avanti sulla via della libertà religiosa, civile e politica in Europa. Il potere papale, già scosso dall’affermarsi della Riforma in gran parte 427

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dell’Europa del nord e in Inghilterra tra la seconda metà del ‘500 e il ‘600, nel XVIII secolo venne ulteriormente declinando in conseguenza dell’impatto che ebbe sulla cultura europea quel vasto movimento di pensiero che prese il nome di Illuminismo. Sul finire del secolo, poi, ricevette un colpo durissimo dalla Rivoluzione Francese. m) Nel 1790 l’Assemblea Nazionale a Parigi deliberò la confisca del patrimonio ecclesiastico per far fronte al forte disavanzo statale e decretò anche che il clero giurasse fedeltà alla nazione, al Re, alla legge e alla Costituzione. Nel 1791 Pio VI (1775-1799) condannò con due Brevi i decreti dell’Assemblea francese. Il nunzio (rappresentante del Papa) dovette abbandonare Parigi. Nel 1796 il Generale Bonaparte scese in Italia alla testa di un esercito repubblicano e invase le Romagne e le Marche. Il Papa non poté esimersi dal sottoscrivere un documento (trattato di Tolentino, 19 febbraio 1797) in forza del quale erano ceduti alla Repubblica il Contado Venassino e le Legazioni di Bologna, Ferrara e Romagna. In quello stesso anno, durante un intervento delle truppe pontifice per sciogliere un assembramento di patrioti in Roma, rimase ucciso il generale francese Duphot. All’inizio del 1798, Napoleone Bonaparte ordinò al generale Louis Alexandre Berthier, capo di stato maggiore dell’Armata d’Italia, di marciare su Roma. Nel mese di febbraio le truppe francesi entrarono nella “Città eterna” e la occuparono; subito dopo fu proclamata la Repubblica Romana. I Francesi intimarono a Pio VI di rinunciare al potere temporale e riconoscere la Repubblica. A seguito delle sue proteste, il Papa fu deposto e deportato prima in Toscana poi in Francia, a Valence, dove morì nell’esilio l’anno seguente. Era un evento storico di portata inaudita. Per la prima volta nella storia plurisecolare del Papato un pontefice veniva deposto e condotto in esilio dal potere secolare. La sede pontificia rimase vacante per due anni. Nel settembre del 1799 le truppe napoletane di Ferdinando IV, con l’appoggio di contingenti militari toscani, russi, inglesi e austriaci, occuparono Roma, abbatterono la Repubblica e ristabilirono l’autorità papale. Il 14 marzo 1800 un conclave svoltosi a Venezia elesse papa Pio VII (1800-1823). Il tracollo definitivo del potere temporale dei papi era rimandato di 70 anni. Il 18 maggio 1804 il senato proclamò Napoleone Imperatore dei Francesi. Come Carlomagno mille anni prima, Napoleone volle essere consacrato dal Papa ma a differenza di Carlomagno, che si era recato a Roma per farsi incoronare dal Pontefice, il Bonaparte volle che Pio VII andasse a Parigi e la corona la cinse con le proprie mani prendendola da quelle del Papa, per significare probabilmente che erano finiti i tempi dei quali lo Stato riconosceva la supremazia della Chiesa. I movimenti liberali sorti in Italia dopo la Restaurazione del potere regio sancito dal Congresso di Vienna nel 1815, operarono anche negli Stati pontifici, dove la repressione non fu meno dura che nei ripristinati stati dell’Italia del centro e del sud. Nel 1846 salì sul trono pontificio Pio IX. I moti rivoluzionari del 1848 lo indussero a concedere ai popoli degli Stati della Chiesa una costituzione 428

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sull’esempio di quelle promulgate nei loro stati da Re Carlo Alberto e dal Granduca di Toscana Leopoldo II. In seguito però Pio IX revocò la costituzione e divenne reazionario quanto i sovrani temporali se non più. L’8 dicembre 1864 il Pontefice pubblicò l’enciclica “Quanta Cura” con la quale condannava gli “errori” del liberalismo. A breve termine di tempo la “Quanta Cura” fu seguita dal Sillabo, un elenco di 80 proposizioni inaccettabili dalla Chiesa cattolica e da essa condannate. Nel Sillabo erano negate tutte le libertà che formano il fondamento della moderna democrazia. Il 18 luglio 1870 Pio IX proclamò il dogma dell’Infallibilità Papale, non senza suscitare il dissenso di vari dignitari della Chiesa. Agli inizi di settembre di quel medesimo anno, essendo crollata nella guerra con la Prussia la Francia di Napoleone III, protettrice della Santa Sede, si presentò per il giovane Regno d’Italia l’occasione favorevole per risolvere l’annosa “questione romana”. Le trattative di Vittorio Emanuele II con Pio IX per un’occupazione pacifica di Roma da parte delle truppe regie fallirono per l’intransigenza del Papa, e il 20 settembre i soldati di Vittorio Emanuele II entrarono in Roma e la occuparono. Un plebiscito il 2 ottobre di quello stesso anno sanzionò il fatto compiuto. Questo evento storico segnò la caduta definitiva del potere temporale dei papi che durava da 1142 anni.

APPENDICE ALLA NOTA 9. Fattori che contribuirono all’ascesa del Papato. (1) “I seguenti fattori concorsero all’ascesa di Roma e infine all’affermarsi della sua supremazia: Roma, in quanto capitale dell’Impero e metropoli del mondo civile, era la sede naturale per divenire il centro di una chiesa universale. (2) Nell’Occidente la chiesa di Roma era l’unica che poteva vantare un’origine apostolica, una circostanza questa che in quei tempi faceva apparire ovvio che il suo vescovo avesse la priorità sugli altri vescovi. Già prima dell’anno 100 Roma occupava una posizione di alto prestigio. (3) Il trasferimento da Roma a Costantinopoli della capitale dell’Impero a opera di Costantino nel 330 lasciò il vescovo di Roma relativamente libero dal controllo imperiale; per di più da allora l’imperatore sostenne con una certa costanza le pretese del vescovo romano contro quelle degli altri vescovi. (4) L’imperatore Giustiniano sostenne con forza il vescovo di Roma e ne promosse gli interessi mediante un editto imperiale che ne riconosceva la supremazia su tutte le chiese d’Oriente e d’Occidente, un editto che tuttavia non divenne pienamente operante che dopo il tramonto del dominio ostrogoto su Roma nel 538. (5) L’essere riuscita la chiesa di Roma a contrastare con successo vari movimenti cosiddetti ereticali, in particolare lo gnosticismo e il Montanismo, le conferì fama di ortodossia, per cui fazioni in lotta fra loro in altri settori dell’Impero sollecitarono l’arbitrato del suo vescovo per comporre le loro dissidenze. (6) Le controversie teologiche che divisero e indebolirono la Chiesa orientale non toccarono quella di Roma che poté dedicarsi a problemi d’ordine pratico e trarre vantaggio dalle occasioni che le si offrirono per estendere la sua autorità. (7) Il fatto che i vescovi di Roma riuscissero ripetuta429

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mente a evitare o quanto meno a mitigare le incursioni di barbari sulla città accrebbe il prestigio politico del papato. Inoltre non di rado, in assenza di un governo civile nella città, i papi ne svolsero le funzioni essenziali. (8) Le invasioni arabe posero ostacoli alla Chiesa orientale, eliminando così l’unica rivale importante di Roma. (9) Nell’Occidente i barbari invasori erano per la massima parte già cristianizzati, anche se più nominalmente che sostanzialmente; le invasioni liberarono il papa dal controllo imperiale. (10) Con la conversione di Clodoveo re dei Franchi nel 496, il papato poté usufruire dell’appoggio di un potente esercito per proteggere i propri interessi e di un aiuto efficace per convertire altre tribù germaniche”. S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 835-836.

10. RIVENDICAZIONI DEI PAPI E DICHIARAZIONI INAUDITE SUI PAPI Sembra che al Concilio di Nicea nel 325 l’imperatore Costantino dichiarasse che i vescovi erano dèi. Vero o falso che fosse, i papi dell’VIII e IX secolo sfruttarono l’episodio per accrescere la loro autorità. Nel secolo XI Gregorio VII “ne fece il fondamento della supremazia politica dei pontefici romani” (J.Vuilleumier). Nella dichiarazione di Costantino, dice il celebre teologo Ignaz von Doellinger, Gregorio VII “vide la prova lampante che lui, il papa, il vescovo dei vescovi, dominava al di sopra di tutti i monarchi della terra nella sua inviolabile maestà. “E’ evidente - affermava Ildebrando - che il Pontefice, chiamato Dio dal pio Costantino, non può essere legato o sciolto da alcuna potestà temporale più di quanto Dio non possa essere giudicato dagli uomini” (La Papauté, Parigi 1904, p. 41, nota 57, cit. da J.Vuilleumier in Apocalypse..., p. 210). Questo stesso papa - dice ancora il Doellinger - “il primo che imprese a deporre un monarca e a scioglierne i sudditi dal giuramento di fedeltà, dichiarò al sinodo di Roma nel 1080: ‘Noi vogliamo mostrare al mondo che abbiamo il potere di togliere a chiunque e darli a chi ci par bene i regni, i ducati, le contee, in breve i possedimenti di tutti gli uomini, perché abbiamo il potere di legare e sciogliere’ ” (op. cit., p. 54, nota 154, in J.Vuilleumier, op. cit., p. 210). “Le ventisette proposizioni del Dictatus - aggiunge il teologo tedesco - nelle quali egli aveva condensato tutto il sistema dell’onnipotenza e della maestà papali, erano in parte ripetizioni o conseguenze logiche delle [apocrife] Decretali dello pseudo Isidoro, in parte nuove formulazioni volte a conferire alle proposizioni stesse un’apparenza di valore di antichità e di tradizione” (op. cit., pp. 39 e 40, in J.Vuilleumier, ibidem, p. 211). Giovanni Miegge scrive a: “ proposito del Dictatus Fondandosi sul De Civitate Dei di Agostino, sulle Decretali pseudo-isidoriane e sulle enunciazioni di Nicola I, il papa afferma la propria signoria sulla chiesa universale e sul mondo intero. Egli è il solo uomo di cui si debba baciare il piede e che può portare insegne imperiali. Egli solo può nominare e deporre i vescovi, deporre gli imperatori e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà verso sovrani ingiusti. Nessun sinodo può essere chiamato generale senza il suo ordine, nessun testo canonico 430

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esiste al di fuori della sua autorità. Non può essere giudicato da nessuno. Le cause importanti di ogni chiesa debbono essere sottoposte a lui. La chiesa romana non ha mai sbagliato, e secondo le promesse della Sacra Scrittura non sbaglierà mai, e il papa ordinato canonicamente diviene indubbiamente santo per i meriti di San Pietro”. K.Heussi - G.Miegge, Sommario di storia del cristianesimo, p. 95. Col Dictatus è affermato il potere assoluto dei pontefici e la loro superiorità su ogni autorità terrena. Gregorio IX (1227-1241) affermò che “il papa... è signore del mondo, tanto delle cose quanto delle persone”. Clemente V (1305-1314) dichiarò “in nome della sua autorità apostolica che ogni imperatore doveva obbedienza al papa e per conseguenza non gli era consentito di stringere alleanza con un principe che fosse sospetto al papa”. Lo stesso pontefice sostenne ancora che “essendo vacante il trono imperiale, il papa doveva succedere alla potestà imperiale e che ogni imperatore aveva l’obbligo di prestargli giuramento di vassallaggio” (vedi Vuilleumier, op. cit., p. 211). Bonifacio VIII (1294-1303) affermò che spetta al papa conferire il potere della spada temporale ai re e agli imperatori. Ecco alcuni estratti da un’opera enciclopedica compilata da un ecclesiastico cattolico del XVIII secolo: “Così alte sono la dignità e l’eccellenza del Papa che egli non è semplicemente uomo, ma quasi Dio e vicario di Dio... “Il Papa cinge la triplice corona in quanto re del cielo, della terra e degli inferi... “Il Papa è quasi Dio in terra, unico sovrano dei fedeli di Cristo, capo dei re, rivestito della pienezza del potere, investito dall’Iddio Onnipotente del governo non solo del regno terreno ma anche del regno celeste... “Così grandi sono l’autorità e il potere del Papa che egli può modificare, spiegare e interpretare anche le leggi divine... “Il Papa può modificare la legge divina poiché il suo potere discende da Dio e non dall’uomo, e dato che egli agisce da viceregente di Dio sulla terra col più ampio potere di legare e sciogliere le sue pecore... “Tutto ciò che il Signore Iddio e il Redentore fanno, lo fa anche il suo vicario, purché non faccia alcunché che sia contrario alla fede” (Lucio Ferraris, “Papa, II”, in Prompta Bibliotheca, vol. VI, pp. 25-29, cit. in S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 831). Jean Vuilleumier, in Apocalypse... (a p. 217) riporta da Fleury, Histoire Ecclesiastique (vol. XIV, p. 130), il seguente episodio che si svolse a Roma nel XII secolo ed ebbe per protagonisti papa Pasquale II ed Enrico V (il figlio dell’imperatore di Germania che andò a Canossa): “Nostro Signore il papa... condusse Enrico V e la sua consorte nella chiesa e consacrò lui imperatore e lei imperatrice. Ma nostro Signore il papa assiso sulla cattedra pontificia, teneva la corona imperiale fra i piedi e l’imperatore e l’imperatrice, curvata la testa, la ricevettero dai piedi di nostro Signore il papa. Nostro Signore il papa, però, in quello stesso istante colpì col piede la corona dell’imperatore e la fece cadere al suolo, volendo con ciò significare che egli aveva il po431

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tere di deporlo dal trono imperiale se se ne fosse mostrato indegno. I cardinali raccolsero la corona e la posero sul capo dell’imperatore”. I cardinali del sacro collegio offrono il loro omaggio e la loro sottomissione al pontefice neo eletto, nel corso di una cerimonia che prende il nome di “triplice adorazione del sacro collegio”. Il corrispondente romano di un quotidiano estero, nel XX secolo ha così descritto la cerimonia: “Il pontefice si è assiso sulla sedia gestatoria e ha ricevuto la prima adorazione, cioè il primo atto di obbedienza del Sacro Collegio... Nella cappella Sistina il papa ha indossato i paramenti pontificali e la tiara d’oro e si è assiso sul grande altare dove gli è stata tributata la seconda adorazione del Sacro Collegio. Mercoledì mattina alle dieci ha avuto luogo nella Cappella Sistina la terza adorazione del sacro Collegio” (da J.Vuilleumier, op. cit., p. 225). Nella cerimonia d’incoronazione del nuovo pontefice il cardinale-diacono gli dice mentre gli cinge il capo del “triregno”: “Ricevi la tiara ornata di tre corone, e sappi che tu sei il padre dei principi e dei re, l’arbitro del mondo e il vicario del Salvatore nostro Gesù Cristo sulla terra” (ibidem, p. 211). Nel manuale canonico De Curia Romana, stampato nella tipografia vaticana con l’approvazione di Pio X, si legge: “I principi, i re, i sacerdoti, i metropolitani, i patriarchi, i cardinali, in breve tutti sono tenuti per obbligo divino a ubbidire al Pontefice romano” (art. II, “De Romano Pontifice”, da J.Vuilleumier, op. cit., p. 212). Titoli quali Sommo Pontefice, Santo Padre, Vicario di Cristo, Capo della Chiesa riferiti correntemente al papa, alla luce della dottrina del Nuovo Testamento appaiono indebitamente attribuiti a una creatura umana sia pure rivestita di autorità religiosa. Tali titoli infatti presuppongono una dignità e una autorità decisamente sovrumane. Col titolo di sommo sacerdote (Sommo Pontefice) l’epistola agli Ebrei designa la dignità e la funzione del Cristo in cielo: Eb 4: 14, 15; 6: 20; 8: 1,2; 9: 11; 10: 21. Padre Santo è il titolo col quale Gesù si rivolse a Dio nella preghiera di intercessione per i suoi apostoli alla vigilia della crocifissione: Gv 17: 11. La funzione di Vicario di Cristo, secondo il Vangelo di Giovanni, spetta allo Spirito santo. Aldo Gabrielli, nel Grande Dizionario illustrato della lingua italiana (Mondadori, 1989), definisce così il vocabolo “vicario”: “Che o chi in una funzione determinata, in un ufficio fa le veci di un’altra persona di grado superiore; supplente, sostituto”. Ora Gesù Cristo ha designato lo Spirito santo, terza Persona della Divinità, quale suo supplente e sostituto sulla terra (vedi Gv 14: 16, 17, 26; 15: 26; 16: 7, 12, 13). Infine il Nuovo Testamento riconosce Gesù Cristo soltanto come Capo della Chiesa (vedi Ef 1: 22; Col 1: 18). La rivendicazione da parte di una creatura umana, o l’attribuzione a essa dei titoli suddetti si configura dunque come un’usurpazione e una bestemmia.

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11. LA PERSECUZIONE RELIGIOSA DALL’ETÀ ROMANA FINO AI TEMPI MODERNI a) Le persecuzioni giudaiche e imperiali contro i primi cristiani Fin dagli albori della sua storia la Chiesa dovette far fronte all’ostilità dell’ambiente religioso circostante. Non si era ancora spenta in Gerusalemme l’eco degli eventi culminati con la crocifissione di Gesù che i suoi apostoli furono arrestati e gettati in prigione dalle autorità religiose giudaiche (vedi At 5: 17,18). Il diacono Stefano fu lapidato a furor di popolo e la comunità dei credenti fu dispersa dalla persecuzione (vedi At 7: 57-59; 8: 1). Poi il re Erode Agrippa mise le mani sugli apostoli Giacomo e Pietro: il primo subì il martirio (vedi At 12: 1, 2), il secondo fu liberato miracolosamente (vedi At 12: 3-10). Nell’anno 64 a Roma, sotto il regno di Nerone, i cristiani, per la prima volta subirono le violenze dei pagani. La tradizione vuole che durante quella sanguinosa persecuzione perissero gli apostoli Paolo e Pietro. Una nuova persecuzione a opera dei pagani infierì sui cristiani - specie nell’Asia Minore - verso l’anno 96, alla fine del regno di Domiziano (in quel frangente l’apostolo Giovanni fu relegato nell’isola di Patmos dove gli fu rivelata l’Apocalisse (vedi Ap 1: 6). Tra l’inizio del II secolo e il primo decennio del IV, non meno di 11 volte la Chiesa patì persecuzioni di maggiore o minore durata e intensità. Violenze brutali subirono i cristiani sotto gli imperatori Traiano (98-117), Marco Aurelio (161180), Settimio Severo (193-211), Massimino Trace (235-238), Decio (249-251), Gallo (251-253), Valeriano (253-260), Diocleziano (284-305) e Galerio (305-311). L’ultima persecuzione, sotto Diocleziano e Galerio, fu la più lunga e la più grave. Entrata nella fase cruciale nel 303, essa terminò definitivamente nel 313 con la promulgazione da parte di Costantino e Licinio dell’Editto di Milano. b) La svolta costantiniana e le prime persecuzioni contro i cristiani dissidenti Dapprima tollerati dall’autorità imperiale (già dalla fine del regno di Galerio), i cristiani ne furono infine favoriti. Costantino elargì ad essi importanti privilegi gettando le basi della futura Chiesa di Stato (cesaropapsimo). In pari tempo però fece pesare sulla Chiesa la tutela del potere secolare. Teodosio I il Grande (379-395) conferì alla religione cristiana lo status di religione ufficiale dello Stato romano. Onde a buon diritto può considerarsi il vero fondatore della Chiesa di Stato (vedi K.Bihlmeyer-H.Tuechle, Storia della Chiesa, vol. I, p. 259). I destini dei due grandi gruppi religiosi dell’Impero s’invertirono: i cristiani già perseguitati dai pagani si fecero persecutori di questi ultimi attraverso il potere secolare. Introno alla metà del IV secolo un retore e apologista cristiano, certo Giulio Firmico Materno, sollecitava l’imperatore a sterminare completamente il paganesimo con la forza (vedi op. cit., p. 255). Sta di fatto che nel 391 gli imperatori d’Oriente e d’Occidente Teodosio I e Valentiniano II con un editto congiunto vietarono il culto pagano. In Alessandria in quest’epoca furono distrutti tutti i templi dedicati alle antiche divinità egizie e nel 415 venne as433

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sassinata dalla plebe cristiana la filosofessa pagana Ipatia. Nel 529 Giustiniano chiuse d’autorità la prestigiosa scuola filosofica di Atene e poco appresso ordinò che tutti i sudditi pagani dei suoi domìni si facessero battezzare. Sembra che nella sola Asia Minore 70.000 pagani si facessero cristiani a seguito di questa disposizione imperiale. Nell’Occidente le cose non andavano meglio per i pagani. In forza di leggi emanate nel 407-408, si requisirono e si adibirono a servizi statali i loro templi previa rimozione degli altari e delle statue degli dèi. Le misure coercitive applicate dallo Stato cristianizzato nei confronti dei pagani contribuirono a ridurne del continuo la consistenza numerica fino alla loro completa estinzione, e parallelamente favorirono l’espansione del cristianesimo cattolico, non però senza riflessi negativi sulla qualità delle conversioni. “Un po’ alla volta - osservano K.Bihlmeyer e H.Tuechle - il paganesimo venne eliminato, in parte sotto la pressione dello Stato e con gli svantaggi delle precipitate conversioni in massa” (op. cit., p. 247). Un problema ancora più grave della persecuzione fu per la Chiesa, fin dai tempi apostolici, la minaccia di inquinamento della fede. Nella seconda metà del I secolo le comunità cristiane sparse nel mondo greco-romano furono turbate e talora disorientate dall’insinuarsi e propagarsi in seno ad esse di elementi dottrinali estranei, come gli insegnamenti dei giudaizzanti (detti più tardi ebioniti) e le teorie pre-gnostiche. Le guide spirituali della Chiesa affrontarono il problema con la necessaria tempestività ed energia, ma solo sul piano dialettico, ora denunciando e confutando l’errore, ora esortando alla vigilanza le comunità e i loro conduttori (cfr. 2Co 11: 13-15; Ga 1: 6-9; 3: 1-29; 4: 21-31, 5: 1-12; Cl 2: 4-22; 1Tm 1: 3-11; 6: 3-5; 2Tm 4: 3-5; Ti 1: 10, 11; 2Pie 2: 1-3, 12-19; 1Gv 4: 1-3; 2Gv 7-11; Ap 2: 14, 15, 20). Solo di rado e nei casi estremi raccomandarono l’allontanamento degli erranti (vedi Ti 3: 10). Sfide ancora più gravi dovette affrontare la Chiesa dopo il tramonto dell’età apostolica. Nel II secolo la minaccia più seria all’integrità della fede cristiana venne dalla dottrina gnostica - una mescolanza di interpretazioni allegoriche della Scrittura, concetti filosofici platonico-pitagorici ed elementi delle religioni orientali - che si propose come conoscenza (gnosis) profonda del verbo cristiano. Lo Gnosticismo, nato in Oriente nel II secolo - ma nei suoi elementi costitutivi essenziali già presente nel secolo anteriore - si diffuse nel mondo grecoromano, ancorché frazionato in una varietà di sistemi, mettendo seriamente in crisi il cristianesimo ortodosso. Le sette gnostiche ebbero come centri principali Alessandria e Antiochia in Oriente e Roma in Occidente. Di tutt’altra natura e ben meno pericoloso per la fede cristiana fu il Montanismo, un movimento caratterizzato da forte entusiasmo religioso, vive aspettative escatologiche (millenarismo) ed estremo rigorismo etico, che si formò nella Frigia durante il II secolo e si propagò nell’Occidente dove trovò in Tertulliano un fervente assertore. Tra il II ed il III secolo la controversia trinitaria lacerò la cristianità orientale. Da questa contesa teologica scaturirono diversi orientamenti dottrinali in conflitto con l’insegnamento tradizionale della Chiesa. A Bisanzio sul finire del se434

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colo II vide la luce l’Adozionismo, un’eresia che considerava Gesù Cristo “figlio adottivo” di Dio. Nella stessa Roma fiorì nel III secolo una nuova eresia, il Sabellianismo o Modalismo, che ravvisava nelle tre Persone della Trinità altrettante modalità distinte di manifestazione della Divinità e che suscitò la viva opposizione della Chiesa. Di gran lunga più seria fu per il cristianesimo ortodosso la sfida dell’Arianesimo, un’eresia cristologico-trinitaria che sorse in Egitto nella prima metà del IV secolo. Il fautore di questa dottrina, il presbitero alessandrino Ario, respinse il dogma trinitario e negò la natura divina di Gesù Cristo. Le sue idee, da quando egli cominciò a divulgarle nel 315 da Alessandria, si propagarono verso l’Egeo, l’Africa nordoccidentale e la stessa Roma. L’enorme diffusione di questa eresia (basti pensare che divennero ariane quasi tutte le tribù germaniche che invasero i territori occidentali dell’Impero) mise seriamente in crisi la Chiesa romana. Essa sostenne una lotta durissima con l’arianesimo e alla fine vinse, ma non senza avere patito dolorose lacerazioni. Ancora nel IV secolo una controversia nell’Africa del nord sul battesimo degli eretici fu l’occasione per la nascita di un movimento dissidente, il Donatismo, che creò nuovi problemi alla Chiesa. Nella stessa epoca in Spagna si sviluppò il Priscillianismo, un movimento scismatico caratterizzato da un acceso fanatismo e da un’etica rigorista d’ispirazione montanista. Mentre in Oriente si continuava a discutere sulle questioni trinitarie e cristologiche, a Roma, agl’inizi del V secolo, si accendeva la controversia pelagiana sulla grazia. Pelagio privilegiava il libero arbitrio umano nel processo della redenzione. Gli fu fiero avversario Agostino, che accentuava la priorità della sovranità divina. Dalle dispute trinitarie del II e III secolo si svilupparono le controversie cristologiche destinate a provocare nuovi scismi nel corpo della Chiesa. Nella seconda metà del IV secolo Apollinare, vescovo di Laodicea e avversario dell’arianesimo, formulò una dottrina sulla natura di Cristo che fu paradossalmente vicina all’eresia ariana. Un’altra dottrina giudicata di ispirazione ariana fu divulgata nel V secolo da Nestorio vescovo di Costantinopoli. I Nestoriani rifiutarono a Maria il titolo di teotokos (“madre di Dio”) universalmente riconosciutole nella Chiesa orientale, sostenendo giustamente che Maria fu “madre di Cristo”, non “madre di Dio”. Nel V secolo scosse e divise la cristianità orientale la dottrina Monofisita che riconosceva a Gesù Cristo la sola natura divina. Secondo alcuni storici del cristianesimo il Monofisismo fu la più potente e più popolare eresia dell’antichità cristiana. Dal monofisismo si sviluppò nel VII secolo il Monotelismo, una dottrina condannata come ereticale la quale ammetteva in Gesù Cristo una sola energia e una sola volontà divino-umana. La dottrina monotelista fu formulata da Sergio patriarca di Costantinopoli nel 619. Nelle controversie teologiche che travagliarono e divisero soprattutto la cristianità orientale fra il II e il VII secolo - ma che non risparmiarono del tutto la Chiesa occidentale - intervennero in difesa della dottrina ortodossa i dottori della Chiesa con eruditi scritti apologetici, mentre la Chiesa stessa di fronte agli inse435

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gnamenti eterodossi reagì decretandone la condanna attraverso i sinodi e i concili o direttamente per bocca del vescovo di Roma. Ma dal tempo della svolta costantiniana della politica dell’Impero, essa sempre più invocò l’intervento del potere secolare per reprimere l’eresia. Gli imperatori cristiani peraltro intervennero volentieri nelle dispute teologiche favorendo ora l’uno ora l’altro dei contendenti, spesso contribuendo a inasprire le contese anziché placarle, e non di rado ricorrendo alle maniere forti per piegare i dissenzienti. Costantino il Grande (306-337) verso il 316 requisì le chiese dei Donatisti nell’Africa del nord e fece andare in esilio i loro capi. Suo figlio Costante (337350) pure proscrisse il loro culto e mandò in esilio i loro conduttori. Da Costantino in poi severi decreti imperiali furono emanati anche contro i Montanisti. L’intesa fra l’altare e il trono cominciò a produrre i suoi frutti esecrabili. Nel 380 un sinodo riunitosi a Saragozza scomunicò Priscilliano vescovo di Avila accusato di magia. Per la prima volta la Chiesa consegnò al potere secolare un “eretico” perché fosse messo a morte: nel 385 Priscilliano e sei suoi compagni furono fatti giustiziare a Treviri dall’usurpatore gallico del potere imperiale in Occidente Magno Massimo. Sul finire del secolo IV papa Siricio (384-398) si appellò all’imperatore Teodosio I (379-395) affinché reprimesse un movimento ereticale in Occidente. Teodosio nel 388 condannò all’esilio e seguaci di Apollinare di Laodicea, e il suo successore, l’imperatore Onorio (395-423), sollecitato dai vescovi cattolici radunati nel sinodo di Cartagine del 404, applicò nei confronti dei Donatisti le leggi severe di Teodosio contro gli eretici. Agostino, fautore dell’obbligo dello Stato di proteggere la Chiesa, approvò l’adozione di misure coercitive verso i seguaci di Donato. Nel 414-415 le leggi restrittive contro questi cristiani dissidenti furono ulteriormente inasprite: i membri della setta furono privati dei diritti civili e le loro adunanze furono proibite sotto pena di morte. Nel 419 l’imperatore Onorio condannò all’esilio 18 vescovi italiani che avevano rifiutato di sottoscrivere l’enciclica di papa Zosimo contro il Pelagianismo. Nel 429 o 430 Teodosio II (408-450) espulse da Costantinopoli i pelagiani e nel 435 mandò in esilio il patriarca Nestorio, già deposto 2 anni prima per “eresia”, e ne perseguitò i seguaci, molti dei quali ripararono in Persia. Poi l’autorità imperiale si volse contro i Monofisiti. L’imperatore Marciano emanò severi editti a loro riguardo e nel 452 fece andare in esilio i loro capi Dioscuro ed Eutiche. L’imperatore Giustino (518-527) appesantì la mano sugli Ariani d’Oriente. Giustiniano I (527-565) suo successore perseguitò i cristiani orientali che professavano certe dottrine origeniane giudicate “ereticali”. In qualche occasione gli imperatori si volsero anche contro i cattolici. Nel 653 Costante II (641-668) fece arrestare, malmenare e condurre in esilio papa Martino I (649-653) per avere colpito di scomunica i patriarchi orientali che avevano approvato un suo editto dogmatico. Nell’Oriente i cattolici furono ancora perseguitati nell’VIII secolo durante la lotta iconoclasta iniziata da Leone III Isau436

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rico. Nei territori occidentali dell’Impero la Chiesa ebbe in generale una vita più tranquilla nonostante una forte presenza ariana in Italia fino a metà del VI secolo. Solo sul finire del regno di Teodorico i Goti sottoposero a persecuzione i cattolici e più che altro come ritorsione verso l’Impero avendo Giustino, come si è visto sopra, cominciato a perseguitare gli ariani in Oriente. Bisogna aggiungere che in Occidente il dissenso dottrinale fu un fenomeno sporadico, e quando si manifestò si trovò di fronte alla pronta ed energica reazione di una Chiesa forte e libera dal controllo imperiale. Placandosi in seno alla Chiesa orientale le dispute teologiche dopo l’VIII secolo, e di conseguenza riducendosi fin quasi a scomparire il fenomeno dell’eresia, cessarono pure le persecuzioni imperiali. c) Lo sterminio degli Albigesi nel Medioevo Il dissenso in seno alla Chiesa rifiorì in Occidente nel secolo XI, provocato e alimentato dalla sempre più accentuata mondanizzazione della Chiesa stessa e del suo clero. “La veste sacerdotale - scrive lo storico S.Hellmann - non era spesso se non un mantello per coprire aspirazioni mondane che si potevano più facilmente soddisfare sotto la protezione della Chiesa e col godimento dei suoi privilegi” (Storia del Medioevo, p. 374). Il prevalere nel seno della Chiesa delle preoccupazioni d’ordine materiale sui compiti specificamente religiosi, fece nascere nei ceti popolari forti sentimenti di malcontento da cui ebbero origine dei movimenti di dissenso e di protesta. I cristiani dissidenti invitarono la Chiesa a rinunciare ai beni terreni e a tornare alla povertà e alla purezza dei tempi apostolici. In coerenza con la loro condanna della mondanità e dell’opulenza i membri dei movimenti di protesta praticarono uno stile di vita contraddistinto dalla povertà e dalla semplicità. Si dettero il nome di Catari (“puri”) e crescendo di numero si concentrarono particolarmente nel mezzogiorno della Francia (presso Tolosa e in Albi da cui presero il nome di Albigesi) ma anche nelle Fiandre e in Lombardia, dove li si conobbe col nome di Patarini. I Catari ebbero una concezione etico-religiosa radicalmente dualistica fondata sull’esistenza del Bene e del Male quali principi contrapposti e ugualmente potenti. Disdegnarono la carne identificata col peccato (per questo negarono l’umanità di Cristo riallacciandosi all’antico monofisismo) e praticarono un ascetismo rigoroso. Le loro comunità si dettero un’organizzazione sociale basata sull’eguaglianza e l’abolizione della proprietà privata. Un altro movimento di rinnovamento religioso sorse nella Francia del sud nel XII secolo, quello Valdese. Il fondatore, un mercante lionese di nome Pietro Valdo (c.ca 1140-1217), conquistato dall’ideale evangelico di semplicità e povertà, aveva distribuito ai poveri i propri beni e si era dato alla predicazione propugnando quegli ideali. Valdo raccolse intorno a sé un numero crescente di seguaci. Costoro sostennero l’uguaglianza dei credenti nella Chiesa, il sacerdozio fondato sul merito e non sulla consacrazione esteriore, il diritto dei laici alla predicazione. Il sinodo di Verona nel 1184 li colpì di scomunica. Perseguitati insieme con gli Albigesi durante la crociata bandita da Innocenzo III nel 1209, i Valdesi trovarono rifugio nelle valli alpine del Piemonte; al437

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tri gruppi emigrarono verso la Spagna e la Germania. La chiesa romana non tollerò il dissenso religioso. Dapprima lo punì con la scomunica e il carcere, trovando consenzienti i sovrani temporali nei loro domini. Al sinodo di Verona del 1184 papa Lucio III e l’imperatore di Germania Federico I Barbarossa stabilirono di comune accordo di combattere l’eresia con l’esilio e la confisca dei beni. Nel 1197 Pietro d’Aragona decretò il bando degli eretici dalle sue terre e la pena di morte per quanti vi fossero rimasti a dispetto dell’editto. La stessa sanzione deliberò Luigi IX in Francia nel 1270. Ma non avendo queste misure prodotto effetti apprezzabili, si addivenne alla decisione di inasprirle. Il papa invocò per i casi più gravi di eresia la pena di morte e ancora una volta i principi temporali accolsero l’invito della Chiesa. Nel 1224 l’imperatore Federico II ordinò il taglio della lingua o la morte sul rogo per gli eretici nei suoi domini europei e nel 1238 estese alla Germania queste crudeli misure repressive. In Inghilterra divenne legge di stato nel 1401 la morte sul rogo per lo stesso tipo di reato. Al principio del XII, secolo i catari erano talmente numerosi nel sud della Francia che l’energico e battagliero papa Innocenzo III (1198-1216) decise di intraprendere un’azione vigorosa per sradicarli. Dopo avere inviato una lettera circolare a tutti gli arcivescovi, i conti e i baroni di Francia, spedì nella regione una delegazione con a capo due monaci cistercensi, ma i legati pontifici tornarono a Roma senza essere riusciti a convincere gli eretici e rientrare nel grembo della Chiesa romana. Più clamoroso ancora fu l’insuccesso di una seconda delegazione guidata dal cardinale Giovanni di santa Prisca nel 1200. Una terza delegazione non ebbe migliore successo delle due precedenti. Ci voleva un pretesto, un “casus belli”, per giustificare un intervento drastico da parte della Santa Sede. Il pretesto si offrì nel 1208, allorché il legato pontificio Pierre de Castelnau fu assassinato a quanto si crede da un valletto del conte di Tolosa incline agli Albigesi. Senza alcuna prova il delitto fu imputato ai catari. Innocenzo III ruppe gli indugi e decise di scatenare contro di loro una violenta offensiva. Il pontefice invitò “conti, baroni, cavalieri e fedeli di Cristo” a una “santa” crociata per sradicare con la spada l’eresia nella Francia del sud, promettendo a quanti vi avessero preso parte speciali indulgenze e, prospettiva certo più allettante, i beni e le terre degli “eretici”. Signori e signorotti di Francia e molta gente del comun popolo risposero all’appello del pontefice: si formò un esercito di cavalieri e rozzi soldati feudali a capo dei quali fu posto il conte Simon de Montfort. L’anima nera della crociata fu comunque il legato papale Arnaud Amaury. Il territorio dove gli Albigesi avevano messo salde radici fu devastato. Béziers, la roccaforte del catarismo, fu presa, saccheggiata e distrutta; i suoi abitanti furono massacrati senza alcun riguardo per l’età e il sesso. “Di Béziers - ha scritto un autore cattolico - non doveva rimanere che il nome: un nome insozzato di sangue e di vergogna”. Lo stesso autore, dopo avere alluso alle cifre discordanti riguardo alle vittime di questa carneficina, osserva con onestà e obiettività: “Ma ha veramente importanza discutere sulle cifre ? Ciò che conta è il massacro e i suoi motivi. Ciò 438

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che scandalizza e rattrista è il fatto che esso sia stato compiuto da soldati benedetti dal papa e certi di avere per i loro orrendi delitti la ricompensa di un’eterna salvezza. Sembra assurdo che il nome di Cristo possa essere stato usato e offeso in modo così sconvolgente”. Anthony Keller, Gli scismi della cristianità, p. 145. La guerra contro gli Albigesi nella Francia meridionale fu proseguita con estrema crudeltà. A nulla valsero gli interventi di Raimondo Conte di Tolosa e di re Pietro d’Aragona in difesa dei perseguitati. Il primo, fallito il tentativo di soccorrerli, si sottomise alla Chiesa romana nel 1209; il secondo fu vinto e ucciso presso Muret, a sud-ovest di Tolosa. Quando la crociata terminò nel 1229 col patto di Parigi fra Raimondo junior conte di Tolosa e Luigi IX di Francia, gli Albigesi erano stati in gran parte sterminati. Dice A.Keller: “Quei pochi (superstiti) che riuscirono a sfuggire alle lame dei crociati si affrettarono ad abbandonare l’inospitale terra di Francia e a cercare altrove una nuova patria. Ma la Chiesa romana era ormai diventata, per tutti loro, come una piovra terribile dai lunghissimi tentacoli che potevano raggiungerli ovunque si fossero rifugiati. E questi tentacoli furono rappresentati dai tribunali della Santa Inquisizione” (op. cit., p. 172). Nel 1215 il IV concilio lateranense aveva dettato la procedura da seguirsi nei riguardi di uomini e donne convinti di eresia. Il III canone stabiliva: “Gli eretici condannati saranno consegnati al potere temporale perché sia loro inflitto il castigo conveniente. I beni dei laici saranno confiscati... Il signore temporale che, sufficientemente avvertito, trascurerà di purgare le sue terre dagli eretici sarà scomunicato... e se non darà soddisfazione entro l’anno, il papa dichiarerà i suoi vassalli sciolti dal giuramento di fedeltà e le sue terre devolute al primo occupante cattolico. Ciascun vescovo sceglierà tre uomini di buona fama o di più, e li farà giurare di denunciare gli eretici” (da E.Meynier, Storia dei papi, p.158). Innocenzo III, nella sua guerra implacabile contro gli “eretici”, volle dunque valersi come arma di persuasione verso i principi temporali esitanti, della stessa arma che si era rivelata tanto efficace nelle mani di Gregorio VII 140 anni prima. Il concilio lateranense del 1215 aveva affidato ai vescovi il compito di scoprire e punire gli “eretici” nelle loro diocesi, ma quell’incarico si era rivelato oltremodo gravoso per loro. Scrive lo storico A.S.Turberville: “... una lettera molto importante di papa Gregorio IX, dell’aprile 1233, dice che i vescovi sono oppressi da ‘un turbine di preoccupazioni’ e da ‘schiaccianti ansietà’; e, pertanto, il papa annuncia di avere, in seguito a ciò, deciso di mandare i Domenicani o Frati Predicatori a dar battaglia agli eretici di Francia. Nella misura in cui è legittimo attribuire l’origine di una tale istituzione a un solo uomo e a una data precisa - ne deduce lo scrittore inglese - l’origine dell’Inquisizione può essere attribuita appunto a Gregorio IX e fissata in quest’anno, 1233” (L’inquisizione spagnola, p. 5). The Catholic Encyclopedia, all’articolo “Inquisition” (vol. VIII, p. 34), citando una bolla di Innocenzo IV (1243-1254), dice quanto segue riguardo al ruolo assegnato dal papa all’autorità secolare nei processi inquisitoriali: “Innocenzo IV dichiara nella bolla ‘Ad extirpanda’: ‘Quanti siano stati giudicati colpevoli di eresia, consegnati che siano dal vescovo o dal suo rappresentante o dall’inquisitore al potere civile, il potestà o il magistrato-capo della città li 439

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prenderanno subito in consegna ed entro cinque giorni al massimo eseguiranno la sentenza che sarà stata pronunciata a loro carico...’ Non potevano sussistere dubbi - spiega l’estensore dell’articolo - su ciò che significavano le disposizioni legislative civili, giacché gli articoli delle decretali papali che stabilivano l’abbruciamento degli eretici impenitenti provenivano dalle costituzioni imperiali ‘Commissis Nobis’ e ‘Inconsutibilem tunicam’. La suddetta bolla ‘Ad Extirpanda’, - prosegue l’articolo - da allora in poi documento fondamentale dell’Inquisizione, fu rinnovata e rinforzata da vari papi fra i quali Alessandro IV (1254-61), Clemente IV (1265-68), Nicolò IV (1288-92), Bonifacio VIII (1294-1303) e altri. Pertanto le autorità civili erano tenute dai papi, sotto pena di scomunica, nell’obbligo di eseguire le sentenze legali che condannavano alla pena del rogo gli eretici impenitenti” (cit. da S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 381). Il tribunale dell’Inquisizione o sant’Uffizio, come è stato accennato sopra, fu da papa Gregorio IX affidato ai domenicani nel 1233. Quest’ordine religioso era stato fondato nel 1215 da Domenico di Guzman con lo scopo di combattere l’eresia attraverso l’insegnamento e la predicazione. La vita di povertà dei frati dell’ordine voleva essere una risposta all’accusa di amore per la ricchezza materiale rivolta alla Chiesa dai movimenti cosiddetti “ereticali”. Dopo la morte del fondatore, la lotta dei domenicani contro il dissenso religioso fu però proseguita con ben altri metodi. La procedura segreta adottata dal tribunale dell’Inquisizione prevedeva che la prova del “delitto” si fondasse su denunce anonime senza necessità di deposizioni testimoniali, come pure sulle confessioni estorte con la tortura. I domenicani gestirono con “professionalità” e grande zelo il tribunale della “Santa Inquisizione”. Numerosi “eretici” furono arsi vivi a Roma nel 1231 sotto il pontificato di Gregorio IX (v. E.Meynier, op. cit., p. 161). L’anno seguente il pontefice ingiunse all’arcivescovo di Tarragona con la bolla “Declinante” di stanare e far condannare gli “eretici” nella sua diocesi. Agli inizi del XIV secolo l’Inquisizione in Spagna agiva con grande vigore: si parla di un numero ingente di “eretici” fatti perire sui roghi in questo periodo. Nei domini spagnoli il domenicano Nicola Eymeric fu avversario irriducibile di Raimondo Lullo, un terziario francescano che si era distinto per lo zelo con cui aveva cercato di riguadagnare gli eretici e convertire gli infedeli mediante la persuasione. “Il crimine più odioso di Lullo agli occhi di Eymeric - dice lo storico A.S.Turberville - era la sua fiducia nell’efficacia degli argomenti, dell’appello alla ragione, quali mezzi di conversione, come pure la sua tesi che fosse ingiusto uccidere gli eretici...” (op. cit., p. 15). Mentre nell’Europa del nord l’Inquisizione ebbe scarsa rilevanza (in Inghilterra sembra che il sant’Uffizio agisse una volta sola, in Boemia, Ungheria e Polonia fece ben poco e nella Scandinavia non agì affatto), nel centro e sud Europa fu invece assai vigorosa: oltre che in Spagna, i roghi si moltiplicarono in Francia, in Italia e nella Germania. A uno spirito moderno riesce difficile capire come la Chiesa medievale potesse giustificare una repressione violenta della dissidenza quale nei tempi moderni si riscontra soltanto nell’ambito dei regimi politici totalitari (nazismo, stalinismo). Lo storico inglese che abbiamo citato sopra (op. cit., pp. 1-2) ricorda che 440

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Tommaso D’Aquino paragonò l’eretico al falsario e argomentò che come il falsario nuoceva alla vita temporale corrompendo il corso della circolazione monetaria, così l’eretico minava la vita spirituale corrompendo la fede. E concluse che come la morte era la pena che il principe temporale infliggeva al falsario, così la morte doveva essere la giusta punizione da applicare all’eretico la cui colpa era tanto più grave in quanto la vita dell’anima valeva più di quella del corpo. “Se si vuole comprendere che cosa fu l’Inquisizione - spiega A.S.Turberville è d’importanza decisiva afferrare i due assunti fondamentali su cui è basato un simile ragionamento (il ragionamento cioè di Tommaso d’Aquino). Primo: esiste una Repubblica Christiana, un’unica società cristiana proprio come esiste una sola Chiesa cattolica; e tanto la Chiesa quanto lo Stato si fondano essenzialmente sulle verità della religione cristiana. Secondo: la sicurezza del corpo politico ed ecclesiastico richiede disciplina tanto nella Chiesa quanto nello Stato, cioè obbedienza del suddito verso i suoi legittimi governanti, civili e religiosi. Perciò l’eretico è un ribelle e un essere spregevole, proprio come il delinquente” (op. cit., p. 2). È evidente che l’intolleranza religiosa medievale e la sua espressione più truce, l’Inquisizione con i suoi orrori, trovarono nella concezione teocratica dello Stato, e quindi nell’intreccio e nella confusione dello spirituale col temporale, una delle motivazioni più forti a loro giustificazione. Apologisti antichi e moderni hanno tentato di legittimare l’Inquisizione invocando il diritto-dovere della Chiesa di difendersi dall’eresia. A una coscienza civile moderna, però, l’infliggere sofferenze e il togliere la vita appaiono abusi che assolutamente nulla può giustificare. Autori contemporanei cattolici onesti e imparziali lo hanno riconosciuto. Scrive Anthony Keller: “Qualche scrittore cattolico tenta ancora una pallida difesa dello spietato tribunale ecclesiastico, affermando che in sostanza la Chiesa aveva il diritto di difendersi dall’eresia e che, nel caso degli Albigesi, Gregorio IX - come già il suo predecessore Innocenzo III - si era trovato di fronte a un problema insanabile coi soli metodi persuasivi. Ma evidentemente nessuna giustificazione può essere invocata di fronte alle migliaia e migliaia di vittime sulle quali la Chiesa ha costruito la sua vittoria, fatto trionfare il suo ‘diritto’ e impostato la soluzione del ‘problema’. Le macchie di sangue non si cancellano più” (op. cit., p. 181). d) L’inquisizione spagnola Per la ferrea organizzazione e per la severità con cui operò per più di trecento anni, l’Inquisizione spagnola merita di essere ricordata a parte. Nel primo medioevo i mori e gli ebrei formavano una parte considerevole della popolazione iberica. Fino a tutto il XIII secolo cattolici, musulmani ed ebrei convissero nella penisola in condizione di quasi normalità; ma dall’inizio del XIV secolo i rapporti fra cristiani e non cristiani si deteriorarono per il mutato atteggiamento dei primi verso questi ultimi. “Il popolo - scrive A.S.Turberville - venne eccitato contro gli Ebrei, specialmente dall’eloquenza di predicatori il cui zelo era dovuto a motivi del tutto sinceri giacché erano convinti che le relazioni fra i Cristiani e gli Ebrei avrebbero condotto alla contaminazione della fede cristiana” (op. cit., p. 20). Ci furono 441

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massacri di Ebrei in varie province spagnole; “il più grave fu quello accaduto a Siviglia nel 1391, come diretto risultato del fervidissimo zelo antiebraico di un arcidiacono di nome Martinez, ed esteso a Cordova e Toledo, a Burgos e ad altre città castigliane. Nello stesso anno, vi furono violenze consimili nelle città dell’Aragona e a Maiorca” (ibidem). I massacri del 1391 indussero molti ebrei a farsi cattolici prima della fine di quell’anno. Si formò così una nuova classe di ebrei cristianizzati che in seguito furono chiamati conversos e talvolta marranos. Si cominciò a sospettare che le conversioni ispirate dalla paura delle persecuzioni fossero superficiali, e non c’è da dubitare che lo fossero, almeno in buona parte. Alla conversione forzata degli ebrei tenne dietro quella dei mori, che fu intrapresa per ispirazione dell’arcivescovo di Toledo Francisco Ximenes De Cisneros. Ben presto ci si rese conto che i neoconvertiti, sia ebrei che musulmani, in segreto mantenevano in tutto o in parte le credenze e le pratiche delle religioni d’origine. Ciò fu visto come un affronto alla fede cattolica e come un pericolo di anarchia religiosa. D’altronde i tribunali ecclesiastici episcopali si erano mostrati incapaci di preservare l’unità della fede cattolica. La determinazione di mantenere l’ordine, l’uniformità e l’ubbidienza alle autorità sia nella Chiesa che nello Stato, ma anche la cupidigia della corona (i beni degli ebrei facevano gola), e, non ultime, le pressioni di ecclesiastici eminenti quali il Mendoza, arcivescovo di Toledo, e il domenicano Torquemada, spinsero i reali di Castiglia e Aragona a intraprendere un’azione decisiva contro gli Ebrei e i Mori residenti nei loro domini. Con questo intento nel 1478 Ferdinando e Isabella chiesero a papa Sisto IV di introdurre l’Inquisizione nella Castiglia. Il pontefice concesse l’autorizzazione con una bolla ad hoc e nel 1480 due domenicani furono nominati inquisitori a Siviglia. Si aprì così quella pagina nefasta dell’inizio dell’età moderna che la Storia conosce col nome di “Inquisizione Spagnola”. Le prime vittime dell’Inquisizione spagnola furono gli Ebrei. Il 6 febbraio 1481 si celebrò il primo auto de fe della nuova inquisizione voluta dai reali di Castiglia: furono bruciati vivi sul rogo 6 conversos ebrei. Era il “braccio secolare” che bruciava vivi gli “eretici”, ma era la Chiesa, attraverso il tribunale dell’Inquisizione, che li consegnava al braccio secolare perché fossero puniti con quell’atroce supplizio. Dice A.S.Turberville “Per i più la maggiore infamia collegata all’Inquisizione è il rogo. E’ vero che il Sant’Uffizio ripudiava ogni responsabilità per la morte dell’eretico che consegnava al braccio secolare; ma si trattava di un ripudio meramente formale; gli autori di manuali e trattati inquisitoriali non esitano infatti a dichiarare che la morte sul rogo è l’unica pena giusta e adeguata per l’eretico ostinato e recidivo” (op. cit., p. 168). Al primo tribunale dell’Inquisizione istituito nella città di Siviglia seguirono ben presto quelli di Cordova, Jaen e Toledo. Sisto IV acconsentì che Torquemada, già inquisitore generale per la Castiglia, lo divenisse anche per l’Aragona. In certi momenti lo zelo fanatico degli inquisitori determinò nelle province spagnole sotto il controllo dei tribunali inquisitoriali, specie nell’Andalusia, un vero e proprio regime del terrore. Complotti immaginari e infondati sospetti di 442

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“ebraismo” portarono davanti agli inquisitori innumerevoli persone che non avevano a che fare con i “delitti” di cui li si sospettava. “Mediante i suoi Editti di Fede, l’Inquisizione dichiarò sistematicamente che la delazione era cosa degna di lode; con la soppressione dei nomi dei testimoni, la rese facile e sicura. Mise l’animo nobile alla mercé del volgare, il coraggioso alla mercé del vile, il generoso alla mercé del malvagio. Le virtù della fiducia reciproca, della comprensione e della simpatia furono scoraggiate. Per di più, era un aspetto essenziale del sistema che l’incorrere in sospetto diveniva virtualmente un crimine. Era quasi impossibile lasciare il tribunale davanti al quale si fosse stati calunniati, senza un marchio sul proprio onore. Gli Inquisitori non discutevano neppure se l’accusato fosse colpevole o innocente, ma cercavano di stabilire in quale misura fosse colpevole”. A.S.Turberville, op. cit., p. 167. Durante i tre secoli e più di storia dell’Inquisizione spagnola migliaia di ebrei perirono sui roghi. Meno numerose furono le vittime tra i musulmani. Carlo I d’Aragona, nipote di Ferdinando e Isabella (divenuto Carlo V come sovrano del Sacro Romano Impero nel 1519), non fece nulla per mitigare la severità dell’Inquisizione; anzi il suo spirito religioso fino al fanatismo lo portò a renderla più salda che mai e a estenderla a tutta la Spagna. Nei primi decenni del ‘500, Erasmo da Rotterdam aveva numerosi ammiratori fra gli uomini di cultura della nazione iberica. A Partire dal 1531 anche i devoti spagnoli del grande umanista fiammingo si trovarono in pericolo, perché certe sue dottrine furono sospettate di eresia. Vari intellettuali, e persino un abate benedettino, furono condotti davanti all’Inquisizione e processati; l’abiura de vehementi li salvò dal patibolo ma non dal pubblico disprezzo. La presenza del protestantesimo in Spagna fu un fatto episodico. Il primo importante riformatore spagnolo, Francisco De San Roman, fu arrestato a Ratisbona per ordine di Carlo V; tradotto in Spagna, venne linciato dalla folla mentre lo si conduceva al patibolo. Juan Jil, un dotto spagnolo che aveva abbracciato le idee riformate e fondato una comunità luterana in Siviglia, fu arrestato e si salvò con l’abiura; fu trattato con grande moderazione forse per la stima di cui godeva presso Carlo V. Quattro anni dopo la morte però le sue ossa furono riesumate e bruciate. I capi della comunità sivigliana Ponce De La Fuente e Juan Ponce de Leòn, scoperti furono arrestati e condotti davanti al tribunale inquisitoriale. Juan Pone de Leòn, benché avesse ritrattato, fu arso vivo insieme con altri 17 luterani in un auto de fe del 24 settembre 1559, quando sul trono di Spagna sedeva da 3 anni Filippo II, figlio e successore di Carlo V. In quella circostanza 21 persone accusate di protestantesimo abiurarono e scamparono al rogo. In un successivo auto de fe del 22 dicembre 1560, 14 riformati furono consegnati al braccio secolare per essere arsi vivi; uno di loro, un certo Hernàndez, rifiutò di tradire i compagni nonostante le più atroci torture inflittegli da quella gestapo antilitteram. Due altri autos si celebrarono in Siviglia nel 1562 in ciascuno dei quali furono consegnati al braccio secolare e arsi vivi 9 luterani. Un numero esiguo di riformati spagnoli furono condannati al rogo in vari autos celebrati nel 1564 e 1565; più numerosi furono invece i prigionieri stranieri di fede luterana catturati in Spagna, segno che la minuscola comunità di protestanti spagnoli in Siviglia 443

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era stata praticamente sterminata. Un secondo gruppo di luterani indigeni era sorto nella Spagna settentrionale, a Valladolid. Anch’esso fu cancellato in breve volgere di tempo dall’Inquisizione. Un primo auto de fe si svolse a Valladolid il 21 maggio 1559: furono condotti al supplizio due eminenti rappresentanti della locale comunità luterana, Augustin De Cazallas e Antonio De Herrazuelo. Il primo ritrattò ed ebbe la grazia di essere strangolato prima che il suo corpo fosse dato alle fiamme. La moglie di Herrazuelo ritrattò e fu punita col carcere a vita; dopo 7 anni ritirò la ritrattazione e fu condotta al rogo. I resti della madre di Cazallas, colpevole di avere ospitato a casa sua dei riformati per i servizi religiosi, vennero riesumati e bruciati e la casa stessa fu rasa al suolo. Gli ultimi protestanti di Valladolid comparvero l’8 ottobre 1559 in un auto de fe celebrato con grande solennità davanti a una folla di almeno 200.000 spettatori e alla presenza del re Filippo II. Dei 26 condannati, 2 furono arsi vivi (uno di loro, di nome De Seso, che era stato il fondatore della comunità, aveva subito tali torture che a malapena poté reggersi in piedi per ascoltare la sua sentenza). Altri fecero atto di contrizione davanti al rogo e furono strangolati prima di essere bruciati. Dopo il 1565 il protestantesimo spagnolo era praticamente estinto. L’Inquisizione celebrò ancora i suoi atroci autos de fe, ma le vittime furono marinai e commercianti stranieri di fede luterana che commisero l’imprudenza di rivelare la loro identità religiosa in territorio spagnolo. Nel 1570 l’Inquisizione fu esportata nelle colonie sudamericane della Spagna: un tribunale fu istituito a Lima, nell’attuale Perù, e commissari inquisitoriali vennero insediati in varie località del continente. Quegli spietati persecutori ebbero il loro da fare quando nel sud-America sbarcarono numerosi ebrei portoghesi. Con l’avvento della dinastia dei Borboni in Spagna all’inizio del secolo XVIII, l’Inquisizione dovette mitigare i suoi metodi brutali: gli inquisitori spagnoli di quest’epoca furono “dei veri modelli di dolce ragionevolezza e clemenza. Lo spirito dell’età... era più forte dell’Inquisizione” (A.S.Turberville, op. cit., pp. 150-151). Tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX, lo spirito liberale e repubblicano della Rivoluzione Francese investì anche la Spagna. Nel 1798 il vescovo repubblicano francese di Blois chiese agli spagnoli di abolire l’Inquisizione, rovesciare il dispotismo regio e instaurare la tolleranza religiosa, ma non fu ascoltato. Nel dicembre del 1808, Napoleone Bonaparte in persona giunse a Madrid - dove quello stesso anno le armate di Murat e Junot avevano messo sul trono di Spagna Giuseppe Bonaparte - e dispose con un decreto l’abolizione dell’Inquisizione e il sequestro delle sue proprietà a beneficio della Corona. Nel 1813 le Cortes di Cadice - un organismo giuridico che rappresentava i territori non conquistati dalla Spagna - sebbene ostili ai Francesi, decretarono che l’Inquisizione era incompatibile con la nuova costituzione repubblicana da esse adottata l’anno precedente. Nel 1814 il liberismo spagnolo ricevette un duro colpo con la restaurazione di Ferdinando VII, e l’Inquisizione fu ripristinata, ma fu un episodio di breve durata. Nel 1820 la rivolta ispirata dal malgoverno di Ferdinando costrinse il re a 444

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giurare fedeltà alla Costituzione del 1812 e ad abolire l’Inquisizione. Nel 1823 un’armata francese entrò nel territorio spagnolo per restituire a Ferdinando il pieno esercizio del potere regio, ma grazie all’atteggiamento fermo dei Francesi l’Inquisizione non fu più ripristinata. Nel 1868 il principio della tolleranza religiosa fu introdotto nella Costituzione spagnola e la persecuzione religiosa istituzionalizzata - figlia mostruosa dell’ibrido connubio fra il trono e l’altare - cessava definitivamente dopo secoli di orrori indescrivibili. e) La persecuzione dei Valdesi Mezzo secolo dopo la conversione di Pietro Valdo, fiorenti colonie valdesi erano stanziate nelle valli alpine del Piemonte, nella pianura lombarda e a nord delle alpi. Nel corso del XIII secolo nuove colonie fiorirono in Calabria, Puglia, Marche e Umbria. Verso la metà del ‘200 una prima ondata repressiva si abbatté sulle comunità lombarde costringendole ad abbandonare le città e cercare rifugio nelle campagne. Agl’inizi del ‘300, la persecuzione flagellò le comunità che si erano insediate nella valle del Danubio e quelle stanziate nella zona delle Alpi occidentali. Nel Delfinato la repressione fu particolarmente dura. A Pinerolo nel 1312 si accese il primo rogo di cui si ha notizia. La corte papale di Avignone non tollerava che l’eresia valdese prosperasse in quella parte della Francia così vicina ad essa. Giovanni XXII e Benedetto XII in particolare esercitarono forti pressioni sui principi temporali, i vescovi e gli inquisitori affinché la “valdesia” fosse estirpata nella Francia del sud; e le prigioni non bastarono più per contenere gli arrestati. Dopo alcuni anni di calma relativa la repressione si scatenò di nuovo, negli ultimi decenni del secolo XIV, nelle regioni a nord e ad est delle Alpi occidentali. Due zelanti inquisitori, certi Martino Da Praga e Pietro Zwicker, fra il 1380 e il 1404 istruirono centinaia di processi per “eresia” a carico di credenti valdesi nella Baviera, nel Brandeburgo, nella Stiria, nell’Ungheria, nella Slovacchia e nella Svizzera. Si riaccesero i roghi e si riempirono di nuovo le prigioni. La stretta dell’Inquisizione non s’allentò neppure durante il periodo critico dello Scisma d’Occidente, allorché per quasi 40 anni due papi (e talora tre) si anatemizzarono a vicenda da Roma e da Avignone. Alla fine del ‘300, stremato da quasi due secoli di persecuzioni, il popolo valdese sembrava prossimo all’estinzione; invece riprese vigore, specie dopo che, nel secolo successivo, strinse alleanza coi Taboriti, l’ala intransigente del movimento boemo degli Hussiti. Verso il 1450 furono riattivate le misure repressive contro i gruppi valdesi delle Alpi occidentali; esse furono più dure sul versante francese dove la persecuzione, organizzata dal legato papale e condotta dal duca Filippo di Savoia con l’assenso del re di Francia Carlo VIII, assunse i caratteri di una vera e propria crociata con una caccia spietata all’eretico. Nel 1488 la soldataglia del duca di Savoia devastò il Pragelato nel Piemonte, costringendo i valdesi a cercare scampo sui monti. Poi le milizie sabaude invasero le vallate del versante francese distruggendone i villaggi. Le popolazioni 445

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fuggite sui monti furono raggiunte e massacrate senza pietà; decine di donne e bambini furono bruciati vivi nella caverna in cui avevano cercato rifugio. Nel 1532 si compì una svolta significativa nella storia del movimento valdese: a Chanforan, nella Val d’Angrogna, si tenne un sinodo storico nel quale i valdesi decisero di inserirsi nel grande movimento della Riforma. Tre anni dopo fu loro consegnata una traduzione in francese della Bibbia eseguita da Pietro Robert detto Olivetano e fatta stampare a loro spese a Neuchâtel. Nel 1536, crollato il ducato di Savoia i cui territori erano stati invasi dalle truppe francesi, il movimento valdese si consolidò e la Riforma si propagò nel Piemonte, ma la prospettiva del carcere e del rogo non si allontanò del tutto. Uomini di azione e di fede furono imprigionati e messi a morte. Nel 1536 fu annegato nell’Isère Martino Gonin, l’anno seguente vennero strangolati e arsi sul rogo Bartolomeo Hector e Nicolò Sartoris; nel 1538 fu martirizzato Goffredo Varaglia. Il rinnovamento religioso che aveva percorso la Francia nel primo scorcio del XVI secolo aveva favorito l’affermarsi della fede evangelica nella parte meridionale del paese. Le comunità valdesi del Lubéron, nella Provenza, divennero il nucleo centrale di una vasta zona a prevalenza evangelica. Ma i parlamenti locali non tollerarono questo stato di cose e intrapresero una decisa azione repressiva. Quello di Aix-en-Provence in particolare decretò nel 1540 la condanna a morte di 19 valdesi provenzali e la distruzione della loro roccaforte, il borgo di Lubéron sui monti omonimi. L’esecuzione dell’editto fu sospesa per l’intervento di Francesco I sollecitato dai principi tedeschi a seguito di un memoriale di Melantone; ma 5 anni dopo il re di Francia mutò atteggiamento e subito le bande mercenarie dell’armata del papa agli ordini del barone Giovanni Meynier mossero da Avignone e percorsero la Provenza devastando le campagne e distruggendo i villaggi. Pochi valdesi riuscirono a riparare in Svizzera o in Piemonte, i più furono in parte massacrati, in parte catturati e condannati a remare nelle galere reali. Nell’Italia del sud la repressione non fu meno spietata. Il 22 febbraio 1560 fu arrestato in Sicilia Giacomo Bonello, un predicatore piemontese che dalla Calabria si era recato nell’isola in missione esplorativa. Condannato a morte dall’Inquisizione, fu arso vivo a Palermo. Sette mesi dopo fu impiccato a Roma un altro predicatore piemontese, Gian Luigi Paschale, arrestato in Calabria dove si era recato in missione. Nello stesso anno giunsero a Cosenza, mandati dal cardinale Alessandrino (il futuro Pio V), gli inquisitori Alfonso Urbino e Valerio Malvicini. Per l’enclave valdese in Calabria, che da più di un secolo viveva quasi nell’ombra nelle campagne del cosentino, era giunta l’ora della fine. Gli inquisitori si misero subito all’opera coadiuvati dai soliti delatori anonimi e cominciarono gli arresti e le torture. I frati ebbero l’appoggio incondizionato del governatore della regione e nelle campagne popolate da contadini valdesi si sparse il terrore. Chi poté fuggì ai monti o nei boschi. Nella zona di S.Sisto i perseguitati, braccati, reagirono con la forza della disperazione e gli assalitori furono respinti con perdite. Gli inquisitori bandirono allora una “santa” crociata e la repressione fu feroce. Tra maggio e giugno 1561 i fanti di Filippo II 446

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giunti espressamente dalla Spagna e i galeotti del vicereame liberati per l’occasione invasero il territorio dell’enclave valdese e fu la carneficina. S.Sisto e Guardia Piemontese furono rasi al suolo. Gli scampati al massacro, fatti prigionieri, in parte furono bruciati vivi, in parte furono venduti schiavi ai mori e in parte furono gettati nelle fosse e lasciati morire d’inedia. L’11 giugno a Montalto Uffugo 88 valdesi furono sgozzati a uno a uno come bestie da macello sulla scalinata della chiesa parrocchiale. Così in quella tragica primavera del 1561 la colonia valdese in terra calabra fu cancellata per sempre. In quegli anni la caccia all’eretico riprese anche nel Piemonte, dove il duca Emanuele Filiberto (1553-1580), rientrato in possesso delle sue terre dopo la vittoria degli Spagnoli sui Francesi, aveva intrapreso un’azione repressiva contro i valdesi. Il 21 gennaio 1561 le comunità contadine delle valli, raccolte in assemblea sui monti di Bobbio, approvarono un documento - il “patto dell’Unione”col quale si impegnavano a opporsi con le armi al potere assoluto del sovrano in difesa del loro diritto alla dissidenza. I ducali contrattaccarono ripetutamente, sempre respinti dai valdesi che avevano incendiato alcuni forti sabaudi. Emanuele Filiberto, dopo due mesi e mezzo di inutili tentativi di piegare i valdesi, decise di venire a patti con loro. Il 5 giugno 1561 - il giorno in cui in Calabria venivano distrutti S.Sisto e Guardia Piemontese - una deputazione valdese s’incontrò a Cavour coi plenipotenziari del duca. Dalle due parti fu firmato un accordo in base al quale veniva condonata ai valdesi l’indennità di guerra, erano loro riconosciuti alcuni diritti e si autorizzava la celebrazione pubblica del culto in alcune località scelte. Era la prima volta in Europa che un principe cattolico non solo rinunciava a distruggere l’eresia nei suoi possedimenti, ma ne riconosceva legalmente l’esistenza, anzi addirittura concedeva agli eretici garanzie giuridiche riguardo al loro culto. La curia romana naturalmente fece sentire la sua vivace protesta. Per i riformati del Piemonte seguì un periodo di stabilità e calma relative, anche grazie all’estendersi dell’influenza francese nelle terre sabaude. Entro la fine del secolo, però, quando il duca di Savoia ebbe conquistato l’area del marchesato di Saluzzo, la repressione antiprotestante riprese vigore e in gran numero i valdesi della regione si videro costretti a prendere la via dell’esilio verso il Delfinato o verso Ginevra. Agli albori del XVII secolo il cattolicesimo rinnovato uscito dalla Controriforma si avviò a riconquistare l’Europa: la Guerra dei trent’anni (1618-1648) riportò in effetti buona parte dell’area centrale del continente sotto il controllo di Roma. La ricattolicizzazione forzata delle terre già sotto l’influenza della Riforma non risparmiò le valli del Piemonte. Sotto il duca Vittorio Amedeo I (1630-1637) il culto cattolico fu imposto nella Val Pragelato. Nella seconda metà del secolo, sotto la reggenza di Maria Cristina, vedova di Vittorio Amedeo, e sotto i duchi Carlo Emanuele II (1638-1675) e Vittorio Amedeo II (1675-1730), le comunità valdesi del Piemonte vissero momenti tragici. Ai sudditi di un signore cattolico non era riconosciuto il diritto di professare una fede diversa dalla cattolica; per tutti gli acattolici dei suoi domini la corte sabauda fu dunque un nemico mortale. Nei primi mesi del 1655, quando a Torino reggeva il ducato per i figli minori 447

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Maria Cristina, un esercito ducale forte di 4.000 armati agli ordini del marchese di Pianezza invase le valli e si dette al saccheggio. Le popolazioni subirono con una sorta di fatalistica rassegnazione la violenta aggressione delle bande armate sabaude. Invano i valdesi fecero conoscere ripetutamente alla corte di Torino la loro intenzione di accettare le richieste dell’autorità ducale. Per imposizione del marchese di Pianezza, i soldati furono alloggiati nei comuni valdesi e una volta insediatisi si dettero a massacrare proditoriamente le popolazioni inermi (il fatto disgustoso passò alla storia col nome di “Pasque piemontesi”). Gli scampati alla strage fuggirono sulle alture dove la resistenza armata improvvisata da Giosuè Gianavello tenne a bada per alcuni giorni le bande ducali. Entro il 24 aprile 1655 tutta la Val Germanasca era sotto il controllo dell’autorità ducale e i capi delle comunità furono messi al bando. La notizia della brutale repressione suscitò orrore e indignazione in tutta l’Europa protestante. Il 17 maggio il Consiglio di Stato inglese giudicò il massacro dei valdesi in Piemonte un evento apocalittico, una manifestazione del potere dell’Anticristo. L’Inghilterra puritana manifestò il suo dolore per il martirio dei fratelli delle Alpi con un digiuno nazionale: il poeta John Milton evocò l’infausto evento in un sonetto famoso (vedere G.Tourn, I Valdesi, pp. 144, 145). Il 25 maggio l’Inghilterra inviò alla corte di Torino una nota di protesta e sollecitò l’intervento degli stati europei. Un mese dopo mandò a Torino un ambasciatore straordinario. Intanto nelle valli devastate i superstiti che erano stati piegati con la forza si ribellarono e sotto la guida di uomini abili e coraggiosi come Gianavello e Jahier (e in seguito anche di ufficiali ugonotti) intrapresero una guerriglia senza quartiere. Sotto la pressione della diplomazia internazionale e della guerra partigiana, la corte sabauda dovette cedere. Il 18 agosto 1655 i delegati valdesi, assistiti da diplomatici inglesi e svizzeri, si incontrarono a Pinerolo coi rappresentanti della corte, e dalle due parti fu firmato un accordo che riconosceva formalmente ai valdesi il diritto di esistere, ma in concreto lo negava, giacché le “Patenti di grazia”, come fu denominato il documento, presupponevano che a essi era concesso di esistere per la grazia del sovrano. Angherie di ogni genere, in continua violazione delle clausole dell’accordo, costrinsero i valdesi a riprendere la guerriglia e la corte sabauda ebbe buon gioco per farli passare come ribelli e banditi. La revoca dell’Editto di Nantes nel 1685, voluta da Luigi XIV di Francia, ebbe effetti immediati anche nel ducato di Savoia. Il culto riformato fu proibito in tutta la valle e furono demoliti i templi valdesi, tranne pochi che vennero requisiti e adibiti al culto cattolico. Nel gennaio del 1686 il duca Vittorio Amedeo II (1675-1730), cedendo alle pressioni dello zio, Luigi XIV, impose con un editto la cessazione del culto valdese, l’allontanamento dei pastori e il battesimo cattolico dei bambini. Parve ancora una volta che ai valdesi non rimanesse altra via che quella dell’esilio. Ma infervorati da un pastore originario del Delfinato, che sarebbe divenuto una figura di spicco nella storia del valdismo, Enrico Arnaud, scelsero ancora una volta la via della resistenza armata. All’inizio di maggio del 1686 le truppe sabaude di Gabriele di Savoia e 448

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quelle francesi agli ordini del maresciallo Catinat, accerchiarono le posizioni dei valdesi sulle alture impedendo la ritirata dei difensori. Ci fu una nuova carneficina dopo quella del 1655; i sopravvissuti che si arresero furono condotti nel fondovalle per essere avviati alle carceri; gli ultimi resistenti, catturati, furono precipitati nei burroni o impiccati agli alberi. Dei 14.000 valdesi che si stima vivessero nella valle prima della guerra, 2.000 perirono, 8.500 vennero rinchiusi nelle carceri del ducato in condizioni disumane e furono decimati dalla fame e dal freddo; circa 3.500 - i più fragili scamparono grazie all’abiura. Di 1.400 prigionieri avviati a Carmagnola ne sopravvissero 400; un migliaio rinchiusi a Trino si ridussero presto a soli 46. Duemila prigionieri furono venduti a Venezia e finirono come rematori nelle galere. A gennaio del 1687 il Duca concesse ai prigionieri sopravvissuti la facoltà di espatriare. In pieno inverno centinaia di donne, vecchi e bambini uscirono dalle orribili carceri sabaude - veri “lager” antilitteram - e intrapresero una lunga marcia verso la libertà. Tra la metà di gennaio e i primi di marzo partirono in 2.700; arrivarono a Ginevra in 2.490. La Controriforma aveva vinto ancora una volta lasciandosi dietro una scia di sangue, di rovine e di indicibili sofferenze. La comunità valdese delle Alpi uscì ridotta e stremata dalla terribile prova, ma non doma nella sua volontà di continuare a esistere. Tornare alle loro valli era l’aspirazione costante degli esuli. Un aiuto insperato venne ad essi ancora una volta dall’Inghilterra. Nel 1688 il parlamento, a maggioranza protestante, depose il cattolico Giacomo II Stuart (l’evento passò alla storia come la “Gloriosa rivoluzione”) e offrì la corona alla figlia del deposto sovrano, Maria, e al di lei marito, il protestante Guglielmo D’Orange, statolder d’Olanda. Stimolati e assistiti dagli emissari del nuovo re d’Inghilterra inviati in Svizzera, gli esuli progettarono una nuova spedizione militare per riprendere la guerriglia alle spalle delle truppe franco-sabaude- La notte del 27 agosto 1689 un corpo di spedizione forte di 900 uomini sbarcò sulla riva meridionale del Lago Lemano e si avviò a marce forzate verso le Alpi piemontesi (l’evento memoriale è ricordato dai Valdesi come il “glorioso rimpatrio”). All’avvicinarsi della piccola armata, le popolazioni cattoliche che si erano insediate nelle terre valdesi fuggirono al piano: tutta la Val germanasca fu liberata senza combattere. Catinat reagì immediatamente, ma la sua offensiva in gran parte fallì. Seguì una lunga pausa invernale durante la quale il corpo di spedizione valdese venne del continuo assottigliandosi, sì che a primavera rimanevano sulle alture soltanto 300 uomini. Enrico Arnaud, che aveva avuto un ruolo determinante nell’organizzazione del rimpatrio, assunse il comando militare e la condotta religiosa della minuscola schiera. Ai primi di maggio Catinat dispose in ordine di battaglia i suoi 4.000 uomini. E per i 300 disperati arroccati sui monti parve che non ci fosse scampo. Un evento naturale imprevedibile - una fitta nebbia scesa durante la notte - venne in soccorso degli accerchiati permettendo loro di ritirarsi e attestarsi su posizioni più sicure. Pochi giorni dopo un evento politico ancora più imprevedibile li 449

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salvò definitivamente: il duca di Savoia ruppe l’alleanza coi Francesi e strinse alleanza con l’Inghilterra e l’Austria. Nel 1694 Vittorio Amedeo II, per compiacere ai nuovi alleati, dovette emanare un editto di tolleranza che riconosceva ai valdesi il diritto di esistenza nelle loro terre. Due anni dopo però il duca, verosimilmente sotto la pressione del clero, trovò ancora il modo di colpire indirettamente i riformati dei suoi domini senza violare l’editto di tolleranza. Rientrato, con la pace di Ryswick, in possesso di territori già sotto la sovranità della Francia, espulse dai suddetti territori tutti i sudditi francesi che vi si erano insediati. Di conseguenza dovettero prendere la via dell’esilio circa 3.000 riformati di nazionalità francese (valdesi e ugon,otti che si erano rifugiati in quelle terre dopo la revoca dell’Editto di Nantes). Lo stesso Arnaud dovette andarsene. Vittorio Amedeo II restrinse di nuovo la libertà di culto nei suoi domìni dopo la pace di Utrecht del 1715 che gli aveva permesso di recuperare la Savoia. Nel 1716 il duca proibì le assemblee non cattoliche con più di 10 partecipanti e nel 1721 impose il battesimo cattolico di tutti i neonati. Frattanto nella vecchia Francia borbonica e clericale, sotto l’influenza delle idee innovatrici dell’Illuminismo, maturavano eventi che avrebbero infine spazzato via l’ “Ancien Régime” e instaurato un clima liberale. Il piccolo popolo valdese delle Alpi salutò con entusiasmo i tempi nuovi che si annunciavano. I Valdesi aderirono all’ideale di “libertà”, eguaglianza e fraternità della Rivoluzione e divennero giacobini moderati. Dopo la Rivoluzione, con l’estendersi al di qua delle Alpi dell’impero napoleonico, finirono le persecuzioni e le angherie della corte ducale contro i valdesi, ma finì anche il popolo valdese come realtà giuridica e sociale. La libertà di culto fu garantita, ma furono liquidate le strutture ecclesiastiche realizzate dai valdesi nei secoli, furono soppressi il Sinodo e la Tavola, furono annullati i regolamenti. Le chiese del Piemonte furono aggregate al Protestantesimo francese e i loro ministri vennero stipendiati dallo Stato. La restaurazione post-napoleonica riportò nel Piemonte i Savoia. Nel 1815 il Congresso di Vienna restituì a Vittorio Emanuele I re di Sardegna (1802-1821) tutti i possedimenti sabaudi con l’aggiunta della Liguria. Col ritorno dei Savoia tornarono in vigore i divieti e le restrizioni, non però ai livelli dell’epoca pre-rivoluzionaria; i tempi comunque erano cambiati! Lo stato sabaudo, gretto e cattolico, dovette aprirsi alla politica internazionale: gli stati europei a regime monarchico che avevano contribuito a restaurarlo con l’abbattere l’impero napoleonico, aprirono a Torino le loro sedi diplomatiche. Fra questi stati figuravano l’Inghilterra, l’Olanda e la Prussia, potenze notoriamente protestanti . Ora i valdesi delle valli avevano degli interlocutori influenti a cui rivolgersi in caso di necessità. Nel 1848 - l’anno fatidico delle rivoluzioni liberali in Europa - i valdesi rivolsero a re Carlo Alberto una supplica con la quale domandavano che fossero aboliti i Decreti che restringevano le loro libertà. L’8 febbraio di quell’anno il sovrano rese pubblica la sua intenzione di concedere alla Nazione lo Statuto, e 9 giorni dopo annunciò le “Lettere Patenti” con cui intendeva restituire ai valdesi i 450

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diritti civili e politici, ma non i diritti religiosi. Le “Lettere Patenti” stabilivano testualmente: “Nulla però è innovato quanto all’esercizio del loro culto e alle scuole da essi dirette” (da G.Tourn, I Valdesi, p. 203). Nel 1852 divenne primo ministro del regno sabaudo Camillo Benso Conte Di Cavour. Attraverso la madre ginevrina e gli ambienti protestanti inglesi e svizzeri coi quali ebbe stretti contatti, lo statista piemontese subì fortemente l’influenza del protestantesimo. Liberale convinto, Cavour contribuì alla laicizzazione dello Stato, nonostante l’opposizione del clero e di re Vittorio Emanuele II, applicando nel 1855 la famosa formula “Libera Chiesa in libero Stato”. La politica liberale cavouriana giovò alla causa della libertà religiosa dei Valdesi e in generale dei protestanti in Italia. Dopo 3 secoli di persecuzione e 150 anni di segregazione, i valdesi poterono infine vivere da liberi cittadini in uno stato non più stretto nella morsa del clericalismo ! (Le notizie di questa sezione della nota 11a sono state attinte in massima parte nell’opera di Giorgio Tourn, I Valdesi). f) Wycliff e Huss. Persecuzioni dei Lollardi in Inghilterra e degli Hussiti in Boemia Negli anni della “cattività babilonese” (1309-1376), la corte papale di Avignone cercò di emulare le corti secolari nella ricchezza e nello sfarzo. “La vita che i papi conducevano in Avignone - dice lo storico Carl Grimberg - suscitava scandalo a motivo del lusso che regnava nel palazzo e delle numerose feste con le quali cercavano di eclissare tutti gli altri potenti d’Europa” (Storia Universale, vol. IV, p. 338). Per mantenere un tenore di vita così dispendioso, i pontefici si videro nella necessità di creare un esoso sistema fiscale. “La curia - osserva A.Agnoletto - diventa un governo non molto diverso nella sua prassi degli altri cosiddetti civili o temporali. Le nomine ecclesiastiche, le concessioni di indulgenze, il bando di crociate, lo scioglimento di voti: tutto è pretesto per incamerare proventi” (Storia del Cristianesimo, p. 200). In Inghilterra un uomo di notevole statura intellettuale e morale, John Wycliff, insorse contro siffatto stato di cose e stigmatizzò il malcostume del clero, triste corollario di un seguito di mali che segnarono la vita della Chiesa in questo periodo del Medioevo. Scrive ancora C.Grimberg riguardo alle prese di posizione di Wycliff nei confronti del clero del suo tempo: “Davanti allo spettacolo della corruzione che regnava fra preti e monaci, egli si sentì l’animo di un Geremia: confrontava la vita dissoluta dei chierici del suo tempo ai costumi di estrema purezza dei primi cristiani; portava questi ad esempio di tutti i servi della Chiesa, dal papa fino all’ultimo curato; scagliava fulmini contro le orde di monaci fannulloni ‘dalle gote rosse e tonde e dallo stomaco capace di digerire il cibo di un’intera famiglia’ ” (op. cit., pp. 341-342). John Wycliff era un uomo di cultura. Nato intorno al 1320 in una famiglia dello Yorkshire appartenente alla piccola nobiltà, da adulto studiò diritto, filosofia e teologia nell’Università di Oxford dalla quale ottenne al termine degli studi il dottorato in queste discipline. 451

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Nel 1367 nacque una controversia fra la curia avignonese e la corona britannica, avendo il Parlamento londinese respinto la richiesta avanzata da Urbano V riguardo al pagamento di un tributo non riscosso da vari decenni. Si trattava di un tributo che la Chiesa esigeva dallo Stato inglese in segno di sudditanza feudale da quando Innocenzo III aveva tolto l’interdetto a Giovanni Senza Terra e gli aveva restituito la corona. Wycliff intervenne in veste di giurista nel conflitto che oppose Urbano V ed Edoardo III, sostenendo l’indipendenza del potere civile dalla Santa Sede. La corona lo ricompensò con la nomina a professore di filosofia e teologia nella prestigiosa Università di Oxford; nel 1375 gli venne anche assegnata la parrocchia di Lutterworth. Paladino dei diritti nazionali contro le pretese del papato, Wycliff riscosse ampi consensi fra i connazionali. Nel 1376 il professore di Oxford, con la parola e con la penna attaccò duramente la mondanità della Chiesa. Richiamandosi al principio della povertà evangelica a cui la Chiesa deve ispirarsi, sostenne che i beni ecclesiastici dovevano essere incamerati dallo Stato e che questo doveva provvedere al sostentamento del clero. Wycliff si spinse tanto innanzi nella sua polemica antipapale da contestare l’autorità spirituale del pontefice. Gli avversari lo accusarono di eresia presso la curia e il papa si affrettò a condannare le sue idee. Il “delitto” più grave di Wycliff era stato l’attacco mosso al capo e ai principi della Chiesa. Il vescovo di Londra ricevette l’ordine di fare arrestare l’eretico: Wycliff fu tradotto davanti ai giudici londinesi, ma i nobili ve lo sottrassero a mano armata e l’opinione pubblica si schierò dalla sua parte. Lo scisma della Chiesa cominciato nel 1379, a tre anni dal ritorno del pontefice nella sede romana, precipitò la Chiesa stessa in una crisi ancora più profonda della precedente, con due pontefici che si davano reciprocamente dell’Anticristo, due curie e due esponenti separati, un ulteriore abbassamento del livello morale del clero e una cattolicità demoralizzata e disorientata. Lo storico C.Grimberg cita alcuni fatti che danno la misura del degrado morale del clero inglese in quegli anni infausti: “... fra il 1378 e il 1408 tre preti londinesi si erano resi colpevoli di assassinio, altri si davano al brigantaggio e ad altre violenze. Che i servi della Chiesa vivessero in concubinaggio invece che attenersi alle regole di astinenza sembrava a tutti tanto normale da non trovarsi nulla da ridire: certi vescovi, anzi, incoraggiavano tali pratiche in quanto vi trovavano ottima fonte di reddito a causa delle dispense che vendevano ai chierici” (op. cit., p. 343). Non meraviglia che Wycliff nei suoi scritti attaccasse con veemenza il celibato ecclesiastico. Il riformatore inglese rifiutò le dottrine della Chiesa che non avevano fondamento nella Scrittura, come le messe per i defunti, la teoria delle indulgenze, la venerazione dei santi e delle reliquie, la confessione auricolare. Sul dogma della transustanziazione espresse seri dubbi. In vari scritti sostenne la necessità di una riforma della Chiesa per attuare la quale l’unica guida doveva essere la Scrittura. Coerente con tale sua convinzione, nel 1380 intraprese quella che doveva essere l’opera più importante della 452

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sua vita, la traduzione della Bibbia nella lingua del popolo dal testo latino della Vulgata. L’avere istruito e inviato in missione per tutto il Paese un numero cospicuo di predicatori col compito di far conoscere agli inglesi le verità rivelate nella Scrittura fu un altro grande merito di Wycliff. Gli avversari chiamarono sprezzantemente “lollards”, “seminatori di zizzanie” (latino “lolium”) questi predicatori itineranti che il popolo accolse comunque con favore. La rivolta dei contadini nel 1381, della quale ingiustamente gli avversari addossarono la responsabilità a Wycliff, alienò al riformatore le simpatie di una parte della nobiltà e rafforzò la posizione dei suoi oppositori. Nel 1382 l’arcivescovo di Canterbury, l’avversario più accanito di Wycliff, convocò a Londra un sinodo che condannò come ereticali molte dichiarazioni del riformatore; gli amici che avevano condiviso e sostenuto le sue idee furono espulsi dall’Università e mandati in esilio. Wycliff comunque godette ancora del favore popolare e della protezione di uomini influenti e poté vivere e lavorare tranquillo fino al giorno della sua morte, sopravvenuta nel 1384. Per una di quelle svolte imprevedibili della storia che mutano il corso degli eventi, con l’ascesa al trono d’Inghilterra di Enrico IV Lancaster alla morte di Riccardo II Plantageneta nel 1399, la sorte dei seguaci di Wycliff cominciò a mutare. Forse più per ragioni politiche che religiose, il nuovo sovrano d’Inghilterra attuò una politica intollerante e persecutoria verso i lollardi. Il figlio e successore di Enrico IV, Enrico V, con l’appoggio della Chiesa, appesantì ancora di più la mano contro di loro. Numerosi seguaci di Wycliff furono imprigionati, torturati, arsi sul rogo. L’Inghilterra conobbe anch’essa gli orrori dell’Inquisizione che finora le erano stati risparmiati. Gli scritti di Wycliff giunsero in Boemia grazie agli stretti contatti che si stabilirono fra le università di Oxford e di Praga nei primi anni del ‘400. A Praga le tesi wycliffite suscitarono discussioni appassionate e raccolsero molti consensi tra i docenti e gli studenti. Si formò un partito di Wycliff a capo del quale venne a trovarsi Giovanni Huss, professore nell’Università di Praga e predicatore eloquente. Giovanni Huss era nato nel 1369 a Hussinetz, nella Boemia meridionale, da umile famiglia contadina. Nel 1390 era entrato nell’Università di Praga e sei anni dopo ne era uscito con un dottorato. Nel 1401 era stato nominato preside della facoltà di filosofia e nel 1409 rettore dell’Università. Attratto anche dalla vita ecclesiastica, nel 1400 era stato ordinato sacerdote e 3 anni dopo l’arcivescovo di Praga Sbynko lo aveva nominato predicatore del sinodo. Conquistato dalle dottrine di Wycliff, di cui tradusse in lingua boema il Trialogus, Giovanni Huss se ne fece entusiasta propagatore favorito dal suo ufficio di predicatore sinodale. Non era dotato di un ingegno personale (le sue prediche e i suoi scritti erano per la massima parte un riflesso degli scritti di Wycliff), ma la sua dialettica appassionata affascinava gli uditori. “Wycliff - scrive C.Grimberg - era un pensatore dalla schematicità di un sapiente; Huss, col suo entusiasmo passionale, divenne un profeta” (op. cit., vol. IV, p. 346). 453

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Le prediche di Huss suscitarono interesse e consensi crescenti fra il popolo e contribuirono a far sorgere in Boemia un movimento che assunse ben presto il carattere di una protesta nazionale contro la predominante influenza politica e culturale tedesca e contro l’invadenza del clero. Era inevitabile che l’ardente predicatore attirasse contro di sé l’ostilità degli ambienti ecclesiastici, specie dopo che ebbe denunciato con veemenza il lassismo scandaloso dei prelati. Nel 1410 l’arcivescovo Sbynko ottenne dal papa l’autorizzazione a proibire la diffusione delle dottrine di Wycliff e la lettura delle sue opere. Tutti gli scritti del riformatore inglese che si riuscì a raccogliere furono bruciati in un solenne autodafé. Per nulla intimorito da quelle misure repressive, e sorretto dalla fedeltà indefettibile dei suoi amici, Huss continuò a esporre e sostenere nelle sue prediche le idee innovative che erano giunte dall’Inghilterra. Neanche la scomunica vescovile che si abbatté su lui e sui suoi sostenitori valse a far desistere l’intrepido predicatore dal denunciare gli abusi di una Chiesa corrotta; quando venne in Boemia un legato di papa Giovanni XIII per offrire ai fedeli le indulgenze dietro compenso di denaro sonante (il denaro serviva al pontefice per intraprendere la guerra contro Ladislao re di Napoli partigiano del suo avversario Gregorio XII), Huss stigmatizzò duramente quel modo indegno di estorcere denaro alla povera gente. Tutta Praga si ribellò con lui e la pace della Chiesa fu turbata. Gli avversari dell’eretico ottennero da papa Giovanni XIII una nuova bolla di scomunica con la quale si proibiva ai buoni cattolici di dare cibo e bevanda al “ribelle” e persino di rivolgergli la parola. Con una bolla successiva il papa ordinava ai fedeli di impadronirsi della persona di Giovanni Huss e consegnarla al vescovo perché egli fosse giudicato e arso vivo sul rogo. E poiché le ingiunzioni delle due bolle non ebbero alcun effetto, il pontefice colpì di interdetto tutta la città. Huss, per liberare i concittadini dalla tremenda situazione, si allontanò volontariamente da Praga, non senza domandare al re che si convocasse un concilio. Nell’attesa proseguì nelle campagne la sua coraggiosa denuncia dei mali che avvelenavano la vita della Chiesa in Boemia, mali tutt’altro che immaginari. “Nel compulsare i processi verbali d’ispezione e altri documenti - scrive C.Grimberg - si ha realmente l’impressione che la decadenza morale dei preti boemi non avesse limiti. Alcuni storici ecclesiastici dell’epoca poterono assodare che una vita scandalosa era pressappoco di regola fra loro” (op. cit., pp. 348349). Con l’intento di risanare la crisi profonda in cui si dibatteva una chiesa divisa tra i partigiani di due papi deposti e ribelli e i sostenitori del papa riconosciuto come legittimo (Giovanni XIII), re Sigismondo d’Ungheria (in seguito anche re di Boemia e imperatore di Germania) sollecitò e ottenne dal pontefice la convocazione di un concilio che si aprì solennemente nella città di Costanza nell’autunno del 1414. Oltre che tentare di sciogliere il nodo della divisione della Chiesa, il concilio doveva anche affrontare la questione dell’eresia ussita. Fu intimato a Giovanni Huss di comparire davanti al concilio, ed egli fu lieto di recarsi a Costanza, credendo ingenuamente di poter convincere i padri 454

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conciliari di non essere un eretico; così, sordo agli appelli degli amici che cercarono in ogni maniera di dissuaderlo, egli partì per Costanza con un salvacondotto del re Sigismondo. Ma appena giunto in città fu arrestato dalle guardie del re e rinchiuso in prigione: Sigismondo aveva dovuto cedere al ricatto dei prelati che avevano minacciato di sciogliere il concilio. Condotto davanti al collegio dei cardinali con l’imputazione di avere sostenuto e propagato non meno di 43 “eresie”, il prigioniero, nonostante che avesse umilmente manifestato la sua disponibilità a ritrattare qualora lo si fosse convinto di eresia, fu gettato in una piccola cella buia malsana di un monastero sul lago di Costanza. Dopo più di 6 mesi di durissima prigionia e di sfibranti interrogatori che avevano irrimediabilmente minato la sua salute, Giovanni Huss il 6 luglio 1415 venne condannato alla pena del rogo. Udita la sentenza (si dice che il re fosse arrossito mentre la leggeva), l’eretico si genuflesse e invocò dal Signore il perdono per i suoi persecutori. Quello stesso giorno Huss sopportò con grande dignità il supplizio atroce che gli venne inflitto. La notizia del suo martirio suscitò grande dolore e indignazione in tutta la Boemia. L’anno seguente fu tradotto davanti agli inquisitori il discepolo di Huss, Girolamo da Praga. Avendo mantenuto con fermezza le sue convinzioni, come il suo maestro fu condannato per eresia e arso vivo sul rogo il 30 maggio 1416. “Se i prelati del concilio avevano sperato che bastasse far salire sul rogo Huss e Gerolamo per estirpare definitivamente l’eresia dalla Boemia - osserva C.Grimberg - si erano grandemente sbagliati; infatti il movimento ussita divenne veramente pericoloso proprio quando ebbe i suoi martiri” (op. cit.. p. 357). Gli ussiti e tutto il popolo boemo insorsero unanimi contro il re Sigismondo a cui non perdonarono di avere tratto in inganno Giovanni Huss con un falso salvacondotto. I contadini cechi trovarono un capo abile e valoroso in Giovanni Zizka. Quando la cavalleria tedesca per sollecitazione del papa intraprese una crociata per soffocare l’eresia in Boemia, dovette fare i conti coi patrioti di Zizka. Fortemente motivati essi affrontarono gli aggressori con grande determinazione e li sconfissero. In una successiva battaglia che ebbe luogo nel 1421 gli insorti boemi abilmente guidati dal loro condottiero, sebbene tre volte inferiori di numero rispetto ai nemici, conseguirono una vittoria ancora più eclatante sulle truppe di Sigismondo; il re stesso si salvò con la fuga. Purtroppo gli ussiti finirono per dividersi in due partiti in lotta fra loro: i moderati calistini che sostenevano l’opinione di Huss secondo cui tutto ciò che nel culto non era in aperto contrasto con la legge di Dio poteva essere mantenuto, e gli intransigenti taboriti, partigiani di una riforma radicale. Nelle lotte che seguirono alla spaccatura del movimento i taboriti ebbero la peggio e molti di loro perirono. I superstiti s’unirono ai valdesi boemi e insieme con loro formarono la comunità dei Fratelli boemi e moravi. I calistini, ai quali nel 1433 il concilio di Basilea aveva concesso il calice per i laici, si organizzarono come chiesa autonoma separata da Roma. La memoria di Giovanni Huss è ancora viva tra i Cechi, i quali considerano il riformatore-martire “il maggiore dei loro eroi nazionali, il loro primo campione della libertà religiosa e politica”. 455

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g) La Controriforma e il ripristino dell’Inquisizione Nella prima metà del ‘200 la Chiesa romana aveva istituito l’Inquisizione per prevenire la rinascita del catarismo, pressoché distrutto con la crociata di Innocenzo III (vedi sez. c di questa nota), e reprimere il valdismo che andava propagandosi nell’Italia del nord e nell’Europa centrale (vedi sez. e). Nei secoli XIII e XIV l’Inquisizione aveva agito in Germania, Francia e Italia, non sempre con eguale rigore ed efficacia, al punto da non riuscire a spegnere del tutto la dissidenza dottrinale. Nella Spagna invece l’aveva annientata sul nascere (vedi sez. d). Dal XV secolo la lotta contro la “valdesia” nella regione alpina era stata condotta dai duchi di Savoia (vedi sez. e), cosicché l’Inquisizione non era stata particolarmente impegnata in Italia. Nella Spagna al contrario era stata molto attiva da quando nel 1480 era divenuta un’impresa di Stato, e aveva agito con estrema durezza principalmente contro gli ebrei e i musulmani (vedi sez. d). Nel ‘500 la Chiesa romana si trovò a dover fronteggiare una situazione ben più seria di quella rappresentata dall’eresia valdese, vale a dire la propagazione in Europa della Riforma protestante. Per combatterla i papi intrapresero un’azione risoluta e vigorosa che gli storici tedeschi hanno denominato la Controriforma. Il Concilio di Trento (1545-1563) ne fu l’espressione più significativa. Prima di considerare la reazione cattolica alla Riforma luterana e gli effetti che essa ebbe sul nascente protestantesimo italiano, gioverà accennare a un avvenimento che precedette di mezzo secolo la Controriforma, e che mostra da un lato quanto fosse sentita anche in Italia la necessità di un rinnovamento interno della Chiesa e dall’altro quanto la Chiesa stessa fosse poco incline a rinnovarsi. La vicenda alla quale ci riferiamo si svolse nella Firenze dei Medici e della Repubblica post-medicea nell’ultimo scorcio del ‘400 ed ebbe a protagonista il domenicano Girolamo Savonarola. Nato a Ferrara nel 1452, Savonarola era entrato nel convento di S.Domenico a Bologna nel 1475 e sette anni dopo era stato inviato come predicatore a Firenze, nel convento di S.Marco. Avverso a quel rinascimento paganeggiante che in Firenze aveva avuto la sua culla, e disgustato dalla corruzione imperante nella società laica e nel clero, Savonarola vagheggiò il sogno di una città purgata da ogni forma di lassismo e tramutata in una sorta di stato teocratico, una novella Gerusalemme che stimolasse e guidasse il rinnovamento del mondo cristiano a cominciare da Roma papale. Mosso da un’ardente passione mistica, il frate-profeta perseguì con coraggio e tenacia il suo grande sogno. La sua figura di asceta e le sue prediche infiammate pervase di spirito biblico fecero grande impressione sui fiorentini. “Alla decadenza del clero e del papato, alla frivolezza della civiltà rinascimentale - scrive Attilio Agnoletto - fra’ Girolamo oppose la sua fede cementata dalla meditazione dell’Antico e del Nuovo Testamento, la sua irreprensibile purezza, il suo spirito d’ascetismo di sapore medievale” (Storia del Cristianesimo, p. 252). Con la venuta in Italia del re di Francia Carlo VIII e dopo la morte di Lorenzo Dei Medici avvenuta 2 anni prima, il frate innovatore accentuò la sua predicazione profetica e parve che il suo sogno di una Firenze rinnovata moralmente e politicamente si avverasse. Cacciati che furono i Medici e instauratasi la 456

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Repubblica fiorentina nel 1494, Savonarola ne divenne il capo effettivo. Il popolo fiorentino appoggiò la sua legislazione democratica che contemplava fra altre innovazioni la riforma delle imposte e l’abolizione dell’usura. Il frate insorse con veemenza contro la vita scandalosa che si conduceva nella corte papale a Roma e in modo particolare contro la condotta immorale di papa Borgia. Alessandro VI gli proibì di predicare, ma il frate non si sottomise. Scomunicato, rispose con parole assai dure al severo provvedimento del papa. “Come era da prevedere - dice lo storico del cristianesimo Enrico Meynier - in questa lotta tra Alessandro VI e l’ardente domenicano, questi doveva avere la peggio. Firenze lasciò che il Savonarola, che già era stato suo idolo, venisse giudicato e condannato a morte...” (Storia dei papi, p. 219). Accusato di essere un falso profeta e un eretico, Savonarola venne arrestato dopo che il popolino ebbe assalito il suo convento. Il partito reazionario in Firenze e la curia romana non gli perdonarono di avere voluto e promosso il rinnovamento della vita pubblica ed ecclesiastica nella città medicea. Tradotto davanti a una commissione pontificia per essere giudicato, il frate “ribelle” fu condannato a morte e consegnato al braccio secolare per essere giustiziato. Al vescovo che gli disse: “Io ti separo dalla Chiesa militante e trionfante”, rispose: “Trionfante no!” Il 23 maggio 1498 fra’ Girolamo e i suoi fedeli discepoli fra’ Domenico e fra’ Silverio furono impiccati in Piazza della Signoria; poi i loro corpi furono arsi e le ceneri furono sparse nell’Arno. Il rinnovamento morale che produsse l’opera di Girolamo Savonarola fu un fatto notevole ma episodico ed effimero, e circoscritto alla sola città di Firenze. La grande illusione del frate-profeta era stata quella di poter riformare la vita della Chiesa rimanendo nella Chiesa. Mezzo secolo dopo, la Controriforma agì all’interno della Chiesa romana come un movimento di rinnovamento e di conservazione nel medesimo tempo, e verso l’esterno assunse il carattere di una poderosa controffensiva all’indirizzo del protestantesimo. Per condurre questa azione i papi della Controriforma, da Paolo III e Giulio III a Paolo IV e Pio IV..., si valsero molto dell’opera degli ordini religiosi, massimamente della Compagnia di Gesù che lo spagnolo Ignazio Di Loyola aveva fondato con l’approvazione di papa Paolo III 5 anni prima dell’apertura del Concilio tridentino. La Compagnia di Gesù, “dono della Spagna alla chiesa” (K.Heussi), divenne di fatto la colonna portante della Controriforma. Nel quadro della lotta al protestantesimo Paolo III nel 1542 - dunque prima ancora dell’apertura del concilio - aveva ripristinato l’Inquisizione su sollecitazione del cardinale Gian Pietro Carafa (il futuro Paolo IV). Era nata così l’Inquisizione romana, della quale i Gesuiti divennero funzionari zelanti e instancabili. Improntata al modello spagnolo (vedi sez. d di questa nota) l’Inquisizione romana agì in Italia con estremo rigore al punto da cancellare il protestantesimo che, cominciava a mettere radici. Nella prima metà del ‘500 i principi della Riforma si erano propagati in varie parti d’Italia: al nord a Ferrara, a Modena e specialmente a Venezia; al centro a Lucca; al sud a Napoli. Fra i primi autorevoli aderenti alla Riforma in Italia sono da annoverare al nord il senese Bernardino Ochino, capo dell’ordine dei Cap457

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puccini, e al sud lo spagnolo Giovanni Valdès. La persecuzione antiprotestante inaugurata da Paolo III s’inasprì ulteriormente sotto il pontificato di Giulio III (1550-1555). In questo periodo fra altri riformati italiani perirono sul rogo il Fannio a Ferrara e Giovanni Buzio a Roma. Il marchese di Vico Galeazzo Caracciolo, pronipote del cardinale Carafa, si salvò con la fuga a Ginevra. Molti riformati italiani in quegli anni dovettero riparare all’estero. La repressione del movimento protestante in Italia si intensificò sotto il pontificato di Paolo IV (1555-1559), che i suoi biografi descrivono come uomo “intransigente, ostinato, collerico e crudele”. Nel 1558 subirono il supplizio del fuoco a Roma Baldo Lupetino e a Venezia Pomponio Algeri. A Roma le carceri dell’Inquisizione si riempirono di sventurati sospetti di “eresia”. Paolo IV infierì anche sugli Ebrei. Pio IV (1559-1565) proseguì l’azione repressiva antiprotestante con eguale rigore. Sotto il suo pontificato perirono sul rogo fra altri martiri del Vangelo il cappuccino Bartolomeo Fozio e il pastore valdese Luigi Paschale (1560), e si consumò lo sterminio spietato delle colonie valdesi in Calabria (vedi sez. e). Pio V (1566-1572), promotore instancabile della lotta contro il protestantesimo, nel 1569 promulgò un editto che introduceva la pratica della tortura verso i “rei” convinti di eresia per costringerli a ulteriori confessioni. Martiri illustri del protestantesimo italiano sotto il pontificato di Pio V furono il gentiluomo fiorentino Pietro Carnesecchi, decapitato e arso a Roma nel 1567, e il letterato e umanista Aonio Paleario bruciato vivo a Roma nel 1570. Nel 1568 si era registrato il maggior numero di processi contro i protestanti nel Veneto. Al cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, il papa affidò l’incarico di reprimere il protestantesimo nella città di Mantova. Il Borromeo si era già distinto come persecutore dei protestanti (nel 1556 aveva distrutto la fiorente chiesa evangelica di Locarno). Pio V premette ripetutamente su Emanuele Filiberto duca di Savoia affinché reprimesse l’eresia nei suoi stati. E intervenne energicamente nei Paesi Bassi e in Francia per la stessa ragione. Gregorio XIII (1572-1585) stimolò l’Inquisizione e vigilò affinché da Padova e Venezia non si propagassero per l’Italia le dottrine riformate. Sotto il suo pontificato si moltiplicarono i processi e le condanne per eresia. Come il suo predecessore, Gregorio XIII s’intromise nelle questioni interne della Francia per combattere gli Ugonotti. Sisto V (1585-1589) combatté il protestantesimo francese con la stessa tenacia del suo predecessore, ingerendosi pesantemente nelle questioni interne di quella nazione. Sisto V si intromise pure nella politica interna del regno d’Inghilterra appoggiando Maria Stuart, sostenitrice del partito cattolico, e osteggiando Elisabetta, protettrice dei protestanti. Comunque in Italia i processi e le condanne del tribunale dell’Inquisizione per eresia diminuirono., Urbano VII, Gregorio XIV e Innocenzo IX pontificarono per troppo breve tempo (rispettivamente 13 giorni, 10 mesi e 2 mesi) per potere agire in modo significativo contro la Riforma protestante in Italia. Clemente VIII (1592-1605), successore di Innocenzo IX, ebbe tutto il tempo di dedicarvisi e vi si dedicò con in458

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stancabile impegno. Tre anni dopo la sua elezione ebbe luogo in Italia la prima esecuzione di “eretici” del suo pontificato; altre seguirono negli anni successivi. Fra le vittime illustri dell’Inquisizione sotto Clemente VIII ci fu il filosofo Giordano Bruno che fu arso vivo a Roma nel 1600. Sedici anni dopo, regnando paolo V (1605-1621), fu convocato a Roma presso il Sant’Uffizio Galileo Galilei per assistere alla condanna e ricevere una solenne ammonizione. Nel 1633, sotto Urbano VIII (1623-1644), l’insigne scienziato, oramai settantenne, fu tradotto davanti al tribunale dell’Inquisizione e sotto minaccia di tortura fu costretto a ritrattare le tesi scientifiche che aveva sostenuto nell’ultima sua opera; dovette comunque scontare la condanna all’esilio. La Chiesa della Controriforma reputò legittimo combattere col massimo rigore non solo le dottrine religiose, ma anche le tesi filosofiche e scientifiche che giudicava contrarie alla sua dottrina. Urbano VIII procedette severamente contro l’eresia luterana in Italia, non ancora del tutto sradicata per l’atteggiamento benevolo verso di essa tenuto dalle autorità civili in varie città della penisola. Il pontefice ebbe forti attriti con Lucca, tollerante verso i protestanti tedeschi che vi risiedevano (nel 1640 scagliò l’interdetto sulla coraggiosa città toscana), e più ancora con Venezia, “colpevole” di avere stretto alleanza coi riformati di Germania, di tollerare il culto luterano e di porre ostacoli all’attività dell’Inquisizione. Durante il ‘700 i processi e le condanne per “eresia” in Italia furono assai meno numerosi che nei due secoli precedenti, sia perché la Controriforma praticamente aveva vinto la sua battaglia contro il protestantesimo, sia perché il diffondersi fra gli uomini di cultura delle idee innovative dell’Illuminismo fecero apparire intollerabili le misure repressive adottate dall’Inquisizione per sopprimere la dissidenza dottrinale. Ma fu solo alla fine del ‘700, quando la tempesta della Rivoluzione Francese si estese all’Italia con l’irruzione delle truppe napoleoniche e il potere del papato crollò di schianto (vedi nota 9 sez. l), che l’Inquisizione romana fu abolita, dopo avere prodotto durante più di due secoli innumerevoli martiri illustri e sconosciuti. h) La persecuzione degli Ugonotti in Francia Il calvinismo, da Ginevra che ne era stata la culla, si diffuse rapidamente nella Francia, terra d’origine del suo fondatore. I calvinisti francesi - o ugonotti, come furono chiamati con un nome di incerta origine - pur rappresentando una minoranza, ebbero un certo peso nella vita socio-politica ed economica della nazione. Particolarmente numerosi in alcune regioni del regno, come la Normandia, la Piccardia, il Poitou, il Delfinato e la Linguadoca, grazie allo spirito di intraprendenza che traevano dall’etica calvinista tesa a spingere l’uomo a impegnare tutte le sue forze nella vita civile oltre che nell’organizzazione religiosa, gli ugonotti si affermarono fra la borghesia mercantile delle città marittime e commerciali della corte atlantica; ma si diffusero anche tra i ceti contadini delle zone interne e tra le prestigiose famiglie della nobiltà di Francia. Organizzatisi in comunità indipendenti, che nel 1559 si riunirono in un sinodo nazionale con un apparato amministrativo autonomo, i calvinisti francesi presto vennero in conflitto col potere monarchico. Già prima del 1559 avevano 459

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subito la persecuzione ad opera del re Francesco I e dopo la morte di questi, del figlio e successore di lui Enrico II, marito di Caterina dei Medici. Nel 1561 si costituirono i partiti nobiliari cattolici in funzione antiugonotta sotto la guida dei duchi di Guisa. Il borbone Enrico di Navarra, il principe Luigi di Condé e l’ammiraglio Gaspard De Coligny, tutti di professione calvinista, organizzarono a loro volta gli Ugonotti in partito politico e ne divennero i capi. Il Condé e il Coligny (fino al 1572) assunsero la guida militare degli Ugonotti durante le guerre di religione che li opposero alla corona e al partito cattolico (1562-1598). Caterina dei Medici, vedova del re Enrico II di Valois - morto nel 1559 - e reggente del trono per il figlio minore Carlo IX divenuto re di Francia appena decenne, perseguì una politica di conciliazione con gli Ugonotti, conscia del fatto che il prevalere dell’uno dei partiti sull’altro avrebbe comunque recato pregiudizio alla monarchia. Nel 1562, con l’editto di St.Germain, concesse ai protestanti di tenere assemblee fuori delle mura cittadine e celebrare servizi religiosi nelle case private. Il principe di Condé, insoddisfatto per le mezze concessioni della regina, chiamò a raccolta gli ugonotti; il parlamento di Parigi mise fuori legge i protestanti. Fu l’occasione che scatenò in Francia la prima guerra di religione tra cattolici e protestanti. Altre sette ne sarebbero seguite nel corso degli anni fino alla proclamazione dell’Editto di Nantes nel 1598. Caterina dei Medici nel 1563, con la pace di Amboise, concesse libertà di coscienza a tutti i protestanti, ma libertà di culto solo ai nobili. Nel 1567 i capi degli ugonotti riaprirono le ostilità contro il papato cattolico e ci fu la seconda guerra di religione, conclusa l’anno seguente con la pace di Longjumeau. Fu confermato l’Editto di Amboise e i Guisa promossero la costituzione di una Lega cattolica (la “Lega santa”) per combattere gli Ugonotti, ciò che fece scatenare la terza guerra di religione in Francia. Nel 1570, Caterina dei Medici, col secondo Editto di St.Germain, concesse ai protestanti quattro piazzeforti indipendenti dal controllo della corona. Temendo però l’eccessivo potere dell’ammiraglio di Coligny, si riavvicinò ai capi intransigenti della potente fazione cattolica. Su istigazione dei duchi di Angiò e di Guisa la regina si persuase, e persuase il giovane re Carlo IX, della necessità di prevenire un presunto complotto protestante contro la monarchia mediante la soppressione violenta dei loro capi. Fu così organizzato in tutta segretezza quell’eccidio che passò alla storia come la strage di S.Bartolomeo. Acconsentendo al massacro degli Ugonotti il giovane re avrebbe detto: “Uccideteli, ma uccideteli tutti, che non ne resti nemmeno uno per rimproverarmelo”. Così, alle prime luci del 24 agosto 1572, giorno di S.Bartolomeo, un gruppo di soldati del re aggredirono e trafissero l’ammiraglio Gaspard de Coligny nel suo appartamento e lo precipitarono agonizzante da una finestra. “Chiamati a raccolta dalla campana a martello della parrocchia di Saint-Germain-Auxerrois, i sicari della regina e la plebaglia di Parigi si lanciarono in una furiosa caccia all’uomo. I protestanti vennero presi a fucilate o sgozzati nei loro letti, o braccati nel Louvre e perfino nelle camere di Margherita di Navarra. Per tre giorni i soldati del re trafissero, annegarono, impiccarono, trascinarono cada460

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veri per le strade. Identici massacri si verificarono a Orléans, a Lione, Rouen, a Bordeaux, a Tolosa” (Autori vari, Storia Universale Rizzoli-Larousse, volume II, p. 400). Quando la mattanza finì, rimasero stese al suolo, appesi alle forche o galleggianti sulle acque della Senna i cadaveri di almeno 20.000 ugonotti, di cui 3.000 soltanto a Parigi. Secondo certi storici, alla determinazione della corona francese di perpetrare quell’orribile bagno di sangue non furono estranee le pressioni della curia romana, per la quale la forte presenza protestante nella Francia -“la figlia primogenita della Chiesa” - rappresentava un motivo di grande preoccupazione. Scrive lo storico del cristianesimo Enrico Meynier: “Pio V intervenne pure energicamente nei paesi stranieri per incoraggiare i regnanti a combattere e a reprimere, con qualsiasi mezzo, il movimento riformatore, come nei Paesi Bassi, e specialmente in Francia contro gli Ugonotti. Così diede ordine al comandante delle truppe papali mandate in Francia di sostenere quel governo contro gli ugonotti, di non fare prigionieri, ma di uccidere sul posto tutti quelli che cadrebbero nelle loro mani...1 “Riguardo alle cose di Francia - prosegue il Meynier - si hanno lettere di Pio V (pubblicate in Anversa nel 1640) a Caterina dei Medici e a Carlo IX per incitarli allo sterminio dei protestanti. Vi si leggono frasi come queste: ‘Ad internecionenem usque: Nullo modo de causis hostibus Dei parcendum: Delendi omnibus haereticis’. Ora molti storici, fra i quali il Ranke, il Michelet, lord Acton, Giovanni Huber e altri, pongono la strage di S.Bartolomeo in relazione con tutta l’azione spiegata da Pio V nelle cose di Francia, e vi vedono una tal quale preparazione, in quanto servì a far maturare il pensiero di sbarazzarsi una buona volta degli Ugonotti e per sempre. È da notarsi ancora che, secondo i primi storici cattolici Papirio, Masson, Capilupì, la premeditazione (della strage completa degli Ugonotti quale si ebbe nella notte di S.Bartolomeo) fu lunga, costante, profondamente celata. Lo stesso Cesare Cantù, uno storico non sospetto, scrive: ‘La corte di Roma s’impadronì della corte di Francia, e Pio V scriveva a tutti i principi d’Europa per impegnarli a sostenere Carlo IX. Paragonate le parole del capo della religione cattolica, con quelle del duca d’Alba, di Filippo II e di Caterina dei Medici, e riconoscerete che la strage di S.Bartolomeo non fu se non l’ultimo scoppio di una catastrofe da lungo tempo preparata dalla necessità stessa delle cose e dalla posizione delle parti avverse’ ”. 2 Il successore di Pio V, Gregorio XIII, eletto alla carica pontificia il 13 maggio 1572, proseguì con altrettanta energia l’azione volta a convincere la corte di Francia a cancellare il protestantesimo nel regno. “Come già Paolo V - scrive ancora il Meynier - il papa spiegò una grande attività nelle cose interne della Francia per combattere gli Ugonotti. Possiamo però anche essere d’accordo col Pastor - ammette lo storico - che s’affanna a dimostrare che Gregorio XIII non prese parte né alla preparazione né all’esecuzione della notte di S.Bartolomeo. 1 Su questo assunto il Meynier fa riferimento allo storico del papato L.Ranke. 2 E. Meynier, Storia dei Papi, pp. 263-264 (la citazione di Cesare Cantù è tolta da Storia Universale, libro XV, p. 834).

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Ma ciò non toglie che il papa ha festeggiato l’atto orrendo che fu, dice il Ricotti, ‘il maggiore assassinio che mai si compiesse nel nome della religione’. Difatti Gregorio si recò in processione, accompagnato da 33 cardinali, alla chiesa di S.Luigi. L’iscrizione nel Tempio, fatta dal cardinale di Lorena, benediceva Dio perché ‘Carlo, re cristianissimo dei Francesi, animato da un santo zelo, aveva fatto sparire d’un sol colpo tutti gli eretici del regno’. Il Castel Sant’Angelo fu illuminato per la circostanza e il papa fece pur coniare una medaglia col motto : Ugonottorum Strages, 1572. Una bolla dell’11 settembre 1572 prescriveva un grande giubileo nel quale i fedeli dovevano ringraziare Iddio per la distruzione degli Ugonotti, e fu dato incarico al Vasari di eternare con un affresco nella Sala Regia, l’avvenimento”. 3 E’ possibile, anzi molto probabile, che il papa fosse all’oscuro del complotto contro gli Ugonotti in Francia; ma, come osserva giustamente il Meynier, è difficile credere che potessero esserlo gli altri dignitari della Chiesa. Non lo fu di certo il cardinale nunzio Salviati, “il quale - dice il nostro storico - sarebbe stato avvertito dalla stessa Caterina dei Medici del suo progetto, ma sotto condizione di tenere celata la cosa anche col papa”. Il nunzio papale Salviati tenne fede alla promessa, “limitandosi a comunicare l’11 agosto (dunque c’era già il disegno di trucidare in massa gli Ugonotti) che egli sperava ‘fra pochi giorni potere annunziare cosa che a Sua Santità recherebbe sicura gioia e tranquillità’ ” (quest’ultima frase virgolettata è dello storico cattolico L.Pastor). “E appena giunse a Roma la notizia della strage - riferisce ancora il Meynier - il cardinale di Lorena, recatosi con altri colleghi presso il papa, gli domandò: ‘Quale novità desidererebbe Vostra Santità più che ogni altra?’ Gregorio rispose: ‘Per l’esaltazione della fede cattolica noi non desidereremmo altro che lo sterminio degli Ugonotti’. ‘Questo sterminio, soggiunse il cardinale, possiamo comunicare a Vostra Santità a gloria di Dio e per la grandezza della Santa Chiesa’ ”. 4 Il massacro della notte di S.Bartolomeo però non cancellò il calvinismo nella Francia, come si erano prefissi il partito dei Guisa e la corona e come avevano sperato Pio V e Gregorio XIII. Anzi gli ugonotti scampati alla strage, sotto la guida dei loro capi - nel massacro era perito soltanto il Coligny - si riorganizzarono ancor più saldamente e ripresero la lotta per affermare il loro diritto all’esistenza. Intanto, morto il re Carlo IX solo due ani dopo l’eccidio di S.Bartolomeo, salì al trono di Francia il fratello di lui Enrico III di Valois. L’ostilità tra le fazioni estremiste dei cattolici e degli ugonotti, capitanati rispettivamente da Enrico di Guisa ed Enrico di Borbone signore di Navarra, minacciava di riacutizzarsi. Nel 1584 morì il duca di Angiò, fratello del re Enrico III, e poiché quest’ultimo non aveva eredi diretti, la successione al trono si apriva automaticamente al capo della fazione ugonotta Enrico di Navarra. 3 Ibidem, pp. 264-265. 4 E.Meynier, op. cit., p. 265 (il dialogo tra il cardinale e il papa è tolto dal volume IX dell’opera del Pastor Storia dei Papi, p. 359).

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Di fronte a siffatta situazione, il duca di Guisa reagì e la popolazione parigina si sollevò costringendo il re a sottomettersi alla lega cattolica e ad accettare umilianti limitazioni della sua autorità. Enrico III fece allora eliminare il duca di Guisa e strinse alleanza con Enrico di Navarra capo degli ugonotti. Completamente esautorato dal governo rivoluzionario di Parigi, il re si unì allora alle truppe del capo ugonotto e insieme i due alleati posero l’assedio alla capitale. Il 1° agosto 1589 il sovrano deposto fu pugnalato da un fanatico monaco domenicano, un certo Jacques Clément, che con quel gesto estremo volle punire il tradimento della causa cattolica compiuto dal re; prima di spirare Enrico III designò come suo successore l’alleato Enrico di Navarra. Il Borbone salì sul trono di Francia col nome di Enrico IV, ma il regno dovette conquistarselo con le armi e con la straordinaria abilità politica di cui era dotato. In cinque anni di lotte contro nemici interni ed esterni, batté le forze della lega cattolica e assediò di nuovo Parigi, ma al sopraggiungere delle truppe spagnole inviate da Filippo II a sostegno del partito cattolico, dovette abbandonare temporaneamente il campo. Giocarono tuttavia in suo favore lo scontento popolare per la presenza delle truppe straniere, nella quale presenza si potevano scorgere le mire espansionistiche di Filippo II; nonché la rovina in cui minacciava di precipitare il regno e il desiderio di pace di gran parte della popolazione. Il solo ostacolo che rimaneva al momento dei negoziati era la religione calvinista del sovrano, ostacolo che fu presto sormontato con l’abiura formale di Enrico IV a Saint Denis il 23 luglio 1593 (è rimasta celebre la frase: “Parigi val bene una messa” che secondo la tradizione il re avrebbe pronunciato in quella occasione). Enrico di Navarra fu incoronato re di Francia a Chartres il 27 febbraio 1594 ed entrò a Parigi il 22 marzo accolto da una folla festante mentre le milizie spagnole si ritiravano. Conclusa con Filippo II la pace di Vervins nel 1598, Enrico IV poté rientrare in possesso di tutti i suoi territori, e con abili negoziati ottenne la resa delle ultime roccaforti degli irriducibili seguaci della lega cattolica. Rimaneva da attuare la pacificazione religiosa del Paese, e questo obiettivo importante fu raggiunto il 13 aprile 1598 con la promulgazione del famoso Editto di Nantes che, riconoscendo il cattolicesimo religione ufficiale della Francia, concedeva in pari tempo ai Calvinisti una relativa libertà di culto, completa libertà di coscienza e garanzie politiche e civili, nonché alcuni seggi nei parlamenti ed il possesso di alcune piazzeforti - fra le quali quelle di La Rochelle, Cognac, La Charitè e Montauban come pegno delle libertà riconosciute. L’Editto di Nantes, se mise fine alle guerre di religione, non costituì tuttavia per gli Ugonotti una garanzia permanente di tutela dei diritti acquisiti. Sotto il governo del cardinale Richelieu (1624-1642), ministro del re Luigi XIII (1610-1643), successore di Enrico IV, si riaprì il conflitto tra il potere costituito e i calvinisti. Divenuto di fatto l’arbitro della politica del regno, Richelieu, dopo avere preso la piazzaforte di La Rochelle nel 1628, procedette allo smantellamento della potenza militare degli ugonotti. Sotto il regno di Luigi XIV (1643-1715) la persecuzione contro gli ugonotti 463

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in Francia s’inasprì a partire dal 1681. Era la conseguenza della logica assolutista del potere perseguita dal “re Sole”: tutti i fattori considerati potenzialmente pericolosi per la compattezza politico-amministrativa e religiosa dello Stato dovevano essere eliminati. In realtà gli ugonotti, dopo che Richelieu li aveva privati delle loro fortezze, non rappresentavano affatto un pericolo per la monarchia. Al contrario il loro impegno nella vita civile, soprattutto nella finanza e nel commercio, costituiva un fattore che contribuiva non poco alla prosperità economica del Paese. Durante il regno di Luigi XIV il numero degli ugonotti in Francia si aggirava intorno al milione. Raccolti in comunità compatte, con le proprie scuole , i propri templi e i propri ministri, conducevano una vita pacifica e laboriosa, conforme ai principi della rigida etica calvinista. Ma continuavano a essere oggetto di rancore e di invidia. Quando si scatenò la persecuzione, furono soprattutto le comunità rurali e i ceti popolari (artigiani e piccoli commercianti) le vittime delle crudeltà dei dragoni del re (le “dragonnades”), mentre gli appartenenti ai ceti nobiliari e agli ambienti finanziari poterono in qualche modo sottrarsi alla repressione. Nel 1685 Luigi XIV proclamò da Fontainebleau la revoca dell’Editto di Nantes con cui 87 anni prima Enrico IV aveva riconosciuto libertà religiosa e civile agli ugonotti. In forza del provvedimento reale tutti i templi protestanti in Francia furono abbattuti, il culto calvinista, anche nelle case private, fu proibito, a tutti i ministri delle chiese riformate fu fatto obbligo di convertirsi al cattolicesimo o lasciare il Paese, i genitori di fede protestante furono costretti a far battezzare i neonati secondo il rito cattolico, e ai fedeli fu vietato di espatriare, pena l’arresto e la confisca dei beni. Dopo il 1685 anche i funzionari delle finanze e i membri del parlamento di fede calvinista furono obbligati a dimettersi, e la Francia, per consenso unanime degli storici, fu privata di elementi di prim’ordine. Per costringere all’abiura il maggior numero di fedeli, furono inasprite le pene e fu accentuato il ricorso alla violenza. Non pochi ugonotti, intimoriti dalla durezza della repressione, accettarono l’abiura e la conversione forzata al cattolicesimo; ma nelle regioni centrali della Francia gruppi non molto numerosi rimasero tenacemente legati alla fede dei padri; sfidando i rigori del decreto reale, si raccolsero in luoghi appartati per pregare. “Dopo la revoca dell’Editto di Nantes, nel 1685 - si legge nel Dictionnaire Larousse Illustré alla voce “Le Désert” - un certo numero di Protestanti continuarono a celebrare il loro culto in segreto nelle foreste, nelle caverne, nelle montagne, in luoghi disabitati e difficilmente accessibili. Siffatte riunioni ricevettero il nome di chiese o assemblee del deserto. Attraverso mille vicissitudini durarono dal 1685 fino al 1792” (citato da Jean Vuilleumier in Apocalypse hier, au jour d’hui, demain, p. 202). Furono molti gli ugonotti francesi che ripararono all’estero dopo la revoca dell’Editto di Nantes. “Il grande flusso migratorio - si legge in Storia Universale Rizzoli-Larousse trovò un appoggio nelle potenze protestanti del nord: l’Inghilterra e l’Olanda tenevano costantemente navi in crociera nella Manica (dette ‘navi di carità’) per raccogliere le barche dei fuggiaschi, e si adoperavano per permettere il trasferimento nei paesi vicini dei beni degli ugonotti esuli dalla Francia. Gli ugonotti 464

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francesi si diffusero così in tutta l’Europa: a Ginevra, in Inghilterra, in Olanda, nei territori tedeschi (soprattutto in quelli dell’elettore del Brandeburgo), in Danimarca e persino in Russia. “Il regno di Francia subì quindi in pochi anni un duplice salasso; di capitali, fatti passare illegalmente con ogni mezzo oltre le frontiere, e degli uomini, nella maggioranza abili artigiani, conoscitori di particolari tecniche e procedimenti di lavorazione, e intraprendenti commercianti” (vol. III, pp. 88-89). Almeno 200.000 ugonotti abbandonarono la Francia dopo la revoca dell’Editto di Nantes; le nazioni protestanti che li accolsero si arricchirono di quanto la Francia aveva perso. Come era avvenuto 113 anni prima in occasione della strage di S.Bartolomeo, a Roma ci fu gran festa quando giunse da Parigi la notizia che il re aveva revocato l’editto di tolleranza dei protestanti. Il 29 aprile 1586, papa Innocenzo XI intonò il Te Deum e per le vie della città si festeggiò e si accesero fuochi di gioia. Gioia e sollazzo per un atto legislativo che implicava sofferenze fisiche e morali per centinaia di migliaia di uomini e donne la cui sola colpa era di non condividere la professione religiosa della maggioranza dei loro concittadini.

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